Labor 1/2018

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2018 LABOR 1

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ABOR Il lavoro nel diritto

issn 2531-4688

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gennaio-febbraio 2018

Rivista bimestrale

Diretta da Oronzo Mazzotta

www.rivistalabor.it

IN EVIDENZA I licenziamenti nelle più recenti riforme Carlo Zoli

Le stagioni di Francesco Carnelutti e la ricostruzione pubblicistica del diritto sindacale Giovanni Pino

La mobilità verticale nel nuovo art. 2103 c.c. Maria Lavinia Buconi

Appalto di servizi e distacco transfrontaliero Andrea Bombelli

Giurisprudenza commentata Francesca Coppola, Carla d’Aloisio, Anna Nicolussi Principe, Michele Palla

Pacini


Indici

Saggi Carlo Zoli, I licenziamenti nelle più recenti riforme… ricordando Sergio Magrini.......................... p. 5 Giovanni Pino, Le stagioni di Francesco Carnelutti e la ricostruzione pubblicistica del diritto sindacale.......................................................................................................................... p. 17 Maria Lavinia Buconi, La mobilità verticale nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c................................... p. 35 Andrea Bombelli, Appalto di servizi e distacco transfrontaliero: le criticità successive all’attuazione italiana della direttiva 2014/67/UE c.d. enforcement ................................................ p. 55

Giurisprudenza commentata Francesca Coppola, I diritti di informazione e di consultazione nel quadro europeo: nuovi spunti per antiche e irrisolte questioni del sistema italiano .................................................... p. 77 Carla d’aloisio, La transazione previdenziale: aspetti problematici ............................................... p. 89 Anna Nicolussi Principe, Cambio di appalto e trasferimento d’azienda, un difficile confine. Quale ausilio dal legislatore?............................................................................................................ p. 101 Michele Palla, Sussistere o non sussistere questo è il dilemma (del fatto contestato): la mancata prova dell’esistenza del fatto contestato non equivale alla prova della sua insussistenza ............... p. 119


Indice analitico delle sentenze Appalti – Successione di appalto – Mera riduzione dell’attività appaltata – Non configurabilità degli elementi di discontinuità ex art. 29, comma 3 d.lgs. n. 276/2003 – Sussistenza del trasferimento d’azienda (Trib. Bologna, 7 luglio 2017, con nota di Nicolussi Principe). Licenziamenti – Contratto a tutele crescenti – tutela reintegratoria – diretta dimostrazione in giudizio della insussistenza del fatto materiale contestato – interpretazione – ripartizione dell’onere della prova – onere a carico del lavoratore – sussiste (Trib. Napoli, 27 giugno 2017, con nota di Palla). – Licenziamenti collettivi – Direttiva 98/59/CE – Nozione di licenziamento – Cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro – Modifica unilaterale da parte del datore di lavoro delle condizioni di lavoro e salariali (C. giust., 21 settembre 2017, causa C-149/2016, con nota di Coppola). Previdenza sociale – concordato preventivo – transazione previdenziale – crediti contributivi – falcidiabilità – condizioni e limiti (Cass., sez. un., 13 gennaio 2017, n. 760, con nota di d’Aloisio). Indice cronologico delle sentenze Giorno

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Autorità 2017 Gennaio Cass., sez. un., n. 760 Giugno Trib. Napoli Luglio Trib. Bologna Settembre C. giust., causa C-149/2016

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Notizie sugli autori

Maria Lavinia Buconi – giudice della sezione lavoro del Tribunale di Roma Andrea Bombelli – cultore della materia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore Francesca Coppola – dottoranda di ricerca nell’Università degli studi di Siena Carla d’Aloisio – avvocata in Roma Anna Nicolussi Principe – dottoranda di ricerca nell’Università degli studi di Trento Michele Palla – avvocato in Pisa Giovanni Pino – capo di gabinetto della Commissione di garanzia sciopero nei servizi pubblici essenziali Carlo Zoli – professore ordinario nell’Università di Bologna


Saggi



Carlo Zoli

I licenziamenti nelle più recenti riforme… ricordando Sergio Magrini Sommario : 1. L’andamento delle riforme. – 2. L’arretramento delle tecniche di tutela. – 3. La svalutazione dei vizi formali e procedurali. – 4. L’indiretta incidenza sui presupposti giustificativi. – 5. Discrezionalità del giudice e nullità del licenziamento.

Sinossi. In omaggio a Sergio Magrini, l’autore si confronta con le riforme che, negli ultimi anni, hanno interessato la disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi. Pur prendendo atto che le novelle del 2010 (Collegato lavoro), del 2012 (riforma Fornero) e del 2015 (Jobs Act) hanno sensibilmente ridotto la tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, l’autore si confronta con gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che propongono, anche facendo ricorso ai fondamenti del diritto civile, soluzioni interpretative innovative in grado di garantire al prestatore di lavoro una tutela più efficace. Abstract. As homage to the jurist Sergio Magrini, this article describes the Author’s view about the Italian employment protection legislation in case of “unjust” dismissal. Despite recent reforms adopted by the Government and the legislature (Collegato lavoro of 2010, riforma Fornero of 2012, and Jobs Act of 2015) strongly increased the flexibility of the employment law system, the Author asserts the utility of civil code principles in order to regain, at least partially, some room for improvement with respect to overall protection of the employees. Parole chiave: Licenziamenti – Collegato lavoro – Riforma Fornero – Jobs Act – Discrezionalità giudiziale


Carlo Zoli

1. L’andamento delle riforme. Sergio Magrini si è occupato di licenziamenti in numerosi scritti: in particolare si segnalano la bella relazione all’Aidlass del 1990 sul licenziamento collettivo1 e diversi contributi sul licenziamento dei dirigenti, nonché, da ultimo, un saggio sulla riforma dell’art. 18 st. lav., definita quel “pasticciaccio brutto”2. Pertanto, nel ricordarlo, non vorrei concentrarmi su un profilo particolare, ma individuare alcune linee di tendenza e soffermarmi sui principali nodi problematici dell’istituto. Ciò prendendo le mosse dalla constatazione che il licenziamento è – con i contratti di collaborazione e il contratto a termine – l’istituto sul quale hanno maggiormente inciso le riforme succedutesi in questi anni. La modifica delle tecniche di tutela in caso di licenziamento illegittimo è stata inserita in un più ampio disegno di innovazione del mercato del lavoro. Costituisce uno dei tre blocchi tematici sui quali si imperniano le riforme, strettamente correlato alla revisione tanto della flessibilità in entrata quanto del sistema degli ammortizzatori sociali: la riduzione della flessibilità in entrata al di fuori della subordinazione dovrebbe essere in qualche modo bilanciata da un’accresciuta flessibilità in entrata all’interno della subordinazione e da un’accresciuta flessibilità in uscita, fronteggiata a sua volta da un’adeguata revisione degli ammortizzatori sociali. Tuttavia, la disciplina dei licenziamenti è il fulcro del sistema delle tutele dei lavoratori, è il presidio della effettività di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori nel rapporto di lavoro, le fondamenta sulle quali si regge tutto l’apparato protettivo. Per oltre 40 anni la regola è stata il meccanismo reintegratorio dell’art. 18 st. lav., che si impose «come conclusione di un processo di sindacalizzazione e democratizzazione dei rapporti di lavoro, con la esplicita finalità di completare il riequilibrio dei rapporti di forza tra imprese e lavoratori per rendere effettivo il godimento dei diritti immessi nel nuovo statuto protettivo della subordinazione»3; una regola il cui ambito di applicazione è stato progressivamente esteso con riguardo alle dimensioni e alla natura del datore di lavoro, alle categorie di lavoratori tutelati, alle fattispecie di licenziamento interessate. Ma, nel contesto di una crisi economica senza precedenti e sulla spinta di pressanti sollecitazioni esterne, in particolare della Banca Centrale Europea (sul presupposto che tale norma producesse effetti negativi sulle dinamiche occupazionali scoraggiando, tra l’altro, gli investimenti stranieri), si è avviato un processo di riforma della disciplina dei licenziamenti che ha inciso su pressoché tutti i profili dell’istituto: dalle tecniche sanzionatorie, alle regole formali e procedurali, ed in qualche modo anche, benché indirettamente, ai presupposti giustificativi. Tale processo riformatore conosce il proprio momento saliente dapprima, nel 2012, con la modifica dell’art. 18 e successivamente, nel 2015, con l’introduzione di un ben diverso apparato sanzionatorio applicabile ai licenziamenti illegitti-

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Cfr. Magrini, Licenziamenti individuali e collettivi: separatezza e convergenza delle tutele, in DLRI, 1990, 313 ss. Cfr. Magrini, Quer pasticciaccio brutto (dell’art. 18), in ADL, 2012, 535 ss. 3 Così Pessi, in Pessi, Sigillò Massara, Jobs Act. Prime riflessioni e decreti attuativi, Eurilink, 2015, 4. 2

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mi, ma ha preso avvio già nel 2010 con il c.d. Collegato Lavoro, che non avrà effettuato quell’attacco alla giurisdizione statale pubblica ed al principio di inderogabilità paventato da alcuni settori della dottrina, ma che ha cercato di porre limiti al sindacato giudiziale ed ha introdotto termini brevi di decadenza per l’azione in giudizio. L’andamento delle riforme non è del tutto lineare, ma alcune costanti sembrano emergere intorno all’incontestabile, realizzato, disegno di arretramento delle soglie di tutela, cosicché si può a buona ragione ritenere modificato lo stesso paradigma giuslavoristico4 nella misura in cui mutano gli equilibri di potere fra datore e prestatore di lavoro5.

2. L’arretramento delle tecniche di tutela. Innanzitutto, si affievolisce la portata delle tecniche sanzionatorie che sempre più si sono spostate dalla logica ripristinatoria a quella meramente risarcitoria. È ormai ben noto che la modifica dell’art. 18 realizzata dalla l. n. 92/2012 ha affidato alla mediazione giudiziale l’opzione tra reintegra e indennità risarcitoria con una formula così complessa ed ambigua, per lo meno relativamente ai vizi di carattere sostanziale, che i risultati cui sono pervenuti gli interpreti, se non proprio antitetici, si sono rivelati molto distanti da quelli probabilmente perseguiti dal legislatore. La necessità di conciliare opzioni di politica del diritto opposte, che il Governo Monti ha dovuto fronteggiare per sopravvivere, ha condotto ad un’incertezza ben maggiore di prima. Anziché un’auspicata semplificazione normativa l’esito della riforma è risultato diametralmente opposto. Il legislatore non ha avuto il coraggio di riscrivere le “regole di comportamento”, ovvero di intervenire sulle causali del licenziamento, ma ha inciso soltanto sulle “regole sanzionatorie” ed a tal fine ha graduato le forme di tutela in relazione alla tipologia di recesso. Tuttavia lo ha fatto procedendo ad un’articolazione esasperata delle norme, utilizzando concetti elastici e lasciando irrisolte questioni fondamentali. Ha accentuato, di conseguenza, l’incertezza sul significato delle disposizioni emanate ed accresciuto in modo esponenziale quella discrezionalità giudiziale che aveva, al contrario, cercato di contenere solo due anni prima col c.d. Collegato Lavoro (l. n. 183/2010), con tutti i limiti che ne derivano in termini di effettività e di successo dell’operazione legislativa6. Col nuovo art. 18 st. lav. il legislatore ha, dunque, graduato il sistema sanzionatorio prevedendo meccanismi di tutela diversi a seconda dei vizi e del disvalore ad essi riconosciuto, mentre in precedenza era garantita in ogni caso la stessa sanzione, ovvero la reintegra nel posto di lavoro. Ha, quindi, imposto un meccanismo a doppia fase, anzi potenzialmente a tripla fase, che impone al giudice di valutare dapprima, eventualmente, su

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Cfr. Perulli, Il contratto a tutele crescenti e la Naspi: un mutamento di “paradigma” per il diritto del lavoro?, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi, Giappichelli, 2015, 3 ss., spec. 5. 5 Cfr. M.T. Carinci, Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizioni di legge o in forma orale, in M.T. Carinci, A. Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, 29. 6 Cfr. Nadalet, La certezza del diritto nella riforma del mercato del lavoro, in LD, 2013, 59 ss.

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istanza di parte, se il licenziamento è discriminatorio o illecito; poi, in caso contrario, se il licenziamento è giustificato; infine, in caso negativo, quale sanzione debba essere adottata. Non si può negare che le resistenze della giurisprudenza ad assecondare la ratio della l. n. 92/2012 di circoscrivere l’applicazione della reintegra7 e l’incapacità della riforma Fornero di dare certezze alle imprese in ordine alle conseguenze del licenziamento ingiustificato abbiano indotto il legislatore a reintervenire. Ben più radicale è la soluzione accolta dalla riforma Renzi, che, al contrario, nel circoscrivere l’ambito della reintegra, ormai divenuta meccanismo del tutto residuale, si propone di eliminare o, quanto meno, di ridurre drasticamente la discrezionalità dell’interprete nell’individuazione del meccanismo sanzionatorio applicabile8. Ciò non significa che tutti i problemi ermeneutici siano risolti, ma la scelta appare netta. Su tale linea si è posta anche la contrattazione collettiva per quanto concerne la tutela dei dirigenti specie nel settore industriale, che ha ridotto rispetto al passato soprattutto l’entità dell’indennità supplementare dovuta nel caso di licenziamento ingiustificato, in special modo nel caso di modesta anzianità di servizio.

3. La svalutazione dei vizi formali e procedurali. Altra costante delle recenti riforme è costituita dalla svalutazione dei vizi formali e del ruolo della procedimentalizzazione e del sindacato9, che sino ad ora erano stati fortemente valorizzati anche nella logica della partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti al processo decisionale del datore di lavoro. Al riguardo prima la l. n. 92/2012, poi il d.lgs. n. 23/2015 hanno distinto chiaramente la rilevanza della violazione delle regole di carattere sostanziale rispetto a quella delle regole formali e procedurali, se si esclude il caso “limite” della mancanza di forma scritta, nel quale continua ad essere assicurata al lavoratore la tutela reale classica, con risarcimento pieno. Proprio in relazione alla portata di tali regole, si assiste ad una modifica radicale tanto sul piano del licenziamento individuale quanto su quello del licenziamento collettivo, se si considera che in precedenza la relativa violazione rendeva superfluo l’esame degli altri vizi del recesso assorbendoli, mentre ora comporta l’applicazione della sola tutela indennitaria, per di più dimezzata.

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Cfr. Pessi, op. cit., 5. Per un’ampia ricostruzione in termini generali e con riguardo alle questioni rimaste controverse cfr., da ultimo, Olivieri, Le tutele dei lavoratori dal rapporto al mercato del lavoro, Giappichelli, 2017, 73 ss. Cfr. altresì l’eccellente contributo di Cester, Le tutele, in Gragnoli (a cura di), L’estinzione del rapporto di lavoro subordinato, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da Persiani e Carinci, Cedam, 2017, 725 ss. 9 Cfr. Lambertucci, La disciplina dei licenziamenti collettivi nella legge 28 giugno 2012, n. 92 in materia di riforma del mercato del lavoro: prime riflessioni, in ADL, 2013, 248 ss. e, da ultimo, Olivieri, op. cit., 129 ss. 8

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Peraltro emergono soluzioni che mostrano notevoli aspetti di incoerenza e sollevano nodi interpretativi fonti di un intenso dibattito dottrinale, ma che ora sembrano ricevere più convincenti risposte dalla giurisprudenza. Sotto il primo profilo, non si può non prendere le mosse dell’incoerenza, anzi dalla vera e propria contraddizione, sul piano strettamente tecnico-giuridico, insita nella scelta della legge n. 92/2012 di qualificare in termini di inefficacia la mancata formalizzazione della motivazione, così come l’omissione o i vizi della procedura disciplinare e di quella di conciliazione preventiva prescritta nel caso di giustificato motivo oggettivo, per poi ammettere che il licenziamento possa produrre ugualmente effetti estintivi del rapporto di lavoro. Si tratta di una soluzione in evidente contrasto con i principi generali dell’ordinamento10 e, con riguardo all’ipotesi dell’omessa motivazione del licenziamento, persino foriera di una disparità di trattamento ingiustificata, e quindi di dubbia costituzionalità, nei confronti dei lavoratori ai quali non si applica l’art. 18 st. lav. a causa delle dimensioni dell’impresa e a cui potrebbe essere paradossalmente garantita una tutela maggiore. Per essi, infatti, continua ad operare l’art. 2, l. n. 604/1966 e ne dovrebbe conseguire l’applicazione della disciplina civilistica dell’inefficacia dell’atto viziato, in quanto tale inidoneo a produrre l’estinzione del rapporto di lavoro11, tanto che per evitare una conseguenza del genere la Suprema Corte ha dovuto far ricorso ad un’interpretazione «sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012»12. Da questo punto di vista il d.lgs. n. 23/2015 non è incorso nello stesso errore in quanto ha omesso di parlare di inefficacia e ha comunque previsto per tutti i datori di lavoro l’applicazione della sola tutela indennitaria. L’incoerenza prosegue se si considera che la tutela indennitaria più debole è stata prevista proprio nel momento in cui si è introdotto l’obbligo per il datore di lavoro di esporre i motivi del licenziamento contestualmente all’adozione di quest’ultimo. Non solo: tale scelta è stata effettuata proprio allorquando sull’“insussistenza del fatto contestato” nel caso del licenziamento disciplinare e sul “fatto posto a base del licenziamento” nell’ipotesi del giustificato motivo oggettivo (art. 18, commi 4 e 7), ovvero sui motivi addotti, si fonda nella l. n. 92/2012 il discrimen in ordine all’applicazione dei due diversi regimi sanzionatori della reintegra con risarcimento ridotto e della tutela indennitaria, qualora il recesso si riveli ingiustificato. Soprattutto nel caso del licenziamento disciplinare i vizi della procedura e le lacune della motivazione comportano evidentemente un vulnus del diritto di difesa del lavoratore e mettono in discussione alcuni dei principi e delle logiche sino ad ora consolidati in materia. Tuttavia la giurisprudenza sembra aver recuperato uno spazio per l’applicabilità

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Cfr. Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in ADL, 2012, 580. Parla di doppio uso del termine “inefficace” F. Carinci, Il licenziamento inefficace, in F. Carinci, Miscione (a cura di), Commentario alla riforma Fornero, Ipsoa, 2012, 72. 11 Cfr. Cester, op. ult. cit., 580. 12 Così Cass., 5 settembre 2016, n. 17589, in RIDL, 2017, II, 227, con nota di Di Meo, che ha sancito l’applicabilità dell’art. 8, l. n. 604/1966 anche nel caso del licenziamento inefficace per vizio di motivazione. Sul punto v., da ultimo, Cagetti, in Papaleoni, Cagetti, Forma del licenziamento, in Gragnoli (a cura di), L’estinzione del rapporto di lavoro, cit., 556 ss., spec. 565 ss. e, in senso critico, Cester, Le tutele, cit., 761, che auspicava «un uso controllato della interpretazione costituzionalmente orientata».

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della reintegra benché nelle sole ipotesi della completa omissione della procedura13 e del grave ritardo nel suo avvio o nella sua conclusione14: situazioni nelle quali può ben dirsi che manca il fondamento o il presupposto stesso del potere, cosicché il licenziamento può essere considerato radicalmente ingiustificato, come si evince anche dalla lettera dell’art. 18, comma 4 e dell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, che parlano di insussistenza del fatto “contestato”. Le soluzioni restano piuttosto controverse15, tanto che la Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la ricostruzione della natura del vizio di tardività della contestazione disciplinare16. Queste ultime hanno, da ultimo, distinto tra “la violazione della procedura di cui all’art. 7 ..., alla quale il novellato sesto comma dell’art. 18 riconduce l’applicabilità della tutela indennitaria debole ... da intendere ...come violazione delle regole che scandiscono le modalità di esecuzione dell’intero iter procedimentale nelle sue varie fasi”, e la “violazione del principio generale di carattere sostanziale della tempestività della contestazione quando assume il carattere di ritardo notevole e non giustificato ... idoneo a determinare un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una difesa effettiva nell’ambito del procedimento disciplinare”, sanzionabile

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Cfr. Cass., 14 dicembre 2016, n. 25745. Cfr. in tal senso Cass., 31 gennaio 2017, n. 2513, in MGL, 2017, 489; contra Cass., 6 novembre 2014, n. 23669; Cass., 9 luglio 2015, n. 14324 e Cass., 26 agosto 2016, n. 17371, in MGL, 2017, 489 ss. 15 Sulla previsione dell’art. 18, comma 6, l. n. 300/1970, come riformato dalla l. n. 92 del 2012, sono state avanzate due ricostruzioni nettamente contrapposte sia in dottrina che in giurisprudenza. Da un lato, aderendo al dato letterale della norma e rifacendosi all’intentio legis, si è affermato che qualunque tipo di violazione od omissione della procedura disciplinare comporta l’applicazione delle conseguenze di tipo indennitario dimidiato di cui al 6° comma. Al riguardo cfr., in dottrina, Pisani, Il licenziamento inefficace per vizio di forma, in GI, 2014, V, c. 441; Id., Le conseguenze dei vizi procedimentali del licenziamento disciplinare dopo la legge n. 92 del 2012, in ADL, 2013, 264; Id, Le tutele esclusivamente risarcitorie per le tardività del licenziamento disciplinare, in MGL, 2017, 500 ss.; M. Tremolada, Il licenziamento disciplinare nell’art. 18 St. Lav. per la riforma Fornero, in LG, 2012, 873; Vallebona, L’ingiustificatezza qualificata del licenziamento: fattispecie e oneri probatori, in DRI, 2012, 621 ss.; Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 statuto dei lavoratori, in RIDL, 2012, I, 435. In giurisprudenza v. Trib. Biella, 17 settembre 2013; Trib. Varese, ord. 21 gennaio 2014, n. 18/2014; Trib. Milano, ord. 20 novembre 2012, n. 3/2013; Trib. Roma ord., 19 marzo 2014; Trib. Monza, ord. 13 febbraio 2014. D’altro lato, si è rilevato che una lettura quale quella appena esposta rimetterebbe, in definitiva, ad una mera scelta di convenienza del datore di lavoro l’espletamento della procedura disciplinare, con grave vulnus al diritto di difesa del lavoratore (Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in RIDL, 2012, I, 539 ss.), suscitando fondati dubbi sulla legittimità costituzionale della norma ai sensi dell’art. 24 Cost. (v. in proposito Alleva, Proposta di emendamenti al ddl sul mercato del lavoro, in particolare in tema di flessibilità in uscita, in www.dirittisocialiecittadinanza. org). Sulla base di tale fondamentale rilievo si è suggerita un’interpretazione correttiva della norma, assimilando la mancata contestazione disciplinare al caso dell’inesistenza del fatto contestato: cfr. Marazza, L’art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, in ADL, 2012, 621. V. analogamente M.T. Carinci, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e flexicurity «all’italiana» a confronto, in DLRI, 2012, 27; Barbieri-Dalfino, Il licenziamento individuale nell’interpretazione della legge Fornero, Cacucci editore, 2013, 105 ss.; Palladini, La nuova disciplina in tema di licenziamenti, in RIDL, 2012, I, 676; F. Carinci, L’articolo 18 dopo la legge n. 92 del 2012. Ripensando il “nuovo” articolo 18 dello statuto dei lavoratori, in DRI, 2013, 287 e Licenziamento e tutele differenziate, in Mazzotta (a cura di), Lavoro ed esigenze dell’impresa fra diritto sostanziale e processo dopo il Jobs Act, Giappichelli, 2016, 135. In giurisprudenza v. in tal senso Trib. Milano, ord. 24 aprile 2013, n. 4017; Trib. Milano, ord. 14 aprile, 2015; Trib. Trento, ord. 29 gennaio 2013; Trib. Ancona, ord. 26 novembre 2012; Trib. Milano, ord. 14 aprile 2015, Est. Dossi; Trib. Torino, 7 novembre 2016, in GPiem, 2017, 121, che riconduce il vizio relativo alla genericità della contestazione disciplinare nell’alveo dei licenziamenti illegittimi per insussistenza del fatto contestato. 16 Cfr. Cass., 21 aprile 2017, n. 10159, in MGL, 2017, 489. 14

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alla stregua del quinto comma dell’art. 18 st. lav., “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire al c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale”17. Analoghe considerazioni possono essere svolte con riguardo al licenziamento collettivo. Sia la l. n. 92/2012 che il d.lgs. n. 23/2015 hanno previsto per i vizi procedurali l’applicazione della tutela indennitaria. In questo caso, peraltro, la totale omissione della procedura può condurre alla reintegra soltanto attraverso il meccanismo dell’art. 28 st. lav.18 grazie a quel provvedimento di rimozione degli effetti che il giudice è chiamato ad adottare. Nel caso di ricorso individuale, invece, per arrivare allo stesso risultato si dovrebbe equiparare il vizio procedurale alla “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” di cui parla per l’assenza del giustificato motivo oggettivo la l. n. 92/2012, mentre per il d.lgs. n. 23/2015 l’insussistenza dei presupposti giustificativi non consente comunque la reintegra. Non si può negare, peraltro, che il controllo giudiziale sulla “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro” è sempre stato escluso. Ma ciò si è verificato sul presupposto che esso sia rimesso alla mediazione sindacale. Si pone a questo punto un problema di carattere sistematico tutt’altro che marginale: come si può accettare una tale conclusione nella misura in cui la suddetta mediazione non risulta più necessaria, se non per escludere l’antisindacalità della condotta imprenditoriale?19

4. L’indiretta incidenza sui presupposti giustificativi. Anche con riguardo ai presupposti giustificativi del licenziamento individuale20, qualche novità in linea con il rimarcato arretramento delle soglie di tutela non può non essere segnalata. Da un lato, in tema di giusta causa e giustificato motivo soggettivo, nel settore pubblico a partire dalla c.d. riforma Brunetta sono state tipizzate alcune fattispecie con soluzioni tutto sommato condivisibili, ma con ogni probabilità più severe rispetto alle precedenti previsioni dei contratti collettivi. D’altro lato, in particolare, in tema di giustificato motivo oggettivo, l’art. 30, l. n. 183/2010 alla fine qualche influenza l’ha esercitata se si considera la chiara opzione compiuta dalle

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Cass., S.U., 27 dicembre 2017, n. 30985. Cfr., tra gli altri, Sartori, Prospettive sistematiche per i licenziamenti collettivi dopo la legge n. 92/2012, in RIDL, 2014, I, 625 ss., la quale sottolinea peraltro correttamente che «il denunciato disallineamento delle tutele sul piano individuale (indennità risarcitoria) e collettivo (reintegrazione) non pare creare particolari problemi, in considerazione dei diversi interessi, per l’appunto individuale e rispettivamente collettivo, che vengono fatti valere dal lavoratore licenziato che impugna il recesso datoriale e dalle organizzazioni locali dei sindacati nazionali che azionano l’art. 28, St. lav.». Sul mutato ruolo dei sindacati nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo cfr., da ultimo, Ortis, La rinnovata disciplina dei licenziamenti collettivi: procedure sindacali e nuove sanzioni, in RGL, 2017, I, 89 ss. 19 Anche Olivieri, op. cit., 134 s. sottolinea «l’esigenza di restituire la giusta rilevanza al fondamento causale del licenziamento collettivo», a seguito del «ridimensionamento del momento procedurale e dell’apparato rimediale». 20 Per un’esauriente e pregevole ricostruzione sul punto cfr. Gragnoli, Il licenziamento, la giusta causa e il giustificato motivo, in Gragnoli (a cura di), op. cit., 288 ss.

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più recenti sentenze con cui la Suprema Corte21 ha con decisione riconosciuto che l’unica condizione richiesta è costituita da “un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo”, mentre le ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro possono consistere nella ricerca di “una migliore efficienza gestionale” o anche nell’“incremento della redditività dell’impresa”, senza che sia necessario il verificarsi di un “andamento economico negativo dell’azienda”22. “Il chiaro intento” delle formule utilizzate dal legislatore “non ne autorizza … una lettura minimizzante che archivia le disposizioni ivi contenute come assolutamente prive di qualsivoglia significato … Pertanto, considerato che la situazione sfavorevole di mercato non risulta iscritta nell’art. 3 l. n. 604/1966 quale presupposto di legittimità del licenziamento, ogni valutazione del giudice che ad essa attribuisca rilievo, implicando, per le ragioni esposte, un’estensione «al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro», è preclusa dall’art. 30 cit.”23.

5. Discrezionalità del giudice e nullità del licenziamento. L’altra tendenza sicuramente più rilevante ed evidente che emerge nelle più recenti riforme in tema di licenziamento è quella a ridurre la discrezionalità del giudice e a deflazionare il contenzioso. Della prima già si è detto (§ 2). È una tendenza non sempre così lineare, molto accentuata nel Collegato Lavoro e nel Jobs Act, non certo nella riforma Fornero, che al contrario conferisce al giudice una doppia discrezionalità (sui presupposti giustificativi e sulle sanzioni). Tuttavia, la funzione di controllo giudiziario non è stata affatto soppressa, quanto meno ai fini della qualificazione e valutazione delle scelte datoriali: ciò anche se si considera il d.lgs. n. 23/2015, fermo restando che, riducendosi le tutele, si riduce inevitabilmente il contenzioso giudiziale. Ma, soprattutto, nuovi spazi e nuovi terreni per la discrezionalità del giudice si aprono nella misura in cui può riespandersi l’ambito di applicazione della tutela reale attraverso il riconoscimento della nullità del licenziamento. Cambia la prospettiva. Ciò che nel passato, anche recente, era raro poiché era inutile la ricerca del reale motivo del recesso, quanto meno nell’area del vecchio art. 18 st. lav.,

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Cfr. Cass., 7 dicembre 2016, n. 25201, in MGL, 2017, 311, con note di Vallebona, G. Santoro-Passarelli e Cassia; Cass., 15 febbraio 2017, n. 4015, in NGL, 2017, 309; Cass., 24 maggio 2017, n. 13015, la quale comunque sottolinea che l’obiettivo del datore di lavoro di ricercare il profitto riducendo il costo del lavoro o di altri fattori produttivi «non può essere perseguito soltanto con l’abbattimento del costo del lavoro, ossia con il puro e semplice licenziamento di un dipendente non giustificato da un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva, ma solo dal fine di sostituirlo con altro meno retribuito, ancorché addetto alle medesime mansioni»; Cass., 31 maggio 2017, n. 13808; Cass., 7 agosto 2017, n. 19655. In dottrina, proprio sulla recente evoluzione giurisprudenziale, cfr., da ultimo, Cester, Giustificato motivo oggettivo di licenziamento e difficoltà economiche: a proposito di una recente presa di posizione della Corte di Cassazione, in RIDL, 2017, II, 153 ss. 22 Così Cass., 15 febbraio 2017, n. 4015, cit. 23 Così Cass., 7 dicembre 2016, n. 25201, cit.

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diventa essenziale e centrale alla luce del progressivo esaurimento della vecchia tutela reintegratoria. Al riguardo si pongono due ordini di questioni, la prima di carattere concettuale, la seconda più empirica e pratica. Sul primo piano emerge in tutta la sua portata la necessità di distinguere tra licenziamento discriminatorio e licenziamento per motivo illecito determinante. In entrambe le ipotesi è destinata ad operare la tutela reale: a mio avviso quella prevista dalle norme giuslavoristiche speciali (art. 18, comma 1, st. lav. e art. 2, d.lgs n. 23/2015), dato che vengono in rilievo quanto meno casi di nullità testuali di carattere generale riconducibili comunque all’art. 2, d.lgs n. 23/2015; ma, se anche se non si optasse per tale tesi, la tutela ripristinatoria di diritto comune. Tuttavia, va acquisita piena consapevolezza – dottrina24 e giurisprudenza25 hanno fatto passi avanti importanti in questa direzione – che le due fattispecie costituiscono categorie autonome non più sovrapponibili, le quali presentano differenze tutt’altro che marginali in ordine alla rispettiva struttura. In tema di licenziamento discriminatorio resta controversa la natura tassativa o esemplificativa delle ipotesi contemplate nel comma 1 dell’art. 18 st. lav. o nell’art. 2, d.lgs. n. 23/201526, che per di più presentano un contenuto diverso. In effetti, proprio con riguardo al licenziamento, la tecnica del rinvio utilizzata dal legislatore alle fonti nelle quali è contenuto un elenco di fattori di stretta derivazione comunitaria non sembra atta a consentire che il suddetto elenco sia interpretabile come esemplificativo27. Peraltro, le disposizioni che prevedono fattori di rischio non espressamente richiamati dalle suddette norme sono imperative e inderogabili in quanto “tutelano interessi pubblicistici” e sanciscono la rimozione della discriminazione “in ragione del carattere di radicale illiceità dell’atto discriminatorio”28. Ne conseguono la nullità e l’applicabilità della tutela reintegratoria speciale “lavoristica”. Invece, i fattori di rischio non espressamente tutelati potrebbero essere ricondotti a, e considerati alla stregua di, un motivo illecito. In ogni caso, da un lato, è ampiamente condivisa l’idea che il concetto di discriminazione vada inteso in senso oggettivo anche con riferimento al licenziamento. Di conseguenza, non è necessario che sia dimostrato l’intento discriminatorio. Né è necessario che quella discriminatoria sia la ragione esclusiva dell’atto datoriale, tanto che essa può comportare la nullità del licenziamento di cui sia pur accertata la giustificatezza29. Del resto il legislatore, nel san-

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Cfr., da ultimo, M.T. Carinci, op. cit., 27 ss.; Biasi, Saggio sul licenziamento per motivo illecito, Cedam, 2017, spec. 162 ss.; Marinelli, Il licenziamento discriminatorio e per motivo illecito, Giuffré, 2017; Cester, Le tutele, cit., 939. 25 Cfr., da ultimo, spec. Cass., 5 aprile 2016, n. 6575; Cass., 9 giugno 2017, n. 14456. 26 Cfr. M.T. Carinci, op. cit., 37 e Cester, Le tutele, cit., 940 ss. 27 Cfr. Ballestrero, Discriminazioni, ritorsione, motivo illecito. Distinguendo, in http://www.osservatoriodiscriminazioni.org/ index.php/2015/11/05, 5. 28 Cfr. Buconi, I licenziamenti nulli, Palermo 21.3.2017, Corso di formazione territoriale della Scuola Superiore della Magistratura, datt., 22. 29 Cfr. Cass., 5 aprile 2016, n. 6575, cit.; contra Magrini, in Magrini, Pizzuti, L’inefficacia e la nullità del licenziamento, in Gragnoli (a cura di), op. cit., 1164.

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zionare come illecita la violazione di alcuni “interessi tipici di particolare rilievo antisociale”, ha riconosciuto corrispondenti ipotesi di illiceità della causa dell’atto di licenziamento30. D’altro lato, sul piano più pratico dell’onere della prova, il regime deve essere quello previsto in generale in tema di discriminazioni, quindi con agevolazioni parziali intese come attenuazione – anche se non una vera e propria inversione – del regime probatorio ordinario, secondo quanto previsto dall’art. 28, d.lgs. n. 150/2011 con riferimento ai fattori di discriminazione ivi indicati. Ed è su questo piano che la valutazione del giudice diventa decisiva, sulla base delle presunzioni e delle circostanze, nonché del nesso causale tra il fattore di rischio e l’effetto allegati e dimostrati dal lavoratore, mentre grava a quel punto sul datore di lavoro l’onere di provare, oltre che la giusta causa o il giustificato motivo, l’assenza della discriminazione31. Diversamente il licenziamento per motivo illecito non richiede una ragione discriminatoria, ma è caratterizzato da uno scopo diverso, intimidatorio o punitivo, non legato alle caratteristiche del lavoratore, mentre se sussistesse collegamento con fattori di rischio espressamente tutelati, il motivo ritorsivo coinciderebbe con quello discriminatorio32. Il motivo illecito non discriminatorio va inteso in senso soggettivo in quanto rileva il profilo intenzionale. Più discutibile è se debba essere unico, oltre che determinante, se si considera che l’art. 18, comma 1, st. lav. parla di “motivo illecito determinante”, ma omette l’aggettivo “unico”. In realtà, se anche manca tale riferimento, la norma richiama comunque l’art. 1345 c.c., cosicché si deve ritenere che il legislatore non abbia modificato la nozione ivi contenuta. A diversa conclusione si potrebbe pervenire se il motivo illecito costituisse lo scopo specifico dell’atto di recesso33: in questo caso può configurarsi un licenziamento nullo per illiceità della causa (concreta) ex art. 1343 c.c., che non prevede il requisito della esclusività34. In ogni caso, il regime dell’onere della prova è quello ordinario e non quello agevolato previsto in tema di discriminazioni. Estremamente complessa si rivela altresì la ricostruzione del licenziamento arbitrario o pretestuoso, ovvero del recesso adottato per una ragione giustificatrice ammessa dall’ordinamento, ma che risulti del tutto infondata per non dire inconsistente o risibile35.

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Cfr. M.T. Carinci, op. cit., 33, in accoglimento della concezione della causa in concreto, secondo cui la causa dell’atto di licenziamento non è quella astratta che si identifica con l’effetto di estinguere il rapporto di lavoro, ma quella che in concreto consiste nell’interesse perseguito dal singolo atto di licenziamento. 31 Cfr. Buconi, op. cit., 23. In giurisprudenza cfr., da ultimo, Cass., 9 giugno 2017, n. 14456. 32 Cfr. ancora M.T. Carinci, op. cit., 42 ss. 33 Sulla distinzione tra causa del singolo negozio e causa del tipo negoziale, nonché fra intento soggettivo e scopo tipico dell’atto negoziale, v. Bolego, Autonomia negoziale e frode alla legge nel diritto del lavoro, Cedam, 2011, 34, il quale osserva che «ogni singolo negozio possiede una propria causa, che trae origine dallo scopo tipico previsto dal legislatore, ma si concretizza attraverso l’obiettivizzazione dello scopo specifico voluto» dal datore di lavoro. 34 Sul punto v. Passagnoli, Il contratto illecito, in Vettori (a cura di), vol. II, Regolamento, in Trattato del contratto diretto da Roppo, Giuffré, 2006, 473 ss.; Nuzzo, Negozio illecito, in Enc. Giur. Treccani, XX, Roma, 1990, 5 ss. 35 Per un’interessante ricostruzione del dibattito sul punto cfr. Razzolini, I nuovi confini della discrezionalità del giudice in materia di lavoro a termine e licenziamento, in LD, 2016, 427 ss.

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Il problema non si pone per il licenziamento adottato per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, dato che tanto nel 2012 quanto nel 2015 il legislatore ha previsto espressamente la reintegra nel caso di “insussistenza del fatto contestato”. Invece, in relazione al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se l’art. 18, comma 7 dispone la reintegra quando si accerti “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, il d.lgs. n. 23/2015 prevede la sola tutela indennitaria in caso di assenza di giustificazione. Non si è mancato al riguardo di ipotizzare che il licenziamento pretestuoso possa essere ricondotto ad una delle ipotesi di licenziamento nullo (non solo discriminatorio o ritorsivo) previste dall’ordinamento36. Al riguardo si devono evitare ricostruzioni dogmatiche creative se si considera che “la carenza anche più marcata ed evidente dei presupposti legali può benissimo rimanere estranea all’area dell’illiceità”37. Tuttavia anche la tesi prevalente, secondo cui, in assenza di un motivo illecito, la carenza di giustificazione dà luogo sempre e soltanto ad un licenziamento ingiustificato, non può essere portata alle estreme conseguenze. Infatti, alcuni scenari possono aprirsi nella misura in cui emerga che dietro la ragione addotta se ne celi una diversa, non necessariamente punitiva o discriminatoria. In particolare, le ragioni reali, recondite e non espresse, che hanno indotto il datore di lavoro a recedere dal rapporto di lavoro, possono rilevare nella misura in cui emerga che sia stata elusa l’applicazione di una norma imperativa38 e che quindi siano integrati gli estremi della frode alla legge. È il caso del giustificato motivo oggettivo costruito ad arte, cioè quale mero pretesto, ad es., per espellere un lavoratore indesiderato. In tale ipotesi, sarebbe eluso l’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, ovvero la norma che prevede la reintegra nel posto di lavoro nel caso di “licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”. In altre parole, il licenziamento dichiarato oggettivo dal datore di lavoro, ma che si riveli non essere ontologicamente tale in quanto non ne ricorre la benché minima parvenza, potrà essere riqualificato in termini di atto elusivo di una norma imperativa quale l’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, ovvero dei vincoli legali che impongono la reintegra, qualora il fatto oggetto di contestazione non sussista, con conseguente applicabilità del regime di protezione di cui alla norma elusa39. Si tratta di una conclusione agevolmente sostenibile se il lavoratore prova di aver in precedenza ricevuto rimproveri o addirittura contestazioni, ovvero se riesce a fornire

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Cfr. Ponterio, Il nuovo orientamento della Cassazione sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in www. questionegiustizia.it, 8 febbraio 2017, § 3. 37 Così Biasi, op. cit., 157, con ampi richiami dottrinali e giurisprudenziali. 38 Tale impostazione, già proposta da Pera, I licenziamenti nell’interesse dell’impresa, in Aa. Vv. I licenziamenti nell’interesse dell’impresa, Atti AIDLASS, Giuffré, 1969, 32, è stata rilanciata da Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i “principi” costituzionali, in DLRI., 2007, 610; Zoli, I licenziamenti per ragioni organizzative: unicità della causale e sindacato giudiziale, in ADL, 2008, 51; Bolego, Autonomia negoziale e frode alla legge, Cedam, 2011, 207 ss.; Pasqualetto, I licenziamenti nulli, in Cester (a cura di), I licenziamenti dopo la legge n. 92 del 2012, Cedam, 2013, 104. 39 Cfr. negli stessi termini Trib. Taranto, 21 aprile 2017, Est. Magazzino. Cfr. altresì Trib. Milano, 13 giugno 2017, in GLav, 2017, n. 30, 21, secondo cui quando i motivi posti alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo risultano infondati e vi sia al tempo stesso la presunzione di ritorsività, anche se provata per indizi, è possibile giungere ad una pronuncia di reintegra del lavoratore assunto con contratto a tutele crescenti.

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elementi presuntivi dai quali il giudice possa convincersi che il licenziamento ha natura intrinsecamente disciplinare. Ma al medesimo risultato potrebbe ugualmente pervenirsi se si ammette che “si sarebbe di fronte ad un uso distorto del potere datoriale di recesso, azionato per una causale diversa da quella consentita da norme imperative, che esigono la ricorrenza di un giustificato motivo oggettivo”, cosicché “potrebbe prospettarsi un vizio di nullità di cui all’articolo 1343 cod. civ.”40. Oppure, sempre invocando la frode alla legge, che – si ricorda – non richiede alcuna indagine sulle intenzioni dell’autore dell’atto, si potrebbe sostenere che si sia comunque in presenza di un licenziamento per ragioni soggettive41: infatti, tra le ragioni soggettive e quelle oggettive, al di fuori degli ambiti del licenziamento ad nutum, tertium non datur, cosicché, mancando le seconde, entrano in gioco necessariamente le prime. A quel punto il datore non potrebbe sottrarsi alla reintegra neppure dimostrando in giudizio che il prestatore di lavoro ha commesso addebiti sanzionabili in sede disciplinare, persino qualora essi siano fondati o comunque non appaiano tali da comportare in generale l’applicazione della tutela reale. Invero, da un lato, come anticipato (§ 3), si potrebbe sostenere che la contestazione disciplinare, e la possibilità di difendersi che essa comporta per il lavoratore, rappresenti elemento costitutivo del potere disciplinare e condizione di legittimità dell’atto di recesso. Dall’altro, in ogni caso, l’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 collega la reintegra altresì proprio alla mancata contestazione di un fatto, oltre che all’insussistenza sul piano “materiale” che dovesse emergere in giudizio di tale fatto. Nel caso in cui, invece, il datore di lavoro ometta di indicare la motivazione, ma in giudizio riesca a dimostrare che la ragione, fondata o meno, del licenziamento è oggettiva, si tratta di verificare se la fattispecie sia riconducibile a quella della “violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966”, per la quale l’art. 4, d.lgs. n. 23 del 2015 prevede la sola tutela indennitaria, per di più dimidiata (analogamente a quanto dispone l’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970), oppure se vada tenuta distinta e comporti l’inefficacia dell’atto di recesso e quindi la reintegra di diritto comune: una soluzione, quest’ultima, tutt’altro che peregrina, ma che sembra contrastare con la lettera e con la ratio della norma42. In conclusione, alla luce delle osservazioni appena svolte si può sostenere che ancora una volta le novità si inseriscono in un sistema ordinamentale che reagisce producendo anticorpi, in questo caso provenienti dai fondamenti del diritto civile, cui i giuristi del lavoro devono nuovamente guardare dopo che per decenni hanno fatto affidamento sulle più facilmente applicabili norme di tutela speciali. Ed ancora una volta la discrezionalità giudiziale conosce nuovi significativi margini di azione.

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Cfr. Ponterio, op. cit., § 3. Ad analoga conclusione perviene Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act (un commento provvisorio, dallo schema al decreto), in WP CSDLE Massimo D’Antona.it, n. 236/2015, 25, allorquando afferma che «l’assoluta carenza di motivazione, semmai, potrà essere oggetto di valutazione al fine di accertare la riconducibilità del licenziamento a motivi disciplinari o, peggio, discriminatori». Sul punto v. amplius Zoli, I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo dalla legge n. 604 del 1966 al d. lgs. n. 23 del 2015, in I licenziamenti nel contratto “a tutele crescenti” a cura di Ferraro, Quaderni ADL, 2015, 94 s. 42 Sul punto v. ancora Zoli, I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, cit., 96. 41

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Le stagioni di Francesco Carnelutti e la ricostruzione pubblicistica del diritto sindacale Sommario : 1. Premessa. – 2. Il primo ‘900. – 3. Il contributo di Carnelutti e il ruolo del diritto vivente. – 4. Il confronto con la nuova dimensione collettiva del diritto del lavoro: organizzazioni sindacali e contratto collettivo. – 5. l’adesione all’ordinamento corporativo. – 6. Carnelutti e il modello costituzionale di relazioni industriali. – 7. La fase conclusiva del pensiero carneluttiano. Il mancato confronto con il nuovo sviluppo del diritto del lavoro.

Sinossi. Lo studio si sofferma, principalmente, sulla ricostruzione dell’ordinamento sindacale da parte di Francesco Carnelutti, ricondotta in prevalenza in un quadro normativo pubblicistico e sostenuta con coerenza, non soltanto durante l’ordinamento corporativo al quale egli aderì (pur con qualche riserva), ma anche nel dibattito successivo all’entrata in vigore della Costituzione. Inevitabili, dunque, alcuni brevi richiami e raffronti con le impostazioni dei protagonisti del nostro diritto del lavoro, Barassi, Messina, F. Santoro-Passarelli, ed anche Giugni con il quale il primo Carnelutti condivideva, probabilmente (nella diversità metodologica e dei contesti storici), l’importanza del ruolo del c.d. diritto vivente. Verosimilmente, Carnelutti (pur senza dichiararlo apertamente) abbandonò questa ricostruzione nella fase finale del suo pensiero. Una fase caratterizzata da un certo tormento interiore e da ripensamenti sul ruolo stesso del diritto e del positivismo giuridico e nella quale si avverte la mancanza di un confronto con il nuovo sviluppo del diritto del lavoro, in particolare, con l’elaborazione di Gino Giugni dell’ordinamento intersindacale. Abstract. The essay focuses mainly on the consideration of the collective labour system offered by Francesco Carnelutti, placed in a constitutional legal framework and coherently defended not only during the corporative system (to which he gave his consensus, despite some doubts), but also in the

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Il presente scritto costituisce una rielaborazione (con riferimenti bibliografici) della relazione tenuta in occasione della presentazione del Saggio di Giuseppe Santoro-Passarelli, Il diritto del lavoro di Francesco Carnelutti, presso l’Università della Tuscia, Viterbo, 16 maggio 2017.


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debate which followed the approval of the Constitution. Though, there are some inevitable recalls and comparisons with the constructions of the protagonists of Italian labour law, Barassi, Messina, F. Santoro Passarelli, and also Giugni with whom the “first” Carnelutti shared, probably (despite a methodological and historical diversity), the importance of the role played by the case law. Reasonably, Carnelutti (not openly) abandoned this reconstruction in the final period of his thoughts. A period characterized by a sort of interior apprehension and reconsiderations about the role of law itself and legal positivism and in which it’s possible to perceive the lack of a comparison with the new development of labour law, especially with the Giugni’s elaboration on the “intersindacale” system. Parole chiave: Rapporti di lavoro – Organizzazioni sindacali – Contratto collettivo

1. Premessa. Queste brevi riflessioni sono sollecitate dalla lettura del saggio di Giuseppe SantoroPassarelli, Il diritto del lavoro di Francesco Carnelutti1 che offre una prospettazione, si può dire, completa (insieme ai precedenti contributi di Umberto Romagnoli2) del ruolo di tale Autore nella storia del nostro diritto del lavoro. A parte qualche confronto della ricostruzione carneluttiana con quella di altri protagonisti della dottrina giuslavorista, il mio breve contributo è rivolto, soprattutto, ad una lettura della ricostruzione pubblicistica dell’ordinamento sindacale, che Carnelutti mantenne, con una certa coerenza, fino al dibattito post-costituzionale. Esso, dunque, non ha, al pari dei richiamati contributi, un’eguale pretesa di completezza nell’esplorazione di un giurista così eclettico ed onnicomprensivo e dalla sterminata produzione scientifica, che ha percorso con estrema disinvoltura (nel senso nobile del termine) e con un approccio da teoria generale quasi tutti i rami del diritto3. Come ha rilevato Umberto Romagnoli, Carnelutti non è stato intimidito dai confini dei saperi specialistici4, atteggiamento, questo, che oggi, forse, desterebbe il sospetto delle varie comunità scientifiche. Se si dovesse inquadrare C. nell’ambito di una disciplina scientifica, il riferimento principale rimarrebbe, certamente, il diritto processuale civile, disciplina alla quale egli approda dopo essersi occupato di diritto commerciale, di diritto industriale, di diritto civile ed anche (contestualmente o in seguito) e di diritto e procedura penale. Dunque, dalla teoria generale del diritto dei contratti (civili, commerciali, industriali) e dell’autonomia privata, all’intervento statuale nell’amministrazione della giustizia: il ruolo del pubblico potere nel-

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G. Santoro-Passarelli, Il diritto del lavoro di Francesco Carnelutti, in GC, 2016, 699 ss. Romagnoli, Francesco Carnelutti giurista del lavoro, in LD, 2009, 374 ss.; Id., Francesco Carnelutti e il diritto del lavoro, in RTDPC, 1996, 419 ss. 3 Tarello, Profili di giuristi italiani contemporanei, Francesco Carnelutti e il progetto del 1926, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1974, 505. 4 Romagnoli, Francesco Carnelutti giurista del lavoro, cit., 374.

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la risoluzione giudiziale delle controversie tra privati e l’iniziativa dell’azione penale dello Stato e la sua pretesa punitiva. E poi, naturalmente, c’è il diritto del lavoro, al quale C. si dedica ampiamente dall’inizio della sua attività di studioso, fino al dibattito post-costituzionale, intuendo da subito come tale materia potesse offrire allo studioso una grande possibilità di elaborazione. Questa disciplina, contigua al diritto industriale, commerciale e civile, almeno fino alla prima metà del ‘900, non rientrerà tuttavia nella sua attività di insegnamento nelle varie Università italiane. Nella sua carriera di docente, C. non terrà corsi di diritto del lavoro (o di diritto corporativo), tranne per quanto riguarda la trattazione del regolamento collettivo nell’ambito delle sue lezioni di diritto industriale, pubblicate nel 19275. Probabilmente Francesco Carnelutti non rientra nel pantheon dei padri fondatori del diritto del lavoro, cionondimeno di questa disciplina egli è stato sicuramente un interprete (definizione, peraltro, a lui cara), fornendone una coerente chiave di lettura. Come scrive Giuseppe Santoro-Passarelli nel suo saggio, C. è arrivato a tutti gli appuntamenti più importanti della storia del diritto del lavoro, dominando la scena da protagonista. Proprio come giuslavorista C. si presta, più che mai, ad essere studiato in relazione ai contesti storici che hanno fatto da scenario alla sua dottrina, coincidenti con una prima fase, corrispondente al primo ‘900; una seconda, collegata all’esperienza corporativa; una terza contrassegnata dal confronto con l’ordinamento sindacale introdotto dalla Costituzione repubblicana. Vi è poi un’ulteriore fase storica, meno significativa sul piano dei contributi giuslavoristici, caratterizzata, invece, da riflessioni interiori, di carattere generale, sul ruolo del diritto e sulle illusioni da esso generate. Insomma, quattro fasi, come le stagioni dell’anno solare, alle quali ognuna di queste fasi potrà essere metaforicamente accostata.

2. Il primo ‘900. Nel primo decennio del ‘900, il giovane Carnelutti si trova dinanzi allo scenario del decollo industriale italiano, con la nascita delle prime grandi fabbriche, e l’enorme spostamento verso di esse di manodopera dalle campagne6. Un decollo che avviene di fronte ad una assoluta mancanza di norme in grado di regolare le nuove forme di rapporto di lavoro in fabbrica. Fuori da un precario accordo tacito tra padrone e operaio, non vi sono regole che disciplinino le modalità di assunzione del lavoratore, la sua età per lavorare, l’orario di lavoro, il salario, la cessazione del rapporto7. La regolazione dei nuovi rapporti di lavoro industriale viene demandata a quella che Giugni definirà ironicamente la «perenne saggez-

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Carnelutti, Lezioni di diritto industriale: teoria del regolamento collettivo, Cedam, 1927. Tra gli insediamenti più importanti, le industrie manifatturiere Rossi di Schio (1871), la Richard Ginori e la Pirelli (1872), lo stabilimento Ercole Marelli (1891), la Fiat (1899), la Isotta Fraschini (1900), la Alti Forni fonderie e acciaierie di Terni (1894). 7 Romagnoli, Giuristi del lavoro. Percorsi italiani di politica del diritto, Donzelli, 2009, 3; Passaniti, Storia del diritto del lavoro, I, La questione del contratto di lavoro nell’Italia liberale (1865-1920), Giuffrè, 2006, 99. 6

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za giuridica dei Romani»8, vale a dire agli istituti della locatio operis e locatio operarum contenuti nel codice civile del 1865 (artt. 1570, 1627). Come dire, in sostanza, che la rivoluzione industriale italiana può avere il proprio sviluppo senza curarsi delle condizioni dei lavoratori che rimangono, infatti, disastrose9. Il laconismo del codice civile non può ritenersi superato neanche dai primi interventi di legislazione sociale, considerati prevalentemente in funzione di tutela dell’ordine pubblico e rappresentati da esigue norme nate per integrare, o derogare in alcune particolari realtà di impego della forza lavoro, i principi generali ed astratti del Codice10. Le prime forme di legislazione si rivelano comunque deboli nei contenuti e, soprattutto, di difficile applicazione, per l’assenza di controlli ispettivi11. Posizioni critiche verso l’impostazione codicistica del contratto di lavoro come “affitto” di energie lavorative e favorevoli ad un maggiore sviluppo della legislazione sociale, sono espresse da alcuni giuristi del lavoro sensibili alla questione operaia e vicini al socialismo giuridico12. Oggetto dell’indagine di questi giovani studiosi (verosimilmente i fondatori del diritto del lavoro) è soprattutto la condizione di subordinazione del lavoratore, verso chi, essendo proprietario dei mezzi di produzione, può organizzare a proprio piacimento le energie lavorative. Una Commissione di studio venne anche istituita nel luglio 1901 e presieduta dall’Onorevole Bruno Chimirri, con il preciso compito di proporre modificazioni da introdurre nel diritto vigente, in modo di dar vita ad una disciplina legale, sul rapporto di lavoro e sui contratti agrari (i verbali della Commissione sono pubblicati dalla Stamperia reale,

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Giugni, Diritto del lavoro, voce per un’enciclopedia, in DLRI, 1979, 11. Gli orari di lavoro sono in media di 12 ore negli opifici, fino a raggiungere le 15 o 16 ore nelle filande, dove tradizionalmente si concentra “la parte più indifesa della classe operaia del tempo”, Ballestrero, Diritto sindacale, Giappichelli, 2014, 4. Pessime e condizioni igieniche ei luoghi di lavoro, resi malsano dalle esalazioni provenienti dalle macchine e dagli stessi materiali lavorati. Pessimi i salari, stabiliti unilateralmente dai datori di lavoro e ulteriormente falcidiati da una serie di assurde causali, quali le soste necessarie dei lavoratori, le lavorazioni ritenute come difettose, i danneggiamenti nell’uso dei macchinari, attribuite a colpa del lavoratore, Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, il caso italiano: 1880-1900, La Nuova Italia, 1972. 10 Il Rd 23 dicembre 1865 e la legge 21 dicembre 1873 sul divieto di impiegare minori di 10 anni nelle miniere e nelle professioni ambulanti; la legge 11 febbraio 1886, n. 3657, sul lavoro dei fanciulli negli opifici industriali, alla quale farà seguito la successiva n. 242/1902, sempre a tutela del lavoro dei fanciulli e delle donne; la l. n. 184/1893 sul lavoro nelle miniere, cave, torbiere e la prima legge per la prevenzione e assicurazione degli infortuni sul lavoro, del 17 marzo 1898, n. 80. 11 Gaeta, Il lavoro e il diritto. Un percorso storico, Cacucci, 2013, 19; Castelvetri, Il diritto del lavoro delle origini, Giuffrè, 1994, 60; Ballestrero, Dalla tutela alla parità, Il Mulino, 1979, 11; Pino, Carusi e zolfatari in Sicilia, al tempo della rivoluzione industriale. Storia di un’indicibile schiavitù, in LD, 2015, 357. 12 Tra i più noti, Salvioli, I difetti sociali del codice civile in relazione alle dossi non abbienti ed operaie, 1890; Gianturco, L’individualismo e il socialismo nel diritto contrattuale, 1897; Vadalà Papale, La costruzione giuridica del contratto di lavoro, 1897; Modica, Il contratto di lavoro, 1897; Betocchi, Il contratto di lavoro, 1897; Jannaccone, voce Contratto di lavoro, in EGT, VIII, 1898; Dalla Volta, Il contratto di lavoro nel/a legislazione civile, in Riforma sociale, IV, Firenze, 1897, 28. Più recentemente, sul tema, Grossi, La scienza del diritto privato. Una rivista progetto nella Firenze di fine secolo, Giuffrè, 1988, 13; Vardaro, Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in PD, 1986, 92; Pedrazzoli, Democrazia industriale e subordinazione. Poteri e fattispecie nel sistema giuridico del lavoro, Giuffrè, 1985; Pino, Il contesto di inizio secolo e la discussione sul contratto di lavoro, in Pedrazzoli (a cura di), Lavoro subordinato e dintorni, 1989, Il Mulino, 3233; Id., Modelli normativi del rapporto di lavoro all’inizio del secolo, in PD, 1984, 207. 9

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Roma, 1902)13. L’esperienza della Commissione Chimirri si concluse con l’elaborazione di un possibile testo di legge che però non ebbe alcun seguito in sede legislativa, tanto che la prima legge sul contratto di lavoro, presentata da Vittorio Emanuele Orlando nel 1913, non riguardò la categoria operaia, bensì quella dell’impiego privato, sicuramente meno numerosa ma più fedele e meno propensa al conflitto14. Nel frattempo, dal punto di vista della ricostruzione dottrinale, si era avuta quella restaurazione barassiana, con un intervento che si può definire sistematico e di chiusura, mirato a ricondurre nell’ambito della configurazione codicistica la disciplina del rapporto di lavoro, limitando di fatto sul nascere il dibattito sul cosiddetto diritto operaio15.

3. Il contributo di Carnelutti e il ruolo del diritto vivente. In questo scenario, ha un approccio sicuramente riformista il primo contributo giuslavorista del giovane Carnelutti, rivolto all’interpretazione della normativa sugli infortuni sul lavoro. In tale studio, l’Autore, dopo aver affermato come i problemi giuridici del rapporto di lavoro lascino indifferente la vigente scienza giuridica “imperturbabilmente borghese”, si adopera a ridimensionare uno dei principi fondamentali del tempo: quello della responsabilità soggettiva per colpa, nel caso di infortunio sul lavoro. A tal fine lo studio di C. è rivolto a sviluppare istituti appena accennati nella l. n. 80/1898, quali la responsabilità oggettiva dell’imprenditore e il rischio professionale, profili questi ai quali non possono far fronte le scarne norme del Codice civile16. Da questa base di partenza, C. svilupperà, ulteriormente, la convinzione che il rapporto di lavoro non solo non possa trovare la sua regolazione nell’ambito delle norme del codice, ma neanche nei principi generali del diritto dei contratti e nelle stesse norme di legge. In altre parole, la convinzione che per regolare il rapporto di lavoro bisognerà rivolgere lo sguardo alla formazione extra legem del diritto: lasciare che le regole si sviluppino fuori dallo stesso ordinamento statuale, per poi raccoglierle e riordinarle dentro di esso. A tale fine un riferimento fondamentale sarà rinvenuto da C. nella giurisprudenza dei probiviri (dei quali egli stesso fu presidente di Collegio), tribunali di equità istituiti con la l. 15 giugno 1893, n. 295, chiamati a risolvere controversie di lavoro secondo equità, «applicando il diritto latente che si forma di giorno in giorno nella vita industriale» e, dunque, andando anche oltre le ristrettezze delle previsioni normative17. Ma non solo, utili

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Pino, Modelli normativi del rapporto di lavoro all’inizio del secolo, in PD, 1984, 207. Romagnoli, Lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto, Il Mulino, 1974, 77. 15 Barassi, Il Contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Società Editrice Libraria Milano, 1901; Spagnuolo Vigorita, Subordinazione e diritto del lavoro, Morano, 1967. 16 Carnelutti, Criteri d’interpretazione della legge su gli infortuni, ora in Infortuni sul lavoro. Studi, (1913), 1; G. SantoroPassarelli, cit., 719; Gaeta, Infortuni sul lavoro e responsabilità civile alle origini del diritto del lavoro, Esi, 1986. 17 Carnelutti, Il diritto di sciopero e il contratto di lavoro, in RDComm, 1907, 99; Redenti (a cura di), Massimario della giurisprudenza dei probiviri, 1906, ristampa con Introduzione di Caprioli, Giappichelli, 192; Lessona, La giurisdizione dei probiviri rispetto al contratto di lavoro, in RDC, 1903, 224; Offeddu, Attualità di una ricerca storica: probiviri industriali e 14

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riferimenti saranno anche i regolamenti redatti dal datore di lavoro, aventi valore di legge tra le parti e non modificabili finché dura il rapporto di lavoro; le norme delle Camere di commercio, che offrono all’interprete regole extra legem; ancora, la documentazione raccolta e coordinata dall’Ufficio del Lavoro, istituito presso il Ministero dell’Agricoltura con la l. 246/1902 e diretto dal socialista Giovanni Montemartini; nonché i pareri sulle condizioni dei lavoratori, forniti dal Consiglio superiore del lavoro, creato con la stessa legge e presieduto dal Ministro, annoverato dagli storici tra le maggiori realizzazioni in campo sociale dell’età giolittiana18. Insomma, in un’epoca contrassegnata da precise categorie concettuali, quasi vincolanti per il giurista del tempo, il giovane Carnelutti argomenta, audacemente, come il fenomeno giuridico e il fenomeno economico-politico non siano cose diverse, bensì la stessa cosa considerata da diversi punti di vista19. Così, egli pone al centro della sua indagine, prevalentemente, il diritto vivente e invoca la creatività e la dinamicità di questo rispetto alla staticità del legislatore. La norma di legge dovrà, conseguentemente, essere il punto di approdo e di istituzionalizzazione di indicazioni provenienti dal diritto vivente: essa trova le sue ragioni nell’analisi empirica e non in soluzioni prestabilite. Un’impostazione che C. esporterà, in linee generali, nel diritto processuale nel quale egli farà rientrare una moltitudine di fenomeni e istituti provenienti dalla realtà sociale, ferma restando la funzione di coordinamento del giudice e il ruolo ben definito delle parti in causa. Si potrebbe tentare, a tal punto, ben consapevoli delle sostanziali differenze, un qualche riferimento alla ricostruzione dell’ordinamento intersindacale, elaborata da Gino Giugni, nella quale, appunto, viene sviluppato, soprattutto, il ruolo del diritto vivente e «l’analisi dei fenomeni sociali diretta a scoprire il meccanismo attraverso il quale una società risolve i problemi man mano che si presentano»20. Certamente Carnelutti non può contare su forme di sovranità sindacale che possano dar vita alla produzione di una propria normativa, assimilabile a quella dello Stato; non esiste, inoltre, un sistema di contrattazione collettiva che possa porsi su un piano di legittimazione reciproca con l’attività legislativa statuale. E allora, per C., il diritto vivente sarà giocoforza rappresentato da tutto ciò che possa contribuire alla costruzione di regole sul rapporto di lavoro, al di là della statica configurazione di questo in termini di locatio operarum o operis. Può rivelarsi significativo, in tale contesto, un passaggio di Carnelutti, nel quale egli asserisce che «il compito del giurista è assai più quello di cogliere dalle manifestazioni nuove principi di diritto che vanno maturando»21. Un’espressione che può essere accostata

licenziamento, in DLRI, 1981, 59; Ghera, Il conflitto e lo sciopero nella giurisprudenza probivirale, in RTDPC, 1994, 1113. Aquarone, L’Italia giolittiana, Il Mulino, 1981, 214. 19 Carnelutti, Criteri d’interpretazione della legge su gli infortuni, cit., 20; Romagnoli, Francesco Carnelutti e il diritto del lavoro, cit., 425. 20 Giugni, Introduzione a Perlman, in Per una teoria dell’azione sindacale, Edizioni Lavoro, 1980, 9. 21 Carnelutti, Un surrogato della legge sull’impiego privato, in RDComm, 1909, 279. 18

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a quanto afferma Giugni circa la ragion d’essere del giurista che risiede proprio nel venir chiamato costantemente a qualificare la realtà in movimento22. Il nostro giovane Autore prospetta, dunque, come quadro di riferimento, delle regole extra legem, dalla valenza più ampia, rispetto alle norme del codice. Queste regole potranno essere recepite poi, eventualmente, in disposizioni normative e non necessariamente di natura civilistica. Anzi, C. comincia a ritenere una certa inidoneità delle regole del diritto civile, e della norma in sé prestabilita, a contenere nel proprio interno le potenzialità evolutive dell’organizzazione del lavoro industriale e la sua regolazione. Qui, C. mostra anche una certa originalità rispetto ai socialisti della cattedra, i quali spingevano, tout court, verso un’intensificazione della legislazione sociale: più norme di legge, come un rimedio, da parte dello Stato, contro il laconismo del codice civile. Ed anche questo particolare potrebbe essere, in qualche modo, richiamata l’analoga originalità della ricostruzione di Giugni, dall’ortodossia marxista, nella convinzione di ricondurre il sistema di relazioni industriali e il conflitto, nell’ambito della negoziazione e non (solo) della lotta di classe23.

4. Il confronto con la nuova dimensione collettiva del diritto de lavoro: organizzazioni sindacali e contratto collettivo.

L’inadeguatezza del quadro di riferimento di diritto civile, basato sull’individualismo contrattuale, appare ancora più evidente a C. nel momento in cui egli si rende conto che nuove regole sul lavoro industriale non potranno fare a meno di considerare nuove categorie concettuali quali l’organizzazione e il collettivo. Diventerà necessario per il giurista confrontarsi con l’attività dei nascenti sindacati professionali dei lavoratori e con l’eventuale riconoscimento della loro personalità giuridica; nonché con le prime forme di contratto collettivo. Ma se così è, come sarà possibile ricomprendere nell’ambito del diritto civile le organizzazioni dei lavoratori quali soggetti contrattuali? E ancora, come si potranno applicare le attuali regole contrattuali al contratto collettivo, o concordato di tariffa, soprattutto con riferimento alla sostituzione automatica delle clausole del contratto individuale difformi da quelle del concordato, per garantirne l’efficacia? E inoltre, come potranno essere regolate dal diritto dei contratti particolari azioni collettive, quali ad esempio lo sciopero che è, di per sé, un atto di rottura del sinallagma contrattuale e di trasferimento della vertenza sul piano della forza? C., è convinto che la contrattazione collettiva diventerà una fonte regolativa, al pari o in luogo della norma legislativa24, e su tale profilo egli assumerà una posizione originale,

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Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Giuffrè, 1960. Rodriguez Pinero, Gino Giugni, un riformista innovatore, in DLRI, 2012, 207; Pino, Uno studio su Gino Giugni e il conflitto collettivo, Giappichelli, 2014, 30. 24 Carnelutti, Le nuove forme di intervento dello Stato nei conflitti collettivi di lavoro, in Rivista di Diritto Pubblico, 1911, I, 412. 23

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diversa da quella di Lodovico Barassi (rivolta a tenere lontano il contratto di lavoro dalle tematiche economico-sociali emergenti), ma anche da quella di Giuseppe Messina, tra i primi nel nostro Paese a studiare i concordati di tariffa, sulle suggestioni della dottrina tedesca preweimariana sul Tarifvertrag25. Messina, infatti, pur sostenendo la necessità di ricomprendere i contratti collettivi in una nuova prospettiva di regolamentazione del rapporto di lavoro, si adoperò per mantenere questi nell’ambito del diritto civile, convinto che l’automaticità del contratto collettivo potesse rientrare nei meccanismi obbligatori previsti dal diritto comune26. Come ha scritto Gaetano Vardaro, Messina «non solamente di oppose al riconoscimento della personalità giuridica delle associazioni sindacali (ritenuta generalmente premessa indispensabile per l’attribuzione – anche solo passiva – nell’azione per inadempimento del concordato di tariffa), ma scoraggiò ogni ipotesi di ‘automaticità’ dell’effetto del contratto collettivo»27. Anzi, ogni contratto individuale di lavoro in deroga al contratto collettivo deve ritenersi valido “appunto per la sua individualità di fronte a quello”28. C., invece, propende per il riconoscimento della personalità giuridica alle associazioni sindacali, come condizione essenziale per la validità erga omnes del concordato di tariffa e la sua inderogabilità in pejus29. Anche con riferimento allo sciopero, timidamente riconosciuto dall’ordinamento liberale alla stregua di una libertà, C. aveva ben compreso come questo fosse generato dalla inconfutabile disparità economica tra i soggetti del rapporto di lavoro ed era convinto che il conflitto fosse destinato ad accentuarsi con il decollo industriale del Paese30. Proprio per questo egli non celava la difficoltà a prefigurare, nell’ambito delle regole contrattuali, una disciplina per la libertà di sciopero che è qualcosa di ben diverso rispetto alle altre libertà individuali. In uno scritto del 1907, egli adopera (in modo avveniristico) per lo sciopero la definizione di diritto pubblico subbiettivo31 al pari dei diritti di riunione o associazione, ribadendo la sua incompatibilità con il diritto privato, dal momento che non si può ritrovare alcuna giustificazione giuridica per l’esonero del risarcimento del danno. Tale conclusione, in realtà, è ritenuta da C. non solamente per l’alterazione del sinallagma contrattuale e l’impossibilità di giustificare l’inadempimento che lo sciopero giocoforza comporta, quanto, piuttosto, per la convinzione che una libertà così importante (sulla quale C., come vedremo, non esiterà a richiamare anche la nozione di guerra) per il fatto che fosse esercitabile solo collettivamente, non potrà che essere regolata da norme pubblicistiche32.

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Brentano, Die Arbeitergilden der Gegenwart, Duncker & Humblot, 1872; Lotmar, Der Arbeitsvertrag nach dem Privatrecht des deutschen Reiches, Duncker & Humblot, 1902. 26 Messina, I concordati di tariffa nell’0rdinamento giuridico del lavoro, 1904, in Scritti giuridici (Vol IV), Giuffrè, 1948. 27 Vardaro, L’inderogabilità del contratto collettivo e le origini del pensiero giuridico sindacale, in DLRI, 1979, 566. 28 Messina, I contratti collettivi ed in disegno di legge sul contratto di lavoro, cit., 43. 29 Carnelutti, Le nuove forme di intervento dello Stato nei conflitti collettivi di lavoro, cit., 412; Ratto, Contro una legge sul contratto di lavoro, in Il contr. Lav., 1904, 45. 30 Carnelutti, Criteri d’interpretazione della legge su gli infortuni, cit. 38. 31 Carnelutti, Il diritto di sciopero e il contratto di lavoro, cit., 99. 32 Carnelutti, Il diritto di sciopero e il contratto di lavoro, cit., 87.

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Delineando, così, quasi una prospettiva organicistica dell’impresa, C. ipotizza un superamento del conflitto, attraverso l’intervento dello Stato, al quale spetta di fare da cuscinetto con gli interessi in conflitto, di modo che si possano ottenere migliori condizioni per il lavoratore. Il ricorso alla conciliazione e l’arbitrato obbligatorio, dunque, come rimedio destinato a sostituire definitivamente lo sciopero. In tal modo gli interessi dei lavoratori e dell’imprenditore potrebbero anche non essere confliggenti, nel momento in cui tali soggetti «non avranno più bisogno delle stampelle perché cammineranno da soli. La contrattazione collettiva diventerà seria e quieta come la contrattazione di borsa»33. Le conclusioni alle quali perviene C. possono aiutarci a comprendere la maturazione di quella sua convinzione che il diritto del lavoro, per ciò che riguarda i soggetti collettivi e le loro azioni (l’ordinamento sindacale), non possa che essere regolato da una normativa speciale da ricondurre nel diritto pubblico. Il diritto privato, infatti, non potrà andare oltre la regolamentazione di contratti individuali di lavoro, dei quali, però, il nostro ne avverte chiaro il limite dinanzi alla nuova dimensione di produzione industriale. È una convinzione che si può evincere anche interpretando il passaggio, ben posto in evidenza da Giuseppe Santoro-Passarelli, in cui C. ritiene che lo studio sulle regole del rapporto di lavoro «giova alla migliore interpretazione delle norme speciali e al migliore svolgimento dei germi in queste contenuti per la formazione compiuta e moderna del diritto privato»34. Come dire, è utile per capire meglio ciò che va tenuto separato dal diritto privato perché questo ne impedirebbe un moderno sviluppo.

5. L’adesione all’ordinamento corporativo. E dove può essere ritrovata la realizzazione di una prospettiva pubblicistica del diritto sindacale e del lavoro? Naturalmente nell’ordinamento corporativo che nel nostro Paese si realizza, definitivamente, con la l. 30 aprile 1926, n. 563, con l’assorbimento del sindacato e delle sue attività nell’ambito dell’ordinamento statuale e con il consolidamento di un modello di rappresentanza dei lavoratori, non più basato sul consenso volontario, ma sulla base della corporazione di appartenenza. Per la prima volta si afferma un modello che C. definirà di “sindacalismo puro”, intendendo per ciò un sindacalismo che non sia più premessa del comunismo, ma vero portatore degli interessi degli associati35. L’intervento dello Stato avrebbe, così, la forza di restituire al sindacalismo la sua funzione di “conseguire una giusta ripartizione della ricchezza tra i fattori della produzione”36. In effetti, l’ordinamento corporativo si fonda su un sistema pubblicistico di contrattazione collettiva solido ed efficace, ben articolato e completo, rispondente certo alle esigenze

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Carnelutti, Carnelutti, 35 Carnelutti, 36 Carnelutti, 34

Le nuove forme di intervento dello Stato nei conflitti collettivi di lavoro, cit., 413. Criteri d’interpretazione della legge su gli infortuni, cit., XIII; G. Santoro-Passarelli, cit., 708. Sindacalismo, in DL, 1927, I, 7. Sindacalismo, cit., 4.

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di legittimazione del regime, ma che indubbiamente garantisce una buona protezione delle condizioni giuridiche ed economiche del lavoratore. La solidità del sistema di contrattazione corporativa si può evincere dal fiorente dibattito che si svilupperà, alla fine degli anni ‘20, nella rivista Il diritto del lavoro, diretta da Giuseppe Bottai, e che sarà sostanzialmente finalizzato alla ricostruzione del diritto del lavoro su basi pubblicistiche37. C. potrà finalmente affermare: «Una volta il diritto del lavoro era soltanto una parte del diritto privato ... Oggi il diritto del lavoro è penetrato nel cuore del diritto pubblico cioè nel diritto costituzionale»38. In definitiva, C. è realmente convinto che l’ordinamento corporativo interpreti al meglio i desideri e le aspettative delle, allora deboli, organizzazioni sindacali dei lavoratori, con un intervento legislativo che conserva e dà solidità e strumentazione tecnico-giuridica a ciò che l’ordinamento sindacale del tempo ha potuto produrre39. Per dirla con Paolo Passaniti, C. in fondo pensa che il sindacalismo sia una cosa troppo seria per essere lasciata ai sindacati40. Certo, si tratta di un modello che poi si svilupperà in senso autoritario, senza possibilità di dissenso e che, nella mistificante concezione organicistica degli interessi superiori della produzione nazionale, si consoliderà con la progressiva abolizione della libertà e dell’associazionismo sindacale di stampo pluralista, la negazione (con l’eventuale repressione penale) del conflitto e la sua sostituzione con procedure di composizione arbitrale demandate alla magistratura del lavoro41. Nello scritto successivo, Il Diritto corporativo nel sistema del diritto pubblico italiano, del 1930, C. fa riferimento anche all’espressione diritto intersindacale per indicare la produzione normativa derivante dal contratto collettivo di diritto pubblico. Ciò, tuttavia, è cosa ben diversa dalla nozione di ordinamento intersindacale di giugniana memoria che si basa proprio su una produzione di regole espressione del pluralismo sindacale, in una situazione di legittimazione reciproca con l’ordinamento statuale. Una condizione, questa, che certamente non si realizza in un contesto di sindacato unico, la cui attività è completamente assorbita dallo Stato come regolatore assoluto del sistema. Nel ripercorrere criticamente le trasformazioni e le esigenze dell’organizzazione sindacale, esaltando le potenzialità del contratto di lavoro reso più solido dalla sua pubblicizza-

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Senza pretesa esaustiva, si rinvia a Bottai, L’ordinamento corporativo italiano, 1927, 359 ss.; Id., La collaborazione delle classi nel sistema corporativo¸ 1932, 502 ss.; Id., Il cammino del corporativismo nell’anno XVI, 1939, 3 ss.; Costamagna, Teoria della Corporazione fascista, 1927, 10 ss.; Id., Il principio corporativo, 1929, 89 ss.; Santelli, I compiti della magistratura nella risoluzione dei conflitti collettivi e individuali di lavoro, 1929, 23 ss. Sul tema S. Cassese, Un programmatore degli anni Trenta: Giuseppe Bottai, in PD, 1970, 415. 38 Carnelutti, Sindacalismo, cit., 9. 39 Carnelutti, Sindacalismo, cit. 40 Passaniti, Filippo Turati giuslavorista. Il socialismo nelle origini del diritto del lavoro, 2008, 314-324. 41 Tarello, Corporativismo, Vol. XXVII, Enciclopedia Feltrinelli Fischer, 1970, 68; Ungari, Ideologie giuridiche e strategie istituzionali del fascismo, in Il problema storico del fascismo, Vallecchi, 1970, 63; Romagnoli, Il diritto sindacale corporativo ed i suoi interpreti, in Lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto, Il Mulino, 1974, 187; Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura 1870-1922, Laterza, 1969; Jocteau, La magistratura e i conflitti di lavoro durante il fascismo, Feltrinelli, 1978; Veneziani, I conflitti collettivi e la loro composizione nel periodo corporativo, in RDL, 1972, 209; Lanchester, Dottrina e politica nell’Università italiana: Carlo Costamagna e il primo concorso di diritto corporativo, in LD, 1994, 49.

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zione, C. tuttavia, già nel citato articolo del 1927, rileva la necessità di salvaguardare «i due monumenti più insigni della nostra civiltà giuridica, che sono la proprietà e il contratto»42. Si può rinvenir in tale passaggio una volontà di salvaguardare comunque la validità del contratto individuale di lavoro? Ciò è molto verosimile se si pensa che la ricostruzione pubblicistica di C. riguarda in fondo l’ordinamento sindacale e non preclude, come si è detto, la riconduzione del contratto individuale di lavoro nell’ambito del diritto privato. Non solo, ma anche le controversie derivanti dall’applicazione del regolamento collettivo, secondo C., “non possono riguardare che i singoli lavoratori e i singoli imprenditori”43. Ma, ovviamente, oramai le garanzie individuali e l’autonomia privata appaiono del tutto incompatibili con il sistema corporativo di contrattazione collettiva e il ruolo pubblico del sindacato. Su tale consapevolezza egli scriverà, nelle sue Lezioni di diritto industriale: teoria del regolamento collettivo, del 1927, quel celebre passaggio «il contratto collettivo è un ibrido che ha il corpo del contratto e l’anima della legge»44. Giuseppe Santoro-Passarelli, nel suo saggio45 ha evidenziato come il generico richiamo di C. alla civiltà giuridica del contratto e alle controversie individuali sarà ritenuto come una volontà di conservazione delle istituzioni del diritto privato e gli creerà una certa diffidenza dei duri e puri del regime (Volpicelli, Costamagna e in seguito lo stesso Rocco). In verità C. cercherà di arginare le spinte innovative/eversive del regime, proponendosi per interpretare e conservare la continuità: davanti al nuovo regime egli si pone come interprete dell’esistente, affermando, nel 1930, che l’interprete serve meglio il legislatore con l’indagine austera che con l’idolatria46. In questo senso è stato ritenuto che C., a ben guardare, non rappresenti un ortodosso giurista di regime, ed anzi, si sono ritrovate in lui anche forme di antifascismo47. Non è un aspetto di poco conto se si pensa che, in fondo, sull’ordinamento corporativo si può intravedere forse il profilo più evidente dell’adesione di C. al fascismo. Probabilmente C. (e con lui anche Giuseppe Bottai, che sicuramente era un fascista illuminato) si rende conto che quello corporativo, più che un sistema di contrattazione collettiva in senso proprio, è solamente un modello istituzionale forte di regolamentazione, nel quale i sindacati operano in forza di pubblici poteri. Il modello è, comunque, in grado di superare le limitazioni individuate in una ricostruzione civilistica e realizza (forse inconsapevolmente) la rappresentazione più pura del contratto come pace che, in quanto tale, è destinato a surrogare il conflitto.

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Carnelutti, Sindacalismo, cit., 9. Carnelutti, Funzione del processo del lavoro, in RDP, 1930, 109. 44 Carnelutti, Sindacalismo, cit., 52 45 G. Santoro-Passarelli, cit., 2016, 727. 46 Carnelutti, Funzione del processo del lavoro, cit., 109. 47 Romagnoli, Francesco Carnelutti e il diritto del lavoro, cit., 434; Tarello, Profili di giuristi italiani contemporanei, Francesco Carnelutti e il progetto del 1926, cit., 509. 43

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Si può ritenere, in fondo, che questa raffigurazione del contratto collettivo guardi, in qualche modo, alla concezione carneluttiana del processo civile come l’eliminazione del conflitto e la soluzione della lite48.

6. Carnelutti e il modello costituzionale di relazioni industriali.

Questa ricostruzione in termini pubblicistici del diritto sindacale sarà, coerentemente, mantenuta da Francesco Carnelutti anche a seguito dell’entrata in vigore dell’Ordinamento Costituzionale. Indubbiamente, il modello delineato dall’art. 39 della Costituzione, pur in un contesto di riaffermazione della libertà e del pluralismo sindacale, risente di una certa impostazione ereditata dal precedente ordinamento corporativo. Come è noto, infatti, il contenuto della norma costituzionale si fonda su un sindacato registrato e dotato di personalità giuridica e in quanto tale titolare di porre in essere contratti collettivi con efficacia erga omnes. La puntuale attuazione della norma costituzionale, dunque, non sarebbe stata immune da un’attrazione fatale del sindacato nell’alveo dell’organizzazione dello Stato apparato, nel momento in cui la sua attività contrattuale diventa l’espressione di una potestà normativa di tipo pubblicistico49. Dunque, la posizione di C. ha, in fondo, una sua coerenza nel momento in cui altro non fa che evidenziare l’oggettiva difficoltà, avvertita anche dai nostri Costituenti, di concepire il nuovo sistema di democrazia sindacale in termini radicalmente diversi rispetto agli schemi pubblicistici utilizzati durante il fascismo, fatta salva, ovviamente, l’abolizione dei profili autoritari50. Solo in sede di Costituzione materiale si manifesterà il contrasto di C. con Francesco Santoro-Passarelli, sui temi attuativi del nuovo ordinamento sindacale. Quest’ultimo ebbe la grande intuizione di ricostruire il sistema sindacale costituzionale e l’autonomia collettiva nell’ambito del diritto comune, tenendolo lontano dalle possibili contaminazioni pubblicistiche, anche nell’ipotesi di una futura acquisizione di efficacia erga omnes del contratto collettivo. Una ricostruzione che sarà ulteriormente ribadita, pur con approcci sistematici e di merito diversi, anche dalle dottrine più spiccatamente gius-sindacali, rivolte ad ampliare l’indagine al di là dei limiti della metodologia civilistica, verso il consolidamento di un autonomo ordinamento intersindacale51.

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Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, Cedam, 1936; Id., Lezioni di diritto processuale civile, Università di Padova, Cedam 1920 – 1931; Id., La prova civile, 1915; Consolo, Le opere e i giorni nel percorso vocazionale di Carnelutti: dalla “Commerciale” alla “Processuale”, in GC, 2016, 665. 49 Mortati, Il lavoro nella Costituzione, in DL, I, 1954, 149. 50 Mancini, Libertà sindacale e contratto collettivo “erga omnes”, in RTDPC, 1963, 581; Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, Il Mulino, 1977, 83. 51 Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Giuffrè, 1960; Giugni, Santoro Passarelli e il diritto del lavoro, in ADL, 1997, 15; Rusciano, Contratto collettivo e autonomia sindacale (1984), Utet, 2003; Mariucci, La contrattazione

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Le stagioni di Francesco Carnelutti e la ricostruzione pubblicistica del diritto sindacale

L’ostinata coerenza di C. si manifesterà anche nell’interpretazione dell’articolo 40 della Costituzione nel quale, invece, a differenza del precedente articolo 39, la configurazione dello sciopero come diritto costituzionale segna la netta rottura con l’ordinamento corporativo che configurava tale azione come reato. Indubbiamente, C. conserverà (senza farne mistero) le riserve critiche sullo sciopero, ribadendo la sua convinzione circa l’impossibilità di ricondurre questo nel diritto dei contratti, proprio per l’oggettiva difficoltà di superare gli ostacoli derivanti dall’inadempimento. La liceità dello sciopero potrà essere astrattamente considerata solo guardando al novero dei diritti pubblici, da regolamentare nell’ambito di un contratto collettivo di diritto pubblico. Una ferma contrarietà è poi espressa da C. in merito ad una previsione incondizionata di tale azione sindacale come diritto costituzionale. In un noto saggio del 1949, egli argomenterà la tesi che equipara il diritto di proclamare lo sciopero ad una vera e propria sovranità attribuita alle organizzazioni dei lavoratori. Un “potere di sottrarsi al diritto”, analogo a quello dello Stato nel dichiarare la guerra52. Nello stesso anno, Francesco Santoro-Passarelli individuava, invece, tale forma di lotta, nella sua eccezionalità, come l’extrema ratio – della dinamica rivendicativa, riconducendone la sua legittimazione e la sua portata entro i limiti della tutela dell’interesse professionale e nell’ambito dell’economia contrattuale53. Ma non bisogna, tuttavia, ritenere che la posizione critica di C. verso la previsione dello sciopero come diritto costituzionale fosse isolata, o che si identificasse unicamente con una sorta di pensiero reazionario, o legato a nostalgie di Stato autoritario. Si consideri che anche Calamandrei in quel suo fondamentale scritto del 195254 accennava ad una “remota analogia” della proclamazione di sciopero, con il potere statuale di dichiarare la guerra e, in verità, l’inserimento dello sciopero nella nostra Costituzione non avvenne de plano. Se si rilegge il fiorente dibattito dell’Assemblea costituente, si possono ritrovare, infatti, tutte le difficoltà di ricomprendere tale forma di azione collettiva tra le moderne Costituzioni democratiche. Come è noto, tra i nostri Padri costituenti, sul tema dello sciopero si rinnovarono le divergenze, tra la componente marxista e quella cattolica. Quest’ultima, infatti, sosteneva la non opportunità di inserire lo sciopero tra i diritti costituzionali del cittadino sul presupposto che tale soluzione avrebbe implicitamente, riconosciuto l’incapacità dello Stato di appianare le disuguaglianze sociali e tutelare i diritti dei lavoratori. Inoltre, avrebbe certificato la normale soggezione “all’influenza del capitalista”, tanto da arrivare a considerare tra i diritti costituzionali uno strumento di lotta così forte ed estremo solo per i lavoratori e non anche analoghi mezzi di autotutela per la parte datoriale. Altrimenti, nel rispetto di

collettiva, Il Mulino, 1985. Carnelutti, Sciopero e giudizio, in RDP, I, 1949, 13. 53 F. Santoro-Passarelli, Autonomia collettiva, giurisdizione, diritto di sciopero (1949), in Id., Saggi di diritto civile, Jovene, 1961, 177. 54 Calamandrei, Il significato costituzionale del diritto di sciopero, in RGL, 1952, 226. 52

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Giovanni Pino

un principio di parità tra le parti sociali, si sarebbe dovuto introdurre accanto allo sciopero un analogo diritto di serrata per i datori di lavoro55. D’altro canto, qualche diffidenza verso un riconoscimento costituzionale del diritto di sciopero si poteva ritrovare anche in ambienti radicali del movimento operaio dell’epoca, che guardava a questo strumento di lotta come qualcosa di non riconducibile in una fattispecie normativa: un fatto agiuridico. Insomma, il timore che, come ci racconta Calamandrei sempre nel suo scritto del 195256, in seguito all’inserimento dello sciopero tra i diritti costituzionali, lo stesso sarebbe finito “addomesticato”, perdendo così la propria efficacia. D’altro canto, qualche anno prima un padre nobile del socialismo italiano, Filippo Turati, certamente condizionato dall’ala più massimalista e intransigente del suo partito, aveva considerato come una bestemmia giuridica la prospettiva che lo sciopero fosse giuridicamente regolato come un diritto57. Dunque, più che considerare ancora, in epoca costituzionale, lo sciopero come un delitto, C. più semplicemente si ricollegava ad una corrente di pensiero (come abbiamo visto ideologicamente trasversale) animata da serie perplessità a comprendere tale azione collettiva tra i diritti costituzionali. Qualora poi il contratto collettivo di diritto pubblico non avesse adempiuto alla sua funzione di pace, egli (da buon processualista) proponeva, come alternativa allo sciopero e come strumento di superamento del conflitto, un sistema di procedure e di arbitrato58. Anche su questa prospettiva procedimentale C. poteva contare su degli autorevoli interlocutori. Ad esempio, un Padre costituente, esponente della cultura socialista, Meuccio Ruini, in uno scritto del ‘53, ribadiva la necessità di un intervento dello Stato in materia di composizione dei conflitti, asserendo come la futura legge, attuativa dell’art. 40 della Costituzione, avrebbe dovuto subordinare la proclamazione dello sciopero all’espletamento di obblighi procedimentali (un tentativo obbligatorio di conciliazione), ovvero, in termini facoltativi, a forme di risoluzione di tipo arbitrale59. In fondo, in tale augurata prospettiva di C. (e di Ruini) si può ritrovare quella che sarebbe stata una futura tendenza dei moderni sistemi di relazioni industriali verso il consolidamento di consensuali regole procedimentali sul conflitto: individuare nella contrattazione collettiva non solo la predisposizione degli strumenti di amministrazione delle condizioni di lavoro, ma anche i sistemi di composizione delle controversie, in modo da canalizzare l’insorgere del conflitto in una rete di procedure per rimuoverne le cause. Una tendenza sviluppata nei modelli europei pluralisti di relazioni industriali e rispetto alla quale, invece, è stata rilevata una certa lacuna nel nostro sistema sindacale, tradizionalmente un po’ diffidente a recepire e istituzionalizzare tecniche di raffreddamento alternative allo sciopero60.

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Intervento di Amintore Fanfani nelle sedute del 23 e 24 ottobre, Atti della III Sottocommissione, 2316 ss. Calamandrei, Il significato costituzionale, op. cit., 233. 57 Pera, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, Feltrinelli, 1960, 159. 58 Romagnoli, Francesco Carnelutti giurista, op. cit., 381. 59 Ruini, L’organizzazione sindacale e il diritto di sciopero nella Costituzione, Giuffrè, 1953, 113. 60 Cella, Criteri di regolazione delle relazioni industriali italiane: le istituzioni deboli, in Lange, Regini (a cura di), Stato e regolazione sociale, Il Mulino, 205; Bordogna, La composizione delle controversie nelle altre esperienze di relazioni industriali pubblicata, in Newsletter Cgs, 2002, n. 1, 13. 56

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Lacuna in qualche modo colmata, con riferimento al settore dei servizi pubblici essenziali, dalla legge 146 del 1990 e successive modificazioni, nella quale gli istituti del raffreddamento e della conciliazione sono considerati, al pari delle prestazioni indispensabili, come misure necessarie a garantire il contemperamento/bilanciamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti costituzionali della persona.

7. La fase conclusiva del pensiero carneluttiano. Il mancato

confronto con il nuovo sviluppo del diritto del lavoro.

Anche se non particolarmente significativo sul piano dei contributi in materia di diritto sindacale e del lavoro, non si può non fare un breve cenno al periodo finale dell’elaborazione carneluttiana, che va dalla seconda metà degli anni ’50, fino alla scomparsa di C. avvenuta nel 1965. Un periodo che rivela, indubbiamente, un certo fascino per essere contrassegnato anche da certe disincantate riflessioni sul ruolo stesso del diritto e della norma, e sul loro limite. Non ci addentreremo in questa fase conclusiva del pensiero del nostro Autore, sicuramente, più intimista e rispetto alla quale bisognerebbe forse avere anche un approccio di tipo psicoanalitico, cosa che si porrebbe al di là del nostro modesto tentativo di rilettura di una parte della sua ricostruzione giuslavorista. In questo periodo conclusivo della sua elaborazione teorica, sembra quasi che C. si adoperi, in qualche modo, a riconsiderare parte della sua immagine di giurista positivo. Ciò si può ritrovare, innanzitutto, nelle sue asserzioni sulla relatività del diritto, del quale egli si definisce ormai semplicemente un interprete che, «se sa interpretare, rende trasparenti le parole altrui»61. Relatività anche della norma giuridica, «un’astrazione, non la realtà del diritto»62, ora più che mai considerata come un approdo finale delle sollecitazioni che provengono dal diritto vivente, il risultato dell’elaborazione di diversi dati e atti umani provenienti dall’esterno (non soltanto gli atti legislativi). «La norma giuridica in sé, o un complesso di norme, un codice ad es., è un pezzo del diritto, non tutto il diritto, cioè il diritto vivo, nella pienezza della sua vita …. un contratto, un delitto, un processo sono degli uomini, uno di fronte all’altro. Vuol dire che bisogna capire quegli uomini per capire il diritto»63. È una fase in cui C. si adopera anche verso un ridimensionamento dell’imperativismo statuale con il quale si era dovuto, necessariamente, misurare durante il fascismo (che riponeva nel potere statuale il fondamento della imperatività della norma giuridica). Non solo, egli sembra ormai guardare con un certo distacco (proprio lui che tanto vi aveva contribuito) allo stesso positivismo giuridico, lasciando trapelare anche un suo avvici-

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Carnelutti, I colloqui della sera, Edizioni Radio italiana, 1955, 14. Carnelutti, La missione del giurista, in Studi in memoria di L. Mossa, Cedam, 1961, 293. 63 Carnelutti, Matematica e diritto, in Id., Discorsi intorno al diritto, II, Cedam, 1961, 223. 62

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Giovanni Pino

namento al giusnaturalismo, del quale, comunque, non esiterà a mettere in evidenza la sua insufficienza64. Tuttavia, «bisogna rendersi conto degli eccessi del giusnaturalismo per comprendere gli eccessi del giuspositivismo. Il giuspositivismo è stato una reazione, anche sul piano del diritto. Ma come tutte le reazioni è andata al di là del segno»65. Il giurista, dunque, non può trascurare lo studio del diritto naturale, perché da esso dipendono quei giudizi di valore, senza i quali non si può spiegare non solo la formazione delle leggi, ma neanche la loro interpretazione, e la stessa giurisprudenza può essere “contenuta anche nella scienza dei filosofi e nella prassi dei pragmatici”66. È il periodo in cui C. rende esplicito il proprio distacco (probabilmente già consumato prima) da Vittorio Polacco, con il quale pur si era laureato e verso il quale mostrava gratitudine, ma che in fondo non aveva mai considerato come maestro, tanto che egli stesso non riconoscerà a Polacco, ma ad Angelo Sraffa (figura di intellettuale antifascista), il merito di averlo trattenuto agli studi, coinvolgendolo insieme a Cesare Vivante nell’esperienza della Rivista di diritto commerciale. Nella figura di Polacco, il nostro, finisce per identificare ormai quella figura di giurista dalla quale egli vuole invece affrancarsi: il civilista puro, per il quale era sufficiente solamente il codice, perché tutto ciò che è al di là della norma non deve contare67. C. dichiara, inoltre, la sua ammirazione per il filosofo del diritto Giuseppe Capograssi, al quale riconosce il merito (non certo di poco conto) di avergli fornito la chiave di lettura della sua esperienza giuridica68. Certamente Capograssi ha ben poco a che vedere con l’autoritarismo statuale (ancora di più di tipo fascista), basti pensare che, insieme a Santi Romano, fu tra i primi a teorizzare la crisi dell’autorità statale, in favore di una struttura plurale di ordinamenti giuridici come sistema che meglio riflette l’organizzazione della vita, intuendola e costruendola attraverso il diritto69. È in tale contesto che forse si consolida la ricostruzione metaforica di C. della “clinica del diritto”, concepita da C. come punto di osservazione di fatti concreti e di esperienza, ricambio tra realtà e pensiero. Come dice Romagnoli, le metafore della malattia e della cura sono sempre state care a Carnelutti70, e allora ecco la rappresentazione della clinica medica che cura il corpo e la clinica del diritto che cura le relazioni sociali71. Come possiamo allora collegare il nostro tema di indagine a questa fase del pensiero carneluttiano, peraltro, come si è detto, non prodiga di contributi giuslavoristici? Certamente ci si può interrogare sulla sorte dell’intera ricostruzione del diritto sindacale in termini pubblicistici, la quale sembrerebbe non reggere più di fronte alla riconsiderazione (e ridimensionamento) della funzione dirigista dello Stato e dello stesso positivismo

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Carnelutti, La morte del diritto, in Aa.Vv., La crisi del diritto, Cedam, 1953, 185. Carnelutti, La missione, op. cit., 295. 66 Carnelutti, Interpretazione di Capograssi, in Id., Discorsi intorno al diritto, III, Cedam, 1961, 184, ma già nella III edizione di Id., Teoria generale del diritto, 1951; Viola, Metodologia, teoria ed ideologia del diritto in F. Carnelutti, in RDP, 1967, 1, 12. 67 Carnelutti, Meditazione intorno al problema della scienza del diritto, in RDP, 1962, 373. 68 Carnelutti, Interpretazione di Capograssi, op. cit., 169. 69 Capograssi, L’ultimo libro di Santi Romano, in Id., Opere, vol. 5, Giuffrè, 1951, 240. 70 Romagnoli, Francesco Carnelutti, op. cit., 429. 71 Carnelutti, Mio fratello Daniele, Avviamento alla clinica (1943), ried. Giuffrè, 2006, 125. 65

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giuridico. Contestualmente, proprio in questa fase in cui C. sembra tornare a ribadire il ruolo del diritto vivente e della creazione di regole extra legem, si avverte la mancanza di un confronto con quel nuovo corso di studi giuslavoristici rivolti al rafforzamento del ruolo dell’autonomia collettiva e delle sue fonti extra-legislative. In particolare, si avverte la mancanza di un confronto con la ricostruzione dell’ordinamento intersindacale, elaborata da Gino Giugni proprio alla fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, come ordinamento autosufficiente, dotato di proprie fonti normative e autonomi strumenti sanzionatori, derivanti dall’autonomia collettiva, che interagisce con l’ordinamento giuridico statuale e che trasmette in quest’ultimo la propria produzione di regole72. Non sarebbe sicuramente stato privo di interesse un confronto del Carnelutti giuslavorista con l’ordinamento intersindacale come modello sociale giuridificato basato, diversamente dalla tradizionale dogmatica civilista, su «altri tipi di norme efficaci all’interno dell’ordinamento nazionale»73 e che si propone di «organizzare concettualmente, e secondo canoni aderenti al metodo giuridico, una realtà fenomenologica»74, ponendo a proprio fondamento, appunto, l’analisi dei fenomeni economici e sociali. Tale confronto, probabilmente sarebbe stata l’occasione per una rielaborazione (con nuovo senno) di quella antica intuizione di C., esternata in epoca corporativa, che il contratto collettivo è «un ibrido che ha il corpo del contratto e l’anima della legge»75. Ma C. è ormai in una fase speculativa che lo conduce quasi ad una forma di rancore nei confronti dello stesso diritto, da lui tanto amato «di un amore esclusivo» e che, come avrà modo di rivelare, lo ha «ricompensato rivelandogli le sue miserie»76. Non per questo egli rinnegherà l’amore per il diritto, dichiarando però di aver perso su di esso tutte le illusioni e individuando anzi in tale smisurato amore un limite alla propria cultura, fino a confidare che, in fondo, il diritto è fatto per i mediocri, perché «i buoni non ne hanno bisogno e i cattivi non ne hanno paura»77. Si possono forse sintetizzare queste considerazioni conclusive di C., in un messaggio da inoltrare ai giovani: amate il diritto, ma sappiate che esso non è tutto, è solo un segmento della conoscenza e che da solo, non calato e verificato nella realtà che lo circonda, è ancora meno.

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Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Giuffrè, 1960, 61; Id., L’evoluzione della contrattazione collettiva nelle industrie siderurgica e mineraria (1953-1963), Giuffrè, 1964; Id., Critica e rovesciamento dell’assetto contrattuale, in Problemi del movimento sindacale in Italia (1943-1973), in Annali della Fondazione G. Feltrinelli, Feltrinelli, 1976. 73 Ghera, Il contratto collettivo tra natura negoziale e di fonte normativa, in RIDL, 2012, I, 197; Id., Gino Giugni e il metodo giuridico, in DLRI, 2007, 268. 74 Giugni, Introduzione, op. cit., 1960, 10-20. 75 Carnelutti, Funzione del processo del lavoro, Rivista di Diritto Privato, 1930, 116. 76 Carnelutti, Lettera agli amici, in Rivista di diritto privato, 1965, 1 – 3. 77 Carnelutti, La morte del diritto, op. cit., 190.

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Maria Lavinia Buconi

La mobilità verticale nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c. Sommario : 1. Le mansioni e il principio della contrattualità. – 2. Le mansioni inferiori nella vigenza del vecchio testo dell’art. 2103 c.c. – 3. Le mansioni inferiori nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c.; il secondo comma. – 4. Il quarto comma. – 5. Il sesto comma. – 6. Demansionamento e diritto transitorio. – 7. Demansionamento e repechage. – 8. Le mansioni superiori nel testo previgente. – 9. Le mansioni superiori nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c. – 10. Tutela della professionalità.

Sinossi. Il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., introdotto dall’art. 3 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ha profondamente inciso sulla disciplina della mobilità verticale, facendo salva in diverse ipotesi l’attribuzione di mansioni inferiori e modificando le condizioni per la promozione del lavoratore nel caso di attribuzione di mansioni superiori. Attraverso la disamina delle argomentazioni dottrinali e delle prime pronunce dei giudici di merito, il presente contributo si propone di affrontare le principali questioni interpretative della norma, anche in ordine ai profili di conformità alla delega e di connessione sistematica con le altre disposizioni sulla mobilità verticale tuttora vigenti nell’ordinamento, proponendo soluzioni ragionate. Abstract. The essay deals with the new wording of art. 2013 of the Italian civil code introduced by article 3 of Legislative Decree 81/2015 of 15 June 2015, which has amended the rules concerning the possibility to unilaterally assign the employee to duties different from the ones which he/she was hired for. In particular, the new wording, on the one hand, envisages the possibility to unilaterally assign the employee to duties included in the lower level of enrolment and, on the other hand, changes the rules concerning the promotion in case of assignment to higher duties. The essay, looking at both the case-law and the scholars debate, faces the main controversial issues in order to find out some solutions. Parole chiave: Art. 2103 c.c. – Mansioni – Mansioni superiori – Demansionamento – Repechage – Tutela della professionalità


Maria Lavinia Buconi

1. Le mansioni e il principio della contrattualità. Le mansioni individuano l’insieme dei compiti per l’espletamento dei quali il lavoratore è stato assunto e costituiscono l’oggetto della sua prestazione principale nell’ambito dell’obbligazione nascente dal contratto di lavoro. Considerato che il primo comma del nuovo testo dell’art. 2103 c.c.1 nella sua prima parte ricalca il vecchio testo2, deve ritenersi che il principio della contrattualità delle mansioni di cui all’art. 96 disp. att. c.p.c.3 non sia stato modificato. Nella riscrittura della norma, la locuzione: «a quelle corrispondenti alla categoria superiore» del vecchio testo è stata invece sostituita con l’espressione: «a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore». L’impiego del termine utilizzato nel nuovo testo è più corretto, ove si consideri che nella versione previgente dell’art. 2103 c.c. il termine “categoria” non era stato utilizzato nella stessa accezione di cui alla rubrica dell’art. 2095 c.c.4: il legislatore nel vecchio testo dell’art. 2103 c.c. non aveva inteso infatti riferirsi alla quadripartizione tra operai, impiegati, quadri e dirigenti, ma alla qualifica, al livello di inquadramento come raggruppamento omogeneo all’interno della categoria5. Dunque, se le mansioni costituiscono l’insieme delle attività demandate al lavoratore, la qualifica è il suo livello di inquadramento all’interno della categoria. Secondo il giudice di legittimità la prestazione del lavoratore subordinato non si configura soltanto come l’obbligazione principale che è tenuto ad eseguire, ma assurge a vero e proprio diritto di rango costituzionale: l’interesse del lavoratore all’adempimento è infatti tutelato dagli artt.2, 4 e 36 Cost.6.

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Introdotto dall’art. 3 d.lgs. n. 81/2015. Entrambe le disposizioni prevedono infatti che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto. 3 Secondo cui l’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell’assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto. A sua volta l’art. 1, comma 1, lett. f), d.lgs. 26 maggio 1997, n. 152, in attuazione della direttiva 91/533/CE prevede che il datore di lavoro pubblico e privato è tenuto a fornire al lavoratore, entro trenta giorni dalla data di assunzione, l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuitagli oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro. 4 Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli, 2015, 3, pone l’accento su alcune contaminazioni terminologiche: l’art. 3 l. 13 maggio 1985, n. 190 indica la categoria legale di “quadro” anche come qualifica, mentre l’art. 24 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 si riferisce al personale “con qualifica di dirigente”; sottolinea inoltre che il termine “qualifica” si riferisce anche alla prestazione lavorativa dedotta nel contratto, cioè all’insieme delle mansioni pattuite, individuate con riferimento ad una qualità del soggetto. Evidenzia altresì che i contratti collettivi distinguono le varie attività lavorative indicate come “qualifiche” raggruppandole per profili omogenei, ordinandole secondo il disposto dell’art. 96 disp. att. c.c. e stabilendo il corrispondente trattamento economico (i gradini di queste scale vengono denominati “categorie contrattuali”, “livelli di inquadramento” o “qualifiche”). 5 Ai sensi dell’art. 96 secondo comma disp. att. c.c. «Le qualifiche dei prestatori di lavoro, nell’ambito di ciascuna delle categorie indicate nell’art. 2095 del codice, possono essere stabilite e raggruppate per gradi secondo la loro importanza nell’ordinamento dell’impresa. Il prestatore di lavoro assume il grado gerarchico corrispondente alla qualifica e alle mansioni». 6 Secondo Cass., sez. un., 6 marzo 2009, n. 5454, in Giurisdiz. amm., 2009, III, 188 l’esercizio del potere datoriale privato di determinare unilateralmente il contenuto dell’obbligo della prestazione lavorativa è oggetto di un’obbligazione strumentale dello stesso datore di lavoro, tenuto a conformare la prestazione del lavoratore, il quale ha diritto a svolgerla; anche secondo Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755 in RIDL, 1999, II, 170 con nota di Pera, sul datore di lavoro gravano obblighi di cooperazione: il medesimo è infatti tenuto a predisporre gli strumenti materiali necessari al prestatore per l’esecuzione del lavoro. 2

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La mobilità verticale nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c.

Ciò premesso, le mansioni espletate dal lavoratore all’inizio del rapporto sono quelle di fatto svolte all’epoca dell’assunzione7, e non necessariamente coincidono con quelle successivamente disimpegnate dal lavoratore. Il potere datoriale di modificare le mansioni attribuite al lavoratore nel corso del rapporto di lavoro (potere conformativo) costituisce espressione del suo potere direttivo, e può essere esercitato alle condizioni e con i limiti previsti dallo stesso art. 2103 c.c.

2. Le mansioni inferiori nella vigenza del vecchio testo dell’art. 2103 c.c.

Il vecchio testo dell’art. 2103 c.c., nel prevedere che il lavoratore doveva essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che avesse successivamente acquisito, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, vietava indirettamente qualunque tipo di demansionamento. Anche se non sono mancate pronunce nel senso del divieto assoluto di adibizione a mansioni inferiori8, la giurisprudenza di legittimità aveva ravvisato dei limiti a tale divieto, individuandoli nello svolgimento di mansioni marginali o accessorie9, ed aveva ritenuto che il lavoratore potesse essere adibito a mansioni inferiori se tale attribuzione fosse avvenuta a suo favore (ad esempio per evitare un licenziamento)10. Inoltre, in caso di sopravvenuta incapacità psico-fisica del lavoratore a svolgere le mansioni originarie, secondo un primo orientamento il datore di lavoro non è obbligato ad assegnare al

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In una fattispecie in cui al lavoratore era stata attribuita in via meramente convenzionale una qualifica superiore a quella corrispondente alle mansioni di fatto assegnate, Trib. Roma, 15 dicembre 2016, n. 10880, inedita a quanto consta, ha affermato che tale attribuzione è lecita, ma che il livello contrattuale assegnato non può assurgere a parametro per l’equivalenza delle mansioni successivamente attribuite, in quanto il lavoratore si era trovato, per definizione, a svolgere mansioni inferiori rispetto alla qualifica rivestita. 8 In questo senso Cass., 26 gennaio 1984, n. 624, in RIDL, 1985, II, 504, secondo cui l’art. 2103 c.c. dispone il divieto di destinazione del dipendente a mansioni inferiori a quelle precedentemente svolte indipendentemente dall’eventuale acquiescenza del lavoratore o dalla stessa richiesta del medesimo, non consentendo deroghe neppure nell’ipotesi in cui la sua applicazione possa risolversi in un pregiudizio per il lavoratore, avendo il legislatore adottato uno strumento di tutela rigido che opera in tutte le direzioni e può, quindi, in condizioni particolari, comportare anche un sacrificio per il prestatore di lavoro. 9 In particolare, secondo Cass., 10 giugno 2004, n. 11045, in FI on-line, una volta che l’attività prevalente e assorbente del lavoratore rientra fra le mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza, non viola i limiti esterni dello jus variandi del datore di lavoro (né frustra la funzione di tutela della professionalità) l’adibizione del lavoratore stesso a mansioni inferiori, accessorie rispetto alle prime, massimamente quando esse risultino funzionali alla tutela della sicurezza e della salubrità dell’ambiente di lavoro. 10 Secondo Cass., 19 novembre 2015, n. 23698, in FI on-line, l’art. 2103 c.c. si interpreta alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente con quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la “ratio” di numerosi interventi normativi, quali l’art. 7, comma 5, del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, l’art. 1, comma 7, della l. 12 marzo 1999 n. 68, l’art. 4, comma 11, della l. 23 luglio 1991 n. 223, sicché, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, non è necessario un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso, anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale.

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lavoratore mansioni compatibili11, mentre secondo altra impostazione, bisogna distinguere a seconda che la sopravvenuta impossibilità della prestazione sia imputabile o meno al lavoratore12. In generale, anche con riferimento ad altre ipotesi di sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa per fatto non imputabile al lavoratore la Suprema Corte ha ritenuto che, ai fini della legittimità del licenziamento, si debba anche verificare la possibilità di utilizzare il dipendente in mansioni diverse, almeno equivalenti a quelle originarie, senza, però, che il datore di lavoro sia tenuto a modificare l’assetto aziendale13. Diverse pronunce hanno inoltre riconosciuto la legittimità dell’assegnazione di mansioni inferiori ai dipendenti in servizio in occasione di uno sciopero in sostituzione degli scioperanti, ove non risultino violate norme poste a tutela delle situazioni soggettive dei lavoratori14. Nella vigenza del vecchio testo dell’art. 2103 c.c., il giudice di legittimità ha affermato che, ai fini della verifica della dequalificazione professionale, dovesse essere esaminato il rapporto tra i compiti svolti dai lavoratori di qualifica superiore o interinali in servizio durante lo sciopero e le funzioni da loro usualmente espletate, anche se corrispondenti a quelle di livello inferiore, in situazioni che comportano la eccezionale legittimità di tale adibizione, dovendosi accertare se l’assegnazione dei dipendenti a mansioni inferiori fosse avvenuta eccezionalmente, mar-

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Ma solo a far valere quale titolo del proprio recesso, eventualmente sottoponendo il dipendente ad adeguato accertamento sanitario, l’impossibilità della prestazione per inidoneità fisica, alla stregua della generale disciplina codicistica, in relazione alla quale il difetto di interesse alla prosecuzione del rapporto va valutato in base ai criteri previsti per la configurazione del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, restando peraltro esclusa l’ammissibilità, in linea generale, di un obbligo di adibire il dipendente ad altre mansioni: Cass., 20 marzo 1992, n. 3517, in MGL, 1992, 210. In materia di pubblico impiego privatizzato, la sopravvenuta e permanente inidoneità psicofisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnate non determina una risoluzione automatica del rapporto di lavoro, ma costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ove lo stesso non possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse; l’art. 55 octies del d.lgs. n. 165/2001 attribuisce infatti all’amministrazione un diritto potestativo di recesso che le consente in ogni caso di valutare la correttezza del procedimento attraverso il quale la valutazione medica è stata acquisita, l’adeguatezza delle mansioni addotte, l’opportunità di un’ulteriore integrazione o approfondimento. 12 Secondo Cass., 3 febbraio 1992, n. 1115, inedita a quanto consta, il datore di lavoro recedente ha l’onere di provare di non aver potuto adibire il lavoratore ad altro posto nell’azienda, anche con mutamento di mansioni, solo quando l’impedimento del lavoratore a svolgere le mansioni cui era addetto non sia addebitabile al lavoratore; ma si vedano Cass., 15 novembre 2002, n. 16141, in RIDL, 2003, II, 824, con nota di Muggia e Cass., 6 novembre 2002, n. 15593, GC, 2003, I, 2178, secondo le quali in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l’impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell’attività svolta dal prestatore di lavoro, potendo essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività riconducibile, alla stregua dell’interpretazione del contratto secondo buona fede, alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti, o, in caso di impossibilità, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore. 13 Con riferimento all’ipotesi di temporaneo ritiro ad un dipendente aeroportuale del tesserino di accesso agli spazi doganali dove si svolge la prestazione lavorativa, Cass., 25 agosto 1993, n. 8947, inedita a quanto consta, e Cass., 14 dicembre 2016, n. 25741, in FI on-line, hanno comunque chiarito che l’inidoneità sopravvenuta alle mansioni assegnategli ricorre quando il lavoratore non può continuare a svolgerle senza porre in pericolo la propria salute, mentre l’inutilità della prestazione presuppone l’idoneità fisica del lavoratore ed è fondata sul rendimento inferiore allo standard minimo richiesto. 14 Cass., 26 settembre 2007, n. 20164, in NGL, 2007, 507 ha escluso l’antisindacalità della condotta datoriale evidenziando che il diritto di iniziativa economica dell’imprenditore, costituzionalmente garantito dall’art. 41 Cost. persiste anche in occasione di uno sciopero indetto dai lavoratori e dalle organizzazioni sindacali, nell’esercizio di un diritto avente anch’esso rango costituzionale (art. 40 Cost ) e che pertanto, nella logica di un necessario bilanciamento, il diritto di sciopero non può ritenersi leso quando il diritto di continuare l’attività produttiva sia esercitato, per limitare gli effetti negativi dell’astensione dal lavoro sulla situazione economica dell’azienda, con l’assegnazione ad altri dipendenti dei compiti degli scioperanti, qualora non risultino violate norme poste a tutela delle situazioni soggettive dei lavoratori; si veda anche Cass., 3 giugno 2009, n. 12811, NGL, 2009, 413.

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ginalmente, e per specifiche e obiettive esigenze aziendali (non configurandosi in tal caso alcuna violazione dell’art. 2103 c.c.), e l’utilizzazione dei medesimi avesse rispettato o meno la programmazione prevista anteriormente alla proclamazione dello sciopero nella misura corrispondente alle concrete esigenze produttive e organizzative dell’azienda15. Tra i casi in cui è stata ritenuta la legittimità dell’attribuzione di mansioni inferiori in quanto di miglior favore per il lavoratore, figurano la crisi aziendale, la necessità di acquisire una più ampia professionalità16, la sopravvenuta inabilità del lavoratore , le improrogabili esigenze aziendali17 e la necessità di evitare un licenziamento collettivo o per giustificato motivo oggettivo18, tanto che in alcune ipotesi la mancata offerta di mansioni inferiori in alternativa alla soppressione del posto è stata ritenuta idonea a determinare l’illegittimità del licenziamento. È stata inoltre affermata la legittimità dell’assegnazione a mansioni inferiori, se disposta per realizzare un equilibrio tra il diritto del datore di lavoro ad una gestione razionale ed efficiente delle risorse ed il diritto al posto di lavoro19; è stato inoltre ritenuto legittimo il patto di assegnazione a mansioni inferiori per evitare il licenziamento20. Alcune disposizioni successive alla formulazione dell’art. 2103 c.c. hanno poi sancito espressamente la legittimità del demansionamento in specifiche ipotesi e sempre per consentire al lavoratore di conservare il posto di lavoro: l’art. 4 comma 4 della l. n. 68/99 ha previsto che per i lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia, l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori (e in questo secondo caso hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza), mentre l’art. 42 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 ha stabilito che il datore di lavoro attua le misure indicate dal medico competente e qualora queste

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In questo senso Cass., 16 dicembre 2009, n. 26368, in FI, 2010, I, 883. Cass., 1 marzo 2001, n. 2948 e Cass., 12 luglio 2002, n. 10187, in RIDL, 2003, II, 53, con nota di Casciano hanno escluso la violazione dell’art. 1460 c.c. da parte di un datore di lavoro che aveva temporaneamente adibito il lavoratore a diverse mansioni, seppure non strettamente equivalenti a quelle di appartenenza, nella prima fattispecie al fine dell’acquisizione di una più ampia professionalità e nella seconda per improrogabili esigenze aziendali, ravvisando in entrambi i casi la sussistenza di una giusta causa di recesso. 17 Cass., 12 luglio 2002, n. 10187, cit. 18 Secondo Cass., 18 marzo 2009, n. 6552, in GC, 2010, I, 430, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovuto a soppressione del reparto cui sono addetti i lavoratori licenziati, la verifica della possibilità di repechage va effettuata non solo con riferimento a mansioni equivalenti, ma anche a mansioni inferiori, se i lavoratori hanno accettato mansioni inferiori al fine di evitare il licenziamento (in tale caso il patto di demansionamento deve essere anteriore o coevo al licenziamento), mentre Cass., 13 agosto 2008, n. 21579, cit., ha affermato che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro che adduca a fondamento del proprio recesso la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di avere prospettato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, purché tali mansioni siano compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore. Cass., 8 marzo 2016, n. 4509, in NGL, 2016, 421, ha escluso che il lavoratore abbia l’onere di manifestare la volontà di stipulare un patto di demansionamento. 19 Nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti l’esternalizzazione dei servizi o la loro riduzione a seguito di processi di riconversione o ristrutturazione aziendali, Cass., 5 aprile 2007, n. 8596, GC, 2007, I, 21 richiamando Cass., sez. un., 24 novembre 2006, n. 25033, in LPO, 2006, 1374, ha ritenuto che l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle precedentemente svolte, restando immutato il livello retributivo, non si pone in contrasto con il dettato codicistico, se rappresenta l’unica alternativa praticabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. 20 Cass., 1 luglio 2014, n. 14944, in NGL, 2015, 131. 16

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prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione (dunque, anche inferiore) compatibile con il suo stato di salute. Inoltre, l’art. 4 comma 11 della l. n. 223/91, nell’ambito di un licenziamento collettivo, ha previsto la possibilità di un accordo sindacale che consenta l’assegnazione dei lavoratori a mansioni diverse, anche inferiori, al fine di evitare il licenziamento, mentre l’art. 7 comma 5 d.lgs. n. 151/2001 ha stabilito che la lavoratrice madre adibita a mansioni inferiori a quelle abituali (in osservanza del divieto di adibirla al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi e insalubri di cui all’art. 5 del d.p.r. 25 novembre 1976, n. 1026 e di cui al comma 2 dello stesso art. 7), conserva la retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica originaria. La ratio di tali disposizioni, tuttora vigenti, è quella di tutelare specifiche categorie lavoratori che si trovano in una situazione di particolare svantaggio: la deroga espressa al divieto di cui all’art. 2103 c.c. è dunque prevista in tali ipotesi per proteggerli da un pregiudizio ritenuto più grave, come un danno alla salute, anche solo in termini di aggravamento, o la perdita del posto di lavoro.

3. Le mansioni inferiori nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c.; il

secondo comma.

Il nuovo testo dell’art. 2103, secondo comma, c.c. prevede un’ipotesi generale nella quale è ammessa l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori (la modifica di assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore); la norma consente dunque il demansionamento di un solo livello, purché rientrante nella medesima categoria contrattuale. Tale disposizione ha consentito di superare le incertezze interpretative suscitate dallo schema del decreto legislativo, che non menzionava le categorie contrattuali: ha in particolare chiarito che il demansionamento di un livello non può comportare l’attribuzione al lavoratore di mansioni proprie di un’altra categoria contrattuale (ad esempio, da quadro ad impiegato). Anche se le previsioni contenute nello schema di decreto legislativo non sembravano riferite al rapporto tra le mansioni di dirigente e quelle di quadro, avendo i dirigenti un contratto collettivo a parte (ragione per la quale il concetto di “livello inferiore” mal si attaglia al rapporto tra le mansioni di quadro rispetto a quelle di dirigente, previste da contratti collettivi diversi), la questione era rimasta aperta in ordine al rapporto tra le altre categorie contrattuali; la formulazione della norma nello schema di decreto legislativo faceva comunque propendere per la legittimità dell’attribuzione di mansioni impiegatizie ad un quadro e di mansioni di operaio ad un impiegato, se l’abbassamento di un livello avesse comportato anche un mutamento di categoria. Era stato comunque osservato che tra operaio e impiegato non sussiste superiorità o inferiorità, in classificazione paritaria21; tale rilievo rimane pertinente anche in relazione

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Miscione, Jobs Act: Le mansioni e la loro modificazione, in LG, 5, 2015, 442.

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al testo definitivo della norma; tuttavia il riferimento espresso alla categoria contrattuale porta ad escludere che, anche in caso di classificazione paritaria (quando cioè il contratto collettivo preveda i medesimi livelli per entrambe le categorie) sia possibile attribuire ad un impiegato mansioni proprie di un operaio. Dalla formulazione definitiva della norma sembra inoltre derivare che, ove il lavoratore sia stato inquadrato nel livello più basso che il CCNL prevede per una determinata categoria, non è consentito il demansionamento in base al secondo comma dell’art. 2103 c.c. nuovo testo. Il concetto di “modifica degli assetti organizzativi aziendali”, pur non essendo totalmente sovrapponibile a quello di “ processi di riorganizzazione, ristrutturazione e conversione aziendale” di cui all’art. 1, comma 7, lett. e) della l. 10 dicembre 2014, n. 18322, costituisce un minus rispetto al medesimo, al quale risulta riconducibile, ed è quindi senz’altro conforme alla delega; risulta tuttavia del tutto omesso, nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c., il riferimento ai “parametri oggettivi” sulla base dei quali la legge delega consente di individuare i processi organizzativi di modifica aziendale ai fini del mutamento in peius, nonché il riferimento al contemperamento dell’interesse dell’impresa con l’interesse del lavoratore23. È stato tuttavia evidenziato che il legislatore delegato ha esteso il medesimo concetto espresso dal legislatore delegante24; è stata pertanto proposta una lettura costituzionalmente orientata della norma, volta al contemperamento dell’interesse all’utile impiego del lavoratore con quello della tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche del lavoratore, indicati nella legge delega25. Comunque, in base ai principi generali in materia di ripartizione degli oneri probatori, stante il disposto dell’art. 2697 c.c., il datore di lavoro avrà l’onere di dimostrare sia la modifica degli assetti organizzativi aziendali, sia il nesso causale tra la suddetta modifica e i riflessi sulla posizione del lavoratore. Ciò che rileva è infatti non solo l’effettività della modifica degli assetti organizzativi aziendali, ma anche la sua incidenza sulla posizione del lavoratore: non tutte le modifiche organizzative sono idonee a giustificare il demansionamento, ma solo quelle con una rica-

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L’art. 1, comma 7, lett. e) della l. n. 183 del 2014 detta il seguente criterio direttivo: «revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento; previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte ai sensi della presente lettera». Amendola, La disciplina delle mansioni nel d.lgs. n. 81 del 2015, in WP D’Antona, It. n. 291/2016, 6 evidenzia che il legislatore delegato ha revisionato (anche) la disciplina della mobilità verticale svincolandola da processi di riorganizzazione, ristrutturazione e conversione aziendale. 23 La considerazione è di Amendola, op. cit., 6 ss.; nel senso dell’eccesso di delega anche Zoli, La disciplina delle mansioni, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Giappichelli, 2015, 13. 24 In questa prospettiva Celentano, Problemi di legittimità costituzionale del nuovo art. 2103 c.c., in Piccinini, Pileggi, Sordi (a cura di), La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, IED, 2016, 45, il quale evidenzia il meccanismo di inversione del procedimento legislativo con cui il legislatore anziché specificare il concetto, lo ha esteso. 25 Celentano, op. cit., ibidem, ricorda altresì che secondo il giudice delle leggi è compatibile con l’art. 76 Cost. l’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, che la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, e che le funzioni del legislatore delegato non sono limitate ad una mera scansione linguistica delle previsioni del legislatore delegante. Amendola, op. cit., 6, propende per la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.

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duta concreta sulle mansioni svolte dal lavoratore26 (ad esempio le ipotesi di soppressione del posto di lavoro o di mansioni corrispondenti, ma sembra rientrare nella previsione della norma anche una complessiva redistribuzione delle mansioni, avvenuta a fronte di una modifica globale degli assetti organizzativi aziendali che renda più conveniente ed opportuno per il datore di lavoro adibire il lavoratore a mansioni inferiori al suo livello di inquadramento nell’ambito della stessa categoria). Spetterà dunque al giudice il compito di verificare la sussistenza effettiva della modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, ma gli sarà preclusa ogni valutazione sull’opportunità di tale modifica (analogamente a quanto accade nel caso in cui debba verificare la sussistenza delle comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive poste a fondamento di un trasferimento o delle ragioni economiche su cui si fonda un determinato licenziamento per giustificato motivo oggettivo). Il sindacato del giudice è dunque limitato alla corrispondenza delle mansioni svolte rispetto al livello di inquadramento e all’effettività della modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore. Va comunque evidenziato che il lavoratore conserva in questa ipotesi il livello di inquadramento ed il trattamento economico in godimento27. La norma legittima la perdita degli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa (e dunque quelle indennità legate al luogo di svolgimento della prestazione, se le mansioni precedenti prevedevano trasferte o servizi all’estero, o al tempo di svolgimento della prestazione, se ad esempio le mansioni precedenti prevedevano il lavoro straordinario o notturno, o, infine, a particolari responsabilità derivanti dallo svolgimento della prestazione, come il maneggio di denaro o la chiusura della cassa; non sembra invece che la norma si riferisca ad indennità legate alla funzione in quanto tale), rendendo in tali ipotesi particolarmente vantaggioso il demansionamento per il datore di lavoro.

4. Il quarto comma. Il quarto comma del nuovo art. 2103 c.c. prevede ulteriori ipotesi nelle quali è legittima l’attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori: la previsione da parte dei contratti collettivi, sempre che il demansionamento sia di un solo livello nell’ambito della stessa categoria legale.

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Mimmo, Mansioni, la riscrittura di uno dei capisaldi del diritto del lavoro, in Contratti e mansioni, luglio 2015, 20, ipotizza che il presupposto di tale modifica sia l’impossibilità per il datore di lavoro di continuare a far svolgere al prestatore le mansioni assegnate, ad esempio nel caso in cui dal riassetto derivi la soppressione del posto di lavoro. 27 Miscione, op. cit., 443 ritiene pertanto che tale disposizione possa costituire un deterrente al demansionamento ivi previsto.

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La contrattazione collettiva può dunque consentire il demansionamento, a prescindere dalla modifica di assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore, e sempre con il limite invalicabile della categoria di appartenenza28. La dilatazione delle ipotesi in cui è consentito il demansionamento di un livello (previsione, questa, sfavorevole al lavoratore) trova il suo bilanciamento nella previsione collettiva in forza delle valutazioni effettuate dalle OO.SS. competenti. Le disposizioni previgenti che consentono alla contrattazione collettiva di derogare in parte qua alla disciplina codicistica (l’art. 4 comma 1 1 l. n. 223/91, il quale prevede che gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure per la dichiarazione di mobilità che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori eccedenti possono stabilire la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte anche in deroga all’art. 2103 c.c., nonché l’art. 8, comma 2, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, secondo cui i contratti collettivi aziendali e territoriali, se sottoscritti da determinate organizzazioni sindacali e finalizzate a certi obiettivi, possono regolare mansioni, classificazione e inquadramento dei lavoratori anche in deroga alle disposizioni di legge che regolano la materia) non possono ritenersi abrogate dal nuovo testo dell’art. 2103 c.c. Infatti, mentre l’ampia deroga erga omnes prevista dalla norma del 2011 è condizionata tanto a vincoli di scopo quanto a requisiti di rappresentatività delle parti sindacali stipulanti, quella prevista nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c. riguarda uno specifico e circoscritto tipo di intervento, senza richiedere il perseguimento di obiettivi generali, né il rispetto di un criterio maggioritario in sede di conclusione del contratto collettivo29; a sua volta, l’art. 4 della l. n. 223/91 costituisce un segmento della più generale fattispecie costituita dalla procedura di mobilità, distinta e autonoma da quella del demansionamento30.

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Celentano, op. cit., 48 dubita che la contrattazione collettiva possa operare ad di fuori della necessità di contemperare «l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche», quale contesto valutativo negoziale di riferimento; ritiene pertanto che alla contrattazione collettiva non sia consentito di prescindere dai limiti causali imposti; evidenzia peraltro che solo questa lettura sembra contemperare l’autonomia collettiva con l’effettività del controllo giurisdizionale. 29 Si è pronunciato in questo senso Trib. Roma, 25 maggio 2017, n. 5006, inedita a quanto consta. 30 Questa la tesi di Sordi, Il nuovo art. 2103 c.c.. prime questioni interpretative, Relazione al Corso della SSM a Scandicci in data 25 ottobre 2016, 14 ss. in www.scuolamagistratura.it; in una prospettiva analoga Zoli, op. cit., 355; Gargiulo, Lo jus variandi nel “nuovo” art. 2103 cod. civ., in WP D’Antona, It. n. 308/2016, 20; Speziale, Le politiche del lavoro del Governo Renzi: il Jobs Act e la riforma dei contratti e di altre discipline del rapporto di lavoro, in WP D’Antona, It., n. 233/2014, 37. In favore dell’opposta tesi dell’abrogazione G. Santoro-Passarelli, Diritto dei lavori e dell’occupazione, Giappichelli, 2015, 256; Falsone, Jus Variandi e ruolo della contrattazione collettiva, in WP D’Antona, It., n. 308/2016, 13. Secondo Gramano, La riforma della disciplina dello jus variandi, in Zilio Grandi e Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Cedam, 2015, 537, la deroga all’art. 2103 c.c. di cui all’art. 8 del d.l. n. 138/2011 con il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. ha perso la sua ragion d’essere; in termini problematici Brollo, Disciplina delle mansioni (art. 3), in F. Carinci (a cura di), Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, ADAPT University Press, 2015, 75.

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5. Il sesto comma. Tale disposizione consente al datore di lavoro e al lavoratore di accordarsi in una sede protetta ex art. 2113 c.c.31 o innanzi alle commissioni di certificazione, prevedendo un demansionamento anche per più di un livello32, al di fuori della categoria legale e con abbassamento della retribuzione, nell’interesse del lavoratore, per uno dei fini espressamente indicati (mantenimento dell’occupazione, acquisizione di una diversa professionalità e miglioramento delle condizioni di vita). Ancorché il patto di demansionamento possa considerarsi un coerente sviluppo della legge delega, in dottrina è stato affermato che la disposizione di cui al sesto comma del nuovo art. 2103 c.c. è viziata da eccesso di delega, sia per l’assenza dei vincoli causali di cui all’art. 1 comma 7 lett. e) l. n. 183/2014, sia per la mancata previsione dell’intervento della contrattazione collettiva33. Tuttavia si tratta per lo più di ipotesi già individuate a livello giurisprudenziale nella vigenza del vecchio testo dell’art. 2103 c.c. (in particolare, quelle relative al mantenimento dell’occupazione e all’acquisizione di una diversa professionalità) e recepite dal nuovo testo; inoltre la stipula degli accordi in sede protetta costituisce un’idonea garanzia della genuinità della volontà del lavoratore, funzionale al contemperamento dell’interesse dell’impresa con quello del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, alla professionalità e alle sue condizioni di vita ed economiche La formulazione letterale della norma previgente depone per l’inderogabilità bilaterale della norma, sia con riferimento alle pattuizioni peggiorative che quelle migliorative per il lavoratore; sembra tuttavia preferibile l’interpretazione secondo cui, non sussistendo un pubblico interesse da tutelare, l’inderogabilità avrebbe riguardato solo le pattuizioni peggiorative; anche la giurisprudenza di legittimità si era infatti attestata sull’orientamento secondo cui con il consenso del lavoratore fosse legittimo il demansionamento, al fine di evitare il licenziamento o fatti ad esso prodromici34. Poiché la norma si riferiva genericamente ai “patti”, era stato comunque ritenuto che la nullità colpisse anche le relative clausole dei contratti collettivi35; ciò si desumeva in positivo dall’art. 40 della l. 20 maggio 1970, n. 300, il quale fa salve le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali solo se più favorevoli ai lavoratori e, a contrario, dal carattere

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Stante il riferimento all’art. 2113 c.c., le sedi abilitate sono quelle previste dall’art. 185 c.p.c., dagli artt. 410 e 411 c.p.c., dagli artt. 412-ter e 412-quater c.p.c., e dunque rispettivamente la sede giudiziale, le Direzioni Territoriali del Lavoro, le sedi previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative, nonché il collegio di conciliazione e di arbitrato irrituale. 32 Secondo Mimmo, op. cit., 22, anche se la formulazione del sesto comma sembra consentire un accordo tra le parti riguardante l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori senza il riconoscimento del relativo trattamento retributivo, tale interpretazione deve ritenersi preclusa dall’art. 36 della Costituzione. 33 In questo senso Celentano, op. cit., 49. 34 Come il collocamento in Cassa Integrazione Guadagni: Cass., 18 ottobre 1999, n. 11727 in MGL, 1999, 1361, o il trasferimento del lavoratore presso una sede ubicata a notevole distanza da quella precedentemente occupata: Cass., 6 ottobre 2015, n. 19930, inedita a quanto consta. 35 Cass., sez. un., 24 novembre 2006. n. 25033, cit.

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eccezionale delle disposizioni di cui all’art. 4 comma 11 l. n. 223/91, dell’art. 4 comma 4 della l. n. 68/1999, dell’art. 42 del d.lgs. n. 81/2008 e dall’art. 7 comma 5 d.lgs. n. 151/2001. I riferimenti all’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione e all’acquisizione di una diversa professionalità sembrano sufficientemente esaustivi, a differenza di quello relativo al miglioramento delle condizioni di vita (categoria che, in assenza di ulteriori specificazioni, rimane più sfumata e generica); sarà comunque necessario, ai fini del controllo dell’organo amministrativo (e dell’organo giudiziario, in caso di controversia) che le parti in sede protetta diano contezza dello specifico interesse del lavoratore al demansionamento, ed in particolare delle ragioni per le quali il lavoratore rischia di perdere l’occupazione o per le quali vuole acquisire la diversa professionalità, ovvero il profilo sotto il quale il demansionamento determina un miglioramento delle sue condizioni di vita36. La norma non precisa quali siano i poteri dell’organo innanzi al quale si svolge la procedura conciliativa; va ad esempio verificato se l’organo terzo si può rifiutare di sottoscrivere l’accordo ove non riscontri la sussistenza in capo al lavoratore del suo interesse al demansionamento. La garanzia di un’assistenza effettiva richiesta dalla giurisprudenza di legittimità37 sembra comportare la necessità, in tutte le transazioni sottoscritte in sede protetta, che l’organo preposto (il quale ha una connotazione pubblicistica) spieghi al lavoratore le conseguenze che scaturiscono dalla sottoscrizione; si deve pertanto propendere per la tesi positiva. Una garanzia comune a tutte le ipotesi di demansionamento legittimo previste dal nuovo art. 2103 c.c. è comunque la previsione della forma scritta, a pena di nullità. A fronte della dilatazione dello spettro delle mansioni esigibili in verticale, e tenuto conto altresì del rilievo della volontà del lavoratore sia in ordine all’acquisizione della qualifica superiore, sia in ordine alla modifica della categoria legale e del livello di inquadramento quanto al demansionamento, rimane da verificare l’effettivo ambito di operatività del comma 7, il quale prevede la nullità di ogni patto contrario38. Fermo restando il rilievo della disposizione in ordine ai trasferimenti, la nullità di patti contrari stipulati dopo il 25 giugno 201539 sembra riferita a mutamenti di livello e di categoria che non siano avvenuti in sede protetta nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita, quanto alle ipotesi previste dal sesto comma.

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Secondo Mimmo, op. cit., 21 l’interesse del lavoratore ad acquisire una diversa professionalità ovvero al miglioramento delle condizioni di vita devono essere collegati ad una richiesta di mutamento delle mansioni o di inquadramento fatta dal prestatore, dovendo corrispondere il mutamento di mansioni ad un’esigenza personale manifestata dal lavoratore. D’Ancona, Mansioni del lavoratore e tutela “flessibile” nel disegno del Jobs Act, in www.questionegiustizia.it ritiene che l’accordo dovrà fare riferimento ad una situazione concreta in cui il recesso datoriale sia inevitabile, a meno di ricorrere al demansionamento. 37 Cass., 3 settembre 2003, n. 12858, NGL, 2004, 259; Cass., 22 maggio 2008, n. 13217, in MGL, 2009, 77, con nota di Battista, e Cass., 23 ottobre 2013, n. 24024, in FI, 2014, I, 101. 38 Pileggi, L’assegnazione a mansioni inferiori, Piccinini, Pileggi, Sordi (a cura di), op. cit., 77 dubita della rilevanza della norma in ordine al mutamento di mansioni. 39 Sordi, op. cit., 10, osserva che in base al principio tempus regit actum, la nuova disciplina non è applicabile ai patti stipulati in epoca anteriore al 25 giugno 2015.

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6. Demansionamento e diritto transitorio. Quid juris nel caso in cui il lavoratore sia stato adibito dal datore di lavoro a mansioni non equivalenti, ma di pari livello, e tale adibizione, iniziata prima del 25 giugno 2017, si sia protratta dopo tale data? Dalla formulazione dell’art. 2103 c.c. nel testo previgente deriva la configurabilità di un demansionamento nel caso di adibizione a mansioni non equivalenti, ancorché ricomprese nello stesso livello professionale, mentre ai sensi del nuovo testo dell’art. 2103 c.c. la corrispondenza tra le mansioni svolte e quelle del livello professionale di appartenenza esclude il demansionamento. Sono state prospettate due contrapposte soluzioni: il Tribunale Roma, con sentenza n.8195 del 30 settembre 201540, qualificando la fattispecie in termini illecito permanente, ha affermato che il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. si applica anche ai demansionamenti iniziati in epoca anteriore al 25 giugno 2015; ha dunque ritenuto che la prosecuzione dopo il 25 giugno 2015 dell’adibizione del lavoratore a mansioni non equivalenti, ma di pari livello, sia legittima (essendo astrattamente configurabile un demansionamento solo per il periodo anteriore). La valutazione sulla legittimità della condotta datoriale è stata dunque effettuata con riferimento alla disciplina legislativa e contrattuale vigente giorno per giorno, con la conseguenza che l’assegnazione di determinate mansioni, illegittima in un determinato momento in base alla normativa vigente ratione temporis, può diventare legittima in un momento successivo in base a diverse disposizioni. Il Tribunale di Ravenna, con sentenza n.174/201541 emessa in pari data, ha invece affermato che il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. non trova applicazione ai demansionamenti generati nel vigore della disciplina precedente, in quanto, assurgendo i medesimi a fatto costitutivo del diritto del prestatore, vanno valutati alla stregua della legge vigente nel momento in cui sono stati posti in essere. La prima tesi appare preferibile, in considerazione del significativo riscontro contenuto nelle pronunce della giurisprudenza di legittimità in tema di giurisdizione nelle controversie relative a demansionamenti nel pubblico impiego iniziati prima del 30 giugno 199842 e proseguiti successivamente: la Suprema Corte ha infatti ricostruito tale analoga fattispecie in termini di illecito permanente43.

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Pubblicata in GC.com, 19 febbraio 2016, in FI, 2016, I, 362; in RIDL, 2015, II, 1044, in ADL, 2016, II, 111, in MGL, 2015, 777, in LG, 2015,1031, in GLav. 44, 2015, 48; secondo tale pronuncia, l’illecito si attuerebbe e rinnoverebbe ogni giorno in cui il dipendente viene mantenuto a svolgere mansioni inferiori rispetto a quelle che sarebbe tenuto a svolgere per legge o per contratto. Nel senso del carattere permanente dell’illecito anche Trib. Roma, n. 10880/2016 cit. (secondo cui dal 25 giugno 2015 il persistente danno alla professionalità non appare più risarcibile, anche a fronte della persistenza dell’illecito, in quanto l’abrogazione del principio di equivalenza sostanziale insito nella libertà datoriale di cambiare mansioni alla sola condizione dell’equivalenza formale di livello comporta che l’art. 2103 c.c. non protegge più l’interesse del prestatore alla conservazione del bagaglio professionale come tale). 41 Pubblicata in GC.com, 19 febbraio 2016, in ADL, 2016, II, 109 e in GLav. 44, 2015, 48. 42 Data che segna il discrimine temporale tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria nel contenzioso del lavoro pubblico, ai sensi dell’art. 45, comma17, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80. 43 Nella stessa prospettiva si vedano in dottrina Pisani, La riforma della mobilità orizzontale e sua immediata applicabilità, in MGL, 781; Conte, L’adibizione a mansione equivalente tra il vecchio e il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., in GC.com, 19 febbraio 2016, sia pure in forza della diversa argomentazione secondo cui anche dopo l’entrata in vigore della novella, il

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7. Demansionamento e repechage. Come è noto, la disciplina delle mansioni va ad impattare anche sul recesso datoriale intimato per giustificato motivo oggettivo44, la cui legittimità nella vigenza del vecchio testo dell’art. 2103 c.c., è sempre stata condizionata, oltre che all’effettività delle ragioni tecniche, organizzative e produttive poste a fondamento della soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato45, all’impossibilità di reimpiegarlo in mansioni equivalenti alle ultime svolte46. La giurisprudenza di legittimità, già prima dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 2103 c.c., si era attestata sull’orientamento secondo cui il datore di lavoro avesse l’onere di prospettare al lavoratore il reimpiego in mansioni inferiori47, onere ripetutamente affermato nell’ipotesi di licenziamento del lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni in precedenza assegnate48. In particolare, la Suprema Corte ha statuito che grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare l’impossibilità del repechage49; è stato inoltre di recente rimeditato l’orientamento secondo cui il lavoratore aveva l’onere di allegare l’esistenza di altri posti di lavoro disponibili50. Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, stante il combinato disposto dell’art.18 commi quarto e settimo l. n. 300/70, al lavoratore spetta la tutela reintegratoria attenuata in caso di manifesta insussistenza del fatto (mentre ha diritto ad una tutela meramente indennitaria nelle “altre ipotesi” previste dal quinto comma); la questione dei rapporti tra l’art. 2103 c.c. ed il licenziamento per ragioni economiche è dunque tanto più rilevante alla luce

lavoratore non può impedire che un’informale rinnovazione del negozio nullo, anche in ipotesi seguente l’accertamento giudiziale dell’illecito, paralizzi la pretesa ripristinatoria; contra Ferrante, Nuova disciplina delle mansioni del lavoratore (art.3 d.lgs. n.81/2015), in Magnani, Pandolfo, Varesi, I contratti di lavoro, Giappichelli, 45, il quale evidenzia che il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. fa propendere per la ricostruzione concettuale del rapporto di lavoro verso l’area del provvedimento piuttosto che verso quella del contratto di scambio e De Marinis, La nuova disciplina delle mansioni. Questioni di diritto intertemporale, in Piccinini, Pileggi, Sordi (a cura di), op. cit., 124, secondo cui la nuova disciplina introdotta dal d.lgs. n. 81/2015 incide sul piano degli effetti pregiudizievoli della condotta ancora in atto, determinandone la cessazione. 44 Si consideri che la “modifica degli assetti organizzativi aziendali” è riconducibile alle “esigenze organizzative” di cui all’art. 3 l. 15 luglio 1966, n. 604. 45 Cass., 7 dicembre 2016, n. 25201, in FI, 2017, I, 123, con nota di G. Santoro-Passarelli, ha affermato che ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto formale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa (ha tuttavia statuito che se il recesso è motivato dall’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese di carattere straordinario, ed in giudizio se ne accerti, in concreto, l’inesistenza, il licenziamento risulterà ingiustificato per mancanza di veridicità e la pretestuosità della causale addotta). 46 Nel senso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo come extrema ratio: Cass., 24 giugno 2015, n. 13116, in NGL, 2015, 589; Cass., 11 giugno 2014, n. 13112 e Cass., 26 marzo 2010, n. 7381 in FI on-line. 47 Secondo Cass., 15 maggio 2012, n. 7515, in RIDL, 2013, II, 67, con nota di Falsone e Cass. 13 agosto 2008, n. 21579, in RIDL 2009, II, 664, il datore di lavoro ha l’onere di proporre al lavoratore il reimpiego in mansioni che rientrino nel suo bagaglio professionale, purché si tratti di mansioni compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore. Cass., 19 novembre 2015, n. 23698, cit., ha affermato che non è necessaria una richiesta del lavoratore. 48 È stato però escluso che il datore di lavoro avesse anche l’onere di modificare le proprie scelte organizzative ai fini della ricollocazione: Cass., 17 giugno 2015, n. 12489; Cass., 2 luglio 2009, n. 15500 e Cass., 28 ottobre 2008, n. 25883 tutte in FI on-line. 49 Anche in base ad elementi presuntivi indiziari: Cass., 20 maggio 2009, n. 11720, in FI on-line; Cass., 14 giugno 1999, n. 5893, in NGL, 2000, 94. 50 Cass., 13 giugno 2016, n. 12101, in NGL, 2016, 64 e Cass., 22 marzo 2016, n. 5592 in GI 2016, 1166.

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dell’orientamento recentemente espresso dal giudice di legittimità, secondo cui l’esistenza del giustificato motivo oggettivo include anche la violazione dell’obbligo di repechage51. A fronte delle previsioni contenute nel secondo comma dell’art. 2103 c.c., parte della dottrina ha sostenuto l’illegittimità di un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo dopo il 25 giugno 2015, qualora il datore di lavoro non dimostri l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni riconducibili al livello di inquadramento inferiore52. L’aggravamento dell’onere datoriale di dimostrare l’impossibilità di repechage non può tuttavia ritenersi assoluto: il datore di lavoro sarà tenuto ad allegare e dimostrare la mancata disponibilità di posti corrispondenti allo stesso livello e categoria di inquadramento del lavoratore, purché si tratti però di mansioni libere, che non necessitino cioè di idonea formazione, in quanto l’obbligo formativo è stato configurato nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c. come conseguenza della scelta unilaterale del datore di lavoro53. È stato inoltre osservato che la previsione contenuta nel quinto comma, secondo cui in caso di adibizione a mansioni inferiori, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi contributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa, implica un costo che il datore di lavoro è tenuto a sopportare a fronte di una sua decisione unilaterale; sembra pertanto che non possa ritenersi la sussistenza di un obbligo generalizzato del datore di lavoro di assegnare mansioni inferiori al dipendente da licenziare per soppressione del suo posto di lavoro, ma sembra più corretto affermare che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro abbia solo l’onere di proporre al lavoratore un patto di demansionamento ai sensi dell’art. 2103, sesto comma, c.c.54 sempre che le mansioni inferiori non necessitino di formazione55.

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Cass., 13 giugno 2016, n. 12101 e Cass., 22 marzo 2016 cit. In questa prospettiva: Amendola, op. cit., 23; Brollo, ult. op. cit., 42 e Zoli, op. cit., 14. Trib. Roma, ord. 2 febbraio 2016 (pubblicata in rassegna in Piccinini, Pileggi, Sordi (a cura di), op. cit., Roma, 2016, 192), ha affermato che solo a decorrere dal giugno 2015 in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo potrebbe ipotizzarsi l’obbligo del datore di lavoro di proporre al lavoratore un patto di demansionamento, atteso che la soppressione del posto di lavoro configurerebbe la modifica organizzativa di cui al comma 2 del novellato art. 2103 c.c.; contra: Pisani, op. cit., 152, il quale evidenzia che le mansioni inferiori indicate al secondo comma dell’art. 2103 c.c. nuovo testo non sono esigibili in via ordinaria dal datore di lavoro, costituendo tale disposizione una deroga (ammissibile solo in presenza di determinati presupposti) al generale divieto di assegnare al dipendente mansioni inferiori. 53 Sordi, cit., 18, ha affermato che in un contesto relativo alla sussistenza di ragioni organizzative e produttive idonee a giustificare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo di attribuire al lavoratore mansioni che necessitino di adeguata formazione significherebbe imporre al datore di lavoro un ulteriore costo economico; richiama sul punto Cass., 11 marzo 2013, n. 5953, in FI, I, 1502, secondo cui il datore di lavoro non è tenuto a fornire al lavoratore un’ulteriore e diversa formazione per la salvaguardia del posto di lavoro. 54 In questi termini Sordi, Il nuovo art. 2103 e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Piccinini, Pileggi, Sordi (a cura di), op. cit., 132, secondo cui tale interpretazione è avvalorata dalla previsione del sesto comma: tale norma, che consente la stipula di patti di demansionamento con diminuzione della retribuzione, sarebbe infatti difficilmente giustificabile se in caso di soppressione del posto il datore di lavoro fosse tenuto ad attribuire al lavoratore mansioni inferiori con la conservazione del trattamento retributivo goduto in precedenza. 55 Si è espresso in questo senso Trib. Roma, ord. 25 luglio 2017, in GC.com, 15 gennaaio 2018, con nota di Mostarda: in una fattispecie in cui il lavoratore aveva lamentato la violazione dell’obbligo di repechage ed il datore di lavoro, costituendosi in giudizio aveva dedotto di avere effettuato nuove assunzioni dopo il licenziamento del ricorrente (avvenuto in epoca successiva al 26 giugno 2015), affermando che i nuovi assunti esprimevano professionalità diverse rispetto a quella del ricorrente, senza tuttavia specificare il loro livello di inquadramento, Trib. Roma, ord. 25 luglio 2017, cit., ha ritenuto 52

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8. Le mansioni superiori nel testo previgente. L’art. 2103 c.c. nel testo previgente prevedeva innanzitutto il diritto del lavoratore al trattamento economico corrispondente alle mansioni superiori svolte, indipendentemente dall’acquisizione della qualifica superiore; tale principio costituisce applicazione diretta del precetto costituzionale di cui all’art. 36 Cost.56, secondo cui il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa, ed è espressamente previsto anche in materia di pubblico impiego dall’art. 52 c.5 d. lgs. n. 165/200157. Dunque il vecchio testo dell’art. 2103 c.c., a condizione che l’attribuzione delle mansioni superiori non fosse avvenuta per la sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto (e dunque per ferie, permessi anche sindacali, malattia, maternità…), comportava la definitività della suddetta assegnazione dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi; una durata più lunga eventualmente prevista dai contratti collettivi si riduceva pertanto ope legis. Il periodo di svolgimento delle mansioni superiori doveva essere continuativo (nel medesimo non si calcolavano ferie e malattia); tale requisito non andava tuttavia inteso in senso assolutamente rigido, ma tenendo presente il modo di essere dell’organizzazione del lavoro e i criteri di gestione del fattore lavoro. Nel caso di una pluralità di assegnazioni di mansioni superiori per periodi singolarmente inferiori al trimestre, ma che cumulati fossero pari a quello di durata massima ex art. 2103 c.c., secondo un primo orientamento del giudice di legittimità, andavano sommati ai fini del computo del trimestre a fronte della loro frequenza e sistematicità, a prescindere dall’intento fraudolento58; secondo altro orientamento il cumulo era possibile ove venisse dimostrato

del tutto insufficienti le prospettazioni della società convenuta ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di repechage ed ha applicato la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18 comma 5 l. n. 300/70 richiesta in via principale dal lavoratore (che era stato assunto prima del 7 marzo 2015). 56 Amendola, Mansioni superiori al tempo del Jobs Act, in Piccinini, Pileggi, Sordi (a cura di), op. cit., 113 evidenzia altresì che il diritto alla promozione del dipendente costituisce il frutto del contemperamento dell’interesse del lavoratore all’irreversibilità del superiore livello professionale acquisito sul campo e rispetto al quale si era rivelato idoneo, con l’interesse datoriale all’organizzazione dell’impresa (salvaguardato sia dalla possibilità di consentire assegnazioni a mansioni superiori dovute ad esigenze effettivamente temporanee, sia dal divieto di stabilizzazione nel caso di sostituzioni di personale destinato a rientrare in servizio, evitando un’eccedenza di risorse). 57 Il quale, in applicazione del principio sancito dall’art. 97 Cost., esclude che lo svolgimento di mansioni superiori in favore della P.A. comporti l’acquisizione della qualifica superiore corrispondente, ma stabilisce comunque che al lavoratore sia corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore. 58 In questo senso Cass., 10 novembre 1997, n. 11098, in NGL, 1998, 32 mentre Cass., 25 marzo 2004, n. 6018, in FI on-line ha valorizzato i dati oggettivi della frequenza e la sistematicità, risultanti dal numero delle assegnazioni e dal tempo intercorso tra un’assegnazione e l’altra, a prescindere dall’intento fraudolento del datore di lavoro. Secondo Cass., 6 maggio 2014, n. 18122, in FI on-line, ai fini del riconoscimento della qualifica superiore, non è sufficiente che il dipendente provi di essere stato adibito alle mansioni corrispondenti per periodi di tempo che, complessivamente considerati, superino i tre mesi, ma è necessario che provi che la sostituzione è stata disposta per un’obiettiva carenza o insufficienza di organico correlata ad una organizzazione del lavoro diretta ad utilizzare in modo duraturo le maggiori capacità di lavoratori assunti con la qualifica inferiore, che il datore di lavoro ha avuto l’intento fraudolento di impedire la maturazione del diritto alla promozione (e che l’assegnazione non sia avvenuta per la sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto).

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l’intento fraudolento del datore di lavoro di eludere l’applicazione dell’art. 2103 c.c.59, mentre secondo un ultimo orientamento era sufficiente la programmazione iniziale della pluralità degli incarichi e una predeterminazione utilitaristica di tale comportamento60. Il vecchio testo dell’art. 2103 c.c. non prevedeva la rinunciabilità del diritto alla promozione automatica; tuttavia secondo la giurisprudenza di legittimità, la modificazione dell’oggetto dell’obbligazione lavorativa, una volta superato il limite temporale, era subordinata al consenso del lavoratore61.

9. Le mansioni superiori nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c. Le modifiche più rilevanti alla fattispecie dell’assegnazione a mansioni superiori riguardano la durata del periodo ai fini del diritto alla promozione, la tipologia di ragioni sostitutive per la computabilità del medesimo periodo e la rinunciabilità del diritto alla promozione. È stata in proposito prospettata una questione di compatibilità costituzionale, atteso che la legge delega nulla prevede in ordine alle mansioni superiori; è stato tuttavia evidenziato che tra i principi direttivi, l. n. 183 del 2014 annovera l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale, e che pertanto le previsioni del nuovo testo dell’art. 2103 c.c. in parte qua sono coerenti con gli obiettivi di maggiore competitività delle imprese perseguiti dal legislatore delegante62. Va comunque verificato, anche con riferimento alla mobilità verticale verso l’alto, se la revisione della disciplina delle mansioni sia correttamente avvenuta a prescindere dal riferimento a processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. In ordine alla durata dello svolgimento di mansioni superiori, mentre in precedenza l’assegnazione diventava definitiva dopo un periodo massimo di tre mesi (la contrattazione collettiva poteva disporre solo in melius per il lavoratore, prevedendo periodi più brevi), il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. non prevede un limite massimo di tempo, ma si limita a stabilire un periodo di sei mesi in caso di mancata indicazione del medesimo da parte del-

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Desumibile dalla frequenza e dalla sistematicità delle reiterate assegnazioni di mansioni superiori, tali da rivelare una predeterminazione, da parte del datore di lavoro, di tale comportamento, per sottrarsi alla promozione del dipendente; la medesima pronuncia ha comunque escluso l’intento fraudolento nel caso in cui le reiterate assegnazioni fossero giustificate dalla particolare natura dell’attività espletata, come nel caso dei c.d. “sostituti programmati”, cioè di quei dipendenti che espletano istituzionalmente mansioni di sostituzione di altri lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, ovvero fossero dovute ad una causa di temporanea sospensione della funzionalità del rapporto di lavoro, come lo stato di malattia del lavoratore: Cass., 11 febbraio 2004, n. 2642 e Cass., 14 ottobre 2000, n. 13725 entrambe reperibili in FI on-line, ha affermato che ai fini del diritto alla promozione automatica, il periodo di svolgimento di mansioni superiori può anche essere non continuo, ma costituito dalla somma di distinti periodi più brevi di tre mesi, purché il lavoratore dimostri che la sostituzione è stata disposta non per contingenti necessità dell’impresa, ma per una obiettiva carenza o insufficienza di organico correlata ad una organizzazione del lavoro diretta ad utilizzare in modo duraturo le maggiori capacità di lavoratori assunti con qualifica inferiore, e purché il datore di lavoro avesse avuto l’intento di impedire il diritto del lavoratore alla promozione. 60 In tal senso Cass., 11 agosto 2014, 17870, in FI on-line. 61 In questa prospettiva Cass., 13 giugno 1991, n. 6657, FI, 1993, I, 490. Secondo Cass., 13 aprile 1996, n. 3494 in RIDL, 1996, II, 812, nel regime previgente il lavoratore era libero di rifiutare la promozione; nello stesso senso Cass., 6 giugno 1985, n. 3372 in FI, 1986, I, 142 e Cass., 4 marzo 2014, n. 4463, in FI on-line. 62 Propende per questa tesi Amendola, op. ult. cit., 114.

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le fonti collettive; in ipotesi, i contratti collettivi potrebbero dunque prevedere un periodo superiore a sei mesi. A fronte della previsione dell’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, i contratti collettivi legittimati a stabilire la durata del periodo utile ai fini del diritto alla promozione non sono solo quelli nazionali, ma anche quelli territoriali ed aziendali stipulati da associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti aziendali stipulati delle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria. L’art. 3, secondo comma, del d.lgs. n. 81 del 2015 ha espressamente abrogato l’art. 6 della l. 13 maggio 1985, n. 190, secondo cui, in deroga all’art.13 della l. n.300 del 1970, l’autonomia collettiva poteva allungare il termine di tre mesi previsto per la promozione: la nuova disciplina si applica dunque anche alla categoria dei quadri63. In assenza di una norma di diritto transitorio, in attesa di future disposizioni collettive, devono inoltre ritenersi applicabili i limiti temporali previsti dai contratti collettivi vigenti. Ma quid juris nel caso di mansioni superiori iniziate prima del 25 giugno 2015 e proseguite successivamente? Va verificato in tali ipotesi quanto tempo occorre per maturare il diritto alla promozione. Nulla quaestio nel caso in cui i tre mesi siano maturati prima del 25 giugno 2015: tale fattispecie ricade integralmente ratione temporis nel vigore nella vecchia disciplina (tale periodo è dunque sufficiente per la maturazione del diritto alla promozione)64. Invece, nella diversa fattispecie in cui prima del 25 giugno 2015 non fossero ancora maturati i tre mesi, occorrono sei mesi per maturare il diritto alla promozione (o il diverso periodo previsto dai contratti collettivi)65. Ai fini della maturazione del diritto alla promozione, il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. prevede espressamente che i sei mesi di adibizione a mansioni superiori debbano essere continuativi66. Anche se il requisito della continuità è letteralmente previsto solo per il termine legale, tale previsione deve ritenersi riferita anche ai termini eventualmente fissati dalla contrattazione collettiva67.

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La considerazione è di Amendola, op. ult. cit., 114, secondo cui la nuova regola generale è valida per tutte le categorie di lavoratori. Questa la tesi di Sordi, Il nuovo art. 2103 c.c. prime questioni interpretative, cit., 11, secondo cui in tale ipotesi la fattispecie costitutiva del diritto alla promozione automatica si era già perfezionata nel momento in cui il legislatore ha aumentato a sei mesi la durata minima necessaria; secondo lo stesso autore la maturazione del diritto avviene probabilmente con il regime giuridico proprio del medesimo diritto secondo la versione dell’art. 2103 c.c. vigente nel momento in cui è sorto, e dunque senza possibilità di rinuncia. Secondo De Marinis, op. cit., in Piccinini, Pileggi, Sordi (a cura di), op. cit., 124, in caso di mancato riconoscimento della promozione automatica al lavoratore che abbia compiuto il periodo trimestrale di maturazione del diritto previsto dalla disciplina previgente, avendo svolto le mansioni superiori per avere sostituito lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, il medesimo lavoratore avrà diritto, in base alla nuova normativa, al risarcimento del danno fino alla data di entrata in vigore della novella (il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. esclude infatti la promozione automatica con riferimento a qualsiasi impiego in mansioni superiori dettato da esigenze sostitutive). 65 In questo senso Sordi, op. ult. cit., ibidem, e De Marinis, op. cit., 125, secondo cui la facoltà di rinuncia alla superiore qualifica resta preclusa fino al compimento del periodo stabilito dalla contrattazione collettiva o, in caso di mancata previsione, del periodo di sei mesi. 66 Anche se il requisito della continuità è letteralmente previsto solo per il termine legale, F. Amendola, op. ult. cit., 115, ritiene condivisibilmente che tale previsione riguardi anche i termini eventualmente fissati dalla contrattazione collettiva. 67 In questo senso Amendola, op., ult. cit., 115. 64

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Maria Lavinia Buconi

In ordine alla computabilità per sommatoria di periodi inferiori a quelli previsti dalla contrattazione collettiva o dal CCNL possono essere richiamate le pronunce della giurisprudenza di legittimità emesse nella vigenza del vecchio testo dell’art. 2103 c.c.68. Mentre il vecchio testo dell’art. 2103 c.c. escludeva il diritto alla promozione se lo svolgimento delle mansioni superiori era avvenuto per la sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto69, la nuova disciplina preclude la promozione in tutti i casi in cui il lavoratore sia stato adibito a mansioni superiori per sostituire un altro lavoratore in servizio, a prescindere dalle ragioni della sostituzione, e dunque dalla tipologia di assenza. Nel regime previgente, per lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto doveva intendersi solo quello non presente in azienda per una causa di sospensione legale o convenzionale del rapporto (e dunque quello in malattia o in congedo parentale o in aspettativa, ma non quello in ferie, né il personale fuori dall’azienda o in altra unità o reparto per esigenze organizzative dell’imprenditore, né il personale inviato a partecipare ad attività formativa)70. Invece, secondo il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., qualunque ragione sostitutiva di personale “in servizio” (e dunque anche per ferie71, permessi, missioni e attività formative72, nonché per sostituzioni “a cascata”73) preclude la promozione automatica. Quanto al regime transitorio, lo svolgimento di mansioni superiori in sostituzione di colleghi prima del 25 giugno 2015 è soggetto al regime previgente, e dunque ai fini della promozione non possono essere computati i periodi di assegnazione a mansioni superiori espletate per sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, mentre l’assegnazione a mansioni superiori successiva al 25 giugno 2015 soggiace al regime introdotto dall’art. 3 d.lgs. n. 81/2015, donde l’irrilevanza, ai fini della promozione, dei periodi di sostituzione di altro lavoratore in servizio)74. L’art. 2103, settimo comma, c.c. fa espressamente salva dalla una diversa volontà del lavoratore, il quale può dunque rifiutare la promozione75; tuttavia la norma non specifica in quale momento può essere esercitato tale diritto76.

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Non appare condivisibile la tesi di Gargiulo, op. cit., 623, che, in ragione del raddoppio del termine di tolleranza, propone l’interpretazione secondo cui il giudice dovrebbe dichiarare la promozione automatica anche nel caso di assegnazioni di poco inferiori ai sei mesi, disposte a breve distanza l’una dall’altra per la copertura della medesima posizione lavorativa. 69 Ed il lavoratore aveva l’onere di provare che il dipendente sostituito era assente senza diritto alla conservazione del posto: in questo senso Cass., 15 maggio 2013, n. 11717 e Cass., 6 aprile 2000, n. 4313; Cass., 10 aprile 1999, n. n. 3529 e Cass., 10 novembre 1989, n. 4740 (contra: Cass., 1 luglio 2009, n. 15406 che ha qualificato tale fatto come impeditivo). 70 Si vedano Cass., 1 febbraio 2010, n. 2280 del in ADL, 2010, II, 765, Cass., 11 dicembre 2002, n. 17659 in LPO, 2003, 347 e Cass., 5 marzo 2002, n. 3145 in NGL, 2002, 465. 71 De Angelis, Note sulla nuova disciplina delle mansioni ed i suoi (difficilissimi) rapporti con la delega, in WP D’Antona, It., n. 263/2015, 10 e Miscione, op. cit., 444. 72 Zoli, op. cit., 340. 73 Miscione, op. cit., 444, secondo cui il sostituto consegue il diritto alla promozione in caso di copertura di cariche sindacali pubbliche elettive (il sostituito non può considerarsi in servizio in tali ipotesi). 74 Sordi, ult. op. cit., 11. 75 Il lavoratore potrebbe avere un interesse a sottrarsi alle maggiori responsabilità derivanti dall’inquadramento superiore, o potrebbe avere interesse ad evitare la riduzione delle tutele derivante dall’inquadramento dirigenziale: in questo senso Amendola, ult. op. cit., 117; si veda sul punto anche Brollo, Il mutamento di mansioni dopo il Jobs Act, in GI, 2016, 761. 76 Propendono per la tesi secondo cui il lavoratore può rinunciare alla promozione anche prima della maturazione del diritto Zoli, op. cit., 353; Pisani, op. cit., 163 e Liso, op. cit., 15 (secondo cui al lavoratore che rinuncia preventivamente al diritto

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La mobilità verticale nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c.

Sembra preferibile la tesi secondo cui il lavoratore può rinunciare alla promozione solo dopo la maturazione del relativo diritto, a fronte della previsione contenuta nel nono comma, che sanziona con la nullità ogni patto contrario alla disciplina di cui ai commi precedenti, escluso quanto previsto dai commi secondo, quarto e sesto (il patto contrario alle disposizioni del comma 7 è quello con cui il lavoratore manifesta preventivamente il suo rifiuto alla promozione automatica, mentre rimane salva la sua possibilità di esprimere una volontà contraria alla promozione dopo avere conseguito il relativo diritto)77. La norma nulla dispone in ordine alle modalità con cui il lavoratore può rinunciare al suo diritto alla promozione automatica; il carattere disponibile di tale diritto fa tuttavia propendere per la tesi secondo cui non è necessario che la volontà del dipendente venga manifestata nelle sedi protette di cui all’a 2113 c.c.78.

10. Mobilità verticale e tutela della professionalità. L’integrale riscrittura dell’art. 2103 c.c., comportando la possibilità di attribuire legittimamente al lavoratore mansioni inferiori a quelle proprie della qualifica di appartenenza, ha notevolmente modificato l’assetto della tutela della professionalità del lavoratore. Il legislatore del 2015, dilatando considerevolmente lo spettro delle mansioni legittimamente esigibili dal lavoratore, anche verso il basso, ha significativamente ridimensionato la tutela della professionalità intesa in senso statico; ha tuttavia mantenuto e valorizzato tutela della professionalità intesa in senso dinamico79, come si evince anche dalla specifica previsione di un obbligo formativo a carico del datore di lavoro. Il demansionamento alle condizioni previste dai commi secondo, quarto e sesto del nuovo art. 2103 c.c. è ora legittimo; pertanto, ove vengano soddisfatti i requisiti richiesti da tali disposizioni, ed entro i limiti ivi previsti, deve escludersi la sussistenza di un danno alla professionalità o di altre voci di danno correlate, anche in un contesto più ampio come quello del mobbing (un atto di per sé lecito non può infatti essere considerato persecutorio). Nell’ambito della mobilità verticale, la lesione della professionalità nella vigenza del nuovo testo dell’art. 2103 c.c. è dunque configurabile solo se l’attribuzione di mansioni

di promozione automatica in caso di assegnazione a mansioni superiori dovrebbe essere altresì riconosciuta la facoltà di rifiutare quell’assegnazione). 77 In questa prospettiva Sordi, ult. op. cit., 7. 78 Aderiscono a questa tesi Sordi, ult. op. cit., 8 (il quale precisa che il diverso diritto alle differenze retributive maturate durante lo svolgimento di mansioni superiori soggiace al regime di cui all’art. 2113 c.c.), Piccinini, Mansioni e autonomia negoziale, in Piccinini, Pileggi, Sordi (a cura di), op. cit., 36; Brollo, ult. op. cit., 768, Voza, Autonomia privata e norma inderogabile nella nuova disciplina del mutamento di mansioni, in WP D’Antona, It., n. 263/2015, 16; contra Gargiulo, op. cit., 16 e Saracino, Le mansioni superiori, in Ghera, Garofalo (a cura di), Contratti di lavoro, mansioni e misure di conciliazione vita-lavoro nel Jobs Act 2, Cacucci, 2015, 194. Amendola, ult. op. cit., 119 evidenzia che secondo numerose pronunce del giudice di legittimità, il lavoratore può liberamente disporre del diritto di impugnare il licenziamento, con rinunce e transazioni sottratte alla disciplina dell’art. 2113 c.c. 79 In questo senso Perina, La tutela della professionalità nel nuovo art. 2103 c.c., in Piccinini, Pileggi, Sordi (a cura di), op. cit., 88.

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Maria Lavinia Buconi

inferiori avvenga al di fuori delle condizioni richieste dai commi secondo, quarto e sesto della medesima disposizione. Anche alla luce della nuova disciplina, rimane comunque pressoché immutata rispetto al passato la portata lesiva di un demansionamento totale, con la relativa tutela (danno alla professionalità e diritto del lavoratore ad essere reintegrato in mansioni corrispondenti a quelle proprie del suo livello di inquadramento). È stata inoltre sostenuta la risarcibilità del danno da demansionamento subito dal lavoratore, nell’ipotesi in cui alla mancata formazione dovesse accompagnarsi la sottrazione delle mansioni e l’inutilizzazione del lavoratore stesso80. È comunque prospettabile un danno alla professionalità per inadempimento dell’obbligo formativo, purché sussistano effettive conseguenze lesive. In particolare, nel caso in cui il lavoratore venga adibito a nuove e diverse mansioni che non appartengano al suo bagaglio di competenze e conoscenze, ed il mancato assolvimento dell’obbligo formativo da parte del datore di lavoro non gli consenta di svolgerle serenamente e correttamente, impedendogli di esprimere valorizzare le proprie capacità, o alterando le sue relazioni con il contesto aziendale, il suo equilibrio psico-fisico o le sue prospettive di carriera, andrebbe ad arrecare un pregiudizio a beni protetti a livello costituzionale e sarebbe dunque suscettibile di risarcimento. Va infatti ribadito che la Corte costituzionale ha ravvisato nel vecchio testo dell’art. 2103 c.c. una speciale norma di protezione della professionalità del lavoratore81, in una prospettiva analoga a quella del giudice di legittimità82, ed ha inserito il bene professionalità nel novero dei diritti inviolabili della persona suscettibili di lesioni non patrimoniali, in quanto attinenti alla dignità personale del lavoratore in riferimento agli artt. 2, 4 e 32 della Costituzione. Rimane infine da verificare se, a fronte delle disposizioni contenute nell’art. 2, comma 2, d.lgs. n.165/2001 (secondo cui i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le disposizioni contenute nel medesimo decreto), e delle significative innovazioni introdotte dal nuovo testo dell’art. 2103 c.c. in tema di mansioni inferiori (aspetto tuttora ignorato dall’art. 52 d.lgs. n.165/2001), la nuova disciplina sia in parte qua applicabile al pubblico impiego privatizzato, con tutto ciò che ne deriva sotto il profilo della tutela della professionalità83.

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In questo senso Pisani, op.cit., 148. Intesa come complesso di capacità e attitudini del lavoratore: C. cost., 6 aprile 2004, n. 113. 82 Si vedano Cass., sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975; in senso analogo Cass., 12 giugno 2015, n. 12253, cit. 83 Sordi, ult. op. cit., 15 ss., evidenziando che fino al giugno 2015 non erano apprezzabili significativi aspetti della disciplina delle mansioni regolati dalla norma codicistica ed ignorati dal decreto legislativo n. 165/2001, è aperto ad una rimeditazione dell’orientamento espresso da Cass., 24 giugno 2015, n. 13116, cit.; Cass., 11 giugno 2014, n. 13112, cit. e Cass., 26 marzo 2010, n. 7381, cit. e Cass., 20 maggio 2009, n. 11720, cit., secondo cui l’art. 2103 c.c. sarebbe in tutto e per tutto inapplicabile al rapporto di lavoro pubblico; lo stesso autore ritiene che le discipline speciali dettate per alcune categorie di lavoratori (gli artt. 334 e 335 cod. nav. per il personale navigante, l’art. 22 del d.lgs. 29 giugno 1996, n. 367 per i dipendenti delle fondazioni liriche e l’art. 3 r.d. 8 gennaio 1931, n. 148 per gli autoferrotranvieri), a fronte delle peculiarità dei rapporti di lavoro a cui si riferiscono, siano sopravvissute alla novella. 81

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Appalto di servizi e distacco transfrontaliero: le criticità successive all’attuazione italiana della direttiva 2014/67/UE c.d. enforcement Sommario : 1. L’inquadramento dell’istituto: tra diritto internazionale privato, direttiva 96/71/CE e giurisprudenza della C. giust. – 2. La direttiva 2014/67/UE c.d. enforcement. – 2.1. Autenticità del distacco ed obblighi amministrativi. – 3. Il d.lgs. n. 136/2016 di attuazione della direttiva di rinforzo: disciplina e criticità irrisolte. – 4. I progetti di modifica: la COM (2016) 128. – 5. Brevi note conclusive.

Sinossi. Il contributo analizza l’istituto del distacco transnazionale dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea: dall’interpretazione giurisprudenziale offerta dalla C. giust. nel Laval quartet, sino al d. lgs. n. 136/2016 di recepimento della direttiva c.d. enforcement. L’indagine si è concentrata sulle innovazioni maggiormente significative apportate dai recenti interventi legislativi, in particolare in ordine alle possibili forme di abuso di lavoratori fintamente distaccati e agli obblighi di cooperazione amministrativa tra gli Stati membri. Non da ultimo, si è tentato di isolare i profili di criticità rimasti ancora irrisolti, altresì offrendo una previsione circa i probabili ambiti di sviluppo della materia. Abstract. The essay goes through the topic of EU posting of workers: from the judicial interpretation offered by the ECJ in the ‘Laval quartet’ to the d.lgs. n. 136/2016, which is the italian transposition of the so called enforcement directive. The study is focused on the most relevant innovations implemented by recent legislative reforms, especially about abuses achieved through false posted workers and through the administrative cooperation between states. Finally, there is the attempt to point out the weaknesses of the system so far not tackled, also with a general prevision about the advances in the field. Parole chiave: distacco – Unione Europea – direttiva enforcement – cooperazione amministrativa


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1. L’inquadramento dell’istituto: tra diritto internazionale

privato, direttiva 96/71/CE e giurisprudenza della C. giust. L’istituto del distacco transfrontaliero del lavoratore dipendente si è caratterizzato, durante le prime fasi del suo sviluppo, per la mancanza di certezze riguardo la propria portata applicativa. Difatti, la questione circa le condizioni di lavoro applicabili ai lavoratori dipendenti inviati temporaneamente in uno Stato membro diverso da quello di assunzione, era affidata alla legislazione dei singoli Stati membri, chiamati ad applicare quanto previsto dalle norme di diritto internazionale privato1 in materia di contratti di lavoro con elementi di internazionalità2 e, in particolare, da quanto disposto dalla Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (c.d. Convenzione di Roma)3. A partire dall’inizio degli anni ‘90, momento storico in cui il mercato interno dei servizi ha subito un forte impulso, il fantasma del dumping sociale si affacciava alle porte dell’Unione Europea e gli Stati membri, preoccupati delle possibili ripercussioni negative che un simile fenomeno avrebbe potuto avere sulle rispettive economie interne, implementarono una serie di misure finalizzate a tutelare i lavoratori nazionali ovvero, in chiave protezionistica, a rendere più difficoltoso l’accesso al proprio mercato interno a manodopera proveniente dall’estero. Il quadro di riferimento era quindi mutato in maniera repentina e la risposta ermeneutica della C. giust. non si fece attendere. Lo storico spartiacque è rappresentato dal c.d. caso Rush Portuguesa4. La controversia risale al 1989 e ha avuto ad oggetto la lite insorta tra un’impresa edile distaccante con sede in Portogallo e l’Office National d’Immigration francese. Si chiedeva alla C. giust. di pronunciarsi in merito alla liceità o meno dell’imposizione, da parte dello Stato distaccatario, di condizioni di lavoro specifiche – in particolare l’obbligo di assumere manodopera in loco, ovvero l’ottenimento di un permesso di soggiorno per il personale portoghese – riservate ai lavoratori che provenivano da altri Stati membri. I giudici, senza indugio, hanno affermato che il prestatore straniero debba poter esercitare la propria attività «alle medesime condizioni» del prestatore di servizi nazionale ma, correlativamente, che lo Stato membro ben potrebbe estendere l’applicazione di parte delle proprie leggi nazionali, anche nei confronti dei lavoratori temporaneamente distaccati sul proprio territorio. Tale

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Sciarra (a cura di), Manuale di diritto sociale europeo, Giappichelli, 2010, 232. «Dovendosi intendere per rapporto di lavoro internazionale, o rapporto di lavoro con elementi di internazionalità, quel contratto che presenta elementi di estraneità rispetto all’ordinamento nazionale, o perché la nazionalità dei contraenti non è comune o perché la prestazione lavorativa deve seguirsi in un Paese differente». Così Magnani, Diritto sindacale europeo e comparato, Giappichelli, 2015, 58; e già Aa.Vv., I contratti di lavoro internazionali, in QDLRI, 1998, 20. Vd. anche: Vittorio, Il rapporto di lavoro con elementi di internazionalità: legge applicabile in mancanza di scelta da parte dei contraenti, in OGL, 2003, fasc. 1, 73; Llobera Vila, L’articolo 8 del Regolamento Roma I, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, alla luce delle sentenze Koelzsch, Voogsgeerd e Schlecker, in DRI, 2016, fasc. 2, 615. 3 L’articolo 6, comma 2 di tale Convenzione prevede una serie di criteri per individuare quale legislazione debba applicarsi al lavoratore dipendente. In particolare, alla lettera a), è previsto che: «[il contratto di lavoro è regolato] dalla legge del paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, compie abitualmente il suo lavoro, anche se è inviato temporaneamente in un altro paese.» 4 Sentenza causa C-113/89, Rush Portuguesa, ECLI:EU:C:1990:142, in Racc., 1990, I-01417. 2

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Appalto di servizi e distacco transfrontaliero

pronuncia, da un lato, anticipava in maniera apprezzabile la disciplina che assumerà l’istituto del distacco transnazionale nel corso del suo sviluppo storico ma, dall’altro lato, aveva lasciato alla discrezionalità – o, peggio, all’arbitrio – degli Stati membri la scelta del quantum di tutela da accordare ai lavoratori. A cavallo tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90, la sentenza Rush Portuguesa aveva, in definitiva, aperto uno scenario di massima incertezza circa la regolazione dei rapporti di lavoro nel mercato interno dei servizi5. Si rendeva dunque opportuno un intervento legislativo in grado di normare in maniera compiuta il fenomeno. Nel 1996, fu pertanto approvata la direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi6. Tale atto normativo, come accorta dottrina non ha mancato di rilevare7, non poggia le proprie fondamenta giuridiche sulle norme del Trattato CE relative alle politiche sociali ma, invero, sulle norme relative al mercato interno. La base di suddetta direttiva risiede, insomma, nelle disposizioni del Titolo III del Capo 3 del Trattato CE8, finalizzate a rimuovere le restrizioni che ostacolano la libera prestazione di servizi tra gli Stati membri. Obiettivo primario – diversamente da come parte degli Stati membri l’hanno intesa in fase di recepimento – non sembra dunque essere quello di tutelare in maniera diretta i lavoratori distaccati ma, piuttosto, di fornire loro una tutela mediata, in quanto rifratta dal prisma della difesa della libera prestazione di servizi9. L’atto legislativo in parola – che trova ancora piena cittadinanza nell’ordinamento comunitario, posto che il successivo intervento di “rinforzo”, operato dalla direttiva 2014/67/ UE, non ne ha abrogato il contenuto – è intervenuto individuando un «nocciolo duro»10 di norme nazionali che il prestatore di servizi estero è tenuto ad applicare nei confronti del proprio personale dipendente distaccato11. Poiché tale direttiva prevede diverse facoltà di deroga (nonché vista la prassi12 degli Stati membri, in fase di recepimento, ad estendere la

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Sciarra, Caruso (a cura di), Il lavoro subordinato, Giappichelli, 2009, 56. Vd., in ordine cronologico, Tiedje, La libre prestation de services et les ressortissants de pay tiers, in Révue du marché unique européen, 1992; Biagi, La fortuna ha arriso alla Presidenza italiana dell’Unione Europea: prime note di commento alla direttiva sul distacco dei lavoratori, in DRI, 1996, 3; Ojeda-aviles, European Collective bargaining and posted workers. Comments on directive 96/71, in IJCLLIR, 1997, 127; Orlandini, La disciplina comunitaria del distacco dei lavoratori fra libera prestazione di servizi e tutela della concorrenza: incoerenze e contraddizioni nella direttiva n. 71 del 1996, in ADL, 1999, 465; Mancino, Il distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione transnazionale di servizi, in NLCC, 2000, 899; Pelliccia, Il distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, in Notiziario del lavoro e previdenza, 2000, 1257; Ficari, Distacco transnazionale, applicazione di contratti collettivi nazionali e livelli salariali, in DL, 2002, 569; Zampini, Individuazione della disciplina applicabile in ipotesi di distacco di lavoratori in ambito comunitario: dalla Convenzione di Roma alla Direttiva 96/71/CE, in Europa e diritto, 2003, 58; Forti, Il comando o distacco dei lavoratori: profili di diritto interno e comunitario, in Diritto e lavoro nelle marche, 2005, 46; Esposito, Prestazione transnazionale di servizi e distacco dei lavoratori nel nuovo contesto comunitario, in DLM, 2006, 571; Nadalet, L’attuazione della direttiva 96/71 sul distacco, in LD, 2008. 7 Orlandini, I lavoratori europei nell’impresa orizzontale transnazionale tra regole sociali e di mercato, in RGL, 2009, 555. 8 Disposizioni oggi contenute nel Titolo IV, Capo 3 del TFUE (artt. 56 e ss.). 9 Direttiva 96/71/CE, Considerando nn. 1, 2, 3, 4 e 5. 10 Ibidem, Considerando n. 14. 11 Si è correttamente osservato come la direttiva abbia «adottato un principio specularmente opposto a quello del paese d’origine» del lavoratore, posto che «il rapporto di lavoro [viene ora] regolato dalla legge del paese ove il servizio viene prestato, almeno per quanto riguarda gli elementi essenziali del rapporto». Così Lo Faro, Turisti e vagabondi: riflessioni sulla mobilità internazionale dei lavoratori nell’impresa senza confini, in LD, 2005, 437. 12 Come l’Italia che, in maniera certamente non isolata, con il d.lgs. n. 72/2000 (oggi abrogato) ha previsto che ai lavoratori 6

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propria normativa nazionale anche riguardo a materie diverse da quelle da essa contemplate), dottrina e giurisprudenza sono state impegnate per quasi due decenni in un’accesa discussione circa gli ambiti di libertà da essa concessi, in particolar modo riguardo al ruolo della contrattazione collettiva (quale fonte obbligatoria del rapporto di lavoro) e dei diritti sindacali dei lavoratori distaccati. In altre parole, il confronto ha gravitato principalmente intorno al bilanciamento tra l’ammissibilità di condizioni di lavoro ed occupazione ulteriori – siano esse derivate da una estensione della normativa dello Stato membro ospitante, ovvero attraverso azioni sindacali orientate alla sottoscrizione di contratti collettivi che prevedessero condizioni più vantaggiose – e il diritto dei prestatori di servizi a non vedere aggravato il proprio diritto a spostarsi liberamente con il proprio personale dipendente, attraverso l’imposizione di barriere all’ingresso. Le varie posizioni, a dir del vero, si sono ben presto polarizzate su tesi antitetiche: da un lato, la giurisprudenza della C. giust., incline a tutelare il mercato interno e impegnata ad espungere dall’ordinamento qualsiasi norma restrittiva – finanche meramente teorica – che ponga limitazioni alla prestazione di servizi13; dall’altro lato, la dottrina quasi unanime, la quale ha denunciato l’obliterazione delle tutele sociali fondamentali dei lavoratori. Ad alimentare la discussione, è altresì intervenuto il cambio di paradigma interpretativo operato dalla C. giust. rispetto alla non estendibilità della contrattazione collettiva e della normativa nazionale che ecceda le materie previste della direttiva. Con le ormai celebri sentenze che compongono il c.d. Laval Quartet14, la C. giust. ha infatti inaugurato un «nuovo corso caratterizzato dalla interpretazione della direttiva come limite massimo (e non più minimo) di protezione consentito alla stregua dell’art. 56 TFUE»15.

distaccati sul territorio italiano fossero applicate, in maniera indistinta, le medesime condizioni di lavoro ed occupazione applicabili ai dipendenti nazionali. Sul punto, al fine di tentare di fornire un’interpretazione conforme – benché alle soglie dell’interpretazione contra legem –, si è espressa la dottrina maggioritaria. L’applicazione generale della contrattazione collettiva doveva essere limitata ai soli ambiti in cui essa trovava generale applicazione anche per i lavoratori nazionali. Il riferimento correva quindi alla parte che fissava i minimi retributivi che dovevano essere necessariamente rispettati anche dai datori di lavoro italiani (in forza dell’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost.), nonché alle materie elencate dall’art. 3 paragrafo 1 della direttiva 96/71/CE. 13 La C. giust., già solo dopo due anni dall’approvazione della direttiva 96/71/CE, era infatti intervenuta precisando come l’atto in parola imponesse delle norme imperative di protezione minima che costituivano, a loro volta, il livello massimo di tutela che uno Stato membro era obbligato a far rispettare alle imprese che distaccavano temporaneamente sul proprio territorio dei lavoratori. Vd. Sentenza causa C-165/98, Mazzoleni, ECLI:EU:C:2001:162, in Racc., 2001, I-02189; Sentenza cause riunite C-49/98; da C-52/98 a C-54/98; da C-68/98 a C-71/98, Finalarte, ECLI:EU:C:2001:564, in Racc., 2001, I-07831. 14 La letteratura sul punto è sterminata. Si segnalano qui i seguenti lavori (in ordine cronologico di pubblicazione): Zampini, Il caso Laval: la libera circolazione dei servizi di fronte a nuove incognite, in Europa e diritto, 2007, 13; Carabelli, Note critiche a margine delle sentenze della Corte di Giustizia nei casi Laval e Viking, in DLRI, 2008, 147; B. Caruso, I diritti sociali nello spazio sociale sovranazionale e nazionale: indifferenza, conflitto o integrazione? (Prime riflessioni a ridosso dei casi Laval e Viking, in Rassegna di diritto pubblico europeo, 2008, 11; Corti, Le decisioni Ift e Laval della Corte di Giustizia: un passo avanti e due indietro per l’Europa sociale, in RIDL, 2008, 249; Sciarra, Viking e Laval: diritti collettivi e mercato nel recente dibattito europeo, in LD, 2008, 245; Andreoni, B. Veneziani (a cura di), Libertà economiche e diritti sociali nell’Unione Europea. Dopo le sentenze Laval, Viking, Rüffert e Lussemburgo, Ediesse, 2009; Vimercati (a cura di), Il conflitto sbilanciato. Libertà economiche e autonomia collettiva tra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali, Cacucci, 2009; Deakin, La concorrenza fra ordinamenti in Europa dopo Laval, in LD, 2011, 467; Orlandini, Il recepimento della direttiva sul distacco transnazionale in Italia: l’impatto del caso Laval, in DLRI, 2011, 405; Freedland, Prassl, Viking, Laval and beyond, Hart Publishing, 2014. 15 Così Giubboni, Commento alla Sentenza C-396/13, Sähköalojen ammattiliitto ry c. Elektrobudowa Spolka Akcyjna, in RGL, 2015, 221.

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Quanto statuito16 dai giudici in tali pronunce, ha viepiù agitato il confronto in seno al mondo accademico e alle organizzazioni dei lavoratori. Queste ultime, in particolare, non si sono fatte attendere nel criticare17 le citate sentenze, in quanto non rappresenterebbero una forma sufficiente di protezione dei dritti dei lavoratori organizzati all’interno di una moderna economia transnazionale. Siffatte statuizioni, infatti, proteggerebbero in maniera chiara e precisa esclusivamente i sindacati a livello locale e nazionale ma «however, [they are] less clear about transnational trade union rights»18. Del resto, anche tra le fila italiane non sono mancate voci di biasimo19. È stato infatti osservato come non sarebbe concettualmente ammissibile che la C. giust. avochi a sé il potere di valutare se i contenuti delle richieste sindacali siano in contrasto con la libertà comunitaria di prestazione di servizi, essendo, in virtù del principio volontaristico, nella libera disponibilità della parte datoriale accettare o meno tali richieste, quantunque sostenute da sciopero. Sempre secondo tale critica, non sarebbe inoltre accettabile una valutazione compiuta dal giudice comunitario del contrasto delle concrete forme di sciopero con le libertà economiche in quanto «questa impostazione fa violenza alla lettera dell’art. 137, par. 5 del Trattato CE, giacché finisce per riconoscere, nei confronti del diritto di sciopero, una concreta competenza regolativa comunitaria, anche se di fondamento giurisprudenziale»20. Ma non solo. Con specifico riferimento alla sentenza Rüffert21, i rappresentanti dei lavoratori hanno stigmatizzato il comportamento della C. giust., accusandola di limitare la propria visione esclusivamente al lato economico del mercato, dove «le condizioni di lavoro non sono considerate altro che semplici limitazioni alla libera prestazione dei servizi»22.

16

Per la memoria di chi legge, in appresso ripercorriamo brevemente quanto stabilito dalla C. giust. nelle pronunce che compongono il c.d. Laval Quartet. Con la sentenza Viking, la Corte ha disposto che l’art. 49 CE e l’art. 3 della direttiva 96/71/CE ostano a che un’organizzazione sindacale possa, mediante azione collettiva, tentare di costringere un prestatore di servizi stabilito in uno Stato membro ad avviare con essa una trattativa volta alla sottoscrizione di un contratto collettivo che preveda condizioni di lavoro più favorevoli rispetto a quanto previsto dalle disposizioni legislative vigenti. Vd. Sentenza causa C-438/05, Viking, ECLI:EU:C:2007:772, in Racc., 2007, I-10779. Con la pronuncia Laval, la C. giust. ha affermato la compatibilità tra l’art. 43 CE e la decisione di una società privata di modificare la bandiera di una propria nave, al fine di applicare condizioni di lavoro ed occupazione all’equipaggio da essa impiegato inferiori rispetto a quelle che sarebbero applicabili nello Stato di bandiera. Vd. Sentenza causa C-341/05, Laval, ECLI:EU:C:2007:809, in Racc., 2007, p I-11767. Con la sentenza relativa alla causa Commissione c. Lussemburgo, la Corte ha affermato che la qualifica di ordine pubblico – funzionale all’estensione della legislazione nazionale in materie diverse rispetto a quelle di cui all’art. 3 par. 1 – sia da interpretare in senso restrittivo come «ordine pubblico internazionale». Vd. Sentenza causa C-319/06, Commissione c. Granducato del Lussemburgo, ECLI:EU:C:2008:350, in Racc., 2008, I-04323. Vd., altresì, nota n. 21 relativa alla sentenza Rüffert. 17 Confederazione europea dei sindacati, Reconciling fundamental social rights and economic freedoms after Viking, Laval and Rüffert, Bruxelles, gennaio 2011. 18 Ibidem. 19 Allamprese, Sintesi sui casi Laval e Viking, CGIL, 2007. 20 È l’opinione di Carabelli, in Allamprese (a cura di), Sintesi sui casi Laval e Viking, op. cit.. 21 In tale pronuncia, i giudici della C. giust. hanno concluso per l’incompatibilità tra l’art. 49 CE e una legge locale che imponesse condizioni di lavoro e di occupazione più restrittive di quanto previsto dalla legislazione nazionale generalmente applicabile, posto che la direttiva non concede un diritto a subordinare la prestazione lavorativa a condizioni che oltrepassino quanto previsto dall’art. 3 par. 1. Vd. Sentenza causa C-346/06, Rüffert, ECLI:EU:C:2008:189, in Racc., 2008, I-01989. 22 Confederazione europea dei sindacati, Rüffert case: ETUC warns that ECJ’s judgement is destructive and damaging, comunicato stampa, Bruxelles, 3 aprile 2008.

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A tale giudizio negativo hanno fatto eco anche diversi autori tedeschi23. D’altra parte, tale pronuncia ha provocato ripercussioni interpretative anche in Italia, con riguardo alla normativa nazionale sugli appalti pubblici. L’art. 118, comma 6 del d.lgs. n. 163/2006 prevede, infatti, che i soggetti affidatari dei contratti siano tenuti ad «osservare integralmente il trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi nazionali e territoriali in vigore nel settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni». Sembrerebbe dunque, alla luce della massima in rassegna, che l’insieme degli obblighi legittimamente imponibili alle imprese distaccanti possano riguardare – diversamente dal dato letterale della normativa nazionale – esclusivamente le condizioni salariali minime fissate a livello nazionale. Può sorgere spontaneo, giunti a questo punto, domandarsi quale sia il lascito di un simile confronto dottrinale, considerato che anche il recente intervento di enforcement ha ampiamente confermato l’orientamento giurisprudenziale della Corte. Ed, invero, si fatica a comprendere come potrebbe essere altrimenti. Al netto delle puntuali obiezioni avanzate dalla citata dottrina, sembra che la critica si sia concentrata – in maniera forse eccessiva – su aspetti principalmente teorici, quando, al contrario, la materia presenta spiccati rilievi pratici. Infatti, ove si riconoscesse il diritto ai lavoratori distaccati ad una parità di trattamento integrale con i lavoratori nazionali – ovvero si ponessero delle barriere all’ingresso all’impresa estera – ciò tenderebbe ad elidere gli imprescindibili interessi economici che spingono un prestatore di servizi a spostarsi sul territorio dell’Unione per l’esecuzione della propria attività lavorativa. Nel caso in cui l’imprenditore straniero fosse infatti tenuto ad una serie di obblighi non previsti per il prestatore di servizi nazionale, ovvero fosse obbligato a negoziare caso per caso con le parti sociali le condizioni di lavoro per ciascun singolo – ma soprattutto: temporaneo – lavoro, è verosimile ipotizzare che egli desisterebbe dallo spostarsi in uno Stato estero per dar esecuzione alla propria prestazione. La medesima ratio che ha ispirato i Padri Costituenti italiani – i quali, con l’art. 12024 della nostra Costituzione, hanno sancito il divieto di qualsivoglia restrizione all’esercizio di un’attività lavorativa sul territorio nazionale – sembra essere stata ricercata anche dal legislatore europeo quando, mutatis mutandis, ha varato i principi fondamentali che regolano la materia. Del resto, non può non rilevarsi come molta strada debba ancora compiersi prima che l’Europa giunga ad una propria carta costituzionale. Non per questo, però, essa deve rinunciare a tutelare il diritto dei prestatori di servizi esteri a non essere discriminati nell’esecuzione della propria attività lavorativa transnazionale.

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Vd., ex plurimis, Franzen, Richter, Case C-346/06, Rechtsanwalt Dr. Dirk Rüffert, in his capacity as liquidator of Objekt und Bauregie GmbH & Co. KG v. Land Niedersachsen, Judgment of the Court of Justice (Second Chamber) of 3 April 2008, in Common Market Law Review, 2010 vol. 47 nº 2, 537. Di analogo avviso anche Rödl, Bezifferte Mindestentgeltvorgaben im Vergaberecht, in Europäische Zeitschrift für Wirtschaftsrech, 2011, 292. 24 L’On. Umberto Nobile, nei lavori preparatori alla Costituzione Repubblicana, così si espresse: «Se non si stabilisce un principio chiaro e preciso che lo impedisca, non sarei sorpreso se un giorno dovessi apprendere che nel Veneto, ad esempio, si è votata una legge che vieta a un calabrese di esercitare in quella Regione la sua professione di medico; e che per ritorsione in Calabria si vieti a un ingegnere veneto di esercitare la propria professione», in Falzone, Palermo, Cosentino (a cura di), La Costituzione della Repubblica Italiana illustrata con i lavori preparatori, Colombo, 1949, 220.

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Se simili principi, dunque, sembrava avessero ormai trovato solidità all’interno del panorama giurisprudenziale europeo, non tutto poteva dirsi risolto. Appariva infatti opportuno che il legislatore europeo intervenisse nuovamente, in particolar modo per regolare in maniera più puntuale le forme di abuso cui l’istituto del distacco aveva prestato il fianco.

2. La direttiva 2014/67/UE c.d. enforcement. Come poc’anzi anticipato, l’intervento di rinforzo, operato dalla direttiva 2014/67/UE – non compiendo alcuna sostanziale innovazione circa il ruolo della contrattazione collettiva e delle libertà sindacali – sembra aver implicitamente confermato l’orientamento giurisprudenziale della C. giust. c.d. Laval Quartet. La direttiva in commento non sostituisce la precedente. Essa precisa, fin da subito, che l’obiettivo precipuo è infatti quello di «migliorare e uniformare l’applicazione nella pratica della direttiva 96/71/CE» in quanto è essenziale che gli Stati membri «dispongano di procedure di controllo efficaci per l’attuazione della direttiva»25 del 1996 e che tali misure siano omogenee su tutto il territorio dell’Unione. Si comprende chiaramente, dunque, il motivo per cui si sia deciso di attribuirle il nome di enforcement (letteralmente: “rinforzo”, “attuazione”). Atto prodromico alla sua approvazione, è stata la COM (2012) 131. Con tale proposta, la Commissione si prefiggeva l’obiettivo di superare le criticità della precedente normativa, offrendo una soluzione ai problemi che avevano suscitato maggior dibattito tra istituzioni, accademici e parti sociali. In particolare, si voleva fornire un rimedio circa l’interpretazione di talune disposizioni della direttiva 96/71/CE: il concetto di ordine pubblico nazionale, la portata sostanziale delle condizioni di lavoro imponibili e la natura delle regole obbligatorie, nonché le voci che compongono il c.d. salario minimo26. Le parti sociali, coinvolte nel processo di riforma, avanzavano la richiesta che le nuove disposizioni fossero sufficientemente chiare da evitare, in futuro, pronunce come quelle precedentemente operate dalla C. giust. che avevano, secondo la loro opinione, leso gli interessi dei lavoratori. A far eco a tali richieste, era intervenuto anche un documento27 del

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Direttiva 2014/67/UE, Considerando n. 18. Il concetto di salario minimo, in particolare, è stato oggetto di eterogenee interpretazioni. Vd. la numerosa letteratura sul punto: Proia, Distacco del lavoratore all’estero. Trattamento corrisposto in loco e sui effetti sul calcolo del trattamento di fine rapporto, in MGL, 1987, 511; Morone, La Corte di Giustizia di pronuncia sulla nozione di tariffe minime salariali ai sensi della direttiva 96/61/CE in materia di distacco dei lavoratori, in DRI, 2006, 261; Giubboni, Salario minimo e distacco transnazionale, in RGL, 2015, 222; Guadagno, Salario minimo, distacco di lavoratori e appalti pubblici: un nuovo equilibrio per i diritti sociali?, in ADL, 2016, 840. Abbondante anche la dottrina internazionale: si veda, ex plurimis, Franzen, Mindestlohn und tarifvertragliche Vergütungsbestandteile, in Neue Zeitschrift für Arbeitsrecht, 2015, 338; Lhernould, Salaire minimal applicable au travailleur détaché: un nouveau deal, in Droit social, 2015, 234. A partire dalle recenti sentenze Isbir e Sähköalojen, le voci contenute nella definizione di salario minimo sono state esplicitate ed ampliate. Vd. Sentenza causa C-522/12, Isbir, ECLI:EU:C:2013:711, in Raccolta digitale (Raccolta generale), 2013; Sentenza causa C-396/13, Sähköalojen ammattiliitto, ECLI:EU:C:2015:86, in Raccolta digitale (Raccolta generale), 2013. 27 Parere Cese 2011/C44/15. 26

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Comitato economico e sociale europeo. In tale parere il CESE proponeva precise istanze alla Commissione europea: l’istituzione di un’«Interpol sociale europea», chiarimenti riguardo gli obblighi giuridici rivolti sia agli ispettorati del lavoro che alle imprese ed, infine, il rafforzamento della «dimensione sociale» del mercato interno. Ed ancora. Nel periodo che va dal 2009 all’anno di approvazione della COM (2012) 131, la Commissione aveva conferito incarico a soggetti esterni di compiere diversi studi circa l’impatto dei possibili interventi in materia28. Ne era risultato che la soluzione preferibile fosse quella di combinare insieme diverse disposizioni, tra cui: misure normative riguardanti l’applicazione e il controllo delle condizioni di lavoro minime, misure finalizzare a combattere l’abuso dello status di lavoratore distaccato e, infine, misure non normative riguardanti l’interpretazione controversa o non chiara delle condizioni di lavoro stabilite dalla direttiva 96/71/CE. La fase di confronto successiva al conferimento di tali documenti, ha dunque generato un testo normativo che sconta un «evitabile carattere compromissorio»29 rispetto alla proposta originaria.

2.1. Autenticità del distacco ed obblighi amministrativi. Gli ambiti di intervento della direttiva enforcement possono essere suddivisi in due differenti direttrici: da un lato, essa precisa quali debbano essere le condizioni affinché possa parlarsi di distacco transnazionale genuino. Dall’altro lato, invece, si disciplinano gli obblighi amministrativi legittimamente imponibili alle imprese distaccanti, nonché le misure di controllo e i doveri di cooperazione. Per quanto riguarda il primo di essi, l’art. 4 ha ad oggetto la protezione dei lavoratori fittiziamente distaccati. Si ha già avuto modo di osservare la lacunosità della direttiva del 1996, nella parte in cui essa non prevedeva chiare fattispecie di distacco irregolare. La direttiva enforcement, d’altro canto, sembra finalmente compiere un deciso passo verso la risoluzione di tale problema, prevedendo specifiche disposizioni per contrastare i finti distacchi, per tali dovendosi intendere: a) lavori eseguiti da imprese che solo formalmente hanno la propria sede in un altro Stato membro (cc.dd. letterbox companies); b) prestazione di servizi effettuate con dipendenti che non vengono temporaneamente inviati da un altro Stato membro, in quanto già residenti nello Stato ospitante prima dell’inizio della prestazione lavorativa. Basta qui brevemente notare come, in passato, analoghi obiettivi di tutela circa l’effettività della sede legale dell’impresa hanno impegnato sia il legislatore europeo che la C. giust. Infatti, con riferimento al diritto societario, il tema della libertà di stabilimento si è

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Idea consult e ecotys netherlands, Study on the economic and social effects associated with the phenomenon of posting of workers in the European Union, Bruxelles, 2011; Van hoek e Houwerzijl, Comparative study on the legal aspects of posting of workers in the framework of the prevision of services in the European Union, 2011. 29 Allamprese, Orlandini, La direttiva 2014/67 del 15 maggio 2014 di attuazione della direttiva 96/71 sul distacco transnazionale dei lavoratori, un primo commento, CGIL, 2014, 2.

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dovuto altresì misurare in ordine alla questione delle fusioni transnazionali tra imprese. Segnatamente, l’accento si è posto sui fenomeni di elusione della disciplina societaria e tributaria che si possono realizzare allorquando una società (c.d. pseudo foreign corporation) venga ad essere costituita in uno Stato diverso da quello nel quale essa si troverà poi ad operare in maniera prevalente30. A riguardo, noto è il dibattito che ha impegnato la dottrina gius-commercialista sulle conseguenze delle sentenze Centros31 e Sevic32, le quali hanno deposto a favore della libertà di stabilimento rispetto alle preoccupazioni nazionali33. Comunque, per evitare che si verifichino situazioni di inosservanza della disciplina relativa al distacco, la direttiva prevede una serie di elementi fattuali che le autorità competenti dello Stato membro devono – anzi: possono – prendere in considerazione al fine di qualificare come genuino o meno il distacco posto in essere da un’impresa. Nella specie, il legislatore classifica tali elementi in due famiglie, in relazione al fatto se essi debbano applicarsi nel caso di simulazione della sede legale dell’impresa ovvero nell’abuso di lavoratori distaccati. Per quanto attiene alla prima categoria, gli elementi cui fa riferimento l’art. 4 sono: a) il luogo in cui l’impresa ha la propria sede legale e amministrativa, utilizza uffici, paga imposte e contributi previdenziali, è iscritta in un albo professionale o registrata presso la camera di commercio; b) il luogo in cui i lavoratori distaccati sono assunti dall’impresa e quello da cui sono distaccati; c) la legge applicabile ai contratti stipulati dall’impresa con i suoi lavoratori e con i suoi clienti; d) il luogo in cui l’impresa esercita la propria attività economica principale e in cui è occupato il suo personale amministrativo; e) il numero di contratti eseguiti e/o l’ammontare del fatturato realizzato nello Stato membro di stabilimento. Riguardo alla seconda ipotesi di abuso, invece, il legislatore europeo prevede sette fattori. Le autorità dello Stato competente devono quindi prendere in considerazione: a) se l’attività lavorativa è svolta per un periodo di tempo limitato in un altro Stato membro; b) la data di inizio del distacco: c) se il lavoratore è distaccato in uno Stato membro diverso da quello nel quale, o a partire dal quale, esercita abitualmente la propria attività; d) se il lavoratore distaccato ritorna o si prevede che riprenda la sua attività nello Stato membro da cui è stato distaccato dopo aver effettuato i lavori o prestato i servizi per i quali è stato distaccato; e) la natura delle attività; f) se il datore di lavoro che distacca il lavoratore provvede alle spese di viaggio, vitto o alloggio o le rimborsa; g) eventuali periodi precedenti in cui il posto è stato occupato dallo stesso o da un altro lavoratore distaccato34.

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Ferrante, I diritti di “partecipazione” dei lavoratori nel caso di fusione transfrontaliera fra società di capitali. Brevi note al d. lgs. 30 maggio 2008, n. 108, in RIDL, 2009, n. 3, III, 357. 31 Sentenza causa C-212/97, Centros, ECLI:EU:C:1999:126, in Racc., 1999, I-01459. 32 Sentenza causa C-411/03, Sevic, ECLI:EU:C:2005:762, in Racc., 2005, I-10805. Vd. sul punto: Mucciarelli, Fusioni transfrontaliere e libertà di stabilimento delle società dell’Unione Europea: il caso “Sevic”, in GComm, 2006, 413. 33 Ferrante, I diritti di “partecipazione” dei lavoratori nel caso di fusione transfrontaliera fra società di capitali. Brevi note al d. lgs. 30 maggio 2008, n. 108, op. cit., 359. 34 Rispetto a questa ultima ipotesi, il Parlamento, il Consiglio e la Commissione hanno emanato una dichiarazione congiunta in calce alla direttiva 2014/67/UE nella quale precisano che tale criterio non deve essere interpretato nel senso che sia

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I citati elementi fattuali sembra debbano considerarsi in chiave squisitamente esemplificativa e non abbiano, invero, pretese di tassatività. Una simile conclusione la si può desumere dalla lettera della direttiva, nella parte in cui precisa che tali criteri sono finalizzati «ad assistere le autorità competenti» nel processo di verifica e controllo e che essi intervengono come «fattori indicativi nella valutazione complessiva». Ad abundantiam, inoltre, il paragrafo 4 del medesimo articolo prevede che nel caso in cui un’impresa non soddisfi uno o più degli elementi in parola, ciò non implica necessariamente l’illiceità del distacco, in quanto, comunque, la valutazione deve essere adattata al caso concreto e deve tenere conto delle specificità della situazione. Non sembra peregrino ipotizzare che una simile libertà applicativa possa legittimare comportamenti omissivi da parte degli Stati membri. Infatti, concedendo così ampi spazi alle autorità competenti, è probabile che quegli Stati che non abbiano interesse a perseguire l’abusivismo in materia di distacco (si pensi agli Stati esportatori di manodopera) siano portati a non osservare la disciplina de qua. Per converso, gli Stati inclini ad una tutela protezionistica del proprio mercato nazionale potrebbero applicare suddetti principi in maniera eccessivamente rigida35. In ogni caso, ciò avrebbe come conseguenza quella di generare un quadro normativo europeo non omogeneo, vanificando dunque i presupposti che hanno portato all’approvazione della direttiva stessa. Orbene, se da un lato è pregevole che il diritto europeo consideri in maniera diretta gli elementi fattuali in grado di qualificare un distacco come irregolare, dall’altro lato deve notarsi la manchevole scelta della direttiva di non prevedere un altrettanto chiaro regime sanzionatorio. In verità, basta qui anticipare36 come tale lacuna sia stata comunque in seguito colmata nel decreto italiano di recepimento della direttiva. Riguardo al secondo ambito di intervento – quello che concerne cioè gli obblighi amministrativi e i doveri di cooperazione – è possibile sostenere che siano stati compiuti notevoli passi avanti37 rispetto alla previgente normativa. Recependo quanto sottolineato dalla C. giust. nella sentenza Arblade38, il legislatore dispone infatti che gli Stati membri siano tenuti ad adottare le misure più appropriate per far sì che le informazioni inerenti le condizioni di lavoro siano conoscibili «gratuitamente, in modo chiaro, trasparente, esauriente e facilmente accessibile». Agli Stati membri è inoltre richiesto di predisporre una piattaforma web ufficiale facilmente accessibile dove render pubbliche le condizioni di lavoro e occupazione vigenti sul proprio territorio.

vietato sostituire (c.d. tourbillon) un lavoratore distaccato con un altro lavoratore distaccato (soprattutto nel caso di lavorazioni stagionali, cicliche o ripetitive). 35 Allamprese, Orlandini, La direttiva 2014/67 del 15 maggio 2014 di attuazione della direttiva 96/71 sul distacco transnazionale dei lavoratori, un primo commento, op. cit., 5. 36 Vd. infra, § n. 3. 37 D’Ascola, Attuata tardivamente la direttiva enforcement in tema di distacco transnazionale: una norma ormai inutile?, in Labor, 2016. 38 I giudici hanno avuto modo di puntualizzare che le normative nazionali cui la direttiva rimanda (per esempio avuto riguardo la determinazione del salario minimo ovvero le altre condizioni di lavoro) debbano essere «sufficientemente precise e accessibili, così da non rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile la determinazione, da parte del datore di lavoro, degli obblighi cui dovrebbe conformarsi». Vd. Sentenza causa C-369/96 e C-376/96, Arblade, ECLI:EU:1999:575, in Racc., 1999, I-08453.

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Viene altresì precisata la necessità di individuare una persona di contatto dell’autorità competente, incaricata di rispondere alle richieste di informazioni, cui i lavoratori e le imprese possono rivolgersi per ottenere chiarimenti in merito al diritto e alle prassi nazionali. Al successivo art. 6 si specificano gli obblighi di cooperazione amministrativa che incombono sugli Stati membri. La «mutua assistenza» fra Stati ha come scopo l’applicazione pratica della direttiva e prevede, nella specie, diverse forme di cooperazione. In primo luogo, gli Stati sono tenuti a rispondere alle richieste motivate di informazioni da parte delle autorità competenti estere. Essi devono poi dialogare riguardo l’esecuzione dei controlli, delle ispezioni e delle indagini. Infine, è previsto che la cooperazione includa anche lo scambio di documenti. D’altro canto, risulta evidente come una simile cooperazione costituisca un elemento essenziale affinché i lavoratori distaccati siano effettivamente tutelati. Ciò che però è necessario appuntare, è che tale strada venga seguita in maniera concreta. Infatti, scarsi39, se non inesistenti, gli esempi di collaborazione fra Stati membri. Si veda, a titolo esemplificativo – e con riferimento all’Italia – il Protocollo siglato tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali italiano e il Ministero del Lavoro romeno del 29 novembre del 2010. Siffatto documento si pone come obiettivo «la cooperazione amministrativa in materia di ispezioni sul lavoro»40 in caso di distacco transnazionale. Le parti si impegnano al reciproco controllo riguardo «la verifica delle condizioni di occupazione dei lavoratori distaccati» e la verifica che l’azienda distaccante possegga «le risorse umane e materiali» per realizzare tale attività in maniera conforme alla legge. L’accordo in parola costituisce senza dubbio un importante passo avanti verso il dialogo fra Stati importatori di manodopera – come è l’Italia nei confronti dell’est Europa – e paesi esportatori di forza lavoro. Certo che, come è stato correttamente osservato41, gli ambiziosi obiettivi in esso contenuti sono rimasti largamente lontani dall’essere raggiunti. L’unico esempio di prassi fruttuosa sembra essere quello culminato con la sottoscrizione dell’Accordo di cooperazione in materia di controllo della mobilità transnazionale e di lotta contro il lavoro illegale del 27 settembre 2011, concluso tra il Ministero del Lavoro, dell’Occupazione e della Sanità francese42 ed il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali italiano. Un simile accordo ha permesso lo sviluppo e l’incremento di un sistema di cooperazione tra le regioni frontaliere transalpine dei due Stati, incentivando il dialogo fra ispettorati del lavoro italiani e francesi43. Il Capo IV della direttiva disciplina inoltre le misure di controllo e gli obblighi amministrativi che gli Stati membri possono imporre alle imprese estere. Il profilo critico principale di tali misure attiene al fatto che l’art. 9, comma 1 prevede esplicitamente che «[esse

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Allamprese, Orlandini, La direttiva 2014/67 del 15 maggio 2014 di attuazione della direttiva 96/71 sul distacco transnazionale dei lavoratori, un primo commento, op. cit., 16. 40 “Protocollo di cooperazione tra La Direzione Generale per l’Attività Ispettiva e l’Ispettorato del lavoro della Romania”, Roma, 29 novembre 2010, artt. 1 e ss. 41 Orlandini, Mercato unico dei servizi e tutela del lavoro, Franco Angeli, 2013, 127. 42 La Francia ha visto crescere in maniera vertiginosa il numero di lavoratori distaccati sul proprio territorio, passando da 38.000 unità nel 2006 a ben 230.000 nel 2014. Vd. Pnlti, Bilan du PNLTI de la Commission nationale de lutte contre le travail illègal, Parigi, 12 febbraio 2015. 43 Orlandini, Mercato unico dei servizi e tutela del lavoro, op. cit., 127.

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possano imporsi] solo a condizione che siano giustificate e proporzionate in conformità al diritto dell’Unione». Il che si traduce nella previsione che qualunque imposizione alle imprese estere che vada a comprimere in maniera non giustificata la loro libertà di prestare di servizi, si qualificherebbe come misura illecita. D’altronde, ricopre un ruolo di preminente importanza la disposizione che concede agli Stati membri di imporre ai prestatori di servizi la designazione di una «persona di contatto» che agisca con la qualifica di rappresentante legale dell’impresa e attraverso la quale le parti sociali possano impegnare il prestatore di servizi ad avviare una negoziazione collettiva all’interno dello Stato membro ospitante44. Da una simile disposizione si potrebbe evincere – prima facie – la volontà del legislatore europeo di superare una giurisprudenza della C. giust. dai più considerata renitente rispetto al ruolo della contrattazione collettiva quale strumento in grado di normare i rapporti di lavoro transfrontalieri. Senonché, si concorda45 nel ritenere come il legislatore non possa liquidare quasi vent’anni di giurisprudenza con una norma che prevede una semplice facoltà per gli Stati membri di imporre alle imprese estere di nominare la citata figura. Se da un lato non sembra dunque possibile cancellare con un semplice colpo di spugna la giurisprudenza del c.d. Laval Quartet sedimentatasi negli anni, dall’altro lato non si può negare che la previsione di una simile misura non sia coerente con le regole del mercato interno. Per quanto attiene l’esecuzione transfrontaliera delle sanzioni amministrative pecuniarie, infine, essa ricopre un ruolo di importanza cruciale per la materia. Il Capo VI si occupa pertanto di fornire un sistema organico di esecuzione delle sanzioni pecuniarie, regolando gli obblighi di informazione e di reciproca assistenza. Si prevede, in particolare, che le somme riscosse in esecuzione delle richieste promosse dagli altri Stati membri spettino alle autorità adite che materialmente procedono a tale riscossione.

3. Il d.lgs. n. 136/2016 di attuazione della direttiva c.d. enforcement: disciplina e criticità irrisolte.

Il 17 luglio 201646, l’Italia ha approvato il d.lgs. n. 136/2016 di trasposizione della direttiva enforcement. Tale provvedimento – abrogando il d.lgs. n. 72/2000 – tende dunque a ricomprendere al proprio interno tutta la legislazione nazionale in materia. In ordine al campo oggettivo di applicazione, è stata riformata la previgente normativa, la quale precisava che il distacco doveva avvenire «nell’ambito di un contratto concluso con il destinatario della prestazione di servizi che opera in territorio italiano».

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Direttiva 2014/67/UE, art. 9, comma 2, lettera f). È l’opinione di Allamprese, Orlandini, La direttiva 2014/67 del 15 maggio 2014 di attuazione della direttiva 96/71 sul distacco transnazionale dei lavoratori, un primo commento, op. cit., 19. 46 Con il consueto patologico ritardo rispetto alle tempistiche concesse dalla direttiva 2014/67/UE, la quale prevedeva che ciascuno Stato membro dovesse recepirne il contenuto entro il 18 giugno 2016. 45

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Il nuovo decreto, infatti, prevedere che di distacco si parli ove un’impresa invii un lavoratore «in un’altra impresa» ovvero «in un’unità produttiva», in tal modo facendo tendere a convergere la nozione di distacco interno con quella europea, trascurando la motivazione giuridico-economica sottesa alla decisione del prestatore di servizi straniero di porre in essere tale misura. In altri termini, mentre il diritto europeo – prima – e il precedente decreto di recepimento – poi – chiarivano, seppur attraverso una perifrasi, che la normativa de qua avrebbe dovuto trovare applicazione nell’ipotesi di appalto transnazionale, la riforma italiana non cita espressamente tale opzione. Una scelta stilistica che, comunque, certamente non pregiudica l’applicabilità della normativa anche – anzi: soprattutto – nell’ambito dell’esecuzione di un appalto transfrontaliero. L’art. 4 dispone che ai lavoratori dipendenti di un’impresa estera temporaneamente stanziati su suolo italiano debbano essere riconosciute le «medesime condizioni di lavoro e di occupazione previste per i lavoratori che effettuano prestazioni lavorative subordinate analoghe nel luogo in cui si svolge il distacco». Rispetto al previgente art. 3 del decreto n. 72/2000, scopare dunque il riferimento diretto alle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative ed a quanto previsto dalla contrattazione collettiva. Da una prima analisi, si potrebbe concludere che il legislatore italiano abbia voluto risolvere i numerosi problemi ermeneutici47 relativi all’applicabilità di “tutta” la normativa giuslavoristica, semplicemente eliminandone tout court il riferimento. Ed, invero, sembra potersi affermare che si è giunti proprio ad un simile risultato. Infatti, per comprendere il reale significato dell’art. 4, occorre analizzare la lettera e) del precedente art. 2, che prevede che per condizioni di lavoro si intendano «le condizioni disciplinate da disposizioni normative e dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del D. Lgs. n. 81 del 2015». In particolare, le materie cui fa – finalmente – espresso riferimento il decreto n. 136/2016, ricalcano pedissequamente quelle previste dalla direttiva del 1996. Pertanto, se da un lato non può che salutarsi con apprezzamento la scelta del legislatore di individuare chiaramente le materie in cui può legittimamente applicarsi la normativa nazionale48, dall’altro lato è da criticare come il decreto non abbia individuato quali parti dei contratti collettivi siano applicabili anche ai lavoratori distaccati. Infatti, posto che in

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Problemi ermeneutici plasticamente enucleati nella risposta all’interpello n. 33 del 12 ottobre 2010, presentato dall’associazione di categoria Conftrasporto al Ministero del Lavoro. La Direzione Generale di tale dicastero, arrivava ad affermare – alle soglie dell’interpretazione cotra legem – che la disposizione normativa contenuta nel d.lgs. n. 72/2000 relativa alle «medesime condizioni di lavoro» doveva esser letta non in maniera letterale, bensì congiuntamente all’art. 3 della direttiva 96/71/CE. In forza di tale interpretazione, pertanto, la normativa italiana sarebbe stata applicabile solo nelle materie di cui al «nocciolo duro» della direttiva del 1996. 48 Il d.lgs. n. 72/2000, precedentemente in vigore, aveva infatti offerto «un’applicazione rigida alla direttiva del 1996, sostanzialmente estendendo l’interno nucleo protettivo del diritto del lavoro ai lavoratori delle imprese distaccanti: ha disposto, in altre parole, l’applicabilità, per tutto il periodo del distacco, delle medesime condizioni di lavoro – previste dalle leggi e dai contratti collettivi – applicate ai lavoratori nazionali». Così Magnani, Diritto sindacale europeo e comparato, op. cit. Sul punto si veda, tra i tanti, Orlandini, Mercato unico dei servizi e tutela del lavoro, op. cit.; Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa. I modelli sociali nazionali nello spazio giuridico europeo, Il Mulino, 2012. M.T. Carinci, Cester (a cura di), Tutela e sicurezza del lavoro negli appalti privati e pubblici. Inquadramento giuridico ed effettività, Giappichelli, 2001. Van Hoek, Houwerzijl, Comparative study of the legal aspects of the posting workers in the framework of the provision of services in the European Union, op. cit.

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Italia non vige un principio di efficacia erga omnes dei CCNL, il legislatore avrebbe dovuto avvalersi della facoltà prevista dall’art. 3, paragrafo 8, della direttiva del 1996 e specificare espressamente quale porzione dei contratti collettivi fosse di generale applicazione, ovvero quali fossero stati conclusi dalle organizzazioni sindacali più rappresentative49. Non avendo proceduto a tale identificazione, non può che permanere l’unica interpretazione – offerta dalla dottrina maggioritaria sulla base del precedente impianto normativo – che prevede che la contrattazione collettiva italiana sia applicabile ai lavoratori distaccati, grazie all’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost., limitatamente alla parte relativa alla retribuzione salariale minima. In ogni caso, il cuore del decreto è costituito dall’art. 3 che regola, analogamente alla direttiva enfocement, gli elementi fattuali che devono prendersi in considerazione per valutare la genuinità o meno del distacco (nelle due versioni di abuso di personale falsamente distaccato ovvero nel caso delle cc.dd. letterbox companies). Unico elemento fattuale che si aggiunge al già analizzato elenco, è quello costituito dal documento A150 che certifica la legislazione sociale applicabile. Assai più rilevante la previsione del successivo comma 4, che riconnette la sanzione prevista in caso di interposizione illecita anche ai casi di distacco transnazionale non genuino. Viene espressamente previsto infatti che ove il distacco risulti non autentico, «il lavoratore è considerato a tutti gli effetti alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione». Una simile sanzione pone rimedio al silenzio della direttiva enforcement, la quale non prevede alcun impianto sanzionatorio specifico. Tale previsione, pregevole per l’obiettivo di tutela totale cui vuole ambire, deve però scontrarsi con la realtà applicativa, avuto riguardo alle sanzioni comminate in caso di distacco fraudolento interno. L’art. 30, comma 4bis del d.lgs. n. 276/2003 prevede, per l’appunto, che ove il distacco interno venga eseguito in violazione di legge, il lavoratore «può chiedere» la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del datore di lavoro che ne ha abusato. Va da sé che tra automatica costituzione del rapporto e facoltà subordinata all’impulso di parte vi è una notevole differenza, non supportata, sembrerebbe, da alcuna ratio sistemica. Ma tant’è. Del resto, risulta comunque di non facile interpretazione cosa intenda il legislatore italiano quando precisa che il lavoratore vada considerato a tutti gli effetti alle dipendenze del distaccatario. Due potrebbero dunque essere le possibili interpretazioni. Da un lato, tale sanzione potrebbe essere intesa nel senso di imporre, all’impresa utilizzatrice, l’obbligo di sottoscrivere un contratto di lavoro con il dipendente fittiziamente distaccato. Ma, invero, una simile impostazione del problema presta il fianco a non poche criticità prati-

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Con la COM (2003) 458, la Commissione precisa infatti che in mancanza di un principio di efficacia erga omnes della contrattazione collettiva, gli Stati che decidono di estendere tale fonte normativa anche ai lavoratori distaccati devono farne esplicita menzione nella legge di recepimento della direttiva. Se la legge di recepimento non contiene riferimenti in merito, gli Stati membri non possono imporre il rispetto dei contratti collettivi di cui al comma 2 del paragrafo 8 dell’articolo 3 alle imprese stabilite in un altro Stato membro che distaccano lavoratori nel loro territorio. Per tali ragioni – conclude tranchant la Commissione – poiché nessuna delle leggi di recepimento fa riferimento a tale opzione, ai lavoratori distaccati negli Stati membri nei quali non esistono contratti collettivi dichiarati di applicazione generale, sono applicabili solo le condizioni di lavoro e di occupazione definite da disposizioni legislative. 50 Noti anche con il nome di “PD A1” o, precedentemente, “Moduli E101”.

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che. Ove si prenda in considerazione la seconda ipotesi di distacco illecito prevista dalla direttiva – quella in cui l’impresa è effettivamente estera, ma la prestazione viene eseguita con lavoratori non realmente distaccati in quanto già residenti nello Stato ospitante prima dell’inizio della prestazione lavorativa – si generebbe la paradossale conseguenza di riconoscere in capo al prestatore di manodopera un rapporto di lavoro con un’impresa che svolge la propria attività lavorativa principale in uno Stato estero. Uno Stato, quest’ultimo, con cui il lavoratore falsamente distaccato ha, verosimilmente, ben pochi interessi sia economici che affettivi. La sanzione assumerebbe viepiù importanza nel caso venisse interpretata nel senso che, nell’eventualità di distacco transnazionale operato in violazione di legge, il lavoratore distaccato debba considerarsi – senza che si abbia novazione al rapporto contrattuale – alla stregua di un lavoratore nazionale, e gli fosse dunque applicabile, integralmente, “tutta” la legislazione italiana in materia lavoristica, e non solo quella ricompresa nelle materie di cui alla direttiva del 1996. Da ultimo, occorre svolgere alcuni rilievi avuto riguardo alle novità, parzialmente risolutive delle incongruenze di cui al precedente decreto, introdotte al regime della responsabilità solidale in caso di appalto. L’abrogato d.lgs. n. 72/2000 stabiliva infatti che gli imprenditori che appaltavano servizi «da eseguirsi all’interno delle aziende con organizzazione e gestione propria di un appaltatore transnazionale» erano tenuti in solido con quest’ultimo a corrispondere ai lavoratori da esso impiegati un trattamento minimo inderogabile retributivo e normativo «non inferiore a quello spettante ai lavoratori da loro dipendenti». La normativa in parola si giustificava alla luce della disciplina prevista per gli appalti interni di cui alla legge 23 ottobre del 1960, n. 1369. Infatti, nel processo di trasposizione della direttiva, il legislatore aveva parafrasato letteralmente quanto previsto da tale legge, sia in materia di solidarietà sia in materia di azionabilità dei diritti dei lavoratori presso l’appaltante. Senonché, un simile impianto normativo non risultava più giustificabile alla luce delle mutate condizioni legislative, già dopo soli tre anni dall’approvazione della legge di recepimento della direttiva in Italia. Il legislatore del 2003, infatti, aveva abrogato la normativa del 1960, attraverso il d.lgs. n. 276/2003, non curandosi però che contemporaneamente – per rendere coerenti le due discipline – avrebbe dovuto intervenire anche sull’art. 3, comma 3 e 4, del decreto n. 72/2000, che ricalcava, appunto, la l. n. 1369/1960. Una simile decisione provocava quindi diversi problema di compatibilità tra la normativa italiana ed il diritto europeo51. In prima battuta, la regola di parità di trattamento52 non trovava più (e non trova più tutt’ora) applicazione nella disciplina degli appalti ridisegnata dal d.lgs. n. 276/2003. Siffatto assunto risultava di per sé sufficiente a qualificare come discriminatorio il maggior

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Orlandini, in Aimo, Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, UTET, 2014, 663. D.lgs. n. 72/2000, art. 3, comma 3: «Gli imprenditori che appaltano servizi ai sensi dell’articolo 1, comma 1, da eseguirsi nell’interno delle aziende con organizzazione e gestione propria di un appaltatore transnazionale, sono tenuti in solido con quest’ultimo a corrispondere ai lavoratori da esso dipendenti un trattamento minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo non inferiore a quelli spettanti ai lavoratori da loro dipendenti».

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onere gravante sulle imprese straniere di assicurare un trattamento minimo retributivo e normativo non inferiore a quello spettante ai lavoratori impiegati dal committente italiano. Di complessità maggiore la questione che attiene al vincolo di solidarietà che rende responsabile il committente per i debiti retributivi dell’appaltatore verso i propri dipendenti. A partire dalla citata riforma del 2003, il legislatore estendeva tale vincolo – precedentemente previsto esclusivamente per gli appalti c.d. interni – anche agli appalti da eseguirsi all’esterno dell’impresa. Ciò provocava, pertanto, una situazione di discriminazione per i lavoratori stranieri rispetto a quelli nazionali, in quanto solo i secondi potevano garantire sulla tutela solidaristica verso il committente a prescindere dal tipo di appalto posto in essere53. Oltre a tale profilo critico, le differenze tra la disciplina generale di cui al decreto n. 276 e quella speciale di cui al decreto n. 72/2000 riguardavano anche l’estensione della solidarietà a tutta la catena del subappalto, il termine decadenziale più lungo per l’azione del lavoratore e la garanzia per i crediti previdenziali. Tali tutele venivano infatti concesse solo dalla legge Biagi. Ed ancora. Ad esacerbare il quadro concorrevano, altresì, le riforme che hanno portato ad un alleggerimento della disciplina generale del d.lgs. n. 276/2003. In particolare, l’introduzione del beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore ed il rinvio alla contrattazione collettiva in deroga alla legge. Si trattava, a questo punto, di valutare «se i più gravosi oneri previsti per le imprese nazionali dall’art. 29 fossero compensati con i minori vantaggi che per le imprese estere derivavano dall’applicazione dell’art. 3 comma 3 del decreto n. 72 del 2000»54 (in primis il beneficio della preventiva escussione a favore del committente). Fortunatamente, ad una simile e complessa comparazione, vi ha posto rimedio il legislatore europeo, prima, e nazionale, poi. L’art. 12, comma 1 della direttiva enforcement, infatti, ha fatto proprio quanto enucleato dai giudici nella sentenza Wolff & Müller55. Segnatamente, viene previsto che gli Stati membri possano adottare misure addizionali «in modo non discriminatorio e proporzionato per garantire che nei casi di subcontratto a catena il contraente di cui il datore di lavoro […] è un subcontraente diretto possa, in aggiunta o in luogo del datore di lavoro, essere tenuto responsabile dal lavoratore […]». A questa disposizione fa eco anche il decreto di recepimento, nella parte in cui dispone che nelle ipotesi di distacco debba trovare applicazione il regime di responsabilità solidale di cui all’art. 29, comma 2 del d.lgs. n. 276/200356. In conclusione, per superare l’ingiustificata disparità di trattamento prevista dalla normativa previgente, il legislatore nazionale ha optato per un’estensione complessiva della disciplina di cui all’art. 29 a qualsiasi forma di appalto, sia esso interno che transnazionale. A dir del vero, sembra permangano alcune criticità non secondarie riguardo la disciplina della responsabilità solidale negli appalti transfrontalieri. Infatti – come segnalato da

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Orlandini, in Aimo, Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, op. cit. Ibidem. 55 Sentenza causa C-60/03, Wolff & Müller, ECLI:EU:C:2004:610, in Racc., 2004, I-09553. 56 All’art. 4 del d.lgs. n. 136/2016 viene invece disposto che in caso di somministrazione transnazionale di manodopera si applichi il regime di solidarietà di cui all’art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 81/2015. 54

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chi per primo se ne è occupato57 – il provvedimento di enforcement parrebbe escludere dalla catena di responsabilità, diversamente da quanto disposto dall’art. 29 della legge Biagi, il committente l’appalto. Ma non solo. Al comma 5 è prescritto che lo Stato membro possa prevedere l’esclusione della responsabilità del contraente, ove egli dimostri di aver assunto standard di diligenza sufficientemente elevati. Una simile disposizione, ammettendo l’evitabilità del vincolo giuridico tramite la due diligence, introdurrebbe una significativa differenza rispetto alla disciplina nazionale, la quale tollera la derogabilità al vincolo di solidarietà solo mediante un’intesa negoziale accompagnata da strumenti compensativi della minor tutela creditoria attribuita ai lavoratori58. Ed ancora. Profili dubbi investono altri lati della disciplina. Il riferimento corre alla preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori, in quanto soggetti non aventi sede in Italia – con riferimento particolare ai profili processualisti relativi all’integrazione del contraddittorio – nonché riguardo l’applicabilità delle eventuali disposizioni derogatorie alla legge concesse dalla contrattazione collettiva in materia di solidarietà.

4. I progetti di modifica: la COM (2016) 128. Recentemente, è stata varata la proposta COM (2016) 128, di modifica alla direttiva 96/71/CE. Tale progetto legislativo vede la Commissione europea al centro del dibattito: essa ha infatti annunciato nei suoi orientamenti politici – ed altresì confermato nel programma di lavoro per l’anno 2016 – la volontà di operare una revisione mirata della direttiva sul distacco, al fine di «contrastare le pratiche sleali» e di «promuovere il principio che lo stesso lavoro nello stesso posto dovrebbe essere retribuito allo stesso modo». Le criticità che la Commissione è impegnata a risolvere sono quelle, come emerso dalle consultazioni preparatorie alla comunicazione in analisi, relative agli obblighi amministrativi eccessivamente onerosi, alla stringente burocrazia, ai diritti e obblighi di registrazione, nonché alla mancanza di chiarezza circa le norme del paese di destinazione applicabili. Prima di tracciare brevemente gli elementi distintivi della proposta, si segnala una circostanza che restituisce in maniera plastica la situazione attualmente vigente all’interno dell’UE. Gli Stati che vengono tipicamente qualificati come importatori di manodopera, si sono prontamente schierati a favore di una revisione della normativa59. Risulta chiara la

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Allamprese, Orlandini, La direttiva 2014/67 del 15 maggio 2014 di attuazione della direttiva 96/71 sul distacco transnazionale dei lavoratori, un primo commento, op. cit. Sempre dei medesimi autori, Schema di decreto recante attuazione della Direttiva 2014/67 del 15 maggio 2014 di attuazione della Direttiva 96/71 sul distacco transnazionale dei lavoratori, un primo commento, CGIL, 2016. 58 Carosielli, La responsabilità solidale del committente nell’attuazione della direttiva enforcement sui lavoratori distaccati, in DRI, 2017, 262. 59 Nel caso di specie, hanno sottoscritto una lettera comune i seguenti Stati membri: Austria, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi e Svezia. Vd. nota successiva.

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preoccupazione di questi ultimi di proteggere le proprie economie nazionali da possibili fenomeni di dumping sociale. Per converso, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Ungheria, hanno sostenuto che il principio della parità ti trattamento retributivo è incompatibile con il mercato unico, in quanto «le differenze retributive costituiscono un legittimo elemento di vantaggio competitivo»60. Al netto di tali posizioni, la proposta si apre con l’introduzione dell’art. 2bis riguardante la durata del distacco. Segnatamente, si prevede che, ove la durata del distacco sia superiore a ventiquattro mesi, il lavoratore distaccato debba esser considerato a tutti gli effetti un lavoratore dello Stato membro nel cui territorio viene svolta la prestazione. Inoltre, in chiave antielusiva, al comma 2 si precisa che, ai fini della computazione del tetto massimo, concorra la sommatoria dei singoli periodi di distacco posti in essere da ciascun lavoratore sostituito da un altro per svolgere le medesime mansioni (c.d. tourbillon di lavoratori). Ciò sembra comportare l’introduzione di un criterio rigido di individuazione della normativa applicabile, in deroga anche a quanto previsto dalle norme internazional-privatistiche di cui al regolamento Roma I: ove il distacco ecceda il termine imposto dalla legge, il lavoratore non può essere considerato temporaneamente distaccato, sicché ad esso dovremo applicare integralmente le norme dello Stato membro in cui la prestazione lavorativa deve essere eseguita61. Invero, un simile termine non sembra potersi considerare come presunzione legale di genuinità del distacco. Non sarebbe possibile cioè ritenere che ove il lavoratore sia distaccato per un periodo inferiore ai ventiquattro mesi, tale operazione debba considerarsi ex se legittima. Spetterà quindi ai legislatori nazionali – sempreché la disposizione fosse confermata nel testo definitivo – prevedere idonei meccanismi per integrare efficacemente suddetto termine con gli altri elementi fattuali enucleati dalla direttiva enforcement volti a qualificare come genuino un dato distacco. Probabilmente di impatto ancora maggiore la previsione relativa alla retribuzione minima. Recependo i principi enunciati dalla C. giust. nelle già citate sentenze Isbir e Sähköalojen, il legislatore europeo ha sostituito il concetto di «tariffe salariali minime» con la nozione, ben più ampia, di «retribuzione». Scompare, inoltre, il riferimento al fatto che la definizione e quantificazione del salario minimo spetti allo Stato membro distaccatario. Al suo posto trova spazio il più articolato principio secondo cui per retribuzione «si intendono tutti gli elementi […] resi obbligatori da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali, da contratti collettivi o arbitrati dichiarati di applicazione generale»62.

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Commissione Europea, COM (2016) 128: proposta di direttiva del parlamento europeo e del consiglio recante modifica della direttiva 96/71/CE, Strasburgo, 2016, 5. 61 Cgil, Cisl, Uil, Prime osservazioni sulla proposta di Direttiva recante modifica della Direttiva 96/71/CE sul distacco transnazionale dei lavoratori e sul rapporto tra questa proposta e la trasposizione della Direttiva 2014/67/UE, Memoria presso il Senato della Repubblica, 11° Commissione, 12 aprile 2016, 4. 62 Commissione Europea, COM (2016) 128: proposta di direttiva del parlamento europeo e del consiglio recante modifica della direttiva 96/71/CE op. cit., 13.

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Infine, per fugare ogni dubbio circa quali elementi debbano essere ricompresi in tale nozione, si prevede che gli Stati membri siano obbligati a pubblicarne sul sito web nazionale gli elementi costitutivi. Il progetto di modifica in parola, inoltre, non introduce alcuna modifica ai principi fatti propri dalla giurisprudenza della C. giust. nelle sentenze che compongono il c.d. Laval Quartet. Ciò sembra deporre – come si è già avuto modo di affermare – in ordine alla complessiva adesione che il legislatore europeo accorda all’interpretazione offerta dai giudici in tali pronunce. Unico segnale di parziale innovazione, è il recepimento di quanto sancito nella sentenza Rüffert in ordine alle clausole sociali di equo trattamento. Il paragrafo 1bis, da aggiungersi all’art. 3 della direttiva del 1996, prevede che se le imprese stabilite nel territorio di uno Stato membro hanno l’obbligo – a norma delle disposizioni legislative, amministrative o di accordi collettivi – di subappaltare solo ad imprese che garantiscono determinate condizioni di lavoro ed occupazione relativamente alla retribuzione, allora lo Stato membro può disporre che le citate imprese possano stipulare contratti di subappalto con imprese distaccanti, alla sola condizione che queste ultime rispettino siffatti standard retributivi.

5. Brevi note conclusive. Alla luce delle riflessioni sin qui svolte, cercheremo in appresso di tracciare alcune brevi note conclusive. L’assenza di una disciplina normativa organica che regolasse il fenomeno del distacco transfrontaliero ha fatto sì che fossero i giudici europei ad occuparsene per primi, già a partire dal 1992. Essi hanno fin da subito isolato i caratteri essenziali di tale istituto, enunciando un principio di equo trattamento (da alcuni interpretato come parità di trattamento tout court) tra lavoratori distaccati e lavoratori nazionali. Principio, quest’ultimo, che – sotto dissimulate spoglie – trova ancora oggi cittadinanza nell’ordinamento comunitario. Tra il 1996 e il 2014 – date che segnano rispettivamente l’approvazione della prima direttiva e il successivo atto di rinforzo – la letteratura e le parti sociali sono state impegnate in un lungo confronto, incentrato sull’equilibrio tra libertà di mercato e tutele sociali fondamentali. Del resto, la direttiva 2014/67/UE ed il suo atto di trasposizione in Italia, hanno, da un lato, compiuto un deciso passo avanti verso la qualificazione della nozione di distacco transnazionale, enucleando gli elementi fattuali che ne distinguono un’applicazione genuina da un abuso. Dall’altro lato, invero, non ha apportato rilevanti modifiche all’impianto giurisprudenziale scaturito dal c.d. Laval Quartet, confermandone dunque il contenuto. Permangono, comunque, non sopite criticità riguardo il diritto dei lavoratori ad intraprendere azioni collettive, nonché circa le garanzie creditorie dei prestatori di manodopera in caso di insolvenza del proprio datore di lavoro e, infine, agli elementi di cui si compone il salario minimo. Recentemente, come visto, la Commissione europea ha dato l’abbrivio alla discussione di una possibile modifica alla direttiva del 1996. Non resta che attendere quali decisioni legislative prenderanno le Istituzioni comunitarie. Sommessamente, sembra potersi afferma-

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re che quanto contenuto nella COM (2016) 128 del 9 marzo 2016, costituisca un ulteriore passo avanti verso una normazione più puntuale del fenomeno, avuto riguardo alle voci di cui deve comporsi il concetto di retribuzione da garantisti ai lavoratori temporaneamente distaccati. Ma v’è di più. In seguito ad un confronto protrattosi per diversi anni, il 15 febbraio 2017, il Parlamento europeo ha approvato il trattato CETA63. Tale accordo commerciale – concluso tra Canada ed Unione Europea – contiene, tra le numerose materie oggetto di regolamentazione, anche una precisa disciplina in ordine alle fattispecie di mobilità transnazionale di manodopera nell’ambito della libera prestazione di servizi. Derivando dai tratti distintivi della disciplina relativa al distacco transfrontaliero, il trattato – nel Capo X rubricato «Ingresso e soggiorno temporaneo di persone fisiche per motivi professionali» – prevede che esso debba applicarsi sia nei confronti dei prestatori di servizi contrattuali che, in seguito alla conclusione di un contratto, richiedono l’invio di propri lavoratori per darvi esecuzione, sia nei casi di trasferimento di personale all’interno di una società (fattispecie, quest’ultima, assimilabile al c.d. distacco infragruppo). Ebbene, in simili situazioni, il trattamento che lo Stato di esecuzione della prestazione accorda ai servizi ivi svolti, non può essere meno favorevole di quello riservato ai propri prestatori nazionali. Ma non solo: anche la previsione che subordina la possibilità di adottare o mantenere in vigore misure che impongano prescrizioni formali od obblighi alle imprese estere, a condizione che esse non abbiano il carattere della discriminazione arbitraria o ingiustificata, sembra mutuata dai principi che regolano l’istituto del distacco a livello europeo. Sarà dunque di sicuro interesse analizzare quali forme assumerà la mobilità transnazionale di manodopera contenuta nell’accordo CETA, alla luce anche delle relazioni che questa disciplina potrà avere con l’istituto del distacco europeo. In definitiva, comunque, nonostante dalla sentenza Rush Portuguesa ad oggi sia stata compiuta molta strada, molta strada sarà ancora da compiersi. Se da un lato non è possibile accettare la sommaria obliterazione delle tutele sociali fondamentali garantite ai lavoratori distaccati, dall’altro lato è bene rammentare come sia possibile parlare di “distacco di lavoratori” solo ove un prestatore di servizi decida, assumendosi il rischio imprenditoriale sotteso, di lasciare il proprio paese per intraprendere una nuova attività lavorativa. L’auspicio, in altre parole, è che i futuri interventi in materia continuino ad affrontare la questione nell’ottica privilegiata della tutela del mercato internazionale, poiché è solo grazie ad esso se oggi siamo stati chiamati ad affrontare questo argomento.

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Com(2016) 470 final, Accordo economico e commerciale globale (CETA) tra il Canada, da una parte, e l’Unione Europea e i suoi Stati Membri, dall’altra, Strasburgo, 2016. Sottoscritto il 30 ottobre 2016 e ratificato dal Parlamento Europeo il 15 febbraio 2017.

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Giurisprudenza commentata



Giurisprudenza C orte di Giustizia UE, sentenza 21 settembre 2017, causa C-149/2016; Pres. Berger – Rel. Biltgen – Avv. Gen. Wathelet – H.S., D.O., A.S. c. Szpital Specjalistyczny im. A. Falkiewicza we Wrocławiu (Avv. I. Walczak-Kozioł, radca prawny). Licenziamenti – Licenziamenti collettivi – Direttiva 98/59/CE – Nozione di licenziamento – Cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro – Modifica unilaterale da parte del datore di lavoro delle condizioni di lavoro e salariali.

L’articolo 1, paragrafo 1, e l’articolo 2 della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, devono essere interpretati nel senso che un datore di lavoro è tenuto a procedere alle consultazioni di cui all’articolo 2 qualora preveda di effettuare, a sfavore dei lavoratori, una modifica unilaterale delle condizioni salariali che, in caso di rifiuto da parte di questi ultimi, comporta la cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti in cui siano soddisfatte le condizioni previste dall’articolo 1, paragrafo 1, di tale direttiva, circostanza che spetta al giudice del rinvio accertare.

1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (GU 1998, L 225, pag. 16). 2. «Omissis» 11. Le ricorrenti nel procedimento principale sono impiegate presso l’ospedale specialistico A. Falkiewicz in forza di contratti di lavoro a tempo indeterminato. 12 Nell’agosto del 2015, l’ospedale specialistico A. Falkiewicz ha notificato alle ricorrenti nel procedimento principale e ad altri lavoratori un avviso di modifica relativo a talune condizioni di lavoro e salariali e più specificamente al periodo necessario per l’acquisizione del diritto al premio di anzianità. Tale premio è versato, ogni cinque anni, ai lavoratori in base alla loro anzianità di servizio. «Omissis.» 13. Dagli elementi del fascicolo di cui dispone la Corte emerge che la modifica proposta riguardava le modalità di calcolo dell’anzianità di servizio che doveva da allora in poi comprendere solo i periodi di lavoro compiuti al servizio dell’ospedale specialistico A. Falkiewicz. 14. È pacifico che il rifiuto della modifica delle condizioni contrattuali in oggetto poteva comportare, per i lavoratori interessati, la risoluzione definitiva del loro contratto di lavoro. 15. Dinanzi al giudice del rinvio, l’ospedale specialistico A. Falkiewicz ha sostenuto che la modifica delle condizioni contrattuali era dovuta a cambiamenti nell’organizzazione connessi a una riduzione dell’organico e al contenimento dei costi salariali. Poiché l’atti-

vità dell’ospedale è in perdita da più anni, la razionalizzazione delle condizioni di lavoro e salariali eseguita mediante avvisi di modifica sarebbe diretta a evitare la liquidazione dell’ospedale. 16. È altresì indiscusso che, nel procedere alla modifica delle condizioni applicabili ai contratti di lavoro, l’ospedale specialistico A. Falkiewicz non ha applicato la procedura risultante dalla legge del 2003. «Omissis.» 18. In tali circostanze, il Sąd Rejonowy dla Wrocławia-Śródmieścia we Wrocławiu (tribunale circondariale di Breslavia-centro a Breslavia, Polonia) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se gli articoli 1, paragrafo 1, e 2, della direttiva [98/59], in combinato disposto con il principio di effettività del diritto, debbano essere interpretati nel senso che il datore di lavoro, nel procedere agli avvisi di modifica delle condizioni di lavoro e salariali in riferimento ai contratti di lavoro (avviso di modifica), unicamente per quanto riguarda le condizioni di retribuzione, in considerazione di una difficile situazione finanziaria, è tenuto ad applicare la procedura risultante dalla succitata direttiva nonché a consultare le rappresentanze sindacali aziendali in merito a tali avvisi, sebbene il diritto nazionale – legge [del 2003] ai suoi articoli da 1 a 6 – non contenga alcuna norma in materia di avvisi di modifica delle condizioni del contratto di lavoro». «Omissis.» 24. Al fine di rispondere a tale questione, occorre, anzitutto, rammentare che dall’articolo 1, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 98/59, da cui emerge che tale direttiva si applica solo a condizione che i «licenziamenti» siano almeno cinque, discende che la


Giurisprudenza

direttiva in parola distingue i «licenziamenti» dalle «cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore» (v., in tal senso, sentenza dell’11 novembre 2015, Pujante Rivera, C-422/14, EU:C:2015:743, punti 44 e 45). 25. Per quanto riguarda la nozione di «licenziamento» di cui all’articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della direttiva 98/59, la Corte ha dichiarato che tale direttiva deve essere interpretata nel senso che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, a una modifica sostanziale degli elementi essenziali del suo contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientra in tale nozione (sentenza dell’11 novembre 2015, Pujante Rivera, C-422/14, EU:C:2015:743, punto 55). 26. Ne discende che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a sfavore del lavoratore, a una modifica non sostanziale di un elemento essenziale del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona di tale lavoratore o a una modifica sostanziale di un elemento non essenziale di detto contratto per ragioni non inerenti alla persona di tale lavoratore non può essere qualificato come «licenziamento» ai sensi della citata direttiva. 27. Quanto all’avviso di modifica di cui al procedimento principale, occorre rilevare che quest’ultimo si limita a prevedere che ai fini della determinazione della data di esigibilità del premio di anzianità saranno da lì in poi presi in considerazione soltanto i periodi di lavoro compiuti presso il datore di lavoro, di modo che l’avviso di modifica riguarda esclusivamente il momento di acquisizione del diritto al premio di anzianità. In tali condizioni, e senza che sia necessario esaminare se il premio di anzianità di cui al procedimento principale configuri un elemento essenziale del contratto di lavoro degli interessati, è sufficiente constatare che l’avviso di modifica di cui al procedimento principale non può essere considerato come comportante una modifica sostanziale di tale contratto e che tale avviso non rientra nella nozione di «licenziamento» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della direttiva 98/59. «Omissis.» 29. Per quanto riguarda la questione di stabilire il momento a partire dal quale un datore di lavoro è tenuto a procedere alle consultazioni di cui all’articolo 2 della direttiva 98/59, occorre ricordare che la Corte ha stabilito che gli obblighi di consultazione e di notifica sorgono anteriormente a una decisione del datore di lavoro di risolvere il contratto di lavoro (sentenze del 27 gennaio 2005, Junk, C-188/03, EU:C:2005:59, punto 37, e del 10 settembre 2009, Akavan Erityisalojen Keskusliitto AEK e a., C-44/08, EU:C:2009:533, punto 38) e che la realizzazione dell’obiettivo, indicato all’articolo 2, paragrafo 2, di detta direttiva, di evitare risoluzioni di contratti di lavoro o di ridurne il nume-

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ro sarebbe compromessa qualora la consultazione dei rappresentanti dei lavoratori fosse posteriore alla decisione del datore di lavoro (sentenze del 27 gennaio 2005, Junk, C-188/03, EU:C:2005:59, punto 38, e del 10 settembre 2009, Akavan Erityisalojen Keskusliitto AEK e a., C-44/08, EU:C:2009:533, punto 46). 30. È necessario aggiungere che la fattispecie di cui al procedimento principale, così come la causa all’origine della sentenza del 10 settembre 2009, Akavan Erityisalojen Keskusliitto AEK e a. (C-44/08, EU:C:2009:533, punto 37), è connessa a decisioni economiche che non avevano, come risulta dalla decisione di rinvio, direttamente per oggetto di porre fine a rapporti di lavoro specifici, ma che potevano tuttavia avere ripercussioni sull’occupazione di un certo numero di lavoratori. 31. Orbene, al punto 48 della sua sentenza del 10 settembre 2009, Akavan Erityisalojen Keskusliitto AEK e a. (C-44/08, EU:C:2009:533), la Corte ha stabilito che la procedura di consultazione di cui all’articolo 2 della direttiva 98/59 deve essere avviata dal datore di lavoro nel momento in cui è stata adottata una decisione strategica o commerciale che lo costringe a prevedere o a progettare licenziamenti collettivi. 32. Nel caso di specie, nei limiti in cui l’ospedale specialistico A. Falkiewicz ha ritenuto che, tenuto conto delle difficoltà economiche a cui faceva fronte, fosse necessario procedere alle modifiche proposte al fine di evitare di dovere prendere decisioni aventi direttamente per oggetto la cessazione di rapporti di lavoro specifici, esso doveva ragionevolmente attendersi che un certo numero di lavoratori non accettasse la modifica delle relative condizioni di lavoro e che, conseguentemente, il loro contratto di lavoro venisse risolto. 33. Pertanto, dal momento che la decisione di procedere alla notifica degli avvisi di modifica comportava necessariamente che l’ospedale specializzato A. Falkiewicz prevedesse licenziamenti collettivi, era tenuto ad avviare la procedura di consultazione di cui all’articolo 2 della direttiva 98/59. 34. Tale conclusione si impone a maggior ragione ove si consideri che la finalità dell’obbligo di consultazione, previsto all’articolo 2 della direttiva in parola, vale a dire evitare risoluzioni di contratti di lavoro o ridurne il numero nonché attenuarne le conseguenze (sentenza del 10 settembre 2009, Akavan Erityisalojen Keskusliitto AEK e a., C-44/08, EU:C:2009:533, punto 46), e l’obiettivo perseguito, stando al giudice di rinvio, dagli avvisi di modifica, ossia prevenire la liquidazione dell’ospedale, coincidono ampiamente. Infatti, qualora una decisione che comporta una modifica delle condizioni di lavoro sia atta a consentire che siano evitati licenziamenti collettivi, la procedura di consultazione prevista all’articolo 2 della stessa direttiva deve essere avviata al momento in cui il datore di lavoro considera di procedere a siffatte modifiche (v., in tal senso, sentenza del 10 settembre 2009, Akavan Erityisalojen Keskusliitto AEK e a., C-44/08, EU:C:2009:533, punto 47).


Francesca Coppola

35. Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, occorre rispondere alla questione dichiarando che l’articolo 1, paragrafo 1, e l’articolo 2 della direttiva 98/59 devono essere interpretati nel senso che un datore di lavoro è tenuto a procedere alle consultazioni di cui all’articolo 2 qualora preveda di effettuare, a sfavore dei lavoratori, una modifica unilaterale delle condizio-

ni salariali che, in caso di rifiuto da parte di questi ultimi, comporta la cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti in cui siano soddisfatte le condizioni previste dall’articolo 1, paragrafo 1, di tale direttiva, circostanza che spetta al giudice del rinvio accertare. «Omissis.»

I diritti di informazione e di consultazione nel quadro europeo: nuovi spunti per antiche e irrisolte questioni del sistema italiano Sommario: 1. Il caso in esame. – 2. La direttiva 98/59/CE. – 3. Estensione degli obblighi di informazione e di consultazione previsti in materia di licenziamenti collettivi. – 4. Effettività dei diritti di informazione e di consultazione.

Sinossi. Con la soluzione data alla vicenda in esame, la Corte di Giustizia segna una nuova tappa per l’estensione del campo di applicazione della direttiva 98/59/CE in tema di licenziamenti collettivi. Attraverso l’analisi del caso di specie, vengono ripercorse alcune delle conclusioni più importanti a cui è giunta la giurisprudenza europea, richiamate dalla stessa Corte nella sentenza in commento, al fine di ridurre i tentativi di elusione da parte del datore di lavoro della procedura disposta dalla stessa direttiva. L’attenzione viene quindi posta sull’interpretazione da dare ai diritti di informazione e consultazione – previsti come garanzia procedurale obbligatoria per il datore che intenda attuare una riduzione dei dipendenti – con riferimento alla normativa europea, in particolare all’art. 27 della Carta di Nizza e alla direttiva 2002/14/CE. Attraverso un rapido confronto, vengono infine segnalate alcune problematicità del sistema sindacale italiano che indeboliscono la piena ed effettiva attuazione di questi diritti nel nostro ordinamento.

1. Il caso in esame. Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia chiarisce la nozione di licenziamento collettivo ai sensi della direttiva 98/59/CE, ma, soprattutto, estende l’ambito di applicazione della procedura di consultazione prevista dalla stessa.

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Giurisprudenza

Il caso ha origine da una vicenda polacca, in cui le ricorrenti, impiegate presso un ospedale specialistico di Breslavia, avevano ricevuto un avviso di modifica riguardante le modalità di calcolo del premio di anzianità di servizio che avrebbe da quel momento in poi compreso soltanto i periodi di lavoro compiuti al servizio dell’ospedale medesimo. Le lavoratrici, trattandosi evidentemente di una modifica sfavorevole delle loro condizioni salariali, avevano rifiutato di sottostare ai cambiamenti intimati. Il codice del lavoro polacco prevede tuttavia che, qualora i lavoratori non accettino le condizioni di lavoro e salariali proposte dal datore in forma scritta, il loro contratto s’intende risolto definitivamente alla scadenza del periodo di preavviso comunicato. Nella vicenda in esame – e qui sta il punto centrale della questione – l’ospedale specialistico, nel disporre l’avviso di modifica unilaterale delle condizioni salariali alle proprie dipendenti, non aveva applicato la procedura di consultazione delle rappresentanze dei lavoratori, come prevista nei casi di licenziamenti collettivi dalla legge polacca del 2003, provvedimento che traspone in sostanza all’interno dell’ordinamento il corpo della direttiva 98/59/CE. Il giudice del rinvio ha domandato quindi alla Corte di Giustizia se l’articolo 1, paragrafi 1 e 2, e l’articolo 2 della suddetta direttiva dovessero essere interpretati nel senso che il datore di lavoro è tenuto ad avviare la procedura di consultazione prevista in caso di licenziamenti collettivi anche qualora intenda effettuare una modifica unilaterale delle condizioni contrattuali previste, la quale, se non accettata dai lavoratori, comporta la risoluzione dei rapporti di lavoro.

2. La direttiva 98/59/CE. Com’è noto, la disciplina europea detta dei vincoli procedurali al datore di lavoro che intenda adottare una riduzione del personale, in primis stabilisce l’obbligo di informazione e di consultazione nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori. L’obbligo di informazione è descritto in termini ampi, per cui il datore di lavoro è tenuto a fornire in tempo utile tutte le informazioni necessarie «affinché i rappresentanti dei lavoratori possano formulare proposte costruttive1», oltre che a comunicare loro per iscritto una serie di informazioni obbligatorie2. Lo scopo della procedura di consultazione è volto al raggiungimento di un accordo fra le parti, attraverso l’esame e il confronto delle «possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, nonché di attenuarne le conseguenze3».

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Art. 2.3, Dir. 98/59/CE. Allo stesso articolo 2.3 della direttiva si legge che il contenuto minimo dell’obbligo di informazione riguarda: a) le ragioni del progetto di licenziamento; b) il numero e le categorie dei lavoratori da licenziare; c) il numero e le categorie dei lavoratori abitualmente impiegati; d) il periodo in cui si prevede di effettuare i licenziamenti; e) i criteri previsti per la selezione dei lavoratori da licenziare, qualora le legislazioni e/o le prassi nazionali attribuiscano al datore di lavoro un potere di licenziamento al riguardo; f)il metodo di calcolo previsto per qualsiasi eventuale indennità di licenziamento, diversa da quella derivante dalle legislazioni e/o prassi nazionali. 3 Art. 2.2, Dir. 98/59/CE. 2

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La seconda fase della procedura, rilevante soprattutto nel caso in cui le parti non raggiungano un accordo, prevede l’intervento della pubblica autorità competente, ragion per cui il datore di lavoro deve notificare per iscritto a quest’ultima ogni progetto di licenziamento collettivo, dando anche conto delle consultazioni svolte; i rappresentanti dei lavoratori, poi, possono presentare le osservazioni che ritengono opportune. La direttiva, tuttavia, non prevede l’obbligo di richiedere un’autorizzazione amministrativa quale condizione per l’attuazione del licenziamento collettivo né predispone a carico del datore di lavoro l’adozione di un piano sociale4; complessivamente, pertanto, l’impianto su cui la stessa si fonda non sembra garantire una piena, effettiva e soddisfacente tutela dei diritti dei lavoratori5. Nondimeno, la sua formulazione letterale appare piuttosto debole, soprattutto in riferimento agli obblighi d’informazione e consultazione gravanti sul datore di lavoro: formulati in maniera vaga, privi di conseguenze sanzionatorie in casi di violazione e dotati di scarsa effettività, considerando il fatto che potrebbero essere facilmente disattesi in quei contesti carenti di adeguati sistemi di rappresentanza dei lavoratori6. La Corte di Giustizia è nel tempo intervenuta per cercare di supplire alle lacune e ai vuoti lasciati dalla direttiva, anche se di fatto le occasioni in cui è stata chiamata per dare un’interpretazione sul tema non sono state numerose7. La sentenza in commento offre l’opportunità per ripercorrere alcune delle tappe fino ad ora compiute dai giudici di Lussemburgo nel tentativo di ridurre le possibilità di elusione della direttiva da parte dei datori di lavoro degli Stati membri. Il fine principale di questa funzione assunta dalla Corte, come dalla stessa espressamente dichiarato, attiene principalmente a ragioni di garanzia e sostegno del principio di effettività del diritto europeo; lo scopo di promuovere la tutela e lo sviluppo dei diritti sociali e dei lavoratori al livello sovranazionale passa così in secondo piano ed è raggiunto soltanto in via indiretta.

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La direttiva, ai sensi dell’art. 5, non pregiudica tuttavia agli Stati membri la possibilità di introdurre discipline più favorevoli per i lavoratori; in tal senso disponeva la normativa greca sui licenziamenti collettivi, prevedendo, in caso di mancato accordo tra le parti, l’obbligo di richiedere un’autorizzazione amministrativa prima di poter definitivamente procedere ad una riduzione del personale dipendente. Questa questione è stata oggetto di un discusso caso deciso recentemente dalla Corte di Giustizia, la quale ha ritenuto di dover dichiarare l’incompatibilità della legge greca – a causa dei criteri da essa stabiliti su cui doveva fondarsi la decisione della p.a. – con l’esercizio delle libertà economiche fondamentali riconosciute dal Trattato; la posizione assunta dalla Corte ha ricevuto un netto dissenso da una parte della dottrina che ha interpretato la soluzione della vicenda come il trionfo delle libertà economiche a dispetto dei diritti dei lavoratori (C. giust., 21 dicembre 2016, causa C-201/15 Aget Iraklis, in RGL, 2017, 2, 218 con nota di Lo Faro). 5 Roccella, Treu, Diritto del lavoro dell’Unione Europea, Cedam, 2016, 415. 6 A dimostrazione di quanto affermato, si riporta l’esempio di una normativa francese che escludeva dal calcolo del computo dell’organico aziendale i lavoratori di età inferiore ai 26 anni, con l’effetto, per il datore di lavoro, di eludere l’obbligo di assicurare la possibilità di costituire una rappresentanza dei lavoratori in quell’azienda, sul presupposto del mancato raggiungimento delle soglie utili. La Corte di Giustizia, chiamata ad intervenire sulla questione, ha dichiarato l’incompatibilità con la direttiva 98/59 della normativa francese, poiché, così disponendo, privava di fatto i lavoratori di poter usufruire dei diritti loro spettanti in base alla normativa europea. (C. giust., 18 gennaio 2007, causa C-385/05, Confédération Générale du Travail, in http://curiaeuropea.eu). 7 Roccella, Treu, op. cit., 416.

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Giurisprudenza

3. Estensione degli obblighi di informazione e di

consultazione previsti in materia di licenziamenti collettivi. Il secondo comma dell’articolo 1 della direttiva in questione, nello stabilire i limiti quantitativi che delimitano l’applicazione della stessa, assimila ai licenziamenti di cui al primo comma «le cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, purché i licenziamenti siano almeno cinque»; in base alla formulazione della direttiva, dunque, i licenziamenti sono tenuti distinti dalle cessazioni di lavoro. Nel 2015 la Corte di Giustizia è tuttavia intervenuta estendendo la nozione di licenziamento e intendendo farvi rientrare anche quelle situazioni in cui il datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del suo contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso8. Le dimissioni o le risoluzioni consensuali provocate dal datore di lavoro vengono dunque assimilate ai licenziamenti; non tutte: laddove manchi almeno uno dei seguenti requisiti, ossia se la modifica del contratto non è sostanziale e/o non riguarda un elemento essenziale, la cessione del contratto di lavoro non voluta dal lavoratore non rientra nella nozione di licenziamento. Applicando questa interpretazione al caso in esame, al punto 27, la Corte ritiene che la fattispecie di cui al ricorso non possa essere assimilata ad un’ipotesi di licenziamento ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), in quanto l’avviso di modifica unilaterale di cui al procedimento principale riguarda esclusivamente un mutamento della data di esigibilità del premio di anzianità e per questo non comporta una modifica sostanziale dell’intero contratto. Ai fini del calcolo quantitativo funzionale per l’applicazione della direttiva, il fatto in questione è perciò circoscrivibile esclusivamente alla nozione di cessazione del contratto di lavoro verificatasi per iniziativa del datore di lavoro ai sensi dell’art.1, paragrafo 1, secondo comma della direttiva. Il punto chiave della questione, tuttavia, attiene ad un altro aspetto e precisamente riguarda il momento utile a partire dal quale un datore è tenuto a procedere alle consultazioni di cui all’articolo 2 della suddetta direttiva. La Corte richiama, dunque, due precedenti sentenze, una pronuncia del 2005 e l’altra del 2009; secondo la sentenza Junk9, più risalente, l’effetto utile dell’obbligo di consultazione della direttiva «risulterebbe compromesso qualora il datore di lavoro avesse il diritto di risolvere i contratti di lavoro nel corso della procedura di consultazione» (punto 44 della motivazione). Il momento dunque a partire dal quale sorge l’obbligo per il datore di lavoro di avviare la procedura di consultazione deve essere anteriore alla decisione di risolvere il contratto di lavoro e coincidere con quell’arco temporale in cui il datore abbia previsto dei licenziamenti collettivi ed abbia elaborato un progetto.

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C. giust., 11 novembre 2015, causa C-422/14, Pujante Rivera, in http://curiaeuropea.eu. C. giust., 27 gennaio 2005, causa C-188/03, Junk, in http://curiaeuropea.eu.

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Con la successiva sentenza del 200910, la Corte ha quindi ribadito che in realtà l’effetto utile dell’obbligo di consultazione verrebbe meno laddove fosse vincolato all’insorgere di una decisione strategica o commerciale del datore di lavoro che renda necessari dei licenziamenti collettivi di lavoratori. Il fine dell’obbligo di consultazione imposto dal legislatore europeo al datore di lavoro è quello di esaminare le possibilità per ridurre o attenuare i licenziamenti previsti. Segue, al punto 47 della sentenza del 2009, che «una consultazione che inizi quando una decisione che rende necessari tali licenziamenti collettivi è già stata adottata non potrebbe più utilmente avere ad oggetto l’esame di alternative ipotizzabili al fine di evitare i medesimi». Quindi, la procedura di consultazione deve essere avviata dal datore di lavoro nel momento in cui è stata adottata una decisione strategica o commerciale che lo costringe a prevedere o a progettare licenziamenti collettivi. Tornando alla sentenza in commento, si osserva come l’ospedale polacco non aveva preso decisioni che riguardassero in realtà direttamente le cessazioni dei rapporti di lavoro. Tuttavia, esso doveva attendersi che il risultato finale di una modifica unilaterale del contratto di lavoro in senso sfavorevole per i lavoratori si sarebbe facilmente concretizzato in un rifiuto di accettazione da parte dei dipendenti e di conseguenza, in base al diritto polacco, nella risoluzione di un certo numero di rapporti di lavoro. La Corte, pertanto, conclude sostenendo che se il fine dell’ospedale, attraverso gli avvisi di modifica delle condizioni salariali, era quello di evitare la liquidazione del medesimo, esso coincideva allora perfettamente con l’intento della procedura di consultazione della direttiva (evitare risoluzioni di contratti di lavoro o ridurne il numero o attenuarne le conseguenze). Da ciò, segue al punto 34 della sentenza in commento che «qualora una decisione che comporta una modifica delle condizioni di lavoro sia atta a consentire che siano evitati licenziamenti collettivi, la procedura di consultazione prevista all’articolo 2 della stessa direttiva deve essere avviata nel momento in cui il datore di lavoro considera di procedere a siffatte modifiche»; questo ovviamente nei limiti in cui il giudice del rinvio accerti che siano soddisfatte le condizioni previste dall’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 98/59/CE. La decisione appare assolutamente opportuna. In base alla disposizione del diritto polacco, le cessazioni del contratto di lavoro da parte dei dipendenti, in seguito al rifiuto di accettare modifiche sfavorevoli dello stesso, possono considerarsi in realtà dei licenziamenti mascherati; il fatto di disporre modifiche unilaterali rappresenta perciò, in questo caso, un mezzo per il datore per ottenere comunque dei licenziamenti collettivi, con il vantaggio di evitare di dover adempiere agli obblighi procedurali imposti dalla direttiva ed eludendo per questo l’applicazione della stessa. Alcune considerazioni analoghe possono esprimersi con riferimento al nostro ordinamento. Il datore di lavoro italiano potrebbe avere a disposizione un ampio ventaglio per realizzare riduzioni dei propri dipendenti «alternative e in un certo senso, “preventive” rispetto (agli obblighi procedurali che sarebbero connessi) al licenziamento11». Un esem-

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C. giust., 10 settembre 2009, causa C-44/08, Erityisalojen Keskuslitto AEK e a., in http://curiaeuropea.eu. Tinti, Eccedenze di personale e licenziamenti collettivi: le scommesse e le rinunce, in LD, 2007, 4, 591.

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pio tipico in tal senso è dato dall’uso delle dimissioni incentivate12, ma anche il ricorso a procedure di esternalizzazione (appalto, distacco aziendale, trasferimento d’azienda) o l’utilizzo di contratti a tempo determinato, la cui diffusione è stata tra l’altro decisamente favorita dalla recente normativa (d.lgs. n. 81/2015), potrebbero rappresentare dei mezzi, assolutamente legittimi, per eludere in realtà l’iter procedurale previsto dalla legge 223/91. Come di fatto ha stabilito la Corte di Giustizia per il caso di specie, è dunque auspicabile un rafforzamento delle forme di controllo sull’utilizzo degli strumenti di flessibilità, con la previsione, ad esempio, di un’estensione delle garanzie relative all’obbligo di informazione e consultazione delle rappresentanze dei lavoratori previste dalla legge in materia di licenziamenti collettivi.

4. Effettività dei diritti di informazione e di consultazione. I diritti di informazione, di partecipazione e di consultazione dei lavoratori sono stati oggetto di un’intensa attività normativa a livello europeo. Oltre alla citata direttiva 98/59/CE in tema di licenziamenti collettivi e alla direttiva 2001/23/CE sui trasferimenti d’azienda che sottopongono a degli obblighi procedimentali le decisioni del datore, è stata precedentemente emanata la direttiva 89/391/CE in cui i diritti di informazione, consultazione e partecipazione sono volti al miglioramento della salute e della sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro. Inoltre, la direttiva 94/45/CE, in seguito modificata dalla direttiva 2009/38/CE, ha istituito i c.d. Comitati aziendali europei, quale organismo di rappresentanza europeo dei lavoratori; altre iniziative hanno portato alla formulazione della direttiva sulla Società Europea (2001/86/CE) e a quella sulla Società cooperativa europea (2003/72/CE). Infine, la direttiva 2002/14/CE è intervenuta con l’obiettivo di dettare una disciplina generale di armonizzazione di tali diritti13. La norma di riferimento è data, tuttavia, dall’articolo 27 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo e avente lo stesso valore giuridico dei Trattati14. L’art. 27 promuove infatti il diritto all’informazione e alla consultazione come diritto fondamentale dell’UE; in dottrina15 si sostiene l’idea per cui l’importanza di questo diritto derivi anche dalla sua idoneità a contrastare i pericolosi e minacciosi fenomeni di social

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La Cassazione appare granitica, tra l’altro, sull’interpretazione restrittiva che esclude le dimissioni incentivate dall’essere equiparate al licenziamento ai fini del computo dei recessi necessari per l’attivazione della procedura sui licenziamenti collettivi, ancorché ricollegabili alla stessa scelta economico-organizzativa. Cfr. Cass., 1 marzo 2003, n. 3068, in RIDL 2003, IV, 877, con nota di Bellumat; Cass., 16 ottobre 2000, n. 13751, in RGL, 2001, II, 334, con nota di Santulli. 13 Al 23° considerando della direttiva si legge che «l’obiettivo di cui alla presente direttiva sarà raggiunto mediante l’instaurazione di un quadro generale che comprende i principi, le definizioni e le modalità dell’informazione e della consultazione, che spetterà agli Stati membri rendere concreti e adattare alle realtà nazionali, se del caso assegnando alle parti sociali un ruolo di rilievo che permetta loro di definire in piena libertà, mediante accordo, le modalità di informazione e di consultazione più conformi alle loro necessità e ai loro desideri». 14 Come recita l’articolo 6.1 del TUE. 15 C. giust., 11 febbraio 2010, causa C- 405/08 in RIDL, 2010, II, 727, con nota di Valente.

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dumping, soprattutto in seguito alle discusse pronunce della Corte di Giustizia sui celebri casi Viking e Laval16. La stessa Corte di Giustizia17, inoltre, ha espressamente stabilito che il diritto di informazione e di consultazione costituisce «un principio fondamentale del diritto comunitario», sicché «la discrezionalità di cui godono gli Stati membri in materia sociale non può risolversi nello svuotare di ogni sostanza l’attuazione di un principio fondamentale del diritto comunitario o di una disposizione di tale diritto». Secondo la formulazione dell’art. 27 della Carta di Nizza, «ai lavoratori o ai loro rappresentanti devono essere garantite, ai livelli appropriati, l’informazione e la consultazione in tempo utile nei casi e alle condizioni previsti dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali». Dal tenore letterale del testo sembrerebbe dunque che il legislatore europeo abbia posto un’alternativa per cui l’obbligo di informazione e consultazione possa dirsi come adempiuto qualora venga disposto anche solo nei confronti di una delle due categorie, tra lavoratori e loro rappresentanti. Tuttavia, affinché tale diritto sia effettivamente garantito, le rappresentanze dei lavoratori devono essere necessariamente coinvolte. È quanto emerge tenendo conto della dimensione collettiva dello stesso, del fatto che, pur essendo un diritto a titolarità individuale, esso si esercita in maniera collettiva18; risulterebbe del resto piuttosto difficile immaginare, se non in contesti ridotti come nella realtà delle piccole imprese, che i lavoratori possano partecipare uti singuli in maniera attiva alle discussioni con l’imprenditore, influenzandone persino le decisioni19. Inoltre, il fatto che l’art. 27 espressamente preveda che il diritto di informazione e consultazione sia garantito a livelli appropriati ed in tempo utile, implica la necessaria presenza di organi costituiti, che abbiano le conoscenze tecniche sugli sviluppi delle singole questioni, che possano reperire continuamente informazioni sull’andamento dei fatti e che siano, in definitiva, in grado di gestire tali processi. A sostegno di questa tesi, può altresì richiamarsi una recente sentenza della Corte di Giustizia20 che ha dato un’interpretazione generale dell’art 27 della Carta dei diritti fondamentali e della direttiva 2002/14/CE sul diritto di informazione e consultazione21. La Corte, citando espressamente il precedente relativo alla causa analoga C–385/05 ha ritenuto non conforme alla direttiva una disposizione francese che, escludendo alcuni lavoratori dal computo dell’organico dei dipendenti (in particolare quei lavoratori titolari di contratti di apprendistato, contratti d’inserimento…), impediva il raggiungimento delle soglie utili per

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Per un commento cfr. Ballestrero, Le sentenze Viking e Laval: la Corte di Giustizia “bilancia” il diritto di sciopero, in LD, 2008, 2, 371. C. giust., 18 gennaio 2007, causa C-385/05, Confédération Générale du Travail, cit. 18 Ales, Informazione e consultazione nell’impresa: diritto dei lavoratori o dovere del datore di lavoro? Un’analisi comparata, in RIDL, 2009, I, 221. 19 Morrone, Il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, in Gargiulo (a cura di), Politica e diritti sociali nell’unione Europea, Editoriale Scientifica, 2011, 202. 20 C. giust., 15 gennaio 2014, causa C-176/12, Association de mèdiation sociale, in http://curiaeuropea.eu. 21 Cfr. il commento di Corti, L’informazione e consultazione dei lavoratori tra art. 27 della Carta di Nizza e direttiva 2002/14/CE: un diritto “condizionato”, in DRI, 2014, 4, 1178. 17

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costituire degli organismi di rappresentanza e svuotava perciò in questo modo di ogni sostanza l’attuazione di un principio fondamentale del diritto dell’Unione Europea22. Ulteriori conferme sul punto possono riscontrarsi da una breve analisi della direttiva 2002/14/CE, che riguarda specificamente il tema dei diritti di informazione e di consultazione dei lavoratori. Innanzitutto, essa è intervenuta sulla questione delle sanzioni per violazione dei diritti di informazione e consultazione, con l’obiettivo di sanare anche le lacune della direttiva sui licenziamenti collettivi (che si limita a richiedere agli Stati di membri di garantire l’esistenza di «procedure amministrative e/o giurisdizionali per far rispettare gli obblighi previsti») e della direttiva 2001/23/CE sui trasferimenti d’azienda; ambedue presentano profili di estrema vaghezza circa le conseguenze sanzionatorie in caso di mancato adempimenti delle procedure previste23. All’art. 8.2 la direttiva 2002/14/CE perciò stabilisce che gli Stati membri «dispongano sanzioni adeguate applicabili in caso di violazione delle disposizioni della presente direttiva da parte del datore di lavoro o dei rappresentanti dei lavoratori. Tali sanzioni devono essere effettive, proporzionate e dissuasive». La direttiva, inoltre, estende il raggio di applicazione dei diritti di informazione e di consultazione, ritendendovi compresi, oltre alla situazione momentanea dell’impresa e della sua attività sotto il profilo economico, anche gli aspetti occupazionali e le decisioni del datore che prospettino dei mutamenti riguardo all’organizzazione del lavoro. Per far fronte alle conseguenze sociali a cui le imprese sono sottoposte, in sintesi, la direttiva incentiva l’instaurazione di relazioni industriali più partecipative24, come si evince anche dalla stessa lettura del considerando n. 7, secondo cui «occorre intensificare il dialogo sociale e le relazioni di fiducia nell’ambito dell’impresa per favorire l’anticipazione dei rischi, sviluppare la flessibilità dell’organizzazione del lavoro e agevolare l’accesso dei lavoratori alla formazione nell’ambito dell’impresa in un quadro di sicurezza, promuovere la sensibilizzazione dei lavoratori alle necessità di adattamento, aumentare la disponibilità dei lavoratori ad impegnarsi in misure e azioni intese a rafforzare la loro occupabilità, promuovere il coinvolgimento dei lavoratori nella conduzione dell’impresa e nella determinazione del suo futuro, nonché rafforzare la competitività dell’impresa». La direttiva dà inoltre una definizione precisa alla nozione di informazione, che va intesa come «la trasmissione di dati da parte del datore di lavoro ai rappresentanti dei lavoratori per consentir loro di prendere conoscenza della questione trattata e esaminarla25» ed al concetto di consultazione, quale invece «scambio di opinioni e l’instaurazione di un dialogo tra i rappresentanti dei lavoratori e il datore di lavoro26». Di nuovo, emerge l’idea

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La Corte ha poi però escluso che l’art.27 della Carta da solo o in combinato disposto con la direttiva 2002/14 potesse essere invocato nel caso di specie per disapplicare la normativa nazionale, in quanto la questione riguardava specificamente una controversia tra privati. L’unico rimedio a cui pertanto i lavoratori avrebbero potuto aspirare sarebbe stato, secondo quanto fatto valere dalla giurisprudenza risultante dalla celebre sentenza Francovich e a. il solo risarcimento del danno subito (C. giust., 19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90, Francovich e a., in http://curiaeuropea.eu). 23 Roccella, Treu, op. cit., 524. 24 Cominato, Coinvolgimento dei lavoratori e responsabilità sociale dell’impresa nell’Unione Europea, in LD, 2006, 1, 140. 25 Art. 2, lettera f, Dir. 2002/14/CE. 26 Art. 2, lettera g, Dir. 2002/14/CE.

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secondo cui le forme di rappresentanza costituiscono dei veicoli necessari per l’applicabilità e la tutela dei diritti di informazione e consultazione. Alla luce di queste considerazioni, sulla base del quadro offerto dalle due principali norme europee in tema di diritti di informazione e consultazione, è possibile ricavare il principio per cui la mancanza di organismi rappresentativi idonei implica di fatto l’impossibilità per i lavoratori di godere dei diritti di informazione e di consultazione e di conseguenza esonera il datore di lavoro dai relativi obblighi27. Partendo da questo presupposto, guardando al nostro ordinamento, sono segnalabili almeno due questioni che potrebbero determinare un sostanziale svilimento dell’effettiva garanzia dei diritti di informazione e di consultazione. Sotto un primo profilo, va considerato il fatto che in Italia gli organi di rappresentanza sono eletti in sede sindacale; pertanto, il diritto di informazione e di consultazione è di fatto garantito esclusivamente al sindacato, con la conseguenza che i lavoratori non sindacalizzati potrebbero rimanerne completamente esclusi28. Alcuni Stati membri, nel recepire la direttiva 2002/14/CE, hanno per questo pensato di disporre organi di rappresentanza ad hoc nel caso in cui all’interno di quell’impresa non vi siano rappresentanze sindacali, allo scopo di evitare che i lavoratori non sindacalizzati restino privi della tutela prevista29. Occorre poi considerare un secondo aspetto; l’importante funzione affidata al sindacato potrebbe perdere d’incisività, in ragione dell’annosa e irrisolta questione che affligge da tempo il nostro sistema delle relazioni industriali e che riguarda la rappresentatività del sindacato. Risulterebbe ancora attuale quella frase che Gaetano Vardaro utilizzò per descrivere la realtà italiana degli anni Ottanta, «intrappolata nell’insostenibile stallo di una rappresentatività senza rappresentanza»30, volendo così sottolineare la mancanza di organizzazioni sindacali fornite di un’adeguata struttura democratica. Per la verità, guardando alla situazione attuale, caratterizzata da una crescente aziendalizzazione della contrattazione collettiva e dall’implosione del sistema sindacale di fatto, si potrebbe parlare anche, invertendo la frase, di una rappresentanza senza rappresentatività. Il tema dell’ambito di applicazione dei diritti di informazione e di consultazione conduce perciò ad un’ultima riflessione, con riferimento specifico ai licenziamenti collettivi. Il fatto che il legislatore italiano abbia affidato la gestione della procedura di consultazione all’intervento del sindacato, esaltandone il controllo in via preventiva, implica dover fare i conti con la questione del rafforzamento del potere rappresentativo a monte31. Altrimenti, il rischio è quello di svuotare di senso la stessa procedura di consultazione, infilandola nei limitati spazi riservati oggi alla contrattazione collettiva con l’adozione di soluzioni poco trasparenti per i lavoratori. Francesca Coppola

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Ales, op. cit., 232. Ibidem. 29 È il caso della Danimarca e della Finlandia. Per un quadro comparato cfr. Ales, op. cit., 237. 30 Vardaro, Nuove regole dell’organizzazione sindacale, in Gaeta, Marchitiello, Pascucci (a cura di), Gaetano Vardaro Itinerari, Franco Angeli, 1989, 374. 31 Tinti, op. cit., 596. 28

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Giurisprudenza C orte di Cassazione , sez. un., 13 gennaio 2017, n. 760; Pres. Amoroso – Est. Nappi – P.M. Salvato (concl. conf.) – Mes Real Estate s.r.l. (avv.ti Vaccarella, Fabiani, Scatena, Ratti) c. Agenzia delle Entrate (Avvocatura generale dello Stato) c. e altri. Cassa con rinvio Appello Genova, decr. n. 55/2014. Previdenza sociale – Concordato preventivo – Transazione previdenziale – Crediti contributivi – Falcidiabilità – Condizioni e limiti.

Poiché la transazione fiscale nel concordato preventivo è soltanto facoltativa, in presenza di debiti tributari, anche per IVA, il debitore, senza fare ricorso alla transazione fiscale, può formulare ai propri creditori una proposta di concordato nella quale prevede di falcidiare il debito tributario per l’IVA, in quanto la disciplina dettata dall’art. 182 ter, r.d. n. 267/1942 è speciale e non può estendersi ai casi nei quali la transazione fiscale non è oggetto della proposta, posto che altrimenti il credito per IVA verrebbe ad essere dotato di un superprivilegio. Svolgimento del processo. – Con il decreto impugnato la Corte d’appello di Genova, in riforma della decisione di primo grado, rigettò la domanda di omologazione del concordato preventivo proposto il 7 novembre 2012 dalla Mes Real Estate s.r.l. I giudici del merito ritennero che, anche quando non connessa a una transazione fiscale, la proposta di concordato preventivo sia inammissibile, in quanto formulata in violazione del divieto di falcidia del credito per IVA, imposto dall’art. 182 ter L. Fall. con disposizione di natura sostanziale ed eccezionale applicabile in qualsiasi contesto procedimentale. La corte d’appello si uniformò in realtà a taluni precedenti di legittimità secondo i quali “l’art. 182 ter, comma 1, L. Fall. (come modificato dal D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 32, convertito dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2), che esclude la falcidia concordataria sul capitale dell’IVA, così sancendo l’intangibilità del relativo debito, ha natura sostanziale e carattere eccezionale, attribuendo al corrispondente credito un trattamento peculiare ed inderogabile, sicché la stessa si applica ad ogni forma di concordato, ancorché proposto senza ricorrere all’istituto della transazione fiscale, attenendo allo statuto concorsuale del credito IVA” (Cass., sez. 1, 25 giugno 2014, n. 14447, m. 631445, Cass., sez. 1, 4 novembre 2011, n. 22931, m. 620055). L’interpretazione proposta da questi precedenti è risultata peraltro molto controversa sia in dottrina sia nella giurisprudenza di merito, sulla base di argomenti ripresi nei due motivi d’impugnazione proposti dalla Mes Real Estate s.r.l., cui resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate. Sicché il Primo presidente di questa corte, in accoglimento di una richiesta della parte ricorrente, ha rimesso alle Sezioni unite di “stabilire se la previsione dell’infalci-

diabilità del credito IVA di cui all’art. 182 ter L. Fall. trovi applicazione solo nell’ipotesi di proposta di concordato accompagnata da una transazione fiscale, fattispecie alla quale la norma fa espresso riferimento, ovvero anche nell’ipotesi di concordato preventivo proposto senza fare ricorso all’istituto disciplinato dall’art. 182 ter L. Fall.”. Motivi della decisione. – 1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta che i giudici del merito, pur riconoscendo la facoltatività della transazione fiscale, quale fase meramente eventuale del procedimento di concordato preventivo, abbiano contraddittoriamente attribuito alla relativa disciplina, e segnatamente al divieto di falcidia del credito per IVA, una generale portata derogatoria della disciplina dettata per il procedimento principale. Sostiene che, se il legislatore avesse davvero inteso prevedere la infalcidiabilità del credito per IVA in ogni concordato preventivo, avrebbe inserito la deroga nell’art. 160 L. Fall., non nell’art. 182 ter destinato alla disciplina della sola transazione fiscale. Con il secondo motivo la ricorrente deduce che l’interpretazione adottata dalla corte d’appello comporta uno stravolgimento dell’ordine dei privilegi, perché il credito per IVA collocato come diciannovesimo, dovrebbe prevalere sui crediti potiori. 2. Il ricorso è fondato. Il Procuratore generale ha chiesto la dichiarazione di cessazione della materia del contendere nel presupposto del sopravvenuto fallimento della società ricorrente. Tuttavia una tale pronuncia non risulta ritualmente documentata a norma dell’art. 372 c.p.c.; sicché la corte non può tenerne conto, ma deve pronunciarsi sul ricorso. 2.1. La riforma della legge fallimentare, innovando rispetto al sistema previgente, ha riconosciuto l’ammissibilità di un concordato preventivo che preveda il pagamento non integrale dei creditori privilegiati.


Giurisprudenza

Stabilisce ora l’art. 160, comma 2 L. Fall. che la proposta di concordato preventivo “può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett. d)”. E aggiunge che “il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione”, così escludendo l’ammissibilità di un trattamento differenziato tra diversi creditori privilegiati, che non sia compatibile con l’ordine di preferenza stabilito dalla legge, anche quando il piano concordatario proponga una suddivisione in classi dei creditori. Sicché il piano concordatario può certamente prevedere “trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse” (art. 160, comma 1, lett. d L. Fall.), ma senza alterare l’ordine delle prelazioni, che a maggior ragione risulta vincolante quando una suddivisione in classi non sia prevista. L’art. 182 ter L. Fall. prevede poi che, “con il piano di cui all’art. 160 il debitore può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei relativi accessori, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori, limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria anche se non iscritti a ruolo, ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea”; aggiungendo che, “con riguardo all’imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento”. 2.2. Tale essendo il quadro normativo, ci si è domandato innanzitutto se, in presenza di debiti di natura tributaria, la transazione fiscale sia obbligatoria, condizioni cioè l’ammissibilità di qualsiasi proposta di concordato preventivo, almeno quando la proposta preveda il pagamento parziale dei crediti privilegiati. E benché non siano mancate risposte positive al quesito, è del tutto prevalente l’interpretazione che riconosce la facoltatività del ricorso alla transazione fiscale, sulla base del decisivo argomento testuale desumibile dall’incipit dello stesso art. 182 ter L. Fall., che prevede appunto la mera facoltà del debitore di promuovere contestualmente sia la procedura di concordato preventivo sia il sub procedimento per la conclusione della transazione fiscale. Sicché può ben dirsi che, quando abbia debiti tributari, per il debitore sono disponibili due ipotesi di concordato preventivo: una principale, che prescinde da un previo accordo con il Fisco; l’altra speciale, che include la transazione fiscale. E la scelta tra l’uno e l’altro procedimento dipenderà evidentemente dall’eventuale esigen-

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za imprescindibile di ottenere il voto favorevole dell’Amministrazione finanziaria, in ragione delle dimensioni del suo credito, oltre che di offrire certezza ai creditori tutti circa l’effettiva consistenza del debito tributario e di conseguenza circa le concrete prospettive di attuabilità del piano concordatario. Una proposta di concordato preventivo potrebbe infatti ottenere il consenso della maggioranza dei creditori anche senza il voto favorevole del Fisco; e le prospettive di attuabilità del piano concordatario potrebbero essere ben chiare anche senza transazione fiscale, quando l’entità del credito tributario risulti incontestata e ben definita. Il concordato con transazione fiscale è dunque una speciale figura di concordato preventivo: sia perché viene ovviamente in rilievo solo quando vi siano debiti tributari; sia perché, anche in presenza di debiti tributari, è possibile un concordato preventivo senza transazione fiscale. Tuttavia, se tra le due fattispecie di concordato preventivo v’è, come è evidente, un rapporto di specialità, non è possibile estendere alla fattispecie generale, del concordato senza transazione fiscale, la disciplina della fattispecie speciale, del concordato con transazione fiscale. Solo se si ipotizzasse l’obbligatorietà della transazione fiscale, si potrebbe riconoscere l’infalcidiabilità del credito IVA in qualsiasi concordato. Ma se si esclude che la transazione fiscale debba accompagnare necessariamente ogni ipotesi di concordato preventivo con debiti tributari, deve riconoscersi che la regola dell’infalcidiabilità operi solo per la transazione fiscale. Il rapporto di specialità intercorrente tra la disciplina del concordato semplice e la disciplina del concordato con transazione fiscale comporta che con l’eliminazione della norma speciale i casi da essa regolati rifluirebbero automaticamente nell’ambito di previsione della norma generale; sicché l’ambito di applicazione della norma speciale non può estendersi all’ambito di applicazione della norma generale. Certo, nel caso di concordato con transazione fiscale l’infalcidiabilità del credito IVA non si estenderà anche agli altri crediti privilegiati di rango potiore, che subiranno la falcidia compatibile con i limiti imposti dall’art. 160, comma 2 L. Fall. Ma in questo caso il mancato rispetto dell’ordine dei privilegi risulterebbe giustificato dal necessario consenso degli altri creditori, anche privilegiati, al cui voto sarebbe sottoposta l’intera proposta di concordato, inclusiva della transazione fiscale. Infatti, secondo quanto prevede l’art. 182 ter L. Fall., la proposta di transazione fiscale deve essere inclusa nel piano concordatario da sottoporre al voto di tutti i creditori; e in caso di approvazione della proposta il pagamento integrale del credito IVA diviene funzionale all’attuazione del piano. Sicché in questa prospettiva l’effetto di favore per il credito IVA (e per quelli assimilati) è del tutto compatibile con il sistema normativo vigente, che risulterebbe invece totalmente disarticolato se si affermasse la infal-


Carla d’Aloisio

cidiabilità del credito IVA in qualsiasi concordato preventivo, indipendentemente dalla connessione con una transazione fiscale. Ove non si intendesse vanificare il riconoscimento della falcidiabilità anche dei crediti privilegiati, introdotta dalla riforma della legge fallimentare, si finirebbe infatti per attribuire al credito per IVA una sorta di superprivilegio, per di più riconosciuto in un contesto del tutto eccentrico rispetto a quello della disciplina dell’ordine dei privilegi. Per replicare a questa obiezione si è rilevato che l’ordine legale dei privilegi non vincola il legislatore. Ma si tratta di una petizione di principio, perché è qui in discussione appunto se il legislatore abbia inteso derogare all’ordine dei privilegi senza modificarne la disciplina generale. 2.3. La tesi che vincola all’infalcidiabilità del credito per l’IVA anche il concordato senza transazione fiscale è argomentata sulla base di due assunti: la natura sostanziale ed eccezionale della disposizione sull’infalcidiabilità; la indisponibilità a livello nazionale del credito per un’imposta di natura Eurounitaria. Questo secondo assunto risulta ora smentito dalla recente sentenza 7 aprile 2016 pronunciata dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea nella causa C-546/14, che ha dichiarato Eurounitariamente compatibile la falcidiabilità del credito IVA in sede di concordato preventivo, in ragione della serietà del procedimento destinato a verificare l’impossibilità di una migliore soddisfazione della pretesa tributaria in caso di fallimento. Il primo assunto rivela immediatamente la fragilità delle sue basi, se si consideri da un canto la nota relatività della distinzione tra norme processuali e norme sostanziali, dall’altro la inafferrabilità di un concetto di norma eccezionale ancorato al solo rapporto tra regola

ed eccezione, che renderebbe eccezionali pressoché tutte le norme giuridiche, tanto frequentemente in rapporto di eccezione le une con altre. Processuale o sostanziale che sia, infatti, la regola dell’infalcidiabilità del credito IVA è inclusa nella disciplina speciale del concordato preventivo con transazione fiscale. E non si può pretendere di estenderla ai casi regolati dalla disciplina generale del concordato preventivo senza transazione. Certo, nell’ambito della disciplina speciale del concordato con transazione fiscale, la infalcidiabilità del credito IVA rappresenta un’eccezione alla regola della falcidiabilità dei crediti privilegiati anche tributari. Ma questa eccezione non può estendersi automaticamente oltre l’ambito di applicazione della disciplina speciale in cui è inclusa, come dimostra il fatto che la sua applicazione al procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento ne ha richiesto l’espressa previsione nella L. 27 gennaio 2012, n. 3, art. 7. È un argomento retoricamente efficace, ma logicamente scorretto, quello che presume di applicazione “universale” una norma qualificata eccezionale solo perché prevede un’eccezione nell’ambito di una disciplina di per sé speciale. 3. Si deve pertanto concludere con l’enunciazione del seguente principio di diritto: “la previsione dell’infalcidiabilità del credito IVA di cui all’art. 182 ter L. Fall. trova applicazione solo nell’ipotesi di proposta di concordato accompagnata da una transazione fiscale”. In accoglimento del ricorso va dunque cassata con rinvio la decisione impugnata, ma le spese del giudizio di legittimità debbono essere compensate integralmente, in ragione delle incertezze giurisprudenziali sulla questione controversa. Omissis.

La transazione previdenziale: aspetti problematici. Sommario :

1. Premessa. – 2. Criticità della sentenza annotata. – 3. Conclusioni.

Sinossi. Lo scritto è un commento alla decisione della Suprema Corte che ha ritenuto che, in sede di concordato preventivo, che abbia per oggetto crediti fiscali (cui sono equiparabili quelli contributivi), è facoltà del creditore scegliere se adottare la formula semplice ovvero quella speciale della transazione fiscale e/o previdenziale.

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In particolare, ripercorre l’orientamento della giurisprudenza di legittimità e della Corte di giustizia espresso in merito alla falcidiabilità di crediti tributari in sede di concordato preventivo, e termina con un riferimento alla nuova disciplina della transazione fiscale e/o previdenziale, in vigore dal gennaio 2017, offrendo un’interpretazione sistematica di questa normativa e di quella che regola il diritto ai contributi e le modalità di esercizio del potere di riscossione degli enti previdenziali.

1. Premessa. La sentenza commentata1, decidendo una questione particolare di massime importanza, relativa alla falcidiabilità o meno di un credito IVA, nell’ipotesi di concordato preventivo con transazione fiscale, disciplinata dall’art. 182 ter r.d. 16 marzo 19422, n. 267 (d’ora in poi, r.d. n. 267/1942), nella formulazione antecedente a quella ora vigente3 (applicabile dal 31 luglio 2010 al 31 dicembre 2016)4, ha affermato il principio secondo cui essa può trova-

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Andando in senso contrario ad un diverso proprio orientamento, ormai consolidato, secondo cui l’IVA non era mai falcidiabile, perché risorsa non disponibile dagli Stati membri dell’Unione Europea: Cass., 4 novembre 2011, n. 22931, in MGC., 2011, 11,1560; Cass., 4 novembre 2011, n. 22932, in MGC, 2011, 11,1560; Cass., 16 maggio 2012, n. 7667, in MGC, 2012, 5, 621; Cass., 30 aprile 2014, n. 9541, in D&G, 2014, 5 maggio, con nota di Tarantino; Cass., 25 giugno 2014, n. 14447, in MGC, 2014, 6, 645; Cass., 9 febbraio 2016, n. 2560, in MGC, 2016, 2, 150; Cass., 22 settembre 2016, n. 18561, in Il fallimentarista.it, 26 settembre 2016. Per un commento, si v. Stasi, Il dictum delle Sezioni Unite sulla falcidiabilità dell’I.V.A. nel concordato senza transazione fiscale, in Il fallimentarista.it, 23 marzo 2017. 2 Norma originariamente inserita dall’art. 146 d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, soggetta sino ad oggi a ben quattro modificazioni. Specificamente l’ambito d’applicazione è stato esteso ai crediti previdenziali, anche se oggetto di accordi di ristrutturazione, con l’art. 32, comma 5, lett. a), d.l. 29 novembre 2008, n. 185, conv. con modificazioni nella l. 28 gennaio 2009, n. 2. 3 A seguito dell’ultima modificazione legislativa di cui all’art. 1, comma 81, l. 11 dicembre 2016, n. 232, c.d. legge di stabilità. Per un approfondimento sul punto, si rinvia ad Andreani e Tubelli, Trattamento ‘speciale’ per i crediti tributari nel concordato preventivo, in Il Fisco, n. 5, 2017. E, per uno studio sulla transazione previdenziale, in generale, si rinvia a Marengo e La Malfa, Transazione fiscale e previdenza, Maggioli editore, 2010; Potoschinning, Marelli e Cimetti, Fallimento e altre procedure concorsuali, Giuffré, 2010; Stasi¸ Profili istituzionali della transazione fiscale, in Il nuovo diritto fallimentare, Jorio e Fabiani (a cura di), Il Mulino, 2010; Zanichelli, Transazione fiscale e proposta di concordato preventivo: riflessi sull’ammissione alla procedura e sul voto dei creditori, in AA.VV., La crisi di impresa. Questioni controverse del nuovo diritto fallimentare, Di Marzio (a cura di), Cedam, 2010; Bagarotto, L’ambito oggettivo della transazione fiscale, in Rass. Tributaria, 2011, 6; La Croce, La transazione fiscale, Giuffré, 2011; Mattei, La transazione fiscale negli accordi e nel concordato preventivo, in Trattato di diritto delle procedure concorsuali, Apice (a cura di), Giappichelli, 2011; Bozza, Crediti privilegiati e transazione fiscale, in Fallimento, 2012, 4; Mastellone, La non falcidiabilità del credito I.V.A. nel concordato preventivo prescinde dalla presenza della transazione fiscale, in Riv. Trim. dir. Trib, 2012, 260; Galardo, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Risanare l’impresa, Maggioli, 2012; Marini, La transazione fiscale: profili procedimentali e processuali, in Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Paparella (a cura di), Giuffré, 2013, 677; Allena, La transazione fiscale, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, Vassalli, Luiso e Gabrielli (a cura di), IV, Giappichelli, 2014, 604; Cama, La transazione sui debiti contributivi ed il difficile bilanciamento tra il favor per la soluzione concordata della crisi e la tutela dei diritti previdenziali, in Fallimento, I, 2015. 4 Che prevedeva: «Con il piano di cui all’articolo 160 il debitore può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei relativi accessori, nonché’ dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori, limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria anche se non iscritti a ruolo, ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea; con riguardo all’imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento. Se il credito tributario o contributivo è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica ed interessi

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re applicazione solo nell’ipotesi in cui il debitore, che fa ricorso al concordato preventivo, con oggetto crediti tributari, scelga di aderirvi ovvero sia costretto a farlo, perché senza il consenso dell’Agenzia delle Entrate non si può raggiungere la percentuale prevista dall’art. 177 r.d. n. 267/1942, per ottenerne l’omologazione. In buona sostanza, essa ha fondato il proprio ragionamento sull’assunto che il Legislatore avrebbe previsto due differenti tipi di concordato preventivo: uno generale, applicabile in qualsiasi caso, compreso quello che ha per oggetto crediti di natura tributaria e contributiva; ed, un altro, speciale, cui si può ricorrere, a scelta del debitore, solo laddove siano presenti, fra i crediti, tributi, contributi e relativi accessori. Questo principio, affermato con specifico riferimento al credito IVA è però evidentemente estensibile anche alle ipotesi in cui oggetto della transazione (che perciò è detta previdenziale) sono crediti contributivi5 che, per natura, come quelli tributari, sono indisponibili dalle parti dei rispettivi rapporti giuridici. La pronuncia, resa necessaria dal persistente contrasto giurisprudenziale e dottrinario6 circa l’ambito d’applicazione dell’art. 182 ter r.d. n. 267/1942, che si protrae già dalla sua entrata in vigore7 a causa della mancata espressa previsione della sua applicabilità vincolata o meno, dà luogo a delle incongruenze. Ciò, sia se si tiene conto dell’ambito d’applicazione della procedura del concordato preventivo (il cui perfezionamento potrebbe essere subordinato al consenso degli enti previdenziali, per ottenere la maggioranza di cui all’art. 177 r.d. n. 267/1942); che allargando l’analisi alla natura dei crediti che sono oggetto di un’eventuale transazione, che sono indisponibili; e al particolare regime giuridico del loro accredito sulla posizione assicurativa del lavoratore, che avviene anche in ipotesi di

economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie; se il credito tributario o contributivo ha natura chirografaria, il trattamento non può essere differenziato rispetto a quello degli altri creditori chirografari ovvero, nel caso di suddivisione in classi, dei creditori rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole.» 5 è necessario specificare che fra i crediti previdenziali sono da ricomprendersi quelli per contributi, sia quelli per IVS, che quelli c.d. ‘minori’ (per maternità, malattia, TFR, CUAF, CIG, CGS, DS, ecc.), sia per la quota a carico del datore di lavoro che per quella a carico del lavoratore e/o del collaboratore, dovuti all’INPS o agli altri enti gestori di forme di assicurazione obbligatoria (compreso l’INAIL). Vi sono ricompresi anche i contributi che l’imprenditore deve versare per sé a qualsiasi forma di assicurazione obbligatoria, ma sono esclusi gli altri crediti INPS, ad esempio, i crediti del fondo di garanzia da esso gestito, cioè i crediti per ratei del TFR e per le ultime tre mensilità pagati ai lavoratori, come quelli del fondo di tesoreria (sempre gestito dall’INPS ex lege) e quelli da indebite erogazioni di prestazioni). Mentre, fra gli accessori devono ricomprendersi oltre alle sanzioni pure gli interessi: per un approfondimento, si rinvia a Bagarotto, L’ambito oggettivo della transazione fiscale, in Rass. Tributaria, 2011, n. 6 e La Croce, La transazione fiscale, Giuffrè, 2011. 6 Da un canto, si sosteneva che il concordato preventivo avente ad oggetto crediti fiscali e contributivi poteva avvenire solo nella forma del concordato previdenziale; dall’altro, che la scelta dell’utilizzabilità o meno del concordato preventivo è propria del debitore. Specificamente, la Suprema Corte, nelle sentenze nn. 22931 e 22932/2011, cit., dopo aver precisato che «(…) la questione …è stata oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza di merito e della dottrina, in maggioranza schierate per la facoltatività della transazione fiscale, contestata invece dall’amministrazione(…)», ha affermato che la transazione fiscale non è obbligatoria, essendo ammissibile la remissione dei debiti tributari in ogni caso e che il ricorso ad essa permette al debitore di ottenere il consolidamento del debito fiscale e la cessazione della materia del contendere. Per una rassegna della giurisprudenza di merito sull’argomento, si veda Marengo, Giurisprudenza civile di merito in tema di remissione dell’IVA nell’ambito del concordato preventivo con o senza transazione fiscale, in www.ilcaso.it, 192, 13 marzo 2010. 7 Già dall’entrata in vigore della prima versione dell’art. 182 ter r.d.n. 267/1942, è sorto un dibattito, sia in dottrina che in giurisprudenza sulla facoltatività del suo utilizzo: sul punto, si rinvia a Stasi, Obbligatorietà e facoltatività della transazione fiscale, in Fall., 2011; Lamanna, Graduatorie tra I.V.A., ritenute fiscali e altri privilegi generali in caso d’incapienza, in www.Ilfallimentarista.it, 24 aprile 2013; Tron, Crisi d’impresa e restructuring, Giuffré, 2013, 341 e ss.

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omesso versamento delle somme da parte del datore di lavoro8, assoggettato a procedura concorsuale.

2. Criticità della sentenza annotata. L’interpretazione offerta dal giudice di legittimità non trova alcun riscontro nel dato letterale né dell’art. 160 r.d. n. 267/1942 (intitolato, presupposti per l’ammissione alla procedura), né dell’art. 182 ter r.d. n. 267/19429, (intitolato, trattamento dei crediti tributari e contributivi), che appunto disciplinano, l’uno, il concordato preventivo e, l’altro, il concordato previdenziale e/o tributario: ciò, nonostante il significato proprio delle parole, secondo la loro connessione (logico-giuridica), sia considerato un elemento decisivo ai sensi dell’art. 12 disp. prel. c.c. per l’interpretazione del senso della legge10. E, perciò, genera incongruenze che non sono altro che il frutto dell’omessa valutazione della complessa (e frammentaria) disciplina del concordato preventivo, dei rapporti fra l’art. 160 r.d. n. 267/1942, e l’art. 182 ter r.d. n. 267/1942, dei successivi interventi normativi (fra cui il d.m. 4 agosto 2009), della pronuncia (recente) della Corte di Giustizia e della nuova formulazione dell’art. 182 ter, r.d. n. 267/1942 (in vigore dal 1.1.2017) che, invece, rende obbligatoria la transazione previdenziale e/o tributaria in presenza di crediti di tale natura11. Ebbene, in nessuna delle due norme vi è un riferimento ad un’alternatività, in presenza di crediti tributari e contributivi, fra l’applicazione di un concordato con transazione previdenziale (e/o fiscale) ed uno senza, o alla necessità dell’acquisizione espressa del consenso dell’Ente previdenziale per il perfezionamento della procedura. Per contro, l’art. 182 ter r.d. n. 267/1942, prevede espressamente che il ricorso al concordato con transazione fiscale e/o previdenziale è subordinato al rispetto di dati e precisi presupposti, legati alla natura del creditore (Agenzia delle Entrate o enti previdenziali12), al tipo di credito (contributi e tributi o sanzioni, sempre nei limiti della prescrizione), e a determinate condizioni in ordine al limite minimo di sua soddisfazione: senza necessità del consenso dell’Ente,

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Che è obbligato a versare oltre alla propria anche la quota a carico del lavoratore ex art. 19 l. 4 aprile 1952, n. 218. La transazione previdenziale può essere utilizzata solo dai soggetti fallibili ai sensi dell’art. 1, comma 1, r.d. n. 267/1942, nonché dagli imprenditori agricoli, che sono legittimati ad accedere agli accordi di ristrutturazione dei crediti ex art. 23, comma 43, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con modificazioni nella l. 15 luglio 2011, n. 111; invece, ai soggetti non fallibili è applicabile la diversa disciplina introdotta dalla l. 27 gennaio 2012, n. 3 (capo II, intitolato, Procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio), modificato dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con modificazioni nella l. 17 dicembre 2012, n. 221 e, successivamente, integrato dal d.l. 22 ottobre2016, n. 193, conv. con modificazioni nella l. 1° dicembre 2016, n. 225. 10 In tal senso, Cass., 26 gennaio 2012, n. 1111, in MGC, 2012, I, 77, ove ampi riferimenti alla giurisprudenza di legittimità. 11 Per un approfondimento relativo all’ultima versione della norma, si rinvia a Spadaro, Il trattamento dei crediti tributari e contributivi secondo il nuovo art. 182 ter l. fall., in Fallimento, I, 2018. 12 Nozione che ricomprende non solo quelli pubblici, ma anche quelli di previdenza obbligatoria privatizzati ex d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e quelli specificamente costituiti per i liberi professionisti ex d.lgs. 10 febbraio 1996, n. 103: enti questi ultimi che hanno natura pubblica, pur avendo un’organizzazione privata, secondo Cons. Stato, 28 novembre 2012, n. 6014, in FA, Cons. Stato, 2013, 4, 1050, con nota di Torano. 9

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che comunque potrebbe essere dato solo alle condizioni, più restrittive, di cui al d.m. 4 agosto 200913. Così come detta interpretazione non è in linea con la ratio ispiratrice dell’art. 182 ter r.d. n. 267/1942, che è stata quella – appunto – di incentivare il ricorso al concordato preventivo, anche in presenza di crediti indisponibili, trovando un punto di raccordo fra la necessità di realizzazione di un celere risanamento del datore di lavoro14 in crisi, considerato che nella gran parte dei casi detta procedura rimaneva inutilizzata, giacché vi era l’impossibilità di ottenere un integrale adempimento dei crediti per tributi e contributi (presenti spesso in ipotesi in cui un imprenditore versa in stato di crisi); e quella di contenimento del sacrificio di diritti indisponibili, altrimenti intangibili, attraverso la previsione di precisi limiti15. In buona sostanza, la transazione (fiscale e/o previdenziale) cercava di ottenere un contemperamento fra la necessità di salvaguardare l’esercizio di un’attività economica e quella di contenimento dell’aumento della spesa pubblica, generato – nello specifico caso dei contributi – dall’omesso versamento: sia per una diminuzione delle risorse destinate al pagamento delle prestazioni previdenziali correnti16; sia per la necessità di accredito dei contributi maturati (e non versati) sulla posizione assicurativa del lavoratore, o ex art. 3 d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 8017, ove si ritenesse la norma applicabile anche in ipotesi di concordato preventivo; ovvero per il principio di automaticità delle prestazioni18.

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Emanato a seguito di un’espressa previsione dell’art. 32, comma 6, d.l. 185/2008, conv. con modificazioni nella l. n. 2/2009, che affidava al Ministero del lavoro il compito di definire «(…) le modalità di applicazione nonché i criteri e le condizioni di accettazione da parte degli enti previdenziali degli accordi sui crediti contributivi». In particolare, all’art. 3, prevede che la proposta di pagamento parziale per i crediti privilegiati di cui al n. 1 del primo comma dell’art. 2778 c.c. e per i crediti per premi non può essere inferiore al cento per cento e per i crediti privilegiati di cui al n. 8) del primo comma dell’art. 2778 c.c. non può essere inferiore al quaranta per cento; che la proposta di pagamento parziale per i crediti di natura chirografaria non può essere inferiore al trenta per cento; che la proposta di pagamento dilazionato non può essere superiore a sessanta rate mensili con applicazione degli interessi al tasso legale, nel tempo, vigente. 14 Misino afferma che l’art. 186 bis, r.d. n. 267/1942 «(…) abbia riconosciuto il valore della preservazione dell’attività d’impresa già affermato come uno dei fondamenti della procedura di amministrazione straordinaria. (…)», in Il concordato di risanamento puro o soggettivo, in www.ilcaso.it, 2, 12 maggio 2015; mentre, Marengo sostiene che «(…) L’intento del legislatore della riforma abbia voluto perseguire con la creazione di queste nuove regole è chiaro e pacifico: favorire il risanamento dell’imprenditore in stato di crisi», in La transazione fiscale e previdenziale alla luce delle recenti sentenze della Cassazione: burocrazia, giurisprudenza e attività normativa. www.ilcaso.it, 2, 27 febbraio 2012. 15 Marazza, in Il debito contributivo dell’impresa insolvente, in WP D’Antona, It, n. 325/2007, 4, afferma che: «Per i giuslavoristi va innanzitutto detto che l’istituto in questione, in buona sostanza, consente all’imprenditore ‘fallibile’, che risulti insolvente, ma solo nell’ambito di un concordato (art. 160 l.f.) o di un accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 182bis, l.f.), di raggiungere un accordo con l’’ente gestore di forme di previdenza e assistenza obbligatorie che sia rimasto creditore dei contributi previdenziali non puntualmente adempiuti». 16 Sui principi fondanti il sistema previdenziale italiano, si vedano, Persiani, Diritto della previdenza sociale, Cedam, 2015; Persiani, Ancora sull’esistenza di una solidarietà previdenziale, in ADL, 2016, III, 552; Pessi, Lezioni di diritto della previdenza sociale, Cedam, 2016; Sandulli, Previdenza complementare, in DDP civ., XI, Giappichelli,1995, 243 e ss. 17 Nel caso in cui il datore di lavoro sottoposto ad una delle procedure di cui all’art. 1, comma 1, d. lgs. n. 80/1992 abbia omesso, in tutto o in parte, di versare i contributi per l’assicurazione obbligatoria invalidità, vecchiaia e superstiti e non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione, il lavoratore interessato, a condizione che non vi sia stata costituzione della rendita vitalizia ai sensi dell’art. 13 l 12 agosto 1962, n. 1338, e il suo credito sia rimasto in tutto o in parte insoddisfatto in esito a una delle procedure indicate, può richiedere al competente istituto di previdenza e assistenza obbligatoria che ai fini del diritto e della misura della prestazione vengano considerati come versati i contributi omessi e prescritti. In merito, si rinvia a Vallebona, La garanzìa dei crediti di lavoro e della posizione previdenziale in caso di insolvenza del datore di lavoro, in RIDL, 1993, 1. 18 Introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 27 r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, limitatamente alle prestazioni dell’assicurazione per T.B.C., D.S., nuzialità e natalità e, successivamente, ex art. 40 l. 30 aprile 1969, n. 153 e 23 ter, d.l. 30 giugno 1972, n. 267, conv. con

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Né considera la differente disciplina contenuta nelle due norme. L’art. 160 r.d. n. 267/1942, non prevede né esclude la falcidiabilità di alcun credito, ma solo che il soddisfacimento dei creditori debba avvenire entro dati limiti19, rispettando l’ordine dei privilegi di cui al c.c.. Per contro, l’art. 182 ter r.d. n. 267/1942, stabilisce in che misura si possa disporre dei crediti tributari e contributivi e pone una deroga all’ordine dei privilegi di cui al c.c.20, in favore dei tributi (che, in questo caso, non devono essere soddisfatti con grado successivo ai contributi). Come pure, non sembrano in linea con l’ordinamento giuridico vigente i corollari del detto principio. Non lo è quello secondo cui il debitore può disporre arbitrariamente di crediti (tributari e contributivi)21, indisponibili nei limiti della prescrizione anche dalle parti del rapporto in cui questi hanno la propria fonte22: né dal debitore (datore di lavoro), che è tenuto all’integrale versamento, né dai creditori (enti previdenziali23), che devono necessariamente riceverli; né dal terzo beneficiario (lavoratore) sulla cui posizione assicurativa vanno prontamente accreditati. Infine, non tiene conto di quanto recentemente stabilito, in merito, dalla Corte di Giustizia (C. giust., 7 aprile 2016, causa C–546/2014, Degano trasporti S.a.s. Di Ferruccio Degano & C., paragrafo, n. 29)24, che circa la transazione di crediti per tributi, postula che la falcidia è compatibile con l’ordinamento giuridico europeo a condizione che, sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente, tale debito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di fallimento25. Principio che, invece, avrebbe dovuto essere applicato,

modificazioni nella l. 11 agosto 1972, n. 485, esteso anche ai contributi per I.V.S. e ai premi per infortunio ex art. 67 d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124. Sull’operatività del principio di automaticità delle prestazioni, si rinvia a Persiani, Diritto della previdenza sociale, Cedam, 2016 e Ancora sull’esigenza di una solidarietà previdenziale, in ADL, 2016, 3, 552. 19 In particolare, se il credito, tributario o contributivo, è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una garanzia ed interessi omogenei a quelli delle agenzie e di enti gestori di forme di previdenza obbligatorie; così come se il credito per contributi è chirografario non può essere differenziato da quello di altri creditori chirografari o se questi sono suddivisi in classi da quello dei creditori per i quali è stabilito un trattamento più favorevole. 20 v. artt. 2751 e ss. c.c.; 21 Sono esclusi tutti gli altri crediti vantata dagli enti previdenziali, ad es.: conseguenti ad indebiti dazioni di denaro di cui ha beneficiato il datore di lavoro, ecc. 22 Difatti, i contributi che devono essere versati dal datore di lavoro, pur se accreditati sulla posizione assicurativa dei lavoratori, in base al principio di ripartizione (che regola l’ordinamento della previdenza sociale), sono utilizzati come provvista per le prestazioni in corso di pagamento e, non direttamente per il finanziamento delle prestazioni di detto lavoratore, che sarà costituito invece dai contributi di coloro che lavoreranno, quando percepirà il trattamento previdenziale. L’accredito dei contributi sulla posizione del lavoratore non ha la funzione di accantonare risorse in suo favore, ma solo quella di determinare il parametro da utilizzare per il futuro calcolo dell’importo del trattamento da percepire. Tanto è vero che, se a causa fallimento del datore di lavoro, i contributi non sono versati da questi, sono accreditati comunque ex lege dall’INPS sulla posizione assicurativa del lavoratore, che potrà utilizzarli per i fini suddetti. Per cui, a causa del minor gettito contributivo, nell’immediato, si determina una contrazione delle somme destinate al pagamento delle prestazioni con conseguente intervento della fiscalità generale senza che il lavoratore ne venga pregiudicato. 23 Cioè incedibili, intransigibili ed irrinunciabili. 24 In Rivista dei Dottori Commercialisti 2016, 2, 331, con nota di Chiaraviglio. 25 In buona sostanza: «L’articolo 4, paragrafo 3, TUE nonché gli articoli 2, 250, paragrafo 1, e 273 della Dir. 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, interpretata nel senso che un imprenditore in stato di insolvenza può presentare a un giudice una domanda di apertura di una procedura di concordato preventivo, al fine di saldare i propri debiti mediante la liquidazione del suo patrimonio, con la quale proponga di pagare solo parzialmente un debito dell’imposta sul valore aggiunto attestando, sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente, che tale debito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di proprio

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producendo nel nostro ordinamento (come in quello di tutti gli altri Stati membri) effetti immediati, avendo lo stesso rango, nella gerarchia delle fonti, delle norme comunitarie cui si riferisce (C. cost., 7 febbraio 2000, n. 4126; C. cost., 10 novembre 1994, n. 38427, C. cost., 16 marzo 1990, n. 13228, C. cost., 11 luglio 1989, n. 38929; C. cost., 3 febbraio 1986, n. 2930), così da vincolare l’interpretazione giurisprudenziale31. Tutte le incongruenze rilevate su un piano teorico, si ripercuotono anche in sede di applicazione, producendo i seguenti effetti giuridici. In primo luogo, è il debitore (qualora non sia necessario acquisire il consenso dell’ente previdenziale per la maggioranza di cui all’art. 177 r.d. n. 267/194232) che sceglie la modalità di falcidia dei crediti contributivi, potendo alternativamente far ricorso ad una delle due forme di concordato, legate da un rapporto di genere a specie: una definita ‘generale’ che si applica quali che siano i tipi di credito (sia contributivi, che tributari, che di altra natura) oggetto della procedura; l’altra speciale, che può ricorrere solo nell’ipotesi in cui siano presenti crediti, tributari e/o previdenziali, per i quali è appunto previsto un trattamento particolare. Di talché, nell’ipotesi, in cui il debitore scelga di non far ricorso alla transazione previdenziale perché può raggiungere la maggioranza richiesta (art. 177 r.d. n. 267/1942) con il consenso dei creditori diversi dagli enti previdenziali e dall’Agenzia delle Entrate, ha facoltà di falcidiare arbitrariamente crediti indisponibili, a condizione che però rispetti l’ordine dei privilegi di cui all’art. 160 r.d. n. 267/1942; nell’altra, l’ente previdenziale impedisce inevitabilmente il ricorso al concordato preventivo se la proposta non soddisfa le condizioni di cui al detto d.m. 4 agosto 2009, dovendo necessariamente prestare il proprio consenso per il perfezionamento dell’accordo e, quindi, attenersi alle prescrizioni ivi contenute.

fallimento». In RIDPC, 2000, 175, con nota di Cartabia. 27 In FA, 1996, 377 con nota di Caranta. 28 In RIDPC, 1991, 513. 29 In Il merito, 2007, 6, 61. 30 In Riv. Giur. Ambiente, 1986, 581. 31 Invece, Marazza, op. cit., 18, ritiene che il d.m. prevalga sulla norma, in quanto ha carattere speciale rispetto a quest’ultima, superando ogni previgente regolamentazione incompatibile per effetto della sua implicita abrogazione. Tuttavia, non può tralasciarsi di segnalare che in dottrina e giurisprudenza si è andato diffondendo l’orientamento per il quale la disciplina dettata dal d.m. in quanto contraria a disposizioni di legge di rango superiore, può essere disapplicata dal giudice ordinario ex art. 5 l. 20 marzo 1865, n. 2264, all. E (cfr., in dottrina Del Federico, Questioni controverse sulla transazione fiscale, in Corr. Trib., 2010, 2379). 32 Il quale prevede che la domanda di concordato preventivo deve essere approvata dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto e che, ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se si può ottenere il voto favorevole di quelli che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto nelle singole classi. Tuttavia, l’autonomia nella suddivisione dei creditori in classi trova un proprio limite nella lett. c) dell’art. 160 r.d. n. 267/1942, che prevede che la suddivisione avvenga secondo posizioni giuridiche e interessi economici omogenei (Cass., 4 febbraio 2009, n. 2706, in FI, 2009, 9, I, 2370). La tematica dell’eventuale conflitto fra creditori è stata approfondita da Sacchi, Concordato preventivo, conflitto di interessi fra creditori e sindacato dell’autorità giudiziaria, in Fallimento, 2009, 32, ss.; Fabiani, Brevi riflessioni su omogeneità degli interessi e obbligatorietà delle classi nei concordati, in Fallimento, 2009, 437, ss; D’Attorre, Il conflitto d’interesse fra creditori nei concordati, in GComm., 2010, I, 392; Terranova, Conflitti d’interesse e giudizio di merito nelle soluzioni concordate delle crisi d’impresa, in Fortunato, Giannalli, Guerrera e Perrino (a cura di), La riforma della legge fallimentare, Giuffrè, 2011, 163. 26

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Giurisprudenza

Perciò, dall’applicazione di questo principio giurisprudenziale, che apparentemente aveva la finalità di facilitare il ricorso al concordato preventivo, paradossalmente potrebbe derivarne un impedimento, o quantomeno, una limitazione. Al debitore può essere inibito il ricorso a qualsiasi tipo di concordato preventivo: ad es., non può applicarsi l’art. 160 r.d. n. 267/1942, poiché senza il consenso dell’Agenzia delle Entrate e/o degli enti previdenziali non si raggiunge la percentuale di cui all’art. 177 r.d. n. 267/1942, ovvero non vi è modo di soddisfare i crediti secondo l’ordine dei privilegi cui questa norma fa riferimento; ma, al tempo stesso, non può farsi ricorso all’art. 182 ter r.d. n. 267/1942, perché l’Ente previdenziale non presta il consenso, non ricorrendo tutte le condizioni di cui al d.m. 4 agosto 2009. A ciò si aggiunga un’ulteriore considerazione, che se il debitore decide di utilizzare il concordato di cui all’art. 160 r.d. n. 267/1942, quello, per così dire ‘generale’, dovendo rispettare l’ordine dei privilegi33, potrebbe addirittura essere costretto ad offrire in pagamento all’Agenzia delle Entrate e/o agli enti previdenziali somme superiori a quelle che erogherebbe in ipotesi di ricorso all’art. 182 ter r.d. n. 267/1942. Perciò, se è vero, come sostiene la Corte di legittimità, che l’art. 182 ter r.d. n. 267/1942, essendo una disposizione particolare (e quindi, eccezionale) rispetto alla disciplina del concordato preventivo, applicandosi solo in presenza di crediti contributivi e previdenziali (come indicato nella sua intitolazione), e contenendo al suo interno eccezioni ai principi cardine del nostro ordinamento, quello all’ordine dei privilegi di cui all’art 160 r.d. n. 267/1942 (che rinvia al c.c.)34 e quello alla falcidia di crediti indisponibili per natura; è, però, altrettanto vero, che dette eccezioni trovano giustificazione nella necessità sia di stabilire, come presupposto del concordato preventivo, un trattamento di miglior favore per i crediti IVA rispetto a quelli contributivi, posto che gli artt. 2, 250, par. 1, e 273, dir. 2006/112/CE e l’art. 4, par. 3, TUE, dispongono che gli Stati membri hanno l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio35, pur avendo una certa libertà di scelta dei mezzi a loro disposizione36; che di porre una deroga, anche se entro dati limiti, all’indisponibilità dei crediti contributivi e tributari, che così possono essere ridotti anche senza il consenso dei titolari.

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Con precipuo riferimento ai crediti previdenziali l’art. 2753 c.c. riconosce un privilegio generale mobiliare, qualificato dall’art. 2778 c.c. di primo grado. Esso è limitato a favore dei crediti derivanti dal mancato versamento di contributi dovuti ad enti, istituti o fondi speciali (inclusi quelli sostitutivi o integrativi) che gestiscono forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti. Invece, tutti gli altri crediti per contributi diversi dall’IVS e per il 50% dell’ammontare degli accessori, è di ottavo grado, secondo il combinato disposto degli artt. 2754 e 2778 c.c. Il credito per il residuo 50% degli accessori ha natura chirografaria. 34 Che deve ritenersi legittimo, perché disposto con legge: così C. cost., 18 luglio 2014, n. 215, in GCost, 2014, IV, 3416, con nota di Mezzacapo. Specificamente, ivi è stato affermato: «A prescindere dal rilievo che la normazione comunitaria e interna ora richiamata non risulta applicabile, ratione temporis, alla fattispecie, si deve premettere che questa Corte, con giurisprudenza costante, ha affermato il principio secondo cui, in materia di previdenza e assistenza sociale, il legislatore gode di ampia discrezionalità che, attraverso un bilanciamento dei valori contrapposti, incontra il solo limite del rispetto dei principi di eguaglianza e ragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 120 e n. 36 del 2012; n. 234 del 2011; n. 234 del 2008 e n. 202 del 1999; ordinanza n. 448 del 1999)». 35 V. sentenze: C. giust., 12 gennaio 2006, causa C-132/06, Commissione/Italia, in http://curia.europa.eu; C.giust., 10 aprile 2008, causa C-412/2008, punto 37, Belvedere Costruzioni,in DG on line, 2008; C. giust., 22 ottobre 2010, n. 105, causa C-105/2013, Hoge Raude der Nederlanden, in FA CdS, 2013, 10, 2652; C. giust., 13 febbraio 2014, causa C-419/2012 e 420/12 Crono Service S.pA. e altri, in http:// curia.europa.eu. 36 V. sentenze: C. giust., 12 gennaio 2006, causa C -132/06, cit.; C. giust., 10 aprile 2008, causa C-412/2008, cit.

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Di talché, l’art. 182 ter r.d. n. 267/1942, norma con il carattere dell’eccezionalità, costituisce sì una deroga all’ipotesi generale (di cui all’art. 160, r.d. n. 267/1942), ma è di applicazione obbligatoria in ipotesi di crediti contributivi e tributari, consentendo di ridurre – nell’ambito di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti – l’importo delle somme dovute all’imprenditore insolvente soggetto a fallimento, anche se entro dati limiti, dilazionando il tempo di pagamento, senza il rispetto dell’ordine dei privilegi e la necessità di ottenere il consenso dell’Ente previdenziale. Difatti, pur facendosi riferimento nell’art. 182 ter r.d. n. 267/1942, al termine transazione, ciò nonostante non vi è la previsione di un accordo che condiziona l’operatività della fattispecie in esso prevista, essendo sufficiente che la proposta del debitore rispetti le condizioni ivi indicate, cui è subordinata l’omologazione, anche in assenza di un consenso espresso dell’Ente e senza incidere sul diritto del lavoratore all’accredito dei contributi sulla posizione assicurativa37, giacché oggetto di questa attività giuridica è solo il diritto all’importo complessivo delle somme dovute agli enti previdenziali, non quello del lavoratore ad una regolare posizione assicurativa. Di conseguenza, un’interpretazione alternativa a quella data dal giudice di legittimità, potrebbe essere quella secondo cui il debitore non è libero di scegliere fra l’applicazione dell’una o dell’altra disciplina, dovendo far ricorso necessariamente, in presenza di crediti tributari e previdenziali, al c.d. ‘concordato previdenziale e/o tributario’ che, in quanto norma speciale, è prevalente rispetto a quella generale di cui all’art. 160 r.d. n. 267/1942. Conseguenza diretta sarebbe che, ai fini della maggioranza di cui all’art. 177 r.d. n. 267/1942, l’Agenzia delle Entrate e gli enti previdenziali non esprimono il consenso, dovendo essere considerata vincolante anche per essi la domanda del debitore, se rispettosa dei limiti di falcidia dei crediti, espressamente previsti.

3. Conclusioni. Alla luce delle predette considerazioni, dovendo tirare le fila del discorso e offrire una soluzione che, per le ipotesi verificatesi ante 1.1.2017, pur assicurando il rispetto della pronuncia del giudice di legittimità, ne circoscriva però gli effetti incongruenti, deve inevitabilmente farsi ricorso al principio enunciato dalla Corte di Giustizia, che offre il parametro di valutazione della legittimità del concordato tributario e previdenziale e comunque, dei limiti di legittimità della falcidiabilità di crediti tributari e contributivi. Dallo stesso, è possibile ricavare sia i confini entro cui può estendersi il sacrificio di crediti indisponibili (quali sono i tributi e i contributi), che i limiti c.d. esterni di legalità del consenso dell’Ente, non potendo più farsi ricorso a quelli di cui al d.m. 4 agosto 2009, da intendersi abrogato tacitamente, poiché in contrasto con quanto stabilito in fonte nor-

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Così Piazza, in La transazione fiscale e la sua efficacia ai fini dell’omologa del concordato preventivo, in CG¸2011, 28, VI, 868. Inoltre, sulla natura giuridica dell’istituto, si legga vinciarelli, Somme da transazione: trattamento contributivo e fiscale, in DPL, 2008, III, 1175.

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Giurisprudenza

mativa di grado superiore (costituita, appunto, da detta decisione); nonché la sussistenza dell’interesse (processuale) dell’Ente all’impugnazione del decreto di omologazione. Pertanto, ipotizzando esistenti in quel lasso temporale due specie di concordato, è questo il criterio che può guidare il debitore nella scelta dell’una o dell’altra specie. Se in altra sede (compresa quella fallimentare) non può essere ottenuto un risultato migliore, si possono falcidiare crediti contributivi, o rispettando l’ordine dei privilegi di cui all’art. 160 r.d. n. 267/1942, o i limiti di cui all’art. 182 ter r.d. n. 267/1942, e questa falcidia non può essere arginata dalla mancata prestazione del consenso dell’Ente, pena il verificarsi di un danno costituito dal minor introito di denaro e dal maggior dispendio di mezzi e risorse da impiegare nella diversa procedura concorsuale, generatore di responsabilità amministrativa; né processualmentse la scelta potrebbe essere impedita dall’impugnazione del decreto di omologazione, inammissibile per carenza di interesse. Così, se da un canto il debitore è libero di scegliere il tipo di concordato utilizzabile, dall’altro non deve chiedere il consenso dell’Ente, che sarebbe irrilevante, in quanto la scelta è vincolata al rispetto del detto criterio, enunciato dalla C. giust. Criterio questo che, se anche non espressamente recepito nel nuovo testo dell’art. 182 ter r.d. n. 267/1942, si applica alle specie che si verificheranno sotto la sua vigenza, costituendo anche in questo caso il metro per valutarne la legittimità e, quindi, la sussistenza di un interesse processuale dell’Ente previdenziale all’eventuale impugnazione del decreto di omologazione. Carla d’Aloisio

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Giurisprudenza Tribunale Bologna, ordinanza 7 luglio 2017; Giud. Sorgi. Appalti – Successione di appalto – Mera riduzione dell’attività appaltata – Non configurabilità degli elementi di discontinuità ex art. 29, comma 3, d.lgs. n. 276/2003 – Sussistenza del trasferimento d’azienda.

Stante l’ultima modifica dell’art. 29, comma 3, d.lgs. n. 276/2003 il cambio di appalto è riconducibile alla fattispecie del trasferimento d’azienda di cui all’art. 2112 c.c. qualora nel nuovo appalto non sia rinvenibile alcun elemento di discontinuità: una mera riduzione quantitativa dell’attività svolta non può essere qualificata tale. Concisa

esposizione delle ragioni di fatto e di di-

ritto della decisione.

Con ricorso ex art. 1 comma 47 1.92/2012 depositato davanti al Giudice del lavoro di Bologna, omissis, dichiarava di aver lavorato presso la omissis di Bologna in omissis e omissis quale addetta alle pulizie come dipendente di omissis dall’1.7.2014. In data 4.11.2016 la società omissis disponeva il licenziamento della ricorrente per perdita dell’appalto e subentro nel medesimo da parte omissis e omissis (da omissis). Precedentemente con lettera del 13.9.2016 la omissis comunicava alla ricorrente, ai sensi dell’art. 4 CCNL Multiservizi, che dal 30.9.2016 sarebbe subentrata nell’appalto omissis e che ai sensi della normativa contrattuale richiamata la lavoratrice avrebbe avuto diritto, al termine del periodo di astensione obbligatoria per maternità, all’assunzione presso la subentrante. In conclusione della lettera la Cooperativa invitava la ricorrente a comunicare alla omissis la data di ripresa dell’attività a ridosso del termine del periodo di astensione. Con lettera del 24.10.2016 la signora omissis comunicava a omissis che in data 7.11.2016 sarebbe terminato il periodo di astensione obbligatoria e che conseguentemente la lavoratrice da quella data avrebbe preso servizio presso l’appalto omissis. A tale comunicazione rispondeva la società affermando di applicare il CCNL Servizi (Anpit Cisal) e che tale CCNL non conteneva alcuna clausola sociale, di non avere pertanto alcun obbligo di riassunzione e/o di assorbimento del personale addetto all’appalto. Omissis. In data 7.11.2016 la ricorrente impugnava la mancata assunzione nei confronti della omissis, impugnava inoltre il licenziamento della omissis sia per violazione dell’art. 2112 c.c. sia per violazione del divieto di licenziamento della lavoratrice madre sino al compimento di un anno di vita del bambino ex art. 54 D.Lgs. 151/2001. Con riferimento poi all’art. 2112 la ricorrente richiamava la modifica introdotta al III° comma dell’art. 29 D.lgs. 276/2003 che aveva determinato la riscrittura dell’articolo citato per il quale ora: «L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di su-

bentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda». Chiedeva venisse dichiarata la nullità e/o inefficacia e/o illegittimità o venisse annullato il licenziamento intimato alla ricorrente da omissis, in quanto disposto in violazione della norma imperativa di legge di cui all’art. 2112 c.c., nonché dell’art. 54, d.lgs. 151/01, e per l’effetto venisse condannata la omissis a reintegrare la ricorrente, ai sensi dell’art. 18, comma 2, della legge 300/70, con effetto dal 7.11.2016 dalla diversa data che risulterà in giudizio, nel suo posto di lavoro in qualità di addetta alle pulizie presso l’appalto omissis di Bologna e nella medesima posizione legale e contrattuale posseduta sino alla data del licenziamento, ovvero, in via subordinata o alternativa ordinare la reintegra della ricorrente presso la omissis dalla data del licenziamento e conseguentemente ordinare la prosecuzione ininterrotta del rapporto presso la cessionaria omissis, condannando quest’ultima a iscrivere la ricorrente al LUL con diritto alle retribuzioni perdute dalla data del licenziamento, ovvero da quella risultante all’esito del giudizio, sino a quella dell’effettivo ripristino del rapporto. Inoltre chiedeva di condannare omissis, e omissis, in via solidale o alternativa fra loro, al pagamento in favore della ricorrente di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, indicando la RGF in € 339,22. In via subordinata se non riconosciuta una ipotesi ex art. 2112 veniva chiesta la nullità del licenziamento intimato alla lavoratrice in data 7.11.2016 da omissis per violazione dell’art. 54, comma 1, legge 151/01, ai sensi dell’art. 18, comma 1, legge 300/70 e conseguentemente la condanna della omissis alla reintegra della ricorrente nel suo posto di lavoro e al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto


Giurisprudenza

maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque nella misura minima di 5 mensilità. Si costituiva in giudizio omissis e, richiamando la normativa ex art. 29 d. lgs.276/2003 come modificata dall’art. 30 1. 122/2016 (decorrenza 23/7/2016) dichiarava di ritenere evidente come la mancata assunzione della ricorrente posta in essere dalla omissis si palesasse oltremodo illegittima e che quest’ultima dovesse essere condannata alla costituzione del rapporto con la ricorrente e, se del caso, a risarcire il danno subito. La omissis non aveva in alcun modo provveduto alla risoluzione del rapporto di lavoro con la ricorrente prima dell’intervenuto passaggio di appalto, bensì aveva ottemperato alla normativa contrattualistica del settore mantenendo il rapporto di lavoro sino all’esaurirsi della causa (astensione obbligatoria per maternità) che rendeva non esigibile la prestazione lavorativa. Solo alla comunicazione del rientro al lavoro aveva provveduto al suo licenziamento quale conditio sine qua non del passaggio di appalto richiamando l’art. 4 CCNL per il quale: «Nell’ipotesi in cui siano in atto, al momento della cessazione, sospensioni dal lavoro che comunque comportino la conservazione del posto di lavoro, il rapporto continuerà alle dipendenze dell’azienda cessante e l’addetto verrà assunto dall’azienda subentrante nel momento in cui venga meno la causa sospensiva». Omissis. Si costituiva in giudizio omissis che contesta il requisito ex art. 2112 precisando come non vi fosse alcuna identità con il precedente appalto con omissis. L’appalto assegnato ad omissis era più circoscritto e in ogni caso rimaneva indimostrata l’identità di termini, modalità e prestazioni contrattuali. Omissis. La società inoltre dichiarava di non applicare ai propri dipendenti il CCNL ex adverso invocato per il personale dipendente da imprese esercenti servizi di pulizia e servizi integrati/multiservizi, né è in alcun modo vincolata ad applicarlo, applicando alla generalità dei propri dipendenti il diverso CCNL Servizi Confazienda Cisal che non prevede alcun obbligo di assunzione per l’ipotesi di cambio appalto.

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Omissis. L’ipotesi ex art. 2112 c.c. veniva contestata dalla società. Omissis. Ritiene il giudice sciogliendo la riserva che il ricorso possa essere accolto anche relativamente al rito adottato. L’ipotesi in esame è chiaramente riconducibile all’art. 2112 c.c. stante l’ultima modifica dell’art. 29 III° d.lgs.276/2003 ricordato posto che nel caso di specie alcun elemento di discontinuità si rileva nell’appalto, posto che una mera riduzione quantitativa non può essere qualificata tale. Omissis. Si tratta nella sostanza di un licenziamento che si è connesso sostanzialmente con la comunicazione di mancata assunzione da parte di omissis non consentito dalla legge, in particolare dall’art. 2112 c.c., conseguentemente nullo. Omissis. Al rientro dalla maternità la ricorrente doveva automaticamente passare alle dipendenze della omissis indipendentemente dal contratto collettivo utilizzato dalla stessa e, ricorrendo l’ipotesi di cui al I° comma dell’art. 18 1.300/1970 deve essere dichiarata la nullità del licenziamento da parte della omissis e della conseguente mancata assunzione operata da omissis che deve pertanto essere condannata alla reintegra del rapporto con omissis con le modalità del precedente rapporto ed al risarcimento consistente nelle retribuzioni dal licenziamento di omissis (4/11/2016, necessitato per consentire il passaggio in omissis) fino al ripristino del rapporto di lavoro utilizzando come parametro di riferimento la RGF indicata dalla ricorrente di € 339,22 non contestata. Risulta che omissis abbia operato legittimamente perché al rientro dalla maternità stante il disposto dell’art. 2112 c.c. la ricorrente doveva prendere servizio con la società subentrante e quindi il rapporto con omissis doveva comunque cessare, anche se le conseguenze dell’illegittimo licenziamento non possono riverberarsi su quest’ultima per le ragioni esposte. Omissis.


Anna Nicolussi Principe

Cambio di appalto e trasferimento d’azienda, un difficile confine. Quale ausilio dal legislatore? Sommario : 1. Il caso. – 2. Le questioni. – 3. Il cambio di appalto tra libertà d’impresa e tutela del lavoro. – 4. Il diritto eurounitario quale mezzo di bilanciamento. – 5. La nozione eurounitaria di trasferimento d’azienda quale criterio discretivo della fattispecie. – 6. La qualificazione giuridica in concreto: ulteriori prescrizioni derivanti dalla giurisprudenza eurounitaria. – 7. La novella del 2016: necessità di un’interpretazione eurounitariamente orientata.

Sinossi. L’ordinanza annotata rappresenta una delle prime applicazioni della disciplina contenuta nell’art. 29, comma 3, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, così come novellato dall’art. 30 della l. 7 luglio 2016, n. 122. L’elaborato si propone di commentare la decisione alla luce di un’interpretazione eurounitariamente orientata della novella, cercando di individuare un’attendibile linea di confine tra il cambio di appalto inteso come mero avvicendamento tra due soggetti nello svolgimento della medesima impresa e il trasferimento d’azienda, specie alla luce della profonda diversità di effetti che ne derivano sui rapporti di lavoro subordinato.

1. Il caso. Il caso di specie attiene a una vicenda di cambio di appalto relativa a un servizio di pulizie, ossia un’attività c.d. labour intensive caratterizzata dalla preminenza dell’impiego di manodopera nello svolgimento dell’attività d’impresa1. Alla scadenza del contratto stipulato tra il committente e la prima società appaltatrice, seguiva la stipulazione di un nuovo contratto di appalto per lo svolgimento del medesimo servizio tra lo stesso committente e una nuova società. Dal contratto scaturiva l’obbligo per la subentrante di svolgere il medesimo servizio reso dalla prima appaltatrice, modificato solo in termini quantitativi.

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La Corte di Giustizia ha già precisato che di regola le attività di pulizia devono considerarsi fondate essenzialmente sulla manodopera – così C. giust., 20 gennaio 2011, causa C- 463/09, Clece Sa, punto 39; C. giust., 10 dicembre 1998, cause C-127/96, C-229/96 e C-74/97, Hernández Vidal e a., punto 27; C. giust., 10 dicembre 1998, cause C-173/96 e C-/247/96, Hidalgo, punto 26.

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La società prima appaltatrice comunicava alla lavoratrice dipendente addetta al servizio di pulizie, la prossima cessazione dell’appalto, informandola che il rapporto di lavoro sarebbe proseguito con la società subentrante. La prima società intimava alla lavoratrice il licenziamento per perdita dell’appalto e per subentro della nuova società appaltatrice. La società subentrante informava la lavoratrice che il CCNL applicabile (CCNL Servizi Confaziendali Cisal) non prevedeva alcun obbligo a carico del nuovo appaltatore di assumere i dipendenti precedentemente impiegati presso l’appaltatore uscente e di non avere alcuna intenzione di riassumere la lavoratrice. Quest’ultima agiva, dunque, in giudizio chiedendo in via principale l’accertamento della nullità del licenziamento intimato dalla prima società per violazione dell’art. 2112 c.c. e dell’art. 29, comma 3 del d.lgs. n. 276/2003 così come modificato dalla legge del 2016 e la condanna della società nuova appaltatrice alla reintegra ovvero, in via subordinata, la condanna della prima appaltatrice alla reintegra e la condanna della subentrante alla prosecuzione ininterrotta del rapporto di lavoro. L’appaltatore uscente si difendeva sostenendo l’esistenza di un trasferimento d’azienda ai sensi del novellato art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003, con conseguente subentro nei rapporti di lavoro dell’appaltatore entrante. Quest’ultimo negava la configurabilità del trasferimento d’azienda perché non vi era identità tra vecchio e nuovo appalto essendo l’attività relativa più circoscritta2. Con l’ordinanza in commento il Tribunale di Bologna ha ritenuto il caso di specie «chiaramente riconducibile all’art. 2112 c.c. stante l’ultima modifica dell’art. 29, comma 3, d.lgs. n. 276/2003 posto che nel caso di specie alcun elemento di discontinuità si rileva nell’appalto, posto che una mera riduzione quantitativa non può essere qualificata tale». Il Tribunale ha affermato, quindi, che «la ricorrente doveva automaticamente passare alle dipendenze» della società entrante «indipendentemente dal contratto collettivo utilizzato dalla stessa». Ha dichiarato, quindi, nullo per violazione della norma imperativa ex art. 2112 c.c. il licenziamento intimato dall’appaltatrice uscente e ha condannato l’appaltatrice entrante ex art. 18, comma 1 st. lav. alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro afferente l’esecuzione del nuovo appalto. L’ordinanza rappresenta una delle prime applicazioni della disciplina contenuta nell’art. 29, comma 3 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, così come novellato dall’art. 30 della l. 7 luglio 2016, n. 122.

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Si verificava in concreto la situazione descritta in modo colorito da Garofalo secondo cui in questi casi «l’impresa uscente e quella entrante […] assumono le sembianze dei due capponi nelle mani di Renzo (alias, il committente)», D. Garofalo, Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative, Relazione alle Giornate di Studio AIDLaSS 2017, in www.aidlass.it, 33.

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2. Le questioni. Il principio di diritto enunciato nell’ordinanza appare a prima vista semplice, ma induce a svolgere alcune considerazioni in merito a due vicende in senso lato circolatorie: il cambio d’appalto e il trasferimento d’azienda. Dal punto di vista economico tali operazioni sono distinguibili con non troppa difficoltà, l’una consiste nel mero avvicendamento nell’esercizio della stessa attività economica, l’altra implica anche il passaggio di un complesso di beni funzionali a detto esercizio; sotto il profilo giuridico, invece, l’individuazione dei confini tra le due fattispecie appare più complessa, specie alla luce della volontà eurounitaria di elaborare, in vista di una maggiore tutela dei lavoratori coinvolti, una nozione di trasferimento d’azienda non del tutto sovrapponibile (perché più ampia) a quella economica. Si tratta di una questione di grande rilievo per il diritto del lavoro in ragione della profonda diversità sul piano degli effetti, sintetizzabile nel fatto che solamente il trasferimento d’azienda determina la successione del nuovo imprenditore nei rapporti di lavoro subordinato, con conseguente mantenimento dei diritti in capo ai prestatori. Di frequente, però, la realtà materiale presenta, nel contempo, aspetti riconducibili a entrambe le vicende circolatorie ed è in riferimento a queste ipotesi che la novella del 2016 è intervenuta per (tentare di) chiarire quali elementi devono sussistere per escludere che il cambio d’appalto finisca per integrare un trasferimento d’azienda.

3. Il cambio di appalto tra libertà d’impresa e tutela del

lavoro.

L’operazione economica del cambio di appalto si realizza allorquando due soggetti imprenditori (appaltatore uscente e appaltatore entrante) si susseguono nello svolgimento dell’attività d’impresa in favore del medesimo soggetto committente. Ciò che accomuna i due soggetti appaltatori è il soddisfacimento, attraverso lo svolgimento della propria attività, del medesimo interesse del committente; vi è, dunque, un avvicendamento dei due soggetti nello svolgimento di un’attività d’impresa che assume caratteri identici o analoghi. Sotto il profilo giuridico sono ravvisabili due negozi: il primo contratto di appalto concluso tra il committente e il primo appaltatore e il secondo contratto di appalto, stipulato alla scadenza del primo, tra lo stesso committente e l’appaltatore subentrante. Di regola non sussiste alcun negozio giuridico tra i due appaltatori. L’istituto assume interesse per il diritto del lavoro con riferimento al problema delle conseguenze occupazionali che si producono per effetto della successione di imprenditori nell’esecuzione dei contratti di appalto. Infatti, la fattispecie del cambio di appalto appare caratterizzata dalla compresenza di una pluralità di interessi che necessitano un contemperamento3. Vengono in gioco in

3

Brino, Successione di appalti e tutela della continuità dell’occupazione, in Aimo, Izzi, (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei

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particolare l’interesse dell’appaltatore uscente a liberarsi dei lavoratori impiegati per dare esecuzione al contratto d’appalto ormai concluso; l’interesse dei lavoratori alla continuità occupazionale e dunque a vedere proseguire il proprio rapporto di lavoro con l’appaltatore entrante; l’interesse del nuovo appaltatore a non subire una limitazione della propria libertà d’impresa e disporre, quindi, di una piena autonomia negoziale in ordine alla scelta sul se ed eventualmente a quali condizioni impiegare i lavoratori con i quali il vecchio appaltatore aveva instaurato un rapporto di lavoro4. Un primo elemento che appare opportuno evidenziare attiene al fatto che né il legislatore comunitario, né quello nazionale hanno dettato una disciplina imperativa in ordine al mantenimento dei diritti dei dipendenti dell’appaltatore uscente nei confronti dell’appaltatore entrante, a differenza di quanto accaduto, invece, per il trasferimento d’azienda5. La scelta del legislatore di non imporre un obbligo di assunzione in capo all’imprenditore entrante appare, a prima vista, espressiva della volontà di tutelare la libera concorrenza e conseguentemente la libertà d’impresa a scapito della continuità occupazionale6. Infatti, se la previsione di un obbligo legale di riassunzione dei lavoratori da parte dell’impresa entrante costituirebbe certamente una regola idonea a preservare la continuità occupazionale dei lavoratori, dall’altro lato non vi è dubbio che una siffatta norma renderebbe più difficile, se non addirittura ostacolerebbe, l’ingresso di nuovi imprenditori nel settore produttivo in cui si inserisce l’appalto. Tale misura rischierebbe di tradursi in una limitazione della concorrenza compromettendo la possibilità di scelta dell’imprenditore in ordine alla combinazione dei fattori della produzione (capitale/lavoro)7. Imporre all’impresa entrante, per il semplice fatto di subentrare ad un’altra nello svolgimento della medesima attività d’impresa nei confronti dello stesso committente, un obbligo incondizionato di assorbire tutti o una parte dei dipendenti precedentemente impiegati nel vecchio appalto impedirebbe, infatti, la selezione dei lavoratori sulla base dei criteri ritenuti più opportuni dalla nuova impresa8.

lavoratori, Utet, 2014, 109 ss. Sulla questione, in generale, cfr. Ichino, Contrattazione collettiva e antitrust: un problema aperto, in Mercato Concorrenza Regole, 2000, 635 ss. Per la fissazione dei limiti alla libertà di iniziativa economica mediante il contemperamento degli interessi imprenditoriali e quelli dei lavoratori, cfr. Bolego, Autonomia negoziale e frode alla legge nel diritto del lavoro, Cedam, 2011, 77 ss. e 98 ss. Per la comune genesi storica delle tutele giuridiche in favore dell’impresa e del lavoro, entrambe riconducibili all’inalienabile “droit de travailler” (Editto regio del 1776 di Luigi XVI), da ultimo cfr. Zagrebelsky, Diritti per forza, Einaudi, 2017, 17, il quale evidenzia l’“ambiguità dei diritti”. 5 Dir. 12 marzo 2001, n. 01/23/CE e art. 2112 c.c. 6 C. giust., 11 gennaio 2005, causa C-26/03, Stand Halle e RPL Lochau, punti 44 e 48, con la quale la Corte di Giustizia chiarisce che il diritto europeo non tutela in sé la libertà d’impresa, ma il principio della libera concorrenza. 7 Sul punto si veda, Mutarelli, Protezione del lavoro vs. protezione della concorrenza nella sentenza della Corte di Giustizia sui servizi aeroportuali: una decisione di grande rilievo motivata in modo insoddisfacente, in RIDL, 2005, II, 271 ss. 8 In proposito si veda le considerazioni svolte da C. giust., 9 dicembre 2004, causa C-460/02, Commissione della Comunità europea, punti 33 e 34, in merito al d.lgs. 13 gennaio 1999, n. 18, recante attuazione della direttiva 96/67/CE relativa all’accesso al mercato dei servizi di assistenza a terra negli aeroporti della Comunità, punto 22. 4

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4. Il diritto eurounitario quale mezzo di bilanciamento. Ad una più attenta analisi è possibile notare come il diritto eurounitario effettui, in realtà, un bilanciamento tra gli interessi delle imprese e quelli dei lavoratori e ciò in armonia con i principi contenuti nei Trattati9. In ordine al tema in esame almeno due sono le scelte normative ispirate al bilanciamento degli interessi radicati nei Trattati: la compatibilità eurounitaria degli accordi diretti a tutelare gli interessi dei lavoratori (migliorando le condizioni di vita e di lavoro, favorendo lo sviluppo delle risorse umane e diretti a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo) e la fissazione della linea di confine tra il trasferimento d’azienda e le altre ipotesi di avvicendamento nell’attività d’impresa. Quanto alla prima scelta normativa, la Corte di Giustizia ritiene che gli accordi collettivi diretti ad apportare miglioramenti alle condizioni dei lavoratori, seppur talvolta producano effetti restrittivi della concorrenza, non scontano il divieto previsto a pena di nullità dall’art. 101 n. 1 e n. 2 TUE; ciò in quanto gli obiettivi di politica sociale risulterebbero gravemente compromessi se le parti sociali fossero assoggettate ai medesimi limiti imposti alle associazioni di imprese (e agli Stati membri nell’esercizio del loro potere normativo secondo l’interpretazione estensiva sostenuta dalla Corte di Giustizia)10. Di qui la compatibilità con il diritto eurounitario delle c.d. clausole sociali, inserite nei contratti collettivi, che, con evidenti fini di bilanciamento tra opposti interessi (libertà d’impresa e quindi libera concorrenza e tutela occupazionale), prevedono, a determinate condizioni, l’obbligo a carico dell’appaltatore entrante di assumere i lavoratori precedentemente impiegati nell’esecuzione dell’appalto stipulato dall’imprenditore uscente11.

5. La nozione eurounitaria di trasferimento d’azienda quale

criterio discretivo della fattispecie.

L’altra soluzione normativa ispirata al bilanciamento degli interessi in gioco è quella concernente la distinzione tra cambio d’appalto, da cui non derivano in capo all’appaltatore entrante obblighi nei confronti dei lavoratori utilizzati dall’appaltatore uscente, e

9

Art. 3, comma 3 TUE; Artt. 145 – 161 TFUE; secondo la Corte di Giustizia (cfr. C. giust., 21 settembre 1999, causa C-67/96, Albany International BV, punto 54) i Trattati dell’Unione sono sì diretti ad assicurare che la concorrenza nel mercato interno non sia falsata e che sia garantito uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche, ma tali interessi devono essere controbilanciati con l’obiettivo di un elevato livello occupazionale e di protezione sociale. Infatti, rientra tra i compiti dell’Unione quello di promuovere il dialogo sociale al fine di migliorare le condizioni di vita e di lavoro e favorire lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo. 10 C. giust., 21 settembre 1999, causa C-67/96, Albany International BV, cit., punto 59; C. giust., 21 settembre 1988, causa C-267/86, Van Eycke, punto 16. 11 Sul punto, in senso fortemente critico verso le clausole sociali, cfr. Ichino, Lezioni di diritto del lavoro. Un approccio di labour law and economics, Giuffrè, 2004, 161; Ichino La questione della “clausola sociale” negli appalti, in http://www.pietroichino.it, 31 marzo 2015.

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trasferimento di azienda, che comporta, invece, il mantenimento dei diritti in favore di quegli stessi lavoratori. Si tratta di una questione di grande rilievo se si considera la radicale differenza di disciplina. Infatti, solo nel caso di trasferimento d’azienda il legislatore comunitario, prestando attenzione agli opposti interessi in gioco12, detta una disciplina articolata (capo II – artt. 3-6 della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001) in tema di mantenimento presso il cessionario dei diritti di cui erano titolari i lavoratori alle dipendenze del cedente, attuata nell’ordinamento italiano dall’art. 2112 c.c.13. La distinzione tra cambio d’appalto e trasferimento d’azienda rappresenta una questione anche di grande attualità. Come si è anticipato, l’istituto del cambio di appalto tende, talvolta, a sovrapporsi a quello del trasferimento d’azienda. Proprio in virtù del carattere di identità o analogia dell’attività svolta dall’appaltatore entrante, rispetto a quella espletata dal precedente appaltatore, il nuovo imprenditore potrebbe avere un interesse ad avvalersi di elementi utilizzati dal vecchio appaltatore per lo svolgimento dell’attività d’impresa. Tale interesse può riguardare non solo l’impiego di beni materiali (si pensi ai macchinari necessari per lo svolgimento dell’attività), ma anche l’utilizzo di lavoratori che proprio in ragione dell’attività precedentemente svolta risultano ormai formati e dotati di un particolare know how. Una consistente parte di contenzioso in materia di cambio di appalto e trasferimento d’azienda attiene a processi di «spacchettamento dell’organizzazione dell’appaltatore uscente» alla quale segue un graduale riassorbimento degli elementi risultanti dall’operazione di disgregazione dell’impresa uscente, realizzato attraverso una serie di atti isolati (acquisizione di una parte di elementi materiali, strumentazione e quote di lavoratori licenziati)14 e ciò al fine di sottrarre l’operazione all’applicazione della disciplina in materia di trasferimento d’azienda. Quindi ben si comprende perché uno degli aspetti più problematici ed interessanti dell’istituto del cambio di appalto attiene alla contiguità con quello del trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda. La soluzione normativa in ordine alla distinzione tra cambio d’appalto e trasferimento di azienda si ricollega alla nota vicenda giurisprudenziale che ha visto impegnata la Corte di Giustizia allorquando, vigendo la precedente direttiva 77/187/CEE del Consiglio del 14

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I consideranda n. 2 e 3 della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, evidenziano, da un lato come l’evoluzione economica implichi modifiche alle strutture delle imprese anche effettuate mediante trasferimenti di azienda, dall’altro che è necessario in tali vicende proteggere i lavoratori per assicurare loro il mantenimento di diritti. 13 La norma costituisce fonte legale di eterointegrazione del contratto di trasferimento d’azienda imponendo la prosecuzione dei rapporti di lavoro con il cessionario (con la conservazione della complessiva posizione giuridica da parte dei lavoratori ceduti), nonché la solidarietà tra cedente e cessionario per tutti i crediti che il lavoratore aveva al momento del trasferimento. L’art. 2112 c.c., da un lato determina, per il lavoratore un mutamento della controparte contrattuale senza la necessità del suo consenso e ciò in deroga alla regola generale in materia di cessione del contratto di cui all’art. 1406 c.c. (come evidenzia Bolego, op. cit., 265); dall’altro tutela la continuità occupazionale dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda o di ramo di essa, impedendo al cedente di licenziare i lavoratori impiegati in azienda prima di compiere l’atto traslativo. In altre parole, la disposizione preclude al cedente di ricorrere al licenziamento come strumento per rendere commercialmente più appetibile l’azienda o la parte d’azienda da trasferire e al cessionario di selezionare liberamente i lavoratori da utilizzare nell’azienda ceduta. 14 Così Sitzia, Il “subentro” di nuovo appaltatore dopo la “legge europea” 2015 – 2016, in LG, 2017, 6, 537.

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febbraio 1977, non esisteva una nozione legale di trasferimento d’azienda. Gli esiti di tale evoluzione giurisprudenziale sono stati recepiti dalla successiva direttiva 01/23/CE citata15. Attualmente appare consolidato16 che per azienda si deve intendere «un’entità economica organizzata in modo stabile» la cui attività non si limita all’esecuzione di un’opera determinata; tale entità può essere costituita sia da un complesso di beni e rapporti giuridici, sia da un gruppo di lavoratori in grado di svolgere attività funzionalmente collegate, in modo stabile e non temporaneo, funzionali alla produzione di un bene o un servizio17. Affinché possa ritenersi realizzato un trasferimento d’azienda è necessario che l’entità economica trasferita abbia conservato la propria identità dopo il trasferimento18; appare, dunque, necessario compiere un raffronto tra l’entità economica così come strutturata ed organizzata presso il cedente e quella risultante dopo il trasferimento in capo al cessionario. È interessante osservare (dato che si tratta di un aspetto che, come si vedrà, assume un rilievo cruciale per la distinzione tra cambio d’appalto e trasferimento d’azienda) che la Corte di Giustizia è pervenuta a queste conclusioni attraverso un percorso non lineare. Nella sentenza Schmidt19, valorizzando quanto già statuito nelle precedenti decisioni20 (secondo cui la conservazione dell’identità dell’entità economica al momento del passaggio dal cedente al cessionario risulta dall’effettiva continuazione o dalla ripresa, da parte del nuovo imprenditore, delle stesse attività economiche ovvero di attività analoghe), ritenne che «la similarità delle attività di pulizia espletate anteriormente e successivamente al trasferimento, costituisce elemento caratteristico di un’operazione che rientra nella sfera di applicazione della direttiva e che offre al lavoratore dipendente, la cui attività sia stata oggetto di trasferimento, la tutela accordatagli dalla direttiva»21. Un evidente mutamento di rotta si ebbe con la sentenza Süzen22, relativa proprio ad un’ipotesi di cambio d’appalto di pulizie. La Corte, chiamata a stabilire se integrasse trasferimento d’azienda il subentro nell’esercizio di un servizio di pulizie in favore del medesimo committente senza che vi fosse stato il passaggio di alcun elemento patrimoniale, materiale o immateriale, significativo, precisò che: «la mera circostanza che i servizi prestati dal precedente e dal nuovo appaltatore sono analoghi non consente di concludere nel

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In particolare nell’art. 1, n.1 lett. b), ai sensi del quale: “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”. 16 Fondamentale può considerarsi C. giust., 11 marzo 1997, causa C-13/95, Süzen. Più di recente C. giust., 9 settembre 2015, causa C-160/14, João Filipe Ferreira da Silva e Brito, punto 25; C. giust., 6 marzo 2014, causa C-458/12, Amatori e a., punto 30. 17 Sul punto si veda Villa, “Subentro” nell’appalto labour intensive e trasferimento d’azienda: un puzzle di difficile composizione, in LD, 2016, 1, 71. 18 C. giust., 20 novembre 2003, causa C-340/01, Abler, in RIDL, 2004, II, 463 ss., con nota di Borzaga, Trasferimento di azienda e successione di contratti d’appalto, prima e dopo il d.lgs. n. 276/2003, tra diritto comunitario scritto e giurisprudenza della Corte di Giustizia; C. giust., 11 marzo 1997, causa C-13/95, Süzen, cit. 19 C. giust., 14 aprile 1994, causa C-392/92, Schmidt, punto 17. 20 C. giust., 18 marzo 1986, causa C-24/85, Spijkers, punto 11. 21 Nella sentenza Schmidt cit. la Corte considerò idonea a integrare la fattispecie del trasferimento d’azienda una vicenda in cui un imprenditore aveva affidato contrattualmente ad altro imprenditore l’incarico di svolgere lavori di pulizia ai quali, prima del trasferimento, provvedeva direttamente, ancorché fosse solo uno il lavoratore in precedenza a tal fine utilizzato e senza che tra i due imprenditori vi fosse un passaggio di beni patrimoniali. 22 C. giust., 11 marzo 1997, causa C-13/95, Süzen, cit., punti da 13 a 16.

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senso che sussista il trasferimento di un’entità economica. Infatti, un’entità non può essere ridotta all’attività che le era affidata»; «la semplice perdita di un appalto di servizi a vantaggio di un concorrente non può quindi rivelare, di per sé, l’esistenza di un trasferimento ai sensi della direttiva». Tale orientamento è stato ribadito anche dalla successiva giurisprudenza23. In definitiva la linea di confine tra cambio d’appalto (con relativa assenza di vincoli in capo all’imprenditore entrante) e trasferimento di azienda (con conseguente mantenimento dei diritti dei lavoratori alle dipendenze dell’imprenditore uscente) corrisponde alla distinzione avvicendamento nell’attività / trasferimento dell’identica entità economica. Ciò significa che fino a quando l’imprenditore entrante si limiti a subentrare nell’esercizio della mera attività d’impresa svolta dall’imprenditore uscente non sarà soggetto ad obblighi nei confronti dei lavoratori già alle dipendenze dell’imprenditore uscente; di contro, qualora si avvalga dell’entità economica (o una parte significativa di essa) in precedenza impiegata dall’imprenditore uscente egli sarà tenuto agli obblighi funzionali al mantenimento dei diritti dei lavoratori alle dipendenze e già utilizzati dall’imprenditore uscente. Non appare decisiva la circostanza che, di regola, nel cambio d’appalto non si costituiscono rapporti contrattuali diretti tra appaltatore uscente e appaltatore entrante, mentre il trasferimento d’azienda (o di ramo d’azienda) avviene normalmente in virtù di un negozio traslativo tra l’imprenditore cedente e l’imprenditore cessionario il quale acquista a titolo derivativo l’intero complesso aziendale o parte di esso24. Infatti la Corte di Giustizia ha avuto modo di chiarire che non è, di per sé solo, ostativo alla configurabilità del trasferimento d’azienda il fatto che il passaggio di un’entità economica che conservi la propria identità avvenga senza la costituzione di un rapporto contrattuale diretto tra cedente e cessionario, ma in due fasi per l’effetto dell’intermediazione di un terzo25.

6. La qualificazione giuridica in concreto: ulteriori

prescrizioni derivanti dalla giurisprudenza eurounitaria. La sentenza Süzen assume un’importanza storica anche in ordine ai criteri di accertamento delle ipotesi di trasferimento d’azienda quando l’attività economica esercitata sia

23

C. giust., 20 gennaio 2011, causa C-463/09, Clece Sa, punto 42, secondo cui il semplice fatto che l’attività svolta dall’imprenditore uscente e quella esercitata dall’imprenditore entrante siano analoghe o addirittura identiche, “non consente di concludere nel senso che sia stata conservata l’identità di un’entità economica. Infatti, un’entità non può essere ridotta all’attività che le è affidata”. 24 Tale circostanza, tuttavia, consente di cogliere agevolmente la differenza di funzione economico-sociale tra l’istituto del cambio di appalto, che implica un mero avvicendamento tra soggetti nello svolgimento dell’attività d’impresa nei confronti dello stesso committente, e l’istituto del trasferimento d’azienda che comporta il passaggio di un’entità economica tra due soggetti (cedente e cessionario) al fine di soddisfare l’interesse del cessionario allo svolgimento di un’attività d’impresa avvalendosi dei mezzi precedentemente impiegati dal cedente. 25 C. giust., 20 novembre 2003, causa C-340/01, Abler, cit., punto 39; C. giust., 24 gennaio 2002, causa C-51/00, Temco, punto 31; C. giust., 11 marzo 1997, causa C-13/95, Süzen, cit. punti 11 e 12.

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labour intensive ossia non richieda un significativo utilizzo di mezzi di produzione di carattere materiale. Si tratta dell’aspetto centrale nella controversia definita dall’ordinanza annotata, dove si poneva la questione relativa all’individuazione degli elementi in presenza dei quali il cambio di appalto può integrare un trasferimento d’azienda. Già in precedenza26 la Corte aveva ritenuto che, per poter determinare se sussistano le caratteristiche di un trasferimento di un’entità, occorresse ricorrere ad un metodo qualificatorio tipologico-per approssimazione27, prendendo in considerazione una serie di circostanze di fatto costituenti indici sintomatici del trasferimento, quali il tipo di impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno di elementi materiali, il valore degli elementi immateriali al momento della cessione, la riassunzione o meno della maggioranza dei lavoratori da parte del nuovo datore di lavoro, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la “cessione” e la durata di un’eventuale sospensione di tali attività. Tali circostanze di fatto costituiscono solo elementi indiziari e, quindi, devono essere presi in considerazione nell’ambito di una valutazione complessiva e non già considerati isolatamente. La sentenza Süzen ha ulteriormente precisato che i criteri sintomatici della sussistenza di un trasferimento d’azienda assumono una diversa importanza «in funzione dell’attività esercitata, o addirittura in funzione dei metodi di produzione o di gestione utilizzati nell’impresa, nello stabilimento o nella parte di stabilimento in questione»; quindi, nel caso di un’attività economica labour intensive, in cui la manodopera presenta carattere preminente per lo svolgimento dell’attività d’impresa, la circostanza che assume maggior rilievo ai fini della conservazione dell’identità dell’entità economica posta in circolazione è rappresentata dalla riassunzione o meno della maggior parte del personale ad opera del nuovo imprenditore. Anzi, sempre in questo settore, la Corte si spinge ancora oltre nella svalutazione del passaggio di elementi patrimoniali di carattere materiale, statuendo che l’entità economica (il cui passaggio è necessario ai fini della configurabilità del trasferimento d’azienda) può essere costituita anche solo da “un gruppo di lavoratori che assolva stabilmente un’attività comune” e, quindi, tale “entità economica” conserva la sua identità presso il nuovo imprenditore anche quando, nel proseguire l’attività stessa si limiti a riassumere “una parte essenziale, in termini di numero e di competenza, del personale specificamente destinato dal predecessore a tali compiti”. Ciò significa che la fattispecie del trasferimento si perfeziona anche solo mediante il passaggio di un numero significativo di lavoratori unitamente a quel bene di carattere immateriale rappresentato dal know how afferente le competenze e l’organizzazione funzionali al perseguimento di un determinato risultato produttivo.

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C. giust., 19 maggio 1992, causa C-29/91, Redmond Stichting, punto 24; C. giust., 18 marzo 1986, causa C-24/85, Spijkers, cit. punto 13. Sul tema si veda Mengoni, Il contratto di lavoro nel secolo XX, in Il diritto del lavoro alla svolta del secolo, Atti del XIII Congresso AIDLaSS, Ferrara, 11-13 maggio 2000, Giuffrè, 2002, 14; Sitzia, op. cit., 537.

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Nel prosieguo la Corte di Giustizia28, oltre a ribadire questi orientamenti (di recente la sentenza Clece Sa29 ha affermato che nel caso di attività labour intensive l’identità dell’entità economica «emerge da una pluralità di elementi inscindibili fra loro, quali il personale che la compone, i suoi quadri direttivi, la sua organizzazione di lavoro, i suoi metodi di gestione o anche, eventualmente, i mezzi di gestione a sua disposizione») ha ulteriormente affinato la nozione di “entità economica” (il cui passaggio con conservazione dell’identità è essenziale per integrare il trasferimento d’azienda) quale «complesso di persone ed elementi che consenta lo svolgimento di un’attività economica che persegua un proprio obiettivo e che sia sufficientemente strutturata e autonoma». Per quanto riguarda la questione relativa alla sufficiente autonomia di un gruppo di lavoratori, la Corte di Giustizia ha chiarito, con la sentenza Scattolon30 che, «la nozione di autonomia si riferisce ai poteri, riconosciuti ai responsabili del gruppo di lavoratori di cui trattasi, di organizzare, in modo relativamente libero e indipendente, il lavoro in seno al citato gruppo e, in particolare, di impartire istruzioni e distribuire compiti ai lavoratori subordinati appartenenti a tale gruppo, e ciò senza intervento diretto da parte di altre strutture organizzative del datore di lavoro». Occorre, cioè, «che il gruppo in parola disponga di una certa libertà nell’organizzare e nell’eseguire i compiti affidatigli». In definitiva il contesto normativo eurounitario in cui si inseriva il previgente art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003 (il quale escludeva che la mera acquisizione del personale precedentemente impiegato dal vecchio appaltatore da parte del nuovo appaltatore, potesse integrare un trasferimento d’azienda con conseguente applicazione della disciplina di cui all’art. 2112 c.c.) era il seguente: nelle c.d. imprese non labour intensive, l’elemento decisivo affinché possa ritenersi integrato un trasferimento d’azienda è costituito dal passaggio di beni materiali; questi ultimi costituiscono, infatti, elementi indispensabili per lo svolgimento dell’attività d’impresa31. Al contrario, nelle c.d. imprese labour intensive, quale quella oggetto del caso analizzato, assumendo la manodopera carattere preminente per lo svolgimento dell’attività d’impresa, l’entità economica, che normalmente si identifica con l’insieme di beni ed il gruppo organizzato di lavoratori, può ritenersi qui integrata già con l’insieme organizzato di lavoratori. Si può, dunque, ritenere che nel caso di trasferimento di un gruppo di lavoratori organizzato possa certamente considerarsi sussistente il trasferimento d’azienda, indipendentemente dal trasferimento di beni materiali. Deve trattarsi, lo si ribadisce, del trasferimento non di un semplice gruppo di lavoratori, ma di un gruppo organizzato sufficientemente autonomo posto che è proprio nell’autonoma organizzazione che si rinviene l’elemento

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C. giust., 9 settembre 2015, causa C- 160/14, João Filipe Ferreira da Silva e Brito, cit., punti da 24 a 27; C. giust., 13 settembre 2007, causa C-458/05, Jouini e a., punto 31; C. giust., 20 novembre 2003, causa C-340/01, Abler, punto 30, cit.; C. giust., 6 settembre 2001, causa C-108/10, Scattolon, punto 42; C. giust., 10 dicembre 1998, cause C-127/96, C-229/96 e C-74/97, Hernández Vidal e a., cit., punti 26 e 27. 29 C. giust., 20 gennaio 2011, causa C-463/09, Clece Sa, cit., punto 41. 30 C. giust., 6 settembre 2001, causa C-108/10, Scattolon, cit., punto 51. 31 Si pensi, a titolo esemplificativo, al servizio mensa di un ospedale per l’espletamento del quale appaiono necessari i locali, le attrezzature, i materiali fissi per confezionare i pasti, le lavastoviglie. In questi casi, il fatto che non sia stata riassunta una quota sostanziale del personale impiegato dal predecessore, non appare sufficiente ad escludere il trasferimento d’azienda essendo quest’ultima costituita in prevalenza da beni di carattere materiale, così C. giust., 20 novembre 2003, causa C-340/01, Abler, cit.

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essenziale dell’azienda ossia dell’entità economica il cui passaggio, con conservazione dell’identità, è necessario per il perfezionamento del trasferimento d’azienda. La giurisprudenza nazionale era orientata nello stesso senso (per tutte, di recente Cass., 12 aprile 2016, n. 7121) affermando che il trasferimento d’azienda è configurabile anche in ipotesi di subentro e nell’appalto di un servizio o a condizione che si abbia un passaggio di beni di non trascurabile entità, e tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa, o nel caso di attività labour intensive, quando la cessione abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti dotati di particolari competenze che siano stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, così da rendere le loro attività interagenti e idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili.

7. La novella del 2016: necessità di un’interpretazione

eurounitariamente orientata.

La Commissione europea, verosimilmente considerando sola la prima ipotesi, ha avviato un procedimento EU Pilot (antecedente l’apertura formale della procedura di infrazione ex art. 258 TFUE), ritenendo che la giurisprudenza italiana si poneva in contrasto con la direttiva 01/23/CE restringendo in maniera eccessiva l’ambito di applicazione della disciplina in materia di trasferimento d’azienda. Il legislatore nazionale è, dunque, intervenuto con la l. n. 122/2016 novellando l’art. 29, comma 3, d.lgs. n. 276/2003. La disposizione, che viene formulata in termini negativi, prescrive che: «L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda». Riformulata la disposizione in termini positivi ed interpretata letteralmente, si può rilevare come il legislatore, al fine di escludere l’applicabilità della disciplina in materia di trasferimento d’azienda, abbia elaborato una fattispecie astratta che prevede, quale presupposto, l’acquisizione da parte dell’appaltatore subentrante di personale precedentemente impiegato presso il vecchio appaltatore, nonché la presenza di altri due elementi costitutivi ossia che l’appaltatore subentrante sia «dotato di una propria struttura organizzativa» e che siano «presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa». Sembrerebbe, quindi, che in difetto dell’acquisizione del personale utilizzato dall’appaltatore uscente la questione se il cambio d’appalto possa integrare la fattispecie del trasferimento d’azienda neppure si pone, essendo ipotesi da escludersi in radice. In verità l’ordinanza annotata pare di tutt’altro avviso; infatti il Tribunale ha espressamente ritenuto superfluo, ai fini della decisione, verificare quale fosse il contratto collettivo applicabile e, quindi, stabilire se l’impresa subentrante avesse o meno un obbligo contrattuale di riassunzione del personale; inoltre non emerge dalla motivazione che sia stata accertata l’avvenuta acquisizione del personale già impiegato nell’appalto.

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Giurisprudenza

Se si considera che neppure risulta vi sia stato dall’appaltatore uscente a quello entrante passaggio di beni patrimoniali di altro genere (ad esempio macchinari e attrezzature), il Tribunale, accogliendo la domanda della lavoratrice di proseguimento del rapporto alle dipendenze del nuovo appaltatore, sembra affermare la sussistenza di un trasferimento d’azienda anche in presenza del solo avvicendamento nella medesima attività. Questa analisi pare confermata dall’applicazione che il Tribunale fa della novella del 2016; infatti esclude che il caso concreto sia sussumibile nella fattispecie negativa di cui al nuovo art. 29, comma 3 sulla base di una considerazione attinente solamente l’attività (e non anche l’entità economica), statuendo che nel nuovo appalto non sono ravvisabili gli elementi di discontinuità richiesti dalla norma “posto che una mera riduzione quantitativa [dell’attività] non può essere qualificata tale”; in definitiva il Tribunale ritiene sufficiente, ai fini dell’applicabilità della disciplina del trasferimento d’azienda, la mera circostanza dell’identità tra l’attività svolta dall’appaltatore entrante e quella esercitata dall’appaltatore uscente. Tale interpretazione condurrebbe, tuttavia, a ritenere sempre sussistente il trasferimento d’azienda in ipotesi di cambio di appalto, il cui elemento essenziale, come più volte evidenziato, è costituito dal mero avvicendamento nell’attività d’impresa; quindi per la mera circostanza di fatto dello svolgimento di una attività identica o analoga a quella svolta dal precedente appaltatore, l’appaltatore entrante sarebbe assoggettato all’obbligo di succedere nei rapporti di lavoro precedentemente intercorrenti con il vecchio appaltatore. Siffatta opzione ermeneutica potrebbe a prima vista trovare fondamento in una esegesi strettamente letterale della novella, la quale esclude la cessione d’azienda nei casi in cui siano rinvenibili in capo all’appaltatore entrante «elementi di discontinuità che determinano una specifica identità d’impresa», con un’apparente attenzione alla sola attività (alla quale è solitamente ricondotta la nozione di impresa)32. Tuttavia la soluzione proposta dal Tribunale di Bologna sembra ampliare la portata della nozione giuridica di trasferimento d’azienda rispetto a come è stata delineata prima dalla Corte di Giustizia e poi dall’art. 1 della direttiva 01/23/CE, estendendola (con i relativi effetti in tema di mantenimento dei diritti dei lavoratori) anche alle ipotesi in cui il passaggio abbia riguardato anche solamente l’attività d’impresa e non anche l’entità economica. Sebbene questa interpretazione della norma potrebbe porsi in linea con quanto chiarito dalla sentenza Amatori33 in ordine alla possibilità per gli Stati membri di dettare una disciplina in materia di trasferimento d’azienda più ampia rispetto a quella prevista dalla direttiva (estensiva, quindi, delle tutele previste per i lavoratori), si ritiene, tuttavia, che ciò contrasti, in primo luogo, con la volontà del legislatore nazionale, intervenuto con la novella del 2016 non certo per creare una fattispecie normativa di trasferimento d’azienda nell’ambito del cambio d’appalto più ampia rispetto a quella delineata dall’art. 2112 c.c.; in seconda analisi si ritiene che una simile interpretazione della norma potrebbe far sorgere

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Il codice civile non fornisce la nozione di impresa, ma quella di imprenditore (art. 2082 c.c.) definendolo come colui che esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi. Si veda Montanari, Pederzini, L’imprenditore e il mercato. Imprenditore, procedure concorsuali, contratti commerciali, Giappichelli, 2013, 1-13. 33 C. giust., 6 marzo 2014, causa C-458/12, Amatori e a., cit., punti 36-37.

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qualche dubbio di compatibilità con il diritto europeo sotto il profilo della tutela dell’interesse alla libera concorrenza (come illustrato nel precedente paragrafo). Si ritiene, dunque, che la nuova disciplina non possa che essere letta alla luce del contesto normativo eurounitario poc’anzi descritto34, secondo cui non ogni cambio di appalto integra un trasferimento d’azienda, perché la seconda fattispecie esige il passaggio, oltre che dell’attività d’impresa (elemento costitutivo della prima fattispecie), anche di un’entità economica. In questa prospettiva sembra potersi dire che, ai fini dell’interpretazione della novella, assuma rilievo decisivo individuare il significato degli “elementi di discontinuità” cui la norma fa riferimento al fine di escludere il trasferimento d’azienda. La locuzione contiene in sé un concetto di relazione il quale impone un raffronto tra due “realtà”, che, dato il contesto normativo, non possono che concernere, rispettivamente, l’appaltatore uscente e quello entrante. La novella si riferisce solamente all’entrante e indica espressamente un nesso eziologico (“che determinano”) tra gli “elementi di discontinuità” e la “specifica identità di impresa”. Si pone, quindi, la questione in cosa consista la “realtà” dell’appaltatore entrante cui vanno collegati gli “elementi di discontinuità”. Appare persuasivo l’orientamento35, il quale, valorizzando l’espressa previsione che il nuovo appaltatore sia “dotato di propria struttura organizzativa e operativa” (dove l’aggettivo “propria” ha il significato di peculiare o, appunto specifica), riferisce ad essa gli “elementi di discontinuità”. Quindi la verifica se l’impresa esercitata dall’appaltatore entrante abbia una “specifica identità” andrà condotta con riferimento agli “elementi di discontinuità” presenti nella “struttura organizzativa e operativa”, di cui egli dispone. Il termine di confronto, evocato dalla nozione di “discontinuità” (e conseguentemente di “specificità”), non può che essere individuato nella “struttura organizzativa operativa” e nell’“impresa” dell’appaltatore entrante. In definitiva, nell’ipotesi di cambio di appalto, alla luce della novella, non si ha trasferimento d’azienda allorquando l’impresa esercitata dall’appaltatore entrante ha, rispetto a quella svolta dall’uscente, una specifica identità determinata da elementi presenti nella struttura organizzativa e operativa dell’entrante che si pongono in discontinuità rispetto a quella di cui si avvaleva l’uscente; correlativamente si ha trasferimento d’azienda allorquando l’impresa esercitata dall’appaltatore entrante non ha, rispetto a quella svolta dall’uscente, una specifica identità atteso che nella struttura organizzativa e operativa dell’entrante non si rinvengono elementi di discontinuità rispetto a quella di cui si avvaleva l’uscente. Tale interpretazione della novella consente di avvalersi di tutti i risultati, già ampiamente ricordati, cui è pervenuta la Corte di Giustizia in tema di nozione di trasferimento di azienda quale passaggio di entità economica che conserva la sua entità e di criteri diretti ad accertare quando ciò avviene36.

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In questo senso Sitzia, op. cit. 545-548; Alvino, Cambio di appalto, assunzione dei dipendenti da parte del nuovo appaltatore e condizioni per l’applicazione dell’art. 2112 c.c., 19 gennaio 2017, in Ilgiuslavorista.it. 35 Sitzia, op. cit., 545-546. 36 È in relazione a questo parametro che dovrebbero essere risolte le questioni poste da Cosattini, Cambio appalto e trasferimento d’azienda: un intervento normativo poco meditato, in LG, 2016, 11, 905 ss. circa la rilevanza o meno della riduzione quantitativa

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Si è pure ricordato che nei settori labour intensive, quale quello pertinente al caso di specie il diritto eurounitario ritiene configurabile il trasferimento d’azienda anche in presenza del passaggio di un gruppo organizzato di lavoratori, costituito, sotto il profilo quantitativo, da un significativo numero di lavoratori, e sotto quello qualitativo da quello specifico bene immateriale costituito, in sintesi, dal know how organizzativo e operativo. A questo punto appare utile chiedersi se possa ritenersi avvenuto un trasferimento d’azienda (con la conseguenza che l’appaltatore entrante succede nei rapporti di lavoro precedentemente instaurati con il vecchio appaltatore) quando, nell’ambito delle imprese ad elevata incidenza del fattore lavoro, l’appaltatore entrante abbia acquisito solamente il modello organizzativo e operativo dell’attività d’impresa precedentemente utilizzato dall’appaltatore uscente (in tal caso, contrariamente a quanto previsto dalla novella, l’acquisizione del personale rappresenterebbe un effetto e non già la fattispecie). Un eventuale risposta positiva non sembra cadere nella confusione tra avvicendamento di attività e trasferimento di entità economica, considerato che in questo caso il passaggio concerne non solo l’attività economica, ma anche il bene immateriale rappresentato dal know how organizzativo e operativo. È però certo che, trattandosi dell’unico elemento patrimoniale oggetto di passaggio, quel bene dovrà essere individuato con la maggiore precisione e concretezza possibili. A tal fine si riveleranno preziose le indicazioni offerte dalla giurisprudenza eurounitaria, che, al fine di distinguere tra generico insieme di lavoratori (la cui riassunzione è mero elemento sintomatico) e gruppo organizzato di lavoratori (che può costituire di per sé solo un’entità economica) e quindi individuare il quid pluris immateriale presente nel secondo, fa riferimento alle competenze dei lavoratori, in particolare dei quadri direttivi37, al metodo di gestione del lavoro38, alla capacità di perseguire un proprio obiettivo e a una sufficiente autonomia strutturale e funzionale39. Ovviamente assai più difficile appare la possibilità di configurare un trasferimento di azienda in mancanza di acquisizione del personale utilizzato dal precedente appaltatore quando l’esercizio dell’attività d’impresa sia caratterizzata da modelli gestionali elementari che non consentono di individuare un apprezzabile know how organizzativo e operativo40. In chiusura è possibile svolgere un ultimo rilievo in ordine alla distribuzione dell’onere della prova in capo alle parti circa la sussistenza o insussistenza degli “elementi di discontinuità” richiesti dal novellato art. 29. A tal proposito ci si potrebbe chiedere se incomba sull’appaltatore entrante l’onere di provare la sussistenza degli “elementi di discontinuità” (con la conseguenza di ritenere inapplicabile la disciplina sul trasferimento d’azienda), ovvero sia onere del lavoratore provare l’insussistenza di tali elementi (e dunque applicare la disciplina del trasferimento d’azienda).

dell’attività, della modificazione dell’organizzazione del personale e del mutamento dell’organizzazione imprenditoriale dell’attività. C. giust., 11 marzo 1997, causa C-13/95, Süzen, cit., punto 21. 38 C. giust., 20 gennaio 2011, causa C-463/09, Clece Sa, cit., punto 41. 39 C. giust., 6 settembre 2001, causa C-108/10, Scattolon, cit., punto 42. 40 D. Garofalo, op. cit., 37. 37

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Per come è formulata la norma pare che il legislatore abbia introdotto una presunzione legale iuris tantum di trasferimento d’azienda, con la conseguenza che sarà l’appaltatore entrante a dover provare la sussistenza degli elementi di discontinuità che escludono la configurabilità di un trasferimento d’azienda. Anna Nicolussi Principe

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Giurisprudenza Tribunale di N apoli, sentenza 27 giugno 2017; Giud. Marchese – C. R. (avv. F Gentile e M. Lambertini) c. M. s.r.l. (avv. G. Tussino). Licenziamenti – Contratto a tutele crescenti – Tutela reintegratoria – diretta dimostrazione in giudizio della insussistenza del fatto materiale contestato – Interpretazione – Ripartizione dell’onere della prova – Onere a carico del lavoratore – Sussiste.

Per la previsione dell’art. 3, d.lgs. n. 23/2015, secondo la quale in caso di licenziamento disciplinare la reintegra al lavoro del dipendente licenziato può essere disposta solo laddove risulti direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato, spetta al lavoratore fornire elementi di prova atti a dimostrare l’insussistenza del fatto, atteso che la sola mancata prova positiva dell’esistenza del fatto contestato, con onere a carico del datore di lavoro, non può ritenersi equivalere alla dimostrazione dell’insussistenza del fatto stesso. Tutela applicabile Omissis Occorre a questo punto valutare le conseguenze del disposto accertamento. L’art. 3 del Dlgs 23/2015 testualmente prevede: «1. Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità. 2. Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo

antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all’articolo 2, comma 3. 3. Al licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 1 non trova applicazione l’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni» La norma, dunque, conserva, per il licenziamento disciplinare, la reintegrazione ma la rende tutela eccezionale, in quanto limitata all’ipotesi in cui sia “direttamente” accertata “l’insussistenza del fatto materiale contestato”. Espressamente il legislatore chiarisce, invece, che resta estranea, a tale ipotesi, “ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”. Occorre dunque interrogarsi se, nella fattispecie, sia stata “direttamente” acquisita al processo la prova dell’ “… insussistenza del fatto materiale contestato”. In parte qua, la norma non appare di agevole ed immediata interpretazione perché sembra porre questione circa la distribuzione dell’onere della prova della insussistenza del fatto ed il contenuto della prova stessa. Osserva il Tribunale che la disposizione, sia pure nella sua non felice formulazione, non modifica affatto l’impianto normativo preesistente in punto di principi che, da un lato, disciplinano l’oggetto e l’efficacia della “prova” e, dall’altro, ne stabiliscono il riparto. Resta, cioè, fermo, in primo luogo, il principio stabilito dall’art. 5 L. 604/66 che pone a carico del datore di lavoro la prova della sussistenza della giusta causa e del giustificato motivo di recesso, con la conseguenza che il difetto di prova della sussistenza del fatto con-


Giurisprudenza

testato cade in suo danno e conduce all’accertamento giudiziale di illegittimità del recesso. Ciò che la norma introduce è un differente grado di tutela, questo, sicuramente, conseguenza anche di una precisa scelta processuale del lavoratore. Se quest’ultimo, infatti, intende beneficiare della maggiore tutela, dovrà premurarsi di offrire elementi di prova che dimostrino l’insussistenza del fatto addebitato. Chiaro è lo sbocco processuale nel caso in cui è acquisita in giudizio la prova piena della sussistenza del fatto contestato, comportando tale evenienza il rigetto della domanda del lavoratore. Più problematici risultano, invece, i casi in cui o non risulta la prova né della sussistenza né della insussistenza del fatto contestato – in quanto gli elementi acquisiti siano equivoci e/o contraddittori – ovvero la prova dell’una o dell’altra situazione consegua ad un procedimento logico, deduttivo. Nella prima ipotesi – che può sinteticamente ricondursi a quella della prova insufficiente –, in applicazione della regola di riparto dell’art. 5 L. 604/66, il lavoratore riceverà la tutela indennitaria. In siffatta ipotesi, il datore di lavoro sopporta il rischio della mancata dimostrazione di una valida causa di licenziamento: non si tratta di “presunzione” di insussistenza di una giusta causa – ovvero di indiretta dimostrazione dell’insussistenza del fatto ma di applicazione della regola, in subiecta materia, della distribuzione dell’onere probatorio. Può darsi, infatti, che la valida causa di licenziamento sussista ma il datore non sia riuscito a dimostrarla: in tal caso il licenziamento va comunque dichiarato illegittimo, con la minore tutela per il lavoratore, ovvero quella risarcitoria. In ciò si sostanzia ed esaurisce, la “novità” della previsione normativa. L’insussistenza del fatto non può, cioè, derivare quale effetto dell’assenza di prova positiva del fatto contestato (e dunque indirettamente) ma deve conseguire – direttamente – dalla prova (diretta e/o indiretta che sia) che la condotta non sussiste. La norma non modifica, invece, il piano differente che attiene all’oggetto ed efficacia della prova. Diversamente ragionando, interpretando cioè l’avverbio “direttamente” come necessità di una prova “diretta” che abbia cioè ad oggetto “direttamente” il fatto da dimostrare, con esclusione della tutela reintegratoria se la dimostrazione dell’ insussistenza del fatto sia “indiretta”, cioè dedotta da altri fatti noti, la norma si presterebbe a dubbi di ragionevolezza e di costituzionalità. Non può infatti affermarsi che una prova indiretta offra minore certezze di quella diretta. Ciò che rileva, infatti, non è il procedimento attraverso il quale il “fatto storico” sia acquisito al processo (in modo diretto od indirettamente attraverso una deduzione logica) ma il grado di certezza dell’esistenza di quel “fatto”.

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Il comma 2 dell’art. 3 impone la prova “piena” dell’insussistenza, comunque acquisita, mentre la prova contraddittoria e/o equivoca, che pure cade a carico di parte datoriale e rende il licenziamento ingiustificato, conduce, ai sensi del comma 1, al riconoscimento di una tutela meramente economica. Nel caso concreto, il Tribunale ha accertato l’insussistenza del fatto contestato. L’assenza contestata al ricorrente non è ingiustificata ma conseguente al rifiuto – questo sì ingiustificato – di parte datoriale di ricevere la prestazione; circostanza quest’ultima dimostrata in giudizio. Per quanto innanzi, il licenziamento irrogato il 12.7.2016 va annullato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 3, comma 2 cit. La società convenuta, in persona del legale rapp.te p.t., va, altresì, condannata a reintegrare il ricorrente nel precedente posto di lavoro nonché a pagare un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (pari ad E 1.184, 46 mensili, cfr. dichiarazione resa all’odierna udienza del 27.6.2017) e moltiplicata per il numero di mensilità, e/o frazioni di esse, decorrenti dal 12.7.2016 e fino all’effettiva reintegra e, comunque, in misura non superiore a 12 mensilità oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali come per legge. Segue la condanna della convenuta al pagamento degli accessori, ex art. 429 c.p.c., sulle singole componenti del credito, dalla maturazione di ciascuna di essa, coincidente con la scadenza mensile, e fino al soddisfo. Restano assorbite le ulteriori questioni controverse in causa. La complessiva e novità di alcune delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese nella misura di 1/3. Per il resto, seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale di Napoli, definitivamente pronunciando, così provvede: annulla il licenziamento del 12.7.2016, Condanna la società convenuta a reintegrare il ricorrente nel precedente posto di lavoro nonché al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (E 1.184,46 mensili) moltiplicata per il numero di mensilità, e/o frazioni di esse, decorrenti dal 12.7.2016 e fino all’effettiva reintegra e, comunque, in misura non superiore a 12 mensilità oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali come per legge, con rivalutazione ed interessi legali sulle singole poste creditorie, come in parte motiva. Compensa le spese di lite nella misura di 1/3. Condanna parte convenuta al pagamento del residuo che liquida in E 3000,00 oltre spese generali, IVA e CPA come per legge, con attribuzione.


Michele Palla

Sussistere o non sussistere questo è il dilemma (del fatto contestato): la mancata prova dell’esistenza del fatto contestato non equivale alla prova della sua insussistenza Sommario :

1. La decisione in commento: l’oggetto (e lo scopo) della prova e la ripartizione del relativo onere. – 2. La prova (diabolica) dell’insussistenza del fatto contestato – 3. Dalla nullità del patto di prova, alla insussistenza del fatto “esito negativo della prova”, alla reintegrazione del lavoratore

Sinossi. Il commento si sofferma sulla questione, processuale, della ripartizione dell’onere della prova circa la sussistenza insussistenza del fatto materiale contestato (art. 3, comma 2, D. lgs. n. 23/2015), evidenziando come il mancato raggiungimento della prova positiva della sua esistenza, di cui è onerato il datore, non equivalga alla dimostrazione della sua insussistenza, la prova della quale, sia pure attraverso presunzioni o la dimostrazione di fatti positivi incompatibili con quello contestato, spetta al lavoratore che aspiri alla tutela reintegratoria.

1. La decisione in commento: l’oggetto (e lo scopo) della

prova e la ripartizione del relativo onere.

Il primo periodo della previsione dell’art. 3, comma 2, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 recante «Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183» stabilisce che: «Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera c), del d. lgs. 21 aprile 2000, n. 1811, e successive modificazioni».

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Peraltro abrogato dall’art. 34, comma 1, lett. g) del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150, a decorrere dal 24 settembre 2015, ai sensi di

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Giurisprudenza

Chiamato a pronunciarsi su un’ipotesi di licenziamento disciplinare per un’assenza ingiustificata dal lavoro, il Tribunale partenopeo si produce in una interessante interpretazione della norma in questione in punto di ripartizione dell’onere della prova dell’esistenza/ inesistenza fatto all’origine del licenziamento. L’interpretazione proposta, peraltro, si pone in linea di continuità con quanto già emergeva in punto di onere della prova nella relazione illustrativa al decreto 232. Nella relazione, infatti, si precisava che «Fermo restando l’onere della prova a carico del datore di lavoro rispetto alla legittimità del motivo addotto per il licenziamento, l’onere della prova rispetto all’insussistenza del fatto materiale contestato (unica fattispecie di licenziamento per motivo soggettivo o giusta causa per cui può scattare la tutela reintegratoria) è in capo al lavoratore». Così, muovendo dalla considerazione per cui la tutela reintegratoria assume carattere eccezionale nell’ambito della nuova previsione in quanto limitata alla sola ipotesi in cui risulti direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale, il Tribunale valorizza l’avverbio “direttamente”3 stabilendo una sorta di articolata graduazione, più che ripartizione, dell’onere della prova del fatto materiale contestato destinata a riverberarsi direttamente sulla tutela cui il lavoratore, in definitiva, aspira. In prima battuta, il Tribunale ribadisce l’operatività del criterio legale inderogabile4 di ripartizione dell’onere di cui all’art. 5, l. n. 604/19665, a detta del quale: «L’onere della prova

quanto disposto dall’art. 35, comma 1 dello stesso decreto. La si legga in http://documenti.camera.it 3 Che non preclude l’uso delle presunzioni per raggiungere la prova: Pisani, Il licenziamento disciplinare, novità legislative e giurisprudenziali sul regime sanzionatorio, in ADL, 2015, 1, 102. 4 Cass., 16 agosto 2016, n. 17108, dalla massima: «In tema di licenziamento, l’art. 5 l. n. 604 del 1966 pone inderogabilmente a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo, sicché il giudice non può avvalersi del criterio empirico della vicinanza alla fonte di prova, il cui uso è consentito solo quando sia necessario dirimere un’eventuale sovrapposizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, impeditivi o modificativi, oppure quando, assolto l’onere probatorio dalla parte che ne sia onerata, sia l’altra a dover dimostrare, per prossimità alla suddetta fonte, fatti idonei ad inficiare la portata di quelli dimostrati dalla controparte. Nel caso di specie, la suprema corte ha cassato la decisione con cui la corte di merito aveva rigettato l’impugnativa di un licenziamento, intimato contestando al lavoratore la natura privata di alcune telefonate, perché questi non ne aveva provato il carattere lavorativo». 5 Regola estesa anche ai licenziamenti collettivi. Per Cass., 14 novembre 2016, n. 23149, dalla massima: «In tema di licenziamento collettivo, anche ove sia impugnato perché ritorsivo, i presupposti del legittimo esercizio del potere di recesso, il cui onere probatorio incombe sul datore di lavoro, riguardano la sussistenza delle ragioni oggettive della procedura, i criteri di scelta e il nesso di causalità, consistente nell’esatta individuazione dei lavoratori licenziati sulla base dei criteri legali o concordati (nella specie, la suprema corte ha confermato la sentenza di merito che, pur essendovi la prova dell’esubero del personale, aveva ritenuto nullo, perché ritorsivo, il licenziamento collettivo di lavoratori individuati in quanto vincitori di un precedente contenzioso)». Nel licenziamento per g.m.o. l’onere di allegazione e prova si estende come noto anche al c.d. repêchage: Cass., 11 ottobre 2016, n. 20436, in FI, 2016, I, 3843: «In materia di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, gravano sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del ripescaggio, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui ricollocare utilmente il lavoratore». Per la giurisprudenza di merito, App. Roma, 18 maggio 2016, in RGL, 2017, II, 96 (m), n. Raimondi: «A fronte della pretesa del lavoratore che assume in giudizio l’inosservanza, la mancata indicazione o la genericità dei criteri di scelta, l’osservanza, al pari dell’esistenza di tali criteri, della cui prova è onerato il datore di lavoro, assume il valore di fatto impeditivo, che deve essere allegato nella comparsa di costituzione con il relativo corredo istruttorio; le contestazioni del lavoratore licenziato circa i propri titoli prioritari per la conservazione del rapporto assumono quindi il valore difatti costitutivi di secondo grado, da dedurre nella prima difesa utile, in replica alle difese del datore di lavoro convenuto, e cioè normalmente in limine all’udienza di discussione con l’ulteriore precisazione che, la «successiva prova di resistenza» si rende necessaria «solo allorquando il lavoratore licenziato debba articolare ulteriori contestazioni circa i propri titoli prioritari per la conservazione del rapporto». Sulla spendibilità e rilevanza in giudizio delle prove non considerate o valutate nel procedimento disciplinare si veda Cass., 28 settembre 2016, n. 19183, dalla massima: «Il principio dell’immutabilità della contestazione attiene ai fatti posti a fondamento del licenziamento disciplinare, non anche ai mezzi di prova dei quali il datore di lavoro si avvalga per dimostrare giudizialmente la fondatezza dell’addebito, sicché non gli è impedito di 2

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della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro»: di conseguenza, non assolto l’onere da parte del datore, il licenziamento è illegittimo perché il supporto motivazionale per esso indispensabile secondo gli stilemi delle previsioni degli art. 3, l. n. 604/1966 e 2119 c.c. (in quanto costitutivo) rimane solo apparente6. Tuttavia, ed in questo sta la novità della novella del 2015 ed il significato da attribuire alla postulata – ai fini della reintegra – «diretta dimostrazione dell’insussistenza del fatto contestato», la mancata dimostrazione dell’esistenza del fatto ad opera del datore non equivale, quanto ad effetti, alla dimostrazione della sua inesistenza e non conduce dunque ex se alla tutela reintegratoria. La mancata prova positiva della sussistenza del fatto ad opera del datore, in altre parole, non può interpretarsi o ritenersi quale prova indiretta della insussistenza del fatto contestato ma semplice, mancato assolvimento dell’onere probatorio con conseguente illegittimità del licenziamento che tuttavia sarà sanzionata con la sola tutela risarcitoria mancando, comunque, la diretta dimostrazione dell’insussistenza del fatto che compete invece al lavoratore7. In conclusione, secondo la sentenza che si annota, l’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015 impone la piena prova, comunque acquisita, ovvero sia attraverso la prova diretta che attraverso quella indiretta (cioè dedotta da altri fatti noti), dell’insussistenza del fatto contestato. Detto in altri termini, l’insussistenza del fatto, non può coincidere con l’assenza della prova positiva del fatto contestato (dunque indirettamente e a contrario) ma deve derivare dalla prova (diretto o indiretta) che la condotta imputata non sussista.

2. La prova (diabolica) dell’insussistenza del fatto contestato.

Ora, com’è noto, la prova diretta di un fatto insussistente, e dunque negativo, non può essere fornita dovendosi necessariamente raggiungere la relativa prova (necessariamente

chiedere in giudizio l’acquisizione di prove non emerse nel procedimento disciplinare, né gli è precluso, per dimostrare la sussistenza del fatto e la commissione da parte dell’incolpato, ferma la necessità di evitare conflitti fra gli esiti dei procedimenti, in forza della disciplina di cui agli art. 55 ter d.leg. n. 165 del 2001 e 653 e 654 c.p.p., di avvalersi del giudicato penale di condanna che sopravvenga nel corso del giudizio civile di impugnazione della sanzione». Per un commento alla disposizione si rinvia a Vallebona, Franza in Commentario breve alle leggi sul lavoro, già diretto da Grandi, Pera ed oggi da De Luca Tamajo, Mazzotta, V ed., 2013, 926 e ss. Secondo gli Aa. la ripartizione dell’onere probatorio stabilita dalla norma corrisponde perfettamente a quella che deriverebbe dalla piana applicazione dell’art. 2697 c.c. visto che la motivazione del licenziamento, della cui prova è onerato il datore, è fatto costitutivo della fattispecie genetica della facoltà di licenziamento. 6 Secondo Nogler I licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa nel d. lgs. 23/2015, in ADL, 2015, 3, 531, l’interpretazione della norma nel senso fatto proprio dalla sentenza in commento conduce ad una parziale abrogazione della previsione dell’art. 5, l. n. 604/1966 ma secondo l’A. tale effetto avrebbe dovuto essere previsto dalla norma de qua che invece non ne fa cenno alcuno. La conclusione, di conseguenza, è che il lavoratore deve provare il carattere disciplinare del licenziamento spettando comunque al datore la prova della sussistenza, e consistenza (si aggiunge), del motivo di recesso addotto. 7 Nel commentare la previsione dell’art. 3, co, 2, d.lgs. n. 23/2015, che impone «un onere della prova al limite del possibile scaricato tutto sulle spalle del lavoratore», F. Carinci in ADAPT WP, n. 176/2015, ha osservato: «Dire in chiave, apparentemente impersonale, che deve essere «dimostrata direttamente in giudizio l’insussistenza del fatto materiale» significa dare per scontato che sia il datore a dover provare la sussistenza del fatto, ma qualora fallisca resta esposto solo al pagamento dell’indennità risarcitoria, a meno che il lavoratore non sia in grado di provare a sua volta l’insussistenza di tale fatto “direttamente”, cioè, a ben intendere, senza poter far valere un fatto positivo contrario o delle presunzioni».

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indiretta, dunque) mediante la dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario – che esclude per deduzione logica il fatto negativo contrario – o attraverso presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo8. Il lavoratore che intenda provare l’insussistenza del fatto contestato dovrà dunque allegare e provare circostanze positive o elementi presuntivi (ad elementi di prova, allude la sentenza in commento) che smentiscano sul piano oggettivo o soggettivo l’esistenza o l’addebitabilità dell’appunto mosso nei suoi confronti e costituente ragione giustificatrice del recesso datoriale. Anche Trib. Roma, 4 aprile 20169 – sia pure in un fugace accenno – ha evidenziato in motivazione che spetta al lavoratore dare conto della insussistenza dei motivi addotti dal datore di lavoro a supporto del licenziamento irrogato (a fronte della contumacia del datore, la lavoratrice aveva fornito elementi di prova circa l’inconsistenza e contraddittorietà delle contestazioni mosse nei suoi confronti). Di diverso avviso è stato invece il Tribunale di Milano10 il quale, in una causa in cui si discuteva della legittimità di un licenziamento ex art. 2119 c.c., dalla contumacia del datore di lavoro ha dedotto il mancato assolvimento dell’onere di allegazione e prova che: «non può che integrare gli estremi della manifesta insussistenza della giusta causa addotta, cui seguiranno le conseguenze di cui all’art. 3, comma 2, con ordine di reintegrazione del ricorrente». Ora, com’è noto, sul piano processuale, la contumacia della parte debitamente evocata in giudizio non manda esente la controparte dall’allegare e provare gli elementi costitutivi della sua pretesa e le premesse fattuali dalle quali essi derivano11. Sul punto, dunque, la

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Per la prova negativa dell’impossibilità del repêchage: Cass., 18 aprile 2012, n. 6026, in RGL, 2012, II, 733, con nota di Terenzio: «L’onere incombente sul datore di lavoro di dimostrare l’impossibilità di adire il lavoratore allo svolgimento di altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza, concernendo un fatto negativo, va assolto mediante la dimostrazione di fatti positivi corrispondenti, quali la circostanza che i residui posti di lavoro, riguardanti mansioni equivalenti, fossero, al tempo del licenziamento, stabilmente occupati da altri lavoratori, ovvero che, dopo il licenziamento, e per un congruo periodo, non si sia effettuata alcuna nuova assunzione nella stessa qualifica dei lavoratori licenziati». E, per la giurisprudenza di merito, Trib. Ivrea, 08 aprile 2008, in Giur. piemontese, 2008, 119: «Rispetto alla prova di un fatto negativo, qual è l’impossibilità di repêchage, la giurisprudenza richiede al datore di lavoro di provare, anche con presunzioni, i correlativi fatti positivi e al lavoratore di allegare circostanze idonee a sollevare il dubbio sulla sussistenza di alternative di ricollocazione, così da rendere concreto l’onere probatorio datoriale; nel caso di specie, è stato ampiamente provato in sede istruttoria: che il cantiere dove il dipendente licenziato era occupato era stato chiuso a seguito di drastica riduzione delle commesse, che non erano disponibili al momento del recesso residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti, che dopo il licenziamento, per un congruo periodo di cinque mesi, non era stata fatta alcuna assunzione di maestranze svolgenti la medesima qualifica; sono, viceversa, rimasti processualmente smentiti gli speculari fatti costitutivi posti a base dell’eccezione fatta valere dal lavoratore ricorrente». 9 In ADL, 2016, 3, 686 e ss. con nota di Biasi, Il gran ritorno del fatto giuridico nel nuovo regime delle tutele crescenti. 10 Sentenza 5 ottobre 2016, in ADL, 2017, 2, p. 461 e ss. con nota critica, sul punto che qui interessa, di Mattei, Sulla c.d. “manifesta insussistenza della giusta causa” nel licenziamento individuale dopo il Jobs act. 11 Cass., sez. III civ., 13 giugno 2013, n. 14860, dalla massima: «La disciplina della contumacia ex art. 290 seg. c.p.c. non attribuisce a questo istituto alcun significato sul piano probatorio, salva previsione espressa, con la conseguenza che si deve escludere non solo che essa sollevi la controparte dall’onere della prova, ma anche che rappresenti un comportamento valutabile, ai sensi dell’art. 116, 1º comma, c.p.c., per trarne argomenti di prova in danno del contumace». In termini: Cass., sez. III civ., 11 luglio 2003, n. 10947, dalla massima: «La contumacia del convenuto è un fatto processuale che determina specifici effetti, espressamente previsti e determinati dalla legge, ma non introduce deroghe al principio dell’onere della prova, non consentendo pertanto di ritenere come incontroversi o pacifici i fatti dedotti ma non provati dall’attore». Per la giurisprudenza di merito: Pret. Torino, 16 novembre 1988, in DPL, 1989, 874: «La contumacia è un fatto processuale produttivo di specifici effetti, ma non implicante alcun riconoscimento delle pretese fatte valere ex adverso e, quindi, non tale da comportare deroghe al principio dell’onere della prova, che incombe in capo al ricorrente». In dottrina, Cecchella, Limiti all’iniziativa istruttoria del giudice del lavoro: le preclusioni all’attività difensiva delle parti e la regola dell’onere della prova, in GC, 1985, I, 787.

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pronuncia del tribunale meneghino solleva fondate perplessità come rilevato nella nota di commento nella quale si rileva che la pronuncia ha omesso di considerare la distinzione tra le pronunce fondate sul convincimento del giudice e quelle fondate sulla regola finale di giudizio dell’onere della prova con soccombenza della parte onerata non essendosi raggiunto il convincimento pieno ai sensi dell’art. 2697 c.c.12. Nella prospettiva fatta propria dalla sentenza in commento, la contumacia del datore di lavoro non potrebbe mai affrancare il lavoratore licenziato dall’onere della prova della insussistenza del fatto contestato derivandone esclusivamente la carenza di prova della fondatezza del recesso con conseguente applicazione della tutela (solo) indennitaria – risarcitoria. Ai fini d’interesse, e senza voler affrontare il nodo gordiano del significato della formula “fatto materiale” estraneo al presente, breve commento, merita poi di essere segnalata Trib. Taranto, 21 aprile 2017 a detta della quale: «Anche nella disciplina del contratto a tutele crescenti, applicabile ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, l’omessa contestazione specifica degli addebiti disciplinari – tempestiva e antecedente rispetto al provvedimento di licenziamento – esclude in radice la sussistenza di qualsiasi fatto materiale, pur se astrattamente idoneo a fondare un licenziamento per giusta causa, con la conseguente applicazione della tutela reintegratoria; la contemporanea giustificazione del recesso con un motivo oggettivo, che risulti fondato su ragioni del tutto generiche e pretestuose, essendo strumentale ad evitare la reintegrazione per insussistenza del fatto, configura una nullità del recesso per frode alla legge»13. In effetti, la mancata, tempestiva contestazione di un fatto specifico, ponendosi in aperta violazione dei diritti defensionali del lavoratore, non può che condurre alla insussistenza del fatto il quale, essendosi ormai consumato il potere sanzionatorio privato del datore con la formalizzazione dell’appunto disciplinare, non potrebbe neppure essere (tardivamente) introdotto (o rettificato) nella motivazione del provvedimento espulsivo. Sul punto, anche se con riferimento alla disciplina della l. n. 92/2012 ma con motivazione perfettamente spendibile anche in relazione alla disciplina del decreto 23, si è anche pronunciata Cass., 31 gennaio 2017, n. 251314, la quale ha ritenuto che un fatto non tempestivamente contestato non può che essere considerato come insussistente non possedendo l’idoneità ad essere verificato in giudizio: «si tratta in realtà di una violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro a carattere radicale che, coinvolgendo i diritti di difesa del lavoratore, impedisce in radice che il giudice accerti la sussistenza o meno del fatto, e quindi di valutarne la commissione effettiva, anche si fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori. Non essendo stato contestato idoneamente ex art. 7, il “fatto” è “tamquam non esset” e quindi “insussistente” ai sensi dell’art. 18, novellato. Sul piano letterale la norma parla di fatto contestato (quindi contestato regolarmente) e quindi, a maggior ragione, non può che riguardare l’ipotesi in cui il fatto sia stato contestato abnormemente e cioè in aperta violazione dell’art. 7».

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Così Vallebona, Istituzioni di diritto del lavoro, Cedam, 2015, 512 – 513, citato da Mattei, op. cit. In NGL, 2017, 476. 14 Nella fattispecie scrutinata dalla Corte la società datrice di lavoro aveva contestato l’assenza ingiustificata della dipendente dopo oltre un anno: la si legga in MGL, 2017, 489, con nota di Pisani. 13

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Parimenti a dirsi nel caso di g.m.o. chiaramente apparente e pretestuoso che dissimuli in realtà una pulsione disciplinare del recesso: in questo caso, nel caso cioè in cui, per affrancarsi dal rischio della reintegrazione, il datore deduca una apparente ragione organizzativa, il licenziamento finisce per assumere le sembianze del negozio in frode alla legge ricadendo dunque sotto l’ombrello protettivo dell’art. 2, d.lgs. n. 23/2015 il quale, com’è noto, colpisce con la massima sanzione civile, ovvero con la nullità, sia il recesso datoriale discriminatorio ex art. 15, l. n. 300 del 1970, sia quello riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge (per l’individuazione dei quali occorre fare riferimento all’art. 1418 c.c. applicabile anche ai negozi unilaterali ex art. 1324 c.c.)15. In questo caso, il lavoratore è però onerato di un doppio onere probatorio dovendo, in primis, dimostrare la pretestuosità del motivo oggettivo e, poscia, la sussistenza del motivo illecito – l’uso strumentale del g.m.o. per dissimulare una motivazione di carattere disciplinare – alla base del licenziamento subito. L’insussistenza del fatto materiale contestato, poi, è stata ricollegata alla mancanza di illiceità del comportamento imputato al lavoratore. Il riferimento è alla nota e pluri-pubblicata Cass., 13 ottobre 2015, n. 2054016 la quale, occupandosi di un licenziamento motivato in relazione a vicende del tutto personali (la mal conclusa relazione della dipendente con l’A.D. da cui erano derivati apprezzamenti non lusinghieri esternati dalla prima all’indirizzo del secondo), ha avuto modo di precisare che, prevedendo la reintegra per l’ipotesi della insussistenza del fatto contestato, non pare ipotizzabile che il legislatore «abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia suscettibile di alcuna sanzione». L’irrilevanza giuridica del fatto, pertanto, conduce alla insussistenza e da essa alla tutela reintegratoria. Il principio, sia pure espresso in relazione alla disciplina co-esistente17 dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, pare ovviamente operare anche in relazione alla disciplina delle tutele crescenti tratteggiata dal d.lgs. n. 23/2015. In questo caso, peraltro, l’onere probatorio del lavoratore appare semplificato dovendo egli limitarsi ad argomentare e provare il fatto positivo della non riconducibilità del fatto contestato all’inadempimento della prestazione dedotta in contratto e, sia consentito aggiungere, alla oggettiva non incidenza di quello sul vincolo fiduciario.

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Per una riflessione sulla portata dell’art. 2, d.lgs. n. 23/2015 si rinvia a Biasi, op. ult. cit. ed ivi ampia rassegna delle posizioni dottrinali. Tra gli altri in RIDL, 2016, II, 102, con nota di Mazzotta; in NGCC, 2016, 389, con nota di Galardi; in FI, 2015, I, 3830, con nota di Ferrari; in MGL, 2015, 850, con nota di Vallebona e Romeo; in DPL, 2015, 2704, con nota di Servidio; in DLRI, 2015, 1128 (m), con nota di Pelusi. In termini Cass., 20 settembre 2016, n. 18418, in RGL, 2017, 51 (m), con nota di Salvagni. 17 In materia di licenziamento non esistono norme “previgenti” atteso che attualmente coesistono, oltre all’art. 2118 c.c. in punto di licenziamento ad nutum, almeno tre versioni dell’art. 18 (quella “classica” integrale, nel pubblico impiego; quella classica limitata per il solo licenziamento “variamente” nullo dei lavoratori assunti ante marzo 2015; quella oggetto di restyling della l. n. 92/2012 per il licenziamento immotivato o ingiustificato che dir si voglia) e quella del d.lgs. n. 23/2015. 16

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3. Dalla nullità del patto di prova, alla insussistenza del

fatto “esito negativo della prova”, alla reintegrazione del lavoratore. Infine, merita di essere segnalata la pronuncia di Trib. Milano, 3 novembre 201618 per la quale: «l’invalidità del patto di prova per carenza di forma scritta comporta l’ingiustificatezza del licenziamento ex art. 11, l. n. 604 del 1966, in quanto, fondato su una ragione inesistente e, cioè sull’asserito mancato superamento di un patto di prova in realtà non validamente stipulato per iscritto dalle parti e quindi, nullo e inefficace ex art. 2096 c.c.; dalla ingiustificatezza del recesso intimato per insussistenza del fatto materiale contestato, discende ex art. 3, 2º comma, d. leg. n. 23 del 2015 l’illegittimità e, quindi, l’annullamento del licenziamento, da sanzionare con la reintegrazione e la prevista tutela risarcitoria»19. In termini, anche Trib. Torino, 16 settembre 201620 secondo il quale «L’ipotesi del licenziamento per mancato superamento del periodo di prova con accertata nullità del patto è riconducibile all’art. 3, 2º comma, d.leg. n. 23 del 2015; ad esso si applica quindi la relativa sanzione della reintegrazione e della tutela risarcitorie». In questo caso, dunque, l’onere della prova a carico del lavoratore si sposta dalla ragione del licenziamento addotta dal datore di lavoro, alla nullità del patto che di quello costituisce, a monte, la fonte di apparente legittimazione ovvero il patto di prova concluso in violazione dell’art. 2096 c.c. Michele Palla

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In Labor, 2017, 4, 479 e ss., con nota di Marchi, Il licenziamento illegittimo nel periodo di prova in caso di nullità della clausola di prova. Contra, Trib. Milano, 08 aprile 2017, in GLav, 2017, fasc. 18, 27 (m), con nota di Zambelli: «L’invalidità del patto di prova, per omessa specificazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto, comporta l’ingiustificatezza del licenziamento, perché intimato fuori dall’area della libera recedibilità, onde, in applicazione dell’art. 3, 1º comma, d.leg. n. 23 del 2015, deve essere dichiarata l’estinzione del rapporto e il datore di lavoro condannato al pagamento di una indennità di importo non inferiore a quattro mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto» e Trib. Teramo, 14 febbraio 2017, in NGL, 2017, 467: «L’invalidità del patto di prova, per omessa specificazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto, comporta l’ingiustificatezza del licenziamento, perché intimato fuori dall’area della libera recedibilità, onde, in applicazione dell’art. 3, 1º comma, d.leg. n. 23 del 2015, deve essere dichiarata l’estinzione del rapporto e il datore di lavoro condannato al pagamento di una indennità di importo non inferiore a quattro mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto». 19 In termini, ante Jobs act, Trib. Milano, 24 maggio 2013, in D&L, 2013, 195 a detta del quale: «In caso di licenziamento per mancato superamento del patto di prova, l’accertata nullità del patto determina l’inesistenza del motivo addotto e conseguentemente il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18, 4º comma, stat. lav.». 20 Anch’essa in NGL, 2017, 174.

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