2019 LABOR 2
L
issn 2531-4688
ABOR Il lavoro nel diritto
2
marzo-aprile 2019
Rivista bimestrale
Diretta da Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
IN EVIDENZA Il lavoro su piattaforme tra autonomia e subordinazione Pasqualino Albi
Digitalizzazione delle imprese e trasformazione delle competenze Angelo Salento
L’innovazione tecnologica nel settore agricolo Claudia Faleri
Fondo di garanzia, circolazione dell’impresa e insolvenza datoriale Antonino Sgroi
Giurisprudenza commentata Enrico Gragnoli, Francesca Marinelli, Cinzia Carta, Giovanni Piglialarmi
Pacini
Indici
Saggi Pasqualino Albi, Il lavoro mediante piattaforme digitali tra autonomia e subordinazione..............p. 125 Angelo Salento, Digitalizzazione delle imprese e trasformazione delle competenze. Quadro analitico e riscontri empirici..............................................................................................................» 131 Claudia Faleri, L’innovazione tecnologica nel settore agricolo tra vecchie criticità e nuove opportunità........................................................................................................................................» 143 Antonino Sgroi, Intervento del Fondo di garanzia, fenomeni circolatori dell’impresa e stato d’insolvenza di uno dei datori di lavoro............................................................................................» 155
Giurisprudenza commentata Enrico Gragnoli, I lavoratori italiani possono chiedere il riposo nel giorno di Indù Dipavali? .........» 169 Francesca Marinelli, Licenziamento discriminatorio: fattispecie, fattori discriminatori e onere della prova. La Cassazione mette ordine.....................................................................................................» 187 Cinzia Carta, Non è un paese per fannulloni: il licenziamento del dipendente pubblico per falsa attestazione della presenza in servizio...............................................................................................» 201 Giovanni Piglialarmi, Il campo di applicazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 tra trasformazione e conversione dei contratti individuali di lavoro..................................................................................» 217
Indice analitico delle sentenze Licenziamenti – Licenziamento discriminatorio – Fattispecie – Licenziamento per motivo illecito – Distinzione fra le figure – Sussistenza (Cass., 27 settembre 2018, n. 23338, con nota di Marinelli) – Licenziamento discriminatorio – Giusta causa o giustificato motivo – Concorso – Nullità del licenziamento – Sussistenza – Licenziamento per motivo illecito – Giusta causa o giustificato motivo – Concorso – Nullità del licenziamento – Insussistenza (Cass., 27 settembre 2018, n. 23338, con nota di Marinelli) – Licenziamento discriminatorio – Onere della prova – Agevolazione rispetto al regime ordinario – Portata generale (Cass., 27 settembre 2018, n. 23338, con nota di Marinelli) – Licenziamento discriminatorio – Tassatività dei fattori discriminatori – Lavoratrice affetta da patologia grave – Discriminatorietà – Sussistenza – Patologia grave – Fattore dell’handicap – Riconducibilità (Cass., 27 settembre 2018, n. 23338, con nota di Marinelli) – Pubblico impiego – Omessa registrazione dell’allontanamento dal luogo di lavoro – Falsa attestazione della presenza in servizio – Sussistenza – Apertura del termine per il procedimento disciplinare – Decorrenza (Cass., 11 settembre 2018, n. 22075, con nota di Carta) – Regime a tutele crescenti – Contratto a termine stipulato prima del 7 marzo 2015 – Conversione successiva al 7 marzo 2015 – Applicabilità – Sussistenza – Contratto a termine stipulato dopo il 7 marzo 2015 – Trasformazione volontaria o di fatto del contratto – Applicabilità del regime a tutele crescenti – Esclusione (Trib. Roma, 6 agosto 2018, n. 75870, con nota di Piglialarmi) Unione Europea – Previsione discriminatoria per religione – Lavoratori discriminati – Diritto alla parità di trattamento (C. giust., 22 gennaio 2019, C-193/2017, con nota di Gragnoli) – Previsione nazionale attributiva di un diritto ad un giorno festivo per lavoratori appartenenti ad alcune confessioni religiose – Conformità alla Dir. 2000/78/CE – Discriminazione diretta per religione – Sussistenza (C. giust., 22 gennaio 2019, C-193/2017, con nota di Gragnoli) Indice cronologico delle sentenze Giorno
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Autorità 2018 Agosto Trib. Roma, n. 75870 Settembre Cass., n. 22075 Cass., n. 23338 2019 Gennaio C. giust., C-192/17
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Notizie sugli autori
Pasqualino Albi – professore ordinario nell’Università di Pisa Cinzia Carta – assegnista di ricerca nell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Claudia Faleri – professore associato nell’Università degli Studi di Siena Enrico Gragnoli – professore ordinario nell’Università degli studi di Parma Francesca Marinelli – ricercatore nell’Università degli Studi di Milano Giovanni Piglialarmi – dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Bergamo Angelo Salento – professore associato nell’Università del Salento Antonino Sgroi – avvocato presso l’Avvocatura centrale dell’INPS
Saggi
Pasqualino Albi
Il lavoro mediante piattaforme digitali tra autonomia e subordinazione Sommario : 1. Premessa. – 2. Il lavoro subordinato. – 3. Il lavoro autonomo. – 4. Giudici e legislatori tra qualificazione del rapporto e disciplina applicabile.
Sinossi. Il contributo muove dalla considerazione che la rivoluzione digitale impone una riflessione aggiornata sui principi e sui valori fondativi del diritto del lavoro mentre nel quadro italiano emerge che gli interventi del legislatore si stanno rivelando confusi e contraddittori, mettendo in seria difficoltà la stessa azione della giurisprudenza. Ciò è quanto sta accadendo anche sul tema del lavoro mediante piattaforme digitali in relazione al quale gli strumenti normativi disponibili sono totalmente inadatti ad offrire una risposta alle esigenze di protezione che emergono da un mercato del lavoro in forte cambiamento. Al tempo stesso occorre prendere atto che la giurisprudenza italiana, nella stagione più recente, si è caratterizzata per una maggiore rigidità sul fronte della qualificazione del rapporto di lavoro. Il contributo si conclude proponendo una rinnovata riflessione sul metodo di qualificazione del rapporto e sulle esigenze meritevoli di essere attratte nella sfera protettiva del diritto del lavoro, con uno sguardo lungo, orientato ad osservare la complessità senza paure e precomprensioni. Abstract. The essay derives from the consideration that the digital revolution requires an updated reflection on the principles and values of labour law. In the Italian policy framework, the intervention of the legislator seems confusing and contradictory, hindering the action of the judges. On the subject of digital platform work, the available regulatory instruments are totally inadequate to meet the protection needs arising from a rapidly changing labour market. At the same time, it should be considered the recent Italian jurisprudence on the qualification of the employment relationship. The purpose of this paper is to suggest an updated reflection on the method of qualification of the employment relationship and on the needs deserving of being attracted to the protected sphere of labour law. Parole chiave: Lavoro nelle piattaforme digitali – Lavoro subordinato – Qualificazione del rapporto di lavoro – Lavoro autonomo – Collaborazioni etero-organizzate
Pasqualino Albi
1. Premessa. Vi è nel tema oggetto di questo mio contributo – un tema sul quale è intensa la riflessione della dottrina1 – l’intreccio fra diversi ed estremamente complessi punti di riflessione. In primo luogo occorre fare i conti con una modernità che stravolge la trama regolativa del diritto del lavoro e il sistema dei principi e dei valori fondativi della materia. I giuristi del lavoro sono davanti alla sfida posta dai mutamenti in corso e avvertono l’esigenza di un complessivo ripensamento del modello; vi è un forte stimolo a rivisitare le categorie sulle quali il diritto del lavoro ha fondato sé stesso e, al tempo stesso, il timore che questa operazione sia impossibile se non a patto di archiviare i principi e i valori fondativi della materia2. In un simile quadro non si può trascurare il rischio che il dibattito sulla rivoluzione digitale finisca per oscillare fra avvenirismo e catastrofismo, con una dottrina vittima di una sorta di spaesamento assiologico. Il discorso su valori e principi deve poi fare i conti con domande vitali – e cariche di concretezza e materialità – quali, ad esempio, quelle legate all’individuazione dei nuovi caratteri costitutivi del tempo della prestazione, del luogo della prestazione, del potere direttivo e del potere di controllo del datore di lavoro in un contesto ormai sfuggente, avviato verso una sorta di irreversibile mutamento. Se si prende in considerazione il potere di controllo può in particolare notarsi che la formula «strumenti per rendere la prestazione lavorativa» adottata dal nuovo art. 4 st. lav. esprime la compenetrazione fra strumento e controllo, aprendo prospettive inedite per la configurazione di tale potere. Può certamente affermarsi che la profonda innovazione tecnologica in corso ha accentuato notevolmente e finirà per accentuare sempre di più il tratto della personalità della prestazione, come a volte è in grado di dimostrare anche la cronaca: si pensi al disastro aereo che ha interessato il volo German Wing 9525 il 24 marzo 2015, precipitato in seguito ad una manovra deliberata di uno dei piloti che, da quanto risulta, soffriva di gravi problemi psichici non tempestivamente rilevati dal datore di lavoro.
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V. il Quaderno n. 2/2017 di RGL, Il lavoro nelle piattaforme digitali e, ivi, in particolare: Carabelli, Presentazione del convegno e introduzione dei lavori, 11 ss; Salento, Industria 4.0 ed economia delle piattaforme: spazi di azione e spazi di decisione, 29 ss; Voza, Il lavoro reso mediante piattaforme digitali tra qualificazione e regolazione, 71 ss; D’Onghia, Lavori in rete e nuova precarietà: come riformare il welfare state?, 83 ss; D. Garofalo (a cura di), Le nuove frontiere del lavoro: autonomo-agile-occasionale, Adapt University Press, 2018; F. Carinci, La subordinazione rivisitata alla luce dell’attuale legislazione: dalla subordinazione alle subordinazioni?, in ADL, 2018, I, 961; Biasi, Il Tribunale di Torino e la qualificazione dei riders di Foodora, in ADL, 2018, I, 1220 ss; Gramano, Riflessioni sulla qualificazione del rapporto di lavoro nella gig-economy, in ADL, 2018, I, 730 ss; Bronzini, La nozione di “dipendenza” comunitaria: una soluzione per la digital economy? in ADL, 2018, I, 983 ss; Lunardon, Le reti di impresa e le piattaforme digitali della sharing economy, in ADL, 2018, 375; Amendola, Subordinazione e autonomia: il sindacato di legittimità, in ADL, 2018, I, 1000 ss; Tullini, Prime riflessioni dopo la sentenza di Torino sul caso Foodora, in Lavoro, Diritti, Europa, 2018, 1 ss; Balandi, Concetti lavoristici impigliati nella rete, in RTDPC, 2018, 461 ss; Voza, Il lavoro e le piattaforme digitali: the same old story? in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 336/2017; De Luca, I giuslavoristi e le innovazioni tecnologiche, in LG, 2018, 1109. Perulli, L’idea di diritto del lavoro, oggi, in LD, 2016, 20 ss; ID, Lavoro e tecnica al tempo di Uber, in RGL, 2017, 2, I, 195 e ss.; Tullini, Digitalizzazione dell’economia e frammentazione dell’occupazione. Il lavoro instabile, discontinuo, informale: tendenze in atto e proposte d’intervento, in RGL, 2016, 4, 748; Faioli (a cura di), Il lavoro nella gig-economy, I quaderni del Cnel, 2018.
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Il lavoro mediante piattaforme digitali tra autonomia e subordinazione
Per un paradosso apparente le straordinarie innovazioni tecnologiche che sono idonee a rendere l’intervento umano sempre più rarefatto sulla realizzazione del prodotto o del servizio rendono centrale ed ineludibile il profilo personale della prestazione. In secondo luogo occorre confrontarsi con due profili che hanno una matrice comune. Da un lato il diritto vigente come trappola nella quale restano incagliati i giudici e gli avvocati, condannati entrambi a dover affrontare sfide complesse con un armamentario normativo che, pur sottoposto a continui (e spesso contraddittori quanto inopportuni) interventi del legislatore, è ormai logoro e inadatto. Dall’altro lato il diritto vivente come specchio e dunque come oggetto autoriflessivo; il diritto del lavoro condannato a guardarsi allo specchio, a guardare nello specchio la propria immagine ormai invecchiata, un po’ ingiallita, decisamente grigia e stanca.
2. Il lavoro subordinato. Se è vero che la subordinazione è la chiave di accesso al diritto del lavoro, deve prendersi atto che questa affermazione ha assunto nel corso degli anni un significato ed anche un tono diverso: fino a circa quindici anni fa essa suonava alta e forte, portatrice di un orgoglio giuslavoristico che trovava fonte in un sistema normativo che sembrava ancora robusto ed in grado di promettere garanzie importanti, di cui non vi era traccia fuori dai confini del diritto del lavoro. Nel corso degli anni quella affermazione ha assunto sfumature diverse fino ad arrivare, recentemente, a suonare come una formula che non porta con sé più alcuna esclamazione e che forse sottende quasi un interrogativo: la subordinazione è la chiave di accesso al diritto del lavoro? La risposta è affermativa ma in quella risposta si avverte l’insoddisfazione di un modello regolativo in cui le tutele per il lavoratore si sono rarefatte e affievolite, sono divenute deboli e leggere, non sono in grado di proteggere il lavoratore dal vento di un cambiamento che è inarrestabile quanto indecifrabile. Il problema della qualificazione oggi sembra fortemente influenzato dall’indebolimento della rete protettiva che è operante nei confini interni della subordinazione, essendo peraltro frequente che il lavoratore possa entrare e uscire dal diritto del lavoro (e quindi attraversare in entrata e in uscita i confini della subordinazione) senza particolari difficoltà: dal lavoro, ai lavori, ai lavoretti (Gig Economy) e ritorno. L’art. 1 del d.lgs. n. 81/2015 fa bella mostra di sé ricordandoci che il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è la forma comune del rapporto di lavoro subordinato. Le disposizioni successive del medesimo decreto si fanno carico di smentire tale assunto, riproponendo la costellazione di tipologie contrattuali flessibili già ben conosciute, di cui viene intensificato il tratto deregolativo: si pensi alla disciplina del contratto a tempo determinato prima del c.d. decreto dignità. Lo stesso lavoro intermittente, di cui veniva annunciata l’uscita di scena, viene riconfermato nel c.d. codice dei lavori. Il modello regolativo che emerge dal d.lgs. n. 81/2015 conferma la trama fortemente flessibile del lavoro subordinato che era andata sviluppandosi nelle stagioni precedenti mentre il d.lgs. n. 23/2015 si è occupato di rendere debole la protezione dei lavoratori
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(assunti a far data dal 7 marzo 2015) contro i licenziamenti illegittimi fino al recente intervento della Corte Costituzionale (C. Cost., n. 194/2018).
3. Il lavoro autonomo. Sempre il d.lgs. n. 81/2015 conduce un’operazione terribilmente ambigua sul tema delle c.d. nuove collaborazioni o collaborazioni etero-organizzate. Per una sorta di maledizione il legislatore italiano non riesce ad affrontare il tema della protezione del lavoro senza fare ricorso all’ossessione qualificatoria. Era già accaduto con il lavoro a progetto (artt. 61-69 d.lgs. n. 276/2003) nel quale la debolezza (quasi imbarazzante) della disciplina garantistica per i collaboratori era, per così dire, compensata, dal meccanismo infernale delle presunzioni che potevano traghettare il lavoratore, per via giudiziale si intende, verso l’agognata subordinazione. L’art. 2 d.lgs. n. 81/2015 intenderebbe aggirare la trappola qualificatoria e tenta di esorcizzare questa ipotesi evocando la “disciplina applicabile”. La formula è dunque la seguente: «si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro». È tuttavia evidente che anche il legislatore del 2015 introduce il tratto qualificatorio affermando che il diritto del lavoro si applica quando le «modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro». La disposizione non sembra introdurre alcuna innovazione perché finisce per rinviare chiaramente all’art. 2094 c.c. (“anche”); sia detto che l’art. 2 cit. sembra dirci che se un rapporto di lavoro è subordinato gli si deve applicare la disciplina del lavoro subordinato3. E dunque non si può rimanere stupiti se i giudici del lavoro italiani nelle prime interpretazioni di tale disposizione non ne hanno colto tratti particolarmente innovativi oppure se il risultato applicativo, proprio per le insidie del testo normativo e per l’assoluta mancanza di respiro sistematico del legislatore, sia tale da aprire ulteriori fronti problematici, come quello della disciplina giuslavoristica applicabile4.
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Cfr. Mazzotta, Lo strano caso delle “collaborazioni organizzate dal committente”, in Labor, 2, 2017. In effetti è quanto sembra accadere con la vicenda giudiziaria dei riders di Foodora, su cui v., per qualche rapido cenno, nota 6.
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Il lavoro mediante piattaforme digitali tra autonomia e subordinazione
4. Giudici e legislatori tra qualificazione del rapporto e disciplina applicabile.
Nel corso degli ultimi trent’anni i mutamenti del mercato del lavoro avrebbero reso necessario un intervento del legislatore italiano in linea ed in coerenza con le scelte compiute dai paesi europei di prima generazione. Anzitutto muovendo dall’universalismo, almeno tendenziale, della protezione sociale rivolta ai lavoratori sulla base della meritevolezza dell’interesse e non sulla base della qualificazione del rapporto. Niente di tutto questo è avvenuto e gli unici interventi del legislatore hanno finito per ributtare la palla nel campo della giurisprudenza. Anche su questo terreno gli interpreti hanno ha svolto, in tempi non recenti, un ruolo di supplenza rispetto alle colpevoli inerzie del legislatore5. La tendenza espansiva della subordinazione ha svolto nel corso degli anni ottanta e novanta del secolo scorso una funzione di vera e propria giustizia sostanziale, garantendo l’accesso al diritto del lavoro di quelle professionalità che erano rimaste sul confine. Nelle stagioni più recenti la giurisprudenza italiana ha invece mostrato un volto più restrittivo, forse troppo restrittivo, anche se occorre prendere atto che il quadro normativo volubile e i segnali contrastanti e confusi del legislatore hanno probabilmente imposto un self-restraint che trova una ragionevole spiegazione nell’istinto di autodifesa. In questo contesto devono essere osservati gli interventi che riguardano il tema del lavoro nelle piattaforme digitali e dunque le recenti sentenze del Tribunale di Torino6 cui ha fatto seguito quella del Tribunale di Milano7. Gli esiti di questi primi giudizi non possono stupire ove si tengano a mente i pilastri sui quali la giurisprudenza ha codificato negli ultimi trent’anni la distinzione fra lavoro autonomo e lavoro subordinato e che sono stati recentemente rammentati in una recente lucida analisi8: a) qualsiasi attività umana economicamente rilevante può essere svolta in forma autonoma o subordinata; b) la subordinazione è assoggettamento al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro; c) gli ordini impartiti dal datore di lavoro devono essere specifici, assidua e costante deve essere l’attività di vigilanza; stabile e continuativo deve essere l’inserimento nell’organizzazione produttiva dell’impresa; d) se la subordinazione in senso forte non è apprezzabile agevolmente allora occorre fare riferimento agli indici sussidiari quali presunzioni giudiziali gravi, precise e concordanti (art. 2729 c.c.): la continuità della prestazione, la predeterminazione dell’orario, l’inserimento nell’organizzazione; e) un singolo elemento sussidiario non è mai sufficiente per la quali-
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Sul dibattito dottrinario in tema v. Ferraro, Dal lavoro subordinato al lavoro autonomo, in DLRI, 1998, 429; per una ricostruzione aggiornata all’evoluzione più recente: F. Carinci, ibidem. Trib. Torino, 11 aprile 2018, n. 778 su cui v., in particolare, Biasi, Il Tribunale di Torino e la qualificazione dei riders di Foodora, cit., 1220 ss.; tale decisione è stata recentemente riformata da App. Torino, 4 febbraio 2019 n. 26 che pone ora al centro dell’attenzione il tema delicatissimo della disciplina del lavoro subordinato applicabile alle c.d. collaborazioni etero-organizzate. Trib. Milano, 10 settembre 2018, n. 1853, in D&G, 12 ottobre 2018. Amendola, ibidem.
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ficazione9 ma una valutazione globale degli elementi consente di applicare le presunzioni ex art. 2729 c.c.; f) il nomen juris: la qualificazione formale del contratto non impedisce di accertare il comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto di lavoro; g) il tipo negoziale lavoro subordinato è indisponibile10. Invece, con tutte le avvertenze necessarie imposte dalla comparazione fra sistemi e tenuto conto anche delle differenze fra i casi concreti, può riscontrarsi una tendenza espansiva della giurisprudenza degli altri paesi11. A ben vedere la giurisprudenza italiana non ha mai sciolto il nodo fra metodo tipologico e metodo sillogistico. Nel tentativo di individuare una linea conclusiva del ragionamento fin qui condotto, ritengo che, nel quadro attuale, sia opportuno tornare a riflettere sulla qualificazione del rapporto, partendo dal metodo tipologico12 e, al tempo stesso, avviare una riflessione sulle esigenze meritevoli di essere attratte nella sfera protettiva del diritto del lavoro: occorre uno sguardo lungo, orientato ad osservare la complessità senza paure e precomprensioni. Personalmente immagino il diritto del lavoro come Faussone, il protagonista del libro La chiave a stella di Primo Levi: il diritto del lavoro potrebbe aspirare ad essere come Faussone, un operaio specializzato che si lascia alle spalle la dura esperienza della fabbrica alla Lancia e inizia a girare il mondo a montare gru, ponti sospesi, impianti petroliferi, strutture metalliche. Concludo con una considerazione ancor più personale: poiché il mio Maestro è per me il diritto del lavoro ed è un artigiano del diritto del lavoro mi permetto di chiedergli, citando le ultime parole del libro La chiave a stella: «Così Lei vuole proprio chiudere bottega? Io, scusi sa, ma al suo posto ci penserei su bene. Guardi che fare delle cose che si toccano con le mani è un vantaggio: uno fa i confronti e capisce quanto vale. Sbaglia, si corregge, e la volta dopo non sbaglia più. Ma lei è più anziano di me, e forse nella vita ne ha già viste abbastanza»13.
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Cass., sez. un., 30 giugno 1999 n. 379, in Banca Dati Leggi d’Italia.it. De Luca, ibidem, giunge alla conclusione che l’indisponibilità del tipo contrattuale lavoro subordinato è patrimonio costituzionale comune. 11 Per rimanere nel quadro europeo si v. ad es. Corte di Cassazione Francese, arret n. 1737 del 28 novembre 18, inedita da quanto consta e le due recenti decisioni dei giudici inglesi sul caso Uber sui quali si rinvia a Balandi, ibidem. 12 Nogler, Metodo e casistica nella qualificazione dei rapporti di lavoro, in DLRI, 1991, 107 ss. 13 Levi, La chiave a stella, Einaudi, 1978 e 1991, 180. 10
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Angelo Salento
Digitalizzazione delle imprese e trasformazione delle competenze. Quadro analitico e riscontri empirici Sommario : 1. Introduzione. – 2. Digitalizzazione e competenze: un quadro analitico. – 3. Diffusione e composizione delle “nuove competenze”. – 4. Alcune conclusioni provvisorie.
Sinossi. La trasformazione delle situazioni di lavoro, delle competenze e delle professionalità in contesti produttivi altamente digitalizzati non può essere dedotta da un’idea astratta di digitalizzazione. Occorre piuttosto fare riferimento ai riscontri empirici disponibili, sia qualitativi che quantitativi, per comprenderne il senso e la portata. Alla luce di una breve rassegna di ricerche, in questo testo si sostiene che i connotati delle situazioni di lavoro non sono definiti dalla tecnologia in quanto tale, ma dall’azione organizzativa nella quale si innestano gli artefatti tecnologici; e che non è possibile astrarre da un ventaglio molto ampio di situazioni di lavoro decisamente diverse una generica categoria di lavoro digitale. Abstract. The transformation of work situations, jobs and skills in highly digitized production environments can not be deduced from an abstract idea of digitization. Rather, it is necessary to refer to the empirical evidence available, both qualitative and quantitative, to understand its meaning and scope. In the light of a brief review of empirical researches, this paper argues that work situations are not defined by technology as such, but by the organizational action in which technological artifacts are adopted; and that it is not possible to shape a general construct of digital work out of a very wide range of very different work situations. Parole
chiave:
Industria 4.0 – Digitalizzazione – Lavoro – Competenze – Diritto del lavoro
Angelo Salento
1. Introduzione. La digitalizzazione dei processi di produzione solleva una quantità di interrogativi per le scienze sociali. Sono questioni di ordine macro, come la creazione di nuovi mercati (e il declino di altri), la trasformazione dei modelli di business, o la riconfigurazione delle catene globali del valore e dei rapporti fra imprese, le implicazioni sui mercati del lavoro; questioni di ordine meso, come la trasformazione dell’organizzazione delle unità produttive, o le trasformazioni del rapporto fra concezione/ideazione ed esecuzione; questioni di ordine micro, come i mutamenti delle situazioni di lavoro e i cosiddetti rapporti uomo/ macchina. Fra i tanti interrogativi, particolarmente importante — anche per le potenziali implicazioni sul piano della regolazione giuridica dei rapporti di lavoro — è quello della trasformazione delle professioni, delle professionalità e delle competenze. Il tema è complesso per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, perché si tratta di un fenomeno vasto ed eterogeneo, nel quale è difficile delimitare gli oggetti di analisi. In parte si tratta di tendenze di lungo corso, come la digitalizzazione del lavoro impiegatizio (operazioni contabili, videoscrittura e simili), in parte di fenomeni di introduzione di strumenti digitali di supporto (come accade ad esempio nelle professioni mediche), in parte di processi di interconnessione di macchine digitali nella produzione industriale (c.d. Industria 4.0), in parte di processi di ristrutturazione di specifici mercati del lavoro (o della creazione nuovi mercati del lavoro) attraverso piattaforme digitali. Il secondo ordine di difficoltà sta nel fatto che — come spesso accade in momenti di transizione repentina, soprattutto quando si tratta di mutamento tecnologico — le trasformazioni sono percepite in chiave determinista. Si assume spesso che la trasformazione abbia una natura eminentemente tecnologica, come se si assistesse a una “rivoluzione delle macchine” e in accordo con quest’idea si coniano costrutti, categorie, nomenclature. Quest’approccio comporta anche una forte enfasi sulle discontinuità, spesso rappresentate come “disruptive”, e fa dimenticare che i fenomeni di cui si parla sono esiti di trasformazioni di lungo corso, che spesso prescindono dalle dotazioni tecnologiche (le quali li portano, tutt’al più, a conseguenze più radicali). L’idea che prende piede è che la diffusione delle tecnologie digitali «porti con sé» lo sviluppo di nuove forme di lavoro, ovvero che sia la tecnologia — concepita alla stregua di un attore sociale — a dettarne i tempi e l’orientamento. Laddove sia adottata nel dibattito giuridico, questa postura interpretativa — per la quale le trasformazioni, più che scaturire dall’esercizio del potere sociale, sono il portato di una razionalità evolutiva sostanzialmente metastorica — rischia di generare la convinzione che il compito degli operatori del diritto non sia che di produrre un quadro di compatibilità per l’avvento delle nuove tecnologie. L’idea che le tecnologie siano “il futuro” e che ai regolatori spetti soltanto un compito di adeguamento della regolamentazione induce a pensare che il compito della regolazione sia lasciare campo alle trasformazioni, perché
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Digitalizzazione delle imprese e trasformazione delle competenze. Quadro analitico e riscontri empirici
«bloccare l’innovazione è come stare dalla parte dei vetturini a cavallo all’epoca dell’invenzione delle autovetture»1. L’approccio determinista, peraltro, è comune ai devoti come ai critici della trasformazione tecnologica; anzi — come osserva Gasparre2 — è proprio in ragione di quest’approccio che il dibattito si sviluppa intorno a due polarità — quella apologetica e quella critica — accomunate appunto dalla convinzione che le trasformazioni del lavoro non siano (più), come sono sempre state, trasformazioni legate all’esercizio del potere sociale3, ma trasformazioni indotte dall’autosviluppo delle tecnologie digitali.
2. Digitalizzazione e competenze: un quadro analitico. Quando si parla di digitalizzazione, il compito primario della ricerca sociale è liberare l’analisi dalle prenozioni di stampo determinista. Quando si tratta in particolare di professionalità e competenze, il compito consiste nel mettere in discussione l’idea — di solito data per supposta — che l’uso di strumenti evoluti, persino intelligenti, richieda capacità e competenze evolute. Quest’idea non può essere né affermata né smentita in via puramente deduttiva. Occorre vagliarla sulla base di riscontri empirici, senza peraltro attendersi risposte univoche e definitive. In primo luogo — data l’ampiezza del quadro di fenomeni considerato — è opportuno distinguere, analiticamente, fra: lavori (relativamente) nuovi, specificamente digitali, che incorporano alcune attività e competenze tipiche di mestieri consolidati; mestieri “tradizionali”, che si trasformano includendo mansioni e competenze connesse all’interazione con artefatti tecnologici digitali. La distinzione è puramente analitica, perché non è possibile identificare empiricamente e univocamente il confine fra i due insiemi, i quali presentano entrambi — per dirla con Gubitta — i caratteri del “lavoro ibrido”: “Il lavoro ibrido […] combina e integra le competenze tecniche, gestionali, professionali o relazionali con le competenze informatiche e digitali, le conoscenze per comunicare nei social network, le abilità per interagire con altre persone attraverso la mediazione o l’uso di tecnologie digitali, gli orientamenti per svolgere in maniera efficace la propria attività in ambienti di lavoro in cui lo spazio (fisico e sociale) e il tempo (aziendale e personale) assumono configurazioni diverse”4. Ferma restando questa precisazione, il primo insieme si può convenzionalmente identificare con le cosiddette professioni o professionalità ICT (ossia relative all’Information
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Così Jyrki Katainen, commissario europeo per il lavoro, la crescita, gli investimenti e la competitività, cit. in Aloisi, de Stefano, Connessi e infelici? L’economia digitale e il lavoro che cambia, in www.econopoly.ilsole24ore.com/2015/12/16/connessi-e-infelici-leconomiadigitale-e-il-lavoro-che-cambia-da-dove-ripartire/ (2015). Gasparre, Digitalizzazione e cambiamento organizzativo, in Salento (a cura di), Industria 4.0. Oltre il determinismo tecnologico, TAO Digital Library, 53, reperibile sul sito http://doi.org/10.6092/unibo/amsacta/6041. Kahn-Freund, Labour and the Law, Stevens & Sons, 1972, 3. Gubitta, I lavori ibridi e la gestione del lavoro, in Economia e società regionale, 36, 1, 2018, 72.
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and Communication Technology). L’Agenzia per l’Italia Digitale ne ha proposto un inventario articolato in 23 profili professionali raggruppati in sei aree: business management, technical management, design, development, service & operation, support. Si tratta, per fare qualche esempio, di figure come il Chief Information Officer, che «definisce ed implementa la governance e la strategia ICT», o l’ICT Security Manager, che «definisce la politica di sicurezza del Sistema di Informazioni [e] gestisce la diffusione delle sicurezza attraverso tutti i sistemi informativi», o ancora il Developer, che «assicura la realizzazione e l’implementazione di applicazioni ICT». In tutti questi casi — fermi restando alcuni elementi di continuità rispetto a professioni e professionalità “tradizionali” — si tratta di competenze specificamente costruite sulla tecnologia digitale, che richiedono (anche) conoscenze e capacità di ordine prettamente tecnico. Queste competenze riguardano una frazione molto piccola della forza lavoro e sarebbe errato ritenerle rappresentative di un “paradigma”. Come si vedrà, costituiscono un’eccezione limitata, ancorché significativa. Il secondo insieme — di gran lunga più rilevante sotto un profilo quantitativo — è più vario e complesso. Qui compiti e competenze “tradizionali” incontrano compiti e competenze specificamente legati all’adozione di artefatti tecnologici, configurando un’ampia varietà di situazioni di lavoro. È a questo spazio che va dedicato, probabilmente, il più intenso sforzo analitico. In prima battuta, va sottolineato che che in quest’ambito le nuove competenze richieste agli operatori sono, perlopiù, quelle che rivengono da una generica alfabetizzazione informatica, che i più giovani — ma non soltanto i millennials in senso stretto — acquisiscono attraverso l’interazione quotidiana con oggetti digitali comuni: smartphone, tablet, personal computer e altri dispositivi connessi alla cosiddetta Internet of Things. Anche in contesti altamente digitalizzati, quanto si richiede agli operatori — quando non si tratta di figure chiamate a progettare, programmare e a manutenere l’infrastruttura digitale — non è la capacità di comprendere come la macchina funziona e perché, ma la competenza sufficiente a utilizzarla per gli scopi per i quali è (da altri) concepita e programmata. Sotto questo profilo, i contesti di lavoro sono sempre meno i luoghi in cui si sviluppano competenze che vengono poi esportate nella vita quotidiana, come accadeva nell’epoca cosiddetta fordista5; sono invece contesti in cui vengono importate le competenze digitali acquisite nella vita quotidiana. Per definire un quadro d’analisi più articolato, si può seguire ancora Gubitta quando propone che le competenze e le loro trasformazioni possano essere analizzate, con le dovute precisazioni, sulla base delle variabili comunemente adottate per la progettazione delle mansioni: (a) varietà, (b) autonomia, (c) contributo del lavoratore, (d) feedback. Le analisi empiriche delle situazioni di lavoro ad alta digitalizzazione sono ancora poco numerose, e nessuna offre, su questi livelli d’analisi, riscontri univoci. In dettaglio:
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Si pensi alla figura di operaio specializzato dipinta da Ermanno Olmi nel cortometraggio Il pensionato, del 1958 (il film si può vedere in streaming alla pagina web www.youtube.com/watch?v=-euF-M7kPDI).
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Digitalizzazione delle imprese e trasformazione delle competenze. Quadro analitico e riscontri empirici
la digitalizzazione non comporta immediatamente un aumento della varietà della mansione, ovvero della diversità dei compiti degli operatori. In alcuni casi, «è la tecnologia che si appropria di alcune attività»6, e all’operatore restano tutt’al più compiti di assistenza e controllo della macchina, non necessariamente complessi. Tendenzialmente, l’adozione di tecnologie digitali comporta una semplificazione dell’interazione uomo-macchina. Lo stesso “Piano Calenda” richiede, affinché le imprese possano accedere al beneficio dell’“iperammortamento”, che gli apparati digitali presentino «interfacce uomo macchina semplici e intuitive». Quanto a ciò che solitamente si definisce il livello di autonomia dell’operatore, va anzitutto precisato che è più corretto parlare di discrezionalità: si tratta di margini di scelta che all’operatore si concede o si richiede di esercitare, non già di spazi di libertà che l’operatore guadagna7. L’utilizzo di tecnologie digitali non produce di per sé un aumento dei margini di discrezionalità degli operatori, ovvero una crescita del volume delle informazioni trattate. Gli strumenti digitali evoluti non soltanto sostituiscono lavoro manuale con lavoro automatizzato, ma rimpiazzano gli umani anche nella capacità di trattamento dell’informazione. Gli artefatti tecnologici, eventualmente connessi in un sistema cyberfisico, apprendono: registrano e rielaborano varianze e scostamenti rispetto agli standard prestabiliti, e utilizzano all’occorrenza queste informazioni per produrre nuove regole, per razionalizzare i flussi di produzione. I marginali guadagni di discrezionalità che gli operatori ottengono confrontandosi con i vincoli integrati nell’artefatto — che in passato restavano ambiti di conoscenza tacita – diventano tendenzialmente conoscenza esplicita, acquisita e introdotta nella regolazione. In concreto, comunque, le situazioni variano da contesto a contesto: in alcuni casi, l’introduzione delle macchine sembra ridurre la routinarietà del lavoro, in altri casi riduce gli spazi di discrezionalità e neutralizza le affermazioni di autonomia8. In ogni caso, l’adozione di macchine digitali non indebolisce affatto le capacità di controllo e coordinamento delle direzioni d’impresa. Al contrario, permette di irrobustire il controllo e il coordinamento, estendendoli oltre i confini dello stabilimento, nel vasto insieme delle imprese coinvolte nelle catene del valore. Sul piano della riconoscibilità del contributo del lavoratore al risultato finale, gli esiti non sono meno incerti. In alcuni casi, gli artefatti tecnologici restituiscono all’operatore una percezione della collocazione del suo contributo nel processo di produzione. Altre volte — Gubitta propone efficacemente l’esempio degli addetti al controllo delle casse automatiche nei magazzini9 — il contributo umano è relegato in una dimensione marginale e spersonalizzata. Quanto infine al feedback, ossia la possibilità per l’operatore di avere un riscontro sull’efficacia della propria attività, non c’è dubbio che i dispositivi di controllo e coordi-
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Gubitta, op. cit., 76. Una compiuta ricostruzione delle differenze fra il costrutto di autonomia e quello di discrezionalità è stata sviluppata da Bruno Maggi (v., da ultimo, Maggi, De l’agir organisationnel. Un point de vue sur le travail, le bien-être, l’apprentissage, TAO Digital Library, 2016). Si vedano, ad esemplificare queste due diverse tendenze, i casi dello stabilimento Avio Aero di Cameri e dello stabilimento Alstom di Savigliano analizzati in Magone, Mazali, Industria 4.0. Uomini e macchine nella fabbrica digitale, Guerini e Associati, 2016, 120. Gubitta, op. cit., 77.
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namento digitali abbiano potenzialità enormi. Tuttavia, spesso il feedback assume la forma di un (auto-)controllo disciplinante sulla performance, e diventa quindi strumento di pressione sui lavoratori, come tipicamente avviene in contesti altamente digitalizzati come i call center, oppure si presenta nella forma della valutazione del cliente sulla prestazione, come nel caso delle attività rese on demand (si pensi alle piattaforme di crowdsourcing come Uber o Mechanical Turk). Questa semplice sistemazione analitica già mostra chiaramente che quanto viene genericamente definito “l’impatto delle tecnologie” sulle professioni e sulle competenze non si può comprendere e valutare se non nel quadro di un’analisi organizzativa che tenga conto degli obiettivi e delle modalità con le quali le macchine sono impiegate nei processi di produzione. In altri termini, occorre accettare l’evidenza che le tecnologie in quanto tali, di per sé, non esercitano alcun impatto: sono le scelte di progettazione, di adozione e di utilizzo delle tecnologie a definirne le implicazioni sul lavoro umano10.
3. Diffusione e composizione delle “nuove competenze”. Come si è sottolineato, le “nuove competenze” che emergono nel quadro della produzione altamente digitalizzata sono un insieme altamente eterogeneo, e in particolare non è possibile sovrapporre le competenze di ordine strettamente tecnico, indispensabili per intervenire nella progettazione, nella programmazione e nella manutenzione delle macchine digitali, alle competenze richieste per utilizzare strumenti digitali nelle attività di lavoro (peraltro esse stesse molto eterogenee). L’enfasi comunemente posta sul deficit di competenze, dunque sul bisogno di competenze e sulla cosiddetta sfida delle competenze, potrebbe indurre a pensare che, nei contesti produttivi ad alta digitalizzazione, si sviluppi una domanda di competenze tecnicoscientifiche particolarmente alta. In un paese con un tasso di popolazione laureata molto basso (solo il 26,4% delle persone tra i 25 e i 34, contro una media del 38,8% nell’Unione Europea) e con un tasso di analfabetismo funzionale particolarmente alto (un 28% di Low proficiency adults, secondo il Rapporto Ocse-Piaac 2016), il tema non può essere di certo sottovalutato. D’altro canto, riesce difficile pensare che la grama condizione occupazionale della popolazione giovane e meno giovane italiana sia dovuta a una carenza di competenze (e di competenze digitali in particolare), laddove quasi il 20% della forza lavoro occupata, secondo dati Ocse, risulta sovra-qualificata rispetto alle mansioni svolte. È importante perciò dismettere qualsiasi opinione precostituita e considerare i riscontri empirici disponibili. In primo luogo, si può osservare che si viene componendo in Italia un quadro (sia pure sinora parziale) di ricerche qualitative sul lavoro digitale, riferito soprattutto ai con-
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A questo proposito, v. Masino, Zamarian, La mediazione degli artefatti nella regolazione organizzativa, in Maggi (a cura di), Le sfide organizzative di fine e inizio secolo. Tra post-fordismo e deregolazione, Etas, 2000, 151 ss.
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Digitalizzazione delle imprese e trasformazione delle competenze. Quadro analitico e riscontri empirici
testi definibili come di Industria 4.0: contesti prettamente industriali nei quali si adottano macchine digitali interconnesse. Lo scopo di queste ricerche non è di misurare l’incidenza delle competenze digitali nel mercato del lavoro, ma piuttosto di individuarne i caratteri. I contesti da analizzare vengono quindi selezionati sulla base di una scelta ragionata, privilegiando quelli dove appare più probabile intercettare situazioni di lavoro che presentano connotati molto innovativi. Il focus è quindi sulle medie imprese evolute, su imprese ad alta specializzazione, su “multinazionali tascabili”. Il numero e la varietà delle ricerche sinora pubblicate sono ancora limitati. Tuttavia, sembra rivelarsi sin d’ora una polarizzazione fra ricerche che muovono da orientamenti di valore differenti (anche in ragione del fatto che sono promosse da organizzazioni sindacali e datoriali). Un primo insieme di ricerche — fra le quali si vedano ad esempio quelle di Berta e di Magone e Mazali11 — parte dall’ipotesi che nei processi di digitalizzazione si possano riscontrare i caratteri di un “nuovo umanesimo”, di una nuova “civiltà delle macchine” nella quale il contributo umano è sempre più rilevante e decisivo. In specifici contesti, i ricercatori riescono in effetti a individuare almeno le tracce quel tipo ideale di “lavoro digitale” del quale ipotizzano lo sviluppo: trovano una tendenza all’arricchimento delle mansioni, la diffusione di “augmented blue collars” — una sorta di nuova aristocrazia operaia che diventa co-protagonista della costruzione di una “fabbrica intelligente” — la presenza di un artigianato digitale, l’impiego di creatività per accrescere qualità e valore del lavoro; riscontrano, in definitiva, un rapporto di coevoluzione fra uomini e macchine digitali. Altre analisi qualitative muovono dall’ipotesi che la nuova “rivoluzione tecnologica”, come le precedenti, sia orientata al recupero e all’espansione dei profitti attraverso una crescita della produttività del lavoro ottenuta con un incremento delle capacità di governo della forza-lavoro. Così, ad esempio, nel quadro di un’ampia ricerca sviluppata dalla Fondazione Sabattini (ente di ricerca legato alla Fiom-Cgil), un’inchiesta condotta sulle imprese venete ad alta digitalizzazione12 insiste soprattutto sull’incremento della capacità di coordinamento (orizzontale e soprattutto verticale) che si produce con l’adozione di macchine digitali interconnesse, e sottolinea che il ruolo dei nuovi strumenti tecnologici si comprende soltanto alla luce dei modelli di business e delle soluzioni organizzative entro i quali sono adottati. In quest’ottica, dunque, le nuove soluzioni basate sull’interconnessione di macchine digitali presentano una forte continuità rispetto alle dinamiche della lean production, già da tempo affermatesi, portandole alle estreme conseguenze. Altri e non meno importanti profili d’analisi sono offerti da ricerche di tipo quantitativo, condotte su campioni rappresentativi dell’intera popolazione delle imprese italiane: ricerche che sono astrattamente in grado di registrare la diffusione della domanda e dell’offerta di professionalità e competenze digitali nel mercato del lavoro. Anche in questo caso,
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Berta, Produzione intelligente. Un viaggio nelle nuove fabbriche, Einaudi, 2014; Magone, Mazali, Industria 4.0., cit.; Magone, Mazali, Il lavoro che serve. Persone nell’Industria 4.0, Guerini e Associati, 2018. 12 Gaddi, Industria 4.0 e il lavoro. Una ricerca nelle fabbriche del Veneto, Punto Rosso, 2018.
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peraltro, i riscontri disponibili sono relativi a indagini condotte con metodi differenti, e quindi sono di difficile comparazione. Il Rapporto Excelsior, elaborato da Unioncamere sulla base di una rilevazione continua annuale attraverso questionari somministrati alle imprese italiane, rileva che, nel 2017, per il 16,9% dei contratti di lavoro le imprese attribuiscono un’importanza di livello medio-alto e alto (valori 4 e 5 di una scala Likert a 5) alla “capacità di utilizzare linguaggi e metodi matematici e informatici”; e che altrettanto avviene nel 23,4% dei casi per le “competenze digitali e la conoscenza di strumenti di comunicazione visiva e multimediale” e nel 10,8% dei casi per la “capacità di gestire soluzioni innovative applicando tecnologie 4.0”. Si può ritenere, dunque — interpretando le classificazioni non del tutto lineari di questa ricerca — che queste siano le percentuali di contratti di lavoro (di qualsiasi tipo e durata) per i quali dette competenze sono considerate un requisito tendenzialmente non derogabile. Meno equivocabile sembra la rilevazione riportata nel Rapporto 2018 dell’Osservatorio sulle competenze digitali, che ha misurato l’incidenza delle competenze digitali richieste dalle aziende italiane in circa 540 mila annunci web riferiti all’anno 2017, articolandola su 239 professioni (quarto digit della classificazione ISCO) non appartenenti al settore ICT. Nel complesso, risulta che la componente digitale (definita “Digital Skill Rate”) corrisponde al 13,8% del totale delle competenze richieste. Benché si tratti di un dato di rilievo, non sembra corrispondere all’immagine di un mercato del lavoro nel quale le competenze digitali abbiano assunto un ruolo di primo piano. Almeno altrettanto interessante è la specifica composizione delle skills digitali richieste negli annunci. Sotto questo profilo, come si rileva nella tabella 1, ci sono rilevanti differenze fra i settori industriali, i servizi e il commercio. Tuttavia, in tutti i settori prevalgono le competenze digitali di base, ovvero quelle riferibili alla capacità di utilizzare strumenti informatici di uso comune. E in tutti i settori le competenze digitali prettamente tecniche restano confinate entro il 10%. Industria
Servizi
Commercio
Competenze tecniche
7%
10%
4%
Competenze applicative
40%
25%
21%
Competenze di brokeraggio informativo
12%
16%
20%
Competenze di base
41%
49%
54%
Tabella 1. Composizione delle competenze digitali negli annunci web. Fonte: Osservatorio sulle competenze digitali, Rapporto 2018. Competenze tecniche: implicano la conoscenza di soluzioni, piattaforme e linguaggi di programmazione. Competenze applicative: implicano la capacità di usare strumenti e software nei processi operativi e in quelli decisionali. Competenze di brokeraggio informativo: ovvero le abilità nell’uso di strumenti informatici di comunicazione aziendale, come Content Management System, social network, applicazioni grafiche. Competenze di base: capacità di uso quotidiano di strumenti informatici comuni, come i word processor.
È bene adottare una prospettiva realistica, ancorata a riscontri empirici, anche rispetto alla diffusione degli artefatti tecnologici che vengono annoverati fra le cosiddette “tecnologie abilitanti” nell’ambito dei programmi di Industria 4.0.
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Digitalizzazione delle imprese e trasformazione delle competenze. Quadro analitico e riscontri empirici
Secondo dati del Ministero dello Sviluppo Economico13 elaborati su un campione di 23.700 imprese, sul totale della popolazione italiana di imprese dell’industria in senso stretto, l’8,4% delle imprese impiega almeno una delle tecnologie in questione. A questa quota si aggiunge un ulteriore 4,7% di imprese che, anche se non coinvolte attualmente, dichiarano di avere in programma investimenti specifici nel prossimo triennio. Nel settore industriale, dunque, le imprese che non utilizzano tecnologie 4.0 né hanno in programma interventi futuri, rappresentano la grande maggioranza della popolazione industriale, pari all’86,9% del totale. Naturalmente, la propensione verso queste tecnologie aumenta in maniera significativa al crescere delle dimensioni aziendali: già al di sopra dei 10 addetti le “imprese 4.0” rappresentano il 18,4% del totale delle piccole imprese, tra le aziende tra i 50 e i 249 addetti si raggiunge il 35,5% dei soggetti, sino ad arrivare al 47,1% delle imprese con almeno 250 addetti. Nel complesso, tuttavia, la cosiddetta quarta rivoluzione industriale si presenta più come un programma di politica economica (naturalmente discutibile sotto diversi aspetti) che come una tendenza o un insieme di tendenze consolidato, anche perché appare riguardare — almeno per adesso — un segmento di imprese limitato, in un paese nel quale il 95,2% delle imprese conta meno di dieci dipendenti e le imprese di grandi dimensioni sono meno di 4 mila su un totale di oltre 4 milioni.
4. Alcune conclusioni provvisorie. La digitalizzazione dei processi di produzione è un fenomeno ampio, complesso e per certi versi sfuggente, sul quale non è possibile formulare conclusioni propriamente dette, ma solo limitarsi ad alcune considerazioni, attenendosi alle evidenze disponibili. Innanzitutto, la varietà delle configurazioni che viene riscontrata nelle ricerche empiriche impone di ribadire che non è possibile valutare il senso, la portata, le implicazioni delle tecnologie digitali in sé. “Il posto delle macchine” nel lavoro e nella produzione è definito da scelte: da decisioni che riguardano la loro concezione e progettazione, la loro adozione, i loro usi. Esso dipende quindi, in ultima analisi, dalle dinamiche dei rapporti sociali di produzione: chi usa una macchina è, salvo casi del tutto eccezionali, persona diversa da chi l’ha progettata, adottata, programmata. Le macchine hanno un ruolo strumentale in larga misura preordinato, e quindi “incorporano” esse stesse regole riconducibili a decisioni. È perciò sostanzialmente privo di senso provare a elaborare una nozione di “lavoro digitale” sulla quale si possa articolare un’interpretazione unitaria delle trasformazioni del lavoro. Il compito delle scienze sociali come del diritto, in questo contesto, non è quello di occuparsi delle macchine digitali in quanto tali, ma di comprendere la regolazione dei processi di lavoro, di cui le macchine digitali costituiscono un elemento strumentale. Quel
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Ministero dello Sviluppo Economico, La diffusione delle imprese 4.0 e le politiche. Evidenze 2017, 2018 in www.mise.gov.it/images/ stories/documenti/Rapporto-MiSE-MetI40.pdf.
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che per ipostasi viene definito “lavoro digitale”, dunque, va inteso come un insieme eterogeneo di processi, da indagare con gli strumenti di analisi dell’azione organizzativa e delle relazioni sociali di produzione. Ferma restando la grande varietà degli usi degli artefatti tecnologici nella produzione di beni e servizi, nel complesso appare confermato che con gli strumenti digitali — sia per le modalità di concezione e progettazione, sia per le finalità con le quali vengono adottati nei contesti produttivi — si tende a sviluppare la capacità di coordinamento e di controllo manageriale. Benché sia improprio parlare di una tendenza neotaylorista e di una generalizzata banalizzazione del lavoro14, gli strumenti tecnologici, tanto nel contesto industriale quanto nel contesto delle cosiddette piattaforme, accorciano la catena di coordinamento e controllo. La distanza fra il progetto e l’esecutore tende a ridursi e, ove possibile, ad azzerarsi. Quando il progetto è riferito a beni materiali di cui si richiede una realizzazione esatta e priva di scarti, la tecnologia che si adotta è prossima a quella tradizionalmente propria del controllo numerico. Quando il progetto ha a che fare con la realizzazione di un servizio, nella quale è decisiva l’interazione dell’operatore e l’esercizio di discrezionalità, le forme e gli strumenti cambiano (così da mettere a valore la discrezionalità e l’iniziativa concesse agli operatori), ma senza pregiudicare le complessive finalità di potenziamento del coordinamento e del controllo. Questa constatazione permette di escludere che — salve situazioni del tutto eccezionali — si possa ipotizzare, nei contesti di lavoro altamente digitalizzati, alcun aumento del livello di autonomia degli operatori. Tutte le evidenze disponibili mostrano che le architetture digitali sono impiegate con la finalità di allargare e approfondire il potenziale di coordinamento e di controllo di chi governa la catena del valore; e, nel caso delle piattaforme, di assicurare una centralizzazione del coordinamento di prestazioni di lavoro che in precedenza erano rese in forma molecolare e/o autogestita. Sul piano della trasformazione delle competenze, i riscontri empirici, qualitativi e quantitativi, mostrano una grande varietà di situazioni di lavoro: un panorama nel quale occorre mantenere almeno una distinzione fra le mansioni prettamente tecniche (quelle degli operatori addetti alla progettazione e alla programmazione delle macchine) e le mansioni, in varia misura “digitalizzate”, di coloro che prestano la loro attività lavorativa servendosi (anche) di macchine digitali. Non è questa la sede per occuparsi delle questioni che questi sviluppi pongono sul piano della domanda e dell’offerta di istruzione e di formazione. Si tratta di questioni controverse, nelle quali alla dichiarata insoddisfazione di molte imprese per i livelli di qualificazione dei lavoratori (anche laureati) fa da contraltare l’evidenza di una crescente sovraqualificazione della manodopera in un mercato del lavoro complessivamente deteriorato e dominato da imprese poco inclini a innovazione e sviluppo15. Su questo piano, dunque, è più che mai aperto il confronto fra l’approccio delle cosiddette politiche attive
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Come propone, ad es., Head, Mindless: Why Smarter Machines Are Making Dumber Humans, Basic Books, 2014. V. Maestripieri, Ranci, Non è un paese per laureati. La sovra-qualificazione occupazionale dei lavoratori italiani, in Stato e mercato, 3, 2016, 425 e ss.
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del lavoro e quello di chi sostiene la necessità di uno sforzo di politica economica e di investimenti pubblici di alto profilo. Piuttosto, preme sottolineare che quanto sinora emerge dalla ricerca è che non si viene affatto definendo una figura di “lavoratore digitale” o “lavoratore 4.0”. A dispetto di questa evidenza, come in altre fasi di forte diffusione di nuove tecnologie, lo sviluppo tecnologico torna oggi a essere percepito nella forma che Peter Berger definiva del cargo cult16, ovvero come promessa dell’avvento di una prosperità che non si intravede. In questo clima germinano generalizzazioni azzardate, pseudo-idealtipi, parole chiave prive di referenti empirici consistenti. Si selezionano i connotati tendenziali di alcune situazioni elevandole arbitrariamente a caratteri tipici di un quadro di trasformazioni in realtà estremamente articolato; e si dà spazio all’infondata convinzione che l’uso di macchine digitali introduca una generale tendenza all’empowerment del lavoro umano, o addirittura all’aumento dei margini di “autonomia” degli operatori. Sotto il profilo teorico ed empirico, come abbiamo detto, si tratta di costruzioni inattendibili. Sul piano della politica del diritto, sono potenzialmente regressive. Chi ha memoria delle trasformazioni che hanno segnato il diritto del lavoro negli ultimi tre decenni sa che lo scaricamento delle tutele è stato sostenuto da una postura interpretativa di questo tipo, ovvero dalla convinzione che si affermasse un “lavoro postfordista” e che si trattasse di un lavoro liberato dai vincoli ritenuti “tipici” del lavoro subordinato. Quell’equivoco, che ha portato a ristrutturare il quadro regolativo in nome di un “nuovo spirito dei tempi” più immaginato e desiderato che reale, rischia oggi di replicarsi sotto le insegne del “lavoro digitale”, veicolando un ulteriore indebolimento della tutela del lavoro, in un’epoca nella quale una parte consistente dei lavoratori che qualcuno definirebbe “digitali” rivendica, non casualmente, il diritto di vedersi riconosciuto lo status di lavoratore subordinato. È lecito perciò domandarsi quale senso possa avere, oggi, discutere dei connotati auspicabili di un diritto del lavoro “adeguato al lavoro 4.0”. Se con ciò si intende fare riferimento al cambiamento del lavoro alle prese con le macchine digitali, l’esercizio si rivela fondato su presupposti claudicanti. Nel presente come nel passato, qualunque sia la condizione che rende il lavoratore meritevole o bisognoso di tutela — l’eterodirezione, l’etero-organizzazione, la subalternità economica — non dipende dal fatto di lavorare con o su macchine digitali. L’analisi qualitativa e quantitativa dei fenomeni mostra che lavorare con o su macchine digitali può, in ragione di diverse forme di esercizio dell’azione organizzativa, indebolire l’eterodirezione come rafforzarla; può agevolare l’etero-organizzazione o favorire l’auto-organizzazione; può irrobustire o rendere più fragile la condizione economica del lavoratore. Probabilmente, spesso nel discorso dei commentatori l’idea di lavoro 4.0 — o di lavoratore 4.0 — rimanda, piuttosto che alla digitalizzazione in senso stretto, a un ideale di “collaborazione produttiva”, di co-investimento e di co-evoluzione fra lavoro e capitale: a un’idea di “capitalismo intelligente” che, per certi versi, i processi di digitalizzazione sembrano incarnare o almeno agevolare. Questi propositi certamente nobili, tuttavia, sono
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Berger, Pyramids of Sacrifice, Basic Books, 1974 (trad. it.: Le piramidi del sacrificio, Einaudi, 1981).
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Angelo Salento
più risalenti dei cyber-physical systems, e probabilmente meritano di essere discussi e promossi senza attendere la digitalizzazione dei processi di produzione; sia perché l’attesa, in molti settori e contesti, potrebbe essere anche molto lunga, sia perché l’adozione di macchine digitali si innesta spesso in traiettorie organizzative che procedono in direzione opposta a quella che si potrebbe desiderare.
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Claudia Faleri
L’innovazione tecnologica nel settore agricolo tra vecchie criticità e nuove opportunità Sommario : 1. La digitalizzazione dei processi produttivi in agricoltura. – 2. L’impatto della digitalizzazione sul mercato del lavoro agricolo: aumento delle diseguaglianze e rischio povertà. – 3. (Segue) Nuove opportunità professionali e il ruolo strategico dell’apprendistato in agricoltura. – 4. Riflessioni conclusive per un mercato del lavoro agricolo socialmente sostenibile.
Sinossi. Il contributo intende prendere in esame gli effetti di carattere sociale e occupazionale che il processo di digitalizzazione può determinare nel settore dell’agricoltura. In particolare, l’Autore, da un lato, mette in evidenza come l’innovazione tecnologica determini in ambito agricolo particolari diseguaglianze sociali, dall’altro lato, valuta come questa possa al tempo stesso dar luogo a nuove opportunità professionali. Le riflessioni proposte si muovono in linea con la nuova politica agricola europea, volta a sostenere un’agricoltura socialmente sostenibile. Abstract. The aim of this contribution is to observe social and employment effects of the digitisation process in agricolture. In particular, the Author highlights, on one side, the social inequalities resulting from the technological change, on the other side, the new professional opportunities that it can offer. This analysis takes account of social sustainable European policy in agriculture. Parole chiave: Lavoro agricolo – Innovazione tecnologica – Disuguaglianze sociali – Nuove opportunità professionali – Sostenibilità sociale
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Il testo riprende con approfondimenti il contenuto dell’intervento tenuto a Pisa il 13 dicembre 2018 al convegno su Il lavoro nell’economia digitale.
Claudia Faleri
1. La digitalizzazione dei processi produttivi in agricoltura. L’innovazione tecnologica e i processi di digitalizzazione che caratterizzano l’inizio di questo Terzo Millennio stanno investendo il settore agricolo in modo simile a quello industriale1. Si parla a tal riguardo di Agricoltura 4.0, intendendo riferirsi con tale termine a quella strategia gestionale che si fonda sulla condivisione di dati e informazioni che le tecnologie digitali sono in grado di fornire. Si fa riferimento, da un lato, agli strumenti informatici, quali i computer di bordo, che sono in grado di far comunicare tra loro le macchine operatrici, dall’altro lato, ai droni, ai sensori e agli strumenti di telerilevamento, che consentono di raccogliere a distanza informazioni utili per monitorare e valutare lo stato di salute sia del suolo, sia delle colture, per poter così gestire efficacemente la variabilità presente in un campo. Un particolare rilievo assumono i c.d. dispositivi IoT (Internet of Things), che permettono di acquisire dati significativi per valutare in tempo reale diversi parametri di natura ambientale, climatica e colturale; si tratta di strumenti che forniscono agli agricoltori informazioni, come quelle sui mutamenti climatici, che rivestono un’importanza fondamentale per una gestione più efficace dei processi produttivi. Poter prevedere i cambiamenti di clima facilita, infatti, una corretta individuazione degli obiettivi produttivi (in termini quantitativi e qualitativi) da perseguire: si pensi, in particolare, a quanto può risultare utile all’agricoltore poter conoscere in anticipo un aumento della temperatura, considerato come questo non solo determini un’accelerazione della stagione vegetativa e conseguentemente una maturazione ante tempus, ma possa anche comportare una maggior frequenza dei cicli riproduttivi di alcuni parassiti, fattore che può significare una maggiore gravità delle epidemie con effetti negativi sulla produzione agricola. Tali strumenti digitali permettono dunque di acquisire delle informazioni precise (tanto che si parla a tal proposito di agricoltura di precisione), utili per poter intervenire solo dove e quando è necessario e opportuno2. In tal modo le imprese sono supportate nei loro processi decisionali, consentendo tale strumentazione di ottimizzare la gestione delle operazioni colturali della produzione agricola. L’innovazione tecnologica favorisce pertanto processi maggiormente produttivi e nuovi modelli di business3, sì da essere considerata la risposta ottimale alle sfide che il mondo
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Al riguardo, cfr. i contributi di Vieri, Sarri, Rimediotti, Digitalizzazione ed alta tecnologia, nuovi scenari per la gestione delle coltivazioni arboree, in Agriregionieuropa, n. 53, 2018; Giovannini, Il volto dell’agricoltura tra complessità e cambiamento e Henke, Povellato, La diversificazione nelle aziende agricole italiane, entrambi in Agriregionieuropa, n. 31, 2012. Al riguardo, si rinvia a Lattanzi, L’agricoltura di precisione, una sfida anche per il diritto; Vagnozzi, L’agricoltura di precisione: un pacchetto di innovazioni complesso e con molte potenzialità; Pisante, Cillo, Agricoltura di precisione: sfide e opportunità; Bisaglia, Agricoltura di precisione in Italia: un’opportunità di aggiornamento delle agrotecniche, di sviluppo professionale e di efficienza del settore, tutti in Agriregionieuropa, n. 53, 2018. Cfr. Riccaboni, Cresti, L’agricoltura nel Mediterraneo di fronte alle questioni globali, in Economia e società, 2016, 335 ss. e in particolare 339.
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agricolo deve oggi fronteggiare in termini di maggiore competitività, oltre che di minor impatto ambientale. Già dalla fase di sviluppo delle società industrializzate moderne, nell’era cioè della c.d. terza rivoluzione industriale, si è assistito, infatti, all’avvento e all’affermazione di un’agricoltura sempre più market-oriented, indirizzata cioè a conseguire profitti, ovvero a legare le scelte produttive alla effettiva redditività dell’attività agricola attraverso la comparazione tra i costi di produzione affrontati e i ricavi provenienti dalla commercializzazione delle produzioni4. Anche le politiche agricole europee, dal canto loro, hanno assecondato tale trend produttivo. Dopo un iniziale approccio protezionistico proprio degli anni ‘60-‘70, caratterizzato dall’intervento pubblico di sostegno dei prezzi, seguito negli anni ‘80 da una riduzione degli strumenti di sostegno economico, garantiti solo per quantità prestabilite di prodotti (es. le c.d. quote latte), e negli anni ’90 da una riduzione dei prezzi per avvicinarli a quelli di mercato, siamo giunti negli anni 2000 alla c.d. riforma Fischler, che ha sostituito il sistema dei pagamenti “accoppiati” ad una determinata produzione con un sostegno indipendente dal bene agricolo effettivamente prodotto. Pertanto, le imprese, indotte nel passato a specializzarsi nelle produzioni più protette piuttosto che a concentrarsi sullo sviluppo della propria struttura aziendale, hanno di fatto trascurato le politiche di marketing, i mutamenti della domanda, le relazioni qualità-prezzo, ovvero tutti quegli elementi che caratterizzano una efficiente gestione aziendale5. Il mutamento delle politiche europee, assieme al forte incremento dei prezzi dei fattori produttivi e a una sostanziale stabilità dei prezzi agricoli, ha così comportato un progressivo e inesorabile aumento della pressione competitiva dei mercati sulle aziende agricole, alla quale gli agricoltori italiani ed europei non erano più abituati. Tutto ciò, tra l’altro, in un panorama mondiale di globalizzazione e liberalizzazione degli scambi commerciali. A fronte di tale mutamento di scenario quale è stata la risposta del mondo agricolo? L’analisi dei dati censuari ha messo in evidenza, da un lato, come le aziende agricole siano ricorse in modo sempre più evidente a forme flessibili di struttura fondiaria, che, attraverso l’utilizzo di terreni in affitto o gestiti ad uso gratuito, insieme o anche in assenza di terreni di proprietà, hanno permesso di raggiungere dimensioni tali da poter essere concorrenziali sul mercato. Tra l’altro a fronte di questa tendenza, si è registrato anche un aumento del numero di aziende gestite da società di persone, di capitali e cooperative, che ha comportato una trasformazione nella struttura della forza lavoro agricola nella direzione di un maggior peso della manodopera salariata rispetto a quella familiare6. Dall’altro lato, ad emergere in modo significativo ai fini dell’analisi in oggetto è la riduzione delle aziende agricole, in prevalenza quelle di minore dimensione, a cui si è assistito: risulta particolarmente interessante il fatto che la crisi economica e la maggiore
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Jannarelli, Il divenire del diritto agrario italiano ed europeo tra sviluppi tecnologici e sostenibilità, in RDA, 2013, 21. Si veda Ievoli, Macrì, Politica agricola, immigrazione e mercato del lavoro in agricoltura, in Agriregioneuropa, n. 17, 2009, 4; per un excursus sulla politica agricola comune, si rinvia a Frascarelli, L’evoluzione della Pac e le imprese agricole: sessant’anni di adattamento, in Agriregionieuropa, n. 50, 2017. Cfr. Giovannini, op. cit.
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competitività internazionale degli ultimi anni abbiano contribuito ad espellere dal mercato non tanto le imprese meno forti dal punto di vista strettamente economico, quanto piuttosto quelle meno innovatrici, a volte assorbite da aziende più grandi e soprattutto più dinamiche. In conseguenza di ciò, nell’ambito della pianificazione dei progetti inclusi nel programma Agricoltura 4.0, il nostro Paese ha disposto importanti iniziative volte a sostenere economicamente le imprese che grazie all’adozione dell’Agricoltura di precisione intendono innovare i processi di produzione. Per quanto l’agricoltura si caratterizzi per essere un settore scarsamente propenso agli investimenti, vero è che questi si rendono sempre più necessari in un settore sempre più orientato verso logiche di concorrenza.
2. L’impatto della digitalizzazione sul mercato del lavoro
agricolo: aumento delle diseguaglianze e rischio povertà.
Sotto il profilo sociale e occupazionale il processo di digitalizzazione in agricoltura è destinato a determinare una serie di ripercussioni alquanto simili a quelle riscontrabili nel comparto dell’industria. L’introduzione di macchinari sempre più innovativi in luogo del lavoro manuale comporta, innanzitutto, nell’immediato una minor richiesta di apporto di lavoro umano e conseguentemente la soppressione di posti di lavoro; in altri termini, ci si intende riferire a quel fenomeno di portata generale che Keynes definì “disoccupazione tecnologica” e che egli oltre ottant’anni fa prospettò come «una malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni del futuro»7. Peraltro la soppressione dei posti di lavoro non costituisce l’unico effetto negativo che lo sviluppo tecnologico è in grado di determinare nel settore agricolo. Si consideri, infatti, come questo intervenga altresì ad accentuare la polarizzazione dell’occupazione8: l’uso delle nuove tecnologie comporterà un divario sempre maggiore tra chi, da un lato, in possesso di capacità altamente specializzate, è in grado di gestirle e chi, dall’altro lato, privo delle competenze necessarie, continuerà ad essere adibito ai lavori manuali routinari (i c.d. low skilled workers). Ne conseguirà un deterioramento delle retribuzioni medie con una concentrazione di ricchezza in poche mani e un forte rischio di povertà per i lavoratori che – a causa delle difficoltà di accesso alle nuove tecnologie, oltre che per un basso livello di istruzione e scarse competenze linguistiche – rimangono penalizzati e svantaggiati dai processi di digitalizzazione. La polarizzazione dell’occupazione che consegue ai processi di innovazione tecnologica determinerà dunque un aumento delle disuguaglianze socio-economiche9.
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Keynes, Economic Possibilities for our grandchildren, in Essays in Persuasion, Harcourt Brace, 1930, 358. Cfr. OECD, Automation and Independent Work ina a Digital Economy?, in Id., Policy Brief on the Future of Work, Paris, 2016. Cfr. Carboni, Lavoro ed evoluzione tecnologica, in Il Mulino, 2016, 347; si consenta altresì di rinviare a Faleri, Il lavoro povero in agricoltura, ovvero sullo sfruttamento (del bisogno) di lavoro, in LD, 2019, 149 ss.; per una prospettiva economica si rinvia a Ferraris,
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Tali diseguaglianze che si riscontrano sia nell’accesso al lavoro, rectius a un lavoro qualificato, sia nelle tutele garantite, andranno ad accentuare soprattutto la condizione di vulnerabilità in cui versano i lavoratori con scarsa forza contrattuale e un basso livello di scolarizzazione. Si tratta tra l’altro di quella fascia di lavoratori che tradizionalmente caratterizza il settore agricolo, costituita in prevalenza da migranti, disposti a svolgere lavori non qualificati, generalmente rifiutati dalla manodopera locale (quelli che gli americani chiamano i ddd – dirty, dangerous and demeaning jobs). A questi lavoratori, che già costituiscono un’offerta di lavoro debole e sottopagato alquanto appetibile per le imprese chiamate a gestire la forte pressione che grava sui prezzi dei prodotti agricoli, si richiederà presumibilmente di svolgere lavori sempre più dequalificati e dequalificanti. La polarizzazione dell’occupazione innesca inoltre un pericoloso effetto domino: la richiesta di lavoratori altamente qualificati in costante crescita e al contempo una riduzione della domanda di lavoratori con competenze medio-basse andrà inevitabilmente a rafforzare la concorrenza al ribasso tra lavoratori già a basso reddito. I processi di digitalizzazione esercitano un forte impatto sociale anche in ragione dell’età dei lavoratori. La repentina obsolescenza delle competenze tecnico-professionali che necessariamente consegue a un processo di innovazione tecnologica in continua evoluzione espone al rischio occupazione e di conseguenza al rischio povertà quei lavoratori, generalmente over 50, con minori competenze tecniche e in difficoltà ad acquisirle; questi saranno, infatti, tendenzialmente sostituiti da giovani in possesso di conoscenze legate al mondo della robotica e delle intelligenze artificiali. Tale effetto, per quanto riscontrabile anche in ambito industriale, è destinato a percepirsi in modo particolare in un settore come quello agricolo, in cui è già percepita come forte l’esigenza di un cambio generazionale10. Peraltro, affinché la c.d. technological change non significhi solamente disoccupazione e accentuazione delle disuguaglianze, ma piuttosto possa offrire nuove opportunità di lavoro creando nuove professioni, diventa una priorità far acquisire competenze adeguate a soddisfare l’esigenza di prestazioni di lavoro altamente qualificate che lo sviluppo tecnologico oggi impone anche nel settore agricolo. Gli effetti negativi sull’occupazione potrebbero così essere gestiti e in parte contenuti grazie a politiche attente alla crescita di high skill workers11. A fronte di un mercato agricolo, connotato da un numero sempre maggiore di imprese di rilevanti dimensioni che si posizionano sul segmento alto del mercato, la qualità del lavoro, intesa non solo in termini di qualità dei beni e dei servizi prodotti, ma anche in termini di elevato livello professionale delle prestazioni lavorative può dunque configurarsi una variabile strategica su cui investire (v. infra § 4).
Una lettura economica del lavoro povero, in LD, 2019, 51 ss. Si vedano Montresor, Pecci, Quale capitale umano per l’agricoltura del 21° secolo?, in Agriregionieuropa, n. 5, 2009. 11 Così C. Carboni, op. cit., 346 ss. 10
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3. (Segue) Nuove opportunità professionali e il ruolo
strategico dell’apprendistato in agricoltura.
Nel prisma della grande trasformazione del lavoro indotta dall’innovazione tecnologica anche nel settore agricolo, ci si interroga sul ruolo che in tale ambito possono acquisire quei percorsi formativi indirizzati a soddisfare esigenze di utilizzo di lavoro qualificato, quale può prospettarsi l’apprendistato professionalizzante. Tale riflessione muove dal fatto che l’agricoltura sta divenendo un settore trainante; si pensi a tal riguardo al ruolo chiave che specie l’agro-alimentare sta assumendo in ambito economico, in particolare nell’area del Mediterraneo, destinata a costituire un bacino occupazionale importante per i giovani, oltre che a svolgere una funzione di rifugio occupazionale della forza lavoro espulsa dagli altri settori. Non a caso le Parti sociali con l’Accordo quadro sull’apprendistato professionalizzante agricolo, siglato il 30 luglio 201212, da un lato, hanno previsto la possibilità di stipulare contratti di apprendistato anche a tempo determinato per lo svolgimento di attività di carattere stagionale, che – come è noto – tipicamente connotano il settore agricolo, dall’altro lato, hanno ammesso l’assunzione in apprendistato non solo di giovani, naturali destinatari di tale tipologia contrattuale13, ma anche di lavoratori in mobilità. In questo secondo caso si prescrive persino che, in caso di stipula di contratto di apprendistato a tempo determinato, trasformato nel corso del suo svolgimento, ma anche al temine dello stesso, in contratto di lavoro a tempo indeterminato, il datore di lavoro manterrebbe i benefici contributivi per ulteriori dodici mesi. È dunque ragionevole ritenere che il rilancio delle professionalità anche in agricoltura passi attraverso la formazione, concepita in modo funzionale, indirizzata cioè al potenziamento del bagaglio conoscitivo individuale nei confronti dei lavoratori con scarse competenze o inesperti; il momento formativo recupererebbe così la sua finalità professionalizzante nell’ambito di quelle tipologie contrattuali c.d. a causa mista troppo spesso utilizzate per soddisfare mere esigenze di riduzione dei costi14. Tra l’altro, nel coniugare l’interesse del datore di lavoro alla prestazione di qualità e quello del lavoratore ad apprendere o migliorare la conoscenza del proprio mestiere, si viene altresì a rafforzare la relazione tra capitale umano e produttività del lavoro, riconosciuta nel settore agricolo persino in grado di annullare l’effetto negativo di una minore dotazione di capitale sociale dell’impresa15.
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A cui rinvia espressamente non solo l’Accordo di rinnovo del CCNL operai agricoli e florovivaisti dello 19 giugno 2018 con l’art. 18, ma anche l’Accordo di rinnovo del CCNL per i quadri e gli impiegati agricoli del 23 febbraio 2017 con l’art. 14. 13 Questa tipologia di contratti è prevista per gli operai e gli impiegati di età compresa tra i 18 e i 30 anni non compiuti e deve avere una durata minima non inferiore ai 6 mesi e una massima che può variare da 24 mesi (per gli operai della terza area) a un massimo di 36 mesi. 14 Sulla vocazione professionalizzante della formazione, si vedano i rilievi critici di Loffredo, Diritto alla formazione e lavoro. Realtà e retorica, Cacucci, 2012, 122 ss. 15 Cfr. De Devitiis, Maietta, Capitale umano e produttività del lavoro agricolo nelle regioni dell’Unione Europea, in Agriregionieuropa, n. 5, 2009.
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In questa direzione si sono mosse le Parti Sociali, quando, sempre con l’Accordo quadro del 2012 precedentemente richiamato, hanno sottolineato l’importanza della formazione in quanto finalizzata a favorire l’acquisizione di competenze tecnico-professionale da parte del giovane apprendista a sostegno di una sua maggiore occupabilità sul mercato del lavoro e al contempo proposta come funzionale alla produttività dell’azienda. In passato si era posta la problematica riguardo alla legittimità di utilizzare l’apprendistato per assunzioni di carattere stagionale o per attività articolate su cicli stagionali. In particolare, la questione si era posta non tanto con riferimento alla durata minima del rapporto di apprendistato, quanto piuttosto riguardo alla cumulabilità dei periodi di lavoro prestato in qualità di apprendista presso il medesimo o diversi datori di lavoro. Ben difficilmente si può, infatti, ipotizzare che la durata del rapporto di apprendistato possa coincidere ed esaurirsi con il tempo di una sola stagione di attività dell’impresa16; molto più frequentemente la situazione che si prospetta è quella dello svolgimento dell’apprendistato in più stagioni con conseguente cumulo dei periodi formativi svolti con diversi rapporti di apprendistato alle dipendenze del medesimo datore di lavoro o di datori di lavoro diversi per effetto di successivi contratti stipulati17. La compatibilità dell’apprendistato con le attività articolate in cicli stagionali era espressamente prevista dall’art. 21, comma 4, l. n. 56 del 1987, dove si rimetteva alla contrattazione collettiva nazionale il compito di individuare «specifiche modalità di svolgimento del contratto di apprendistato» per le imprese con attività su cicli stagionali. Del resto, già l’art. 8 l. n. 25 del 1955 disponeva che «i periodi di servizio prestato in qualità di apprendista presso più datori di lavoro si computano ai fini della durata massima del periodo di apprendistato, purché non separati da interruzioni superiori ad un anno e purché si riferiscano alle stesse attività», legittimando le previsioni dei CCNL che disciplinavano l’assunzione in apprendistato dei lavoratori stagionali. Su tale questione si era registrato anche un intervento del Ministero, che, proprio in considerazione della ridotta durata dei contratti stagionali, aveva espressamente ammesso – seppur riguardo ad altri specifici settori, quali quelli del terziario, della distribuzione, dei servizi e del turismo – il riproporzionamento dei contenuti formativi minimi per gli apprendisti stagionali, considerando la possibilità di cumulare distinti periodi omogenei di apprendistato18. Tuttavia, a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 276 del 2003, il Ministero è nuovamente intervenuto nel merito escludendo che l’art. 21, comma 4, l. n. 56/1987 potesse essere applicato ai nuovi contratti di apprendistato e di conseguenza precludendo la possibilità di utilizzare l’apprendistato (essenzialmente quello professionalizzante) per le assunzioni nell’ambito delle attività stagionali; ciò in considerazione della «naturale breve durata delle attività a carattere stagionale» che si presenta «incompatibile con il contenuto formativo
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Si ricorda, infatti, che ai sensi dell’art. 42, comma 2, d.lgs. n. 81/2015, il contratto di apprendistato ha una durata minima non inferiore ai sei mesi. 17 Al riguardo cfr. Ciucciovino, L’apprendistato professionalizzante ancora alla ricerca di una disciplina definitiva, in RIDL, 2009, I, 384 ss. 18 Nota Min. lav. 20 marzo 2002, prot. n. 5/25868.
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dell’apprendistato diretto a far conseguire al lavoratore una determinata professionalità e che giustifica la durata minima di due anni del rapporto di lavoro»19 Il fatto però che l’apprendistato, come configurato dal d.lgs. n. 276/2003, continui ad essere assoggettato alla disciplina della l. n. 25 del 1955 per quanto compatibile20, ci porta a escludere l’incompatibilità dell’apprendistato con il lavoro stagionale, considerato quanto prescritto dall’art. 8 della l. n. 25/1955, laddove prevede il cumulo di più periodi di apprendistato al fine di consentire di programmare il percorso formativo degli apprendisti stagionali impiegati con distinti contratti di breve durata21. Tale querelle si può considerare comunque superata dall’Accordo quadro del 2012, nel momento in cui – come ricordato – le Parti contemplano espressamente la possibilità di stipulare contratti di apprendistato professionalizzante anche a tempo determinato, legittimando così il c.d. “apprendistato stagionale”. Si tratta di una soluzione negoziale fortemente innovativa che consente, da un lato, di investire – attraverso la formazione – sulla crescita professionale di giovani lavoratori, dall’altro lato, di soddisfare le esigenze di flessibilità tipiche del lavoro agricolo; essa si configura inoltre necessaria per rispondere alle sollecitazioni e ai mutamenti derivanti dal processo tecnologico. Con tale Accordo si è dunque inteso sostenere gli investimenti nella formazione dei giovani in una prospettiva di attrazione di questi nel mondo del lavoro agricolo; al tempo stesso si è voluto disincentivare il ricorso a forme di lavoro occasionale e saltuario sia a favore dei giovani, fornendo a questi prospettive più dignitose e qualificanti, sia nell’interesse delle imprese di poter avvalersi di manodopera altamente qualificata. Tuttavia, ad oggi, non è possibile registrare una tendenza in positivo circa l’impiego di tale tipologia contrattuale. Questo sembra possa essere imputato al momento di crisi economica nazionale e internazionale che in questi anni ha investito anche il settore agricolo, tale da aver indotto le aziende a ricercare soluzioni di riduzione del personale o quantomeno di flessibilizzazione della manodopera in organico, piuttosto che di assunzione di nuova manodopera. Si consideri, inoltre, che il settore agricolo si è trovato a confrontarsi con l’istituto dell’apprendistato solo dopo che la l. n. 196 del 1997 (art. 16) lo ha legittimato anche in tale ambito, significando questo la mancanza sino a quel momento di norme negoziate dalle parti sociali in materia di apprendistato nei contratti collettivi del settore agricolo22. Appare evidentemente eccessivo pretendere che il settore agricolo, tradizionalmente lento ad adeguarsi ai cambiamenti, riesca a recuperare il tempo perso, ricorrendo in modo significativo all’apprendistato, quando in altri settori produttivi, ancora oggi, vi sono importanti difficoltà operative dopo mezzo secolo di esperienza derivante dall’applicazione della normativa di riferimento.
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Min lav., risposta ad Interpello del 2 maggio 2006, prot. n. 25/0003769. Come espressamente specificato dal Min. lav. nella Circolare n. 40 del 14 ottobre 2004. 21 Così Ciucciovino, op. cit., 385. 22 Questa carenza fu recuperata già con il rinnovo del Ccnl per gli operai agricoli e florovivaisti entrato in vigore dal 1° gennaio 1998, per i lavoratori dipendenti delle Cooperative e Consorzi agricoli dal 1° gennaio 1998, per i quadri e gli impiegati agricoli dal 1° gennaio 2000. 20
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4. Riflessioni conclusive per un mercato del lavoro agricolo socialmente sostenibile.
La finalità delle riflessioni proposte è quella di comprendere e provare a interpretare i mutamenti del mercato del lavoro nel settore agricolo strettamente connessi con il processo tecnologico, ovvero le dinamiche in essere sia sul fronte della domanda, sia su quello dell’offerta di lavoro. Le osservazioni svolte si pongono in linea con il nuovo scenario europeo, così come delineato dalle mutate politiche agricole europee. Va infatti ricordato che, differentemente dalla “vecchia” Pac (Politica agricola comune) essenzialmente orientata alla conservazione e/o all’incremento dei livelli occupazionali, della quantità cioè di occupazione presente nel settore, senza preoccuparsi della qualità e dell’equità dei rapporti di lavoro23, la Pac 2014-2020 presuppone un cambiamento nelle strategie delle imprese agricole. La nuova politica agricola dell’UE assume, infatti, come nuovo obiettivo quello di favorire lo sviluppo di un’agricoltura innovativa, competitiva e sostenibile, dove con il termine “sostenibile” si vuole far riferimento non solo alla sostenibilità economica e ambientale, da anni al centro dell’attenzione della politica agricola comune a causa dei cambiamenti climatici e della crisi economica che hanno interessato tutte le regioni del mondo, ma anche a quella sociale. Affinché si possa parlare di sostenibilità sociale con riguardo al settore agricolo, si richiede alle imprese di investire non solo nella qualità del prodotto, ma anche nella qualità del lavoro. Peraltro, con l’espressione “qualità del lavoro” non si può far solo riferimento a prestazioni lavorative caratterizzate da un elevato contenuto professionale in grado di soddisfare le esigenze della c.d. smart agricolture24. La qualità del lavoro presuppone, infatti, anche l’instaurazione di rapporti di lavoro continuativi, in ragione del valore strategico che assume la continuità anche nei confronti dell’impresa; questa comporta, infatti, una riduzione dei costi di gestione e produzione grazie alla maggiore professionalità e produttività dei lavoratori, nonché una diminuzione degli infortuni, dal momento che stabilità dei rapporti significa anche maggiore sicurezza sul lavoro25. Del resto, è ormai pacificamente riconosciuto come stabilizzazione e fideliz-
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Tra l’altro in modo incoerente con lo sforzo attuato dalla Commissione europea per riqualificare la produzione e la qualità dei processi produttivi: si vuole ricordare a tal riguardo come, in sede di programmazione della Pac per le annualità 2007-2013, non fu accolta la proposta avanzata da Commissione europea, Consiglio e Parlamento Europeo di introdurre il rispetto delle norme sulla sicurezza sul lavoro tra le condizionalità: cfr. documento “Revisione intermedia della politica agricola comune”, COM (2002), 394 del luglio 2002. 24 Commissione europea, Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato delle regioni, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato, documento dal titolo Il futuro dell’alimentazione e dell’agricoltura, Com(2017) 713, ove, riflettendo sul futuro della politica agricola comune dopo il 2020, si prevede un ulteriore avanzamento delle tecnologie digitali nell’ambito di quella che sarà la c.d. smart agricolture. 25 Sui rischi correlati ai rapporti di lavoro non standard nel settore dell’agricoltura, v. Russo, Il lavoro in agricoltura tra atipicità e nuove forme contrattuali, in C&CC, 2002, n. 1, 64 ss.
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zazione del personale siano in grado di esaltare l’equilibrio organizzativo delle imprese e, di conseguenza, il loro successo competitivo nei mercati26. Si pone, dunque, in senso contrario a questa logica l’utilizzo del lavoro occasionale, che consente piuttosto di soddisfare le esigenze di quella parte del sistema produttivo che produce beni o servizi a basso valore aggiunto e/o che operano esclusivamente per il mercato interno, in prevalenza per imprese di ridotte dimensioni e per lo svolgimento di mansioni di esiguo contenuto professionale. Ci si intende riferire ai voucher, il cui uso in agricoltura è stato tra l’altro costantemente contrastato in ragione del fatto che questi possano proporsi come alternativa a forme contrattuali quali il contratto a termine e determinare così un’erosione del sistema di tutele dei diritti dei lavoratori; per tale motivo, infatti, il ricorso ai voucher è sempre stato ammesso in modo significativamente circostanziato27. In un contesto di forte trasformazione tecnologica lo strumento dei voucher non risulta neppure adeguato ad assecondare le esigenze delle imprese che impiegano le tecnologie avanzate, ove le mansioni routinarie tendono ad essere sostituite da apparecchiature sempre più sofisticate che richiedono lavoratori con competenze professionali elevate: la competitività non ammette la sporadicità e l’occasionalità delle prestazioni lavorative, anzi l’esatto contrario. Si pensi, a esempio, alle produzioni biologiche, i cui dati sono fortemente in crescita, che richiedono una forte specializzazione della manodopera agricola, oltre a un periodo di lavoro continuato, che lo strumento dei voucher non può certo garantire. Tra l’altro la previsione del costo del lavoro ridotto e le minor tutele applicate al lavoro accessorio rischiano di innescare – come opportunamente osservato28 – una pericolosa spirale al ribasso, ovvero di favorire un mercato del lavoro al ribasso, essenzialmente attrattivo nei confronti della manodopera particolarmente debole, quale quella degli immigrati, in controtendenza rispetto a un mercato agricolo che punta sempre più sulla qualità delle prestazioni e quindi sul livello qualitativo dei beni e dei servizi prodotti. Non solo. Per poter parlare di sostenibilità sociale nel settore agricolo e di qualità delle prestazioni di lavoro, occorre inoltre favorire lo sviluppo di specifici sistemi di sicurezza sociale collegati al mercato del lavoro agricolo, così come necessita promuovere l’adozione di misure di regolazione del mercato volte a garantire la correttezza e la trasparenza anche contrattuale della filiera, nonché un reale accorciamento della stessa al fine di scongiurare forme di interposizione attraverso accordi di fornitura. Si consideri in particolare l’importanza di contrastare (o quantomeno contenere) il fenomeno del caporalato29, anche
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Come rileva M.T. Carinci, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e flexicurity “all’italiana” a confronto, in DLRI, 2012, 572. 27 A tal riguardo, si consenta di rinviare a: Faleri, Il lavoro ai tempi di Agricoltura 4.0 tra esigenze di stagionalità e fabbisogno di nuove professionalità, in DLM, 2018, XX; cfr. altresì Marcianò, I voucher in agricoltura: dal decreto Biagi al decreto Dignità, in VTDL, 2018, XX. 28 Così Pinto, Il lavoro accessorio tra vecchi e nuovi problemi, in LD, 2015, 695. 29 Riguardo alle misure sanzionatorie e ispettive nella lotta al lavoro nero, si rinvia a: Barbieri, Ragioni politiche e caratteristiche tecniche dell’intervento della Regione Puglia contro il lavoro nero, in Sunna (a cura di), La lotta al lavoro nero nell’esperienza legislativa e amministrativa della Regione Puglia, Cacucci, 2008, 5; Pinto, Gli interventi legislativi reginali di contrasto al lavoro nero e di sostegno all’emersione, in RGL, 2012, I, 304; McBritton, Lavoro degli immigrati e lavoro sommerso: l’inadeguatezza della normativa, in Studi in Memoria di Mario Giovanni Garofalo, Cacucci, 2015, 593.
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attraverso il potenziamento del meccanismo di condizionalità, subordinando cioè l’erogazione di contributi e di incentivi pubblici al rispetto da parte dell’impresa non solo delle norme in materia di salute e sicurezza, come prospettato dalla Commissione europea30, ma anche delle norme di tutela dei diritti dei lavoratori (la c.d. condizionalità sociale)31. Dunque, se si vuol far fronte alla progressiva marginalizzazione che ha subito nel tempo il ruolo dell’agricoltura all’interno del sistema economico, con i riflessi negativi in termini di occupazione che ne sono conseguiti (occupati in agricoltura 3,8% sull’occupazione totale), necessita che innovazione e qualità diventino un fattore di vantaggio competitivo sempre più importante, ovvero delle vere e proprie variabili strategiche per il successo dell’agricoltura. A tal fine si richiede però una politica di qualità, che ponga attenzione a tutti gli aspetti connessi alla sostenibilità sociale.
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Si rinvia a quanto già puntualizzato alla nota 23. Schiuma, Il caporalato in agricoltura tra modelli nazionali e nuovo approccio europeo per la protezione dei lavoratori immigrati, in RDA, 2015, I, 87; Giaconi, Le politiche europee di contrasto al lavoro sommerso. Tra (molto) soft law e (poco) hard law, in LD, 2016, 439; Canfora, La filiera agroalimentare tra politiche europee e disciplina dei rapporti contrattuali: i riflessi sul lavoro in agricoltura, in DLRI, 2018, 259.
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Intervento del Fondo di garanzia, fenomeni circolatori dell’impresa e stato d’insolvenza di uno dei datori di lavoro Sommario : 1. Le decisioni della Corte di cassazione. – 2. La disciplina di diritto comunitario. – 3. La legislazione nazionale.
Sinossi. Lo scritto, attraverso l’analisi della disciplina comunitaria e nazionale sulla tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro e delle recenti decisioni della Corte di cassazione chiamate a verificare le condizioni di intervento del Fondo di Garanzia allorquando il credito retributivo sia vantato nei confronti di più datori di lavoro, ricostruisce la questione dei rapporti interni di stampo civilistico intercorrenti fra datori di lavori e fra costoro e i lavoratori creditori e la questione previdenziale di stampo pubblicistico che nasce dalla prima solo dopo l’inadempimento dell’obbligo civilistico da parte dei datori di lavoro. Abstract. The present paper analyses the Community and domestic rules relating to the protection of employees in the event of insolvency of their employer(s). It also presents the recent Supreme Court case law outlining the conditions under which employees may qualify to lodge claims with the Guarantee Fund in circumstances where an employee’s claim includes more than one or several employers. Moreover, this paper will endeavour to examine, on the one hand, the internal civil relationships and dynamics amongst employers and, on the other hand, the relationships between employers and employees lodging a claim while addressing the social security issues resulting from the breach of the employers’ obligations to the employees. Parole
chiave:
Trattamento di fine rapporto – Cessione azienda – Intervento del Fondo di garanzia
Antonino Sgroi
1. Le decisioni della Corte di cassazione. La Corte di cassazione, con una serie di decisioni depositate nel corso dell’ultimo semestre del 20181 è stata chiamata a vagliare l’ammissibilità dell’intervento del Fondo di garanzia, ai fini del pagamento in favore del lavoratore del trattamento di fine rapporto, allorquando il complesso dell’attività aziendale è stato oggetto di trasferimento e solo uno degli imprenditori coinvolti in questa operazione era stato sottoposto a procedura concorsuale. Dalla lettura del testo delle menzionate decisioni si evince che, fatta ad eccezione per una (la sentenza del 17 ottobre 2018, n. 26021, della quale si dirà nel prosieguo), tutte avevano quale fattispecie di riferimento la sottoposizione a procedura liquidatoria dell’imprenditore cedente, il riconoscimento da parte della procedura del credito vantato dal lavoratore, la continuazione del rapporto di lavoro con l’imprenditore cessionario, il rigetto da parte dell’ente previdenziale della domanda del lavoratore di pagamento della prestazione previdenziale da parte del Fondo di garanzia istituito con l’art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297 2. La Suprema Corte, constatato che la concreta fattispecie era quella delineata retro, ha ritenuto con articolata motivazione di dovere escludere l’invocato intervento del Fondo di garanzia. A sostegno di tale approdo la Cassazione afferma che l’art. 2 della l. 29 maggio 1982, n. 297 e l’art. 2 del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, si riferiscono all’ipotesi in cui sia stato dichiarato insolvente ed ammesso alle procedure concorsuali il datore di lavoro che è tale al momento in cui la domanda di insinuazione al passivo viene proposta ed, inoltre, poiché il t.f.r. diventa esigibile solo al momento della cessazione del rapporto, il fatto che (erroneamente) il credito maturato per t.f.r. fino al momento della cessione d’azienda sia stato ammesso allo stato passivo nella procedura fallimentare del datore di lavoro cedente non può vincolare l’INPS, che è estraneo alla procedura e che perciò deve poter contestare
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Si tratta rispettivamente di Cass., 19 luglio 2018, n. 19277; Cass., 19 luglio 2018, n. 19278; Cass., 26 settembre 2018, n. 23047; Cass., 17 ottobre 2018, n. 26021; Cass., 1 ottobre 2018, n. 23775; Cass., 1 ottobre 2018, n. 23776; Cass., 23 ottobre 2018, n. 26809; Cass., 5 novembre 2018, n. 28136; Cass., 14 novembre 2018, n. 29363 e Cass., 28 novembre 2018 n. 30804. La sentenza capostipite è stata annotata da Capurso, Trasferimento d’azienda, fallimento del datore di lavoro cedente e intervento del Fondo di garanzia, in RDSS, 2018, n. 3, 600-604. Come noto il legislatore, con la disposizione menzionata, ha apprestato una tutela ad hoc nei confronti del lavoratore qualora il datore di lavoro non abbia pagato le ultime tre mensilità e/o il trattamento di fine rapporto, creando un apposito Fondo presso l’INPS. A tale forma di tutela se ne aggiunge altra che attiene alle forme di previdenza privata e riguarda il mancato versamento della contribuzione ai fondi di previdenza previsti e disciplinati dal d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252. Il legislatore anche in questo caso ha previsto l’istituzione di altro e diverso Fondo sempre presso l’INPS che, in caso di inadempimento del datore di lavoro, garantisce la copertura contributiva presso il Fondo di previdenza privata. Al di fuori di tale reticolato di tutela si pone invece il Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto, usualmente denominato Fondo di Tesoreria, istituito dall’art. 1, commi 755 – 762, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 e al quale ha fatto seguito il decreto del ministero del lavoro e della previdenza sociale del 30 gennaio 2007, n. 24980. Secondo le intenzioni del legislatore presso tale Fondo affluiscono gli accantonamenti mensili effettuati a titolo di t.f.r. dei datori di lavoro, fatta eccezione per quei datori di lavoro che hanno alle loro dipendenze meno di cinquanta addetti. Al momento del sorgere del diritto alla liquidazione del t.f.r. in favore del lavoratore, il datore di lavoro matura il diritto alla restituzione delle somme versare al menzionato Fondo di tesoreria, somme necessarie al pagamento del predetto t.f.r. al proprio datore di lavoro.
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il credito per t.f.r. sostenendo che esso non sia ancora esigibile, neppure in parte, e quindi non opera ancora la garanzia dell’art. 2 l. n. 297 del 1982. La S.C., nella più risalente delle menzionate decisioni, ha conseguentemente cassato la decisione di merito che aveva ritenuto insindacabile, da parte dell’INPS, la spettanza del diritto alla prestazione del Fondo di cui all’art. 2 della l. 29 maggio 1982, n. 297, benché la domanda di insinuazione al passivo del fallimento del datore di lavoro fosse stata proposta dal lavoratore dopo che il primo aveva ceduto ad altri il ramo d’azienda cui il rapporto di lavoro afferiva3. La stessa Corte di cassazione in fattispecie diversa, in quanto l’imprenditore sottoposto alla procedura liquidatoria non era più l’imprenditore cedente ma l’imprenditore cessionario, ha ritenuto sussistere il diritto del lavoratore al pagamento del t.f.r. da parte del Fondo di garanzia. E a tal fine ha affermato che l’intervento del Fondo di Garanzia istituito presso l’INPS per la corresponsione del t.f.r., nei casi di insolvenza del datore di lavoro fallito, non è subordinato alla previa escussione degli eventuali obbligati solidali che siano tenuti, anche solo “pro quota”, per il medesimo debito, prevedendo la l. 29 maggio 1982, n. 297 l’accesso diretto alla prestazione previdenziale, salvo una breve dilazione temporale
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Questa la massima ufficiale reperibile su CED Cassazione con riferimento alla prima delle menzionate decisioni, resa il 19 luglio 2018, n. 19277/18; mentre tutte le altre non risultano essere state massimate, né, si aggiunga, sono menzionate come conformi nella menzionata Banca Dati. Si osservi sin da ora che l’affermazione contenuta nella sentenza e poi trasposta nella massima, di erroneità dell’ammissione al passivo del fallimento della società cedente, del credito vantato dal lavoratore sino al momento di cessione dell’azienda, per un verso non appare necessaria per giungere all’approdo al quale è pervenuta la medesima Corte di esclusione del Fondo di garanzia e da altro verso non appare cogliere la realtà dei rapporti debito/credito sottesi al rapporto di lavoro connesso a un’impresa ceduta. Rapporti per i quali l’ordinamento riconosce un obbligo solidale fra datori di lavoro (obbligo puntualmente ricostruito dalla Corte di cassazione nella sentenza del 22 settembre 2011, n. 19291 si v. infra la nota 6) e che comportano pertanto che legittimamente, una volta che uno dei datori di lavoro obbligati (nel caso esaminato dalla Corte nella sentenza n. 24 maggio 2018, n. 12977 era il cedente) è fallito, il lavoratore insinui il suo credito nella procedura fallimentare, fermo restando il potere riconosciuto allo stesso di richiedere il pagamento anche all’altro datore di lavoro, obbligato in solido e ancora in bonis. Senza dimenticare infine la regola dettata dalla legge fallimentare al secondo comma dell’art. 55, che prevede la scadenza anticipata, alla data di dichiarazione del fallimento. In forza di tale disposizione i crediti non scaduti si considerano immediatamente esigibili, anche fuori dal concorso (si v. da ultimo l’applicazione di tale principio fatta dalla sez. terza della Cassazione, con riguardo alla fideiussione, nell’ordinanza del 16 ottobre 2017, n. 24296). Anche nell’ipotesi di trasferimento di azienda e dell’obbligo solidale fra cedente e cessionario espressamente previsto nell’art. 2112.2. c.c., si è davanti a un’obbligazione soggettivamente complessa ad attuazione solidale e interesse unisoggettivo. E ciò in quanto il datore di lavoro cessionario, nel momento in cui paga la porzione di t.f.r. maturata antecedentemente alla cessione di azienda, paga quale condebitore-garante e ha il diritto di richiedere nei confronti del datore di lavoro cedente la restituzione della somma versata in adempimento dell’obbligo di garanzia (su questa ricostruzione si v. in generale da ultimo Venturini, Surrogazione legale e regresso, a seguito dell’adempimento di obbligazioni solidali a interesse comune da parte di uno dei condebitori, nota a Cass., 5 giugno 2007, n. 13180, in NLCC, 2008, I,. 56 – 65, in specie p. 59 e ivi ulteriori riferimenti bibliografici). A fronte di tale ricostruzione del rapporto interno intercorrente fra gli obbligati solidali, in realtà l’obbligo di solidarietà sorge in capo al cessionario con riferimento ai crediti di lavoro maturati antecedentemente e prima della cessione presso il datore di lavoro cedente - che resta l’obbligato principale -, se ne può pianamente dedurre pertanto che il lavoratore ha riconosciuto dall’ordinamento il diritto di far valere il proprio credito nei confronti del datore di lavoro cedente, nella sua veste di obbligato principale, ancorché in stato d’insolvenza. Ovviamente, come correttamente rilevato dal giudice della nomofilachia, l’ammissione di tale credito da parte della procedura non ha quale sua conseguenza immediata e diretta il sorgere del diritto alla prestazione previdenziale in capo al lavoratore da vantare nei confronti del Fondo di garanzia, senza prima affrontare e risolvere la questione connessa alla “parte” che l’ordinamento assegna al datore di lavoro concessionario e obbligato solidale per il pagamento dello spezzone di t.f.r. maturato presso il cedente. Domanda questa che può essere posta anche in senso inverso, con una forza giuridica ed economica più forte, in quanto in questa ipotesi è l’obbligato principale, datore di lavoro cedente ancora in bonis che, a seconda della soluzione accolta, potrebbe mai essere chiamato a onorare il suo debito retributivo nei confronti del suo ex lavoratore, qualora si riconosca che la sola ammissione al passivo del fallimento del datore di lavoro cessionario abiliti il lavoratore a chiedere l’intervento del Fondo di garanzia.
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(quindici giorni) dal deposito dello stato passivo ovvero dalla sentenza che decide l’opposizione ad esso, e nessun ulteriore requisito (beneficio d’ordine, beneficio di escussione) che suffraghi la natura sussidiaria della copertura dovuta dal Fondo 4. Nella specie la S.C. ha escluso che la domanda all’INPS di corresponsione del t.f.r. fosse condizionata dal previo esperimento da parte del lavoratore, insinuatosi al passivo del fallimento del datore di lavoro per l’intero credito, delle azioni esecutive nei confronti della società affittuaria d’azienda alla quale era stato trasferito durante il rapporto e che lo aveva retrocesso alla curatela, rimanendo coobbligata “pro quota” ai sensi dell’art. 2112 c.c. Tutte le decisioni menzionate, ivi compresa quest’ultima, hanno affrontato e risolto la questione dell’efficacia nei confronti dell’ente previdenziale, quale ente al quale è stata affidata la gestione del menzionato Fondo di garanzia, dell’ammissione del credito del lavoratore nello stato passivo della procedura liquidatoria, sia essa del cedente o del cessionario. La Corte si è consapevolmente discostata dai propri precedenti, ove si affermava che l’ammissione allo stato passivo dei crediti vantati dal lavoratore non è suscettibile di essere messa in discussione in ragione del subentrare ex lege dell’ente previdenziale nel debito del datore di lavoro insolvente 5; e per compiere tale opera di discostamento afferma che i propri precedenti non avevano mai affrontato la nuova e diversa questione sottoposta per la prima volta e che verte sull’esistenza o meno in capo al Fondo dell’obbligo di intervenire incondizionatamente, in forza della sola ammissione al passivo della domanda del lavoratore. E ciò anche se il lavoratore aveva richiesto in sede fallimentare la sola quota di t.f.r. maturata presso il datore di lavoro cedente assoggettato a fallimento, successivamente alla cessione dell’azienda e a prescindere dall’avvenuta cessazione del rapporto di lavoro di lavoro con quello e in presenza della continuazione del rapporto di lavoro con l’imprenditore cessionario. La Cassazione, pertanto, una volta liberatasi dal fardello dei propri precedenti in quanto non conferenti, percorre una nuova strada che la conduce ad affermare che l’intervento del Fondo di Garanzia è precluso in considerazione del fatto che il rapporto di lavoro era continuato con il datore di lavoro cessionario, in bonis, e che conseguentemente il trattamento di fine rapporto diviene esigibile solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro6, cessazione che non era riscontrabile in nessuno dei casi sottoposti al vaglio giudiziale.
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Cass., 17 ottobre 2018, n. 26021. Si tratta di Cass., 19 aprile 2010, n. 9231; Cass.,13 novembre 2014, n. 24231; Cass., 3 novembre 2015, n. 23258 e Cass., 4 dicembre 2015, n. 24730. Questo secondo aspetto, come noto, trova la sua radice nel precedente della stessa Corte, Cass., 22 settembre 2011, n. 19291, cit., ove si afferma che in caso di cessione d’azienda assoggettata al regime di cui all’art. 2112 cod. civ., posto il carattere retributivo e sinallagmatico del trattamento di fine rapporto che costituisce istituto di retribuzione differita, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto sia proseguito con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di lavoro svolto fino al trasferimento aziendale, mentre il datore cessionario è obbligato per la stessa quota solo in ragione del vincolo di solidarietà, e resta l’unico obbligato quanto alla quota maturata nel periodo successivo alla cessione (Principio che si deve ritenere ormai diritto vivente, si v. da ultimo Cass., ord. 8 gennaio 2016, n. 164).
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La strada così sommariamente indicata e percorsa dalla Corte non è invece utilizzata dalla stessa allorquando il lavoratore, che chiedeva l’intervento del Fondo di Garanzia dopo avere ottenuto il riconoscimento dalla procedura liquidatoria del credito vantato nei confronti del datore di lavoro fallito7, non aveva più un lavoro in conseguenza del fallimento del proprio datore. In questo caso la Corte ha ritenuto del tutto irrilevante, ai fini del menzionato intervento di tutela pubblico, la circostanza che l’obbligato principale della quota di t.f.r. maturato durante il contratto di affitto era altro imprenditore e che questo era in bonis. A sostegno di tale approdo il giudice della nomofilachia afferma che: - né la l. n. 297/82, né il d. lgs. n. 80/92 prevedono in alcun modo un obbligo di preventiva escussione di eventuali obbligati8, ma tutelano invece in modo immediato e diretto il diritto previdenziale alla copertura del credito da t.f.r., che sia sorto, presso il datore di lavoro insolvente, con la definitiva cessazione del rapporto di lavoro; - la copertura previdenziale riconnessa all’insolvenza del datore di lavoro non può prescindere da una semplificazione anche sul piano obbligatorio, per la necessità di tendere al massimo, data la natura retributiva dei diritti, ad una contiguità temporale tra il maturare dei crediti e la loro relativa soddisfazione; - l’equilibrio normativo, rispetto alle parti del rapporto previdenziale, è recuperato dal diritto di surroga dell’INPS al lavoratore nel passivo fallimentare e ben potendosi discutere sulla spettanza in capo al medesimo ente, ex art. 1203 n. 3 c.c., anche del diritto di surroga verso il retrocedente (di cui è stato pagato, in parte il debito). Le fattispecie esaminate dalla Corte di cassazione evidenziano quanto sia oltremodo complessa la gestione giurisprudenziale di fattispecie che risentono dell’evoluzione del tessuto economico a fronte di un ordinamento legislativo che, nel caso odierno, risale al 1980 e al 1992 e presuppone un rapporto di lavoro con unico datore di lavoro, senza alcuna circolazione dell’azienda. Sono i fenomeni circolatori dell’azienda e quindi la conseguente esistenza di soggetti imprenditoriali che rispondono quali obbligati principali o quali obbligati solidali in forza di legge9 a porre sotto stress questo settore dell’ordinamento e che pare richiedano una lettura articolata del reticolato legislativo.
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Nel caso di specie il lavoratore dipendente di una società aveva continuato a prestare la propria attività in favore di altra società in forza di contratto di affitto di azienda e, una volta concluso il predetto affitto, aveva continuato a prestare la propria opera in favore dell’originario datore di lavoro che era stato poi dichiarato fallito. Si rilevi però che in una precedente decisione del 24 novembre 2017, n. 28091, la stessa Corte ha escluso l’obbligo di intervento del Fondo di garanzia, in considerazione della circostanza che il lavoratore dipendente di una s.a.s. non fallibile non aveva promosso tentativi di realizzare il credito vantato anche nei confronti dei soci illimitatamente responsabili. Per una fattispecie di obbligo solidale rilevante in ambito previdenziale si v. l’art. 29 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. La Corte di cassazione ha ritenuto sussistere l’obbligo solidale, escludendo nel contempo l’intervento del Fondo di garanzia, allorché l’imprenditore committente è stato chiamato ad adempiere, nella sua qualità di obbligato solidale e in sostituzione del datore di lavoro concessionario in stato d’insolvenza, l’obbligo di pagamento del trattamento di fine rapporto e delle ultime tre mensilità (si v. per tutte Cass., 20 maggio 2016, n. 10544).
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Lettura che il Supremo Collegio ha tentato di condurre, in assenza di qualsivoglia intervento sulla questione da parte della dottrina, ancorché con soluzioni che di primo acchito parrebbero non idonee ad affrontare la complessità del reale e l’utilizzo da parte di certi imprenditori di istituti giuridici con scopi diversi da quelli per i quali il legislatore li ha introdotti10. Il tasso di resistenza delle soluzioni adottate dalla Corte passa attraverso la lettura delle disposizioni introdotte dal legislatore comunitario tempo per tempo e recepite dall’ordinamento italiano.
2. La disciplina di diritto comunitario. Si può condividere l’affermazione della dottrina secondo la quale la direttiva 75/129/ CEE del 17 febbraio 1975 sui licenziamenti collettivi, quella 77/187/CEE sul trasferimento d’impresa e infine quella 80/987/CEE sull’insolvenza del datore di lavoro hanno la medesima finalità che è individuata nel predisporre strumenti di tutela a fronte dell’incremento registratosi nel tasso di disoccupazione a seguito dell’intensificarsi di fenomeni quali, ad esempio, la concentrazione o lo smembramento di imprese o di parti di esse, la chiusura di stabilimenti 11.
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Sull’esistenza di realtà imprenditoriali che utilizzano strumenti riconosciuti dall’ordinamento con lo scopo di sottrarsi al rischio economico d’impresa e in tale alveo rientra anche l’utilizzo del trasferimento di azienda, si v. per la dottrina Gragnoli, L’impresa illecita, in VTDL, 2018, n. 2, 341 – 363. L’Autore constata che vi è una deliberata trasgressione a norme di tutela dei dipendenti per il vantaggio concorrenziale e per creare strutture competitive e in grado di soddisfare meglio l’interesse dei clienti, sebbene sia perseguito in modo illegittimo (p. 342). All’interno di questa ricostruzione può ben porsi anche il fenomeno di svuotamento di un’impresa presso la quale restano solo allocati i debiti e il passaggio invece degli strumenti aziendali presso altra impresa che così continua l’attività aziendale libera dei precedenti costi di produzione. Specifica attuazione di quest’ultimo profilo e con riferimento alla questione odierna, la si rinviene nella sentenza della Cassazione del 22 novembre 2018, n. 30269, ove è disconosciuto l’intervento del Fondo di garanzia, per l’uso illecito fatto dello strumento del contratto di affitto di azienda. 11 In questi termini: Lambertucci, Il trasferimento di imprese, in Carinci, Pizzoferrato (a cura di), Diritto del lavoro dell’Unione europea, Giappichelli, 2018, 345-362, in specie p. 346. Lo stesso Autore prosegue, affermando che le direttive sul trasferimento di imprese e sui licenziamenti collettivi sono ispirate, attraverso il mantenimento dei diritti dei lavoratori, all’obiettivo di neutralizzare la distorsione nella concorrenza tra imprese che operano all’interno del mercato comune. Ma ciò limitatamente alle conseguenze sociali connesse alle scelte imprenditoriali, scelte però che non sono limitate sul fronte delle prerogative gestionali (passim). La stessa affermazione, ancorché in forma sintetica, la si rinviene precedentemente in E. Gonzalès Biedma, Licenziamenti per riduzione di personale, in Baylos Grau, Caruso, D’Antona, Sciarra (a cura di), Dizionario di Diritto del Lavoro Comunitario, Monduzzi Editore, 1996, 305 – 309, in specie p. 305. Si osservi che il giudice della nomofilachia, nelle sentenze menzionate, a sostegno della soluzione adottata ha utilizzato un passaggio argomentativo che rinvia alla direttiva sulla tutela dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di impresa e a una delle ultime decisioni rese dalla Corte di giustizia in tema di applicazione della medesima direttiva (si tratta della decisione resa il 22 giugno 2017, causa C-126/16, Federatie Nederlandse Vakvereniging, in RIDL, 2017, n.1, 146, con nota di Vallauri, La Corte di giustizia torna sulle condizioni per la disapplicazione delle tutele in caso di trasferimento d’impresa soggetta a procedura concorsuale). I Giudici del Lussemburgo, anche nella decisione menzionata dalla Corte di cassazione, hanno fatto piana applicazione della loro giurisprudenza e reiterato che la direttiva sui licenziamenti collettivi mira a tutelare i lavoratori, in particolare la stessa assicura il mantenimento dei loro diritti in caso di cambiamento d’imprenditore. Ancora la Corte riafferma il principio che la disposizione contenuta nell’art. 5, prg. 1, di inapplicabilità del regime di tutela dei lavoratori in determinati casi di trasferimento d’impresa, discostandosi dall’obiettivo principale della direttiva (che nel frattempo è divenuta la direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001), deve necessariamente essere oggetto di un’interpretazione restrittiva (si v. prg. 41 della sentenza). Sulla scorta di tale interpretazione restrittiva pertanto la Corte di giustizia, nella sentenza ult. cit., ricorda che la disciplina dettata dall’art. 5, che sfocia, si ricordi, nella deroga al regime ordinario di tutela fissato dalla direttiva, opera solo allorquando sia accertato che: a) il cedente è oggetto di una procedura di fallimento o di una
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Con riferimento alla direttiva sull’insolvenza dei datori di lavoro e a integrazione della precedente affermazione, si può altresì condividere quanto ritenuto da altro Autore, che ritiene la predetta direttiva fondata sull’art. 100 del Trattato (ora art. 115 TFUE) e iscrivibile in una tendenza legislativa che mira a garantire, per quanto possibile, una tutela rafforzata a favore dei lavoratori di fronte all’insorgere di uno stato di insolvenza del datore di lavoro, evento questo, che può compromettere la stabilità o la stessa sopravvivenza del rapporto 12. Come noto la direttiva 80/987/CEE del 20 ottobre 1980 è stata modificata dalla direttiva 2002/74/CE del 23 settembre 200213 e infine il legislatore comunitario ha sostituito la primigenia direttiva, senza però apportare modificazioni, con la direttiva 2008/94/CE del 22 ottobre 200814, direttiva questa da ultimo modificata con l’art. 1 della direttiva 2015/1794 che ha sostituito l’art. 1, prg. 3 della direttiva del 2008. In questa sede pare opportuno prendere le mosse dalla direttiva del 20 ottobre 1980 il cui obiettivo, si legge nel primo Considerando, era quello di garantire ai lavoratori subordinati, in caso di insolvenza del datore di lavoro, il pagamento dei diritti non pagati15. L’ambito soggettivo di applicazione della Direttiva era individuato nel testo originario, secondo quanto statuito dall’art. 1, prg. 1, nei diritti dei lavoratori subordinati derivanti da contratto di lavoro o da rapporti di lavoro ed esistenti nei confronti dei datori di lavoro che si trovano in stato d’insolvenza16.
procedura di insolvenza analoga, b) la procedura di insolvenza è aperta per la liquidazione dei beni del cedente, c) la procedura di insolvenza si deve svolgere sotto il controllo di un’autorità pubblica (si v. n. 44). 12 In questi termini: Foglia, L’attuazione giurisprudenziale del diritto comunitario del lavoro, Cedam, 2002, 263-264. Lo stesso Autore prosegue, affermando che il legislatore comunitario aveva preso atto che i diritti economici dei lavoratori nell’ambito delle procedure concorsuali restano fortemente condizionati sia per l’eccessiva lunghezza, e il costo di tali procedure, sia per l’insufficienza della massa fallimentare. E lo stesso A. precisa ulteriormente che la direttiva tutela i crediti dei lavoratori subordinati derivanti dai rapporti di lavoro esistenti nei confronti di datori di lavoro che si trovino in uno stato di insolvenza (op. cit., 264). Quest’ultima affermazione evidenzia come l’Autore prefigura fattispecie di insolvenza di un unico datore di lavoro che rispondeva direttamente e immediatamente dei crediti vantati nei suoi confronti dal lavoratore, escludendo pertanto dalla sua investigazione fattispecie circolatorie, quali quelle esaminate dalla Corte di cassazione, ove il credito del lavoratore sorge anche nei confronti di un datore di lavoro in bonis, con il quale è cessato il rapporto di lavoro per continuazione dello stesso con altro datore, in forza di un trasferimento d’impresa. 13 Per un commento del testo della direttiva del 1980, come modificata dalla direttiva del 2002, si v. Galantino, Diritto comunitario del lavoro, Giappichelli, 2005, pp. 254-262. 14 Altro Autore ritiene che la direttiva del 2002, in considerazione delle modifiche del Trattato CE, non vada più ricollegata come la direttiva del 1980 all’art. 100, bensì vada ricollegata all’art. 137 Trattato CE (ora 157 TFUE) disposizione richiamata espressamente nella medesima direttiva, in base al quale il Consiglio può dettare prescrizioni minime in materia di condizioni di lavoro. Tant’è che la direttiva del 2002 nel modificare la direttiva del 1980, ne sostituisce il titolo (Balletti, Le vicende dell’impresa, in Diritto del lavoro dell’Unione europea, Carinci, Pizzoferrato (a cura di), Giappichelli, 2018, 375-385, in specie 376). La direttiva del 2008, come si legge nella relazione della Commissione del 6 novembre 2006, ha lo scopo di sostituire i vari atti che incorporava la direttiva 80/987/CEE, preserva in pieno la sostanza degli atti oggetto di codificazione e pertanto non fa altro che riunirli, apportando le modifiche formali necessarie ai fini dell’opera di codificazione. 15 Nei testi francese e inglese sono usate espressioni omologhe, infatti dal lato del datore di lavoro si parla rispettivamente di «insolvabilité de l’employeur» e di «insolvency of their employer», mentre dal lato del lavoratori si parla rispettivamente di «garantir le paiement de leurs créances impayées» e di «to guarantee payment of their outstandins claims». 16 Nei testi francese e inglese sono usate espressioni omologhe, si parla rispettivamente di «créances des travailleurs…existant à l’égard d’employeurs qui se trouvent en…» e di «employees’ claims…existing against employers…».
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La direttiva del 2002/74 nulla muta con riguardo agli spezzoni di norme rilevanti all’investigazione condotta in questa sede, confermando pertanto che si tratta di diritti dei lavoratori vantati nei confronti di datori di lavoro. L’utilizzo del plurale, nell’individuazione dei soggetti datoriali nei confronti dei quali i lavoratori/creditori possono vantare diritti di credito radicati sul rapporto di lavoro svolto evidenzia, pare, che il legislatore comunitario aveva ben presente, sin dal 1980, la circostanza che il credito pecuniario del lavoratore poteva essere sorto nei confronti di più datori di lavoro. Ne consegue pertanto che solo lo stato d’insolvenza di tutti costoro legittima la tutela pubblica del credito pecuniario vantato dal lavoratore. I menzionati diritti pecuniari dei lavoratori sono assicurati dallo Stato membro, secondo quanto previsto nel successivo art. 3, attraverso un soggetto intermedio, l’organismo di garanzia. Organismo che, a sua volta, provvede al pagamento dei diritti pecuniari non pagati dal datore di lavoro in stato d’insolvenza, ivi comprese le indennità dovute ai lavoratori a seguito dello scioglimento del rapporto di lavoro, se previste dal diritto dello Stato membro. La stessa direttiva, infine e all’art. 10 e con formula aperta rimasta immutata anche dopo l’intervento del 2002, afferma che quanto in essa previsto non pregiudica la facoltà in capo allo Stato membro di adottare le misure necessarie per evitare abusi17. Abusi che, sin da ora, si può ritenere si pongano in essere anche ogni qual volta la tutela dei diritti pecuniari dei lavoratori subordinati sia affidata all’organismo di garanzia, ancorché gli stessi crediti possano e debbano essere onorati da datori di lavoro che non sono in stato d’insolvenza, in forza di un obbligo di legge che trova la sua ragion d’essere in accordi contrattuali intercorsi fra i medesimi datori di lavoro. Si può ragionevolmente ritenere pertanto che il legislatore comunitario, ben consapevole dei fenomeni di trasferimento d’impresa, con continuazione del rapporto di lavoro, abbia voluto assicurare l’accesso al minimo della tutela pubblica da parte dei lavoratori solo in presenza dello stato di insolvenza di tutti i datori di lavoro obbligati ad adempiere i crediti pecuniari vantati dal lavoratore subordinato, restando del tutto irrilevante la circostanza che tale obbligo in capo al datore di lavoro sia principale o solidale. L’opzione ermeneutica prospettata non pare porsi in rotta di collisione con l’obiettivo del legislatore comunitario, che è quello di garantire una tutela minima alla soddisfazione dei propri crediti da parte del lavoratore subordinato in caso di insolvenza del datore di lavoro. Prefigurare l’intervento dell’organismo di garanzia quale intervento di ultima istanza, che è posto in essere dalla sicurezza sociale di ciascuno Stato membro solo dopo l’inutile esperimento da parte del creditore delle attività previste dall’ordinamento, per il recu-
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La stessa espressione è rinvenibile nel testo francese e inglese della direttiva ove si parla di «éviter de abus» e di «to avoid abuses». La giurisprudenza comunitaria ha utilizzato la figura dell’abuso del diritto in una di applicazione del Regolamento (CE) del 29 aprile 2004, n. 883 attinente alla tutela previdenziale dei lavoratori distaccati (si tratta della decisione resa dalla Grande sezione il 6 febbraio 2018, causa C/-359/16, Altun, e si v. nota di Ferrara, Contrasto alla frode previdenziale e prevenzione del dumping sociale: una lezione da Lussemburgo in tema di distacco transnazionale, in RGL, 2018, n. 3, 421-433). Sulla ricostruzione dell’istituto si v. per tutti: Sacco, Abuso del diritto, in DDP civ, 2012.
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pero del proprio credito nei confronti di colui o di coloro che hanno posto in essere il rapporto obbligatorio, non significa ridurre il livello di tutela apprestato nei confronti di questa platea di lavoratori subordinati. Ma significa garantire al sistema di sicurezza sociale che il proprio intervento a favore del lavoratore costituisce l’ultima possibilità concessa dall’ordinamento di soddisfazione del credito, con la migliore e ottimale allocazione delle risorse pubbliche disponibili. E tale traslazione economica del rischio di inadempimento sul terzo/ente pubblico è riconosciuta dall’ordinamento ancorché l’onere economico di tale soddisfazione non sia posto a capo del debitore naturale; ovverosia nel caso odierno il costo della tutela dei diritti retributivi del lavoratore non è posto a carico del datore di lavoro che ha beneficiato dell’attività svolta dal lavoratore subordinato, ma è posto a carico di un soggetto terzo, qual è l’ente previdenziale che gestisce l’organismo di garanzia18. Il modulo interpretativo proposto resta inalterato anche se lo si utilizza con riferimento alla direttiva in vigore, la 2008/94/CE19. Il terzo Considerando, al pari di quanto si leggeva nella precedente direttiva, evidenzia che sono necessarie disposizioni per tutelare i lavoratori subordinati in caso d’insolvenza del datore di lavoro e per assicurare loro un minimo di tutela, in particolare per garantire loro il pagamento dei diritti non pagati. L’articolo 1, prg. 1, è norma fotocopia della precedente disposizione e pertanto si può tenere ferma la pista interpretativa delineata supra e confermare pertanto che l’intervento dell’organismo di garanzia prevede il previo e necessario stato di insolvenza di tutti i datori di lavoro tenuti al pagamento del credito pecuniario vantato dal lavoratore in ipotesi di trasferimento di impresa. Stato di insolvenza che, nelle fattispecie esaminate, si concretizza con riguardo al datore di lavoro in bonis nel rifiuto di pagare il trattamento di fine rapporto in favore del lavoratore/creditore che lo richiede. Parimenti la direttiva in vigore garantisce a ciascuno Stato membro di adottare le misure necessarie per evitare abusi e, come detto prima, pare che nella figura dell’abuso rientri la richiesta di accesso al beneficio previsto dalla direttiva, pur in presenza di un datore di lavoro obbligato al pagamento del credito pecuniario che non versi in stato di insolvenza e che sia, secondo la legislazione nazionale, obbligato ad adempiere ancorché non in toto
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Si osservi che siffatta ricostruzione non soffre alterazione sol perché, come ritenuto costantemente dalla Corte di cassazione, la prestazione erogata dal Fondo di garanzia è una prestazione che ha natura previdenziale e non retributiva, nonostante con essa si assicuri la soddisfazione di un credito lavorativo retributivo vantato dal lavoratore subordinato (il richiamo a tale categorizzazione della prestazione erogata dal Fondo di garanzia lo si ritrova anche nelle sentenze menzionate nel presente scritto, si v, per tutte Cass., 24 maggio 2018, n. 12977, cit., prg. 17. Ante confr., Cass., 20 novembre 2017, n. 27465, la cui massima ufficiale recita: La natura previdenziale della prestazioni a carico del Fondo di garanzia costituito presso l’INPS comporta l’applicazione delle norme sulle modalità per conseguire le prestazioni previdenziali, tra cui l’onere di presentazione della domanda amministrativa e di rispetto dei termini di legge per ultimare la procedura amministrativa per la liquidazione, senza che rilevi il termine di sessanta giorni di cui all’art. 2 della l. n. 297 del 1982, per l’esame della domanda da parte dell’Istituto). La natura previdenziale della prestazione rifluisce in ogni caso nell’alveo della garanzia di tutela minima apprestata dall’ordinamento comunitario e nazionale al fine della soddisfazione di un credito di lavoro non adempiuto dal datore di lavoro. Tutela minima che incardina la ragionevolezza ed economicità del proprio intervento solo una volta esperiti ed esauriti da parte del lavoratore i tentativi di recupero del proprio credito retributivo nei confronti di tutti i datori di lavoro suoi naturali debitori. 19 La Commissione nella relazione sull’attuazione e l’applicazione della direttiva, del 28 febbraio 2011 ha concluso che «oltre 30 anni dopo l’adozione della direttiva originale nel 1980, che essa continui ad essere fondamentale per garantire ai lavoratori un grado minimo di tutela dei propri diritti nel mercato interno» (p. 8).
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ma pro parte, il credito vantato dal lavoratore. L’organismo di garanzia per questa parte di credito interverrà pertanto, in applicazione della sua natura di tutela minima di ultima istanza, solo dopo che il lavoratore non abbia potuto soddisfare il proprio credito nei confronti del/i datore/i di lavoro.
3. La legislazione nazionale. Il legislatore italiano, come noto, è intervenuto per la prima volta sul tema con la legge del 29 maggio 1982, n. 297, due anni dopo la direttiva 80/987/CEE del 20 ottobre 1980. Si istituì, con l’articolo 2, il Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, che ha lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo al pagamento del trattamento di fine rapporto spettante al lavoratore o ai loro aventi diritto. Il legislatore nazionale, nella menzionata disposizione, parla di datore di lavoro, utilizzando il singolare a fronte dell’uso del plurale nella legislazione comunitaria. L’individuazione del debitore naturale/datore di lavoro con l’utilizzo del singolare prefigura che la fattispecie ordinaria alla quale porre soluzione è quella di un rapporto di lavoro intercorso con un unico datore di lavoro che, nel corso dello svolgimento della sua attività imprenditoriale, versi in stato d’insolvenza. Il testo della disposizione del 1980 non è utile, se interpretato nella sua astrattezza lessicale e senza per giunta chiedersi il perché in sede di traduzione si sia passati dal plurale della direttiva al singolare della legge nazionale, a concludere che, in presenza di più datori di lavoro obbligati al pagamento del trattamento di fine rapporto dei quali solo uno è in stato d’insolvenza, il Fondo di garanzia sia chiamato a intervenire anche per le frazioni di T.F.R. dovute dal/dai datore/i di lavoro che non versino in stato d’insolvenza20.
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La Corte di cassazione, nella sentenza 17 ottobre 2018, n. 26021, richiama la propria giurisprudenza ove si afferma che non vi è alcuna solidarietà fra obbligazione del Fondo e obbligazione del datore di lavoro e constata altresì che non risulta nel testo di legge fissato alcun altro requisito, quale il beneficio d’ordine o il beneficio di escussione, che posterghi nel tempo l’intervento del Fondo di garanzia. L’affermazione, connessa a un’interpretazione letterale della disposizione legislativa di riferimento, pare che sconti la mancata verifica del tasso di resistenza della stessa da un verso con la legislazione comunitaria, che sul tema è punto di riferimento necessario, e da altro verso con il fine che entrambe le legislazioni affidano all’organismo di garanzia. Fine che, come detto, non è quello di sostituirsi al datore di lavoro sempre e comunque, ma è quello di garantire al lavoratore/creditore la soddisfazione del proprio credito solo una volta che tale soddisfazione non è stata assicurata dal/i datore/i di lavoro. In questo si concretizza la funzione giuridica e sociale di tutela minima che l’ordinamento comunitario e, a cascata, l’ordinamento di ciascuno Stato membro affidano all’organismo di garanzia. Ma, ancora, siffatta affermazione porta a porre nel nulla l’obbligo (principale o solidale che sia) riconosciuto dall’ordinamento fra datori di lavoro che si succedono nella gestione dello stesso complesso imprenditoriale, consentendo ai datori di lavoro solvibili di essere esonerati dal pagamento del trattamento di fine rapporto posto a loro carico nei confronti del lavoratore. Non pare possa predicarsi, sic et simpliciter e sol perché le disposizioni sul Fondo di garanzia espressamente nulla dicono (nella complessità della realtà che, si ricordi, non resta ferma ma costantemente muta appare oltremodo arduo prefigurare un ordinamento autoreferenziale che sia in grado, con mera interpretazione letterale, risolvere tutte le concrete questioni sottoposte al vaglio giudiziale), che questo organismo debba intervenire anche per il pagamento di una parte di prestazione per la quale esiste ed è ben vegeto l’imprenditore. Né pare proficuo, sotto il profilo organizzativo ed economico, affermare che una volta soddisfatto il credito vantato dal lavoratore da parte dell’organismo di garanzia, questo possa a sua volta recuperare le somme erogate agendo nei confronti del datore di lavoro in bonis, mai compulsato
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Con il successivo intervento legislativo, del gennaio 1992, il legislatore italiano amplia la tutela apprestata dal Fondo di garanzia, comprendendo anche i crediti di lavoro inerenti agli ultime tre mesi del rapporto di lavoro (art. 2)21, ma nulla muta con riguardo all’individuazione del debitore originario, ovverosia il datore di lavoro inadempiente. Ancora, la legislazione nazionale non risente degli interventi legislativi comunitari sulla direttiva del 1980, tempo per tempo intercorsi e sommariamente delineati nelle precedenti pagine dell’odierno scritto, sino all’intervento del 2015 operato sul decreto legislativo n. 80/92 che si limita a recepire quanto previsto nell’ultima delle direttive in ordine di tempo22. La cristallizzazione del testo delle discipline nazionali non conduce però alla cristallizzazione della loro interpretazione; interpretazione che necessariamente deve essere condotta allineandola con i testi di riferimento comunitari e con l’interpretazione degli stessi. Se questo è il modulo interpretativo da seguire, ne consegue che l’interpretazione proposta dei testi comunitari rifluisce necessariamente nell’interpretazione da assegnare ai testi nazionali e conduce pertanto ad affermare che anche per questi l’intervento del Fondo di garanzia, finalizzato ad assicurare la tutela minima dei diritti retributivi vantati
dal lavoratore/creditore per l’adempimento della sua obbligazione pecuniaria radicata sull’instaurato rapporto di lavoro. La soluzione prospettata dal Supremo Collegio sempre nella sentenza ult. cit. pone in essere un modello organizzativo più articolato e complesso di quello ordinario, che prevede l’intervento al suo interno di soli due soggetti, il datore di lavoro/ debitore e il lavoratore/creditore, quelli titolari dei rapporti di debito-credito scaturiti dal rapporto di lavoro. Ancora e sotto il versante giuridico, si affida all’organismo di garanzia un compito di recupero nei confronti del datore di lavoro in bonis e per il quale è necessario costituire un titolo e predisporre un’esecuzione che non pare possa essere veicolata, come affermato sempre dalla Corte, con l’utilizzo dello strumento prefigurato dall’art. 1203, n. 3, c.c., ovverosia con surrogazione legale. Il Fondo di garanzia, come ritenuto dalla stessa Cassazione, paga un debito proprio di natura previdenziale che trova la sua occasione nell’inadempimento da parte del/i datore/i di lavoro del pagamento del credito retributivo vantato dal proprio lavoratore e pertanto non pare poi possa farsi rientrare dalla finestra quel che la medesima Corte ha fatto uscire dalla porta, allorché ha affermato la natura previdenziale della prestazione erogata dal Fondo. Né si aggiunga vi è una esplicita disposizione legislativa che consente di affermare, ai sensi del n. 5 dell’art. 1203, al pari di quel che è accaduto in via esemplificativa per la surrogazione legale del Fondo di garanzia per le vittime della strada e prevista dall’art. 29, secondo comma, della l. n. 990/69 (si v. da ultimo Cass., 17 gennaio 2017, n. 930). Né infine pare che tale ricostruzione possa essere scalfita dall’ulteriore affermazione, che si rinviene in un successivo passaggio argomentativo della stessa sentenza, secondo la quale è necessaria una semplificazione anche sul piano obbligatorio, per la necessità di tendere al massimo, data la natura retributiva dei diritti ad una contiguità temporale tra il maturare dei crediti e la relativa soddisfazione. L’affermazione oblitera la circostanza che il credito vantato nei confronti del Fondo di garanzia non è un credito retributivo, ma previdenziale; ancora la vicinanza temporale fra sorgere e adempimento del credito retributivo, trattamento di fine rapporto, è assicurata non già dall’intervento del Fondo di garanzia ma dall’esperimento delle azioni ordinarie nei confronti del datore di lavoro in bonis. Azioni che, come noto, possono essere esperite dal lavoratore, contestualmente all’insinuazione dello stesso credito nella procedura di liquidazione riguardante il datore di lavoro in stato d’insolvenza. Senza dimenticare da ultimo, qualora si riconosca la bontà del modello prefigurato dalla Corte di cassazione, che la richiesta dell’ente previdenziale è la prima che riceve il datore di lavoro/debitore, sino a quel momento all’oscuro dell’inadempimento dell’altro datore di lavoro coobbligato, e pertanto solo da tale richiesta è prefigurabile una mora debendi dapprima strutturalmente inesistente. 21 La Corte di cassazione costantemente afferma, richiamando la dottrina sul punto, che la disciplina nazionale del 1980 e del 1992, in specie quest’ultima, si deve ritenere che costituisce applicazione tardiva e travagliata nel diritto dello Stato italiano di quanto fu stabilito dalla Direttiva CE n. 987 del 1980 (si v. da ultimo l’utilizzo di tale affermazione in Cass., 22 novembre 2018, n. 30269). 22 Per un commento della disciplina nazionale di recepimento si v. da ultimo Capurso, in de Luca Tamajo, Mazzotta (a cura di), Commentario breve alle leggi sul lavoro, Cedam, 2018, 1255-1256; e con riguardo al versante previdenziale Punzi, La tutela dei crediti di lavoro in caso di insolvenza del datore di lavoro, in Sgroi (a cura di), Il sistema di previdenza sociale dei lavoratori privati, Giappichelli, 2010, 305-326.
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dal lavoratore subordinato in caso di insolvenza del datore di lavoro, è un intervento di ultima istanza con il quale sÏ, si soddisfa il credito vantato dal lavoratore ma, nell’ipotesi di compresenza di piÚ datori di lavoro/debitori, solo dopo che questi ultimi non abbiano, volontariamente o coattivamente, adempiuto il proprio obbligo pecuniario nei confronti del loro lavoratore/creditore.
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza C orte di giustizia UE, grande sez., sentenza 22 gennaio 2019, causa C-193/2017; Pres. Lenaerts – Rel. Lycourgos – Avv. Gen. Bobek – Cresco investigation Gmbh. (Avv. Zehetbauer) c. Achatzi (Avv. Obereder). Unione Europea – Previsione nazionale attributiva di un diritto ad un giorno festivo per lavoratori appartenenti ad alcune confessioni religiose – Conformità alla Dir. 2000/78/CE – Discriminazione diretta per religione – Sussistenza.
Gli artt. 1 e 2, paragrafo 3, della direttiva 2000/78/Ce del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso per cui una normativa nazionale in virtù della quale, da un lato, il Venerdì Santo è un giorno festivo solo per i lavoratori appartenenti a talune Chiese cristiane e, dall’altro, soltanto tali lavoratori hanno diritto, se chiamati a lavorare in quel giorno festivo, a una indennità complementare alla retribuzione percepita per le prestazioni svolte costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione. Le misure previste da tale normativa nazionale non possono essere considerate né necessarie alla preservazione dei diritti e delle libertà altrui, ai sensi dell’art. 2, paragrafo 5, di detta direttiva, né misure specifiche destinate a compensare svantaggi correlati alla religione, ai sensi dell’art. 7, paragrafo 1, della medesima direttiva. Unione Europea – Previsione discriminatoria per religione – Lavoratori discriminati – Diritto alla parità di trattamento
L’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea deve essere interpretato nel senso per cui, finché lo Stato membro interessato non abbia modificato, al fine di ripristinare la parità di trattamento, la sua normativa che concede il diritto a un giorno festivo il Venerdì Santo solo ai lavoratori membri di talune Chiese cristiane, laddove altri abbiano chiesto in anticipo di non dovere svolgere l’attività quel giorno, il datore di lavoro deve riconoscere a tali ultimi lavoratori il diritto a una indennità complementare alla retribuzione percepita per le prestazioni svolte in tale giorno, quando detto datore di lavoro non abbia accolto siffatta richiesta (principio di diritto ricavato dalla decisione). Omissis. Svolgimento del processo. Omissis. 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») nonché dell’articolo 1, dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), dell’articolo 2, paragrafo 5, e dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Cresco Investigation GmbH (in prosieguo: la «Cresco») e il sig. Markus Achatzi in merito al diritto di quest’ultimo di beneficiare di un’inden-
nità complementare alla retribuzione percepita per le prestazioni svolte nel corso di un Venerdì santo. Contesto normativo. Diritto dell’Unione. 3 Il considerando 24 della direttiva 2000/78 enuncia quanto segue: «L’Unione europea, nella dichiarazione n. 11 sullo status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali allegata all’atto finale del trattato di Amsterdam, ha riconosciuto espressamente che rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri e[,] inoltre, che rispetta lo status delle organizzazioni filosofiche e non confessionali. In tale prospettiva, gli Stati membri possono mantenere o prevedere disposizioni specifiche sui requisiti professionali essenziali, legittimi e giustificati
Giurisprudenza
che possono essere imposti per svolgervi un’attività lavorativa». 4 L’articolo 1 di tale direttiva è formulato nel modo seguente: «La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento». 5 L’articolo 2 di detta direttiva così dispone: «1. Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1. 2. Ai fini del paragrafo 1: a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; (…) 5. La presente direttiva lascia impregiudicate le misure previste dalla legislazione nazionale che, in una società democratica, sono necessarie alla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui». 6 L’articolo 7 della medesima direttiva, intitolato «Azione positiva e misure specifiche», prevede, al suo paragrafo 1, quanto segue: «Allo scopo di assicurare completa parità nella vita professionale, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure specifiche dirette a evitare o compensare svantaggi correlati a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1». 7 L’articolo 16 della direttiva 2000/78 prevede quanto segue: «Gli Stati membri prendono le misure necessarie per assicurare che: a) tutte le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative contrarie al principio della parità di trattamento siano abrogate; b) tutte le disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento contenute nei contratti di lavoro o nei contratti collettivi, nei regolamenti interni delle aziende o nelle regole che disciplinano il lavoro autonomo e le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro siano o possano essere dichiarate nulle e prive di effetto oppure siano modificate». Diritto austriaco 8 L’articolo 1, paragrafo 1, dell’Arbeitsruhegesetz (legge in materia di periodi di riposo, BGBl. 144/1983), nella sua versione applicabile ai fatti del procedimento principale (in prosieguo: l’«ARG»), dispone quanto segue: «La presente legge federale si applica ai lavoratori di ogni tipo, fatte salve le disposizioni che seguono». 9 L’articolo 7 di detta legge così recita: «(1) Nei giorni festivi il lavoratore ha diritto a un periodo di riposo ininterrotto di almeno 24 ore, che deve iniziare tra la mezzanotte e le ore 6 del giorno festivo. (2) Ai sensi della presente legge federale, i giorni festivi so-
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no: Il 1o gennaio (Capodanno), il 6 gennaio (Epifania), il lunedì di Pasqua, il 1o maggio (festa dello Stato), l’Ascensione, il lunedì di Pentecoste, il Corpus Domini, il 15 agosto (Assunzione), il 26 ottobre (festa nazionale), il 1o novembre (Ognissanti), l’8 dicembre (Immacolata Concezione), il 25 dicembre (Natale) e il 26 dicembre (Santo Stefano). (3) Per gli appartenenti alle Chiese evangeliche di confessione augustana e di confessione elvetica, della Chiesa veterocattolica e della Chiesa evangelica metodista anche il Venerdì santo è un giorno festivo. (…)». 10 Ai termini dell’articolo 9 della medesima legge: «(1) Il lavoratore mantiene il suo diritto alla retribuzione per il lavoro non prestato a causa di un giorno festivo (…). (2) Al lavoratore viene riconosciuta la retribuzione che avrebbe ricevuto se non fosse venuta meno la prestazione del lavoro per i motivi indicati nel paragrafo 1. (…) (5) Il lavoratore che viene impiegato durante il riposo festivo ha diritto, oltre alla retribuzione di cui al paragrafo 1, al corrispettivo maturato per il lavoro prestato, a meno che venga concordato un riposo compensativo ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 6». 11 La direttiva 2000/78 è stata recepita nel diritto austrico segnatamente dal Gleichbehandlungsgesetz (legge relativa alla parità di trattamento, BGBl. I, 66/2004), che contiene un divieto di discriminazione nell’ambito del rapporto di lavoro, in particolare in ragione della religione o delle convinzioni personali, per quanto riguarda la determinazione della retribuzione nonché delle altre condizioni di lavoro. Procedimento principale e questioni pregiudiziali. 12 In virtù dell’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG, il Venerdì santo è un giorno festivo retribuito, con un periodo di riposo di 24 ore, per i membri delle Chiese evangeliche di confessione augustana e di confessione elvetica, della Chiesa veterocattolica e della Chiesa evangelica metodista (in prosieguo: le «chiese indicate nell’ARG»). Se, tuttavia, un membro di una di tali chiese lavora in tale giorno, egli ha diritto a una retribuzione supplementare per detto giorno festivo (in prosieguo: l’«indennità per giorno festivo»). 13 Il sig. Achatzi è un lavoratore dipendente della Cresco, agenzia di investigazioni private, e non è membro di alcuna delle chiese indicate nell’ARG. Egli ritiene di essere stato privato in maniera discriminatoria dell’indennità per giorno festivo per il lavoro svolto il 3 aprile 2015, giorno del Venerdì santo, e chiede, a tale titolo, il pagamento, da parte del suo datore di lavoro, di EUR 109,09, oltre agli interessi. 14 Il giudice del rinvio ha riformato la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso proposto dal sig. Achatzi. 15 L’Oberster Gerichtshof (Corte suprema, Austria), investito di un’impugnazione presentata dalla Cresco avverso tale decisione d’appello, rileva innanzitutto che, dei tredici giorni festivi elencati all’articolo 7, paragrafo 2, dell’ARG, tutti, ad eccezione del 1o maggio
Enrico Gragnoli
e del 26 ottobre, che sono privi di qualsiasi aspetto religioso, hanno un rapporto con il cristianesimo e due di essi sono addirittura legati esclusivamente al cattolicesimo. Il complesso di tali giorni festivi darebbe inoltre diritto a tutti i lavoratori al congedo retribuito dal lavoro, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa. 16 Il giudice del rinvio sottolinea, poi, che il regime speciale previsto all’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG mira a consentire ai membri di una delle chiese interessate da tale disposizione di praticare la loro religione in un giorno di celebrazione particolarmente importante per i medesimi. 17 Secondo il giudice del rinvio, l’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG fa dipendere la concessione di un giorno festivo supplementare dalla religione dei lavoratori, con la conseguenza che le persone che non appartengono alle chiese indicate nell’ARG beneficiano di un giorno festivo pagato in meno rispetto ai membri di una di tali chiese, ciò che costituisce, in linea di principio, un trattamento meno favorevole fondato sulla religione. 18 Il giudice del rinvio si chiede tuttavia se la situazione di tali due categorie di lavoratori sia paragonabile. 19 Esso rileva, a tal proposito, che l’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG ha l’obiettivo di consentire ai lavoratori membri di una delle chiese indicate nell’ARG di praticare la loro religione il Venerdì santo, senza dover concordare a tale scopo un giorno di ferie con il loro datore di lavoro. Orbene, i lavoratori membri della Chiesa romanocattolica, cui appartiene la maggioranza della popolazione austriaca, beneficerebbero di tale possibilità, in quanto i giorni festivi indicati all’articolo 7, paragrafo 2, dell’ARG e che riguardano la loro religione sono giorni di riposo per tutti i lavoratori. 20 Tuttavia, e anche qualora il ricorrente nel procedimento principale non asserisse che le sue esigenze religiose non sono state prese in considerazione il Venerdì santo, detto giudice ritiene che, per valutare la compatibilità della normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale con la direttiva 2000/78, occorra tener conto del fatto che le esigenze religiose di taluni lavoratori non sono prese in considerazione da detta normativa. Taluni contratti collettivi conterrebbero, certo, disposizioni paragonabili all’articolo 7 dell’ARG, segnatamente per quanto riguarda il giorno dell’Espiazione della religione ebraica o quello della festa della Riforma delle chiese protestanti, ma, in mancanza di tali contratti, i lavoratori si dovrebbero affidare in larga misura alla buona volontà del loro datore di lavoro. 21 Il giudice del rinvio rileva inoltre che la differenza di trattamento di cui trattasi nel procedimento principale potrebbe essere assoggettata al diritto dell’Unione, in una controversia tra privati come quella di cui al procedimento principale, solo se tale diritto fosse
direttamente applicabile. Esso sottolinea infatti che la direttiva 2000/78 è stata recepita dalla legge relativa alla parità di trattamento, la quale non è preminente rispetto all’ARG, e che la chiara formulazione dell’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG osta ad un’interpretazione conforme al diritto dell’Unione che estendesse il regime del Venerdì santo ai lavoratori non appartenenti alle chiese indicate nell’ARG. 22 Il giudice del rinvio rileva anche che, a termini del suo articolo 2, paragrafo 5, la direttiva 2000/78 lascia impregiudicate le misure previste dalla normativa nazionale che, in una società democratica, sono necessarie segnatamente alla tutela dei diritti e delle libertà altrui e sottolinea che, conformemente alla giurisprudenza della Corte, la libertà di religione e la libertà di culto figurano tra le basi della società democratica. 23 Detto giudice si chiede pertanto se il regime previsto all’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG debba essere considerato una misura necessaria alla tutela della libertà di religione e di culto dei lavoratori appartenenti ad una delle chiese indicate nell’ARG. 24 Il giudice del rinvio si chiede ancora se la differenza di trattamento di cui trattasi possa essere giustificata a titolo dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, in quanto misura positiva e specifica destinata ad eliminare svantaggi esistenti. 25 Detto giudice sottolinea sì che, sul mercato del lavoro austriaco, non esistono, in linea di principio, svantaggi strutturali per i lavoratori appartenenti ad una delle chiese indicate nell’ARG. Tuttavia, costringere questi ultimi a lavorare in uno dei giorni più importanti per la loro religione, quando ciò non avviene, ad esempio, per i membri della Chiesa romano-cattolica, le cui grandi solennità sono giorni di riposo per tutti i lavoratori, potrebbe essere considerato un siffatto svantaggio, che l’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG sarebbe quindi diretto a compensare. 26 Infine, nel caso in cui la Corte dovesse ritenere che il regime legale del Venerdì santo previsto all’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG violi la direttiva 2000/78, si porrebbe la questione se tale violazione debba essere compensata dall’obbligo per il datore di lavoro, società di diritto privato, di accordare tale giorno festivo a tutti i suoi lavoratori, anche allorché il legislatore austriaco ha inteso prendere in considerazione le esigenze giustificate da motivi religiosi solo di un gruppo di lavoratori ben delimitato per salvaguardare gli interessi dei datori di lavoro, che si opponevano ad un’estensione eccessiva del regime generale dei giorni festivi. 27 Qualora dovesse essere constatato, inoltre, che il regime legale del Venerdì santo non costituisce un’azione positiva o una misura specifica, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, il giudice del rinvio si chiede se tale constatazione debba condurre all’inapplicabilità totale dell’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG, per cui nessun lavoratore potrebbe bene-
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Giurisprudenza
ficiare, il Venerdì santo, di un giorno festivo o dell’indennità per giorno festivo. 28 Alla luce di quanto sin qui esposto, l’Oberster Gerichtshof (Corte suprema) ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 21 della [Carta], in combinato disposto con gli articoli 1 e 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva [2000/78], debba essere interpretato nel senso che, in una controversia tra lavoratore e datore di lavoro in relazione a un rapporto di lavoro privato, esso osta a una normativa nazionale secondo la quale soltanto per gli appartenenti alle Chiese evangeliche di confessione augustana e di confessione elvetica, della Chiesa veterocattolica e della Chiesa evangelica metodista anche il Venerdì santo è un giorno festivo con un periodo di riposo ininterrotto di almeno 24 ore e, in caso di impiego del lavoratore nonostante il riposo festivo, oltre al diritto alla retribuzione per il tempo di lavoro non prestato a causa del giorno festivo, viene riconosciuto anche un diritto alla retribuzione per il lavoro prestato, mentre ciò non avviene per altri lavoratori, non appartenenti a tali chiese. 2) Se il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 21 della [Carta], in combinato disposto con l’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva [2000/78], debba essere interpretato nel senso che detta direttiva non osta alla normativa nazionale descritta nella prima questione, la quale riconosce diritti soltanto a un gruppo relativamente ristretto, se rapportato alla popolazione totale e all’appartenenza della maggioranza alla Chiesa romanocattolica, di appartenenti a determinate (altre) chiese, poiché si tratta di una misura che, in una società democratica, è necessaria per la tutela dei diritti e delle libertà altrui, in particolare del diritto alla libertà religiosa. 3) Se il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 21 della [Carta], in combinato disposto con l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva [2000/78], debba essere interpretato nel senso che la normativa nazionale esposta nella prima questione costituisce una misura positiva e specifica in favore degli appartenenti alle chiese indicate nella prima questione, allo scopo di assicurare la loro completa parità nella vita professionale, per prevenire o compensare, per tali appartenenti, svantaggi in ragione della religione, se in tal modo viene loro riconosciuto il medesimo diritto di esercitare la religione durante l’orario di lavoro in una festività solenne per tale religione, quale quello che in base a una diversa normativa nazionale sussiste in capo alla maggioranza dei lavoratori per il fatto che i giorni festivi della religione, nella quale la maggioranza dei lavoratori si riconosce, sono giorni di riposo in generale. Qualora venga ravvisata una discriminazione ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva [2000/78]; 4) Se il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 21 della [Carta], in combinato disposto con gli articoli 1, 2, paragrafo 2, lettera a), e 7, paragrafo 1, della direttiva [2000/78], debba essere
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interpretato nel senso che il datore di lavoro privato, finché da parte del legislatore non sia stato istituito un assetto giuridico privo di discriminazioni, è tenuto a riconoscere a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa, i diritti descritti nella prima questione in relazione al giorno del Venerdì santo, oppure se la normativa nazionale descritta nella prima questione debba essere del tutto disapplicata, con la conseguenza che i diritti e le pretese relativi al Venerdì santo descritti nella prima questione non vengano riconosciuti ad alcun lavoratore». Motivi della decisione Sulla competenza della Corte 29 Secondo il governo polacco, in virtù dell’articolo 17, paragrafo 1, TFUE, la concessione da parte di uno Stato membro di un giorno festivo destinato a consentire la celebrazione di una festa religiosa non rientra nel diritto dell’Unione, per cui la Corte non è competente a rispondere alle questioni pregiudiziali che le sono rivolte dal giudice del rinvio. 30 A tal proposito, occorre rilevare che l’articolo 17, paragrafo 1, TFUE, stabilisce che l’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale. 31 Da una siffatta disposizione non consegue tuttavia che una differenza di trattamento contenuta in una normativa nazionale, che prevede la concessione a taluni lavoratori di un giorno festivo destinato a consentire la celebrazione di una festa religiosa, sia esclusa dall’ambito di applicazione della direttiva 2000/78 e che la conformità di una tale differenza di trattamento con questa direttiva esuli da un sindacato giurisdizionale effettivo. 32 Infatti, da un lato, la formulazione dell’articolo 17 TFUE corrisponde, in sostanza, a quella della dichiarazione n. 11 sullo status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali, allegata all’atto finale del Trattato di Amsterdam. Orbene, il fatto che quest’ultima sia esplicitamente citata al considerando 24 della direttiva 2000/78 mette in risalto che il legislatore dell’Unione ha necessariamente tenuto conto di detta dichiarazione al momento di adottare la suddetta direttiva (v., in tal senso, sentenze del 17 aprile 2018, Egenberger, C414/16, EU:C:2018:257, punto 57, e dell’11 settembre 2018, IR, C68/17, EU:C:2018:696, punto 48). 33 Dall’altro lato, l’articolo 17 TFUE esprime, certo, la neutralità dell’Unione nei confronti dell’organizzazione, da parte degli Stati membri, dei loro rapporti con le chiese e le associazioni o comunità religiose (sentenze del 17 aprile 2018, Egenberger, C414/16, EU:C:2018:257, punto 58, e dell’11 settembre 2018, IR, C68/17, EU:C:2018:696, punto 48). Tuttavia, le disposizioni nazionali di cui trattasi nel procedimento principale non sono dirette a organizzare i rapporti tra uno Stato membro e le chiese, ma mirano unicamente a
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concedere ai lavoratori, membri di talune chiese, un giorno festivo supplementare che coincide con una festa religiosa importante per tali chiese. 34 L’eccezione di incompetenza dedotta dal governo polacco deve dunque essere respinta. Sulle questioni pregiudiziali. Sulle prime tre questioni. 35 Con le sue prime tre questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 1 e 2, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 debbano essere interpretati nel senso che una normativa nazionale in virtù della quale, da un lato, il Venerdì santo è un giorno festivo solo per i lavoratori appartenenti a talune chiese cristiane e, dall’altro, solo tali lavoratori hanno diritto, se chiamati a lavorare in tale giorno festivo, a un’indennità per giorno festivo istituisca una discriminazione diretta fondata sulla religione. In caso di risposta affermativa, esso chiede anche se le misure previste da tale normativa nazionale possano essere considerate misure necessarie alla preservazione dei diritti e delle libertà altrui, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 5, di detta direttiva, o misure specifiche destinate a compensare svantaggi correlati alla religione, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della medesima direttiva. 36 In primo luogo, occorre ricordare che, conformemente all’articolo 1 della direttiva 2000/78, quest’ultima mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, al fine di rendere effettivo, negli Stati membri, il principio della parità di trattamento. 37 Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, per «principio della parità di trattamento» si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1 della medesima direttiva. L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), di detta direttiva precisa che, ai fini dell’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 1, di quest’ultima, sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1 della direttiva in parola, tra cui figura la religione, una persona è trattata in modo meno favorevole di un’altra che si trovi in una situazione analoga. 38 In tale contesto, occorre, in primo luogo, determinare se dalla normativa di cui trattasi nel procedimento principale risulti una differenza di trattamento tra lavoratori fondata sulla loro religione. 39 A tal proposito, occorre rilevare che l’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG riconosce ai soli lavoratori appartenenti ad una delle chiese indicate nell’ARG il diritto ad un giorno festivo il Venerdì santo. Ne consegue che l’indennità per giorno festivo che, in virtù dell’articolo 9, paragrafo 5, dell’ARG, può far valere il lavoratore chiamato ad esercitare la propria attività professionale nel corso di un giorno festivo è dovuta ai lavoratori che esercitano la loro attività professionale
il Venerdì santo solo se questi ultimi siano membri di una di tali chiese. 40 Pertanto, la normativa di cui trattasi nel procedimento principale istituisce una differenza di trattamento fondata direttamente sulla religione dei lavoratori. Infatti, il criterio di differenziazione cui ricorre tale normativa deriva direttamente dall’appartenenza dei lavoratori a una determinata religione. 41 In secondo luogo, occorre esaminare se una tale differenza di trattamento riguardi categorie di lavoratori che si trovino in situazioni paragonabili. 42 A tal proposito, il requisito relativo alla comparabilità delle situazioni al fine di determinare la sussistenza di una violazione del principio della parità di trattamento deve essere valutato alla luce della totalità degli elementi che le caratterizzano e, in particolare, dell’oggetto e dello scopo della normativa nazionale che istituisce la distinzione di cui trattasi [v., in tal senso, sentenze del 16 luglio 2015, CHEZ Razpredelenie Bulgaria, C83/14, EU:C:2015:480, punto 89, e del 26 giugno 2018, MB (Cambiamento di sesso e pensione di vecchiaia), C451/16, EU:C:2018:492, punto 42]. 43 Va parimenti precisato che, da un lato, non è necessario che le situazioni siano identiche, ma soltanto che siano comparabili e, dall’altro, che l’esame di tale comparabilità deve essere condotto non in maniera generale e astratta, bensì in modo specifico e concreto in riferimento alla prestazione di cui trattasi (sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C143/16, EU:C:2017:566, punto 25 e giurisprudenza ivi citata). 44 Nella fattispecie, l’articolo 7, paragrafo 3, dell’ARG accorda, il Venerdì santo, un periodo di riposo continuo di 24 ore ai soli lavoratori appartenenti ad una delle chiese indicate nell’ARG. Siffatta disposizione stabilisce così una differenza di trattamento quanto alla concessione di un giorno festivo tra detti lavoratori e il complesso degli altri lavoratori. 45 A tal proposito, emerge dal fascicolo a disposizione della Corte che il periodo di riposo di 24 ore accordato il Venerdì santo ai lavoratori appartenenti ad una delle chiese indicate nell’ARG è giustificato, dalle autorità nazionali competenti, con l’importanza che un tale giorno riveste per tali comunità religiose. 46 Tuttavia, come emerge dalla decisione di rinvio, la concessione di un giorno festivo il Venerdì santo a un lavoratore appartenente ad una delle chiese indicate nell’ARG non è subordinata alla condizione dell’adempimento, da parte del lavoratore, di un obbligo religioso determinato nel corso di tale giornata, ma è subordinata unicamente all’appartenenza formale di detto lavoratore ad una di tali chiese. Tale lavoratore resta pertanto libero di disporre a proprio piacimento, ad esempio a fini di riposo o di svago, del periodo relativo a tale giorno festivo. 47 La situazione di un siffatto lavoratore non si differenzia, a tal proposito, da quella degli altri lavoratori che desiderino disporre di un periodo di riposo o di
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svago un Venerdì santo senza che possano tuttavia beneficiare di un giorno festivo corrispondente. 48 Deriva inoltre dal combinato disposto dell’articolo 7, paragrafo 3, e dell’articolo 9, paragrafo 5, dell’ARG che solo i lavoratori appartenenti ad una delle chiese indicate nell’ARG possono beneficiare dell’indennità per giorno festivo se lavorano il Venerdì santo. 49 Alla luce della natura finanziaria della prestazione interessata da un tale trattamento differenziato, nonché del nesso indissolubile che la unisce alla concessione di un giorno festivo il Venerdì santo, occorre parimenti considerare che, per quanto riguarda l’attribuzione di una tale prestazione finanziaria, la situazione dei lavoratori appartenenti ad una delle chiese indicate nell’ARG è paragonabile a quella di tutti gli altri lavoratori, a prescindere dall’appartenenza di questi ultimi ad una religione. 50 Infatti, come emerge dal fascicolo a disposizione della Corte, la concessione di tale indennità al lavoratore membro di una di dette chiese, chiamato a lavorare di Venerdì santo, dipende unicamente dall’appartenenza formale di tale lavoratore ad una di tali chiese. Detto lavoratore avrebbe pertanto diritto a siffatta indennità anche se avesse lavorato di Venerdì santo senza aver sentito l’obbligo o l’esigenza di celebrare tale festa religiosa. La sua situazione non si differenzia quindi da quella degli altri lavoratori che abbiano lavorato il Venerdì santo senza beneficiare di una siffatta indennità. 51 Ne deriva che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale ha l’effetto di trattare in maniera diversa, in funzione della religione, situazioni paragonabili. Essa istituisce, quindi, una discriminazione diretta fondata sulla religione, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78. 52 In secondo luogo, occorre determinare se una siffatta discriminazione diretta possa essere giustificata sulla base dell’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78 o dell’articolo 7, paragrafo 1, di detta direttiva. 53 Da un lato, ai termini dell’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78, quest’ultima lascia impregiudicate le misure previste dalla legislazione nazionale che, in una società democratica, sono necessarie alla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui. 54 Adottando tale disposizione, il legislatore dell’Unione ha inteso prevenire e comporre, in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, un conflitto tra, da una parte, il principio della parità di trattamento e, dall’altra, la necessità di assicurare l’ordine, la sicurezza e la salute pubblici, la prevenzione dei reati nonché la tutela dei diritti e delle libertà individuali, che sono indispensabili al funzionamento di una società democratica. Il legislatore ha deciso che, in taluni casi elencati all’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78, i principi posti da quest’ultima non si applicano a mi-
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sure che contengano differenze di trattamento fondate su uno dei motivi di cui all’articolo 1 di tale direttiva, a condizione tuttavia che tali misure siano necessarie alla realizzazione delle finalità soprammenzionate (sentenza del 13 settembre 2011, Prigge e a., C447/09, EU:C:2011:573, punto 55). 55 Peraltro, poiché detto articolo 2, paragrafo 5, istituisce una deroga al divieto di discriminazione, deve essere interpretato in maniera restrittiva. Anche i termini utilizzati in tale disposizione depongono nel senso di una tale impostazione (sentenza del 13 settembre 2011, Prigge e a., C447/09, EU:C:2011:573, punto 56 e giurisprudenza ivi citata). 56 Nella fattispecie, occorre sottolineare, in primo luogo, che le misure di cui trattasi nel procedimento principale, ovvero il riconoscimento del Venerdì santo come giorno festivo per i lavoratori appartenenti a una delle chiese indicate nell’ARG, nonché la concessione a tali lavoratori dell’indennità per giorno festivo nel caso in cui essi siano chiamati a lavorare durante il periodo di riposo relativo a tale giorno festivo, sono previste dalla normativa nazionale, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78. 57 In secondo luogo, come rileva il giudice del rinvio, la concessione di un giorno festivo il Venerdì santo ai lavoratori appartenenti a una delle chiese indicate nell’ARG ha l’obiettivo di tener conto dell’importanza particolare che rivestono, per i membri di tali chiese, le celebrazioni religiose associate a un tale giorno. 58 Orbene, è pacifico che la libertà di religione fa parte dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciuti dal diritto dell’Unione, e la nozione di «religione» deve essere intesa a tal proposito nel senso che essa comprende sia il forum internum, ossia il fatto di avere convinzioni, sia il forum externum, ossia la manifestazione pubblica della fede religiosa (v., in tal senso, sentenze del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions, C157/15, EU:C:2017:203, punto 28, nonché del 14 marzo 2017, Bougnaoui e ADDH, C188/15, EU:C:2017:204, punto 30). Ne consegue che l’obiettivo perseguito dal legislatore austriaco figura effettivamente tra quelli elencati all’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78. 59 Occorre ancora determinare, in terzo luogo, se tali misure siano necessarie alla tutela della libertà di religione dei lavoratori in questione. 60 A tal proposito, occorre constatare che, come ha confermato il governo austriaco in udienza dinanzi alla Corte, la possibilità per i lavoratori, che non appartengono alle chiese indicate nell’ARG, di celebrare una festa religiosa non coincidente con uno dei giorni festivi elencati all’articolo 7, paragrafo 2, dell’ARG, è presa in considerazione nel diritto austriaco, non attraverso la concessione di un giorno festivo supplementare, ma principalmente mediante un dovere di sollecitudine dei datori di lavoro nei confronti dei loro dipendenti, che consente a questi ultimi di ottenere, se del caso, il
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diritto ad assentarsi dal loro lavoro per la durata necessaria allo svolgimento di taluni riti religiosi. 61 Ne consegue che misure nazionali come quelle di cui trattasi nel procedimento principale non possono essere considerate necessarie alla tutela della libertà di religione, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78. 62 D’altra parte, occorre verificare se disposizioni come quelle di cui trattasi nel procedimento principale possano essere giustificate in virtù dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78. 63 Emerge da quest’ultima disposizione che, allo scopo di assicurare completa parità nella vita professionale, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure specifiche dirette a evitare o compensare svantaggi correlati a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 di detta direttiva. 64 L’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 ha lo scopo preciso e limitato di autorizzare provvedimenti che, pur apparendo discriminatori, mirano effettivamente a eliminare o a ridurre le disparità di fatto che possono esistere nella realtà della vita sociale (v., per analogia, sentenza del 30 settembre 2010, Roca Álvarez, C104/09, EU:C:2010:561, punto 33 e giurisprudenza ivi citata). 65 Inoltre, nel determinare la portata di qualsiasi deroga ad un diritto fondamentale, come quello alla parità di trattamento, occorre rispettare il principio di proporzionalità che richiede che le limitazioni non eccedano quanto è adeguato e necessario per raggiungere lo scopo perseguito e prescrive di conciliare, per quanto possibile, il principio della parità di trattamento con le esigenze del fine così perseguito (v., in tal senso, sentenza del 19 marzo 2002, Lommers, C476/99, EU:C:2002:183, punto 39). 66 Nel caso di specie, e senza che sia necessario stabilire se la circostanza che il Venerdì santo, che risulta essere uno dei giorni più importanti della religione cui appartengono i lavoratori membri di una delle chiese indicate nell’ARG, non corrisponde a uno dei giorni festivi elencati all’articolo 7, paragrafo 2, di tale legge, costituisca uno svantaggio nell’esercizio della loro vita professionale, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, occorre rilevare che non si può ritenere che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale contenga misure specifiche destinate a compensare un siffatto «svantaggio» nel rispetto del principio di proporzionalità e, per quanto possibile, del principio di uguaglianza. 67 Infatti, come è stato rilevato al punto 60 della presente sentenza, le disposizioni di cui trattasi nel procedimento principale accordano un periodo di riposo di 24 ore, il Venerdì santo, ai lavoratori appartenenti ad una delle chiese indicate nell’ARG, mentre i lavoratori appartenenti ad altre religioni, le cui feste importanti non coincidano con i giorni festivi previsti
all’articolo 7, paragrafo 2, dell’ARG, in linea di principio, possono assentarsi dal proprio lavoro per svolgere i riti religiosi relativi a tale festa solo in virtù di un’autorizzazione accordata dal loro datore di lavoro nell’ambito del dovere di sollecitudine. 68 Ne consegue che le misure di cui trattasi nel procedimento principale eccedono quanto è necessario per compensare un siffatto ipotetico svantaggio e che esse istituiscono una differenza di trattamento tra lavoratori, confrontati a obblighi religiosi paragonabili, che non garantisce, per quanto possibile, il principio di uguaglianza. 69 Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alle prime tre questioni dichiarando che: – gli articoli 1 e 2, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 devono essere interpretati nel senso che una normativa nazionale in virtù della quale, da un lato, il Venerdì santo è un giorno festivo solo per i lavoratori appartenenti a talune chiese cristiane e, dall’altro, solo tali lavoratori hanno diritto, se chiamati a lavorare in tale giorno festivo, a un’indennità per giorno festivo costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione, e – le misure previste da tale normativa nazionale non possono essere considerate né misure necessarie alla preservazione dei diritti e delle libertà altrui, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 5, di detta direttiva, né misure specifiche destinate a compensare svantaggi correlati alla religione, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della medesima direttiva. Sulla quarta questione. 70 Con la sua quarta questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso che, finché lo Stato membro interessato non abbia modificato, al fine di ripristinare la parità di trattamento, la propria normativa che concede il diritto a un giorno festivo il Venerdì santo solo ai lavoratori membri di talune chiese cristiane, un datore di lavoro privato soggetto a detta normativa abbia l’obbligo di accordare anche agli altri suoi lavoratori il diritto ad un giorno festivo il Venerdì santo e, di conseguenza, di riconoscere a questi ultimi, se sono chiamati a lavorare in tale giorno, il diritto a un’indennità per giorno festivo. 71 Dalla risposta fornita alle prime tre questioni deriva che la direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa osta a una differenza di trattamento fondata sulla religione, quale quella istituita dalle disposizioni di cui trattasi nel procedimento principale. 72 Occorre tuttavia rilevare, in primo luogo, che, secondo una giurisprudenza costante della Corte, una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un privato e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti. Infatti, estendere l’invocabilità di direttive non recepite, o non correttamente recepite, all’ambito dei rapporti tra privati equivarrebbe a riconoscere all’Unione il potere di istituire con
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effetto immediato obblighi a carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo qualora le sia attribuito il potere di adottare regolamenti (sentenza del 6 novembre 2018, Bauer e Willmeroth, C569/16 e C570/16, EU:C:2018:871, punto 76 e giurisprudenza ivi citata). 73 Così, una direttiva non può essere fatta valere in una controversia tra privati ai fini della disapplicazione della normativa di uno Stato membro contraria a tale direttiva (sentenza del 7 agosto 2018, Smith, C122/17, EU:C:2018:631, punto 44). 74 Tuttavia, occorre ricordare a tal riguardo, in secondo luogo, che spetta ai giudici nazionali, tenendo conto di tutte le norme del diritto nazionale e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, decidere se e in quale misura una disposizione nazionale possa essere interpretata conformemente alla direttiva 2000/78, senza procedere ad un’interpretazione contra legem di tale disposizione nazionale (sentenze del 17 aprile 2018, Egenberger, С-414/16, EU:C:2018:257, punto 71, e dell’11 settembre 2018, IR, C68/17, EU:C:2018:696, punto 63). 75 Nel caso in cui, come sembra emergere dalla decisione di rinvio, fosse impossibile al giudice del rinvio procedere a una siffatta interpretazione conforme, occorre precisare, in terzo luogo, che la direttiva 2000/78 non sancisce essa stessa il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il quale trova la sua fonte in diversi atti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, ma ha il solo obiettivo di stabilire, in queste stesse materie, un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate su diversi motivi, tra i quali la religione o le convinzioni personali, come risulta dal titolo e dall’articolo 1 della medesima (sentenze del 17 aprile 2018, Egenberger, C414/16, EU:C:2018:257, punto 75, e dell’11 settembre 2018, IR, C68/17, EU:C:2018:696, punto 67). 76 Il divieto di ogni discriminazione fondata sulla religione o le convinzioni personali riveste carattere imperativo in quanto principio generale del diritto dell’Unione. Sancito all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, tale divieto è di per sé sufficiente a conferire ai privati un diritto invocabile in quanto tale nell’ambito di una controversia che li vede opposti in un settore disciplinato dal diritto dell’Unione (sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger, C414/16, EU:C:2018:257, punto 76). 77 Riguardo all’effetto imperativo che esso esplica, l’articolo 21 della Carta non si distingue, in linea di principio, dalle diverse disposizioni dei trattati istitutivi che vietano le discriminazioni fondate su vari motivi, anche quando tali discriminazioni derivino da contratti conclusi tra privati (sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger, C414/16, EU:C:2018:257, punto 77). 78 Pertanto, qualora dovesse risultare che le disposizioni nazionali non possano essere interpretate
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in maniera conforme alla direttiva 2000/78, il giudice del rinvio sarebbe tuttavia tenuto ad assicurare la protezione giuridica derivante per i lavoratori dall’articolo 21 della Carta e a garantire la piena efficacia di tale articolo. 79 In quarto luogo, occorre rilevare che, in virtù di una giurisprudenza costante della Corte, quando una discriminazione, contraria al diritto dell’Unione, sia stata constatata e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il rispetto del principio di uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata. Le persone sfavorite devono dunque essere poste nella stessa situazione in cui si trovano le persone che beneficiano del vantaggio in questione (sentenza del 9 marzo 2017, Milkova, C406/15, EU:C:2017:198, punto 66 e giurisprudenza ivi citata). 80 In tale ipotesi, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e deve applicare ai componenti del gruppo sfavorito lo stesso regime che viene riservato alle persone dell’altra categoria. Tale obbligo incombe al giudice nazionale indipendentemente dall’esistenza, nel diritto interno, di disposizioni che gli attribuiscono la competenza al riguardo (sentenza del 9 marzo 2017, Milkova, C406/15, EU:C:2017:198, punto 67 e giurisprudenza ivi citata). 81 Tuttavia, tale soluzione è destinata a essere applicata soltanto in presenza di un sistema di riferimento valido (sentenza del 9 marzo 2017, Milkova, C406/15, EU:C:2017:198, punto 68 e giurisprudenza ivi citata). 82 Tale circostanza ricorre nel procedimento principale, per cui il regime applicabile ai membri delle chiese indicate nell’ARG rimane, in mancanza di corretta applicazione del diritto dell’Unione, il solo sistema di riferimento valido. 83 Pertanto, finché il legislatore nazionale non abbia adottato misure per il ripristino della parità di trattamento, spetta ai datori di lavoro assicurare ai lavoratori non appartenenti ad una di tali chiese un trattamento identico a quello che le disposizioni di cui trattasi nel procedimento principale riservano ai lavoratori appartenenti ad una di dette chiese. 84 Occorre sottolineare, a tal proposito, che dalla normativa nazionale pertinente emerge che questi ultimi lavoratori sono tenuti ad informare il loro datore di lavoro della propria appartenenza a una delle chiese indicate nell’ARG per consentire a quest’ultimo di prevedere la loro assenza il Venerdì santo. 85 Pertanto, finché non sia intervenuto alcun adeguamento legislativo, il datore di lavoro deve riconoscere, in virtù dell’articolo 21 della Carta, ai lavoratori non appartenenti ad alcuna di dette chiese il diritto a un giorno festivo il Venerdì santo purché tali lavoratori
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abbiano informato, prima di tale giorno, il loro datore di lavoro della loro intenzione di non lavorare detto giorno. 86 Ne consegue anche che un lavoratore non appartenente ad alcuna delle chiese indicate nell’ARG ha il diritto di ottenere il versamento, da parte del proprio datore di lavoro, dell’indennità prevista all’articolo 9, paragrafo 5, dell’ARG, qualora tale datore di lavoro non abbia accolto la sua richiesta di non dover lavorare tale giorno. 87 In quinto luogo, occorre ricordare che gli obblighi imposti ai datori di lavoro, come ricordati ai punti 85 e 86 della presente sentenza, valgono solo finché non siano state adottate dal legislatore nazionale misure che ripristinino la parità di trattamento. 88 Infatti, se è vero che gli Stati membri, conformemente all’articolo 16 della direttiva 2000/78, sono tenuti ad abrogare tutte le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie al principio della parità di trattamento, tale articolo non impone loro tuttavia di adottare determinati provvedimenti in caso di violazione del divieto di discriminazione ma lascia ai medesimi la libertà di scegliere, fra le varie soluzioni
atte a conseguire lo scopo che esso contempla, quella che appare la più adatta a tale effetto, in funzione delle situazioni che possono presentarsi (v., in tal senso, sentenza del 14 marzo 2018, Stollwitzer, C482/16, EU:C:2018:180, punti 28 e 30). 89 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla quarta questione dichiarando che l’articolo 21 della Carta deve essere interpretato nel senso che, finché lo Stato membro interessato non abbia modificato, al fine di ripristinare la parità di trattamento, la propria normativa che concede il diritto ad un giorno festivo il Venerdì santo solo ai lavoratori membri di talune chiese cristiane, un datore di lavoro privato soggetto a detta normativa ha l’obbligo di accordare anche agli altri suoi lavoratori il diritto a un giorno festivo il Venerdì santo, purché questi ultimi abbiano chiesto in anticipo a detto datore di lavoro di non dover lavorare quel giorno e, di conseguenza, di riconoscere a tali lavoratori il diritto ad un’indennità per giorno festivo, quando detto datore di lavoro non abbia accolto siffatta richiesta. Omissis.
I lavoratori italiani possono chiedere il riposo nel giorno di Indù Dipavali? Sommario : 1. La religione e la Corte di giustizia. – 2. Il concetto di giorno festivo e il nesso con le pratiche religiose. – 3. L’impossibilità di configurare una discriminazione per motivi religiosi nella legge austriaca. – 4. Le cautele insite in un approccio oggettivo all’identificazione delle discriminazioni.
Sinossi. Il contributo analizza criticamente le conclusioni, e le sottostanti argomentazioni, cui è giunta la Corte di Giustizia dell’Unione Europea in una recente sentenza in materia di discriminazione dei lavoratori fondata sulla religione. Secondo l’Autore è necessario distinguere il principio di parità di trattamento dal divieto di discriminazione previsto dalla disciplina comunitaria e nazionale degli Stati membri. Non può quindi essere considerata discriminatoria una disciplina nazionale in tema di festività religiose che non preveda la parità di trattamento.
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1. La religione e la Corte di giustizia. Ci si può chiedere se il Direttore di questa Rivista abbia pensato a me per commentare la sentenza perché non faccio mistero del mio integralismo cattolico, visto che si discute di una pretesa (e inesistente) discriminazione anche nei confronti dei cattolici austriaci, o perché non ho nascosto il mio dissenso (a volere essere benevoli) verso un’altra decisione della stessa Corte, sulla dichiarata (e inaccettabile) legittimità del divieto di indossare indumenti o simboli legati a ragioni di culto. Forse, è errato dare una lettura personale dei fatti giudiziali, ma è inevitabile, qualora si discuta dei valori etici e dei comportamenti ispirati a convinzioni religiose; mentre non vado neppure in sala operatoria senza il mio Crocifisso e di certo non andrei in un luogo di lavoro, considerando inaccettabile qualunque intromissione in simili condotte, non ho mai pensato di avere il diritto di godere di un riposo il Venerdì Santo . La pronuncia contiene una lunga serie di argomentazioni sorprendente, poiché, come premessa, si afferma: “come emerge dalla decisione di rinvio, la concessione di un giorno festivo il Venerdì Santo a un lavoratore appartenente a una delle Chiese indicate (…) non è subordinata alla condizione dell’adempimento, da parte del lavoratore, di un obbligo religioso determinato nel corso di tale giornata, ma è subordinata unicamente all’appartenenza formale di detto lavoratore a una di tali Chiese. Tale lavoratore resta pertanto libero di disporre a proprio piacimento, per esempio a fini di riposo o di svago, del periodo”1. Il tautologico ragionamento vale in ogni Stato europeo per qualunque giorno festivo, a cominciare da quello del Santo Natale, in cui la coincidenza fra la ricorrenza religiosa e quella civile facilita, ma non impone le pratiche di culto. Se, poi, in un Paese come l’Austria, per il Santo Natale vedono soddisfatti i loro desideri di partecipare alle celebrazioni sia i cristiani di altre convinzioni, sia i cattolici, il fenomeno ha ovvie spiegazioni storiche e dipende dalla complessiva coerenza nelle idee del popolo austriaco (nella sua componente credente e praticante), ma non può, né deve riguardare il datore di lavoro, tenuto solo a rispettare la legge, con l’indiretto aiuto alla frequenza alle celebrazioni, fermo l’ossequio alle tradizioni. La festa è istituto civile, per aiuti eventuali a pratiche di culto. In Italia e in Austria sarebbe avvertita come una pesante ingerenza nelle decisioni e nelle abitudini personali la rinuncia al riposo festivo del Santo Natale, con un sentimento di certo condiviso dalla stragrande maggioranza degli atei. Identici valori valgono per i cristiani di talune Chiese con riguardo al Venerdì Santo. Nella Repubblica di Germania, sono festivi sia l’8 dicembre (data irrilevante per i credenti luterani), sia il Venerdì Santo, ricorrenza non priva di significato, ma non così importante per i cattolici, i quali, anche in Italia, sono molto più interessanti al riposo in occasione della celebrazione dell’Immacolata Concezione. In Austria, di fronte a una proporzione diversa fra le varie Chiese cristiane e con una chiara minoranza di persone di quelle riformate, è festivo l’8 dicembre, ma per gli appartenenti alle Chiese evangeliche di confessio-
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Così si esprime la sentenza in esame.
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ne augustana ed elvetica, alla Chiesa vetero – cattolica e alla Chiesa evangelica metodista anche il Venerdì Santo è festivo, a fronte della loro dichiarazione di volere l’applicazione della norma2. Di buon senso, la scelta segue una logica maggioritaria e, per un verso, asseconda le idee e le tradizioni dei cattolici (in maggioranza), con la creazione di giorni festivi in quelli coerenti con le loro credenze (Ascensione, Pentecoste, giorno del Corpus Domini, Ognissanti, festa dell’Immacolata Concezione), per altro verso garantisce un giorno ulteriore di riposo a chi abbia diverse idee sulla necessità di apposite celebrazioni il Venerdì Santo (che è importante per i cattolici, ma sempre considerato compatibile con l’attività lavorativa).
2. Il concetto di giorno festivo e il nesso con le pratiche religiose.
Due aspetti sfuggono alla sentenza; per un verso, una persona vicina, se non altro per educazione, alle Chiese evangeliche di confessione augustana ed elvetica, alla Chiesa vetero – cattolica e alla Chiesa evangelica metodista può essere interessata a godere del riposo nonostante non pratichi e non sia credente, per esempio per ossequio alle tradizioni familiari. Vale lo stesso in Italia e, immagino, in Austria, e in qualunque Paese, per persone atee o scettiche, ma desiderose di ripetere quanto compiuto in diversi periodi della loro vita e, per esempio, di ricordare le abitudini della famiglia di origine. Per altro verso, per chi appartiene a Chiese cosiddette riformate o, comunque, differenti da quella cattolica può essere poco gradita una interruzione dell’attività produttiva l’8 dicembre e, a maggiore ragione, simili sentimenti valgono per gli imprenditori, i cui desideri non possono essere trascurati, qualora si discuta di temi morali individuali. In qualsiasi Paese, non solo europeo e di tradizione cristiana, l’identificazione dei giorni festivi deve rispondere a logiche di compromesso, per non ledere gli obbiettivi aziendali (del tutto trascurati nella motivazione) e facilitare pratiche di culto di chi le voglia compiere e, comunque, assecondare desideri di privilegiare il riposo e la considerazione per la famiglia. Nessuno Stato può garantire la festa in tutte le giornate sacre per qualunque confessione, per le inevitabili ripercussioni patrimoniali, e questa sarebbe una decisione irrazionale, poiché la protezione esasperata dei desideri dei dipendenti si tradurrebbe in una lesione inaccettabile delle iniziative economiche, senza alcuna giustificazione nell’utilità sociale. Per quanto sia indispensabile il rispetto per le convinzioni individuali, questo non si può tradurre nella moltiplicazione delle occasioni di riposo (numerose in Austria), salvo impedire il proficuo dispiegarsi delle attività produttive. Un modello analogo a quello austriaco è stato introdotto in Italia nelle intese con alcune confessioni, a cominciare da quella ebraica, poiché, ai sensi dell’art. 5 della l. n.
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V. art. 1 della Arbeitsruhgesetz n. 144 del 1983.
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101/1989, si può chiedere il riposo in alcune occasioni, compreso il sabato3, anche se “le ore lavorative non prestate il sabato sono recuperate la domenica o in altri giorni lavorativi senza diritto ad alcun compenso straordinario”4. Per quanto possa sembrare strano (e lo è), per la sentenza in esame un cattolico può domandare e avere diritto al riposo il giorno del Kippur, senza allegare alcunché sulle sue convinzioni e per la sola esistenza della possibilità concessa a una persona di religione ebraica5. Non vale obbiettare che il rischio di questo scivolamento verso il ridicolo (non avvertito dalla pronuncia, convinta di avere evitato una pericolosa discriminazione, a quanto pare di capire alla “rovescia”) è attenuato dal fatto che qualunque cristiano è consapevole del significato del Venerdì Santo (anche se agnostico o non praticante o scettico, per la sola sua educazione), mentre ignora per lo più in quale giorno cadano le festività ebraiche6, e lo stesso capita per quella denominata Indù “Dipavali”, “che rappresenta (…) la Vittoria della Luce sull’Oscurità (viene celebrata il giorno di luna nuova – amavasja – tra la seconda metà del mese di ottobre e la prima metà di novembre)”7. Tuttavia, secondo la Corte di giustizia, nei giorni nei quali, per esempio, cadono le festività induiste ed ebraiche, previa identificazione delle date e consultazione a tale fine della Gazzetta ufficiale, qualunque lavoratore italiano avrebbe diritto al riposo e a una maggiorazione retributiva nel caso nel quale, avendo chiesto di usufruirne, non lo ottenesse, poiché, così, presterebbe attività in un giorno festivo. Per la decisione, la disciplina austriaca (identica a talune intese e alle relative leggi italiane) “istituisce una differenza di trattamento fondata direttamente sulla religione”, perché “il criterio di differenziazione cui ricorre tale normativa deriva (…) dall’appartenenza (…) a una determinata religione”. Invece, perché si abbia il riposo il Venerdì Santo, basta richiamarsi alle Chiese evangeliche di confessione augustana ed elvetica, alla Chiesa vetero – cattolica e alla Chiesa evangelica metodista, ma non occorre né professare, né compiere atti di culto, e la festa può essere celebrata solo per ossequio alle tradizioni (come di sicuro accade per alcuni in Austria). Al contrario, la sentenza non si avvede della condizione singolare (e non sempre gradita) dei credenti di confessioni diverse da quella cattolica, costretti al riposo l’8 dicembre, sebbene possano preferire soluzioni opposte; poi, per gli induisti o per i buddisti, lo stesso Santo Natale non rappresenta alcunché e in questo senso si deve leggere, per i primi, il trattamento previsto nel nostro Paese per la festività Indù “Dipavali”8 o, per gli ebrei, quello riservato al Kippur e alle altre ricorrenze9. Tuttavia, per la decisione, “la situazione” di un lavoratore austriaco che si dichiari aderente alle Chiese evangeliche di
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Analogo principio è previsto dall’art. 17 della l. n. 516/1988, approvata sulla base dell’intesa conclusa tra la Repubblica italiana e l’Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del settimo giorno. V. artt. 4 e 5 della l. n. 101/1989. Sui diritti delle persone di religione ebraica in tema di riposo di sabato, v. Pret. Desio, 20 marzo 1992, in D&L, 1992, 533. Non a caso, ogni anno è compilato un calendario pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. V. l’art. 5 della l. n. 101/1989. V. l’art. 25 della l. n. 246/2012, sulla base dell’intesa conclusa tra la Repubblica italiana e l’Unione induista italiana, sanatana Dharma Samgha. V. l’art. 25 della l. n. 246/2012. V. l’art. 5 della l. n. 101/1989.
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confessione augustana ed elvetica, alla Chiesa vetero – cattolica e alla Chiesa evangelica metodista “non si differenzia (…) da quella degli altri lavoratori che desiderino disporre di un periodo di riposo o di svago un Venerdì Santo senza che possano (…) beneficiare di un giorno festivo corrispondente”; il giorno non è di semplice riposo, ma vi è l’ossequio a una tradizione cui, a prescindere dalla loro condizione di credenti o praticanti, si possono collegare solo persone con una specifica matrice culturale. In Italia la festività di Indù “Dipavali” è riconosciuta per assicurare il recupero delle energie psico – fisiche o per rispetto di chi è vicino alla confessione induista? Perché mai dovrebbe godere di una simile opportunità chi ha convinzioni del tutto diverse, non sa quando cada la festività e non ne conosce il significato? Il meccanismo della legge austriaca e delle intese italiane si presta ad abusi, a dire il vero solo teorici, almeno nel nostro Paese, poiché non vi sono precedenti di datori di lavoro desiderosi di reprimere comportamenti strumentali di loro dipendenti e non si ha ricordo di simili situazioni. Per altro verso e in modo più importante, la regolazione non lede l’interesse di chi appartenga a confessioni minoritarie, poiché tale parametro quantitativo non è irrilevante e non è gravatorio dichiarare la vicinanza con una Chiesa al fine di esercitare il diritto al riposo10.
3. L’impossibilità di configurare una discriminazione per
motivi religiosi nella legge austriaca.
Per la sentenza, in materia religiosa, nel diritto comunitario sarebbe introdotto un “principio di parità di trattamento”11, mentre tale conclusione non è convincente, e lo confermano tutti gli ordinamenti nazionali, i quali non prevedono mai come festività quelle di … qualunque confessione, ma quelle coerenti con la tradizione maggioritaria, sia nei Paesi cristiani, sia negli altri. Un “diritto fondamentale” alla “parità di trattamento” in materia religiosa non può esistere12, come ammesso in modo inevitabile dalla nostra Costituzione, e l’unico modo per realizzarlo (invero sciagurato) sarebbe … non di garantire il riposo il Venerdì Santo a chi non appartiene alle Chiese evangeliche di confessione augustana ed elvetica, alla Chiesa Vetero – cattolica e alla Chiesa evangelica metodista, ma di eliminare tutte le festività di matrice cristiana, a cominciare dal Santo Natale. Se non è possibile rendere di riposo tutti giorni di festa di qualunque confessione (perché non si lavorerebbe mai!), la parità di trattamento può essere realizzata solo in via negativa. La tutela della
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In modo paragonabile, e convincente, si è detto che “non può integrare causa giustificatrice del rifiuto di un magistrato di tenere udienza la mancata autorizzazione a esporre nelle aule giudiziarie, accanto al crocifisso, la menorah, simbolo della religione ebraica, poiché è necessaria una scelta discrezionale del legislatore che valuti una pluralità di profili, la quale allo stato non sussiste” (v. Cass., sez. un., 14 marzo 2011, n. 5924, in GI Rep., 2011). 11 Si dice nella sentenza in esame: “allo scopo di assicurare completa parità nella vita professionale, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure specifiche dirette a evitare o compensare svantaggi correlati” al fattore religioso. 12 Così si esprime la sentenza in esame.
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libertà religiosa non ha nulla a che vedere con la protezione dell’uguaglianza, come ammonisce la nostra Costituzione. Siamo disponibili a lavorare il 25 dicembre per garantire la parità di trattamento fra le confessioni, per esempio con … una rotazione nei giorni di riposo, di anno in anno, affinché, almeno qualche volta, tutti credenti siano tutelati, con la protezione di qualunque idea? Non lo siamo; quindi, la libertà religiosa non implica uguaglianza e lo sottolinea l’art. 8 cost., per cui la completa tutela della libertà non può comportare parità di trattamento, a maggiore ragione qualora, come nel caso di specie, ci si imbatta in questioni organizzative, per le quali il massimo rispetto nei confronti di qualsiasi convinzione e di ogni forma di culto non può permettere quella “parità” a torto invocata dalla pronuncia13, poiché inerente a un profilo non collegato in via diretta con la libertà di coscienza14, ma con implicazioni sull’equilibrio dei rapporti fra prestatori e datori di lavoro15. Per usare le espressioni del nostro ordinamento, proprio quando si discute di diritti a cui corrispondono risorse limitate e costi significativi, oltre tutto incidenti sulla sfera privata, si deve riconoscere che “l’uguale protezione della libertà delle religioni non esclude che si possa considerare in modo differente una confessione (…) in relazione alla diversa rilevanza nella comunità statale, sempre che la distinzione non implichi limitazione della libertà”16. Mentre il principio non può comportare una indebita interferenza con la sfera intima delle valutazioni individuali e con la loro manifestazione pubblica, se non lesiva delle esigenze altrui, con la conseguente infondatezza delle tesi espresse a proposito del velo delle donne islamiche17, lo stesso non si può dire quando le ordinarie esigenze produttive non consentano che alle festività cattoliche se ne aggiungano altre, senza una misura. Oltre tutto, non molto tempo fa, la necessità del nostro diritto è stata quella di contenere, certo non di aumentare le festività18. A riprova del fatto che le confessioni non possono avere uguale trattamento senza che, per un verso, si consideri il loro radicamento tradizionale in ciascun contesto nazionale
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Non a caso, nel nostro ordinamento, l’uguaglianza ha interferito con l’applicazione dell’art. 8 cost. quando il diverso trattamento ha comportato una lesione della libertà; v. C. cost., 9 luglio 2002, n. 327, in GI, 2003, 218. 14 Invece, a proposito dei “principi fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 cost.) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 cost.), nonché del “principio supremo” di laicità, che caratterizza in senso pluralistico la forma del nostro Stato, l’atteggiamento di questo ultimo non equidistante e imparziale nei confronti di tutte le confessioni religiose e la mancanza di parità nella protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza”, v. C. cost., 20 novembre 2000, n. 508, in DPP, 2000, 1588. 15 A proposito dell’art. 8 cost., in materia tributaria, si è sostenuto che “il rispetto o la violazione del principio di uguaglianza in materia religiosa da parte delle norme statali (valutazione che presuppone un raffronto tra discipline che coinvolgono disposizioni, alcune delle quali inserite in complessi normativi distinti e diversi per contenuti, aventi base in accordi o intese tra lo Stato e le confessioni religiose) devono” essere valutati con considerazione per “le distinte discipline dei soggetti destinatari di quella normativa, dove la distinzione è conseguenza del sistema di regolamentazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose voluto dalla Costituzione”, così che, “mentre agli istituti per il sostentamento del clero si deve riconoscere la natura di enti strumentali ad hoc della Chiesa cattolica, con personalità giuridica nell’ordinamento dello Stato, le comunità ebraiche sono, innanzi tutto, comunità sociali che organizzano ed esprimono l’insieme degli interessi religiosi, culturali e assistenziali qualificanti la loro identità” (v. C. cost., 15 luglio 1997, n. 235, in GC, 1997, I, 2688). 16 V. C. cost., 31 maggio 1965, n. 39, in FI, 1961, II, 185. 17 V.: C. giust., grande sez., 14 marzo 2001, causa C-157/15, Signora Samira Achbita e Centrum voor gelijkheid van sanse en voor racismebestrijding c. G4S Secure Solutions Nv., cit.. 18 V. Cass., 28 agosto 2014, n. 18425, in GI. Rep., 2014, sullo spirito della l. n. 54/1977.
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e, per altro verso, si valutino la loro consistenza e la loro capacità di fare presa sulla pubblica opinione, se mai i lavoratori italiani cercassero di trarre vantaggio strumentale dalle insostenibili tesi della sentenza e dichiarassero di volere godere del riposo nei giorni dedicati alle ricorrenze ebraiche o induiste, sulla base della disciplina italiana, simile, se non identica a quella austriaca censurata, l’unico plausibile risultato sarebbe la modificazione delle intese e delle connesse e derivate discipline, poiché non si potrebbero in alcun caso aggiungere alle festività cattoliche quelle di altre confessioni; il numero complessivo dei giorni festivi è contenuto ed è stato abbassato in modo sensibile nel 1977. Se applicata in modo capillare, la decisione non creerebbe affatto una più accentuata uguaglianza, ma, almeno in Italia, comporterebbe una deprecabile e inevitabile lesione della libertà di ebrei e induisti, i quali non si potrebbero più avvalere delle attuali opportunità, che non sopravviverebbero al riconoscimento del diritto al riposo a chi non appartiene a tali Chiese. Fatti diversi dal punto di vista oggettivo non possono essere regolati in modo uguale e l’oblio di tale basilare canone di civiltà porta a un disordine foriero di conseguenze negative per l’intero ordinamento. Non a caso, si è detto, “il tempo libero è da ritenersi tale, nel diritto del lavoro, nel senso che è tempo garantito alla persona del lavoratore per lo sviluppo della sua personalità, e non tempo vuoto: è tempo per l’esercizio di diritti fondamentali, e non mera assenza di obbligo. Si tratta quindi di indagare un tempo che è un tempo residuale, un tempo altro, di divertimento (con un recupero della derivazione etimologica del divertire), e però anche un tempo di promozione della persona”19. Simili indicazioni sono state dimenticate dalla pronuncia, attenta solo al trattamento differenziale di alcuni; proprio per questa sua dimensione etica e relazionale, il “tempo libero” non è illimitato, ma, per un verso, deve essere collegato alle necessità della produzione e, per altro verso, deve essere riconosciuto con la considerazione di esigenze settoriali, ma con strumenti attenti a tale loro connotazione. Se “l’applicazione della categoria del diritto soggettivo al tempo libero costituzionalmente riconosciuto necessita di alcune modulazioni, dovute al fatto che sul modello di fondo del diritto soggettivo di credito l’obbligo del datore di lasciare riposare il lavoratore si caratterizza per due modalità strutturali e parallele”, perché “il contenuto del tempo libero è un riflesso negativo di un limite temporale di estensione della obbligazione lavorativa” e in quanto “questa obbligazione talvolta richiede per l’adempimento l’esercizio di un potere, in particolare del potere datoriale di individuazione della collocazione del tempo libero”20, è ingenuo e, si consenta, approssimativo sul piano teorico pensare che la soluzione dei problemi religiosi sia la somma delle feste di ciascuna confessione, poiché l’opposta strategia è l’unica in grado di tutelare le minoranze, destinate a una inevitabile soccombenza se non si accettano forme di protezione selettive. Ciò non è compreso dalla pronuncia, per cui le disposizioni austriache “istituiscono una differenza di trattamento
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V. Occhino, Il tempo libero nel diritto del lavoro, Giappichelli, 2010, 19 ss. V. Occhino, Il tempo libero nel diritto del lavoro, cit., 49 ss.
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tra lavoratori, confrontati a obblighi religiosi paragonabili, che non garantisce, per quanto possibile, il principio di uguaglianza”21.
4. Le cautele insite in un approccio oggettivo all’identificazione delle discriminazioni.
La disciplina antidiscriminatoria non protegge affatto la parità di trattamento, né in generale, né con riguardo agli interessi delle confessioni religiose. Soprattutto sulla scorta delle fonti europee22, prevale ormai la lettura oggettiva della discriminazione e si prescinde dall’intento dell’autore, con una analisi degli effetti degli atti e del loro impatto sulla lesione degli interessi protetti23. È sopravvalutata la distinzione fra la concezione soggettiva e quella oggettiva24, poiché, anche quando dominava la prima, si doveva concludere che, poiché l’obbiettivo psichico del datore di lavoro è confinato nel suo animo, esso è indimostrabile e non è conoscibile in via diretta, e l’inevitabile ricorso a un ragionamento presuntivo riportava comunque l’analisi sul piano dei comportamenti, gli unici noti e chiamati a sorreggere qualunque sindacato giudiziale. Per quanto molte decisioni del passato si riferissero alla volontà25, in ossequio alla tesi tradizionale di matrice soggettiva, poi il caso era risolto sulla base degli eventi, se non altro perché potevano essere provati, affinché svelassero la complessiva condotta aziendale26. Il contesto non è molto cambiato ora, quando si propende per la tesi oggettiva27, poiché, ancora una volta, se si guarda alle conseguenze dell’iniziativa imprenditoriale28, si cerca la sua coerenza, per lo più con un paragone rispetto a situazioni simili, perché si possa stabilire se vi sia stato un trattamento deteriore, collegabile ai fattori protetti29. Lo si ricava da una recente ordinanza, con un principio di rilievo più generale, per cui, “qualora il trasferimento riguardi una lavoratrice che svolga mansioni espletate anche da colleghi, possibili destinatari dello stesso provvedimento, il datore di lavoro deve scegliere secondo buona fede, soprattutto qualora la dipendente (…) sia appena rientrata da una assenza per maternità”30. L’incoerenza del comportamento e la presenza di altri prestatori di opere, di sesso maschile, in condizioni analoghe, hanno fatto emergere non solo l’irrazionalità
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Così si esprime la sentenza in esame. V. Elorza Guerrero, Despido y prueba de la discriminaciòn indirecta por razòn de sexo, in Tema laborales, 2010, n. 103, 247 ss.. 23 V. Ballestrero, Tra discriminazione e motivo illecito: il percorso accidentato della reintegrazione, in DLRI, 2016, 231 ss. 24 V. Ballestrero, Riflessioni in tema di eguaglianza e discriminazioni, in Studi in onore di Giorgio Ghezzi, Cedam, 2005, vol. I, 217 ss.; Izzi, Discriminazione senza comparazione? Appunti sulle direttive comunitaria di “seconda generazione”, in DLRI, 2003, 413 ss.; in senso diverso, v. Barbera, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio, ibid., 2003, 399 ss. 25 V. Cass. 26 aprile 2016, n. 8248, in www.dirittolavorovariazioni. 26 V. Pessi, Lavoro e discriminazione femminile, in DLRI, 1994, 413 ss. 27 V. Serra Cristòbal, La discriminaciòn indirecta por razòn de sexo, in Ridaura Martìnez - Aznar Gomez, Discriminaciòn versus diferenciaciòn, Tirant lo Blanch, 2004, 371 ss. 28 V. Rodrìguez Pinero-Fernàndez Lòpez, Igualdad y discriminaciòn, Tecnos, 1986, 15 ss. 29 V. Fernàndez Lòpez, La tutela laboral frente a la discriminaciòn por razòn de género, La Ley-Wolters Kluwer, 2008, 163 ss. 30 V. Trib. Vicenza, 13 febbraio 2018, ord., in www.dirittolavorovariazioni.com. 22
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della selezione, ma la sua riconducibilità al fattore protetto31. Però, la soluzione lineare della pronuncia è stata possibile poiché vi era un termine di paragone. Se si dimenticano questi profili oggettivi di delimitazione del problema, vi è il rischio di fare derivare dalla protezione antidiscriminatoria un astratto principio di complessiva parità di trattamento. Al contrario, almeno in questo caso32, sono di aiuto le decisioni della Corte di giustizia33, per cui la differenza deve intercorrere rispetto alla condizione di un lavoratore comparabile34, anche solo ipotetico, posto in posizione analoga35, da individuare nella stessa organizzazione produttiva36. Nell’ipotesi considerata, il lavoratore di una confessione minoritaria era in una condizione non comparabile, non tanto perché fosse l’unico ad avere interesse a un giorno di riposo in più, ma in quanto, ammessa l’importanza della festa per le sue convinzioni, con una disciplina frutto della discrezionalità del legislatore, non vi era un altro percorso che consentisse la protezione della sua aspettativa. Quindi, oltre al prudente apprezzamento del singolo ordinamento e, per l’Italia, del Governo nella stipulazione delle intese, ai sensi dell’art. 8 cost., non vi sono altri credibili candidati a mediare fra la difesa delle ragioni della produzione e la valorizzazione dei desideri delle singole comunità, con considerazione per la consistenza di quelle comunque minoritarie. Se non attraverso una procedura, come quella dell’art. 8 cost., la difesa delle esigenze delle confessioni non ha prospettiva, tanto meno nel riconoscimento di un inesistente diritto alla parità di trattamento. Il risultato sarebbe di confondere effettive discriminazioni con una impossibile uguaglianza, più ingiusta, se imposta, perché metterebbe sullo stesso piano situazioni di fatto differenti e provocherebbe una pericolosa rincorsa verso il peggioramento delle posizioni delle minoranze e la lesione della loro libertà. Chi, se non gli induisti, meritevoli di ogni protezione possibile a opera del nostro ordinamento, risentirebbe di un massiccio esercizio da parte dei lavoratori italiani del preteso diritto loro riconosciuto dalla sentenza? Se tutti volessero il riposo per il giorno di Indù – Dipavali e chiedessero la maggiorazione retributiva, quale conseguenza si profilerebbe (oltre tutto, nell’immediato) se non la modificazione dell’intesa conclusa dal nostro Governo, nonostante, in vigore da vari anni, non abbia creato alcun problema noto37? Enrico Gragnoli
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Ancora una volta, il caso sarebbe stato risolto allo stesso modo a prescindere dal fatto che si aderisca alla tesi soggettiva o oggettiva della discriminazione, poiché le stesse connotazioni di irrazionalità della decisione del datore di lavoro renderebbero dimostrato il trattamento deteriore o, sempre in via presuntiva, l’intento di arrecare pregiudizio alla donna, senza sostanziali differenze. 32 V. Peruzzi, La prova del licenziamento ingiustificato discriminatorio, Giappichelli, 2017, 164 ss. 33 V. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro. Nozione, interessi, tutele, Cedam, 2010, 338 ss. 34 V. Amoroso, La giurisprudenza di legittimità in tema di discriminazione di genere e pari opportunità, in ADL, 2013, 1360 ss. 35 V. C. giust., 13 gennaio 2004, causa C-256/01, Allonby; C. giust. 17 settembre 2002, causa C-320/00, Lawrence. 36 V. C. giust., 6 aprile 2000, causa C-226/98, Jorgensen; C. giust., 17 luglio 2008, causa C-303/06, Coleman; C. giust., 21 luglio 2011, causa C-104/10, Kelly. 37 Per un punto di vista paragonabile, v. Olivieri, Discriminazioni di genere e tutela del desiderio: l’uguaglianza a tutti i costi e i costi dell’uguaglianza, di prossima pubblicazione su DRI, 2019.
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Giurisprudenza C orte di C assazione , sentenza 27 settembre 2018, n. 23338; Pres. Di Cerbo - Rel. Ponterio L. A. (avv. Vallebona) c. INTERFARMA S.C.A.R.L. (avv. Maresca). Rigetta il ricorso avverso App. Roma sent. n. 3765/2016 Licenziamenti – Licenziamento discriminatorio – Fattispecie – Licenziamento per motivo illecito – Distinzione fra le figure – Sussistenza.
Il licenziamento discriminatorio è figura autonoma rispetto al licenziamento intimato per motivo illecito in quanto la discriminazione opera obiettivamente, a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. Licenziamenti – Licenziamento discriminatorio – Giusta causa o giustificato motivo – Concorso – Nullità del licenziamento – Sussistenza – Licenziamento per motivo illecito – Giusta causa o giustificato motivo – Concorso – Nullità del licenziamento – Insussistenza.
Mentre il motivo illecito è causa di nullità del licenziamento solo quando ha carattere esclusivo e determinante, sicché la nullità deve essere esclusa quando con lo stesso concorra, nella determinazione del licenziamento, una giusta causa o un giustificato motivo, al contrario la raggiunta prova sulla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo non vale ad elidere automaticamente il carattere discriminatorio del recesso. Licenziamenti – Licenziamento discriminatorio – Onere della prova – Agevolazione rispetto al regime ordinario – Portata generale.
L’alleggerimento del carico probatorio a favore dell’attore che alleghi e dimostri circostanze da cui desumere la discriminazione, con inversione dell’onere (per cui il datore convenuto dovrà dimostrare l’insussistenza della discriminazione), ha portata generale, mancando elementi per ritenere che tale agevolazione sia applicabile solo all’azione speciale. Licenziamenti – Licenziamento discriminatorio – Tassatività dei fattori discriminatori – Lavoratrice affetta da patologia grave – Discriminatorietà – Sussistenza – Patologia grave – Fattore dell’handicap – Riconducibilità.
Sulla scorta dell’orientamento della Corte di Giustizia, esiste una assoluta autonomia del concetto di handicap, quale fattore di discriminazione, rispetto all’accertamento della condizione di handicap di cui alla l. n. 104 del 1992.
Omissis. Fatti di causa 1. La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 3765 pubblicata il 27.6.16, in accoglimento del reclamo principale proposto da Interfarma s.c.a.r.l. e in totale riforma della sentenza di primo grado, ha respinto le domande della ricorrente volte alla declaratoria di nullità e, in subordine, di illegittimità o inefficacia del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato
con lettera del 20.5.2013, ed ha dichiarato assorbito il reclamo incidentale della lavoratrice. 2. La Corte territoriale ha premesso in fatto che: - la lavoratrice era dipendente della società dal 1996, inquadrata fino al 2008 nel livello 2^ e poi nel livello 3^, unica addetta al settore amministrativo fino al 2009, quando era stata affiancata da un’altra dipendente, sig.ra S.; - dal marzo 2012 la ricorrente era stata costretta ad assentarsi dal lavoro per una grave patologia, fino al
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maggio 2013; con e.mail del 2.5.2013 aveva annunciato al Dott. Le., legale rappresentante della società, la ripresa del lavoro a far data dal 13.5.2013; - tale ripresa era stata differita dalla società per una derattizzazione in corso presso la sede e con e-mail del 16.5.2013 la lavoratrice era stata convocata per un colloquio fissato per il giorno 20.5.2013; - all’esito del colloquio, registrato dalla dipendente, la società aveva comunicato il recesso dal rapporto di lavoro con effetto immediato e riconoscimento dell’indennità sostitutiva del preavviso; - nella lettera di licenziamento la società aveva spiegato che la decisione si era resa necessaria per “il calo di lavoro considerevole, con relativo decremento degli introiti, che (ci) impone un’indispensabile riduzione dei costi... e soppressione del suo posto di lavoro. Conoscendo la struttura sa anche che non abbiamo possibilità di poterla ricollocare in altra mansione”; - il Tribunale, all’esito della fase sommaria, aveva accolto il ricorso della lavoratrice dichiarando nullo il licenziamento perchè determinato da motivo illecito unico e determinante ed aveva poi respinto, nella fase successiva, l’opposizione proposta dalla società; 3. La Corte d’appello ha precisato, in diritto, richiamando la sentenza Cass. n. 6575 del 2016, come il licenziamento discriminatorio prescindesse dall’esistenza di un motivo illecito determinante e come la natura discriminatoria non potesse essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico. 4. Ha ribadito come incombesse sulla lavoratrice l’onere di prova, anche attraverso presunzioni, della natura discriminatoria del recesso. 5. Ha ritenuto rilevante l’indagine sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento ai fini della prova presuntiva della discriminazione, potendo l’esistenza di una ragione economica indebolire, senza ovviamente eliderla, la natura discriminatoria laddove l’inesistenza di ragioni oggettive potrebbe costituire elemento indiziario della discriminazione stessa. 6. Ha ritenuto integrato il giustificato motivo oggettivo di licenziamento in ragione delle notevoli perdite risultanti dai bilanci relativi agli anni 2011 e 2012, del carattere duraturo e non contingente della crisi economica, della diretta incidenza di tale condizione di crisi sulla decisione di recesso adottata dalla società, appena possibile e quindi in coincidenza con la fine del periodo di assenza per malattia della lavoratrice, della mancata assunzione di altri dipendenti dopo il recesso, essendosi stabilmente ridotto l’organico ad una unità. 7. La Corte territoriale ha escluso che la natura discriminatoria potesse desumersi dalla scelta della reclamata, quale dipendente da licenziare, atteso che, dato l’organico di due unità, sussisteva un divieto di recesso nei confronti dell’altra dipendente, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 9, per avere la stessa avuto in affidamento un bambino in data 23.7.2012, e
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la reclamata non era all’epoca in condizioni di handicap grave, riconosciuto in data 23.12.2013. 8. Ha ritenuto che non potessero costituire indici di discriminazione l’addestramento impartito dalla sig. ra L. alla collega S. prima dell’assenza per malattia o l’invito rivolto alla L. dal datore di prolungare il periodo di comporto, trattandosi di condotte logicamente spiegabili, la prima in base all’esigenza di corretto funzionamento dell’ufficio in assenza della L. e la seconda col tentativo di andare incontro alle difficoltà della dipendente rispetto alla decisione aziendale di recesso. 9. Parimenti poco significativi, anche se globalmente considerati, apparivano il rinvio della ripresa del lavoro motivato dalla derattizzazione in corso, il tentativo di evitare il contenzioso ed anche il contenuto del colloquio del 20.5.2013, registrato dalla dipendente e ritenuto utilizzabile dalla Corte d’appello e che confermava l’esigenza primaria della società di far fronte ai problemi economici. 10. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la sig.ra L., affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso la società. 11. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. Diritto Ragioni della decisione Omissis. 8. Col secondo motivo la lavoratrice ha dedotto violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3,per avere la sentenza impugnata erroneamente affermato l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. 9. Ha sottolineato l’inidoneità di una crisi risalente, come nel caso di specie al 2011, ad integrare le ragioni di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3. 10. Il motivo non può trovare accoglimento. 11. Come più volte affermato da questa Corte, la L. n. 604 del 1966, art. 3, definendo il giustificato motivo oggettivo di licenziamento attraverso le “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, configura una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa. 12. Le specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica, e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (cfr. Cass. n. 2901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012), mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici o giuridici.
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13. La Corte d’appello si è attenuta ai principi, ribaditi anche di recente da questa Corte, secondo cui, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, occorre che le “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, che devono essere poste esplicitamente a base della decisione di recesso, determinino causalmente un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo aziendale da cui derivi la soppressione di una individuata posizione lavorativa, (cfr. Cass. n. 13015 del 2017; Cass. n. 10699 del 2017; Cass. n. 4015 del 2017; Cass. n. 25201 del 2016); 14. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha ritenuto che fossero dimostrate le notevoli perdite economiche, tali da rendere necessario un intervento riorganizzativo concretizzatosi nella riduzione dell’organico aziendale da due ad una unità amministrativa. Ha escluso che la situazione di crisi economica, posta a base del ridimensionamento aziendale, avesse carattere risalente atteso che, al contrario, i dati risultanti dal bilancio 2011 e quelli ancora peggiori del bilancio 2012, rivelavano il carattere non transeunte della contrazione degli affari. Ha sottolineato come la società avesse atteso, per intimare il licenziamento, la fine dell’assenza per malattia della dipendente e come nessuna assunzione fosse stata effettuata dopo il recesso, confermandosi la adeguatezza della consistenza del personale come pari ad una unità. 15. La sentenza impugnata si è attenuta ai canoni normativi sopra enunciati e, con motivazione corretta dal punto di vista logico e giuridico, ha ritenuto assolto l’onere di prova della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di recesso. 16. Col terzo motivo di ricorso la lavoratrice ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 1345 e 2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., L. n. 300 del 1970, artt. 15 e 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, D.Lgs. n. 216 del 2003, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza erroneamente affermato l’inesistenza di un motivo illecito determinante e della discriminazione per handicap riguardo al licenziamento intimato alla dipendente. 17. Ha argomentato come l’insussistenza del giustificato motivo oggetto, di cui al precedente motivo di ricorso, costituisse indizio della discriminazione. 18. Ha denunciato come erronea in diritto la valutazione operata dalla Corte territoriale per non aver ravvisato negli elementi di fatto analizzati, e specificamente riportati a pagina 22 del ricorso, e nella loro scansione temporale (valorizzata dai giudici di primo grado) indizi gravi, precisi e concordanti del motivo illecito determinante del licenziamento o del carattere discriminatorio dello stesso. 19. Ha censurato la valutazione operata dalla Corte d’appello sui singoli elementi indiziari e sulla loro valenza complessiva, sottolineando: la rilevanza della condizione di malattia della lavoratrice, a prescindere dal
riconoscimento dello stato di handicap grave; la richiesta datoriale alla L. di addestramento della collega S. prima della prolungata assenza; la conoscenza che la società aveva avuto della necessità della L., una volta rientrata in servizio, di assentarsi frequentemente per cure e controlli; il differimento della ripresa del lavoro per derattizzazione; l’accenno, nel colloquio registrato, al maggior costo della L. rispetto all’altra dipendente; l’invito datoriale a prolungare la malattia per la durata del comporto. 20. Ha richiamato la normativa interna e sovranazionale, in particolare la direttiva Europea n. 2000/78, la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, la decisione dell’Unione n. 48 del 2010 di approvazione della Convenzione Onu, nonchè la giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte di Cassazione ed il regime probatorio agevolato in materia di tutela antidiscriminatoria, argomentando l’errore in diritto della Corte territoriale nell’esclusione della natura discriminatoria per handicap del licenziamento intimato alla controricorrente. 21. Devi premettersi che, sebbene l’ordinanza pronunciata all’esito della fase sommaria e la sentenza d’opposizione avessero dichiarato la nullità del licenziamento per motivo illecito determinante, la Corte d’appello ha correttamente esaminato anche le censure relative al carattere discriminatorio del recesso, riproposte dalla lavoratrice nella memoria di costituzione in sede di reclamo, come si desume da pag. 14 della sentenza d’appello. 22. Non era necessaria la proposizione di un reclamo incidentale essendo risultata la lavoratrice pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, (cfr. Cass. n. 2091 del 2018; Cass. n. 24124 del 2016; Cass. n. 24021 del 2010; Cass. n. 14267 del 1999). 23. Deve ancora precisarsi come il rigetto del secondo motivo di ricorso per cassazione, quindi la conferma della statuizione sulla sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, porti a ritenere infondata la censura di erronea esclusione del motivo illecito determinante. 24. Questa Corte ha difatti affermato che il motivo illecito è causa di nullità del licenziamento solo quando ha carattere esclusivo e determinante, sicchè la nullità deve essere esclusa quando con lo stesso concorra, nella determinazione del licenziamento, una giusta causa o un giustificato motivo, (cfr. Cass. n. 12349 del 2003); a proposito del motivo ritorsivo ha ribadito come esso determini la nullità del licenziamento quando sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni, (cfr. Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 17087 del 2011; Cass. n. 6282 del 2011; Cass. n. 16155 del 2009). 25. Quanto al licenziamento discriminatorio, del tutto infondati sono i rilievi della società sull’improprio riferimento all’handicap nella fattispecie in esame. 26. La sentenza emessa in sede di reclamo, all’esito di un approfondito esame, ha ritenuto che non fossero
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configurabili indizi di discriminatorietà “nè in relazione allo stato patologico della ricorrente nè, in ipotesi, al suo vissuto professionale o alla sua condotta personale”. 27. Lo stato patologico della lavoratrice, quindi la malattia da cui la stessa era risultata affetta, è stato specificamente esaminato quale possibile fattore di discriminazione. Dato il carattere nominato dei fattori di discriminazione, la condizione di malattia può rilevare unicamente attraverso la nozione di handicap. 28. È chiaro che il fattore di discriminazione invocato è costituito dalla condizione di malattia/handicap della lavoratrice, utilizzata dai giudici di primo grado ai fini del motivo illecito determinante, cioè della volontà datoriale di disfarsi della dipendente che avrebbe avuto necessità di assentarsi frequentemente dal lavoro per cure e controlli, e presa in esame dalla Corte d’appello. 29. La Direttiva n. 2000/78, attuata in Italia dal D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, ha disposto l’applicazione del principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, che includono anche le condizioni di licenziamento, a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato, garantendone la tutela giurisdizionale. 30. Sul punto, questa Corte (Cass. n. 6798 del 2018; Cass. n. 17867 del 2016) ha richiamato l’interpretazione consolidata della Corte di Giustizia che, sulla base anche della ratifica da parte della Unione Europea (con decisione 2010/48) della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) del 2006, ha definito la nozione di handicap, ai sensi della direttiva, nel senso di “una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42). 31. Sulla base di tali premesse, deve rilevarsi l’assoluta autonomia del concetto di handicap, quale fattore di discriminazione, rispetto all’accertamento della condizione di handicap grave di cui alla L. n. 104 del 1992, nel caso di specie risalente ad epoca successiva al licenziamento. 32. Nell’esaminare il licenziamento discriminatorio (per handicap), la Corte territoriale si è uniformata ai principi espressi dalla più recente giurisprudenza di legittimità, espressamente richiamata (Cass. n. 6575 del 2016). 33. In particolare, ha ribadito l’autonomia del licenziamento discriminatorio da quello intimato per motivo illecito determinante ed ha adottato una nozione oggettiva di discriminazione in linea con quanto statuito da questa Corte secondo cui la discriminazione “opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del
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trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro”. 34. Posta la nozione oggettiva di discriminazione, la Corte di merito ha esaminato il problema della concorrenza dell’effetto discriminatorio con altre finalità legittime ed ha puntualizzato come la prova, nel caso di specie raggiunta, sulla sussistenza di un giustificato motivo oggettivo non valesse ad elidere automaticamente il carattere discriminatorio del recesso. 35. Quanto al regime probatorio, la Corte territoriale ha escluso che “la dedotta natura discriminatoria del recesso possa implicare una inversione dell’onere della prova” ed ha affermato che “incombe sulla ricorrente l’onere di provare, quanto meno attraverso presunzioni gravi e rilevanti, la natura discriminatoria del licenziamento”. 36. In punto di diritto, sono necessarie al riguardo alcune precisazioni. 37. Questa Corte ha già affermato come le direttive in materia (n. 2000/78, così come le nn. 2006/54 e 2000/43), come interpretate della Corte di Giustizia, ed i decreti legislativi di recepimento impongano l’introduzione di un meccanismo di agevolazione probatoria o alleggerimento del carico probatorio gravante sull’attore “prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della discriminazione”, (cfr. Cass. n. 14206 del 2013, in materia di discriminazione di genere), con l’ulteriore precisazione che “nulla... autorizza a ritenere il suddetto regime probatorio applicabile solo all’azione speciale e, del resto, una interpretazione in senso così limitativo confliggerebbe con i principi posti dal legislatore comunitario”. 38. L’agevolazione probatoria in tanto può realizzarsi in quanto l’inversione dell’onere venga a situarsi in un punto del ragionamento presuntivo anteriore rispetto alla sua completa realizzazione secondo i canoni di cui all’art. 2729 c.c., finendosi altrimenti per porre a carico di chi agisce l’onere di una prova piena del fatto discriminatorio, ancorchè raggiunta per via presuntiva. 39. Sulla base di tali premesse, deve rettificarsi in diritto l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, nella parte in cui l’onere di prova posto a carico della lavoratrice è stato definito attraverso il richiamo integrale ai canoni dell’art. 2729 c.c., senza tener conto del descritto criterio di agevolazione che si esprime in una diversa ripartizione degli oneri di allegazione e prova: il lavoratore deve provare il fattore di rischio, il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghi e non portatori del fattore di rischio, deducendo una correlazione significativa fra questi elementi che rende plausibile la discriminazione; il datore dei lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravi-
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tà e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione, (cfr. Cass. n. 14206/13 coerente con le indicazioni espresse dalla Corte di Giustizia 17.7.08, C303/06 Colemann, 10.7.08 C-54/07 Feryn, 16.7.15 C- 83/14 Chez). 40. La valutazione in concreto operata dalla Corte territoriale non merita, tuttavia, le censure mosse da parte ricorrente. 41. La Corte territoriale, di fronte al licenziamento della L. prospettato come trattamento discriminatorio legato alla condizione di malattia/handicap, ha analizzato singolarmente ed unitariamente gli elementi fattuali addotti dalla lavoratrice (la prevedibilità di numerose assenze dal lavoro della dipendente per controlli dello stato di salute, cicli di terapie ecc.; l’addestramento della collega S., richiesto alla sig.ra L. prima del lungo periodo di assenza; il differimento della ripresa del servizio, motivato dalla derattizzazione in corso, mai dimostrata; la sollecitazione alla dipendente di prolungare l’assenza per malattia; il riferimento nel colloquio registrato al maggior costo per la società della L. rispetto alla collega S., la scansione temporale tra i vari elementi) e, con motivazione logica e coerente, ha escluso la valenza significativa degli stessi ai fini della natura discriminatoria del recesso, e, comunque,
ha dato atto di come il datore di lavoro avesse provato circostanze idonee ad escludere in radice l’effetto discriminatorio; in particolare la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, quindi la necessità di riduzione di una unità di personale, e la scelta necessitata della L. quale persona da licenziare in ragione del divieto di recesso nei confronti dell’unica altra dipendente in forza, la sig.ra S., ai sensi del D. Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 9, per avere la stessa avuto in affidamento un bambino il 23.7.2012. 42. Ha quindi correttamente ritenuto non integrata la prova del nesso causale tra il licenziamento e il dedotto fattore di discriminazione. 43. In base alle considerazioni svolte, il ricorso deve essere respinto. 44. Il diverso esito dei giudizi di merito e la complessità di sistemazione teorica delle questioni trattate, costituiscono gravi ed eccezionali ragioni ai fini della integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità. 45. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. PQM La Corte rigetta il ricorso. Omissis
Licenziamento discriminatorio: fattispecie, fattori discriminatori e onere della prova. La Cassazione mette ordine Sommario : 1. Premessa: i fatti di causa e le questioni di interesse. – 2. Il rapporto tra i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito, nonché tra questi e il licenziamento giustificato. – 3. Il rapporto tra fattori discriminatori: malattia versus handicap. – 4. Il rapporto tra regimi probatori: onus probandi ordinario versus carico della prova agevolato. – 5. Conclusioni: una pronuncia non solo condivisibile ma anche opportuna.
Sinossi. Il commento si sofferma su quella parte della pronuncia della Corte di Cassazione che affronta – e chiarisce – alcune questioni di non scarso rilievo in materia di licenziamento discriminatorio, quali i confini della fattispecie (e, in particolare, il rapporto con il licenziamento
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per motivo illecito, nonché la relazione esistente tra le figure del licenziamento discriminatorio e per motivo illecito ed il licenziamento giustificato); la malattia come possibile fattore discriminatorio e, infine, il regime probatorio applicabile. L’A. sottolinea come le statuizioni della Corte appaiano non solo condivisibili ma anche opportune viste le contraddizioni che ancora circondano la figura in parola.
1. Premessa: i fatti di causa e le questioni di interesse. Nel 2013 una società licenzia una delle sue due addette al settore amministrativo appena rientrata in servizio dopo un lungo periodo di assenza per malattia. L’atto datoriale viene motivato adducendo un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ai sensi dell’art. 3 l. n. 604/1966 derivante, da un lato, dall’esigenza di sopprimere il posto a causa di un «calo di lavoro considerevole, con relativo decremento degli introiti [tale da imporre …] un’indispensabile riduzione dei costi» e, dall’altro, dall’«impossibilità di ricolloc[are la dipendente] in altra mansione». La lavoratrice impugna il recesso adducendone l’illiceità. Per la ricorrente, infatti, la ragione del licenziamento non è la crisi economica – risalente nel tempo e, dunque, del tutto inidonea a giustificare il ridimensionamento aziendale – quanto, piuttosto, la necessità di “disfarsi” di una dipendente bisognosa di frequenti periodi di assenza dal lavoro per cure mediche e controlli. La ricorrente chiede pertanto al giudice di accertare l’esistenza di un motivo illecito di licenziamento, nonché la natura discriminatoria del recesso per ragioni di handicap e, conseguentemente, di dichiararlo nullo ai sensi dell’art. 18, comma 1, l. n. 300/1970. In primo grado il Tribunale accoglie il ricorso accertando l’esistenza di un licenziamento per motivo illecito. In grado di appello la Corte si esprime, invece, per la totale riforma della sentenza, adducendo, da un lato, come la lavoratrice non avesse fornito prova – neppure tramite presunzioni – della illiceità del recesso e, dall’altro, come la società avesse, al contrario, pienamente provato l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, dimostrando sia l’effettività delle riorganizzazione aziendale (e cioè la necessità della riduzione del personale in ragione delle notevoli perdite subite dalla società – risultanti dai bilanci aziendali – a causa del carattere duraturo e non contingente della crisi economica); sia il nesso di causalità tra tali esigenze ed il licenziamento. La diretta incidenza della condizione di crisi economica sulla decisione di recedere dal rapporto con la lavoratrice risultava dimostrata, in particolare, sia dalla sollecitudine della società nell’adottare l’atto di recesso (che era stato comunicato non appena possibile e, dunque, al termine del periodo di assenza per malattia della dipendente); sia dalla mancata assunzione di altri dipendenti dopo il recesso in parola; sia, infine, dalla natura necessitata della scelta della lavoratrice da licenziare (in ragione del divieto di recesso, ex art. 54 comma 9 d.lgs. n. 151/2001, nei confronti dell’unica altra dipendente in forza nel settore amministrativo, avendo quest’ultima, nei mesi precedenti, ottenuto l’affidamento di un minore).
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La Corte di Cassazione, chiamata a giudicare sulla legittimità della sentenza di appello, si esprime con la lunga pronuncia in epigrafe a favore della correttezza del decisum di secondo grado, facendo leva su argomentazioni che appaiono, ad avviso di chi scrive, degne di nota. A dire il vero, la parte più interessante della pronuncia non è tanto quella in cui il Supremo Collegio avalla la motivazione della Corte d’appello di Roma laddove aderisce all’orientamento secondo cui, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, rileva esclusivamente l’effettività della soppressione del posto di lavoro e il rapporto di causalità diretta tra la scelta organizzativa dell’impresa e detta soppressione, non essendo, invece, la scelta imprenditoriale a monte della soppressione sindacabile sotto il profilo della congruità ed opportunità. Tale principio, infatti, sebbene risulti consolidato nella giurisprudenza di legittimità solo a partire dal 20161, è, oggi, questione assai indagata2. La parte rilevante della pronuncia in esame appare, piuttosto, quella in cui la Cassazione conferma la correttezza della motivazione della Corte d’appello di Roma circa l’inesistenza, nel caso di specie, sia di un motivo illecito di licenziamento, sia di un licenziamento discriminatorio per handicap. Nel ripercorrere le argomentazioni della pronuncia di secondo grado, il giudice di legittimità finisce, infatti, per affrontare – con approccio quasi tassonomico – questioni ancora non del tutto pacifiche in dottrina e in giurisprudenza, quali i rapporti esistenti tra: i) i licenziamenti (ed in particolare tra quelli discriminatorio e per motivo illecito, nonché tra questi ed il licenziamento giustificato); ii) i fattori discriminatori (e, in particolare, tra malattia ed handicap); iii) i regimi probatori (in particolare quello ordinario versus quello, per così dire, agevolato). La complessità dei temi affrontati impone di analizzarli partitamente nei paragrafi seguenti.
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Cfr.: Cass., 7 dicembre 2016, n. 25201, in FI, 2017, I, 123 con nota di G. Santoro Passarelli; in cui si legge: «le ragioni inerenti l’attività produttiva di cui alla l. n. 604 del 1966, articolo 3 possono derivare anche “da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti [...] opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dall’articolo 41 Cost., per il quale l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell’apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il “naturale” interesse ad ottimizzare l’efficienza e la competitività […], tanto premesso, la Corte ritiene che debba essere data continuità, al fine di consolidarlo, […a questo …] orientamento». Nello stesso senso v.: Cass., 15 febbraio 2017, n. 4015, in NGL, 2017, 309; nonché Cass., 24 maggio 2017, n. 13015 e Cass., 3 maggio 2017, n. 10699, entrambe in RIDL, 2017, II, 743, con nota di Pallini. V.: Cester, Giustificato motivo oggettivo di licenziamento e difficoltà economiche: a proposito di una recente presa di posizione della Corte di cassazione, in RIDL, 2017, I, 153 e ss.; Ferrari, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e nomofilachia, in FI, I, 590 e ss.; Natullo, La cassazione delimita il controllo del giudice sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in RGL, 2017, II, 257 e ss.; Ortis, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: da extrema ratio a strumento imprenditoriale, in Labor, 2017, 449, e ss.; Pallini, La (ir)rilevanza dei “motivi” dell’impresa nel sindacato di legittimità del licenziamento economico, in RIDL, 2017, II, 758 e ss.; G. Santoro Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo «organizzativo»: la fattispecie, in FI, 2017, I, 123 e ss.; Vallebona, Legittimità del licenziamento diretto ad incrementare il profitto, in MGL, 2017, 317 e ss.; Viceconte, Le scelte dell’imprenditore e le ricadute occupazionali, in GI, 2017, 715 e ss.; Corrias, Osservazioni sulla insindacabilità delle scelte economico-organizzative dell’imprenditore nel giustificato motivo oggettivo di licenziamento a partire da alcuni recenti casi giurisprudenziali, in LPO, 2018, 271 e ss.; Ferraresi, Recenti sviluppi del dibattito sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in DRI, 2018, 531 e ss.; Speziale, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento tra clausole generali, principi costituzionali e giurisprudenza della Cassazione, in DLRI, 2018, 127 e ss.; Tosi, Puccetti Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: un equilibrio fragile, in ADL, 2018, I, 759 e ss.
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2. Il rapporto tra i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito, nonché tra questi e il licenziamento giustificato.
La prima questione meritevole di analisi è quella riguardante il rapporto tra licenziamenti. In proposito la Corte opera una doppia actio finium regundorum: in primis tra i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito e, in secundis, tra questi e il licenziamento giustificato. Con riguardo alla prima questione, la Corte si è espressa in favore dell’autonomia tra le due figure, facendo leva sul fatto che, differentemente dal motivo illecito, la discriminazione «opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta […] a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro». La soluzione adottata dalla Corte può ritenersi, oltre che in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità3, coerente con l’evoluzione delle due figure in parola4. Esse, infatti, pur essendo sorte entrambe nel primo periodo repubblicano per arginare l’allora vigente principio di licenziamento ad nutum di matrice fascista (ritenuto dalla stessa Consulta non più conforme al sistema giuridico in seguito al neonato impianto costituzionale5) sono, a ben vedere, caratterizzate da una diversa matrice non solo genetica ma anche funzionale. Il licenziamento per motivo illecito è, infatti, figura forgiata dalla dottrina sin dall’inizio degli anni ‘50 del secolo scorso (e solo nel 2012 assurta ad ipotesi legalmente nominata6), partendo da una norma dell’ordinamento civilistico italiano (id est l’art. 1345 c.c.), per punire quel recesso datoriale che sottende in modo determinante ed esclusivo un interesse contrario a norme imperative7, all’ordine pubblico e al buon costume8 o in frode alla legge9. Il licenziamento discriminatorio è stato invece introdotto ex lege nel nostro
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Cfr, sul punto in particolare: Cass., 5 aprile 2016, n. 6575 in Labor, 2016, 269, con nota di Galardi, laddove afferma: «La nullità derivante dal divieto di discriminazione discende […] direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo, senza passare attraverso la mediazione dell’articolo 1345 c.c.», nonché Cass 9 giugno 2017, n. 14456, in RIDL, 2017, II, 708, con nota di F. Marinelli, che così statuisce: «mentre la nullità derivante dal divieto di discriminazione discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo […] e dunque prescindendo dalla motivazione addotta si incentra sulla condotta discriminatoria che determina di per sé sola la nullità del licenziamento, nel caso del licenziamento ritorsivo elemento qualificante è dato dall’illiceità del motivo unico e determinante del recesso». Cfr. sul punto se vuoi la ricostruzione di F. Marinelli, Il licenziamento discriminatorio e per motivo illecito. Contributo allo studio delle fattispecie, Giuffrè, 2017. Cfr. C. cost. 27 gennaio 1958, n. 7 e C. cost., 9 giugno 1965, n. 45, entrambe reperibili in wwwgiurcost.org. La l. n. 92/2012 ha infatti espressamente affiancato nell’art. 18 comma 1 della l. n. 300/1970 al licenziamento discriminatorio il licenziamento «determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile». Espressione con cui si ricomprendono quelle norme proibitive poste al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico, in quanto collocate a tutela non solo di interessi generali ma, addirittura, dei fondamentali principi giuridici ed etici dell’ordinamento (cfr. sul punto per tutti Galgano, Art. 1418, in Galgano, Peccenini, Franzoni, Memmo, Cavallo Borgia, Simulazione, nullità del contratto annullabilità del contratto, Zanichelli-Il Foro Italiano, 1998, 127 e s. La contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume si verifica tutte le volte in cui i privati agiscano andando contro i principi fondamentali dell’ordine sociale che lo Stato ha creato, ossia contro i valori considerati essenziali per il funzionamento della società e, perciò, indispensabili per il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo (cfr. sul punto Ferri, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Giuffrè, 1970, in particolare 271). «La frode alla legge si concretizza in una condotta apparentemente conforme ad una norma (c.d. norma di copertura), che produce un risultato contrario ad un’altra o ad altre norme imperative (c.d. norma(e) oggetto di frode)» (Bolego, Autonomia negoziale e frode
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ordinamento (sostanzialmente a partire dal 196610, prendendo spunto da atti di matrice internazionale11) al fine di punire quelle tipologie di recesso suscettibili di arrecare, indipendentemente dalla volontà datoriale, uno svantaggio a uno o più lavoratori portatori di uno o più fattori discriminatori tassativamente individuati e inconferenti rispetto all’attività lavorativa da svolgere. Quanto detto non significa – come messo acutamente in luce da autorevole dottrina12 – che le ipotesi di licenziamento discriminatorio, configurandosi «indipendentemente dalla volontà del soggetto agente», non si possano verificare anche in presenza di tale volontà, posto che l’oggettività implica soltanto che ai fini della configurazione della discriminazione non è necessaria la prova dell’animus. Ciò detto, pare tuttavia opportuno rammentare che codesta interpretazione – tesa a considerare i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito come figure indipendenti -, appare una “conquista” piuttosto recente e non del tutto consolidata, se è vero che non solo in passato13, ma ancora all’indomani della Riforma Fornero e del Jobs Act, le due figure continuano, talvolta, ad essere assimilate dagli addetti ai lavori14. Quanto alla seconda questione – id est il complesso rapporto tra i licenziamenti: discriminatorio, per motivo illecito e giustificato – la Cassazione si è espressa nella pronuncia in epigrafe come segue: mentre «il motivo illecito è causa di nullità del licenziamento solo quando ha carattere esclusivo e determinante, sicché la nullità deve essere esclusa quando con lo stesso concorra, nella determinazione del licenziamento, una giusta causa o un giustificato motivo», al contrario «la prova […] raggiunta sulla sussistenza di un giustificato motivo oggettivo non vale […] ad elidere automaticamente il carattere discriminatorio del recesso». Anche questa parte del ragionamento della Corte risulta condivisibile oltre che conforme alla giurisprudenza più recente15.
alla legge nel diritto del lavoro, Cedam, Padova, 2011, 40). Cfr. l’art. 4 l. n. 604/1966. Infatti, formalmente il termine “discriminazione” ha fatto breccia nella legislazione ordinaria italiana solo per mezzo della rubrica dell’art. 15 St. lav. Tuttavia, dal momento che quest’ultimo non faceva altro che richiamare l’art. 4 della l. n. 604/1966, è quest’ultimo ad essere tradizionalmente considerata la prima disposizione antidiscriminatoria del nostro ordinamento lavoristico. 11 Leggendo il d.d.l. n. 2452 del 15 giugno 1965 (da cui ha preso vita la legge 604 del 1966) è evidente il collegamento tra l’art. 4 della l. n. 604/1966 e la Raccomandazione ILO n. 119 del 1963 – che ricalca a sua volta la Convenzione ILO n. 111 del 1958 sulla discriminazione in materia di impiego e nelle professioni -. 12 Cfr. Ballestrero, Tra discriminazione e motivo illecito: il percorso accidentato della reintegrazione, in DLRI, 2016, 244 e s. 13 Cfr. sul punto: F. Marinelli, I licenziamenti ingiustificato, discriminatorio e per motivo illecito: nozioni e sovrapposizioni, in Lavoro Diritti Europa, 2017, 7 e ss.; Biasi, Saggio sul licenziamento per motivo illecito, Cedam, 2017, 162 e ss. 14 Cfr. in dottrina in particolare F. Carinci, Ripensando il “nuovo” articolo 18 dello Statuto de lavoratori, in DRI, 2013, 320 laddove afferma che «il distinguo fra licenziamento discriminatorio e licenziamento per motivo illecito di cui all’art. 18, co. 1, non sottrae affatto il primo all’art. 1345 c.c.»). In giurisprudenza v. in particolare Cass., 3 dicembre 2015, n. 24648, in NGL, 2016, 301 e ss., nonché Cass., 3 novembre 2016, n. 22323, in ADL, 2017, 229 con nota di Matarese, le quali, laddove affermano che il divieto di licenziamento discriminatorio è suscettibile di interpretazione estensiva, sicchè l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore quale unica ragione del provvedimento espulsivo, finiscono per sovrapporre il licenziamento discriminatorio a quello per motivo illecito. 15 Cfr. in particolare Cass., 7 novembre 2018, n. 28453, in FI on line laddove afferma «La natura discriminatoria del recesso può […] accompagnarsi ad altro motivo legittimo (ad esempio economico) e comunque rendere nullo il licenziamento [...] Siffatta distinzione incide pertanto sugli oneri probatori, risultando necessaria solo per il licenziamento ritorsivo la prova della unicità e determinatezza del motivo». 10
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Infatti, sebbene parte della dottrina16 e della giurisprudenza17 considerino privo del carattere di esclusività il motivo illecito di licenziamento contemplato dalla Riforma Fornero, chi scrive concorda invece con l’osservazione per cui «se davvero fosse [stato] sufficiente il carattere dell’efficacia determinativa del motivo illecito [per la configurazione del licenziamento per motivo illecito] e non [… anche] quello dell’esclusività non vi sarebbe stato alcun bisogno di richiamare [per intero] la norma codicistica»18. Pare, infatti, insuperabile l’interpretazione letterale imposta dall’art. 12 disp. prel. c.c. secondo cui, in prima battuta, «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire alcun senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse». Dunque, poiché la fattispecie del licenziamento per motivo illecito (anche post-Riforma Fornero) richiede che quest’ultimo sia stato oltre che determinante anche esclusivo nell’economia dell’atto, è chiaro che la prova della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento escluderà in radice qualunque censura sulla sua illiceità. Allo stesso modo deve condividersi anche la tesi sostenuta dalla Corte in base alla quale i licenziamenti discriminatorio e giustificato possono invece astrattamente concorrere. Ancora una volta, la precisazione della Corte appare opportuna se è vero che, seppur da sempre maggioritaria in dottrina19, la tesi in parola pare essere stata avallata, solo di recente, dalla giurisprudenza20. Per lungo tempo, infatti, anche a causa della ‘confusione’ tra i licenziamenti discriminatorio e per motivo illecito di cui si è detto supra, i giudici hanno ritenuto che la natura discriminatoria del licenziamento dovesse essere sempre esclusa in radice in caso di prova della finalità legittima dello stesso21. Del resto, per risolvere la que-
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Cfr.: M.T. Carinci, Il licenziamento discriminatorio ‘per motivo illecito determinante’ alla luce dei principi civilistici: la causa del licenziamento quale atto unilaterale fra vivi a contenuto patrimoniale, in RGL, 2012, I, 650; Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo. Lavoro privato e pubblico, Cedam, IV ed., 2012, 447; Vidiri, La Riforma Fornero: la (in)certezza del diritto e le tutele differenziate del licenziamento illegittimo, in RIDL, 2012, I, 630 e s.; Aiello, Il licenziamento nullo (per discriminazione, per motivo illecito, per ragioni tipiche o per ‘altre ipotesi di nullità’) ed il licenziamento orale, in Giorgi (coordinato da), La riforma del mercato del lavoro. Aspetti sostanziali e processuali, Jovene, 2013, 154; Bellocchi, Il licenziamento discriminatorio, nullo e orale, in G. Santoro Passarelli (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Privato e pubblico, Utet, 2014, 1307 e s. 17 Cass., 23 novembre 2018, n. 30429, in FI on line laddove afferma: «La rilevanza del motivo illecito determinante ex articolo 1345 c.c., ma non anche necessariamente unico, a fini di nullità del licenziamento è stata prevista con il nuovo testo della l. n. 300/1970, articolo 18 (come novellato ex lege n. 92 del 2012)» e, prima, Cass., 17 novembre 2017, n. 27325, in FI on line. 18 P. Sordi, Il nuovo art. 18 della legge n. 300 del 1970, in Sordi, Papetti, Palladini, Mimmo, Fedele, Di Paola, La riforma del lavoro. Primi orientamenti giurisprudenziali dopo la legge Fornero, Giuffrè, 2013, 260. 19 Tale notazione appare ben chiara in: Di Stefano, Art. 3. Licenziamento discriminatorio, in Ferraro (a cura di), I licenziamenti individuali. Commento alla legge 11 maggio 1990, n, 108 ESI, 124, ove afferma che «la struttura del licenziamento discriminatorio è, con tutta evidenza, quella di un atto che, pur a fronte eventualmente di una motivazione apparentemente legittima [...] si presenta invece caratterizzato da una specifica finalità di discriminazione […] non esternata». Interessanti sul punto sono le parole di Tabellini, Il recesso, Giuffrè, 1962 rispettivamente a pagina 72, 73 e 75 che già nel 1962 affermava: se è vero che «il recesso è un negozio (unilaterale), ed è nel contempo un atto di esercizio di un diritto potestativo […] come negozio, ha indubbiamente dei moventi della volontà del suo soggetto; ma come atto di esercizio di un potere, ripete la sua legittimità non certo dai moventi bensì dai presupposti che di detto potere sono il fondamento [id est …] la turbativa del sinallagma» e cioè la giusta causa ed il giustificato motivo; ciò detto, «è […] normale, una coincidenza tra motivo del negozio e presupposto del potere di recedere». Il che non significa che non possa accadere che «il soggetto [si avvalga …] della turbativa [del sinallagma] come presupposto, per tutt’altro suo motivo, cioè in quanto la sua volontà sia stata mossa da […] tutt’altra utilità». 20 Cfr. in particolare Cass., 5 aprile 2016, n. 6575, cit., che ha ritenuto infondato l’assunto addotto dalla parte ricorrente secondo cui «la natura discriminatoria del licenziamento sarebbe esclusa dalla esistenza del motivo economico». 21 Cfr., tra le pronunce più significative di legittimità: Cass., 25 novembre 1980, n. 6259, in FI, 1982, I, 157, la cui massima recita: «una volta accertata la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, rettamente il giudice di merito ritiene superfluo
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stione può essere sufficiente valorizzare il dato letterale della legge. Infatti l’art. 18 St. lav., laddove riconosce che «qualora nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie […] trovano applicazione le [relative] tutele», rende inequivocabile il fatto che la presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento non esclude ex se la possibilità per il lavoratore di dimostrarne l’effetto discriminatorio22. Ciò significa, come del resto rilevato da una parte della dottrina, che in tal caso «il problema che si profila [...] non è concettuale, ma essenzialmente di prova [... in quanto] si tratta di provare quale sia stata la ragione determinante (la causa in concreto) di quello specifico atto di recesso»23.
3. Il rapporto tra fattori discriminatori: malattia versus
handicap.
La Corte di Cassazione, nella pronuncia in epigrafe, si interroga anche sui fattori discriminatori. In particolare, la prima questione su cui en passant il giudice di legittimità si pronuncia riguarda la loro natura: per la Corte essi sono da ritenere una categoria tassativa e non meramente esemplificativa. Questo orientamento del giudice di legittimità, sebbene niente affatto consolidato – quanto meno in giurisprudenza24 – è senza dubbio da condividere. La tassatività delle ragioni discriminatorie appare infatti interpretazione conforme non solo alla lettera della legge (se è vero che nessuna normativa antidiscriminatoria25 individua i fattori discrimina-
l’esame della domanda tendente alla declaratoria di nullità del licenziamento perché adottato a fini discriminatori»; Cass., 2 aprile 1990, n. 2642, in MGL, 1990, 274 e ss. che ha ritenuto di cassare una pronuncia del Tribunale di Brescia che aveva ritenuto nullo per discriminazione sindacale il licenziamento irrogato ad una lavoratrice dipendente di una casa di riposo per avere ritardato l’inizio dell’esecuzione della prestazione di lavoro, facendo leva sul fatto che l’asserita partecipazione ad attività sindacale non costituiva, in presenza delle inadempienze contrattuali della lavoratrice, l’unico motivo determinante il licenziamento; Cass., 19 gennaio 2006, n. 7537, in Leggi d’Italia banca dati on line che recita: qualora «il provvedimento espulsivo sia stato determinato [...] da un motivo di ritorsione o di discriminazione [...] la nullità deve essere esclusa quando con lo stesso concorra, nella determinazione del licenziamento, un motivo lecito, come una giusta causa o un giustificato motivo oggettivo di recesso». 22 è la tesi di Barbera, Il licenziamento alla luce del diritto antidiscriminatorio, in RGL, 2013, I,163, nonché di Bellocchi, Il licenziamento discriminatorio, in ADL, 2013, 836 e s. 23 M.T. Carinci, Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizioni di legge o in forma orale, in M.T. Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, 41. 24 Cfr. Cass., 5 novembre 2012, n. 18927, in FI, 2013, I, 140 e ss. in cui espressamente si legge: nei «D.Lgs. n. 215 del 2003 e D.Lgs. n. 216 del 2003 […] sono stati specificamente individuati alcuni fattori di discriminazione (orientamento sessuale, religione, convinzioni personali, handicap, età, razza, origine etnica) [...] In ordinamenti come il nostro che già prevedono a livello costituzionale norme di tutela dei diritti fondamentali del lavoratore, il suindicato elenco di fattori discriminatori e/o vessatori non è da considerare tassativo». Seppur implicitamente, tale assunto pare confermato da: Cass., 3 dicembre 2015, n. 24648, cit. nonché da Cass., 3 novembre 2016, n. 22323, cit. che, laddove affermano che il divieto di licenziamento discriminatorio è suscettibile di interpretazione estensiva così da ricomprendere anche il licenziamento per ritorsione, finiscono in sostanza per ammettere la natura esemplificativa dei fattori discriminatori. Sulla “compattezza”, invece, della dottrina nel sostenere la tassatività delle ragioni discriminatorie v. per tutti – seppur in senso critico – M.T. Carinci, Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizioni di legge o in forma orale, cit., 36 e s. 25 V.: d.lgs. n. 286/1998, d.lgs. n. 215/2003, d.lgs. n. 216/2003 e d.lgs. n. 198/2006.
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tori tramite locuzione esemplificativa), ma anche all’orientamento consolidato della Corte di Giustizia26. La seconda questione su cui si interroga la Corte è se la malattia possa rientrare tra i fattori discriminatori. Il problema scaturisce dal fatto che, da un lato, nessuna normativa elenca espressamente tale fattore tra quelli discriminatori e che, dall’altro, la lavoratrice solamente in epoca successiva al licenziamento aveva ottenuto il riconoscimento di un handicap – ai sensi della l. n. 104/1992 – che è invece, come noto, un fattore discriminatorio espressamente nominato dal legislatore. Sul punto la Corte afferma: poiché, con riguardo al diritto antidiscriminatorio, «la Corte di Giustizia […] sulla base anche della ratifica da parte dell’Unione Europea […] della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità […] ha definito la nozione di handicap […] nel senso di una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori», tale lata interpretazione della nozione di handicap permette di ritenere che vi sia una «assoluta autonomia del concetto di handicap, quale fattore di discriminazione, rispetto all’accertamento della condizione di handicap grave di cui alla l. 104 del 1992». Come dire: lo stato patologico che abbia le caratteristiche di cui sopra può rientrare ex se nella nozione di handicap senza la necessità di dover passare per la l. n. 104/1992 e, dunque, sottostare ai requisiti a cui il nostro ordinamento subordina lo status di “persona handicappata”27. Anche su tale punto la pronuncia della Corte appare condivisibile ed opportuna. Infatti, sebbene questa lata interpretazione della nozione di handicap risulti – ancora una volta – conforme alla giurisprudenza più recente della stessa Corte di Cassazione28, nonché della Corte di Giustizia dell’Unione Europea29, occorre ricordare che tale lettura non è apparsa da subito pacifica30.
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Cfr. sul punto, ad esempio: C. giust., 7 luglio 2011, causa C-310/10, che ha ritenuto di dovere escludere dall’ambito di applicazione delle direttive euro-unitarie un caso di discriminazione fondata sulla categoria socio professionale di alcuni lavoratori, ritenendo le direttive applicabili solo «in funzione dei motivi elencati tassativamente», nonché C. giust., 18 dicembre 2014, causa C-354/13, che ha escluso di poter far rientrare l’obesità fra i fattori discriminatori individuati dalle direttive euro-unitarie. 27 Sul rapporto tra malattia e licenziamento si veda da ultimo Galardi, Sul licenziamento del lavoratore malato, in NGCC, 2018, 311 e ss. 28 Cfr. in particolare Cass., 19 marzo 2018, n. 6798, in FI on line. 29 Cfr.: C. giust., 11 aprile 2013, cause C-335/11 e C- 337/11 in cui si legge: «se una malattia, curabile o incurabile, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona […] alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, una siffatta malattia può ricadere nella nozione di handicap ai sensi della direttiva 2000/78». Accolgono una interpretazione lata della nozione di handicap anche: C. giust., 18 marzo 2014, causa C- 363/12; C. giust., 18 dicembre 2014, causa C-354/13; C. giust., 1 dicembre 2016, causa C-395/15; C. giust., 18 gennaio 2018, causa C-270/16 tutte reperibili in www. curia.it. 30 Cfr. C. giust., 11 luglio 2006, causa C-13/05 che aveva dato invece una interpretazione restrittiva della definizione di handicap affermando che: «una persona che è stata licenziata dal suo datore di lavoro esclusivamente per causa di malattia non rientra nel quadro generale tracciato dalla direttiva 2000/78 per lottare contro la discriminazione fondata sull’handicap».
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4. Il rapporto tra regimi probatori: onus probandi ordinario versus carico della prova agevolato.
L’ultimo punto di interesse affrontato dalla Corte nella pronuncia in commento riguarda la spinosa questione relativa all’onus probandi in caso di azione volta ad accertare una discriminazione31. Al riguardo la Corte esplicita due concetti: in primis, che il diritto antidiscriminatorio «impone l’introduzione di un meccanismo di agevolazione probatoria o alleggerimento del carico probatorio gravante sull’attore, prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo per far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della discriminazione»; in secundis, che «nulla […] autorizza a ritenere che il suddetto regime probatorio [sia] applicabile solo all’azione speciale», posto che, fra l’altro, «una interpretazione in senso così limitativo confliggerebbe con i principi posti dal legislatore comunitario». Ancora una volta, entrambe le statuizioni della Cassazione appaiono – oltre che del tutto condivisibili – opportune, nonostante siano, come ora si dirà, in linea con la più recente giurisprudenza. Con riguardo alla prima questione, infatti, sebbene sembri pacifico ritenere, dalla interpretazione letterale del diritto antidiscriminatorio (ed in particolare dell’art. 28 del d.lgs. n. 150/201132, nonché dell’art. 40 del d.lgs. n. 198/2006), che il legislatore non abbia voluto porre in essere un vero e proprio “ribaltamento” delle posizioni delle parti (tale per cui tocca all’una ciò che dovrebbe essere provato dall’altra), quanto piuttosto una agevolazione probatoria (in quanto «è pur sempre il ricorrente […] che deve fornire la prova prima facie della sussistenza di una discriminazione»33) – come del resto ha confermato la stessa Corte di Cassazione34 – vi è chi continua a parlare in modo del tutto a-tecnico di inversione dell’onere della prova35.
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Sul punto si rinvia agli studi di Peruzzi, La prova del licenziamento ingiustificato e discriminatorio, Giappichelli, 2017 e Santagata De Castro, Santucci, Discriminazione e onere della prova: una panoramica comparata su effettività e proporzionalità della disciplina, in ADL, 2015, 534 e ss. 32 Il quale trova applicazione per le controversie ex d.lgs. n. 286/1998, 215 del 2003 e 216 del 2003. 33 Lunardon, Principio di uguaglianza, discriminazioni indirette ed azioni positive nella l. n. 125/1991, in GI, 1992, IV, 213. Nello stesso senso: De Angelis, Profili della tutela processuale contro le discriminazioni tra lavoratori e lavoratrici, in RIDL, 1992, I, 465, laddove afferma «la differenza rispetto al regime ordinario si traduce nell’attribuire valore probatorio ad elementi di fatto – che comunque qui dicit deve fornire e quindi dimostrare, non meramente allegare -, idonei a costituire presunzioni precise e concordanti», proprio per questo «non sembrano quindi alterati più di tanto gli schemi previsti dal regime ordinario e, in particolare, non sembra attuata nessuna inversione dell’onere probatorio»; più di recente Colosimo, Prime riflessioni sul sindacato giurisdizionale nel nuovo sistema di tutele in caso di licenziamento illegittimo: l’opportunità di un approccio sostanzialista, in DRI, 2012, 1031, ove afferma che, se è «vero che la legge consente al lavoratore di avvalersi, ai fini della prova della discriminazione, di presunzioni e dati statistici […] ciò nonostante, affinché sorga l’onere della parte datoriale di provare l’insussistenza della lamentata discriminazione, sarà comunque necessario che il prestatore introduca in giudizio elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza del comportamento discriminatorio [… Il che significa che] per la costruzione di questa [figura …] occorrono fatti indizianti diversi rispetto alla ingiustificatezza. 34 Cass., 5 giugno 2013, n. 14206, in MGL, 2013, 671, laddove, nel parlare del meccanismo in parola, afferma che «ciò, evidentemente non significa che è stata attuata una inversione dell’onere della prova [...] ma semplicemente che è stato introdotto un onere probatorio ‘asimmetrico’ [...] dal momento che rimane fermo per l’attore l’onere della prova, ma l’assolvimento dello stesso richiede il conseguimento di un grado di certezza minore rispetto a quello consueto». 35 Significativo appare ad esempio il titolo del contributo di Nunin, Diritto antidiscriminatorio e tutela del lavoratore padre licenziato:
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Giurisprudenza
Così, opportuna appare anche la precisazione della Corte secondo cui tale meccanismo di agevolazione dell’onere della prova deve avere un ambito di applicazione ampio, il che significa che deve poter operare anche, ad esempio, nel caso di impugnazione del licenziamento discriminatorio secondo il rito Fornero. Infatti, contrariamente a quanto afferma qualcuno36, e nonostante il silenzio del legislatore sul punto37, pare a chi scrive condivisibile il ragionamento fatto proprio da attenta dottrina, secondo il quale, da un lato, «sarebbe priva di ragionevolezza [quel]la differenziazione dell’onere probatorio in tema di discriminazione che paradossalmente [… rendesse] la prova più difficile proprio là dove [… viene compromesso, come avviene nel licenziamento] il bene della vita maggiore, cioè l’occupazione della vittima»38 e, dall’altro, il regime dell’onere della prova, avendo natura sostanziale e non processuale (in quanto ripartisce l’onere probatorio in funzione delle norme di diritto sostanziale che sostengono le pretese e le eccezioni svolte nel processo), deve trovare applicazione a prescindere dal processo in cui le pretese ed eccezioni vengono fatte valere39.
5. Conclusioni: una pronuncia non solo condivisibile ma
anche opportuna.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte la pronuncia della Corte di Cassazione in epigrafe deve ritenersi non solo condivisibile, ma anche assolutamente opportuna. Infatti, nonostante la crescente attenzione riservata dagli addetti ai lavori alla figura del licenziamento discriminatorio – a causa del regime sanzionatorio forte (id est la tutela reintegratoria piena) ed eccezionale (a seguito della Riforma Fornero e del Jobs Act) che la accompagna – non vi è dubbio che l’istituto in parola, essendo stato per decenni poco indagato40 e strettamente legato alla figura del licenziamento per motivo illecito, necessiti ancora di trovare sicura definizione. Francesca Marinelli
nozione oggettiva del licenziamento discriminatorio, rilievo degli elementi presuntivi ed inversione dell’onere della prova, in ADL, 2018, 552 e ss. 36 Cfr. Pasqualetto, I licenziamenti nulli, in Cester (a cura di), I licenziamenti dopo la legge n. 92 del 2012, Cedam, 2013, 98. 37 L’art. 1, comma 49 della l. n. 92/2012, infatti, si limita a dire che «il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio, ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile». 38 Barbieri, La nuova disciplina del licenziamento individuale: profili sostanziali e questioni controverse, in Barbieri, Dalfino, Il licenziamento individuale nell’interpretazione della legge Fornero aggiornato al d.l. 28 giugno 2013, n. 76 c.d. ‘pacchetto lavoro’, Cacucci, 2013, 50. Nello stesso senso v. Borghesi, Il rito speciale dei licenziamenti, in Fiorillo, Perulli (diretto da), Il nuovo diritto del lavoro. La riforma del mercato del lavoro, Giappichelli, vol. IV, 2014, 185 e s. 39 Cfr. Chieco, La nullità del licenziamento per vizi ‘funzionali’ alla luce dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in DLRI, 2014, 346 e s. Nello stesso senso De Angelis, Il contratto a tutele crescenti: il giudizio, in WP D’Antona, it., n. 250/2015, 8 e s. 40 Cfr. se vuoi sul punto F. Marinelli, Il licenziamento discriminatorio, op. cit., 9 e ss.
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Giurisprudenza C orte di C assazione , sentenza 11 settembre 2018, n. 22075; Pres. Napoletano – Est. Di Paolantonio – P.M. Mastroberardino (concl. conf.) – C.C. (avv. Caramitti) c. Università degli studi di Firenze (avv. De Grazia). Conferma App. Firenze, sent. n. 639/2017. Licenziamenti – Pubblico impiego – Omessa registrazione dell’allontanamento dal luogo di lavoro – Falsa attestazione della presenza in servizio – Sussistenza – Apertura del termine per il procedimento disciplinare – Decorrenza.
L’omessa registrazione dell’allontanamento del dipendente pubblico dal luogo di lavoro tramite lo strumento di registrazione delle presenze appositamente predisposto configura falsa attestazione della presenza in servizio ai sensi dell’art. 55 quater, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 165/2001, a prescindere da ogni diversa qualificazione prevista dalla contrattazione collettiva. Il termine per il procedimento si apre da quando l’amministrazione abbia avuto notizia certa e circostanziata dell’allontanamento. Svolgimento del processo. 1. La Corte di Appello di Firenze ha accolto il reclamo ex art. 1, comma 58, della legge n. 92/2012 proposto dall’Università degli Studi di Firenze avverso la sentenza del locale Tribunale che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza con la quale era stata dichiarata la nullità del licenziamento intimato il 16 aprile 2015 a C.C. e l’Università era stata condannata a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso le retribuzioni maturate dalla data del recesso. 2. La Corte territoriale, respinta l’eccezione di inammissibilità del gravame, ha premesso che al C. era stato contestato di essersi allontanato dal luogo di lavoro il 30 ottobre 2014, in assenza di autorizzazione e senza attestare l’uscita nel sistema di rilevamento delle presenze. La circostanza era emersa nel corso di altro procedimento disciplinare, avviato in relazione a comportamenti analoghi, ed era stata compiutamente appresa il 7 gennaio 2015, in occasione dell’audizione del dipendente R., il quale aveva confermato quanto già riferito dal responsabile del servizio ed aveva collocato temporalmente l’episodio, fornendo tutti i particolari della vicenda. Il procedimento disciplinare era stato avviato il 22 gennaio 2015, quando ancora non era stato definito l’altro procedimento, all’esito del quale, solo il 9 febbraio 2015, era stata inflitta la sanzione della sospensione dal servizio per mesi 6 con privazione della retribuzione – Omissis. 3. In punto di diritto la Corte fiorentina ha evidenziato che l’illecito doveva essere sussunto nella fattispecie tipizzata dall’art. 55 quater, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 165/2001, che si consuma anche nell’ipotesi in cui venga omessa la registrazione dell’uscita dal luogo di lavoro, perché ciò determina un’attestazione non veritiera della presenza in servizio. Ha aggiunto che
le fattispecie di licenziamento previste dal legislatore sono aggiuntive rispetto a quelle della contrattazione collettiva, le cui clausole, ove difformi, vanno sostituite di diritto ai sensi degli artt. 1339 e 1419, comma 2, cod. civ.. Ha ritenuto, infine, che la gravità della condotta, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, emergeva dalle plurime sanzioni inflitte per comportamenti analoghi nell’anno 2014, alle quali aveva fatto seguito l’ulteriore sanzione della sospensione per 6 mesi, irrogata il 9 febbraio 2015 e divenuta definitiva per mancata impugnazione da parte del reclamato dell’omessa pronuncia sull’asserita illegittimità della sanzione stessa. 4. Il giudice del reclamo ha anche escluso l’eccepita tardività della contestazione, ritenuta invece dal Tribunale, ed ha evidenziato che, trattandosi di illecito astrattamente idoneo a giustificare il licenziamento, il termine per la contestazione era quello previsto dall’art. 55 bis, comma 4, del d.lgs. n. 165/2001 e non quello di 20 giorni fissato dal comma 2 della stessa norma. Ha aggiunto che il dies a quo non poteva essere collocato al 19/12/2014, perché il responsabile del servizio dott. A. non era stato in grado di precisare quando l’episodio si era verificato e i particolari della vicenda erano stati appresi in occasione delle dichiarazioni rese dal R. il 7 gennaio 2015. Prima di questa data l’UPD non poteva dare avvio al procedimento, non essendo in possesso degli estremi di fatto indispensabili per la contestazione dell’addebito. 5. Infine la Corte ha escluso di potere pronunciare sulle ulteriori questioni riproposte nella memoria di costituzione, perché il reclamato avrebbe dovuto proporre impugnazione incidentale per censurare il capo della sentenza impugnata che aveva rigettato l’eccezione relativa alla carenza di potere del direttore generale e l’omessa pronuncia sulla domanda volta ad ottenere l’annullamento della sanzione inflitta il 9 febbraio 2015.
Giurisprudenza
6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso C.C. sulla base di 13 motivi, illustrati da memoria ex art. 378 cod. proc. civ., ai quali l’Università degli Studi di Firenze ha resistito con tempestivo controricorso. Motivi della decisione. – Omissis. 1.2. La seconda censura addebita alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione dell’art. 55 bis, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 165/2001 in quanto, ai fini dell’individuazione del termine entro il quale la contestazione deve essere effettuata, rileva solo la sanzione astrattamente prevista per il comportamento ritenuto di rilevanza disciplinare, sicché ove quest’ultima sia pari o inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per non più di 10 giorni, il termine è quello indicato nel 20 comma del richiamato art. 55 bis.. Nel caso di specie, pertanto, la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare che ai sensi dell’art. 46, comma 3 lett. b) del CCNL per il personale del comparto Università, ove non venga contestata la recidiva, l’allontanamento arbitrario dal servizio è sanzionato con la sospensione non superiore a 10 giorni. 1.3. Con la terza critica il ricorrente si duole, sotto altro profilo, della violazione dell’art. 55 bis d.lgs. n. 165/2001 e rileva che, avuta notizia dell’illecito disciplinare, il datore di lavoro non può ritardare l’avvio del procedimento per svolgere atti istruttori inaudita altera parte. La contestazione, pertanto, andava effettuata entro 20 giorni dalla data di audizione del responsabile del servizio (19 dicembre 2014), il quale aveva riferito l’ulteriore episodio di ingiustificato allontanamento dal luogo di lavoro. 1.4. La violazione dell’art. 55 bis, comma 4, del d.lgs. n. 165/2001 è dedotta anche con il quarto motivo, con il quale si sostiene che «il termine di 40 giorni per gli atti del procedimento disciplinare non può che intendersi per la sola attività endoprocessuale e non anche per la proposizione a pena di decadenza dell’azione disciplinare», che va comunque avviata nei 20 giorni dall’acquisizione della notizia. Aggiunge il ricorrente che la questione era stata riproposta con la memoria difensiva, non essendo necessario il ricorso incidentale in quanto il Tribunale aveva ritenuto la tardività della contestazione, sia pure sotto altro profilo. 1.5. Con la quinta critica è dedotta la violazione dell’art. 45 del CCNL per il comparto università nella parte in cui prescrive che «la contestazione deve effettuarsi tempestivamente e comunque non oltre 20 giorni da quando l’ufficio competente è venuto a conoscenza del fatto». Si sostiene che in caso di contrasto fra norme di legge e norme della contrattazione collettiva deve essere data prevalenza a quella più favorevole per il lavoratore. 1.6. Il sesto motivo denuncia la «violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 2, I. 30/5/1970 n. 300 e dell’art. 46, comma 5 lett. a del C.C.N.L.». Rileva il ricorrente che, in caso di allontanamento dal servizio, il
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contratto collettivo consente il licenziamento con preavviso solo nell’ipotesi di recidiva, che, in quanto elemento costitutivo dell’infrazione, deve essere espressamente contestata. Il giudice del reclamo, pertanto, non poteva fondare il giudizio di proporzionalità sui precedenti disciplinari non richiamati nell’atto di avvio del procedimento. 1.7. Anche la settima censura addebita alla sentenza impugnata di avere violato l’art. 55 bis d.lgs. n. 165/2001 e l’art. 45 comma 2 del CCNL per il personale del comparto università nel ritenere la legittimità del licenziamento in assenza di previa contestazione della recidiva, dalla quale, invece, non si poteva prescindere sulla base della disciplina dettata dalle parti collettive. Aggiunge il ricorrente che dall’omessa contestazione era derivata una grave lesione del suo diritto di difesa, perché egli non era stato posto in condizione di replicare sulla rilevanza dei precedenti procedimenti disciplinari. 1.8. Con l’ottavo motivo C.C. insiste nel sostenere che non poteva essere inflitta la sanzione del licenziamento disciplinare perché la contrattazione collettiva, all’art. 46 comma 5, la prevede solo in caso di recidiva, non valutabile nella fattispecie in quanto non contestata. 1.9. La nona censura denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. perché la Corte territoriale, nel valorizzare i precedenti disciplinari del dipendente licenziato, aveva finito per attribuire rilievo alla recidiva, sebbene a ciò l’Università avesse espressamente rinunciato, non proponendo reclamo anche sotto questo profilo. 1.10. Con il decimo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 324 c.p.c. e rileva che erroneamente il giudice d’appello ha ritenuto che si fosse formato giudicato sulla legittimità della sospensione dal servizio inflitta con il provvedimento disciplinare del 9 febbraio 2015. Premette che, una volta disposta la riunione dei ricorsi e applicato il rito speciale, il Tribunale, ai sensi dell’art. 1, comma 48, della legge n. 92/2012 non poteva pronunciare sulla domanda volta ad ottenere l’annullamento della sanzione conservativa, sicché il reclamo incidentale, qualora proposto per far valere l’omessa pronuncia, avrebbe comportato necessariamente la dichiarazione di inammissibilità della domanda stessa. Per dette assorbenti ragioni il giudice del reclamo non poteva valorizzare la precedente sanzione e ritenere integrata la recidiva, posto che sull’illegittimità della sospensione il reclamato aveva insistito anche in sede di appello – Omissis. 1.13. Infine con il tredicesimo motivo è denunciata la violazione dell’art. 55 quater comma 1 bis del d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 3 comma 1 del d.lgs. n. 116/2016 e si sostiene che la Corte territoriale ha applicato retroattivamente la normativa sopravvenuta in corso di causa, destinata a disciplinare i soli illeciti verificatisi dopo
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l’entrata in vigore del decreto delegato. Il ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Corte per sostenere che, contrariamente a quanto asserito dal giudice di merito, doveva essere esclusa la possibilità di un’applicazione retroattiva e che, comunque, il fatto andava valutato quanto alla gravità in tutti i suoi aspetti oggettivi e soggettivi. Dovevano, quindi, essere apprezzate le ragioni per le quali si era verificato l’allontanamento dal posto di lavoro e occorreva anche tener conto del fatto che le modalità della condotta non erano compatibili con un intento fraudolento, in quanto il C. aveva risposto alla chiamata telefonica del responsabile del servizio, era rimasto assente per meno di 2 ore, aveva ammesso di essersi allontanato pur potendo sostenere, ad esempio, di «essersi sentito male in una delle innumerevoli stanze dell’ufficio» – Omissis. 3. Il secondo, il sesto, il settimo, l’ottavo, ed il nono motivo possono essere trattati congiuntamente, perché si fondano tutti sull’asserita applicabilità alla fattispecie della disciplina dettata dalla contrattazione collettiva (art. 46 del CCNL 16.10.2008 per il personale del comparto università che riproduce il codice disciplinare già introdotto dall’art. 45 del CCNL 27.1.2005), che sanziona con la sospensione sino a dieci giorni l’abbandono ingiustificato del servizio (art. 46, comma 3, lett. a), prevedendo che, in caso di recidiva, la sospensione stessa possa essere elevata sino a sei mesi (art. 46, comma 4, lett. a). I motivi sono infondati alla luce dell’orientamento, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «rientra tra le ipotesi di assenza ingiustificata di cui all’art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo, applicabile ratione temporis, vigente già prima delle modifiche introdotte dall’art. 3 del d.lgs. n. 116 del 2016, non solo il caso dell’alterazione del sistema di rilevamento delle presenze, ma anche l’allontanamento del lavoratore nel periodo intermedio tra le timbrature di entrata ed uscita, trattandosi di un comportamento fraudolento diretto a fare emergere falsamente la presenza in ufficio.» (Cass. 14.12.2016 n. 25750 e negli stessi termini Cass. n. 17637/2016, Cass. n. 24574/2016). Con le richiamate pronunce, alle quali il Collegio intende dare continuità, si è osservato che «la registrazione effettuata attraverso l’utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell’intervallo compreso tra le timbrature in entrata e in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita ». È stato evidenziato che utili elementi a conforto di detta esegesi possono desumersi dal d.lgs. n. 116/2016, art. 3, comma 1, che introducendo nell’art. 55 quater il comma 1 bis, ha precisato che «costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalen-
dosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso». La disposizione è stata evidentemente introdotta dal legislatore a fini chiarificatori, per meglio esplicitare un precetto già desumibile dalla disciplina previgente, sicché deve escludersi che la stessa abbia portata innovativa, posto che il testo originario dell’art. 55 quater non consentiva di circoscrivere la condotta tipizzata ai soli casi di alterazione/manomissione del sistema automatico (Cass. n. 24574/2016). 3.1. Dalla ritenuta riconducibilità alla fattispecie legale dell’addebito contestato al ricorrente discende l’infondatezza di tutti i motivi che fanno leva sulla disciplina contrattuale, giacché, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009, quest’ultima è stata sostituita di diritto, ai sensi degli artt. 1339 e 1419 cod. civ., dalla normativa di legge, che sulla stessa prevale ex art. 55, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, nel testo applicabile ratione temporis. Questa Corte ha già evidenziato che il legislatore, nell’introdurre fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo, aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva, ha anche affermato con chiarezza la preminenza della disciplina legale rispetto a quella di fonte contrattuale, che, quindi, non può essere più invocata, ove in contrasto con la norma inderogabile di legge (Cass. n. 24574/2016). Detti principi di diritto sono stati richiamati dalla Corte territoriale a fondamento della decisione e vanno qui ribaditi, perché il ricorso non prospetta argomenti che possano indurre a rimeditare l’orientamento già espresso, al quale il Collegio intende dare continuità. 4. Una volta esclusa l’applicabilità della disciplina contrattuale e, quindi, che la recidiva debba essere elemento costitutivo dell’illecito, diviene irrilevante l’esame del decimo motivo, giacché l’error in procedendo denunciato, anche se in ipotesi sussistente, non sarebbe comunque idoneo a giustificare la cassazione della sentenza, avendo la Corte territoriale richiamato a fondamento del giudizio espresso sulla gravità della condotta una pluralità di precedenti disciplinari e non la sola sanzione inflitta con lettera del 9 febbraio 2015. 5. Infondati sono anche il terzo, il quarto ed il quinto motivo, con i quali il C. insiste nel sostenere che la contestazione doveva essere ritenuta tardiva, perché la notizia era stata appresa dall’ufficio per i procedimenti disciplinari il 19 dicembre 2014 e da detta data doveva decorrere il termine di venti giorni previsto per la contestazione dell’addebito dall’art. 45 del CCNL per il personale del comparto Università e, secondo il ricorrente, anche dall’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001. Il quarto motivo prospetta un’interpretazione della norma di legge che si pone in evidente contrasto con il tenore letterale del 4° comma, nella parte in cui precisa che l’ufficio competente per i procedimenti disci-
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plinari «contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento secondo quanto previsto nel comma 2, ma, se la sanzione da applicare è più grave di quella di cui al comma 1, primo periodo, con applicazione di termini pari al doppio di quelli ivi stabiliti...». La norma è chiara nel riferire il raddoppio a tutti i termini indicati nel comma richiamato e, quindi, non solo a quello fissato per la conclusione del procedimento, ma anche a quello imposto al fine di garantire la tempestività dell’iniziativa disciplinare. L’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001, nel testo antecedente alla modifica recentemente attuata dal d.lgs. n. 75/2017, riserva alla competenza del responsabile della struttura le sole sanzioni disciplinari superiori al rimprovero verbale ed inferiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni, e prevede che in detta ipotesi il procedimento debba essere avviato entro venti giorni dall’acquisizione della notizia e concluso nei sessanta giorni successivi alla contestazione. Qualora, invece, il procedimento stesso sia di competenza dell’UPD, in considerazione della maggiore complessità degli accertamenti, solitamente connessa alla diversa gravità dell’addebito, entrambi detti termini vengono raddoppiati, sicché l’ufficio dovrà procedere alla contestazione entro quaranta giorni dalla data di ricezione degli atti o comunque da quella di acquisizione della notizia, e concludere poi il procedimento entro centoventi giorni che, però, in questo caso decorrono, non dalla contestazione, bensì dalla «data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora». La sentenza impugnata è, quindi, fondata su un’interpretazione della normativa corretta e condivisibile, giacché la Corte territoriale dalla ritenuta riconducibilità della fattispecie all’ipotesi sanzionatoria prevista dall’art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001 ha fatto discendere l’applicabilità dei termini stabiliti dal 4° comma dell’art. 55 bis. 5.1. Non può essere invocato il diverso termine previsto dall’art. 45, comma 2, del CCNL 16.10.2008, giacché anche in relazione alla disciplina del procedimento valgono i principi enunciati al punto 3.1. La normativa inderogabile di legge prevale, infatti, su quella contrattuale, alla quale si sostituisce automaticamente ai sensi degli artt. 1339 e 1419 cod. civ., richiamati dal primo comma dell’art. 55 del d.lgs. n. 165/2001. 5.2. Il termine di quaranta giorni previsto per la contestazione risulta nella specie rispettato, sia se si assume quale dies a quo la data di audizione del responsabile del servizio dott. A. (19.12.2014), sia se lo si fa decorrere dal 7 gennaio 2015, ossia dal momento in cui il dipendenti Regoli aveva circostanziato l’episodio, indicando il giorno in cui si era verificato l’illegittimo abbandono del servizio. A fini di completezza osserva il Collegio che correttamente la Corte territoriale ha escluso che il termine potesse decorrere dalla prima della seconda
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audizione, giacché «ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (ex art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310 del 5 novembre 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione...» (Cass. n. 7134/2017 e negli stessi termini Cass. n. 25379/2017 e Cass. n. 6989/2018). Il principio, sebbene affermato in relazione al termine per la conclusione del procedimento, è applicabile anche qualora venga in rilievo la tempestività della contestazione, poiché quest’ultima può essere ritenuta tardiva solo qualora l’amministrazione rimanga ingiustificatamente inerte e, quindi, non proceda ad avviare il procedimento, pur essendo in possesso degli elementi necessari per il suo valido avvio. Il termine, invece, non può decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito – Omissis. 6.1. Il tredicesimo motivo, poi, è infondato nella parte in cui addebita alla sentenza impugnata di avere applicato retroattivamente l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 116/2016, poiché, come già evidenziato al punto 3, la disposizione non ha portata innovativa in quanto anche il testo originario dell’art. 55 quater non consentiva di circoscrivere la condotta tipizzata ai soli casi di alterazione/manomissione del sistema automatico. 6.2. Infine non risponde al vero che la Corte territoriale non abbia valutato la gravità della condotta, nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi. Si deve qui ribadire che, anche in presenza di uno degli illeciti tipizzati dall’art. 55 quater d.lgs. n. 165/2001, va escluso qualsivoglia automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare (Cass. n. 1351/2016, Cass. n. 18326/2016, Cass. n. 18858/2016, Cass. n. 24574/2016), perché della norma deve essere fornita un’interpretazione orientata al rispetto dei principi costituzionali. Il Giudice delle leggi, infatti, esaminando diverse disposizioni legislative che prevedevano automatismi espulsivi, ha ritenuto che la privazione di una valutazione di graduazione della sanzione in riferimento al caso concreto vulnera i principi della tutela del lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), del buon andamento amministrativo (art. 97 Cost.) e quelli fondamentali di ragionevolezza (art. 3 Cost. Cfr. Corte Cost. n. 971/1988 e Corte Cost. n. 706/1996 in materia di destituzione di diritto; Corte Cost. n. 170/2015 in materia di trasferimento obbligatorio in caso di violazione di specifici doveri da parte dei magistrati). È
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stato, però, evidenziato anche, in relazione all’assenza ingiustificata, che « la disposizione normativa cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a “scriminante” della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa.» (Cass. n. 18326/2016). Nel caso di specie la Corte territoriale, dopo avere escluso, con accertamento di fatto non censurabile in questa sede, la fondatezza delle giustificazioni fornite da C., ha anche evidenziato che l’addebito contestato, per la sua gravità, era idoneo ad integrare una giusta causa di licenziamento, non solo sulla base della previsione normativa, ma anche perché la condotta del lavoratore appariva «costellata negli anni di violazioni delle regole relative alla presenza in servizio e alla sua attestazione». La pronuncia risulta, pertanto, rispettosa del principio di diritto sopra enunciato – Omissis.
8. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 5.000,00 per competenze professionali ed € 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis. Omissis.
Non è un paese per fannulloni: il licenziamento del dipendente pubblico per falsa attestazione della presenza in servizio Sommario : 1. L’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei dipendenti pubblici. – 2. Il caso di specie: motivi del ricorso e decisione della Corte di Cassazione. – 3. La tipizzazione dei casi di licenziamento per falsa attestazione della presenza nell’art. 55 quater, d.lgs. n. 165/2001. – 4. Altri profili del licenziamento disciplinare nel settore pubblico: obbligatorietà, tempestività, termini dell’azione. – 5. Conclusioni: meno discrezionalità, più specialità.
Sinossi. Nella pronuncia commentata, la Corte di Cassazione decide su un caso di falsa attestazione della presenza in servizio, qualificando come tale, conformemente ad un orientamento consolidato in giurisprudenza, la condotta di un dipendente pubblico che aveva omesso di registrare l’uscita dal luogo di lavoro. L’autrice esamina le ragioni e la portata degli interventi legislativi intervenuti recentemente in materia, con riferimento alla nozione di falsa attestazione ed alle modifiche procedurali correlate. Particolare attenzione è dedicata agli spazi riservati dal legislatore all’autonomia collettiva ed alla discrezionalità del giudice nell’ipotesi in cui il dipendente pubblico attesti la propria presenza in servizio contrariamente al vero od ometta di registrare il proprio allontanamento dal luogo di lavoro.
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1. L’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei
dipendenti pubblici.
La pronuncia affronta il caso di un dipendente pubblico licenziato per non aver registrato l’uscita dal luogo di lavoro, condotta riconducibile alla falsa attestazione della presenza in servizio, oggi tipizzata dall’art. 55 quater, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 165/2001, recentemente riformulato, in attuazione della c.d. legge Madia (l. n. 124/2015), dal d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 e successivamente integrato dal d.lgs. n. 118/2017. Poco prima, il d.lgs. n. 116/2016 – anch’esso attuativo della riforma Madia – aveva modificato, fra gli altri, l’art. 55 bis, dettato in materia di forme e termini del procedimento disciplinare, vale a dire di regole procedurali da applicare anche in relazione alla citata ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio. Le due disposizioni, al cuore della pronuncia in commento, sono indicative di alcune fra le principali finalità che hanno mosso il legislatore delegato ad intervenire sulla materia, ossia «accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare» (art. 17, lett. s, legge delega n. 124/2015). Dette finalità si collocano nel quadro di un complessivo ripensamento del testo unico sul pubblico impiego, volto a rendere più efficiente, chiaro e trasparente l’esercizio dei compiti e l’assunzione delle responsabilità attribuite ai dipendenti pubblici; con ciò il legislatore prosegue lungo il percorso già tracciato dalla riforma c.d. Brunetta (l. n. 150/2009, attuata dal d.lgs. n. 15/2009), che introdusse per la prima volta la fattispecie della falsa attestazione della presenza in servizio1.
2. Il caso di specie: motivi del ricorso e decisione della Corte di cassazione.
Nel caso di specie, la Cassazione ha confermato la sentenza con cui la Corte d’Appello di Firenze aveva accolto il reclamo (ex art. 1, comma 58, l. n. 92/2012) proposto dall’U-
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In precedenza, l’applicazione delle sanzioni disciplinari, anche nel pubblico impiego, si fondava sull’art. 2106 c.c. e sull’art. 7, l. 20 maggio 1970, n. 300, per come integrate dall’art. 55, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. La contrattazione collettiva aveva il compito di tipizzare i comportamenti punibili e le sanzioni applicabili, con margini di manovra ben diversi da quelli attuali. V. Mainardi, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, Giuffrè, 2002. Sulle fonti del procedimento disciplinare nel pubblico, v. Ravelli, Sanzioni disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici, in Napoli, Garilli (a cura di), La terza riforma del lavoro pubblico tra aziendalismo e autoritarismo, Cedam, 2013, 481. Sulle modifiche recenti, ex multis, Boscati, La politica del Governo Renzi per il settore pubblico tra conservazione e innovazione: il cielo illuminato diverrà luce perpetua?, in LPA, 2014, 233 ss., Matteini, Orsini, Il procedimento disciplinare dei dipendenti pubblici fra modifiche legislative e giurisprudenza della Corte di cassazione 2015/2016, in Aran Occasional Paper 6/2016, https://www.aranagenzia.it/attachments/article/5928/6_Disciplinare.pdf. La «grande riforma» del pubblico impiego, che iniziava già negli anni novanta con la privatizzazione dello stesso (v. Zoppoli, Legge, contratto collettivo e autonomia individuale: linee per una riflessione sistematica vent’anni dopo la “privatizzazione”, in LPA, 2013, 5, 713 ss.) è proseguita, nel corso del decennio attuale, concentrandosi (fra le altre cose) sull’intento di migliorare l’efficienza dei pubblici uffici mediante il contrasto alla scarsa produttività ed assenteismo, come indicato dall’art. 7, comma 1, l. n. 15/2009, che delegava il Governo ad introdurre misure per ottimizzare la produttività del lavoro pubblico, l’efficienza e la trasparenza della pubblica amministrazione.
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niversità di Firenze avverso la sentenza del Tribunale, che (dopo la fase di opposizione) aveva annullato il licenziamento intimato dall’Ateneo ad un proprio dipendente per essersi allontanato (in data 30 ottobre 2014) dal luogo di lavoro senza alcuna autorizzazione e omettendo di attestare l’uscita mediante il sistema di rilevamento delle presenze. Secondo quanto previsto dalle circolari dell’Università n. 73415 del 5 dicembre 2007 e n. 86800 del 23 dicembre 2008, anche i dipendenti impiegati in attività formative, come il lavoratore in questione, avrebbero dovuto timbrare il cartellino marcatempo in ingresso e in uscita. L’amministrazione affermava di essere venuta a conoscenza dell’allontanamento alcuni mesi dopo il fatto (7 gennaio 2015), cioè nel momento in cui, durante un procedimento disciplinare avviato per comportamenti simili, una testimonianza aveva collocato temporalmente l’episodio. Diversamente, la difesa di parte lavoratrice sosteneva che gli accadimenti fossero noti già al tempo delle dichiarazioni rese durante un’audizione tenutasi l’anno precedente (19 dicembre 2014), quando il responsabile del servizio aveva menzionato l’avvenuto allontanamento. L’avvio del procedimento disciplinare in data 22 gennaio 2015 veniva considerato tardivo dalla difesa del dipendente, perché la decadenza avrebbe dovuto decorrere dalla testimonianza dell’anno precedente. Peraltro, tale difesa sosteneva l’applicabilità al personale del comparto Università dell’art. 46 del CCNL del 16 ottobre 2008, il quale sanziona l’abbandono ingiustificato del servizio con la sospensione sino a dieci giorni o, in caso di recidiva, fino a sei mesi; la stessa norma prevede l’avvio dell’azione disciplinare entro venti giorni dalla notizia. Del resto, la recidiva non sarebbe stata opportunamente contestata e ciò non avrebbe consentito la formazione del giudicato al riguardo. Di conseguenza, trattandosi di un’infrazione di minore gravità (con sospensione massima di dieci giorni) i termini del procedimento sarebbero quelli previsti dall’art. 55 bis, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 (nella formulazione applicabile ratione temporis), che prevedeva l’inizio del procedimento disciplinare entro venti giorni dall’informazione e la conclusione entro sessanta giorni dal fatto. La Cassazione ha ritenuto infondati i motivi che facevano perno sull’esistenza di un supposto termine negoziale di venti giorni a decorrere dalla prima, generica, notizia, così come di quelli fondati sull’applicabilità di una sanzione più lieve del licenziamento. In primo luogo, nella decisione che si annota, la Suprema Corte ha aderito al consolidato orientamento per il quale l’ipotesi dell’assenza ingiustificata consistente nell’allontanamento del lavoratore tra la timbratura di entrata e di uscita potesse rientrare nell’ipotesi di cui all’art. 55 quater d.lgs. 165/2001 già in base alla formulazione precedente alla riforma del d.lgs. n. 116/2016, applicabile ratione temporis al caso di specie (Cass. 14 dicembre 2016 n. 15750; Cass. n. 17637/2016; Cass. n. 24574/2016). Conseguentemente, in secondo luogo, la Corte ha affermato che la disciplina negoziale non potesse escludere la prevalenza della tipizzazione legislativa del licenziamento per falsa attestazione della presenza in servizio, in quanto, dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009, la disciplina collettiva è sostituita di diritto (artt. 1339 e 1419 c.c.) dalla normativa di legge. L’imperatività delle disposizioni di legge contenute nell’art. 55 era (ed è) in effetti espressamente contemplata già dall’art. 55, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, per come modificato dal d.lgs. n 150/2009.
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In terzo luogo, dall’applicabilità dell’art. 55 quater, secondo la Corte, sarebbe conseguita l’apertura del termini di cui all’art. 55 bis, comma 4 e non dei più brevi termini del comma 2. Si consideri che, nella formulazione applicabile ai fatti di causa, tale seconda disposizione prevedeva che, qualora il procedimento fosse di competenza dell’UPD (per la complessità degli accertamenti necessari, in ragione della gravità degli addebiti), i termini dovessero essere raddoppiati rispetto a quelli previsti per i casi più semplici, di competenza del responsabile della struttura, e consistere quindi in quaranta giorni per la contestazione dalla data di ricezione degli atti o acquisizione della notizia e in centoventi giorni per la conclusione del procedimento2. In definitiva, la Cassazione ha confermato la ricostruzione emersa in fase di appello, nella quale il Giudice fiorentino aveva ritenuto che l’illecito rientrasse nella fattispecie tipizzata dall’art. 55 quater, comma 1, lett. a), applicabile ogniqualvolta vi sia un’attestazione non veritiera della presenza in servizio, e che le ipotesi di legge dovessero considerarsi aggiuntive a quelle previste dalla contrattazione collettiva, le cui clausole sarebbero state sostitute di diritto dalle disposizioni di legge. Inoltre, la condotta sarebbe stata comunque sufficientemente grave, considerando la pluralità di sanzioni già intimate per motivi simili (sul piano soggettivo), nonché l’effettiva falsa attestazione della presenza (su quello oggettivo.) L’irrogazione della sanzione del licenziamento sarebbe stata pertanto proporzionata al comportamento del lavoratore.
3. La tipizzazione dei casi di licenziamento per falsa
attestazione della presenza nell’art. 55 quater, d.lgs. n. 165/2001. Il caso esaminato si presta ad alcune osservazioni sull’assetto attuale del licenziamento del dipendente per falsa attestazione della presenza in servizio, in considerazione delle modifiche legislative che si sono susseguite in materia. L’art. 55 quater, comma 1, lett. a), prevede che, ferme restando la disciplina del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo e le ulteriori tipizzazioni del contratto collettivo, debba «comunque» applicarsi la sanzione del licenziamento in caso di «falsa attestazione della presenza in servizio, mediante alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia»3.
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V. Mainardi, Lima, Il procedimento disciplinare e i rapporti con il procedimento penale, in F. Carinci, Mainardi (a cura di), La terza riforma del lavoro pubblico, Ipsoa, 2011, 493 ss. Formulazione introdotta dall’art. 69 del d.lgs. n. 150/2009.
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La prima conseguenza dell’introduzione di tale fattispecie all’interno del testo unico è, analogamente a quanto ritenuto in dottrina4 e in giurisprudenza5 già antecedentemente alla pronuncia in commento, l’illegittimità di ogni previsione della contrattazione collettiva che regoli diversamente le fattispecie della falsa attestazione della presenza in servizio. Del resto, il fatto che le ipotesi di legge siano aggiuntive rispetto a quelle negoziate collettivamente, le quali, in ipotesi, sarebbero sostituite di diritto dal dato normativo «ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile», è espressamente previsto dall’art. 55, comma 1, d.lgs. n. 165/2001. La seconda è che si riduce lo spazio di discrezionalità riservato alla pubblica amministrazione e alla valutazione giudiziale sull’opportunità o meno di sanzionare con il licenziamento la falsa attestazione della presenza in servizio, anche a scopo deterrente nei confronti degli altri dipendenti e «indipendentemente dalla propensione a ripeterl(a) da parte del soggetto che se ne sia reso responsabile»6. La norma, in effetti, esprime in modo esemplare l’approccio seguito dal legislatore nelle riforme degli ultimi anni sul pubblico impiego: colpire in modo efficace il dipendente «fannullone»7 per migliorare l’efficienza della macchina amministrativa, intensificando il ruolo della regolazione eteronoma rispetto alle valutazioni dei dirigenti, dei giudici e delle parti sociali. Se ciò costituisca un valido mezzo per il raggiungimento degli obiettivi indicati è questione che fuoriesce dall’analisi giuridica; certo è che l’armamentario legislativo volto a combattere l’assenteismo nelle pubbliche amministrazioni è stato progressivamente ampliato, sebbene all’aumentare degli strumenti non corrisponda sempre e comunque una maggiore incisività della disciplina. È in questa chiave che deve essere letta, in primo luogo, l’aggiunta all’art. 55 quater del comma 1 bis, operata dall’art. 1, d.lgs. n. 116/2016, a mente del quale «costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro stesso. Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta». Tale comma aggiuntivo, che risponde ad un intento di specificazione di quanto contenuto nella lett. a), non modifica – piuttosto, puntualizza – il concetto di falsa attestazione della presenza e ne estende l’applicazione anche ai terzi che abbiano favorito tali condotte, al fine di includervi coloro che – come accaduto in casi mediaticamente piuttosto
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Ex multis, Marinelli, Il concetto di falsa attestazione della presenza in servizio del dipendente pubblico, in LG, 2017, 592. V. ad es. Cass., 1° dicembre 2016, n. 24574, sulla quale v. Calvellini, Pubblico impiego e falsa attestazione della presenza in servizio: il “vaso di Pandora” può dirsi chiuso?, in DRI, 2017, 209 ss.; Marinelli, Il concetto di falsa attestazione della presenza in servizio del dipendente pubblico, cit. 592 ss. Marinelli, Il concetto di falsa attestazione della presenza in servizio del dipendente pubblico, cit. 593, con riferimento a quanto scritto espressamente in Cass., 6 giugno 2014, n. 12806, in FI, 2014, I, 2493 ss., in cui, come sottolinea correttamente l’autore, si fa preciso riferimento al «disvalore ambientale» della condotta. Ballestrero, “Modello fannullone”: il lavoratore pubblico secondo la riforma Brunetta, in Ballestrero, De Simone (a cura di), Persone, lavori, famiglie, Giappichelli, 2009, 15 ss.
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noti – abbiano “passato” il badge altrui per farne risultare la presenza in servizio o abbiano tenuto comportamenti a ciò assimilabili, che in precedenza non sarebbero stati ricompresi nelle ipotesi ricondotte dal legislatore alla sanzione del licenziamento8. Antecedentemente alla riforma intervenuta con il d.lgs. n. 116/2016, la giurisprudenza aveva già interpretato la nozione di la falsa attestazione in modo piuttosto esteso, valorizzando il falso convincimento indotto nell’amministrazione, indipendentemente dalla manomissione dei sistemi di rilevamento delle presenze o di altri comportamenti intenzionalmente posti in essere per indurre una erronea rappresentazione della realtà. L’ipotesi in questione si sarebbe pertanto verificata ogni volta che il lavoratore si fosse assentato per un lasso di tempo economicamente apprezzabile, anche qualora egli non avesse agito “architettando” in modo ulteriormente fraudolento la propria condotta9. Tale interpretazione è stata accolta anche dalla sentenza in commento, che considera la disposizione applicabile ad una mera mancata registrazione dell’uscita dal lavoro a fatti antecedenti al d.lgs. n. 116/2016, proprio in virtù di tale consolidato orientamento. In proposito, si può rilevare che la vera questione tuttora aperta sotto il profilo interpretativo, sin dalla riforma Brunetta del 2009, è quale sia lo spazio residuo di valutazione per l’amministrazione e per il giudice nell’applicazione della sanzione del licenziamento o nella decisione in merito alla stessa. Infatti, la tipizzazione legislativa dovrebbe implicarne, per assumere un qualche significato, una qualche limitazione. A questo proposito occorre considerare che: il dato testuale dell’art. 55 quater fa salva la disciplina dei presupposti giustificativi del licenziamento disciplinare; l’art. 55, comma 1, rinvia all’applicazione dell’art. 2106 c.c.; infine, l’art. 63, al neo introdotto comma 2 bis, prevede, in caso di annullamento della sanzione per difetto di proporzionalità, che il giudice possa rideterminarla, in ragione della gravità del comportamento e dell’interesse pubblico violato. Di conseguenza, si può individuare un margine residuo di discrezionalità in relazione alla valutazione della proporzionalità del licenziamento rispetto al fatto della falsa attestazione della presenza. Il primo elemento che l’amministrazione e il giudice sono tenuti a considerare – ove il lavoratore ne alleghi la prova, ex art. 1218 c.c. – è se sussistano ragioni atte ad escludere l’imputabilità del fatto. La giurisprudenza prevalente si è espressa in proposito nel senso di negare la sussistenza di «ipotesi di cessazione automatica del rapporto di lavoro»10; recentemente, la Cassazio-
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Calvellini, Pubblico impiego e falsa attestazione della presenza in servizio: il “vaso di Pandora” può dirsi chiuso?, in DRI, 2017, 209 ss., in commento a Cass., 1° dicembre 2016, n. 24574, sentenza che appunto conferma come tale comma aggiuntivo non modifichi, ma puntualizzi quanto contenuto nella lett. a). Altra pronuncia dello stesso anno che si esprime in modo simile è la sent. Cass., 11 ottobre 2016, n. 20434. Si vedano altresì sent. Cass., 14 settembre 2016, n. 2570 e sent. Cass., 14 settembre 2016, n. 2570, sulle quali, rispettivamente, v. il commento di Marinelli, Il concetto di falsa attestazione della presenza in servizio del dipendente pubblico, cit; Ingrao, Le norme imperative nel procedimento disciplinare del pubblico impiego privatizzato: gli assenti hanno sempre torto?, in RIDL, 2016, II, 636 ss. 9 V. Cass., 14 settembre 2016, n. 2750, cit., Cass., 9 marzo 2017, n. 6099, cit. 10 Zoli, L’esercizio del potere disciplinare nel settore pubblico riformato, in DRLI, 2018, 3, 691. In questo senso, si sono espresse ad esempio Cass., 1 dicembre 2016, n. 24574, cit.; Cass., 14 dicembre 2016, n. 2570 cit. Si consideri che in passato la Corte costituzionale (C. cost., 14 ottobre 1988, n. 971, in RIDL, 1989, II, 660 ss.; C. cost., 27 aprile 1993, n. 197, in FI, 1994, I, 385 ss.) ha ritenuto contrarie alla Carta fondamentale alcune disposizioni in materia di destituzione di diritto del dipendente al posto dell’instaurazione del normale
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ne ha precisato che l’art. 55 quater «cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore», ferma però restando «la verifica, caso per caso, dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se vi siano elementi che assurgano a scriminante della condotta tenuta dal lavoratore, tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione»11. Nell’apprezzamento delle circostanze concrete può pertanto assumere rilievo l’indagine di eventuali ragioni scriminanti (si possono immaginare, ad esempio, la notizia di un lutto familiare, un improvviso malessere, altri accadimenti gravi, dell’ignoto malfunzionamento del macchinario che registra le presenze)12 o una valutazione di estrema lievità se non addirittura di non nocività del fatto (ad esempio, ove il lavoratore sia uscito per un breve momento, economicamente non apprezzabile, ed abbia successivamente registrato il reingresso, segno di pura dimenticanza che però non impedisce di ricostruire i fatti, che valga ad escludere la rilevanza del fatto di falsa attestazione sul piano oggettivo). Altro è, invece, stabilire se e quanto possa spingersi il giudizio di proporzionalità del giudice al di fuori di tali “questioni limite”. Una prima lettura potrebbe essere, valorizzando l’avverbio comunque, contenuto nell’art. 55 quater13, riconoscere che il senso della tipizzazione legislativa è stato precisamente quello di limitare la discrezionalità valutativa, nelle fattispecie tipizzate, in relazione all’elemento fiduciario della giusta causa o della notevolezza dell’inadempimento: quando il fatto sia oggettivamente esistente (ed economicamente apprezzabile) e il contesto non presenti elementi di gravità tali da costituire fattori scriminanti, il legislatore ha inteso che debba essere applicata comunque si presenti la dinamica dei fatti la più grave sanzione del licenziamento. In questo senso, si potrebbe osservare che negli ultimi decenni le riforme legislative hanno palesemente concepito l’esercizio del potere del datore di lavoro pubblico di sanzionare i dipendenti in ipotesi connotate da particolare disvalore per il buon andamento e l’immagine dell’amministrazione pubblica14 – forse uno dei casi esemplari è proprio quello della falsa attestazione della presenza15 – come «uno degli strumenti privilegiati (…) per aumentare i livelli di efficienza e produttività del personale delle pubbliche amministrazioni»16.
procedimento disciplinare, così come la destituzione dei pubblici dipendenti in caso di sentenza di condanna per la realizzazione di reati connessi alla delinquenza mafiosa, proprio ritenendo che la sanzione debba sempre pervenire al termine di un effettivo procedimento disciplinare, che consenta la valutazione delle circostanze del caso concreto. 11 Cass., 19 settembre 2016, n. 18326, in FI ,2016, I, 3444. Passaggio riportato esattamente in questi termini anche da Tampieri, Il licenziamento disciplinare nelle disposizioni di legge, in LPA, 2018, 2, 14. 12 Similmente, Zoli, L’esercizio del potere disciplinare nel settore pubblico riformato, cit., 692. 13 Tampieri, Il licenziamento disciplinare nelle disposizioni di legge, cit., 8. 14 Mainardi, Il licenziamento disciplinare per falsa attestazione di presenza in servizio, in GDA, 2016, 5, 585 ss. 15 L’art. 55 quater è considerato effettivamente una “norma manifesto” in tal senso da Borgogelli, La responsabilità disciplinare del dipendente pubblico, in Zoppoli (a cura di), Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, ES, 2009, 399 ss. 16 Rossi, Brevi note sul licenziamento disciplinare del dipendente pubblico dopo il d.lgs. 20 giugno 2016, n. 116, in ADL, 699, in commento a Cass., 9 marzo 2017, n. 6099 in un caso in cui il giudice aveva ritenuto legittimo il licenziamento per la mancata timbratura della scheda magnetica di un lavoratore e conseguente falsa attestazione della presenza in servizio in relazione ad un lasso di tempo economicamente apprezzabile.
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A ciò si potrebbe obiettare che, come già accennato, a prescindere dalle intenzioni del legislatore, la giurisprudenza ha ritenuto che anche il licenziamento intimato nelle fattispecie tipizzate dall’art. 55 quater possa comportare la sindacabilità giudiziale alla luce del canone di proporzionalità della sanzione17. È chiaro però che il giudizio di proporzionalità potrà consistere in una valutazione quanto più minimale delle ragioni e delle circostanze del caso concreto quanto più il legislatore specifichi le ipotesi rientranti nelle fattispecie che prevedono l’applicazione per legge della sanzione del licenziamento; i margini di discrezionalità, pertanto, variano a seconda del modo in cui sono formulate le diverse ipotesi dell’art. 55 quater. Del resto, posto che una definizione molto precisa delle ipotesi cui consegue il licenziamento riduce la discrezionalità del giudice ove si verifichi una corrispondenza esatta fra fattispecie astratta e concreta, un’eccessiva tipizzazione può tuttavia implicare una minore “capacità di presa” della disciplina legislativa per tutti i fatti che – come spesso accade nella realtà – non siano perfettamente assimilabili alle condotte tipizzate dalla legge18. Nel caso specifico della falsa attestazione in servizio, quando essa si verifica oggettivamente ed è intenzionale, difficilmente la valutazione di proporzionalità potrà spingersi molto oltre l’individuazione di scriminanti o l’assenza di una lesione del bene giuridico, secondo un ragionamento simile a quello penalistico19. Diversamente, la tipizzazione diverrebbe praticamente lettera morta o per lo meno niente più che un “suggerimento” al datore di lavoro e al giudice20. Né sembra poter venire in aiuto l’art. 63, per quanto previsto recentemente al comma 2 bis, in quanto il fatto di consentire al giudice di riformulare la sanzione quando sia annullata per difetto di proporzionalità risponde all’esigenza di irrogare comunque una sanzione al dipendente pubblico la cui condotta sia stata scorretta, sia pure non nella misura ritenuta dal datore, ma nulla dice sul potere del giudice di valutare la proporzionalità nei casi tipizzati per legge21. Nel caso in commento, d’altra parte, la Corte di Cassazione ha sposato la valutazione del giudice territoriale, per il quale il licenziamento sarebbe stato fondato in quanto il fatto corrispondeva alla tipizzazione legislativa. L’osservazione per cui una giusta causa di licenziamento sarebbe stata ravvisabile anche in base alle categorie generali rappresentava, in effetti, solo un passaggio argomentativo a fortiori, per vero superfluo ai fini della
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V., oltre alle sentenze già citate, Cass., 6 giugno 2014, n. 12806, in FI, 2014, I, 2493; Cass., 25 agosto 2016, n. 17335, in FI, 2016, I, 3066. Tampieri, Il licenziamento disciplinare nelle disposizioni di legge, cit., 2, che sottolinea come l’avverbio “comunque” debba riferirsi alla valutazione oggettiva di gravità della sanzione. 18 Mainardi, Il licenziamento disciplinare per falsa attestazione di presenza in servizio, in GDA, 2016, 5, 588 ss. 19 Zoli, L’esercizio del potere disciplinare nel settore pubblico riformato, cit., 691, che si sofferma sull’approccio simile a quello penalistico della giurisprudenza che ha da tempo riconosciuto come la tipizzazione delle condotte abbia carattere oggettivo ma non soggettivo, dovendosi prendere in considerazione la presenza di eventuali scriminanti. 20 In questo senso osserva un autore come ciò sia stato precisamente il risultato della valutazione di proporzionalità in merito all’art. 1, comma 61, l. n. 662/1996, in materia di violazione del divieto di assunzione di incarichi retribuiti per i dipendenti della pubblica amministrazione a tempo pieno. Così Tampieri, Il licenziamento disciplinare nelle disposizioni di legge, cit., 9. 21 Zoli, L’esercizio del potere disciplinare nel settore pubblico riformato, 691. Secondo la sent. Cass., 19 settembre 2016, n. 18326, posta la necessità di dare luogo al procedimento disciplinare, occorre riconoscere che l’oggettiva gravità della falsa attestazione, tale da ricondurre al licenziamento, è presupposta dal legislatore.
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decisione. La condotta del lavoratore, perfettamente rientrante nell’ipotesi tipizzata dalla legge, era stata «costellata negli anni di violazioni delle regole relative alla presenza in servizio e alla sua attestazione», motivo per cui sarebbe stato comunque possibile ritenere che vi fosse una più che sufficiente proporzionalità fra sanzione e illecito, anche in assenza dell’art. 55 quater. Il che potrebbe casomai indurre l’interprete a riflettere sull’utilità della tipizzazione legislativa. Sennonché, come si legge piuttosto chiaramente fra le righe della pronuncia qui esaminata, il comportamento complessivo del lavoratore nel tempo – potenzialmente utile per la configurazione di una giusta causa di licenziamento per assenze giustificate, in generale – non conta più di tanto nella misura in cui la legge prevede la sanzione del licenziamento (anche in occasione di un’assenza soltanto). Questo, forse, è il vero portato della disposizione: escludere la rilevanza del comportamento complessivo del dipendente e imporre la sanzione del licenziamento anche ove la falsa attestazione costituisca un fatto episodico22.
4. Altri profili del licenziamento disciplinare nel settore
pubblico: obbligatorietà, tempestività, termini dell’azione.
La specialità della disciplina del licenziamento disciplinare per i pubblici dipendenti rispetto a quella generale si riscontra anche nella previsione, recentemente introdotta all’art. 55, per cui la violazione delle disposizioni contenute dallo stesso articolo e dai seguenti sino all’art. 55 octies costituisce illecito disciplinare in capo ai dipendenti. Ne consegue per l’amministrazione l’obbligo, qualora sia a conoscenza dei fatti, di attivare il procedimento disciplinare (o cautelare, in caso di flagranza): ai sensi dell’art. 55 quater, per come modificato dal d.lgs. n. 116/2016, la rispettiva violazione senza un giustificato motivo può comportare per il dirigente la sanzione del licenziamento. A ciò si è aggiunta, con le modifiche apportate dal d.lgs. n. 75/2017, l’auspicata semplificazione del procedimento disciplinare; si nota per inciso che, se fosse stata applicabile in al caso in commento, essa avrebbe risolto in radice non pochi dubbi interpretativi. Infatti, oggi si prevede che, al di fuori degli istituti scolastici e ad eccezione della sanzione del rimprovero verbale (caso, quest’ultimo, in cui si applicano le disposizioni dei contratti collettivi, ex art. 55 bis, comma 1), la competenza ed i termini siano quelli conferiti all’ufficio provvedimenti disciplinari, mentre in passato la bipartizione avrebbe comportato, in caso di violazione del riparto di competenze, la nullità dell’azione disciplinare o il trasferimento del procedimento presso l’UDP, a seconda degli orientamenti interpretativi23. Altro aspetto dibattuto fra le parti nel caso di specie è quello del termine a quo di decorrenza, oggi chiaramente individuato dal momento in cui l’ufficio ne abbia piena
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In questo senso v. anche Marinelli, Il concetto di falsa attestazione della presenza in servizio del dipendente pubblico, cit. 596. V. Trib. Roma, 3 marzo 2017, in RIDL, 2017, II, 629 ss. con nota Ingrao, cit., 636 ss.
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conoscenza, ex art. 55 bis, comma 424. Si può osservare in proposito che l’importanza attribuita alla riduzione dei tempi – finalizzata all’accentuazione della tempestività dell’azione disciplinare – ha fatto da contrappeso ad una concezione del termine iniziale che effettivamente consente di non ritenere sempre affetta da illegittimità la sanzione irrogata a seguito di un’azione promossa dopo un certo tempo. Fintantoché sia mancata un’informazione circostanziata sui comportamenti illeciti, in altre parole, il termine non inizia a decorrere. Ciò consente di scongiurare la sostanziale impunità dei pubblici dipendenti che commettano illeciti disciplinari di cui sia plausibile o addirittura nota, ma non circostanziata, la notizia dell’infrazione.
5. Conclusioni: meno discrezionalità, più specialità. A fronte delle sollecitazioni all’indignazione – oramai, un vero topos del dibattito politico o persino elettorale – nei confronti dei “furbetti del cartellino”25, il legislatore ha progressivamente confermato l’intenzione di promuovere l’efficienza della p.a. per il mezzo di un’accentuata attenzione alle conseguenze sanzionatorie nei confronti dei dipendenti poco produttivi o comunque “assenteisti”26. Così facendo, negli ultimi anni l’esercizio del potere disciplinare nella pubblica amministrazione si è profondamente differenziato da quello del settore privato (nonostante quest’ultimo abbia fondamento contrattuale sin dalla l. n. 421 del 1992), poiché è stato improntato ad una logica di obbligatorietà dell’azione disciplinare con tipizzazione degli illeciti, cui si è accompagnata una progressiva erosione degli spazi in precedenza lasciati alla discrezionalità datoriale e all’autonomia collettiva27. Ne sono un esempio proprio il descritto sforzo definitorio profuso di recente in relazione alla falsa attestazione della presenza in servizio, di cui all’art 55 quater28, cui si accompagnano la maggiore rapidità e certezza dei tempi dell’azione disciplinare che dovrebbero risultare dalle modifiche legislative, apportate all’art. 55 bis, , precisamente al fine di potenziare l’effettivo impatto dissuasivo delle disposizioni legislative e di incidere così indirettamente anche sulle performances delle amministrazioni.
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Villa, Nozione di «notizia dell’infrazione» e decorrenza dei termini del procedimento disciplinare, in RIDL, 2016, II, 342 ss. V. in proposito Esposito, I giudici e il lavoro pubblico: dalla contrattualizzazione alla c.d. “riforma Madia”, in LD, 2016, 875. 26 Secondo una concezione che avrebbe dovuto trovare un contrappeso negli incentivi legati al merito dei singoli dipendenti, così Carabelli, La riforma Brunetta: un breve quadro sistematico delle novità legislative e alcune considerazioni del lavoro pubblico, in WP D’Antona, It., 101/2010. 27 Voza, Il riassetto del sistema disciplinare nel lavoro pubblico, in LPA, 2018, 2, 1 ss. 28 Successivamente alla formulazione seguente alla riforma del 2016, la norma prevede che costituisca falsa attestazione della presenza in servizio, oltre a quanto indicato dalla lett. a) del comma 1, anche «qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso» (comma 1 bis). La tipizzazione prevista al primo comma dalla lett. a) risale invece già all’intervento legislativo del 2009. 25
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In fin dei conti, come già osservato in dottrina, le «nozze d’argento»29 dell’ordinamento con la privatizzazione di tale settore si “festeggiano”, paradossalmente, proprio con l’accentuazione di significative divergenze di disciplina: marcata e pervasiva tipizzazione degli illeciti, diversa definizione dei soggetti, dei tempi e delle modalità del procedimento disciplinare, obbligatorietà della contestazione, restrizione degli spazi lasciati dalla legge all’autonomia collettiva. Nell’insieme, questi elementi indicano chiaramente come il legislatore abbia inteso escludere la discrezionalità dei soggetti privati nell’esercizio del potere disciplinare nei confronti degli impiegati pubblici30, confermando una scelta di politica del diritto che, oggi come un decennio fa, «mal si concilia con il piglio aziendalistico-manageriale di cui ama fregiarsi l’ispiratore della riforma»31. Cinzia Carta
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Tosi, Le novelle legislative sul lavoro privato e pubblico privatizzato tra armonizzazione e diversificazione, in RIDL, 2018, 17. A fronte, in effetti, di una maggiore stabilità dell’impiego. 31 Così già Ravelli, Sanzioni disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici, cit., 480, così richiamato anche in Marinelli, Il concetto di falsa attestazione della presenza in servizio del dipendente pubblico, cit. 593. 30
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Giurisprudenza Tribunale Roma, ordinanza 6 agosto 2018, n. 75870; Giud. Rossi – F. M. (avv. Basile) c. Rossi Bus S.p.a. (avv. Hernandez). Licenziamenti – Regime a tutele crescenti – Contratto a termine stipulato prima del 7 marzo 2015 – Conversione successiva al 7 marzo 2015 – Applicabilità – Sussistenza – Contratto a termine stipulato dopo il 7 marzo 2015 – Trasformazione volontaria o di fatto del contratto – Applicabilità del regime a tutele crescenti – Esclusione.
Solo le ipotesi che possano considerarsi realmente nuove assunzioni o le ipotesi di contratti a tempo determinato stipulati prima del 7.3.2015, ma che subiscano una “conversione” in senso tecnico in data successiva al 7.3.2015, per via giudiziale o stragiudiziale, possono ritenersi ricomprese nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015. Devono, invece, escludersi tutte le ipotesi di semplice trasformazione, di fatto o con manifestazione esplicita di volontà, del rapporto stipulato in data antecedente il 7.3.2015, intervenuta in modo che questo semplicemente prosegua, senza interruzione, oltre tale data. Omissis. Con ricorso depositato il 22.12.2017 e regolarmente notificato, Ferri Massimiliano impugnava il licenziamento per giusta causa intimato il 10.7.2017; esponeva i fatti che avevano dato origine alla contestazione disciplinare; rilevava che il tutto era nato da un equivoco e che non vi era intenzione da parte sua di offendere il soggetto destinatario di certe sue espressioni; rilevava che tali espressioni erano scaturite da profondo malessere, causato dalla sensazione di essere accusato ingiustamente e da sue vicende personali; eccepiva l’ insussistenza della giusta causa, la punibilità con sanzione conservativa, l’illegittimità del licenziamento, la mancanza di una particolare gravità dei fatti che consenta di affermare che è venuto meno il vincolo fiduciario; chiedeva accertarsi e dichiararsi la illegittimità del licenziamento e per l’effetto annullarsi il licenziamento e condannarsi la parte resistente alla reintegra e al risarcimento del danno fino all’effettiva reintegra, in subordine concedersi la tutela indennitaria. Si costituiva in giudizio parte resistente, la quale eccepiva in via preliminare la applicabilità del d.lgs. 23/2015, essendo stato il contratto del Ferri, assunto in data 22.10.2014 a tempo determinato, trasformato in tempo indeterminato dopo il 6.3.2015, quindi sotto il vigore della nuova legge cosiddetta “a tutele crescenti”; deduceva circa la sussistenza dei fatti contestati e circa la loro gravità; chiedeva nel merito il rigetto del ricorso, in subordine chiedeva riconoscersi quanto meno la sussistenza del giustificato motivo soggettivo, in ulteriore subordine ridurre le somme in funzione dell’aliunde perceptum e percipiendum. Disposto lo scambio di note circa la questione preliminare, la causa è stata trattenuta in riserva.
L’eccezione preliminare di parte resistente è infondata. L’art.1 del decreto legislativo 23/2015 prevede: “1. Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto. 2. Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato. 3. Nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è disciplinato dalle disposizioni del presente decreto”. Il problema fondamentale, ai fini della eccezione sollevata dalla parte resistente, è fornire una interpretazione al comma 2, il quale utilizza l’espressione “conversione” per ricomprendere, tra le ipotesi alle quali si applica la nuova normativa – in primo luogo le “nuove” assunzioni –, anche altre ipotesi. Non può condividersi la interpretazione che, ad una prima lettura, potrebbe sembrare la più lineare – quella che interpreta il termine “conversione” in senso lato, ricomprendente tutte le ipotesi in cui un contratto a tempo determinato venga trasformato in contratto a tempo indeterminato –, in quanto così si finirebbe per ricomprendere anche ipotesi che indubitabilmente andrebbero riportate, come genesi, ad epoca precedente
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al 7.3.2015 e che comunque la legge delega n.183 2014 non aveva previsto (v. art.1, comma 7, lett. C)). E invero, deve osservarsi, da un lato, che il termine “conversione” richiama una figura giuridica che si rinviene sia nell’art.1424 cc (il contratto nullo produce effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, se si accerta che le parti lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità), sia nell’art. 32 c.5 legge 183 2010 (contratto a termine nullo perché stipulato in violazione dei requisiti formali e sostanziali per l’apposizione del termine al contratto di lavoro), e che pertanto deve tenersi conto di tale puntualizzazione, contenuta nel d.lgs. 23/2015, dall’altro, che, a sua volta, la norma della legge delega citata fa riferimento solo alle “nuove assunzioni” per circoscrivere il campo di applicazione del contratto a tutele crescenti. Tenendo presenti questi due punti, deve dedursene che solo le ipotesi che possano considerarsi realmente nuove assunzioni o le ipotesi di contratti a tempo determinato stipulati prima del 7.3.2015, ma che subiscano una “conversione” in senso tecnico in data successiva al 7.3.2015, per via giudiziale o stragiudiziale, possono ritenersi ricomprese nel campo di applicazione della nuova normativa. Devono, invece, escludersi tutte le ipotesi di semplice trasformazione, di fatto o con manifestazione esplicita di volontà, del rapporto stipulato in data antecedente il 7.3.2015, intervenuta in modo che questo semplicemente prosegua, senza interruzione, oltre tale data. Nel caso di specie, il ricorrente è stato assunto il 20.10.2014 per sei mesi, con la precisazione che il rapporto sarebbe cessato il 21.4.2015; il 21.4.2015, il ricorrente riceve la lettera di trasformazione a tempo indeterminato del rapporto a tempo determinato; la lettera del 21.4.2015 contiene un rinvio, “per quanto in questa sede non espressamente disciplinato”, “alla lettera di assunzione”, con ciò facendo espressamente riferimento ad una data di inizio del rapporto precedente il 7.3.2015. Il caso in oggetto, quindi, non rientra tra le ipotesi di nuova assunzione, in quanto non vi è stata una vera e propria nuova assunzione, previa conclusione e chiusura, sotto tutti i profili, del vecchio contratto a tempo determinato, né tra quelle di “conversione”, da intendersi in senso tecnico, per quanto già detto, e non in senso lato. In conclusione, dovendosi ritenere che il contratto del Ferri abbia avuto inizio prima del 7.3.2015 e sia solo proseguito oltre tale data, deve ritenersi applicabile, nel caso di specie, la legge 92/2012. Nel merito, il ricorso è fondato. Dalla ricostruzione effettuata da entrambe le parti nei rispettivi atti introduttivi, è possibile evincere il reale andamento dei fatti con sufficiente certezza; ad una richiesta di Alfredo Pelliccia, che chiedeva di conoscere, nel corso di una telefonata con il comune di Riano, il debito di quest’ul-
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timo nei confronti della società resistente, il Ferri forniva una informazione errata, e l’errore ha condotto il Pelliccia a proseguire una conversazione fondata un equivoco e a richiedere al cliente crediti già saldati. Il risentimento del Pelliccia per tali conseguenze, derivanti dall’errore del Ferri, ha, a sua volta, determinato il litigio tra i due, con toni alterati, parole offensive e reazioni del Ferri, il quale infine si è allontanato dal luogo di lavoro (parte resistente afferma che lo stesso ha gettato in terra la sua sedia). La contestazione disciplinare riguarda sia l’errore commesso nel dare informazioni sul debito scaduto sia il comportamento successivo del Ferri. Riguardo a quest’ultimo, deve evidenziarsi che il comportamento del Ferri è stato determinato da un momento di alterazione emotiva; ciò non può negarsi, in quanto emerge dalla narrazione dei fatti svoltisi il 22.6.2017, rappresentati da entrambe le parti, ed è confermato dagli accertamenti medici effettuati sul Ferri nella stessa data (v. doc.8 parte ricorrente). Deve evidenziarsi, peraltro, che non appare credibile che il Pelliccia abbia “con tono pacato” (v. punto 33 della memoria difensiva) rimproverato il Ferri, in quanto è comprensibile che anche lui abbia subito una alterazione emotiva derivante dalla scoperta dell’equivoco di cui si è detto. Orbene, pur tenuto conto della rilevanza di tali fatti, del ruolo del Pelliccia all’interno dell’azienda (è socio di minoranza, ma viene definito “Direttore tecnico” da parte resistente, che produce un contratto di consulenza- v. doc.11), del timore delle conseguenze in termini di immagine per la società, dell’equilibrio dei rapporti all’interno dell’ufficio, non può non tenersi conto altresì del contesto nel quale l’episodio si è sviluppato. La Cassazione ha più volte precisato che “ Per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare” (v. per tutte (Cass. Sentenza n. 12001 del 08/08/2003). Sebbene siano state utilizzate, da parte del Ferri, espressioni volgari, non è emerso che siano stati posti in essere atteggiamenti aggressivi o che l’offensività fosse in modo specifico diretta nei confronti del Pelliccia (l’espressione “vaffanculo”, utilizzata dal Ferri – come da lui stesso ammesso – può essere intesa anche come sfogo volgare non esplicitamente diretta contro qualcuno), ma è emerso invece come vi sia stata una alterazione degli animi, che ha riguardato sia il Ferri
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che il Pelliccia e, poiché non è emerso né è stato dedotto che l’utilizzo di tali espressioni fosse comportamento usualmente tenuto dal Ferri in ufficio, deve dedursi che quello in oggetto sia un comportamento scaturito appunto dal contesto di una situazione sfuggita di mano ai protagonisti della vicenda e certamente non intenzionale. È chiaro che si è trattato di un episodio isolato, generato dalla frustrazione del Ferri per l’errore fatto e per i rimproveri del Pelliccia, nonché dal risentimento immediato del Pelliccia, il quale evidentemente non ha tenuto conto della buona fede del Ferri, incorso in errore, e del suo imbarazzo successivo per l’increscioso episodio. In tutto questo non è ancora possibile individuare una venuta meno del vincolo fiduciario. La Cassazione ha precisato, a tali fini, che occorre “una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto” in quanto emerga il concreto rischio circa la correttezza dei futuri adempimenti. Precisa la Cassazione: “In virtù di costante giurisprudenza di questa S.C., per giustificare un licenziamento disciplinare i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l’elemento fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo” (cfr., per tutte, Cass. n. 7394/2000). Nel caso di specie, non è stato evidenziato alcuno degli aspetti indicati, in quanto appunto si è trattato, come detto, di un episodio isolato, da ricondurre ad un dato e preciso contesto. Deve dunque negarsi che sussista una giusta causa nel senso anzidetto. Del resto il CCNL applicato (v. in atti) gradua le misure sanzionatorie secondo un giudizio di gravità dell’infrazione; il licenziamento senza preavviso è indicato come “extrema ratio”, mentre il licenziamento con preavviso “si può tra l’altro applicare nei confronti di quei lavoratori che siano incorsi per almeno tre volte nel corso di due anni, nella stessa mancanza o per mancanza analoghe, in sospensioni dal lavoro e dalla retribuzione per un totale di 20 giorni o, nello stesso periodo di tempo, abbiano subito almeno quattro sospensioni per 35 giorni complessivamente, anche se non conseguenti ad inosservanza del dovere di cui al comma precedente”. Appare evidente che il caso di specie non rientra in tali previsioni. Parte resistente ha chiesto, in subordine, accertarsi la sussistenza perlomeno di un giustificato motivo soggettivo. Premesso che secondo dottrina e giurisprudenza la giusta causa ed il giustificato motivo corrispondono a forme di inadempimento differenziate solo sul piano quantitativo e costituiscono perciò due
species di un unico genus, anche nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo l’inadempimento degli obblighi contrattuali deve essere notevole e tale da comportare il venir meno dell’elemento della fiducia. Orbene la Cassazione ha precisato che “non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento una mera svista commessa dal lavoratore nell’espletamento delle proprie mansioni e priva di conseguenze dannose per il datore di lavoro e/o per terzi” (v. Cass. Sentenza n. 25608 del 03/12/2014). Nel caso di specie, appunto di una svista si è trattato, non avendo dapprima il Ferri compreso quanto gli si stava chiedendo, non avendo saputo dopo prendere una decisione immediata per porre rimedio, mentre era ancora in corso la telefonata di Pelliccia (ciò si evince dalle sue deduzioni e anche dal contenuto delle sue giustificazioni, esposte in maniera coerente e compatibile con lo svolgimento dei fatti così come ricostruiti nel loro complesso). Con riferimento al giustificato motivo soggettivo non appare concretato l’inadempimento di non scarsa rilevanza: si consideri che, da quello che si evince dalle allegazioni delle parti, tra le mansioni di Ferri vi era l’invio di “report” al Pelliccia e che l’errore commesso riguarda, invece, una informazione estemporanea richiestagli dal Pelliccia davanti al PC; l’errore commesso potrebbe, dunque, essere stato determinato dalla concitazione del momento e non essere indice di un non corretto adempimento da parte del lavoratore. Né è stato allegato da parte resistente la sussistenza di uno specifico danno economico scaturente dai fatti contestati. Ne consegue che deve affermarsi l’insussistenza del fatto contestato, non concretando i fatti storici indicati nella lettera di contestazione né giusta causa né giustificato motivo soggettivo di recesso. L’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 st. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità (v. Cass. Sentenza n. 18418 del 20/09/2016). L’art. 18 st. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, riconosce, al comma 4, la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto contestato, nonché nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia sostanzialmente irrilevante sotto il profilo disciplinare o non imputabile al lavoratore. (v. Cass. Sentenza n. 13178 del 25/05/2017). Il ricorso, quindi, va accolto e va accordata la tutela di cui al comma IV art.18 st. lav.; alla soccombenza consegue l’obbligo della rifusione delle spese di lite, che si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Visto l’art.1 cc. 48 e ss. legge 92 2012 1) Annulla il licenziamento irrogato in data 10.7.2017 e condanna parte resistente alla reintegra-
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zione di Massimiliano Ferri nel posto di lavoro con le mansioni in precedenza svolte, nonché al pagamento di una somma pari all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino alla reintegra, comunque nel limite delle 12 mensilità, oltre al versamento dei contribuiti assistenziali e previdenziali dal
giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione; 2) Condanna parte resistente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in favore di parte ricorrente nella misura di E. 2500,00, oltre 15%, oltre IVA e CAP come per legge, da distrarsi.
Il campo di applicazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 tra trasformazione e conversione dei contratti individuali di lavoro Sommario : 1. Il caso. – 2. L’interpretazione restrittiva del Tribunale di Roma. – 2.1. Le ipotesi di “conversione stragiudiziale”. I riflessi dell’attività ispettiva sulla legittimità dei contratti di lavoro. – 3. La precedente interpretazione “estensiva” del Tribunale di Napoli. – 4. Trasformazione e conversione del contratto: un rapporto da genus a species? Le posizioni della dottrina. – 4.1. Segue: gli effetti della decisione del giudice che converte il rapporto ai sensi dell’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 23/2015. – 4.2. Segue. Apprendistato e tutele crescenti: le questioni ancora aperte. – 5. Alcune (provvisorie) conclusioni.
Sinossi. Il commento, esaminati i fatti di causa, si concentra nell’evidenziare che il Tribunale di Roma ha adottato un’interpretazione restrittiva del termine “conversione” utilizzato dal legislatore all’art. 1, comma 2, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, richiamando indirettamente precise posizioni assunte dalla dottrina in merito. Inoltre, si mette in evidenza come tale orientamento giurisprudenziale non sia del tutto condiviso da altra giurisprudenza di merito che invece propende per un’interpretazione estensiva del termine “conversione”. Infine, tenuto conto del merito della causa, si avanzano alcune osservazioni rispetto al ruolo che la contrattazione collettiva svolge nonostante l’assenza nel d.lgs. n. 23/2015 di un rinvio esplicito in suo favore per la gradazione delle sanzioni da irrogare in caso di inadempimento.
1. Il caso. L’art. 1, comma 2, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 delinea il campo di applicazione di un differente ed alternativo regime di tutela a quello previsto dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300; infatti, è previsto che in caso di licenziamento illegittimo dei lavoratori aventi la qualifica di operai, impiegati o quadri assunti con contratto di lavoro a tutele crescenti a far
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data dal 7 marzo 2015 «le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato». Sin dalla sua entrata in vigore, il regime delle c.d. tutele crescenti è stato oggetto di un articolato dibattito dottrinale volto a comprendere se le nuove disposizioni disciplinanti il licenziamento trovassero applicazione anche per i contratti di lavoro a tempo determinato convertiti con un accordo individuale tra le parti (quindi “trasformati”) o solo per quelli convertiti in sede giudiziaria dopo il 7 marzo 20151. Con l’ordinanza n. 75870 del 6 agosto 2018, il Tribunale di Roma ha affrontato la dibattuta questione circa il campo di applicazione del citato decreto. Come emerge dai fatti di causa, il lavoratore, ha impugnato il licenziamento intimato per giusta causa poiché la condotta addebitatagli, ossia l’aver pronunciato delle parole offensive nel luogo di lavoro, era stata frutto di un equivoco, la cui sussistenza è stata poi dimostrata in giudizio. Peraltro, l’analisi dettagliata dei fatti ha consentito al ricorrente di sostenere che si trattasse di una condotta non caratterizzata da una penetrante gravità tale da incidere sul vincolo fiduciario. La società resistente, costituitasi in giudizio, ha sollevato una questione di carattere preliminare prima di spiegare le proprie difese nel merito delle questioni trattate dal ricorrente. In particolare, la parte resistente ha eccepito che qualora fosse stata accertata l’illegittimità del licenziamento, avrebbe trovato applicazione il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 e non l’art. 18 st. lav. poiché il lavoratore era stato assunto il 22 ottobre 2014 con un contratto a tempo determinato e il 7 marzo 2015 la società aveva comunicato al lavoratore che tale contratto era stato “trasformato in tempo indeterminato”. Pertanto, al rapporto di lavoro sarebbe stato applicato a partire dal 7 marzo 2015 il c.d. regime delle tutele crescenti. L’eccezione preliminare sollevata da parte resistente ha fatto leva su quanto disposto dall’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 secondo cui le disposizioni in esso contenute «si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato». A parere del giudice, invece, nell’ottica di fornire un’adeguata interpretazione (letterale) della norma, nel caso di specie la disposizione non ha potuto trovare applicazione poiché non possono essere ricondotte ai casi di “conversione” tutte le ipotesi in cui un contratto a termine venga trasformato a tempo indeterminato perché «si finirebbe per ricomprendere anche ipotesi che indubitabilmente andrebbero riportate, come genesi, ad epoca precedente» l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 «e che comunque la legge delega n. 183/2014 non aveva previsto (v. art. 1, comma 7, lett. c)». Nel merito, invece, il giudice non ha riscontrato la presenza di una giusta causa idonea ad integrare la rottura del vincolo fiduciario poiché il lavoratore era stato indotto in errore e la sua reazione si basava su un’errata informazione ricevuta. Peraltro, dalla consultazione delle disposizioni del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro è emerso che
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Tra le prime articolate riflessioni in materia, v. il contributo di Tiraboschi, Conversione o semplice trasformazione dei contratti per l’applicazione delle cosiddette tutele crescenti?, in DRI, 2015, 518 e ss., pubblicato anche in Boll. Adapt n. 14/2015, che sintetizza anche le differenti posizioni della dottrina frammentate nei primi brevi contributi di commento alla normativa.
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per poter irrogare la sanzione del licenziamento era necessario che il lavoratore dovesse essere incorso per almeno tre volte nel corso dei due anni nella stessa mancanza o in inadempienze analoghe. Circostanza che non si è verificata nel caso di specie. Respinta l’eccezione preliminare e dichiarata l’applicabilità dell’art. 18 st. lav. al caso concreto, il giudice ha reintegrato il lavoratore nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18, comma 4, st. lav.
2. L’interpretazione restrittiva del Tribunale di Roma. L’organo giudicante, nel negare che l’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 contempli anche le ipotesi di stabilizzazione dei contratti a tempo determinato per intervenuto accordo tra le parti, ha ricondotto i casi di “conversione” - non specificati dal legislatore - a due fattispecie giuridiche ben delineate dalla legge: la conversione del contratto nullo ex art. 1424 c.c. e la nullità del contratto a termine per violazione dei requisiti formali e sostanziali di cui all’art. 32, comma 5, l. 4 novembre 2010, n. 183. Il richiamo delle suddette disposizioni è stato utile, secondo il giudice, a chiarire il senso e la portata della conversione del contratto, che si concretizza solo laddove quest’ultimo sia nullo per violazione dei requisiti formali e sostanziali e allo stesso tempo produce effetti di un contratto diverso – in questo caso, il contratto di lavoro a tempo indeterminato – del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma. La decisione, così, ha attributo un significato tecnico ben preciso al termine “conversione”, facendone derivare determinati effetti. Peraltro, il giudice si sofferma anche a rilevare che «la norma della legge delega [l’art. 1, comma 7, lett. c), l. 10 dicembre 2014, n. 183] fa riferimento solo alle “nuove assunzioni” per circoscrivere il campo di applicazione del contratto a tutele crescenti». Da ciò ne discenderebbe che nel campo di applicazione della nuova normativa, all’art. 1, comma 2, andrebbero ricomprese soltanto le ipotesi che concretamente possano considerarsi nuove assunzioni e i contratti a tempo determinato «che subiscano una “conversione” in senso tecnico» successivamente al 7 marzo 2015 «per via giudiziale o stragiudiziale». Il Tribunale di Roma sembra così aver accolto l’interpretazione della norma prospettata da una parte della dottrina che interpreta con maggior rigore tecnico il termine «conversione», riferibile alla sola ricostituzione giudiziale del rapporto a tempo indeterminato con effetto dalla data della sentenza2. Inoltre, richiamando le disposizioni della legge delega, il giudice sembra aver aderito a quell’indirizzo dottrinale che valorizza quanto disposto dalla legge n. 183/2014, a parere del quale per “nuova assunzione” non possono intendersi rapporti instaurati prima del 7 marzo 2015 e convertiti con un accordo tra le parti, pena un eccesso di delega3.
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Cfr. Tiraboschi, Conversione o semplice trasformazione dei contratti per l’applicazione delle cosiddette tutele crescenti?, cit., 519; Ciucciovino, Il sistema sanzionatorio del contratto a termine e della somministrazione di lavoro dopo il jobs act, in DLRI, 2015, 611 e ss.; Preteroti, Questioni in tema di decadenza dall’impugnazione del contratto a termine e regimi sanzionatori, tra vecchi e nuovi problemi, in RGL, 2016, 819-843, spec. 831. Tiraboschi, Conversione, cit., 520.
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2.1.
Le ipotesi di “conversione stragiudiziale”. I riflessi dell’attività ispettiva sulla legittimità dei contratti di lavoro.
Sennonché, non è mancato chi ha sollevato dubbi sull’inciso della sentenza che ritiene applicabile il d.lgs. n. 23/2015 anche ai rapporti convertiti in via “stragiudiziale” dopo il 7 marzo 2015. Infatti, è stato osservato che «l’ordinanza su questo punto non sembra molto chiara, in quanto la distinzione tra “conversione” e “trasformazione” dovrebbe fondarsi (come sostenuto in passato anche da autorevole dottrina) sulla natura coatta della prima e volontaria della seconda, ma poi si fa riferimento anche ai casi di conversione “stragiudiziale”»4. Se il giudice ha escluso l’applicazione del regime delle tutele crescenti alle conversioni volontarie del contratto di lavoro (quindi, le trasformazioni) ma successivamente precisa che esso va applicato ai casi di conversione sia giudiziale che stragiudiziale, sembrerebbe in prima battuta che sia incorso in una leggerezza, giacché per conversione “stragiudiziale” s’intende la trasformazione del rapporto su base volontaria. In realtà, il giudice con l’inciso “conversione stragiudiziale” potrebbe essersi riferito non all’ipotesi della conversione volontaria messa in atto con un accordo tra le parti ma all’ipotesi di conversione intervenuta a seguito dell’azione ispettiva da parte del personale del Ministero del lavoro deputato al controllo e alla vigilanza dell’applicazione della normativa lavoristica. Infatti, è noto che l’ispettore del lavoro ben può qualificare diversamente i rapporti di lavoro in base agli elementi di fatto che rileva durante la conduzione dell’ispezione in azienda (attraverso, per esempio, la modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, le dichiarazioni rese dai lavoratori etc.)5. Nulla vieta, quindi, che l’ispettore possa rilevare l’illegittimità della sesta proroga apposta al contratto di lavoro a termine o l’insussistenza della causale, attesa la riforma dell’art. 19, comma 1, del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 ad opera del d.l. 12 luglio 2014, n. 87 convertito in l. 9 agosto 2018, n. 96 (c.d. Decreto Dignità). In questa ipotesi, ci troveremmo di fronte ad una “conversione” sanzionatoria - perché il contratto è affetto da nullità - in sede stragiudiziale; infatti, l’atto con il quale si contesta il mancato rispetto della legislazione in materia di lavoro è un verbale di accertamento, un atto stragiudiziale nel quale l’ispettore è onerato di provare i fatti posti a fondamento della pretesa6 che, se non impugnato nei tempi e nei modi previsti dalla legge, produce effetti sanzionatori definitivi sulle illegittimità accertate. Il riferimento, dunque, all’ipotesi di “conversione stragiudiziale” non dovrebbe essere riferito alla trasformazione del rapporto attraverso un accordo volontario tra le parti - che non presuppone tra l’altro la nullità del contratto a termine - ma all’ipotesi di conversione che può avvenire anche al di fuori di un giudizio instaurato davanti al giudice del lavoro, e cioè nel caso dell’attività ispettiva.
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Cfr. Falasca, Trasformazioni volontarie senza tutele crescenti, in IlSole24ore, 7 novembre 2018, 31. Su tali aspetti, v. Tiraboschi, Rausei (a cura di), L’ispezione del lavoro dieci anni dopo la riforma. Il d.lgs. n. 124/2004 tra passato e futuro, in Adapt professional series 2014, n. 3, Adapt University Press. Cfr. Cass., 5 febbraio 2014, n. 2638; Cass., 6 settembre 2012, n. 14965; Cass., 10 novembre 2010, n. 22862; Cass., 18 maggio 2010, n. 12108; Cass., 1 dicembre 2008, n. 28516; Cass., 17 luglio 2008, n. 19762, tutte reperibili in De Jure banca dati online.
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3. La precedente interpretazione “estensiva” del Tribunale
di Napoli.
Contrapposto all’orientamento assunto dal Tribunale di Roma, vi è quello del Tribunale di Napoli7 che, invece, ha optato per un’interpretazione differente e meno rigorosa del termine “conversione”. Nel caso di specie, tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro a tempo determinato iniziato il 9 febbraio 2015, prorogato fino al 30 settembre 2015 e poi trasformato il 1° ottobre 2015 in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il Tribunale di Napoli ha ritenuto che la “trasformazione” in questione «è ipotesi riconducibile alla previsione di cui all’art. 1, comma 2» del d.lgs. n. 23/2015 presupponendo che il concetto di “conversione”, utilizzato dal legislatore nella disposizione di legge citata, deve essere inteso «in senso ampio, comprensivo di ogni ipotesi di prosecuzione del rapporto di lavoro, alla scadenza del termine originariamente fissato, tanto nel caso in cui la prosecuzione sia effetto di una volontà comune delle parti, tanto nelle ipotesi in cui la trasformazione del rapporto a tempo interminato avvenga in forza di una pronunzia del giudice». Ad avviso dell’organo giudicante napoletano, una tale interpretazione “estensiva” dell’art. 1, comma 2, è legittimata anche dalla considerazione che “conversione” e “trasformazione” del rapporto di lavoro «non sono istituti compiutamente disciplinati per esprimere situazioni diverse ma termini indifferentemente utilizzati per rappresentare la vicenda modificativa del rapporto, a prescindere dalle modalità con cui ciò avvenga». A supporto dell’utilizzo indifferenziato dei due termini da parte del legislatore, il giudice richiama quanto previsto dall’art. 28, comma 2, d.lgs. n. 81/2015 laddove la legge indica come “trasformazione” la sanzione prevista per la nullità del contratto a termine accertata dal giudice8. Infine, il giudice nel ricercare la ratio della legge, sostiene che obiettivo del legislatore «è sicuramente quella di agevolare la “prosecuzione” dei rapporti di lavoro», sottintendendo che una diversa interpretazione finirebbe per sortire effetti contrari e non implementare il tasso occupazionale, principale obiettivo delle recenti riforme in materia di lavoro9.
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Cfr. Trib. Napoli, 26 giugno 2017, Giud. Est. G. Marchese; per un’analisi completa della pronuncia, si rinvia al contributo di Falasca, Tutele crescenti tre anni dopo, un primo bilancio applicativo, in GLav, n. 13, 23 marzo 2018, spec. 26. Art. 28, comma 2, d.lgs. n. 81/2015: «Nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge n. 604 del 1966. La predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro». A tal proposito, v. in dottrina Tremendola, Il campo di applicazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in F. Carinci, Cester (a cura di), Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015, in Adapt Labour Studies e-book series, n. 46/2015, 6 e ss., osserva che «induce a prospettare un’interpretazione estensiva del termine “conversione” la circostanza che l’applicazione del decreto ai lavoratori in esame può essere ragionevolmente giustificata anche con una finalità sia di favorire la stabilizzazione di rapporti di lavoro precari sia di evitare una interruzione della collaborazione in atto tra le parti che sia meramente strumentale a consentire al datore di lavoro di riassumere il lavoratore con un contratto a tutele crescenti. Sotto il primo profilo, il datore di lavoro viene incentivato dall’applicazione del nuovo regime a stabilizzare il rapporto con il lavoratore, rinunciando, nel caso di quello a termine, alla facoltà di profittare della scadenza di quest’ultimo e, nel caso dell’apprendista, a esercitare il potere di recesso libero che gli compete alla fine del periodo di formazione. Sotto il secondo profilo, la norma è diretta a far sì che il datore di lavoro non debba ricorrere all’escamotage di attendere la scadenza del termine, o di licenziare l’apprendista alla fine del periodo di formazione, per potere stipulare un contratto di lavoro
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4. Trasformazione e conversione del contratto: un rapporto da genus a species? Le posizioni della dottrina.
Le recenti posizioni assunte dal Tribunale di Roma sul campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015 sono nettamente restrittive rispetto all’apertura fatta inizialmente dal Tribunale di Napoli. L’interpretazione della disposizione è peraltro incerta poiché anche in dottrina e tra gli esperti del mercato del lavoro la questione è marcatamente dibattuta, vista anche la varietà di argomentazioni poste a fondamento dell’una o dell’altra tesi. Secondo una parte della dottrina, sostenuta anche dai consulenti del lavoro, sembrerebbe che all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 il legislatore faccia riferimento ad una generica conversione del contratto di lavoro, intesa non solo come situazione giuridica determinatasi in «conseguenza di un regime sanzionatorio» applicato dal giudice in presenza di contratti nulli o illegittimi, ma anche come prosecuzione «senza soluzione di continuità di rapporti a tempo determinato avviati prima del 7 marzo 2015» ovvero di contratti di apprendistato «che proseguono a seguito del mancato esercizio della facoltà di recesso al termine del periodo di formazione»10. In relazione ai rapporti a tempo determinato, anche un’autorevole dottrina ha evidenziato, inoltre, che «di fronte alla volontà delle parti di trasformare il rapporto di lavoro a termine in tempo indeterminato, si applicherà il regime delle tutele crescenti, perché nel rapporto di lavoro precedentemente in essere l’art. 18 non trovava applicazione»11. Secondo questa interpretazione, quella volontà espressa dalle parti corrisponderebbe alla conversione di cui parla il legislatore. Questa ricostruzione, secondo altra dottrina, fa sorgere due problematiche non prive di fondamento. La prima questione che si pone è la coerenza interpretativa con i criteri della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183. Come è stato osservato, infatti, far convergere nel termine “conversione” tutti i casi in cui il rapporto muti la propria genetica per rientrare
regolato dal nuovo regime». Con riferimento a questa ultima ipotesi, Maresca, Assunzione e conversione in regime di tutele crescenti, in GLav, n. 12, 2015, 12 e ss., spec. 13 osserva che tale escamotage sarebbe legittimo nel caso del lavoratore a termine ma non in quello dell’apprendista, in quanto il licenziamento intimato alla fine del periodo di apprendistato, seguito da un’assunzione con ordinario contratto a tutele crescenti, sarebbe stato nullo perché diretto ad eludere le norme del decreto che prevedono che le dette tutele si applicano ai nuovi assunti. Infatti, osserva Tremendola, op. cit., 7-8 che «nel caso di nuova assunzione dell’apprendista non confermato può configurarsi la nullità per frode alla legge del licenziamento intimato alla fine del periodo di formazione, qualora il recesso sia diretto a privare il lavoratore, riassunto con contratto ordinario, dell’anzianità di servizio maturata durante il periodo di apprendistato, la quale incide anche sull’ammontare delle indennità previste dal decreto per certi casi di licenziamento illegittimo. Ne consegue che, a causa della nullità del recesso, il lavoratore non potrebbe considerarsi equiparato ai nuovi assunti e quindi godrebbe del regime del licenziamento preesistente a quello stabilito dal decreto». 10 Di questo parere è il Consiglio Nazionale Consulenti del lavoro, v. circolare 11 marzo 2015, n. 6 della Fondazione Studi. Tuttavia, l’Associazione Nazionale dei Consulenti del Lavoro ha espresso un parere diverso sul punto ritenendo che una simile interpretazione esponesse la norma ad un eccesso di delega; cfr. Stolfa, Le trappole (da evitare) del contratto a tutele crescenti, in www.anclsu. com. In dottrina, v. Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel jobs act, in ADL, 2015, n. 2, p. 321 e ss. Si veda anche la circolare di Confindustria 9 marzo 2015, n. 19831, seppur con qualche differenza. Infatti, la Confindustria, con circolare 9 marzo 2015, n. 19831, pur optando per un’interpretazione estensiva del termine “conversione”, ha suggerito di procedere con la formale chiusura dei rapporti laddove si registravano ipotesi di trasformazione per «avviare subito dopo un nuovo rapporto a tempo indeterminato»; la trasformazione del rapporto senza soluzione di continuità potrebbe, al contrario, non consentire l’applicazione del regime delle tutele crescenti, trovando così applicazione l’art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300. 11 Cfr. Maresca, op. cit., 12 e ss. V. anche Miscione, Tutele crescenti: un’ipotesi di rinnovamento del diritto del lavoro, in DPL, n. 12, 2015, 741 e ss., spec. 748.
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nell’area del lavoro a tempo indeterminato creerebbe «qualche problema di compatibilità» con la legge delega «che infatti prevede, all’articolo 1, comma 7, lett. c), il regime delle tutele crescenti unicamente “per le nuove assunzioni”»12. La nuova assunzione, infatti, funge da parametro oggettivo per l’applicazione della disciplina in questione, che non può concretizzarsi se non a fronte di una stipulazione del contratto di lavoro a far data dal 7 marzo 2015 oppure con la conclusione del precedente rapporto e la stipula di un nuovo contratto di lavoro13. Secondo questa interpretazione, occorrerebbe che l’interprete legga la disposizione coerentemente con quanto previsto dalla legge delega n. 183/2014, onde evitare il rischio di un’applicazione della normativa che comporti un eccesso di delega. Infatti, non è ipotizzabile che nelle disposizioni della legge delega (cfr. art. 1, comma 7) il legislatore abbia teorizzato un modello indennitario da applicare solo alle nuove assunzioni mentre nel decreto attuativo abbia «consapevolmente utilizzato l’espressione “conversione” in senso atecnico quale sinonimo di “trasformazione” e persino di “prosecuzione” del contratto come avviene rispetto ai rapporti di apprendistato che non vengono risolti da una o da entrambe le parti al termine del periodo di formazione»14; invero - e qui veniamo all’analisi della seconda problematica - «in termini giuridici, non possono essere considerate nuove assunzioni né le trasformazioni senza soluzioni di continuità di contratti temporanei in essere né tanto meno la mera prosecuzione dei contratti di apprendistato, al termine del periodo di formazione, senza che una delle parti abbia formalmente optato per la risoluzione del rapporto»15. A tal proposito, appare utile osservare che il termine “conversione” assume nel registro linguistico del giurista - contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale di Napoli – un preciso significato tecnico16: vi è ad esempio conversione nel caso di modifica legale del contratto che ne evita la nullità 17 oppure nel caso di violazione di norme imperative legate all’utilizzo di determinate tipologie contrattuali c.d. atipiche o temporanee18. Una lettura questa, condivisa anche dalla pronuncia qui commentata. Tuttavia, una parte della dottrina è di opinione contraria poiché ritiene che il termine “conversione” non avrebbe il significato tecnico di cui all’art. 1424 c.c. ma rappresenterebbe un’equivalente al fenomeno della trasformazione di un rapporto di lavoro non standard in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato19. Questa interpretazione, però,
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Sul punto v. Tiraboschi, Conversione, cit., 522. In tal senso, v. Tiraboschi (a cura di), Le Nuove Regole del Lavoro dopo il Jobs Act, Commento sistematico ai decreti legislativi nn. 22,23,80,81, 148,149, 150 e 151 del 2015 e delle norme di rilievo lavoristico della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016), Giuffrè, 2016, 23-24. 14 V. Tiraboschi, Le Nuove Regole, cit., 26, secondo cui «non pare corretto individuare l’esatta portata del termine “conversione” prendendo le mosse dall’assunto secondo il quale il legislatore avrebbe inteso pacificamente riferirsi a generiche ipotesi di trasformazione di contratti temporanei in essere in contratti stabili». 15 V. sempre M. Tiraboschi, Conversione, cit., 520. 16 Cfr. Bianca, G. Patti, S. Patti, Lessico del diritto civile, Giuffrè, 2001, 209-2011. 17 Cfr. art. 1424 c.c. 18 Come disposto, ad esempio, dall’art. 32, comma 5, l. 4 novembre 2010, n. 183, rispetto al quale la giurisprudenza si è orientata in tal senso: cfr. C. cost., 11 novembre 2011, n. 303 in www.consultaonline.it; Cass., 21 maggio 2008, n. 12985 in De Jure banca dati online; App. Roma, 17 gennaio 2012, n. 267, inedita a quanto consta. 19 Cfr. Squeglia, Il campo di applicazione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in M.T. Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, 13. 13
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non tiene conto dell’utilizzo distinto dei termini “trasformazione” e “conversione” utilizzati dalla giurisprudenza nel tempo. Invero, in diverse pronunce giurisprudenziali20 è possibile notare che il termine “trasformazione” è stato utilizzato come sinonimo del termine “conversione” e ciò è possibile in quanto «il concetto di trasformazione contiene al suo interno anche quello di conversione»21. Tuttavia, non è vero il contrario, e cioè che il termine “conversione” possa contenere anche il significato di “trasformazione”, in quanto il primo è un termine tecnicamente più preciso del secondo. Infatti, non esistono precedenti giurisprudenziali che abbiano utilizzato il termine “conversione” per far riferimento anche ad ipotesi di “trasformazione”. Conseguentemente, possiamo sostenere che tra l’istituto della “trasformazione” e quello della “conversione” sussiste un rapporto da genus a species, nella misura in cui con il primo è possibile indicare tutte le mutazioni del rapporto, sia volontarie che coattive; con il secondo, invece, solo le modificazioni frutto di un intervento dell’autorità (giudiziaria o amministrativa relativamente all’ipotesi ispettiva). Il Tribunale di Roma sembrerebbe aver privilegiato questa seconda opzione interpretativa, ancorando la lettura della norma al dato strettamente letterale e non indagando sull’ “intenzione” del legislatore, come peraltro dispone l’art. 12 delle preleggi, che impone all’interprete di favorire primariamente l’interpretazione letterale, mettendo in secondo piano quella riferita all’ “intenzione” del legislatore22.
4.1. Segue: gli effetti della decisione del giudice che converte il rapporto ai sensi dell’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 23/2015.
Ulteriori critiche sono state mosse all’interpretazione restrittiva di cui all’art. 1, comma 2, poiché ritenendo che con il termine “conversione” ci si riferisca solo a quelle intervenute in sede giudiziaria occorrerebbe che la pronuncia del giudice intervenga su irregolarità contrattuali poste in essere dalle parti dopo l’entrata in vigore del decreto23, giacché «la conversione, per regola generale, opera ipso iure, per cui la relativa statuizione giudiziale ha natura dichiarativa di una trasformazione del rapporto che si è già verificata nel momento in cui l’irregolarità è stata commessa, con la conseguenza che gli effetti della conversione operano da tale momento»24. In realtà, nel caso della conversione in questione, sembrerebbe che il legislatore abbia voluto attribuire alla decisione del giudice, in presenza di contratti nulli o legittimi, un’efficacia giuridica costitutiva del contratto e non meramente dichiarativa del suo vizio, ciò comportando che l’efficacia non decorrerà più dalla data effettiva della stipulazione ma dal giorno in cui è stata emessa la sentenza25. Ciò
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Cass., 12 novembre 2014, n. 24127; Cass., 2 aprile 2014, n. 7672; Cass., 12 febbraio 2014, n. 3234; Cass., 1 febbraio 2006, n. 2247, tutte in De Jure banca dati online. 21 Cfr. Tiraboschi, Conversione, cit., 521. 22 Su questi aspetti si rinvia allo studio specifico di Viola, Interpretazione della legge con modelli matematici, vol. I, Centro Studi Diritto Avanzato, 2018, spec. 71 e ss. In giurisprudenza, v. Cass., 14 ottobre 2016, n. 20808; Cass., 11 febbraio 2009, n. 3382; Cass., 18 agosto 2003, n. 12081; Cass., 6 aprile 2001, n. 5128, tutte in De Jure banca dati online. 23 Cfr. Tremendola, op. cit., 8 che osserva come «il regime delle tutele crescenti dovrebbe applicarsi, ad esempio, nel caso di conversione del contratto a termine dovuta al fatto che ne sia stata concordata la sesta proroga dopo l’entrata in vigore del decreto». 24 Cfr. Tremendola, op. cit., 8. 25 Cfr. Tiraboschi, Conversione, cit., 521; sull’effetto della conversione giudiziale del contratto, v. Cautadella, Contratto di lavoro e nullità
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rappresenterebbe una deroga rispetto all’ordinaria efficacia retroattiva della sentenza, che, principalmente fa retroagire «la regola di condotta che essa enuncia (…) fino al momento della domanda», fermo restando le eccezioni previste dalla legge26. Quindi, non sembrerebbe necessario che la irregolarità del contratto debba essere maturata necessariamente dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 ma anche prima, proprio perché la legge attribuisce in via speciale un’efficacia costitutiva alla sentenza che ne accerta la sussistenza27. Questa interpretazione, tuttavia, non è stata condivisa dalla recente giurisprudenza di merito28 che, proprio in un caso di conversione in sede giudiziale – il contratto a termine era stato stipulato il 9 aprile 2014 ma è stato ritenuto nullo in quanto non era stato sottoscritto dal lavoratore e mancava l’allegazione del documento comprovante l’avvenuta valutazione dei rischi ai sensi della normativa vigente – ha osservato che la conversione di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 non deve essere intesa in senso tecnico e quindi di natura «giudiziale» operante in via eccezionale ex nunc ma, al contrario, in quella ipotesi il legislatore intenderebbe fare riferimento alla conversione «intesa come trasformazione/prosecuzione di tipo negoziale del rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, ossia per accordo tra le parti del contratto medesimo» poiché la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato stabilita per via giudiziale per le motivazioni espressamente previste dalla legge «determina la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato con efficacia ex tunc, ossia sin dalla data di sottoscrizione del contratto a tempo determinato». Nel caso di specie, quindi, la sentenza fa retroagire la stipulazione del contratto (a tempo indeterminato) al 9 aprile 2014, quindi prima del 7 marzo 2015, limite temporale stabilito dall’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 per l’applicazione della disciplina delle tutele crescenti, con la conseguenza che al caso di specie ha trovato applicazione l’art. 18 st. lav. La ricaduta pratica di questa interpretazione è quella di ritenere applicabile il d.lgs. n. 23/2015 solo a quei contratti a termine stipulati a partire dal 7 marzo 2015 ma che siano stati accertati come illegittimi all’esito di un contenzioso. Se, invece, la stipulazione è avvenuta prima del 7 marzo 2015 e il contratto viene dichiarato illegittimo, troverà applicazione l’art. 18 st. lav.
parziale, Giuffrè, 2008, spec. cap. I, par. 7. Più specificamente, sulla “conversione con effetti costitutivi” di cui all’art. 32 della legge n. 183/2010 v. Trib. Palermo, 11 luglio 2013, in ADL, 2014, 484, con nota di Spinelli. V. anche Gentile, L’ambito di applicazione della nuova disciplina, in Fiorillo, Perulli (a cura di) Contratto a tutele crescenti e Naspi, Giappichelli, 2015, vol. II, 61 che osserva: «la disposizione, invero, mira a cristallizzare – d’ora in poi – un modello di conversione ex nunc del contratto a termine giudizialmente illegittimo, almeno per ciò che concerne il versante della disciplina dei licenziamenti applicabile: la conversione giudiziale esplica i suoi effetti dal momento in cui essa si realizza, e non dalla data (anteriore) della stipula del contratto convertito» con la finalità di «precludere che la conversione di un contratto a termine avviato anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 possa implicare una indesiderata reviviscenza del previ gente statuto protettivo in materia di licenziamenti». Di opinione contraria è Di Paola, Fedele, in Sordi, Papetti, Palladini, Mimmo, Fedele, Di Paola, La riforma del lavoro, Giuffrè, 2013, 74. 26 Cfr. Luiso, Diritto Processuale Civile, Vol. II, Il processo di cognizione, cap. 25, 207, Giuffrè, 2013. 27 Tremendola, op. cit., 16-17, ritiene che una tale interpretazione non possa essere condivisibile poiché «il difetto di questa tesi sta nell’erroneo presupposto che la norma in esame riguarderebbe proprio questo caso di irregolarità, per cui dal fatto che il decreto abbia considerato solo l’ipotesi di conversione successiva alla sua entrata in vigore si è dedotto che sarebbe stato attribuito alla detta pronuncia l’effetto di costituire un nuovo rapporto che, in quanto sorto in vigenza delle nuove norme, coerentemente sarebbe assoggettato alle tutele crescenti. Invero si tratta di una tesi che contraddice i principi in tema di conversione senza che la norma in esame lo richieda poiché, come si è visto, questa giustifica pienamente un’interpretazione rispettosa di quei principi». 28 Cfr. Trib. Parma, 18 febbraio 2019, n. 383, in Boll. Adapt n. 8/2019.
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4.2. Segue. Apprendistato e tutele crescenti: le questioni ancora aperte. La definizione del campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015 si complica con riferimento al contratto di apprendistato per la compresenza di due questioni interpretative di rilievo. La prima riguarda l’applicazione del d.lgs. n. 23/2015 anche agli apprendisti in quanto l’art. 1, comma 1, nello stabilire che il decreto si applica ai «lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere» dal 7 marzo 2015, non include tra questi gli apprendisti. Sennonché, la mancanza di tale riferimento ha indotto parte della dottrina a ritenere che il d.lgs. n. 23/2015 non troverebbe applicazione per gli apprendisti assunti anche dopo il 7 marzo 2015 poiché questi «sono lavoratori assunti sì a tempo indeterminato, ma che conseguiranno la qualifica solo al termine del periodo formativo, durante il quale quindi non si applicano le disposizioni del d.lgs. n. 23/2015»29; se in effetti l’art. 1, comma 1, subordina l’applicazione della disciplina al possesso della qualifica e l’apprendista ne è sprovvisto, il decreto non gli potrà essere applicato. Questa interpretazione risulta rafforzata anche da quanto disposto dall’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 «il quale sancisce che la nuova normativa si applica in caso di conversione di rapporti di apprendistato in contratti a tempo indeterminato successivi al 7 marzo 2015»30. A questa lettura, se ne contrappone un’altra che fa leva sulla precedente “esperienza” maturata dalla prima legge in materia di licenziamento: la l. 15 luglio 1966, n. 604. L’art. 10 che limitava il campo di applicazione della legge alle sole categorie di lavoratori ai sensi dell’art. 2095 c.c. fu dichiarato incostituzionale31 nella parte in cui non comprendeva gli apprendisti nell’ambito di applicazione di tale legge. Secondo altra dottrina32, quindi, la “strada” interpretativa, costituzionalmente orientata, sarebbe tracciata da una precedente esperienza che risulterebbe compatibile anche con l’attuale quadro normativo. Peraltro, questa dottrina33 fa presente che tanto all’art. 2, comma 1, lett. l), d.lgs. n. 167/2011 quanto all’art. 42, comma 3, d.lgs. n. 81/2015 viene operato un rinvio mobile alle sanzioni previste dalla normativa vigente per il licenziamento illegittimo, senza far riferimento alcuno a discipline previgenti o nuovi regimi normativi. Peraltro, è da notare che l’incertezza circa l’applicazione del d.lgs. n. 23/2015 agli apprendisti è alimentata anche dal significato polivalente che assume il termine qualifica. Infatti, secondo autorevole dottrina34, il termine avrebbe almeno tre accezioni diverse,
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Tiraboschi, L’apprendistato dopo il Jobs Act, in F. Carinci (a cura di), Jobs Act: un primo bilancio. Atti del XI Seminario di BertinoroBologna del 22-23 ottobre 2015, Adapt Labour Studies e-book series, n. 54/2016, 314. Secondo l’Autore, quindi, le norme di cui al d.lgs. n. 23/2015 diventano esigibili solo dopo la prosecuzione del rapporto a tempo indeterminato. Sul punto, v. anche Tiraboschi, Il contratto a tutele crescenti: spazi di applicabilità in caso di apprendistato e somministrazione di lavoro, in F. Carinci, Tiraboschi (a cura di), I decreti attuativi del Jobs Act: prima lettura e interpretazioni. Commentario agli schemi di decreto legislativo presentati al Consiglio dei Ministri del 24 dicembre 2014 e alle disposizioni lavoristiche della legge di stabilità, Adapt Labour Studies e-book series, 2015, n. 37, ed. Adapt University Press, spec. 110-113. 30 Tiraboschi, L’apprendistato dopo il Jobs Act, cit., 314. 31 Cfr. C. cost., 22 novembre 1973, n. 169. 32 Tremendola, op. cit., 16-17. 33 V. sempre Tremendola, op. cit., 17. Sul rinvio mobile, sia consentito il rinvio anche a Piglialarmi, Apprendistato: qualificazione e disciplina del recesso, in DPL, 2018, n. 26, 1662 e ss., spec. 1667. 34 Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Jovene, 1963, 22. Giugni sostiene che il sostantivo “qualifica” indichi la
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tra cui anche quella di categoria di cui all’art. 2095 c.c., che suddivide tutti i prestatori di lavoro (quindi anche gli apprendisti) in quattro grandi gruppi: operai, impiegati, quadri e dirigenti. Orbene, esclusi i dirigenti, l’art. 1, comma 1, richiama le altre tre categorie appellandole come “qualifiche”. Sulla base di ciò, sarebbe anche possibile ritenere che nel campo di applicazione rientri anche l’apprendista giacché seppure questo non ha ancora la qualifica, è comunque un lavoratore in possesso di una categoria di cui all’art. 2095 c.c.35. L’altro profilo problematico investe la questione dell’applicabilità del d.lgs. n. 23/2015 ai «casi di conversione (…) di contratto (…) di apprendistato in contratto a tempo indeterminato» in quanto adottando un approccio interpretativo di tipo restrittivo, come fatto dal Tribunale di Roma, la “conversione” di cui all’art. 1, comma 2, interverrebbe - come accertato dalla giurisprudenza - nella sola ipotesi di mancato adempimento dell’obbligo formativo che è parte essenziale dello schema negoziale, caratterizzato dall’avere una causa mista36. Così, l’utilizzo del termine “conversione” da parte del legislatore, alla stregua delle osservazioni sopra messe in luce, «non avrebbe dunque nulla di generico e inconsapevole ma, anzi, assumerebbe un significato tecnico ben preciso richiamando testualmente il regime sanzionatorio previsto dalla legge in presenza di (determinati) vizi formali e sostanziali nella attivazione di contratti di lavoro a termine e di apprendistato»37. Assumendo, invece, una prospettiva interpretativa estensiva, al pari del Tribunale di Napoli, nell’ipotesi di “conversione” di cui all’art. 1, comma 2, rientrerebbero tutti i contratti di apprendistato “trasformati” dopo il 7 marzo 2015 in contratto a tempo indeterminato all’esito del periodo di formazione. Conseguentemente, stando a quest’ultima opzione interpretativa, un contratto di apprendistato stipulato prima dell’entrata in vigore del decreto, rispetto al quale troverebbe ratione temporis applicazione l’art. 18 st. lav., se giunge al termine il periodo formativo dopo il 7 marzo 2015, il rapporto di lavoro prosegue a tempo indeterminato – fatta salva la facoltà di recesso ex art. 2118 c.c. – ma con l’applicazione del d.lgs. n. 23/2015.
5. Alcune (provvisorie) conclusioni. Alla luce di quanto detto, è possibile concludere evidenziando che allo stato attuale, non è sempre scontata l’applicazione della disciplina del d.lgs. n. 23/2015 ai contratti a
qualifica soggettiva, intesa come sintesi delle esperienze lavorative della persona indicante cosa il lavoratore sa concretamente fare; un’accezione, inoltre, oggettiva, indicante invece l’oggetto del contratto del lavoro (i compiti da svolgere pattuititi nel contratto); infine, il sostantivo potrebbe essere considerato come variante semantica del termine categoria di cui all’art. 2095 c.c. Sulle questioni definitorie del termine qualifica, v. anche Pisani, La Nuova disciplina del mutamento di mansioni, Giappichelli, 2015, 3. 35 L’apprendista, anche se no può essere considerato un operaio o un impiegato, è nei fatti pur sempre un operaio-apprendista o impiegato-apprendista poiché l’art. 2095 c.c. trova applicazione per tutti i prestatori di lavoro. 36 Cfr. Tiraboschi, Conversione, cit.; cfr. Cass., 17 marzo 2014, n. 6068; Cass., 22 aprile 2011, n. 9294 entrambe in De Jure Banca dati online; Trib. Arezzo, 6 marzo 2014; Trib. Milano, 23 ottobre 2003, in Dottrina & Lavoro, 2004, 88 e ss. con nota di Cordedda. V. anche Mondelli, Le conseguenze dell’inadempimento dell’obbligo formativo nel contratto di apprendistato, in DRI, 2009, 1023 e ss. 37 Cfr. Tiraboschi, Conversione, cit.
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termine stipulati anteriormente la data del 7 marzo 2015 e convertiti successivamente in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Ciò in quanto non è ben chiaro se l’utilizzo del termine conversione impiegato dal legislatore all’art. 1, comma 2, rappresenti una scelta tecnica ben precisa (con relativi effetti sul piano sostanziale e processuale) oppure una scelta atecnica, intendendo quindi includere tutte le ipotesi che conducano ad una stabilizzazione generica dei rapporti di lavoro confluenti verso la “forma comune” di impiego: il contratto di lavoro a tempo indeterminato (cfr. art. 1 d.lgs. n. 81/2015). Secondo il parere espresso dal Tribunale di Roma, per i contratti a tempo determinato “trasformati” per volontà delle parti a tempo indeterminato, non troverà applicazione l’apparato normativo del d.lgs. n. 23/2015, poiché l’art. 1, comma 2, quando fa riferimento alla conversione allude alle ipotesi di mutazione del contratto avvenuta in ragione di una violazione di norme imperative (anche di matrice collettiva) relative all’utilizzo di una determinata tipologia contrattuale. È questo l’unico caso in cui al contratto a termine o di apprendistato stipulato anteriormente il 7 marzo 2015 si applicheranno le c.d. tutele crescenti, coerentemente con il dato normativo del d.lgs. n. 23/2015 (“conversione”) e i criteri dettati dalla legge delega n. 183/2014 (“nuove assunzioni”). Il Tribunale di Roma, quindi, ha escluso dal campo applicativo del d.lgs. n. 23/2015 le ipotesi di prosecuzione senza soluzione di continuità di rapporti a tempo determinato avviati prima del 7 marzo 2015 e quella relativa ai contratti di apprendistato che proseguono a seguito del mancato esercizio della facoltà di recesso al termine del periodo di formazione. Certo è che se dovesse prevalere quest’ultima impostazione, l’operazione negoziale volta ad applicare il d.lgs. n. 23/2015 anche ai contratti trasformati volontariamente dalle parti in contratti di lavoro a tempo indeterminato risulterebbe essere in frode alla legge38. L’incertezza del quadro giurisprudenziale che ne fuoriesce ha delle ricadute anche sul profilo processuale. Infatti, in situazioni similari a quella analizzata dal Tribunale di Roma, la decisione di propendere per un’interpretazione restrittiva della norma o al contrario estensiva sulla scia delle argomentazioni avanzate dal Tribunale di Napoli, determinerà anche la tipologia di rito che il giudizio dovrà seguire in quanto ai casi di applicazione del d.lgs. n. 23/2015 non si applica il c.d. rito Fornero (cfr. art. 1, comma 47 e ss. l. n. 92/2012) ma il rito ordinario del lavoro ex art. 414 c.p.c.39. Infine, è da rilevare che nel caso di specie trattato dal Tribunale di Roma, qualora il giudice avesse optato per un’interpretazione estensiva dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, il “risultato” del giudizio sarebbe pressappoco risultato essere lo stesso. Infatti, seppure l’art. 18 st. lav. al comma 4 dispone la reintegra «perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili», l’art. 3 d.lgs. n. 23/2015 non depone alcun rinvio alla contrattazione collettiva per la graduazio-
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Su questi aspetti si rinvia allo studio di Laforgia, Diritti fondamentali dei lavoratori e tecniche di tutela. Discorso sulla dignità sociale, ed. ESI, spec. 153. 39 A tal proposito, il giudice del Tribunale di Napoli (Trib. Napoli, 26 giugno 2017, Giud. Est. G. Marchese) osserva che d’ufficio si dispone il mutamento di rito a seconda della disciplina applicata non ricorrendo l’ipotesi di improponibilità o improcedibilità del ricorso poiché prevalgono «i principi dell’effettività della tutela giurisdizionale, riconducibile all’art. 24 Cost. e del giusto processo, di cui all’art. 111 Cost.».
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ne della sanzione o la tipizzazione di condotte configuranti la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo per configurare il licenziamento. Tuttavia, è stato osservato che «pur a fronte della chiara lettera della legge, pare difficile che il giudice si astenga dal valutare e tenere in considerazione tali qualificazioni contrattuali delle condotte illecite del lavoratore che possono condurre a un licenziamento. Questo soprattutto laddove il contratto individuale richiami, direttamente o indirettamente, il contratto collettivo di riferimento per la determinazione del trattamento normativo del rapporto di lavoro che bene potrebbe essere inteso dal giudice in termini di condizioni di miglior favore per il prestatore di lavoro»40. Alla luce di tale interpretazione, essendo risultato pacifico in giudizio l’applicazione di un contratto collettivo che richiedeva la reiterazione di una medesima condotta tipizzata in giudizio per poter giungere al licenziamento, il giudice sarebbe potuto giungere a riconoscere la reintegra anche nell’ipotesi in cui avrebbe ritenuto applicabile il d.lgs. n. 23/2015, per “insussistenza materiale del fatto”41 in quanto la condotta contestata e posta alla base del licenziamento non è idonea, secondo le disposizioni collettive, a potersi qualificare come “fatto illecito” tale da giustificare il recesso dal rapporto di lavoro42. Giovanni Piglialarmi
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Tiraboschi, Teoria e pratica dei contratti di lavoro, ed. Adapt University Press, 2016, II edizione, 91, che ulteriormente precisa: «nulla esclude, in fase di applicazione dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 23/2015, l’emersione di orientamenti giurisprudenziali volti a qualificare e orientare i fatti materiali imputati al lavoratore in funzione delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo da parte dei contratti collettivi o anche in applicazione del principio generale di proporzione tra condotta e sanzione (art. 2106 c.c.)». Sul punto, di rilievo è anche il contributo di Tomassetti, Gamberini, La nuova disciplina dei licenziamenti individuali alla prova della contrattazione collettiva, in DRI, 2015, 1172 e ss., spec. 1178 che all’esito di una dettagliata analisi di un campione di CCNL, sostengono che nonostante l’assenza di un rinvio a favore della contrattazione collettiva, i giudici potrebbero continuare ad utilizzare le disposizioni collettive almeno laddove i contratti individuali rinviino al contratto collettivo per la regolazione del rapporto di lavoro. Così, attraverso l’applicazione di queste clausole che sono indubbiamente di miglior favore, il giudice “recupera” quel giudizio di proporzionalità espunto dalla nuova disciplina regolante il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo. Sul punto v. Tiraboschi, Gamberini, Licenziamenti: la disciplina dopo il contratto a tutele crescenti, in GLav, 2015, n. 18, 12 e ss.). 41 Pelusi, L’irrilevanza giuridica del fatto contestato equivale alla sua insussistenza materiale: un monito per il legislatore del Jobs Act?, in DRI, 2015; v. anche Zambelli, Licenziamento: l’irrilevanza giuridica del fatto contestato comporta la reintegra, in GLav, 2015, n. 44, 43 e ss. 42 In questa situazione, cioè dove il datore non applica la sanzione prevista dal contratto collettivo e quindi non adempie a una clausola contrattuale, è stato ipotizzato che il lavoratore potrebbe promuovere una ordinaria azione per inadempimento del contratto collettivo ai sensi dell’art. 1218 c.c., ottenendo quindi, in aggiunta, un ulteriore risarcimento del danno; di questa opinione è Fiorillo, La tutela del lavoratore in caso di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo, in Fiorillo, Perulli (a cura di) Contratto a tutele crescenti e Naspi, op. cit., 103-131, spec.119. Depone in senso favorevole alla prevalenza del contratto collettivo, nonostante l’assenza di un rinvio, Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra law and economics e vincoli costituzionali, in WP D’Antona, It., 259/2015.
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