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ABOR Il lavoro nel diritto
issn 2531-4688
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maggio-giugno 2017
Rivista bimestrale
Diretta da Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
IN EVIDENZA Autonomia, subordinazione e coordinazione Paolo Tosi
Crisi dell’appello di lavoro Luigi de Angelis
“Caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro Giovanni Costa
Giurisprudenza commentata Giulio Centamore, Elena Gramano, Maria Laura Picunio, Ilario Alvino
Pacini
Indici
Saggi Paolo Tosi, Autonomia, subordinazione e coordinazione............................................................... p. 245 Luigi de Angelis, Crisi dell’appello di lavoro tra scelte legislative, tensioni ordinamentali, autosufficienza del rito e qualche ambiguità testuale: considerazioni sparse................................ » 255 Giovanni Costa, “Caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: risoluzione definitiva del problema o mero restyling normativo....................................................................... » 267
Giurisprudenza commentata Giulio Centamore, Una certa idea di capitalismo. Autorizzazione preventiva al licenziamento collettivo e diritto dell’Unione Europea (nota a Corte di Giustizia dell’UE, 21 dicembre 2016, causa C-201/15)................................................................................................................................ » 299 Elena Gramano, Dal patto all’obbligo di demansionamento (nota a Corte di Cassazione, 9 novembre 2016, n. 22798)................................................................................................................ » 315 Maria Laura Picunio, Se sussista un obbligo del lavoratore di giustificare l’assenza per sciopero (nota a Corte d’Appello di Milano, 30 marzo 2016, n. 447/2016)................................................... » 327 Ilario Alvino, Distinzione tra somministrazione nulla, irregolare e fraudolenta: il problema della legittimazione attiva dell’ente previdenziale e quello dell’applicabilità delle sanzioni per evasione contributiva (nota a Tribunale di Trento, sentenza 6 dicembre 2016)............................................ » 339
Indice analitico delle sentenze Lavoro (rapporto di) – Contratto di somministrazione – Omessa presentazione delle denunce obbligatorie – Occultamento dei rapporti di lavoro – Evasione contributiva – Sussistenza (Trib. Trento, 6 dicembre 2016, con nota di Alvino) – Contratto di somministrazione – Somministrazione finalizzata al risparmio del costo del lavoro – Nullità per illiceità della causa – Sussistenza (Trib. Trento, 6 dicembre 2016, con nota di Alvino) – Contratto di somministrazione – Violazione dell’art. 20, comma 5, lett. b), d.lgs. n. 276/2003 – Nullità – Legittimazione ad agire degli enti previdenziali – Sussistenza (Trib. Trento, 6 dicembre 2016, con nota di Alvino) – Sciopero – Obbligo di giustificazione assenza – Buona fede – Non sussiste – Licenziamento – Discriminatorio – Ritorsivo (App. Milano, 30 marzo 2016, con nota di Picunio) Licenziamenti – Giustificato motivo oggettivo – Obbligo di repêchage – Mansioni – Demansionamento – Illegittimità (Cass., sez. lav., 9 novembre 2016, n. 22798, con nota di Gramano) – Licenziamento collettivo – Normativa interna greca – Autorizzazione preventiva p.a. – Art. 49 TFUE – Libertà di stabilimento – Art. 16 CDFUE – Libertà d’impresa – Dir. 98/59/CE – Non conformità (C. giust., grande sez., 21 dicembre 2016, causa C-201/15, con nota di Centamore) – Licenziamento collettivo – Normativa interna greca – Autorizzazione preventiva p.a. – Art. 49 TFUE – Libertà di stabilimento – Art. 16 CDFUE – Libertà d’impresa – Dir. 98/59/CE – Crisi economica – Tasso di disoccupazione – Irrilevanza (C. giust., grande sez., 21 dicembre 2016, causa C-201/15, con nota di Centamore) Indice cronologico delle sentenze Giorno
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Autorità 2016 Marzo App. Milano, n. 447/2016 Novembre Cass., sez. lav., n. 22798 Dicembre Trib. Trento C. giust., grande sez., causa C-201/2015
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Notizie sugli autori
Ilario Alvino – ricercatore nell’Università degli studi Milano Bicocca Giulio Centamore – assegnista di ricerca nell’Università di Bologna Giovanni Costa – dottore di ricerca nell’Università Cattolica del Sacro Cuore Luigi de Angelis – già presidente di sezione presso la Corte d’appello di Genova Elena Gramano – research fellow nell’Università Goethe di Francoforte sul Meno Maria Laura Picunio – dottoranda di ricerca nell’Università degli studi di Padova Paolo Tosi – professore emerito nell’Università degli studi di Torino
Saggi
Paolo Tosi
Autonomia, subordinazione e coordinazione* Sinossi: Il saggio si interroga sulla reale portata dell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, intervenuto in materia di collaborazioni organizzate. Per L’A. la norma – da leggere necessariamente in combinato disposto con l’art. 52, comma 1 dello stesso decreto, laddove abroga il c.d. contratto di lavoro a progetto – non ha una efficacia propriamente normativa, quanto, piuttosto, una valenza squisitamente politica: il legislatore ha infatti ritenuto di dover collocare il suddetto intervento abrogativo nel complessivo contesto di una (almeno apparente) disciplina organica dei contratti di lavoro, come del resto promesso nella intitolazione dello stesso decreto n. 81. Abstract: The essay deals with the art. 2 d.lgs. no. 81/2015 about the so called “organized collaborations”. According to the Author, it is clear that the aforesaid article, if read together with the art. 52, co. 1 of the same d.lgs. no. 81, which repeals the project-based contract, has only a political purpose not a normative one. Parole chiave: contratto a progetto – abrogazione – rapporti di collaborazione coordinata e continuativa – Jobs Act – individuazione delle fattispecie
L’art. 52, comma 1, del d. lgs. 81/2015, tramite l’abrogazione delle «disposizioni di cui agli articoli da 61 a 69-bis del decreto legislativo n. 276 del 2013», ha espunto dall’ordinamento le tipologie contrattuali a progetto e occasionali mentre il comma 2 del medesimo articolo, facendo «salvo quanto disposto dall’art. 409 del codice di procedura civile», ha testualmente ribadito la presenza, nel nostro ordinamento, della tipologia di «rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato». È stato così ripristinato il tradizionale contesto normativo di riferimento della questione della subordinazione1. Ed è quindi all’interno di quel contesto che è venuto a trovare la
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È il testo, per l’occasione già corredato delle note, della relazione svolta il 7 aprile 2017 a Lucca, nell’ambito del Corso di Alta Formazione Il diritto del lavoro fra tradizione e rinnovamento, organizzato dalla Fondazione Giuseppe Pera. 1 Mentre l’abrogazione dell’art. 61, comma 1, e degli articoli successivi ha segnato l’abbandono di una fattispecie e relativa disciplina fin dall’origine e poi sempre più farraginose, che hanno alimentato un contenzioso ampio e ingovernabile, l’abrogazione dell’art. 61, comma 2, ha ricondotto il lavoro occasionale, privato della tipizzazione tipologica e affrancato dai limiti ivi previsti, all’area del lavoro autonomo tout court ove difetti l’obbligo di effettuare una prestazione lavorativa con apprezzabile continuità nel tempo. La tipologia resta normata dall’art. 44, d.l. n. 269/2003 sul terreno previdenziale.
Paolo Tosi
sua collocazione il disposto dell’art. 2, comma 1, relativo alle “collaborazioni coordinate dal committente”. L’interrogativo essenziale suscitato da tale disposto è se esso (grazie alla o anche, in ipotesi, indipendentemente dalla creazione di una autonoma fattispecie) abbia, al di là della sua formulazione in termini precettivi, un contenuto propriamente normativo, capace cioè di produrre (nuovi) effetti giuridici sul piano della disciplina applicabile alle diverse tipologie di rapporti di lavoro. La risposta a mio avviso non può che essere negativa2 ove, per apprezzare l’eventuale aliquid novi apportato dall’art. 2, comma 1, si assuma quale termine di riferimento l’art. 2094 c.c. (non nella sua formulazione strettamente codicistica bensì) nel contenuto che, tramite la costante applicazione giurisprudenziale, ha acquisito nel c.d. diritto vivente. Orbene, i giudici fin dagli anni cinquanta del secolo scorso hanno dovuto prendere atto del difetto di capacità qualificatoria della definizione codicistica, segnatamente della sua capacità di consentire una agevole, diretta sussunzione dei casi concreti nella fattispecie del contratto avente come parte un “prestatore di lavoro subordinato”; difetto al quale peraltro non sono riuscite a porre rimedio le molteplici nozioni di subordinazione che la dottrina è andata nel tempo elaborando. Cosicché, sotto la copertura di una nozione generale e generica di subordinazione (per lo più ricostruita coniugando l’eterodeterminazione, l’antica distinzione attività/risultato e il conseguente profilo della ripartizione del rischio), i giudici hanno operato la qualificazione del rapporto di lavoro preliminarmente individuando una serie di indici della subordinazione desunti dalla figura socialmente tipica di lavoratore della grande impresa industriale, taluno tratto dalla stessa disciplina tipica: inserzione nell’organizzazione predisposta dal datore di lavoro; sottoposizione alle sue direttive tecniche, al suo controllo ed al suo potere disciplinare; monodipendenza; retribuzione generalmente a tempo ed indipendente dal risultato; vincolo di luogo e di orario; continuità della prestazione. Quindi hanno proceduto ad un raffronto avente quali termini di paragone da un lato le caratteristiche dello specifico rapporto e dall’altro le caratteristiche del modello di rapporto contraddistinto dalla totalità degli indici rivelatori della situazione di subordinazione per pervenire, attraverso questa via, ad un giudizio di fatto, essenzialmente di riconducibilità o meno del rapporto specifico al modello tipico in ragione della sua maggiore o minore approssimazione ad esso malgrado l’assenza di taluni di quegli indici e cercando possibilmente conforto nelle qualificazioni di questo o quello specifico contenuto del rapporto di lavoro correnti nella pratica sociale. L’attenta considerazione della giurisprudenza dominante (anche nel torno di tempo contraddistinto dall’assorbimento della fattispecie di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c. in quella del lavoro a progetto e a prescindere dalla prevalenza, in epoche diverse, nel dubbio, di una sorta di presunzione di subordinazione ovvero di attendibilità del nomen iuris attribuito dalle parti) conduce a costatare che baricentro delle operazioni di qualificazione
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Mi pare sostanzialmente concorde Mazzotta, Lo strano caso delle “collaborazioni organizzate dal committente”, in LB, 2016, 1-2, 8, il quale scrive di «pochezza ed insignificanza della riforma».
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è sempre stata la richiesta alla combinazione di indici rinvenibile nel rapporto da qualificare, di esprimere, in relazione alle specifiche peculiarità dello stesso, la sussistenza o meno di una piena soggezione del prestatore di lavoro ai poteri di supremazia del datore di lavoro indirizzati al governo delle modalità di inserimento e costante utilizzo della sua prestazione nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa3. Specie dopo che la legificazione delle collaborazioni cooordinate non subordinate ha costretto i giudici a prendere atto che l’inserimento di esse nel ciclo produttivo dell’impresa e il coordinamento tra le due organizzazioni di lavoro non comportano di per sé la ricorrenza della subordinazione. Del resto, parallelamente, la soggezione o meno a detti poteri è stata il filo conduttore delle operazioni giurisprudenziali di distinzione dell’appalto genuino da quello di mera manodopera, sulla scorta dell’art. 3, l. n. 1369/1960 («nell’interno delle aziende, con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore» ovvero, per antitesi, del committente) e poi dell’art. 29, comma 1, d.lgs. 276/2003 («esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto»). Paradigmatica è la sintesi di questo orientamento offerta da una sentenza recente della Suprema Corte (Cass., 8 aprile 2015, n. 7024) con le cui parole mi pare opportuno chiudere questa parte introduttiva delle mie considerazioni: «l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato è il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia e inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza del rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione, pur avendo natura meramente sussidiaria e non decisiva, possono costituire indici rivelatori della subordinazione, idonei a prevalere sull’eventuale volontà contraria manifestata dalle parti, ove incompatibili con l’assetto previsto dalle stesse». Sulla scorta del descritto, consolidato orientamento giurisprudenziale è ora agevole passare alla dimostrazione della tesi assunta in premessa. La risposta in ipotesi affermativa all’interrogativo da cui ho preso le mosse si colloca al bivio di due alternative obbligate. a).L’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015, descrive una fattispecie nuova ed autonoma cui riconduce la medesima disciplina tipica correlata alla fattispecie dell’art. 2094 c.c. Questa alternativa di lettura – volendo prescindere dalle perplessità di ordine costituzionale4 – richiede che con gli elementi offerti dalla norma («prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro») sia possibile individuare una fattispecie
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Per la puntuale ricostruzione, anche con attenzione alle diverse fasi temporali, del diritto vivente mi limito a rinviare a Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu, Diritto del lavoro. 2 Il rapporto di lavoro subordinato, 8° ed., Utet, 2013, cap. II (ma anche, con qualche taglio, 9° ed., 2016). 4 È vero che la Corte delle leggi ha affermato la rilevanza costituzionale della tassatività della disciplina tipica in relazione alle norme della Carta di tutela del lavoro (C. cost., 29 marzo 1993, n. 121; C. cost., 31 marzo 1994, n. 115, entrambe reperibili in www.giurcost. it) ma è altresì vero che tale rilevanza può essere prospettata anche in relazione agli articoli 3 e 41 della Carta stessa. L’estensione di quella disciplina (e non solo di specifici tratti di essa) indipendentemente da una revisione dei caratteri della fattispecie dell’art. 2094 c.c. vedrebbe infatti tutti i datori di lavoro costretti ad applicare l’intero statuto garantistico del lavoro subordinato anche a rapporti che, per ammissione dello stesso legislatore, di lavoro subordinato non sono.
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provvista (non tanto di una sufficiente caratterizzazione sul piano teorico quanto) della capacità di consentire, sul piano pratico, la sussunzione in essa di rapporti non sussumibili nella fattispecie dell’art. 2094 c.c. alla stregua del contenuto che ha assunto nel diritto vivente. Ciò non è però possibile giacché, come ho sopra sottolineato, la giurisprudenza, nelle concrete operazioni di qualificazione, ha sempre inteso l’eterodirezione quale eterorganizzazione delle modalità del lavoro siccome risultante dalla presenza di una combinazione di indici idonea ad esprimerla. Insomma, può anche ammettersi che sul piano della speculazione teorica sia forse possibile costruire, in base al dato testuale dell’art. 2094 c.c. e dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, due fattispecie distinte. Ciò pur scontando l’irrilevanza, a segnare la distinzione, del riferimento, contenuto nell’art. 2, all’elemento della “continuatività” della prestazione; elemento che è sempre stato considerato implicito nella fattispecie dell’art. 2094 c.c. in quanto postulato dall’ obbligo di collaborare. Invero l’obbligo di effettuare la prestazione, prim’ancora che essenziale indice della soggezione al potere organizzativo del datore di lavoro, è requisito di fattispecie (insieme alle modalità della prestazione stessa) nell’articolo 2094 c.c. ma anche nell’articolo 2 comma 1 d.lgs. n. 81/2015 per chi ritenga che il suo contenuto sia idoneo a individuare una fattispecie autonoma: il rapporto di collaborazione richiede infatti una fonte da cui discenda il dovere reciproco di fornire/accettare prestazioni “continuative”5. È però giocoforza altresì ammettere che le due fattispecie, pur distinte sul piano teorico, non avrebbero comunque in concreto una differenziata capacità qualificatoria6.
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In senso diverso, con riguardo ad un caso di addetti alla ricezione e al pagamento delle scommesse in un’agenzia ippica, Cass., 5 maggio 2005, n. 9343, in NGL, 2005, 720 e Cass., 27 maggio 2016, n. 11015. È vero poi che, alla stegua di un principio fondante della materia acquisito dalla consolidata dottrina contrattualistica (e dalla giurisprudenza) con riferimento all’art. 2094 c.c., la volontà di assunzione dell’obbligo di lavorare può essere desunta dal dato di fatto della continuità sostanziale del suo adempimento; continuità sostanziale che deve però risultare univocamente dal materiale probatorio e può essere compromessa, ad esempio, dalla circostanza che la prestazione sia frequentemente resa da altri in sostituzione dell’obbligato. Da questa angolazione può anche venir meno la fisiologica personalità della prestazione del lavoratore subordinato. 6 Se ne rende conto Razzolini, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, in WP D’Antona, It, 2015, n. 266. L’A., che muove dal postulato della finalità del legislatore «di allargare l’ambito applicativo della disciplina del lavoro subordinato», si impegna dapprima a distinguere le due fattispecie grazie alla differenziazione del coordinamento a seconda che operi in una «dimensione contrattuale soprattutto individuale» ovvero in una “dimensione collettiva” (11-12). Come se davvero il coordinamento fosse in concreto isolabile dal collegamento con le mansioni che il datore di lavoro assegna nell’organizzazione aziendale ai suoi lavoratori subordinati. La “evanescenza” (direi piuttosto l’astrattezza) del criterio mi pare assai più evidente di quella rimproverata agli indici giurisprudenziali (13-14), che peraltro la giurisprudenza adopera per ricostruire, quasi sempre motivando, il complessivo assetto di interessi intercorrente tra le parti. L’A., dicevo, se ne rende conto laddove poi ammette che «oggi ancor più che in passato discernere tra le due ipotesi (subordinazione ed autonomia) appare difficile se non sul piano teorico sul piano pratico» (16) giacché, senza un intervento chiarificatore del legislatore, «nella pratica la distinzione tra il contenuto dei due poteri resterebbe opaca e incerta, finendo con l’alimentare l’utilizzo fraudolento delle collaborazioni coordinate e continuative che il lavoro a progetto aveva inteso arginare» (17). Nel dubbio, l’A. sposta infine l’attenzione sull’ipotesi secondo cui «l’art. 2, comma 1, incide sulla fattispecie della subordinazione»; ipotesi di cui mi occuperò più avanti nel testo. Treu, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, in DLRI, 2015, 155 ss. (scritto con riguardo allo schema di decreto, ma è solo il requisito della ripetitività delle prestazioni ad essere venuto meno nel testo definitivo) sembra confidare, in verità assertivamente, che, pur nella (o forse grazie alla) «difficoltà di intercettare la variabilità dei lavori» (164), il requisito della eterorganizzazione sia idoneo a supportare, in teoria e in pratica, una fattispecie autonoma di allargamento della disciplina del lavoro subordinato, aggiungendo che comunque «l’intervento dello schema di decreto contribuisce ad avallare un cambio di indirizzo potenzialmente di grande rilievo, su un aspetto da sempre
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Anzi, poiché l’aliquid novi offerto dall’art. 2, comma 1, è costituito dalla necessaria presenza, tra le modalità eterorganizzate della prestazione, accanto a quelle non indicate, “anche” dei tempi e del luogo di essa, la diversa fattispecie avrebbe un ambito applicativo più ristretto di quella dell’art. 2094 c.c. (non essendo lì siffatte modalità, per diritto vivente, indispensabili) e sarebbe quindi vieppiù inutile. Altrettanto inutile la nuova fattispecie sarebbe sul versante della individuazione in concreto della linea di confine con la fattispecie dell’art. 409 c.p.c. ove pure si ritenesse, sul piano della speculazione teorica, di attribuire rilevanza all’utilizzo, nell’art. 2 comma 1, della locuzione “prestazioni di lavoro” in luogo della locuzione “prestazione d’opera”7; la quale, nel numero 3 dell’art. 409 c.p.c., trova peraltro agevole spiegazione nella concomitante considerazione di “altri” rapporti. Resterebbero infatti, comunque, da individuare le “modalità di esecuzione” della prestazione che, ove organizzate dal committente, segnerebbero il discrimen rispetto alle collaborazioni semplicemente coordinate; soprattutto, da individuarle per modo che siano suscettibili di consentire in concreto la qualificazione del rapporto come riconducibile alla nuova fattispecie anziché (oltre che a quella del lavoro subordinato) a quella del lavoro coordinato senza subordinazione8. E non vedo proprio come i giudici potrebbero operare
centrale per l’identità del lavoro quale è appunto la subordinazione» (165). Anche Ichino, Il lavoro parasubordinato organizzato dal committente, in via di pubblicazione in MGL, in seno ai Colloqui di diritto del lavoro diretti da Vallebona, ritiene provvisto di sufficiente capacità qualificatoria «l’elemento essenziale della fattispecie costituito dal fatto che sia il creditore della prestazione a determinarne (non necessariamente il contenuto e le modalità interne quotidie et singulis momentis, poiché l’etero-organizzazione non equivale alla etero-determinazione, ma) almeno il luogo e il tempo». Parimenti secondo Prosperetti, Rapporto di lavoro e collaborazioni organizzate in via di pubblicazione in loc. cit., la nuova norma esprime siffatta capacità «riconducendo il discrimine, tra lavoro subordinato e parasubordinato, ad elementi più concreti quali sono, appunto, gli aspetti organizzativi, sicché in riferimento alle concrete modalità di esecuzione, organizzate dal committente-datore di lavoro, (che) consentono un’indagine più agevole ai fini della qualificazione della fattispecie». 7 Si veda Perulli, Il lavoro autonomo, in via di pubblicazione in Fiorillo, Perulli, Il nuovo diritto del lavoro, Giappichelli (in continuità, mi pare, con il precedente saggio Perulli, Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, in WP D’Antona, It, 2015, n. 235). L’A. muove dalla premessa che, mentre si è avuto un utilizzo, dottrinale ma anche giurisprudenziale, del «criterio dell’organizzazione per adattare la nozione di subordinazione di cui all’art. 2094 Cod. Civ.» estendendola, il legislatore del decreto n. 81 invece «impiega il criterio dell’etero-organizzazione della prestazione per ricondurre a subordinazione fattispecie altrimenti… di lavoro autonomo» (28 datt.). Quindi individua così la linea distintiva tra le due fattispecie: «l’art. 2, co. 1, non descrive affatto una fattispecie caratterizzata dalla soggezione in senso tecnico ad un potere direttivo-organizzativo del “committente” (che infatti non è “datore di lavoro”), tale per cui il prestatore viene inserito in una organizzazione sulla quale non ha alcun potere di controllo, riferendosi, invece, ad una più generica e meno pervasiva facoltà del committente di organizzare la prestazione del lavoratore anche in ragione del tempo e del luogo, rendendola di fatto compatibile con il substrato materiale e con i fattori produttivi apprestati dal committente» (28-29). Mi pare una linea di confine in verità assai labile, malgrado lo sforzo esemplificativo dell’A. e nonostante la suggestione dell’uso legislativo del termine “committente”. Non riesco a comprendere come possa essere più tenue l’inserimento nell’organizzazione che ha come fattori costitutivi eterodeterminazione del tempo e luogo della prestazione, che non è necessaria neppure per la configurazione della subordinazione in senso pregnante. D’altronde l’A. stesso, pur spostando il baricentro della questione qualificatoria sul piano della relazione tra altre fattispecie, è costretto ad ammettere che «è sul discrimen che separa la prestazione “organizzata dal committente” dalle altre prestazioni autonome che la distinzione in oggetto si fa ancora più incerta di quanto accade rispetto al discrimen con la subordinazione». 8 Quasi a supportare l’autonomia della nuova fattispecie (talora terminologicamente definita quale mera diversa tipologia), molti Autori affermano l’inapplicabilità al rapporto ad essa riconducibile di questo o quel tratto della disciplina tipica del lavoro subordinato. Preferisco non seguirli su questo terreno, al di là della opinabilità di ogni specifica operazione selettiva, attesa la mia opzione di fondo circa la inidoneità della nuova fattispecie ad essere proficuamente utilizzata nelle concrete operazioni di qualificazione dei rapporti di lavoro.
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senza dare continuità alle opzioni di metodo consolidate nelle loro operazioni di qualificazione dei rapporti di lavoro. b).L’art. 2, comma 1, modifica l’art. 2094 c.c. integrandone il contenuto (in funzione, secondo la maggior parte dei primi commenti, di una sua estensione). Questa alternativa di lettura (la quale peraltro, per quanto detto, non recherebbe alcun apporto giuridicamente rilevante al contenuto assunto dalla norma nel diritto vivente) appare incompatibile con il dato testuale, dal quale risulta con evidenza che la norma non vuole novellare l’art. 2094 c.c. bensì, almeno nell’intentio del legislatore, individuare situazioni diverse da quelle lì previste, collocandosi a latere, piuttosto, dell’art. 409 c.p.c., n. 3, che peraltro neppure viene novellato e la cui fattispecie è comunque incardinata sull’assenza del “carattere subordinato” della collaborazione. Che il legislatore ritenesse di essere riuscito a tradurre tale intento in dettato produttivo di effetti giuridicamente apprezzabili è confermato, a mio avviso, dalla formulazione del successivo comma 2, il cui incipit («la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione») inequivocabilmente esclude dall’applicazione della disciplina del lavoro subordinato solo i rapporti riconducibili al comma 1 e non già tout court quelli riconducibili all’art. 2094 c.c. Del resto se così non fosse, il contenuto del comma 2 risulterebbe con difficoltà conciliabile con l’opinione largamente prevalente secondo cui la Carta fondamentale preclude al legislatore di escludere integralmente dalla applicazione della disciplina tipica alcuni determinati rapporti che pure abbiano quale contenuto prestazioni di lavoro subordinato9. Diversamente, alla stregua del principio generale di uguaglianza nonché della rilevanza costituzionale della disciplina tipica correlata alla fattispecie dell’art. 2094 c.c., la previsione della lettera a) del comma 2 andrebbe interpretata come affidamento alle parti sociali del compito di offrire ai giudici indicazioni utili nell’accertamento della ricorrenza dei requisiti della subordinazione alla luce «delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore». Parimenti, la previsione della lettera b) del comma 2 andrebbe letta nel senso che l’applicazione della disciplina tipica è esclusa nei casi in cui sussiste l’incompatibilità tra il rapporto di lavoro subordinato e l’iscrizione all’albo professionale. Vero è che in dottrina, al fine del superamento di ogni perplessità di ordine costituzionale, è stata prospettata una variante della seconda alternativa secondo cui la novellazione dell’art. 2094 c.c. sarebbe esclusivamente funzionale alla introduzione di una presunzione
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Mi pare che anche Treu, In tema di di Jobs Act, cit., 162, concordi che il c.d. principio della tassatività del tipo, se non preclude «la possibilità che il legislatore modifichi i caratteri dei tipi da esso stesso storicamente configurati e disciplinati» (aggiungerei, anche come sono andati configurandosi nel diritto vivente), gli preclude la possibilità di escludere integralmente dalla disciplina tipica, e non da singoli tratti di essa, in ragione di specifiche peculiarità riscontrabili nell’ambito segnato dalla fattispecie, rapporti a questa riconducibili. Il legislatore insomma non può recidere ogni legame tra fattispecie ed effetti. Razzolini, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente, cit., 22 ss., per superare l’ostacolo e lasciare ampio spazio alle determinazioni dell’autonomia collettiva propone un ripensamento del principio della tassatività del tipo o meglio della disciplina tipica mediante l’ammissione della «esistenza nel nostro ordinamento di una nozione di subordinazione parzialmente disponibile» che si sforza di individuare.
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Autonomia, subordinazione e coordinazione
(magari assoluta!) di subordinazione in presenza di determinati requisiti della prestazione10. Poiché però l’applicabilità stessa della norma, e quindi della presunzione, richiede che preliminarmente il giudice accerti, pur in assenza di indicazioni del legislatore, se le modalità di esecuzione della prestazione di lavoro siano organizzate dal committente, la presunzione potrebbe operare solo a posteriori, cioè, per quanto fin qui detto, una volta qualificato il rapporto come di lavoro subordinato. Quindi una novellazione siffatta risulterebbe all’evidenza priva di giuridica rilevanza. In dottrina tuttavia si pensa altresì di poter sfuggire alla forbice delle due alternative che ho sopra considerato qualificando l’art. 2, comma 1, quale norma non di fattispecie bensì di disciplina11. Questa operazione ermeneutica è però affidata alla suggestione lessicale di una categoria vuota di contenuto: l’applicazione di qualsiasi disciplina dipende dalla sussistenza di presupposti/requisiti/condizioni i quali costituiscono la fattispecie di riferimento della disciplina stessa. Quindi si torna inesorabilmente al punto di partenza12. La conclusione delle mie riflessioni è quindi, come anticipato, che l’art. 2, comma 1, si risolve in una norma apparente, priva cioè, malgrado la sua formulazione in termini precettivi, di efficacia propriamente normativa. Il legislatore avrebbe ben potuto limitarsi a disporre l’abrogazione degli articoli da 61 a 69-bis del d.lgs. n. 276/2003, con conseguente affrancamento del diritto vivente dalle incrostazioni della farraginosa vicenda legislativa del contratto a progetto13. Probabilmente però l’art. 2, comma 1, ha una “ragion d’essere” squisitamente politica: il legislatore ha ritenuto politically incorrect un intervento abrogativo non collocato nel complessivo contesto di una (almeno apparente) “disciplina organica dei contratti di lavoro”, come del resto promesso dalla intitolazione del decreto n. 81. Stando al DDL del Governo “contenente misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” (approvato dal Senato con il n. 2233, successivamente, con il n. 4135,
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Cfr. Nogler, La subordinazione nel d. lgs. del 2015: alla ricerca dell’«autorità del punto di vista giuridico», in WP D’Antona, It, 2015, n. 267. L’A., proiettando il contenuto dell’art. 2, comma 1, sul piano della subordinazione, nella «direzione di “situare” la subordinazione all’interno del complessivo contesto “organizzativo” in cui opera il lavoratore» (22-23) e di andare quindi ad incidere sulla fattispecie dell’art. 2094 c.c., rileva che «se inquadriamo il comma 1 dell’art. 2 del d. lgs. n. 81 del 2015 come una presunzione assoluta si dissolve, infine, il rischio che le tre eccezioni previste nel comma 2 dello stesso art. 2 ricadano nel cono d’ombra del principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale» (24). 11 Del Punta, Diritto del lavoro, 8° ed., Giuffrè, 2015, 371. Concorde Pessi, Il tipo contrattuale: autonomia e subordinazione dopo il Jobs Act, in WP D’Antona, It, 2015, n. 282, 11. 12 Lo riconosce anche Del Punta: «La norma può essere letta come rivolta a consolidare nel diritto positivo la corrente acquisizione giurisprudenziale che considera l’inserimento stabile nell’organizzazione aziendale altrui come uno dei più rilevanti indici presuntivi della subordinazione. Infatti, se si evita di perdersi nelle sfumature, stabile inserimento organizzativo e eterorganizzazione sono la medesima cosa. Ne discende, in conclusione, che l’elemento caratterizzante della subordinazione rimane quello dell’eterodirezione ex art. 2094 come sopra concettualizzato e maneggiato dalla giurisprudenza» (ibidem, ult. periodo). Sorprende allora, francamente, la successiva affermazione secondo cui «dall’esterno, l’eterorganizzazione svolge una funzione di ulteriore supporto all’identificazione della fattispecie, operando come una sorta di scivolo che riconduce all’ambito effettuale della stessa le forme contrattuali di confine». Quasi, mi sia consentito di osservare scherzosamente, l’ambito della subordinazione, malgrado il suo confine mobile ed incerto, fosse assimilabile ad una piscina. 13 Parlo di affrancamento, ovviamente, esprimendo una personale opzione; la quale mi pare peraltro avvalorata dal caotico contenzioso che tale vicenda ha alimentato.
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Paolo Tosi
il 9 febbraio 2017, dalla Camera dei Deputati con le modifiche proposte dalla Commissione Lavoro della Camera stessa ed ora in via di trasmissione al Senato per la definitiva approvazione) il legislatore stesso mostra (una almeno maturata) consapevolezza della carenza di capacità identificativa dell’art. 2, comma 1, tentando di porvi rimedio con un intervento sulla fattispecie confinante del lavoro parasubordinato. L’art. 14 prevede infatti l’inserimento nell’art. 409, n. 3, c.p.c. di una nuova definizione con finalità chiarificatrici della fattispecie: «La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente la propria attività lavorativa». Il rimedio sarebbe però affatto illusorio. S’è detto da qualcuno che compito e merito della nuova norma è la valorizzazione dell’accordo delle parti giacché “le parti, per non rischiare la sanzione dovranno rispettare quanto concordato”14. Ma, salvi casi limite, nella pratica i contratti di collaborazione (come quelli di appalto di servizi) hanno sempre stabilito, descrivendo il proprio oggetto, le modalità di coordinamento della collaborazione con il ciclo produttivo e l’organizzazione di lavoro del committente. Lo snodo problematico delle operazioni di qualificazione è notoriamente da sempre costituito dall’accertamento, oltre che della compatibilità delle modalità convenute con l’assenza di subordinazione, soprattutto della corrispondenza tra dato cartaceo e concreto svolgimento del rapporto. Va poi da sé che il consenso risulta sempre comune anche quando la volontà di uno dei contraenti si esprime nella mera adesione alla proposta negoziale dell’altro. Quanto al secondo versante della definizione, l’autorganizzazione, come appare ovvio, è l’esatta antitesi dell’eterorganizzazione: se l’attività lavorativa non è organizzata dal datore di lavoro (nel qual caso si ha lavoro subordinato), non può che essere organizzata dal collaboratore. È dunque lecito prevedere che, anche a valle dell’eventuale novellazione dell’art. 409, n. 3, c.p.c., i giudici continueranno a condurre le operazioni di qualificazione con il metodo che ho sopra descritto, sinteticamente definibile come “degli indici in funzione dell’approssimazione”. Questo metodo, squisitamente pragmatico, comporta all’evidenza un accentuato grado di discrezionalità. Sono pertanto particolarmente auspicabili l’argomentazione accurata e coerente delle sentenze, anche con sacrificio delle esigenze di semplificazione, e l’autocontrollo il più possibile sorvegliato del giudice sull’incidenza nelle scelte della propria c.d. “precomprensione”. La lettura delle sentenze dei Tribunali di varie parti d’Italia emesse anche a valle del d.lgs. 81/2015, ovviamente nel ristretto numero che ho potuto reperire, conferma la solidità dell’orientamento giurisprudenziale che ho ricostruito nella prima parte di questo scritto.
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Così Maresca in una intervista al Sole-24 ore del 10 marzo 2017.
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Autonomia, subordinazione e coordinazione
V’è tuttavia ancora da chiedersi se i giudici potranno ora trovare ausilio nella circolare n. 3/2016 con cui il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è intervenuto a fare, soidisant, chiarezza. Anzitutto il Ministero ci spiega che “ogniqualvolta il collaboratore operi all’interno di una organizzazione datoriale rispetto alla quale sia tenuto ad osservare determinati orari di lavoro e a prestare la propria attività presso luoghi di lavoro individuati dallo stesso committente, si considerano avverate le condizioni di cui all’art. 2, comma 1, sempre che le prestazioni risultino continuative ed esclusivamente personali”. Viene così disinvoltamente cancellata dal testo normativo la congiunzione “anche” da cui risulta che l’eteroindividuazione del tempo e del luogo della prestazione non è di per sé all’uopo sufficiente. Successivamente il culmine della chiarificazione è raggiunto dalla circolare allorquando, occupandosi delle ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 2, ritiene «opportuno evidenziare che anche rispetto a tali collaborazioni rimane astrattamente ipotizzabile la qualificazione del rapporto in termini di subordinazione; laddove tuttavia non sarà sufficiente verificare una etero-organizzazione del lavoro ma una vera e propria etero-direzione ai sensi dell’art. 2094 c.c.». Qui ad essere obliterati sono settant’anni di impegno dottrinale e giurisprudenziale volto a supplire alla insufficiente capacità qualificatoria della nozione codicistica. Basta osservare che nella recentissima pronuncia volta a dare sistemazione nell’ordinamento al rapporto con la società dell’amministratore in quanto tale, le Sezioni Unite della Suprema Corte, per escluderne l’ascrivibilità al lavoro coordinato e continuativo di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c, hanno rimarcato che (non già l’attività subordinata bensì) «l’attività coordinata è sinonimo di attività in qualche misura eterodiretta o, comunque, soggetta ad ingerenze o direttive altrui»15. Per concludere va avanzato il forte dubbio che l’eventuale approvazione definitiva del menzionato DDL nel testo trasmesso al Senato, mentre non varrebbe, come visto, a recare alcun contributo di chiarificazione sul versante della linea di demarcazione tra lavoro subordinato, lavoro organizzato dal committente e lavoro coordinato e continuativo senza vincolo di subordinazione, possa invece riuscire a complicare le operazioni dell’interprete intorno a tale linea. Ciò, in conseguenza della introduzione (capo II, artt. 15-21) di una nuova tipologia di rapporto di lavoro subordinato (in regime di recesso libero con preavviso) denominato “lavoro agile”, contraddistinto dalla «modalità di esecuzione… stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici (assegnati dal datore) per l’utilizzo dell’attività lavorativa»; attività peraltro destinata ad essere eseguita «in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva». All’accordo tra le parti è poi assegnato, relativamente alla «prestazione svolta all’esterno dei locali aziendali», il compito di stabilire «le forme di esercizio del potere direttivo del
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Cass., sez. un., 20 gennaio 2017, n. 1545, in FI, 2017, I, 891.
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datore di lavoro” nonché del suo “potere di controllo… nel rispetto di quanto disposto dall’art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni». Francamente, mi pare una tipologia di lavoro subordinato dai contorni troppo sbiaditi per pensare che ad essa i datori di lavoro possano fare serenamente ricorso nella fiducia di poter fruire del corredo della recedibilità ad nutum.
Luigi de Angelis
Crisi dell’appello di lavoro tra scelte legislative, tensioni ordinamentali, autosufficienza del rito e qualche ambiguità testuale: considerazioni sparse Sommario : 1. Vita difficile dell’appello (di lavoro). – 2. Legge n. 533/1973 e giudice dell’appello. – 3. Distrettualizzazione dell’appello di lavoro a seguito del d.lgs. n. 51/1998 e valorizzazione e ridimensionamento della specializzazione del giudice. – 4. Durata degli appelli di lavoro. – 5. Assunzione della prova e coordinamento con le regole generali del processo civile. – 6. L’ambigua nozione di indispensabilità della prova. – 7. Cenni al c.d. filtro e al nuovo art. 434 c.p.c. – 8. Profili del reclamo ex lege n. 92/2012.
Sinossi: L’autore rileva come sia stata nel tempo indebolita la scelta della specializzazione del giudice d’appello che, pur non centrale nel sistema processuale, è nelle controversie di lavoro importante per il ruolo dell’appello derivatogli della distrettualizzazione. Affronta poi alcuni problemi interpretativi anche relativi al coordinamento con le norme processuali dei giudizi ordinari e altri posti dalla legge n. 92/2012. Abstract: The remarks concern the current weakening of specialization in Italian labour law appellate courts. According to the author’s opinion, while no more crucial in general terms, this value remains nevertheless all the way fundamental for these courts because of the very function of the appeal in labour cases. In the essay are also approached some problems of interpretation, as well as of coordination, of Italian labour law procedure with general rules of procedural law, and plus other issues deriving from the enforcement of “legge” n. 92 of 2012. Parole
chiave:
appello, distrettualizzazione, specializzazione, prova indispensabile, reclamo.
Luigi de Angelis
1. Vita difficile dell’appello (di lavoro). All’appello di lavoro il dibattito che precedette la l. n. 533/1973 non dedicò molta attenzione, e non a caso. I disegni di legge Lo Spinoso Severini e gli altri due di identico contenuto1, da cui poi scaturì la legge, avevano infatti a mente, e a mio avviso giustamente, la centralità del processo di primo grado, come sarà poi in generale per i procedimenti civili di cognizione ordinaria a partire dalla l. n. 353/19902. Qualche anno prima, del resto, da uno dei protagonisti principi della riforma del 1973 proprio per tutte le controversie civili si sostenne addirittura, iconoclasticamente3, l’eliminazione del doppio grado di giurisdizione; tesi che fu poi ripresa autorevolmente4 ma poi contrastata e battuta altrettanto autorevolmente5. Ed in anni di parecchio successivi è stato un lavorista a riproporla per le cause di lavoro sia pure in termini differenti e nell’ambito di un più vasto disegno di politica del diritto: se per Mauro Cappelletti le corti d’appello andavano trasformate in sezioni distaccate della Corte di Cassazione alle quali la corte centrale avrebbe dovuto rimettere i ricorsi, salvi quelli che avesse ritenuto di particolare rilievo per la collettività, per Pietro Ichino, eliminato l’appello, andavano potenziate le (allora) preture e la corte di cassazione e modificato il regime dell’inibitoria6, nonché – l’autore precisò in un secondo momento7 – decentrando la corte di cassazione in quattro sedi, la precisazione riecheggiando l’idea, avanzata nel dibattito alla costituente8 e non accolta anche in forza del pensiero di Piero Calamandrei9.
1
Cfr. la relazione Martinazzoli-Torelli al disegno di legge approvato dalle Commissioni riunite Giustizia e Lavoro del Senato, in Denti, Simoneschi, Il nuovo processo del lavoro, Giuffrè, 1974, 346-347. Sul travagliato iter della legge cfr. Perone, Il nuovo processo del lavoro, Cedam, 1975, 5 ss. Cfr., inoltre, con riguardo a iniziative di riforma varie, Taruffo, La giustizia civile dal ‘700 ad oggi, Il Mulino, 1980, 345 ss., anche riferimenti in nota. 2 Tra i tanti cfr. Consolo; Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze?, in www.judicium.it/admin/saggi; diversamente, da ultimo, Tedoldi, L’appello civile, Giappichelli, 2015, 40 ss. 3 Mi riferisco a Cappelletti, Parere iconoclastico sulla riforma del processo civile italiano, in GI, 1969, IV, 81 ss.; cfr., poi, Id., Doppio grado di giurisdizione: parere iconoclastico n. 2, o razionalizzazione dell’iconoclastia?, in GI, 1978, IV, 1 ss. 4 Cfr. Pizzorusso, Doppio grado di giurisdizione e principi costituzionali, in RDP, 1978, 33 ss.; Ricci, Il doppio grado di giurisdizione nel processo civile, in RDP, 1978, 59 ss. 5 Cfr. E.T. Liebman, Il giudizio di appello e la Costituzione, in RDP, 1980, 401 ss.; per ulteriori riferimenti cfr., di recente, Tedoldi, L’appello civile, cit., 42 ss., anche note 96-99. 6 Cfr. Ichino, Ipertrofia e crisi del sistema giuslavoristico, in RIDL, 1993, III, 171; contra, de Angelis, Il processo del lavoro tra funzionalità e rispetto delle garanzie, in RIDL, 1994, I, 356 ss. 7 Cfr. Ichino, Il lavoro e il mercato. Per un diritto del lavoro maggiorenne, Mondadori, 1996, 174; contra, de Angelis, Monocraticità del giudice del lavoro, anche d’appello, ed altro, in RTDPC, 1998, 459 ss. 8 Cfr. i verbali della seduta CCCIX del 27 novembre 1947 che possono leggersi in Togliatti, Discorsi alla Costituente, II ed., Editori riuniti, 1973, 83 ss., 88. 9 Cfr. Calamandrei, La Cassazione civile, II. Disegno generale dell’istituto, Fratelli Bocca, 1920, ora in Id., Opere giuridiche, VII, Morano, 1976, 91 ss., da cui la citazione; al riguardo cfr. Taruffo, Il vertice ambiguo, Il Mulino, 1991, 51 ss.; Picardi, La storia della cassazione, la cassazione nella storia (1944-1956), in RTDPC, 1996, 1256.
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Crisi dell’appello di lavoro
2. Legge n. 533/1973 e giudice dell’appello. Affidato al giudice monocratico (pretore), non senza forti tensioni10, il giudizio di primo grado in materia sulla base dell’esperienza positiva del procedimento di repressione della condotta antisindacale11, giudice competente a conoscere dell’appello fu, secondo la regola generale, il tribunale e quindi un giudice collegiale. Questo, che appare naturale per essere il primo grado affidato al pretore, non era necessitato. Alcuni, infatti, hanno rilevato che l’attribuzione appunto necessitata del secondo grado alla competenza del giudice superiore corrisponde ad una visione gerarchica della magistratura diversa da quella accolta dalla Costituzione repubblicana, tesa alla c.d. indipendenza interna, e hanno affacciato la proposta di affidare l’appello a magistrati di pari rango dello stesso ufficio o ad altro ufficio equiordinato ed indipendente12. Penso però, al riguardo, che avessero equilibrato fondamento le perplessità avanzate da chi rilevò come la contiguità tra giudice di primo e di secondo grado potesse pregiudicare la serenità e l’efficienza del giudizio13, aggiungo: almeno l’immagine di serenità ed efficienza. Altro è, naturalmente – è una proposta che isolatamente mi sono permesso di fare tanti anni fa14 – se affidare l’appello ad un giudice sovraordinato anch’esso monocratico15 come accadeva per gli appelli avverso le sentenze del giudice conciliatore, come ora accade avverso le sentenze del giudice di pace, e come potrebbe accadere in alcuni casi alla stregua del disegno di legge delega di riforma del processo civile pendente in Senato con il n. 2284 e già approvato alla Camera dei deputati in via definitiva il 10 marzo 2016. In proposito, ritengo che il testo dell’art. 1, comma 2, lett. b), n. 2 di esso consenta la previsione nei decreti delegati della monocraticità in appello anche per le controversie di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatoria; naturalmente quelle e solo quelle che, come recita tale disposizione, abbiano ridotta complessità giuridica e contenuta rilevanza economicosociale, quest’ultima non potendo essere esclusa per il sol fatto che la controversia sia appunto di lavoro o di previdenza e assistenza. Non vedo perché, per fare un esempio, una causa avente ad oggetto la rivendicazione di modeste somme per l’effettuazione di lavoro straordinario non debba rientrare in tali categorie. Va comunque sottolineato come sembrerebbe che il Governo intenda abbandonare il progetto suddetto.
10
In proposito mi permetto di rinviare a de Angelis, Giustizia del lavoro, Cedam, 1992, 19 e ss., anche riferimenti alle note 73 e 74. Cfr. Denti, Il nuovo processo del lavoro: significato della riforma, in RDP, 1973, 380 ss., anche in Id., Un progetto per la giustizia civile, Il Mulino, 1982, 267, da cui la citazione. Sulle diverse proposte di istituzione di giudici speciali composti in vario modo affacciate nel corso dei lavori preparatori della l. n. 533/1973 cfr. Pera, Sulla risoluzione delle controversie individuali di lavoro, RTDPC, 1967, 200, 207. 12 Da Pizzorusso, Doppio grado di giurisdizione, cit., 48 ss. Cfr. anche la proposta di Borrè riportata da de Angelis, Monocraticità del giudice del lavoro, cit., 465, anche nota 122. 13 Cfr. gli interventi di Denti, Allorio, Tarzia, Cerino Canova, in Atti del XII convegno nazionale, cit., 206 e, rispettivamente 249 ss., 211 ss., 271 ss. 14 Cfr. de Angelis, Monocraticità del giudice del lavoro, cit., 466 ss. 15 All’opposto, riprendendo altra tesi di Ichino, Il lavoro e il mercato, cit., 164 ss., si é di recente avanzata la proposta ispirata all’Arbeitgericht tedesco di rendere collegiale il giudizio di primo grado, il collegio dovendo essere formato da giudici togati ed esperti soggetti ai doveri di imparzialità ed indipendenza analoghi ai togati: cfr. Gandini, Il giudice necessario? Brevi riflessioni sul giudice togato e monocratico quale giudice inevitabile del lavoro, in RIDL, 2017, I, 36 ss. 11
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Luigi de Angelis
3. Distrettualizzazione dell’appello di lavoro a seguito del
d.lgs. n. 51/1998 e valorizzazione e ridimensionamento della specializzazione del giudice.
A seguito dell’epocale riforma del giudice unico di primo grado del 1998 (d.lgs. n. 51/1998) e l’inerente soppressione delle preture, giudice competente in appello nella materia che qui interessa è divenuto la corte d’appello16, ed anche questo – come la struttura collegiale dell’organo – non era necessitato per le ragioni esposte nel paragrafo precedente. Va notato che la conseguente distrettualizzazione degli appelli di lavoro e previdenza ha diversa valenza rispetto a quel che é per il generale contenzioso civile, in ragione dell’attitudine a ripetersi delle questioni su di una vasta platea d’interessati tanto più – ma non solo – con riguardo a quelle scaturenti dalla contrattazione collettiva. Da qui il maggiore rilievo dei dicta della corte e l’accentuazione del suo ruolo di componimento dei contrasti giurisprudenziali all’interno del distretto17: tanto per fare un esempio di grande attualità, si pensi alla vicenda giudiziale dei precari della scuola e alle tensioni che le recenti pronunce della corte di cassazione non sembrano essere riuscite a sopire; e si pensi, circa le controversie di origine contrattuale collettiva, alle questioni in materia di tempo-tuta. È in questa logica che deve essere considerato l’art. 38, ultimo comma, d.lgs. n. 51/1998 per il quale si è prevista una corsia preferenziale assoluta per la copertura dei posti in organico d’appello per coloro che abbiano esercitato in via esclusiva funzioni di lavoro e previdenza obbligatorie, e, solo subordinatamente, abbiano particolare competenza in materia determinata dalla partecipazione a corsi organizzati dal Csm o da altri elementi oggettivi. Netta è stata cioè l’opzione legislativa per la specializzazione del giudice, a mio avviso giustamente tanto più alla luce di quanto detto in precedenza sul nuovo ruolo della corte d’appello. Ha invece valenza opposta il ridimensionamento della regola su riportata attuato dall’organo di autogoverno che di fatto l’ha limitata alla prima applicazione, per il futuro formulandone una nuova. In particolare, nella recente circolare adottata con delibera 24 luglio del 2014, n. 13778 (art. 51) alla corsia preferenziale (vale a dire: la preferenza assoluta) si è sostituita l’assegnazione tramite l’attribuzione di un punteggio ulteriore, rispetto a quello previsto in generale per i trasferimenti, per l’esercizio esclusivo o prevalente di funzioni di lavoro nei dieci anni precedenti; precisamente 1 punto per i primi 2 anni e poi 0,50 per quelli successivi con un massimo di 3 punti; 0,50 per la partecipazione a corsi formativi e altri 2 punti per specifiche doti di capacità nell’esercitare funzioni e ciò determinato anche da esercizio pur non esclusivo negli ultimi 10 anni. Ed é in forza di tale regolamentazione che aspiranti a ricoprire posti di lavoro presso le corti d’appello pure
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Art. 433, comma 1, c.p.c., come modificato dall’art. 85, comma 1, d.lgs. n. 51/1998. Cfr., se vuoi, de Angelis, La riforma del giudice unico e la giustizia del lavoro, in RIDL, 1998, I, 416 ss., anche in Bessone, Silvestri, Taruffo (a cura di), I metodi della giustizia civile, Cedam, 2000, 304 ss.
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Crisi dell’appello di lavoro
più esperti siano stati sacrificati a favore di altri di parecchio più anziani, con un abbassamento della specializzazione dei collegi. Della esigenza sopra illustrata non si è fatto carico alcuno il d.l. n. 69/2013, convertito in legge n. 98/2013, che, «al fine di agevolare la definizione dei procedimenti civili compresi quelli in materia di lavoro e previdenza», come testualmente recita l’art. 62, comma 1, ha previsto presso le corti d’appello la nomina di giudici non togati, c.d. giudici ausiliari, che vanno quindi ad integrare i collegi e la cui nomina ha la durata di cinque anni prorogabile per altri cinque. Infatti, per l’assegnazione alle sezioni che si occupano della materia del lavoro e della previdenza non sono stati previsti criteri preferenziali, il decreto limitandosi a rimettere al presidente della corte il relativo potere (art. 65, ult. co.). L’unico criterio al riguardo potrebbe forse essere dato dalle priorità individuate nel piano annuale di gestione di cui all’art. 37 d.l. n. 98/2011, convertito nella l. n. 111/2011, il quale però, se intervenuto prima delle nomine (si badi bene, quinquennali e prorogabili), nulla di utile potrebbe contenere al riguardo. Sarebbe stato allora auspicabile, ad evitare che in un collegio d’appello di lavoro che ricopre il delicato ruolo su cui ho prima insistito potesse far parte perfino chi da sempre si era occupato esclusivamente di diritto penale – consta che purtroppo ciò sia invece accaduto – che il potere di assegnazione sia esercitato dai presidenti delle corti d’appello con sensibilità all’esigenza di specializzazione, sempre che, naturalmente, di essa vi sia qualche segno tra i giudici ausiliari in forza alle corti stesse.
4. Durata degli appelli di lavoro. Nel 1967, e quindi qualche tempo prima della l. n. 533/1973, Giuseppe Pera scriveva, quando la durata dei processi di lavoro e previdenza era mediamente di due anni in primo grado e altri due in appello, che si trattava di una vera bancarotta dello Stato18. La situazione, migliorata nei primi anni di applicazione della riforma, é poi andata peggiorando sì da superare nettante quei tempi di durata. Stando ai dati del Ministero della giustizia nel 2013 la durata media delle controversie di lavoro privato era di 881 giorni, di lavoro pubblico 893, di previdenza 1.011, superiore a quella dei procedimenti di primo grado. La tendenza sembra poi orientata verso un leggero miglioramento soprattutto per il crollo delle sopravvenienze (16.814 contro 51.327) registrato nel primo semestre del 2015, forse dovuto alla normativa in tema di contributo unificato introdotta nel pieno della crisi economica e ora per l’innesto dei giudici ausiliari che però soffre, anche sul piano dell’efficienza, della sopra sottolineata disattenzione legislativa all’aspetto della specializzazione. Qualche contributo d’efficienza può venire dall’innesto dei tirocinanti di cui all’art. 73 d.l. n. 69/2013 cit. che, come recita il comma 2 del medesimo, «assistono e coadiuvano il magistrato nel compimento delle ordinarie attività».
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Cfr. Pera, Sulla risoluzione delle controversie, cit., 194.
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Luigi de Angelis
Sempre circa il funzionamento, é il caso di notare che quello del giudice d’appello, oltre ad essere legato ai carichi di lavoro, all’organizzazione di cui si avvale, alla professionalità dei singoli componenti, è condizionato anche dalla qualità del primo grado. Solo per fare degli esempi, per tale funzionamento é esiziale il dovere la corte esaminare domande non considerate dal giudice di primo grado o procedere all’assunzione di prove cui appunto in primo grado non si sia dato erroneamente luogo, e quindi, come si dice in gergo, rifare il processo. Senza dire della proliferazione delle istanze di sospensione della sentenza ex art. 431 c.p.c. che decisioni non credibili importa.
5. Assunzione della prova e coordinamento con le regole
generali del processo civile.
A proposito dell’assunzione delle prove, non penso, contrariamente a quanto accade in qualche sede19, sia applicabile al processo del lavoro l’art. 350, comma 1, c.p.c. come novellato dalla l. n. 183/2011, vale a dire la possibilità per il presidente del collegio di delegarla ad uno dei componenti dello stesso20. Non può infatti essere qui invocata l’incompletezza o non autosufficienza del rito del lavoro e quindi il ricorso alle regole generali del processo civile21 posto che la l. n. 183 citata ha modificato l’art. 350 lasciando però intonso l’art. 437 il cui terzo comma, laddove prevede che «Qualora ammetta le nuove prove il collegio fissa, entro venti giorni, l’udienza nella quale esse debbono essere assunte e deve essere pronunciata la sentenza. In tal caso il collegio con la stessa ordinanza può adottare i provvedimenti di cui all’art. 423», fa intendere chiaramente che non vi siano deroghe alla collegialità dell’attività del giudice. Vi é pertanto una disciplina ad hoc, la quale è peraltro cadenzata diversamente da quella prevista per il rito ordinario; in particolare, essa è strutturata nel senso che anche in caso di assunzione di mezzi di prova la causa possa essere immediatamente decisa, come ciò é poco congeniale ad una prova assunta dal giudice delegato. D’altronde non deve dimenticarsi della forte ispirazione della l. n. 533 citata ai principi chiovendiani, e quindi, per quel che rileva, ai principi di immediatezza e concentrazione non congeniali ad uno iato tra organo istruttore ed organo giudicante. Naturalmente anche la rinnovazione delle prove già espletate in primo grado va effettuata dal collegio22. Riflettendosi sulla costituzione del giudice la prova assunta non collegialmente
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Cfr. P. Sordi, Giudizio di secondo grado, in Amoroso, Di Cerbo, Foglia, Maresca (a cura di), Diritto del lavoro. Il processo, 3° ed., IV, Giuffré, 2016, 602. 20 Conf. Tedoldi, L’appello civile, cit., 692; Tarzia, Dittrich, Manuale del processo del lavoro, 6° ed., Giuffré, 2015, 353; Borghesi, L’appello, in Borghesi, de Angelis, Il processo del lavoro e della previdenza, Utet, 2013, 423; Vullo, Il nuovo processo del lavoro, Zanichelli, 2015, 409; de Angelis, Sub. art. 437, in Carpi - Taruffo (diretta da), Commentario breve al Codice di procedura civile, 8° ed., sub art. 437, Cedam, 2015, 1799; Fraioli, Brattoli, Il giudizio d’appello, in Vallebona (a cura di), Il diritto processuale del lavoro, in Tratt. CP, IX, Cedam, 2011, 480, antecedente, però, alla l. n. 183/2011; contra, dubitativamente, P. Sordi, op. loc. ult. cit., che valorizza le finalità acceleratorie della l. n. 183/2011 che valgono sicuramente anche per il processo del lavoro. 21 Al riguardo cfr., per tutti, Tarzia, Dittrich, Manuale, cit., 314. 22 Vullo, op. loc. ult. cit.
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è affetta, secondo la giurisprudenza di legittimità più recente23, da nullità assoluta ex art. 158 c.p.c.24, che si converte in motivo di gravame25.
6. L’ambigua nozione di indispensabilità della prova. Non pone problemi di coordinamento tra regole generali del processo civile e regole del rito differenziato il tema dell’ammissibilità della prova (nuova26), che è affidato ab initio dall’art. 437, comma 2 c.p.c., al presupposto dell’indispensabilità; nozione, questa, che verrà poi adoperata più volte successivamente (inserita tra l’altro dall’art. 52, l. n. 353/1990 anche nell’art. 345 c.p.c. é stata poi eliminata dall’art. 54, d.l. n. 83/012, convertito in l. n. 134/2012). Nei primi venti anni di applicazione della l. n. 533/1973 si è scritto che l’interpretazione non abbia fornito risultati appaganti in termini di chiarezza27 anche in sede giurisprudenziale28. Il giudizio vale tuttora in presenza di un testo che «è pressoché impossibile spiegare in termini di logica formale»29 e che fa apparire «vano ogni tentativo di individuarne l’esatto significato tecnico-giuridico»30, sicché ha buone ragioni chi ha di recente sostenuto che il requisito dell’indispensabilità si risolve in un invito al collegio a far luogo ad istruzione probatoria solo in casi eccezionali31. Limitandomi, per esprimere le incertezze in punto, ad alcune recenti decisioni di legittimità rimandando ad altre sedi per il riepilogo delle varie, faticose letture dottrinali32, richiamo esemplificativamente Cass., 29 settembre 2016, n. 1930533, che ha affermato che il potere istruttorio d’ufficio ex art. 421 (e 437) c.p.c. – ma lo stesso è per le prove nuove dedotte in appello dalle parti – non è meramente discrezionale, ma costituisce un potere-dovere da esercitare contemperando il principio dispositivo con quello della ricerca della verità, sicché il giudice (anche di appello), qualora reputi insufficienti le prove già acquisite e le risultanze di causa offrano significativi dati d’indagine, non può arrestarsi al rilievo formale del difetto di prova ma deve provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati dal materiale probatorio idonei a superare l’incertezza
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Cfr. Cass., 23 aprile 2008, n. 10592, inedita a quel che consta; per ulteriori, più risalenti, riferimenti anche nel senso della mera irregolarità o nullità relativa cfr. Vullo, op. loc. ult. cit., nota 239; in proposito cfr. anche Fraioli, Brattoli, Il Giudizio d’appello, cit., 481, anche riferimenti alle note 195 e 196. 24 Vullo, op. loc. ult. cit., 409; Borghesi, op. loc. ult. cit. 25 Tedoldi, L’appello civile, cit., 692; Vullo, op. loc. ult. cit. 26 In proposito cfr., tra i recenti, Vullo, Il nuovo processo, cit., 391 ss., ed ivi riferimenti in nota. 27 Cfr. Proto Pisani, Controversie individuali di lavoro, Utet, 1993, 118 ss. Lo scritto è estratto dalla voce Lavoro (controversie individuali in materia di) del Digesto civ., Utet, 1993, vol. X, 297. 28 Luiso, Il processo del lavoro, Utet, 1992, 295; Vullo, Il nuovo processo, cit., 393 ss. 29 Proto Pisani, Controversie, cit., 119. 30 Cfr. Tedoldi, L’appello civile, cit., 689. 31 Aut. op. loc. ult. cit.; nella manualistica, Comoglio, Ferri, Taruffo, Lezioni sul processo civile I Procedimenti speciali, cautelari ed esecutivi, 5° ed., Il Mulino, 2011, 105. 32 Cfr. de Angelis, in Commentario breve, cit., 1793 ss.; Borghesi, L’appello, cit., 414 ss.; adde, Vidiri, L’indispensabilità delle prove nel rito del lavoro, in RDP, 2015, 1469 ss. 33 In RFI, 2016, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 58.
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sui fatti in contestazione, senza che, in tal caso, si verifichi alcun aggiramento di eventuali preclusioni e decadenze processuali già prodottesi a carico delle parti, in quanto la prova disposta d’ufficio è solo un approfondimento, ritenuto indispensabile ai fini del decidere, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo; Cass., 29 aprile 2016, n. 856834, secondo cui il mezzo istruttorio in sede di gravame di merito è indispensabile quando appaia idoneo a sovvertire la decisione di primo grado, nel senso di mutare uno o più giudizi di fatto sui quali si basa la pronuncia impugnata fornendo un contributo decisivo all’accertamento della verità materiale in coerenza con i principi del giusto processo; Cass., 3 giugno 2015, n. 1144435 (relativa all’art. 345 nel testo novellato nel 1990), per la quale la prova nuova é indispensabile allorquando è di per sé sufficiente a provare il fatto controverso, a prescindere da tutte le altre fonti di prova, ovvero allorquando sia finalizzato a corroborare gli esiti delle prove già raccolte in primo grado; Cass., 31 agosto 2015, n. 1734136, che, sempre interpretando l’art. 345 modificato dalla l. n. 353 citata, ha affermato che esso, nell’escludere l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova, ivi compresi i documenti, salvo che, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, siano ritenuti indispensabili perché dotati di un’influenza causale più incisiva rispetto a quella delle prove già rilevanti sulla decisione finale della controversia, impone al giudice del gravame – tenuto conto delle allegazioni delle parti sulle ragioni che le rendano indispensabili e verificatene la fondatezza – di motivare espressamente sulla ritenuta attitudine, positiva o negativa, della nuova produzione a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi. In argomento, avendo ritenuto assorbita la questione non hanno preso posizione le sezioni unite cui la stessa è stata rimessa a seguito di Cass., ord. 17 novembre 2014, n. 2440837, ancora relativa all’art. 345, in cui si legge che il «nuovo apporto probatorio che la parte intende fornire deve risultare diretto non già a supplire od integrare ciò che non è stato provato a sufficienza tramite le prove assunte nel quadro dei punti del thema probandum siccome fissatisi all’esito del contradditorio in primo grado e che come tale è stato apprezzato dalla sentenza, bensì deve apparire funzionale a dimostrare fatti idonei ad incidere su un risultato probatorio individuato solo dalla stessa sentenza e che, pertanto, non avrebbe potuto, proprio per tale modo di emersione, essere oggetto dei poteri probatori delle parti in primo grado, in quanto non faceva parte del thema probandum per come articolatosi nel dibattito fra le parti. Solo questa condizione sembrerebbe coerente con l’operare del sistema delle preclusioni probatorie, che altrimenti, pur nel regime in cui si pone la questione qui discussa, parrebbero profilarsi quasi svanire, con grave incoerenza del sistema processuale». In argomento va notato che solo in qualche decisione della corte di cassazione si fa riferimento all’obbligo di motivare sul punto38, invece escluso dall’indirizzo dominante39.
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In RFI, 2016, voce Appello civile, n. 53. In RFI, 2015, voce Appello civile, n. 54. 36 In RFI, 2015, voce Appello civile, n. 49. 37 Inedita a quel che consta. 38 Cfr. Cass., 31 agosto 2015, n. 17341, cit. 39 Cfr. Tedoldi, L’appello civile, cit., 689, ed ivi ampi riferimenti alla nota 111. 35
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7. Cenni al c.d. filtro e al nuovo art. 434 c.p.c. Se l’introduzione del c.d. filtro in appello (art. 348 bis c.p.c., inserito dall’art. 54, comma 1, lett. a), d.l. n. 83/2012, convertito nella l. n. 134/2012)40 «si rivela in generale inutile e fonte di complicazioni ed é funzionale solo all’immagine»41, lo è tanto più con riguardo all’appello di lavoro che lo ha fatto proprio (v. art. 436 bis), in cui non solo il compito di utilizzarlo spetta allo stesso giudicante e non ad un soggetto diverso, ma anche appunto il giudicante è investito della causa ab initio e l’udienza di discussione è, secondo l’art. 435 c.p.c., fissata entro sessanta giorni. Poiché d’altronde va instaurato il contraddittorio (art. 348 ter, comma 1), scarsissimo è il contributo d’efficienza che lo strumento può fornire42 non solo quando il processo d’appello funziona bene ma perfino quando funziona male: se vuole darsi un senso alla disposizione deve fissarsi udienza ad hoc, in cui il giudice deve ovviamente studiare la causa e lo stesso deve fare la parte o le parti appellate, il tutto come è per la trattazione non filtrata. Non é un caso del resto che del mezzo è quasi inesistente l’utilizzo da parte dei collegi di lavoro. E non è allora il caso che qui debba occuparmene ulteriormente. Attenuando il rigore di alcune pronunce di merito dei primi tempi di entrata in vigore della modifica dell’art. 434 c.p.c.43 (e del testo identico, salvo che per la forma del ricorso anziché della citazione, dell’art. 342) disposta dall’art. 54, comma 1, lett. c-bis, d.l. n. 83/2012, convertito nella l. n. 134/201244 e che ha sostituito come requisito d’inammissibilità quello della motivazione dell’appello al requisito della esposizione dei “motivi specifici dell’impugnazione”, la sezione lavoro della corte di cassazione ha affermato che a pena d’inammissibilità appunto «l’art. 434, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342, non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata»45. Sembra quindi che tutto sommato sia stata data continuità per legge
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Sulle varie questioni in argomento cfr. il riepilogo di Gamba, in Commentario breve, cit., sub artt. 348 bis e ter, 1411 ss. e, rispettivamente, 1419 ss., ed ivi richiami alle varie, generalizzate posizioni critiche. 41 Così Costantino, L’appello, in AA. VV., Processo del lavoro, Giuffré, 2017, 252, anche riferimenti alla nota 36, che considera il filtro tra gli esempi di “cialtroneria legislativa”, di “vandalismo istituzionale”, un “tentativo di appellicidio”. 42 Cfr. D’Alessio, Le riforme dell’appello nel processo del lavoro, in Tiscini (a cura di), Il processo del lavoro quarant’anni dopo Bilanci e prospettive, Jovene, 2015, 231 ss. 43 Cfr., ad es., App. Roma, 29 gennaio 2013, in FI, 2013, I, 977, con nota di Costantino. 44 Secondo cui la motivazione dell’appello «deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata». 45 Cfr. Cass., 5 febbraio 2015, n. 2143, in RIDL, 2015, II, 503, con nota di Izzo, Forma e contenuto dell’atto di appello del rito del lavoro secondo la (primissima) giurisprudenza di legittimità; Cass., 20 maggio 2015, n. 10386, in NGL, 2015, 534; altresì Cass., 7 settembre 2016, n. 17712, in MFI, 2016, 604, per la quale i requisiti di contenuto della «motivazione» dell’appello pongono a carico
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ai precedenti arresti di legittimità sotto il vigore del testo dell’art. 434 non novellato46, e comunque sia stata fornita una lettura non formalistica della modifica47.
8. Profili del reclamo ex lege n. 92/2012. Presenta caratteri d’ambiguità il reclamo di cui alla l. n. 92/2012 (art. 1, commi 58-61) in materia di licenziamenti soggetti all’applicazione dell’art. 18 l. n. 300/1970. La l. n. 92 citata, e quindi anche il reclamo in questione, è però inapplicabile ai licenziamenti riguardanti i c.d. contratti a tutele crescenti ex art. 11 della stessa, e sarebbe destinata a scomparire dall’ordinamento ove fosse approvato dal Senato della Repubblica il d.l. delega n. 2284 già approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati il 10 marzo 201648; disegno di legge tuttora pendente avanti la 2a Commissione (Giustizia) permanente ma che, si è appena accennato, sembrerebbe che il Governo intenda abbandonare. Appunto la legge n. 92 citata stabilisce la reclamabilità avanti la corte d’appello (deve intendersi: in funzione di giudice del lavoro), nel termine di trenta giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione (in mancanza, trova applicazione l’art. 327 c.p.c.), della sentenza che decide l’opposizione. Si è fatto ricorso al termine “reclamo” probabilmente per dare un ulteriore segno di quella di celerità cui é ispirato il rito Fornero49, ovvero per una suggestione derivante dal sistema delle impugnazioni del progetto Foglia50, ma si è così fatto insorgere il problema dei limiti della devoluzione; se, cioè, se sia circoscritta o meno dai motivi di gravame e se sia soggetta o meno al divieto dei nova. L’aspetto è naturalmente di notevole rilievo, la seconda tesi portando a concepire l’appello come novum judicium e quindi ad appesantirlo notevolmente, con buona pace della celerità del processo. D’altronde, la deformalizzazione del processo (v. infra) è, nello spirito della legge, finalizzata alla sua celerità.
dell’appellante un preciso ed articolato onere processuale, compendiabile nella necessità che l’atto di gravame, per sottrarsi alla sanzione di inammissibilità, offra una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice. 46 Cfr. Costantino, L’appello, cit., 247 ss.; Id., nota a App. Bari, 18 febbraio 2013, App. Roma, ord. 30 gennaio 2013, App. Roma, 29 gennaio 2013, App. Roma, ord. 23 gennaio 2013, in FI, 2013, I, 982, ed ivi riferimenti alla precedente giurisprudenza; Vullo, Il nuovo processo, cit., 367; diversamente tra gli altri, Tedoldi, L’appello civile, cit., 148 ss.; Borghesi, L’appello, cit., 383 ss.; in giurisprudenza, in particolare., App. Roma, 29 gennaio 2013, cit., secondo cui l’appello è inammissibile se non indica espressamente le parti del provvedimento oggetto dell’impugnazione, le modifiche da apportare alla ricostruzione del fatto ed il rapporto causale tra la violazione di legge e il pregiudizio subìto. 47 Cfr. Corea, La riforma dell’appello nel processo del lavoro, in judicium.it, 2014, 5 ss., ed ivi ricostruzione delle varie posizioni e relativi riferimenti in nota. 48 V. art. 2, comma 1, cit., di immediata applicazione ma contenente la regola transitoria per cui «giudizi introdotti con ricorso depositato entro la data di entrata in vigore della presente legge sono trattati e definiti secondo le norme di cui all’art. 1. commi da 48 a 68». 49 Musella, Il rito speciale in materia di licenziamento, in Cinelli, Ferraro, Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro, Giappichelli, 2013, 376, ravvisa nella funzione pratica di evidenziare che l’impugnazione va collocata sulla corsia preferenziale l’uso del termine reclamo. 50 In tal senso Benassi, La Riforma del mercato del lavoro: modifiche processuali, in LG, 2012, 757; de Angelis, Art. 18 dello statuto dei lavoratori e processo: prime considerazioni, in DLRI, 2012, 706; Palladini, Opposizione, reclamo e ricorso per cassazione, in Persiani, Liebman (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro, Utet, 2013, 488.
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Fermo che il tentativo dottrinale di molti anni fa di ricostruire unitariamente l’istituto del reclamo nel nostro sistema è rimasto isolato51, e fermo che si ritiene ormai che nell’ordinamento esistano piuttosto i reclami, il divieto dei nova in sede istruttoria stabilita dall’art. 1, comma 59, che ricalca la attuale normativa dell’appello quale letta dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, la mancanza di riferimenti normativi necessari per regolamentare alcuni aspetti del giudizio (rinunce, mancata comparsa delle parti, appello incidentale, etc.), nonché la ratio di celerità di cui si è detto fanno ritenere che il reclamo in questione abbia natura d’impugnazione in senso stretto, sia cioè un appello52, come tale soggetto agli artt. 323 ss. c.p.c. e alle regole dell’appello di lavoro, sia pure con alcune, espresse differenze53; pertanto anche a quella del divieto di jus novorum54. In proposito è il caso di aggiungere che per quanto prima detto sulla pluralità dei reclami nel nostro ordinamento non è qui invocabile Corte cost., 17 marzo 1998, n. 6555 resa con riguardo ai procedimenti cautelari, peraltro, come si è cercato di sostenere in altra sede56, a mio avviso superata dall’introduzione nel 2005 dell’art. 669 terdecies, comma 4, c.p.c. La corte d’appello – deve intendersi: il suo presidente57 – fissa con decreto l’udienza di discussione nei sessanta giorni successivi al deposito del reclamo. Dal pur ellittico richiamo all’applicazione dei termini di cui ai precedenti commi 51 - 53 si ricava che deve essere assegnato termine all’appellato per costituirsi fino a dieci giorni prima dell’udienza, che il ricorso deve essere notificato all’appellato almeno trenta giorni prima della data fissata per la costituzione, che l’appellato deve costituirsi mediante memoria difensiva a norma e con le decadenze di cui all’articolo 416 c.p.c.
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Cfr. Giannozzi, Il reclamo nel processo civile, Giuffré,1968, 239 ss.; Id., Reclamo (diritto processuale civile), in NNDI, XI; Utet, 1967, 1064 ss. Per rilievi critici cfr., per tutti, Corsini, Il reclamo cautelare, Giappichelli, 2002, 82 ss. 52 Cfr. Cass., 9 settembre 2016, n. 17863, in MFI, 2016, 610; nella giurisprudenza di merito, tra le altre, App. Bologna, 21 maggio 2103, in ADL, 2013, 1426, con nota di Girelli, Nuovi chiarimenti interpretaivi sul rito Fornero: anche la giurisprudenza sancisce l’equiparazione del reclamo all’appello lavoristico; Tosi, L’improbabile equilibrio tra rigidità «in entrata» e flessibilità «in uscita» nella l. n. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, in ADL, 2012, 813; de Angelis, Art. 18 dello statuto dei lavoratori e processo, cit., 706 ss.; De Luca, Reclamo contro la sentenza di primo grado nel procedimento specifico in materia di licenziamenti (art. 1, 58º comma seg., l. n. 92 del 2012): natura, forma e filtro dell’appello, in RIDL, 2013, I, 847 ss.; Id., Reclamo nel procedimento specifico in materia di licenziamenti (art. 1, commi 58 ss., l. n. 92 del 2012) e recenti riforme dell’appello: note minime, in FI, 2013, V, 236; Palladini, Opposizione, reclamo e ricorso per cassazione, cit., scrive di “appello semplificato”; più di recente cfr. Tedoldi, L’appello civile, cit. 702. 53 Cfr. Cass., 11 novembre 2015, n. 23073, in GI, 2016, 854, con nota di Minafra; Cass., 9 settembre 2016, n. 17863, cit.; Cass., 29 novembre 2016, n. 24258, in RFI, 2016, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 52, secondo cui le esigenze acceleratorie previste dal rito in questione riguardano l’impulso processuale e la struttura (bifasica) del procedimento di primo grado, mentre la disciplina processuale in tema di reclamo deve necessariamente integrarsi con quella in tema di appello nel rito del lavoro, sicché, una volta proposto tempestivo reclamo principale, deve ritenersi che il reclamato ben possa proporre (anche ai sensi dell’art. 24 cost.) reclamo incidentale, nei termini di cui all’art. 436 c.p.c.; tra gli altri, Consolo, Rizzardo, Vere o presunte novità, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in CG, 2012, 736; Ciriello, Lisi, Disciplina processuale, in Pellacani (a cura di), Riforma del lavoro, Giuffré, 2012, 295; Boghetich, Il rito speciale in tema di licenziamento, in Aa. Vv., Il nuovo diritto del mercato del lavoro, cit., 442 ss.; Curzio, Il nuovo rito per i licenziamenti, in Chieco (a cura di), Flessibilità e tutele nel lavoro Commentario della legge 28 giugno 2012 n. 92, Cacucci, 2013, 428; 54 Cfr. A. D. De Santis, I procedimenti speciali, in Aa. Vv., Processo del lavoro, cit., 561. 55 In FI, 1998, I, 1759. 56 Cfr. de Angelis, Il reclamo cautelare riformato e la giustizia del lavoro, in ADL, 2006, 759 ss. 57 Musella, Il rito speciale in materia di licenziamento, cit., 377, scrive che «sembra un refuso quello di avere indicato la Corte di Appello in luogo del Presidente».
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La corte, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi e provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione. Il dispositivo va letto e la sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione. Si continuano poi ad applicare l’art. 132 c.p.c. e l’art. 118 disp. att. c.p.c. novellati sul contenuto della sentenza e sulla motivazione. È prevista una disciplina speciale dell’inibitoria, la legge stabilendo che alla prima udienza la corte possa sospendere l’efficacia della sentenza reclamata se ricorrono gravi motivi (art. 1, comma 60)58 . Ciò significa, da un lato, che non sia più applicabile59 la giurisprudenza di cassazione per la quale la statuizione di reintegrazione non era soggetta ad inibitoria ex art. 431 c.p.c. 60; da un altro lato, che il regime in questione è rapportato alla disciplina del codice di rito inerente le sentenze a favore del datore di lavoro (art. 431, commi 5 e 6, c.p.c.) sia in quanto fa riferimento alla sospensione dell’efficacia della sentenza e non dell’esecuzione, sia al presupposto dei gravi motivi e non a quello del gravissimo danno61. E questo quando la disciplina stessa andrà applicata – salvo che per la statuizione sulle spese62 – con riguardo a sentenze emesse a favore del lavoratore, altrimenti la pronuncia essendo di rigetto e quindi d’accertamento (negativo). Stessa disposizione è prevista per l’inibitoria di sentenza resa in appello, così differenziandosi questa volta la disciplina speciale da quella generale dell’art. 373 c.p.c.63 Impugnata tale sentenza avanti la corte di cassazione con ricorso da proporre entro sessanta giorni dalla comunicazione di essa o dalla sua notificazione se antecedente – in mancanza opera sempre l’art. 327 c.p.c. – l’udienza va fissata non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso stesso e, appunto, la corte d’appello provvede, ove richiesta, alla sospensione dell’efficacia (non dell’esecuzione) della sentenza se ricorrono gravi motivi (e non il danno grave ed irreparabile). Come per le altre controversie di lavoro resta il dubbio sulla completezza della previsione speciale, e se cioè sia lasciato indenne il potere presidenziale di sospensione per decreto ove ricorrano giusti motivi d’urgenza, ai sensi dell’attuale testo dell’art. 351, comma 3, c.p.c.64.
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Cfr. Treglia, Brevi note sul nuovo processo per licenziamento introdotto dalla riforma del mercato del lavoro, in LG, 2012, 771. Cfr. Curzio, Il nuovo rito, cit., 429. 60 Cfr. Cass., 26 luglio 1984, n. 4424, in MGL, 1984, 436. Per riferimenti, giurisprudenziali e dottrinali, alle opposte tesi cfr. de Angelis op. ult. cit., 1768 ss., cui adde Costantino, L’ appello, cit., 261 ss., per il quale la modifica dell’ art. 615, comma 1, c.p.c., realizzata con l’ art. 2, comma 3, lett. e) n. 40, d.l. n. 35/2005, convertito con l. n. 80/2005, per la quale anche il giudice dell’opposizione a precetto può dal 2005 sospendere l’ efficacia esecutiva del titolo, fa ritenere superato il precedente dibattito a favore della possibilità del giudice d’ appello di sospendere l’ efficacia esecutiva della sentenza in forza di interpretazione costituzionalmente orientata. 61 Cfr. Benassi, La riforma del mercato, cit., 756 ss., che prospetta dubbio di costituzionalità. Con riguardo ai problemi in punto posti dall’art. 431 c.p.c. cfr. v. de Angelis, op. ult. cit., 1768 ss. 62 Tra le recenti cfr. Cass., 25 gennaio 2010, n. 1283, in MFI, 2010, 58. In punto in dottrina, tra gli altri, Capponi, Orientamenti recenti sull’art. 282 c.p.c., in Judicium.it, 2012, § 2. 63 Conf. Tedoldi, L’appello civile, cit., 705. 64 Da ult. Tedoldi, op. ult. cit., 704. Sintesi delle posizioni in punto in de Angelis, op. ult. cit., 1767. 59
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“Caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: risoluzione definitiva del problema o mero restyling normativo Sommario : Il fenomeno del “caporalato”. – 2. La normativa previgente in tema di caporalato. – 2.1. Il reato di esercizio della mediazione in violazione delle norme sul collocamento della manodopera (art. 27, l. 29 aprile 1949, n. 264 e s.m.i.). – 2.2. Il reato di interposizione illecita di manodopera (artt. 1 e 2, l. 23 ottobre 1960, n.1369). – 2.3. L’introduzione del lavoro interinale (art. 1, l. 24 giugno 1997, n. 196). – 3. Il nuovo quadro sanzionatorio introdotto dal d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. – 3.1. Il reato di esercizio non autorizzato dell’attività di intermediazione (art. 18, co. 1, terzo periodo, d.lgs. 10 settembre 2003, 276). – 3.2. Il reato di esercizio non autorizzato delle attività di ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale (art. 18 co. 1, quinto periodo, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276). – 3.3. I reati di somministrazione non autorizzata e di utilizzazione illecita (art. 18, co. 1, primo periodo e co 2, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276). – 3.4. I reati di appalto e distacco illecito (art. 18 co. 5-bis, d.lgs. 10 settembre 2003, 276). – 4. Le misure dell’Unione Europea contro il “caporalato” e lo sfruttamento del lavoro degli stranieri: in particolare la Direttiva 2009/52/ CE. – 5. Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art.603-bis c.p.) – 6. La l. 29 ottobre 2016, n. 199. – 7. Considerazioni conclusive.
Sinossi. L’A. analizza il fenomeno del c.d. “caporalato” da un punto sociologico e normativo. In tale ottica vengono presi in considerazione i settori di diffusione e le aree geografiche di maggiore concentrazione. Successivamente, l’A. commenta in chiave critica le varie disposizioni normative che negli anni si sono susseguite, arrivando alla l. n. 199/2016 di ultima approvazione, interrogandosi se essa possa finalmente condurre alla risoluzione definitiva del c.d. “caporalato”, o se invece sia necessario prevedere un sistema riformatorio generale dei settori interessati dal fenomeno che accompagni la nuova disciplina per il buon esito del contrasto al suddetto fenomeno.
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Abstract. The A. analyzes the so-called phenomenon of “caporalato” from a sociological and legal standpoint. In this view are taken into account the sectors and the geographic areas with the highest concentration of this illegal hiring way. Subsequently, the A. commented critically the various regulatory measures followed over the years, coming to the law No. 199/2016 last approval, questioning whether it can eventually lead to the final resolution of the so-called “caporalato” or whether it is necessary to provide a general reform system of the sectors concerned by the phenomenon accompanying the new discipline for the success of the contrast to the above phenomenon. Parole chiave: caporalato – intermediazione illecita – lavoro nero – responsabilità amministrativa dell’ente
1. Il fenomeno del “caporalato”. Da un punto di vista sociologico per “caporalato” si intende un sistema di reclutamento di manodopera attuato in violazione della normativa in tema di fornitura di lavoro che comporta salari inferiori a quelli previsti dalle tariffe sindacali. Si tratta, però, di una qualificazione riferita ad un’accezione ridotta e minimale dell’illecito che, nella pratica, si estende ad una molteplicità di condotte abusive tra cui gravi soprusi e violenze di ogni genere a danno di persone, anche minorenni. Il “caporalato” è un fenomeno nel quale sono ricomprese sia l’attività primaria, costituita dalla mera intermediazione illegale – cd. “caporalato” in senso stretto – sia altre manifestazioni illecite comprendenti anche l’uso arbitrario della violenza, sino a giungere a vere e proprie forme di riduzione in schiavitù – c.d. “caporalato” in senso lato1. I settori più esposti al caporalato sono l’agricoltura, dove il fenomeno è incentivato anche dalla necessità di far fronte alla stagionalità delle colture che richiedono la concentrazione di molti operai per periodi brevi, e l’edilizia, ma recentemente si registrano casi rilevanti anche nel settore manifatturiero, in quello turistico ed in quello della grande distribuzione organizzata2. Il “caporalato” involge una platea di soggetti: in primis i caporali che si occupano del reclutamento illecito della manodopera di cui le imprese committenti necessitano per l’esercizio della propria attività di business. Ciò fa sì che essi finiscono con l’acquisire una posizione di forza, non solo nei confronti dei lavoratori, di cui sono i veri datori di lavoro, ma anche riguardo ai committenti, verso i quali, talvolta, esercitano pressioni di tipo estorsivo per ottenere maggiori vantaggi. Le vittime di tale sistema sono i prestatori d’opera, sfruttati sia dall’imprenditore che dall’intermediario abusivo. I soggetti a maggior rischio di sottoposizione al fenomeno sono
1 2
Negrelli, Manuale di Sociologia del lavoro, Zanichelli, 2015, 88. III rapporto “Agromafie e Caporalato” pubblicato in data 26 maggio 2016 dall’Osservatorio Placido Rizzotto del sindacato Flal-Cgil.
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poi gli extracomunitari, in particolare, gli stranieri privi di permesso di soggiorno e costretti a proteggere il loro stato di clandestinità. Da ultimo le imprese che accettano e/o promuovono l’illegalità per trarre maggiori profitti, in totale spregio dei diritti fondamentali dell’individuo. I caporali, quasi sempre, reclutano la manodopera in punti di raccolta predeterminati, noti nell’ambiente di chi è alla ricerca di lavoro, quindi, si occupano dell’accompagnamento presso i luoghi di lavoro e provvedono al pagamento di uno scarso compenso, di regola limitato alla giornata, sottraendo da quanto corrisposto dal committente una quota a proprio favore. Talvolta, per incrementare ulteriormente i loro introiti in danno dei lavoratori, offrono dubbie sistemazioni alloggiative e vitto. Fatti salvi i casi di tutela sanciti espressamente dall’art. 18 del testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998) in favore delle vittime di violenza o sfruttamento grave (in particolare a causa di riduzione in schiavitù o tratta di esseri umani), lo straniero clandestino non è incentivato a far valere i propri diritti in un giudizio contro il datore di lavoro o l’intermediario, per le ovvie conseguenze espulsive che derivano dalla sua condizione3. L’offerta di lavoro irregolare costituisce il principale fattore di attrazione di cittadini stranieri e si annovera tra le cause più rilevanti di immigrazione clandestina. Le principali forze motrici dei flussi migratori sono, infatti, rappresentate, da un lato, dagli squilibri nei Paesi di origine, sia di natura demografica ed economica, sia di natura sanitaria o ambientale (epidemie, carestie, siccità, ecc.), ovvero di natura politica (guerre civili, scontri etnici, persecuzioni di varia origine, ecc.), e, dall’altro dalla capacità attrattiva dei Paesi di destinazione: la domanda di manodopera, la presenza di comunità straniere radicate, i legami linguistici. Il mercato, in Italia, necessita in via principale di rapporti di collaborazione familiare e domestica o di lavoratori senza qualifiche particolari, spesso stagionali, preferibilmente in posizione irregolare. Le organizzazioni criminali che gestiscono i traffici istruiscono e addestrano gli emigranti fornendo loro tutti gli strumenti necessari per eludere le norme sull’immigrazione e inserirsi nel mondo del lavoro sommerso. È evidente che il buon funzionamento del meccanismo di gestione della domanda e dell’offerta di lavoro è senz’altro un’arma efficace di lotta al fenomeno del caporalato. Tuttavia, non si è ancora giunti a trovare un equilibrio tra domanda ed offerta che consenta di raggiungere una corretta previsione dei flussi migratori in rapporto alla domanda di lavoro4, il tutto, ovviamente, aggravato dalla continua e perdurante ondata di migranti in
3
L’art. 18, d.lgs. n. 286/1998, sotto la rubrica «Soggiorno per motivi di protezione sociale» stabilisce «Quando, nel corso di operazioni di polizia, di indagini o di un procedimento per taluno dei delitti di cui all’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, o di quelli previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale, ovvero nel corso di interventi assistenziali dei servizi sociali degli enti locali, siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero, ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità, per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione dedita ad uno dei predetti delitti o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio, il questore, anche su proposta del Procuratore della Repubblica, o con il parere favorevole della stessa autorità, rilascia uno speciale permesso di soggiorno per consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale». 4 Basti pensare che, a fronte di 13.000 ingressi per lavoro in favore di cittadini stranieri stabiliti dal decreto flussi per il 2015, le
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cerca di condizioni migliori di vita ed in fuga dai loro Paesi di origine che negli ultimi anni sta interessando il nostro Paese. Le verifiche svolte dagli organi ispettivi del Ministero del lavoro hanno evidenziato che, nel settore agricolo, vi è un impiego diffuso, nelle regioni del sud Italia, di lavoratori stranieri magrebini e dell’Europa dell’est privi di titolo di soggiorno. Nell’Italia del nord e del centro, i settori dell’edilizia e del manifatturiero attirano numerosi stranieri irregolari, soprattutto provenienti dall’area balcanica e dall’Europa dell’est (per l’edilizia) e dalla Cina (nel campo manifatturiero). In Sicilia e in Sardegna si registrano situazioni significative di sfruttamento nel campo della pastorizia a danno di rumeni e di cittadini di altri Paesi dell’Europa dell’est5. Anche le imprese di pulizie e quelle operanti nell’indotto turistico risultano interessate, sia pure in modo meno esteso, da questo genere di illeciti. In Basilicata, soprattutto nella provincia di Potenza sono stati registrati casi rilevanti di sfruttamento grave ad opera di cittadini africani nelle attività di raccolta del pomodoro. In Campania la presenza massiccia di extracomunitari, prevalentemente impiegati in attività agricole, edilizie e turistico-stagionali, fa ritenere certa l’esistenza di situazioni di sfruttamento di manodopera irregolare. In Puglia l’intermediazione illecita nel collocamento della manodopera, accompagnata da casi rilevanti di sfruttamento, è stata registrata nelle province di Taranto, Foggia (ove il fenomeno riguarda l’intero ciclo produttivo soprattutto per la raccolta di pomodori e di uva) e Lecce (in quest’ultima provincia, tuttavia, non sono state rilevate situazioni particolarmente gravi). In Calabria, a Cosenza sono stati registrati episodi di sfruttamento ai danni di cittadini rumeni e polacchi, impiegati per la raccolta di agrumi, mentre in provincia di Vibo Valentia sono stati accertati casi di collocamento irregolare nel mercato del lavoro in condizioni di sfruttamento di cittadini bulgari, rumeni e ucraini per opera di connazionali. In Sicilia le aree più interessate dallo sfruttamento di manodopera nel settore agricolo risultano, principalmente, quelle della provincia di Siracusa, per la raccolta del pomodoro e delle patate, e quella di Trapani nel periodo della vendemmia o della raccolta di ortaggi; di recente, a Marsala sono stati individuati cittadini tunisini e rumeni sfruttati nel settore vitivinicolo; anche nelle province di Enna, Catania e Ragusa gli stranieri irregolari sono impiegati nelle campagne stagionali di raccolta di prodotti agricoli. Nel Lazio episodi significativi di caporalato sono stati verificati in provincia di Latina. Come anticipato, anche nell’edilizia risulta essere diffuso l’impiego illegale di cittadini stranieri. In particolare, in Piemonte, nelle province di Torino, Novara e Biella sono emersi casi di sfruttamento di manodopera filippina. In Lombardia, in particolare nelle province di Varese e Milano, si rilevano casi diffusi di lavoro nero (con sfruttamento di cittadini nordafricani e dell’est Europa in posizione irregolare con la normativa sull’ingresso e il soggiorno di stranieri). In Friuli Venezia Giulia, soprattutto in provincia di Udine, sono stati
domande presentate dai datori di lavoro sono ammontate a 29.642. Fonte: Direzione Generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione presso il Ministero del lavoro e delle Politiche sociali. Analisi decreto flussi lavoro subordinato 2015 (DPCM 02.04.2015). 5 Cfr: Direzione Generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione presso il Ministero del lavoro e delle Politiche sociali, in www. Lavoro.gov.it/ /DG-immigrazione-e-delle-politiche-di-integrazione.aspx.
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accertati episodi significativi di impiego irregolare di cittadini dell’area balcanica. Lo stesso avviene in Liguria (soprattutto Genova, Savona e Imperia), in Emilia Romagna (Bologna, Ferrara e Forlì-Cesena) e in Toscana (in particolare, nelle province di Firenze, Arezzo, Massa Carrara e Lucca). Episodi rilevanti di sfruttamento di manodopera abusiva nel settore tessile (abbigliamento, pelletteria) sono stati accertati in Lombardia, Lazio e Toscana. Si tratta di imprese gestite in modo illegale da cittadini cinesi a danno di propri connazionali. Anche nel settore della collaborazione domestica o nello svolgimento delle mansioni di badanti, sono stati evidenziati casi di sfruttamento nei confronti di cittadini dell’Europa dell’est. In Friuli Venezia Giulia, in Veneto, in Umbria e in Sicilia sono state individuate organizzazioni criminali dedite all’impiego irregolare di badanti. Nel settore dell’allevamento di bestiame fenomeni di sfruttamento sono emersi principalmente nelle province di Nuoro, Sassari e Cagliari (in Sardegna) e in provincia di Enna (in Sicilia). Per quanto riguarda il settore dell’edilizia, l‘impiego di cittadini stranieri privi di permesso di soggiorno o non in regola con la legislazione sul lavoro si estende, soprattutto nei centri urbani, senza carattere di stagionalità e riguarda indistintamente imprese di grandi dimensioni impegnate in opere importanti e piccole imprese a conduzione familiare. Nel settore agricolo, si registrano differenze a seconda delle colture, che possono variare da tutto l’anno (ad esempio per i fiori o gli ortaggi), ai periodi estivi (per la frutta e i pomodori) o autunnali (cereali, olive, uva), o per i mesi invernali (carciofi, agrumi). Le aree dalle quali provengono gli stranieri sono quelle dell’Europa dell’est (circa il 70% sul totale), seguite dai Paesi del Nord Africa (16%) e dell’estremo oriente (14%)6.
2. La normativa previgente in tema di intermediazione di lavoro.
2.1. Il reato di esercizio della mediazione in violazione delle norme sul
collocamento della manodopera (art. 27, l. 29 aprile 1949, n. 264 e s.m.i.).
Il primo intervento normativo diretto a regolare penalmente il momento di intersezione tra domanda ed offerta di lavoro fu la l. 29 aprile 1949, n. 264, rubricata “Provvedimenti in materia di avviamento al lavoro e di assistenza dei lavoratori involontariamente disoccupati”, pubblicata in G.U. in data 1 giugno 1949 ed entrata in vigore il 6 giugno del medesimo anno.
6
Cfr. Direzione Generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione presso il Ministero del lavoro e delle Politiche sociali, in www. Lavoro.gov.it/ /DG-immigrazione-e-delle-politiche-di-integrazione.aspx.
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Tale legge si proponeva come obiettivo principale la protezione della persona del lavoratore nella fase pre-contrattuale del successivo rapporto di lavoro7. Il monopolio statale del processo di selezione e destinazione della forza-lavoro, la gestione di elenchi numerici dei lavoratori e le disposizioni a favore dei c.d. “involontariamente inoccupati” miravano, infatti, a controbilanciare la debolezza contrattuale del lavoratore, che espone lo stesso a potenziali fenomeni di sfruttamento da parte dei datori di lavoro. Difatti, la l. n. 264/1949, sancendo all’art. 7 il carattere rigidamente pubblicistico dell’attività di collocamento della forza lavoro8, mirava per l’appunto a reprimere in maniera drastica le discriminazioni nelle assunzioni dei lavoratori, che il collettore privato di manodopera inoccupata troppo spesso produceva a causa della povertà, dell’ignoranza, della fame e del bisogno assistenziale che in quegli anni attraversavano il nostro Paese a seguito dei drammatici esiti sociali ed economici del secondo conflitto mondiale da poco conclusosi. I lavoratori erano inseriti in liste predisposte presso gli Uffici di collocamento, suddivisi per età, stato sociale, nonché in base al settore in cui avessero svolto precedenti esperienze lavorative9. I datori di lavoro nella necessità di assumere forza-lavoro non potevano provvedervi direttamente, salvo il caso di urgente necessità per evitare danni alle persone o agli impianti (art. 19), bensì dovevano rivolgersi alla mediazione pubblicistica degli Uffici, formulando precise richieste numeriche10 per categoria e qualifica professionale, comunicando, altresì,
7
In questo senso, cfr. Cass. pen., sez. III, 22 giugno 1983, in GP, 1984, II, 290, per la quale “scopo del divieto di mediazione, in tema di collocamento al lavoro, è quello di assicurare che l’avviamento al lavoro si svolga secondo il meccanismo legislativo all’uopo previsto, affidato ad un pubblico ufficio, con divieto assoluto di ingerenze perturbatrici di terzi”. Differentemente, la l. n. 1369 del 1960 mira a contrastare il fenomeno della dissociazione tra le persone del datore di lavoro e dell’utilizzatore della forza lavoro. In dottrina v. Grilli, La tutela penale del mercato del lavoro, in Mazzacuva, Amati, Il diritto penale del lavoro, Giappichelli, 2012, 395) il quale sostiene che: “Il mediatore opera prima del costituirsi del rapporto di lavoro, mentre nell’interposizione l’intermediario è l’apparente titolare del rapporto ed agisce in costanza di esso; mentre il mediatore tende o può tendere alla costituzione di un rapporto reale, l’intermediario tende sempre per definizione ad escludere tale rapporto, per sostituirne ad esso uno apparente e nel quale il vero datore di lavoro si pone formalmente come terzo”. Analogamente Morrone, Diritto penale del lavoro, Giuffrè, 2013, 15, afferma che “Occorre tenere presente che l’art. 11 prendeva in considerazione non tanto la persona del mediatore o i rapporti che lo legano ad una delle parti, ma piuttosto l’attività di interposizione in violazione del sistema del collocamento, per cui era mediatore colui che si sostituiva ai soggetti autorizzati a promuovere l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro”. 8 Precisa tuttavia Pret. Milano, 20 febbraio 1979 che “la mediazione nell’avviamento al lavoro di prestatori d’opera subordinati non è vietata in assoluto, ma solo quando comporti una violazione delle norme sul collocamento. Esula pertanto, dall’ipotesi criminosa prevista dall’art. 27 comma 1 l. 29 aprile 1949 n. 264 l’attività di intermediazione rivolta a favorire l’instaurazione di un rapporto di lavoro con prestatori d’opera per i quali è ammessa l’assunzione diretta ai sensi dell’art. 11 l. 29 aprile 1949 n. 264”. 9 In particolare l’art. 10 predeterminava la categorie tra le quali suddividere i lavoratori: disoccupati per effetto della cessazione del rapporto di lavoro immediatamente precedente al loro stato di disoccupazione; giovani di età inferiore ai 21 anni, ed altre persone in cerca di prima occupazione, o rinviati alle armi; casalinghe in cerca di lavoro; pensionati in cerca di occupazione; lavoratori occupati in cerca di altra occupazione. Entro l’ambito delle suddette classificazioni i lavoratori iscritti sono raggruppati per settori di produzione, entro ciascun settore per categorie professionali ed entro ciascuna categoria per qualifica o specializzazione. […] Sono iscritti in separate liste coloro che richiedano di essere avviati a lavori di breve durata o a carattere stagionale. 10 Era numerativa la richiesta per la quale il datore di lavoro comunicava unicamente il numero dei lavoratori necessitati, mentre era nominativa la procedura per cui lo stesso seleziona i candidati lavoratori dalla lista recante i nomi degli stessi. La prescrizione dell’obbligo di richieste numeriche era stabilita dall’art. 14 co. 1; tuttavia ai sensi del co. 2 era possibile procedere a richiesta nominativa: a) per tutti i lavoratori destinati ad aziende che non abbiano stabilmente più di cinque dipendenti e, per i lavoratori destinati ad altre aziende, nei limiti di un decimo, sempre che la richiesta sia per un numero di unità superiore alle nove; b) per i lavoratori di concetto oppure aventi una particolare specializzazione o qualificazione; c) per il personale destinato a posti di fiducia connessi con la vigilanza e la custodia della sede di opifici, di cantieri, o comunque di beni dell’azienda; d) per il primo avviamento di lavoratori in possesso di titoli di studio rilasciati da scuole professionali. L’art. 25 della l. n. 223/1991 elimina l’obbligo della
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le condizioni contrattuali offerte ai lavoratori, rispetto alle quali gli Uffici erano tenuti a valutarne la conformità alle tariffe e ai contratti collettivi (art. 14). I lavoratori erano assegnati secondo criteri predeterminati dalla legge, con la possibilità nei settori agricolo ed edilizio, ove ritenuto opportuno dalla Commissione Comunale, di predisporre dei turni di lavoro a rotazione ed eventuale compensazione tra tutti gli iscritti alle liste di collocamento delle categorie dei manovali e dei braccianti agricoli, tenendo conto delle giornate di occupazione dei lavoratori anche in settori non agricoli e delle giornate presunte occorrenti per la coltivazione del terreno de quo (art. 16). L’art. 23 introduceva, infine, la possibilità di un collocamento nazionale interprovinciale, ove giustificato da particolari esigenze del lavoro e della produzione, da parte di Uffici nazionali, ovvero speciali costituiti ad hoc. L’incontro tra domanda e offerta di lavoro non era, dunque, più rimesso alla volontà delle parti, bensì, mediato dallo Stato. A garanzia del funzionamento di tale intervento mediatore si poneva la norma penale, che svolgeva qui la funzione di extrema ratio, di tutela ultima di situazioni giudicate dal legislatore come espressive di principi costituzionalmente inviolabili e imprescindibili. L’art. 27, infatti, introduceva un’ipotesi di reato contravvenzionale per l’intermediario che forniva manodopera al di fuori del sistema degli uffici di collocamento (comma primo), nonché per il datore di lavoro utilizzatore della forza-lavoro immessa nel mercato contra legem (comma secondo). Il divieto di esercizio delle attività di intermediazione tuttavia non era assoluto, bensì concerneva solamente l’attività di mediazione nei casi in cui la stessa fosse demandata agli Uffici indicati (art. 11). Soggetto attivo del reato di cui al primo comma era il mediatore, o intermediario, che ai sensi dell’art. 1754 c.c., è colui il quale mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, dipendenza o rappresentanza. Analogamente, soggetto attivo dell’ipotesi contravvenzionale del secondo comma era l’imprenditore utilizzatore che assumesse lavoratori senza il tramite degli uffici di collocamento. In aggiunta a quanto previsto dall’art. 27, veniva, poi, stabilita la pena dell’ammenda da L. 500 a L. 20.000 per l’ipotesi contravvenzionale di base dell’intermediario, mentre era prevista una circostanza aggravante ad effetto speciale che operava qualora vi fosse scopo di lucro, con un sensibile innalzamento della pena edittale: l’arresto sino a tre mesi, nonché l’ammenda sino a L. 80.00011. Analogamente, era punita con l’ammenda da L. 2.000 a L. 10.000 per ogni lavoratore assunto la condotta del datore di lavoro che utilizzasse i lavoratori non assumendoli tramite gli uffici di collocamento, con il chiaro intento di disin-
richiesta numerica, sancendo la facoltà di assumere tutti i lavoratori tramite richiesta nominativa. Procedura successivamente a sua volta espunta dal d.l. n. 510/1996 convertito in l. n. 608/1996, che all’art. 9-bis generalizza la facoltà di assunzione diretta seguita dalla comunicazione agli Uffici competenti. 11 Sul punto Cfr. Cass. pen., sez. III, 24 febbraio 2004, n. 25726, che ha precisato che “L’esercizio abusivo a scopo di lucro dell’attività di intermediazione nell’avviamento al lavoro, in precedenza sanzionata dall’art. 27 l. 29 aprile 1949 n. 264, ed attualmente punita dall’art. 18 comma 1 d.lgs. 10 settembre 2003 n. 276, non costituisce una figura autonoma di reato, ma una circostanza aggravante ad effetto speciale della stessa ipotesi contravvenzionale non connotata da finalità lucrativa, atteso che non implica una modificazione dell’essenza del reato ma costituisce soltanto una circostanza che si aggiunge ad esso determinandone una maggiore gravità”.
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centivare alla radice la domanda di lavoratori extra-liste. Erano previste poi due ulteriori ipotesi contravvenzionali, rispettivamente al terzo comma un reato proprio del datore di lavoro per mancata comunicazione nei termini di cui all’art. 21 dell’avvenuta cessazione del rapporto di lavoro, punito con l’ammenda da L. 500 a L. 1.000 per ogni lavoratore e per ogni giorno di ritardo, e successivamente al quarto comma un reato proprio del lavoratore per mancata denuncia di occupazione all’atto di inserimento nelle liste di collocamento, sanzionato con l’ammenda da L.500 a L. 5.00012.
2.2. Il reato di interposizione illecita di manodopera (artt. 1 e 2, l. 23 ottobre 1960, n. 1369).
Come noto, la l. n. 1369/1960 vietava l’interposizione nelle prestazioni di lavoro, dettando un’articolata disciplina dell’impiego di mano d’opera negli appalti di opere e di servizi. Autorevole dottrina13 ha condivisibilmente sostenuto la pluralità dei beni giuridici tutelati dalla norma, riconducendoli principalmente a tre categorie: in primis, i beni di natura individuale e personale, inerenti ai diritti del lavoratore alla sicurezza nello svolgimento dell’attività ed al riconoscimento della propria dignità. In secondo luogo, il riferimento era ai diritti individuali economici: la norma avrebbe mirato a garantire la solvibilità dell’imprenditore con riguardo alla retribuzione del lavoratore, il quale tramite la fictio interpositoria non avrebbe avuto altrimenti azione nei confronti di quello, salva unicamente la pretesa nei confronti del dipendente, titolare formale del rapporto di lavoro. Da ultimo la l. n. 1369/1960 si sarebbe posta a presidio di beni giuridici collettivi, quali il rispetto dell’assetto normativo in materia di mercato del lavoro ed il corretto incrocio tra le domande e le offerte di lavoro14.
12
La legge 28 febbraio 1987, n. 56, incide sull’art. 27 l. n. 264 del 1949, comportando un sensibile aumento del quadro sanzionatorio e prevedendo per l’ipotesi contravvenzionale del primo comma la pena dell’ammenda da L. 1.000.000 a L. 5.000.000. Nell’ipotesi aggravata di mediazione illegittima con scopo di lucro, erano previsti l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda aumentata sino al triplo. I datori di lavoro utilizzatori della manodopera, invece, divenivano esclusivamente soggetti al pagamento di una sanzione amministrativa da L. 500.000 a L. 3.000.000 per ogni lavoratore interessato, risultando così depenalizzata la loro condotta. Veniva, altresì, innalzata la pena prevista per l’omessa comunicazione di cui all’art. 21, l. n. 264 del 1949, da L. 100.000 a L. 300.000 per ogni lavoratore interessato e veniva introdotta la previsione per l’ipotesi di cui al primo comma di cui all’art. 27 l. n. 264/1949 del sequestro del mezzo di trasporto utilizzato A tal proposito, appare evidente l’intento del legislatore di contrastare il fenomeno del “caporalato”, privando i caporali dei mezzi strumentali per il reato, ovvero di automobili, autobus e quant’altro utilizzato per la tratta dei lavoratori, ciononostante, sotto il profilo prettamente penalistico a parere di chi scrive pare poco opportuna la scelta del legislatore di ricorrere all’istituto del sequestro, che vuole essere misura preventiva, cautelare e conservativa, e non afflittiva. Più coerente sarebbe stato, invece, preferire lo strumento giuridico della confisca, pena accessoria collegata all’accertamento di reità, e compatibile con i principi costituzionali in materia di offensività e colpevolezza, come peraltro successivamente disposto dal d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. 13 In questo senso Padovani, Diritto Penale del Lavoro, profili generali, Franco Angeli, 1993, 228, il quale sostiene che la protezione della norma non sia accordata unicamente al singolo lavoratore, che in certuni casi potrebbe anzi trarre beneficio da forme interpositorie nel rapporto di lavoro, bensì alla globalità delle domande e offerte di lavoro, al sistema del mercato delle assunzioni nel suo complesso. 14 Cfr. Gemmani, “L’intermediazione della manodopera”, in L’ispettore e la società, 2000, n. 2, per la quale il legislatore intendeva impedire la conclusione di tutti i contratti atipici caratterizzati dallo sfruttamento dei lavoratori, con un risparmio di spesa sia per il committente, rispetto alla retribuzione dovuta al lavoratore, sia per l’appaltatore, con riferimento alla differenza tra il prezzo dell’appalto e le retribuzioni corrisposte.
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“Caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro
Giungendo poi, all’analisi dell’ipotesi di reato di illecita interposizione di manodopera prevista dall’art. 1 della suddetta legge15, soggetti attivi del reato de quo, erano tanto quella persona in capo alla quale l’ordinamento riconosce gravitare il rischio, ossia l’imprenditore16, quanto colui il quale si preoccupava di fornire la manodopera, ovverosia, l’intermediario17. Soggetto passivo del reato era invece, ovviamente, il prestatore di lavoro, che si collocava in uno schema del rapporto lavorativo non più bipolare ma triadico. Emerge in secondo luogo l’aticipità della condotta18, che poteva sostanziarsi in qualsiasi forma giuridica che comportasse l’affidamento dell’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera, a prescindere dalla natura dell’opera o del servizio commissionato. A titolo esemplificativo venivano richiamati i contratti di appalto e subappalto, come possibili tipologie di realizzazione della condotta. La scelta del legislatore di prediligere una forma libera per la condotta, predisponendo una norma penale in bianco, certamente corrispondeva all’intento di reprimere efficacemente un fenomeno, quello interpositorio, che si presentava sotto diverse forme giuridiche, tra le quali l’impiego di false cooperative di manovali, che nel corso degli anni erano giunte ad una sofisticazione giuridica sempre maggiore. L’art. 2 della legge in commento, elencava, altresì, le sanzioni, consistenti nella comminatoria “all’imprenditore e all’appaltatore o altro intermediario dell’ammenda di lire 10.000 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione, ferma restando l’applicabilità delle sanzioni penali previste per la violazione della legge 29 aprile 1949, n. 264, e delle altre leggi in materia”.
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È vietato all’imprenditore “affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono. È altresì vietato all’imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti, terzi o società anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari”. 16 Non si ritiene sufficiente a rendere comune il reato il fatto che la qualifica di imprenditore sia ascrivibile ad un numero indefinito di soggetti, rivestendo l’elemento particolare dell’assunzione del rischio e dell’organizzazione d’impresa la natura di qualifica specifica, necessaria e unica in grado di porre in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma. Si ritiene il reato proprio o esclusivo anche con riferimento alla figura dell’interposto, che non si identifica in qualsiasi individuo, bensì in quel soggetto dotato della disponibilità di una forza-lavoro, che sovente nella prassi riveste qualifiche giuridiche particolari quali quella ad esempio quella dell’appaltatore. 17 Cfr. sul punto Trib. di Fermo, 31 maggio 2004, in Corti marchigiane, 2005, 215, che afferma che “La fattispecie di cui agli art. 1 e 2 della l. n. 1369 del 1960 puniva sia il committente sia l’appaltatore che ricorressero a qualsiasi esecuzione di prestazioni lavorative mediante impiego, sotto qualsiasi forma, di manodopera assunta dall’appaltatore, ma di fatto operante alle dipendenze del committente”. 18 Cfr. sul punto Romei, L’elisir di lunga vita del divieto di interposizione, in RIDL, 2005, II, 730, per il quale il legislatore intendeva vietare qualsiasi dissociazione tra la figura del datore di lavoro e quella del beneficiario delle utilità. Si spiega in questa prospettiva la costruzione della fattispecie interpositoria in termini di fattispecie atipica, coerente con la configurazione della dissociazione come fenomeno in sé vietato, in quanto foriero di possibili elusioni delle tutele predisposte dall’ordinamento in favore del lavoratore, ma anche indipendente da una concreta volontà frodatoria delle parti, o dalla produzione di un danno a carico del lavoratore. L’apparato sanzionatorio era coerente con le premesse succintamente riepilogate”. Inoltre, Cass., 8 luglio 1992, in NGL, 1993, 339) ha precisato che nel divieto di cui all’art. 1 della l. n. 1369/1960 è compreso l’affidamento dell’esecuzione di mere prestazioni di lavoro che venga effettuato tramite distacco di personale dipendente tra imprenditori giuridicamente distinti, le cui imprese sociali si avvalgano di capitali provenienti da un unico gruppo finanziario di persone fisiche o giuridiche. Cfr. anche Cass., 7 novembre 2000, n. 14458, in OGL, 2000, I, 968, e Cass., 17 gennaio 2001, n. 594, in RIDL, 2001, II, 407).
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Per la determinazione della pena vigeva, dunque, un sistema “misto”, poi ripreso dal sistema sanzionatorio previsto dal successivo d.lgs. n. 276/2003, caratterizzato dalla proporzionalità rispetto al numero di lavoratori coinvolti dalla condotta, ed al periodo di permanenza del reato.
2.3. L’introduzione del lavoro interinale (art. 1, l. 24 giugno 1997, n.196). Le trasformazioni economiche che si susseguirono nelle more della vigenza del divieto di interposizione nel rapporto di lavoro previsto dalle l. n. 264/1949 e n. 1369/1960 fecero maturare già agli inizi degli anni novanta la consapevolezza dell’insufficienza regolamentare di detta disciplina. Le nuove esigenze di flessibilità del mercato del lavoro, infatti, non erano più soddisfatte da una normativa ormai obsoleta e troppo stringente19, posto che il bisogno di tutela del genuino incontro tra domanda ed offerta di lavoro, che aveva giustificato l’introduzione di fattispecie penali con soglie di punibilità anticipate al momento del pericolo astratto o presunto, non era più avvertito con la stessa intensità. La necessità di mutamenti sotto il profilo giuslavoristico, ma anche della politica criminale, venne palesata da una pronuncia della Corte di Giustizia della Comunità Europea, che nel dicembre del 1997 dichiarò l’incompatibilità della disciplina italiana in materia di collocamento ed interposizione del lavoro con i principi contenuti nel Trattato CE, avviando il monopolio pubblicistico degli uffici di collocamento verso un’inesorabile declino20. A fronte della suindicata sentenza della Corte di Giustizia si poneva, pertanto, la questione della possibilità da parte dei giudici italiani di disapplicare la normativa nazionale, dichiarata incompatibile con i principi del mercato europeo e se si dovesse ritenere implicitamente abrogata la previsione di sanzioni penali da parte dell’art. 27 l. n. 264/1949 e degli artt. 1 e 2 l. n. 1369/1960. Possibilità che la Corte di Cassazione ora aveva accolto, ora escluso, in maniera contrastante21.
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Tale sentimento è chiaramente espresso nel di poco successivo Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia, coordinato da Sacconi e Biagi: “Buona parte dei precetti contenuti nella legge n. 1369/1960 appaiono superati, almeno nella loro persistente perentorietà, dall’evoluzione dei rapporti di produzione e di circolazione della ricchezza al punto da indurre spesso le imprese a “saltarli” completamente: non tanto in ragione di finalità fraudolente o di elusione dei diritti inderogabili del lavoro, quanto soprattutto per l’incompatibilità del dato legale in essa contenuto con le logiche della nuova economia. Le attuali forme di organizzazione del lavoro, soprattutto nel terziario, presuppongono ipotesi di somministrazione di lavoro (si pensi solo per fare un esempio, alla pratica del c.d. body rental nell’ambito della consulenza informatica) che nulla hanno a che vedere con le ipotesi di speculazione parassitaria sul lavoro a cui si riferiva il legislatore all’inizio degli anni Sessanta”. 20 Nello specifico la Corte di Giustizia era stata adita tramite rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Milano con ordinanza 31 marzo 1994 nell’ambito di un procedimento per l’omologazione dello statuto della società cooperativa Job Centre s.c.a.r.l. (richiesta dal presidente della JCC il 28 gennaio 1994), il cui oggetto sociale voleva essere l’esercizio di attività di intermediazione fra domanda ed offerta di lavoro e la fornitura a terzi di lavoro temporaneo, vietati dalle ll. nn. 264/1949 e 1369/1960. La società chiedeva alla Corte un sindacato di legittimità della normativa interna in materia di monopolio nell’attività di mediazione ed interposizione di lavoro, denunciandone i profili di incompatibilità con i principi comunitari della libera concorrenza. 21 Ex plurimis, v. Cass., 5 agosto 2000, n. 10316, in NGL, 2000, 688), che accertava l’illegittimità di un provvedimento comminatorio di sanzione amministrativa per violazione del divieto di intermediazione previsto dall’art. 11, l. n. 264/1949; nonché in senso contrastante Cass., 2 agosto 2002, n. 11614, che afferma l’impossibilità di considerare superata l’applicabilità delle sanzioni penali ed amministrative di cui all’art. 2 della l. n. 1369/1960; v. anche Cass., 7 luglio 2004, n. 12509, in Riv. dir. internaz. privato e proc., 2005,
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Tale situazione di incertezza ed impasse normativo e giurisprudenziale venne finalmente superata dall’introduzione del contratto di fornitura di lavoro temporaneo, ad opera della legge 24 giugno 1997, n. 196, c.d. “Pacchetto Treu”. Tale legge, all’art. 1, comma 1, definiva lo stesso come “il contratto mediante il quale un’impresa di fornitura di lavoro temporaneo […], iscritta all’albo previsto dall’articolo 2, comma 1, pone uno o più lavoratori […], da essa assunti con il contratto previsto dall’articolo 3, a disposizione di un’impresa che ne utilizzi la prestazione lavorativa […], per il soddisfacimento di esigenze di carattere temporaneo individuate ai sensi del comma 2”. La l. n. 196/1997 apriva, dunque, per la prima volta, alla possibilità che soggetti ulteriori rispetto ai competenti uffici di collocamento potessero svolgere attività di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, dirigendo verso una maggiore flessibilità la disciplina del rapporto di lavoro e riconoscendo una funzione economica positiva all’apporto degli operatori privati nell’economia e nel lavoro22. Dall’altro lato, la previsione di un collocamento privato subordinato al rispetto di precisi requisiti stabiliti dalla l. n. 196/1997, e, quindi, l’individuazione di un’area limitata di legittimità rispetto all’assolutezza del divieto di intermediazione, confermava la vigenza di quest’ultimo, seppur entro nuovi confini, certamente più flessibili. L’intermediazione e l’interposizione nelle prestazioni di lavoro rimanevano attività a rischio, necessitanti una disciplina rigorosa e puntuale, ed anzi l’annunciata flessibilità risultava costretta entro limiti regolamentari e sanzionatori dal sapore fortemente repressivo e per certi versi contraddittorio. Nello specifico, ciò veniva confermato dalla stessa littera legis, la quale, nel mantenere immutato nella sua configurazione strutturale di base il sistema sanzionatorio penale ed amministrativo previgente, rimarcava la volontà di tutela del bene giuridico pubblicistico del genuino incrocio tra domanda ed offerta di lavoro. All’art. 10, rubricato “Norme sanzionatorie”, si disponeva, infatti, che continuava a trovare applicazione la l. n. 1369/1960, e in particolare l’ipotesi di reato di cui agli artt. 1 e 2 della medesima, nei confronti dell’impresa utilizzatrice che ricorresse alla fornitura di prestatori di lavoro dipendente da parte di soggetti diversi da quelli di cui all’art. 2 ovvero che violasse le disposizioni di cui all’art. 1, commi 2, 3, 4 e 5, nonché nei confronti dei soggetti che fornissero prestatori di lavoro dipendente senza essere iscritti all’albo di cui all’art. 2, comma 1. In aggiunta, il comma 4 dell’art. 10 disponeva che chi esigesse o comunque percepisse compensi da parte del
1110 e Cass.,12 aprile 2006, n.8530, in NGL, 2007, 15; Cass., 21 dicembre 2009, n. 26897, in RIDL, 2010, II, 718) che afferma che “Il giudice italiano che accerti l’assoluta incapacità del sistema di collocamento pubblico a soddisfare la domanda esistente sul mercato di lavoro deve disapplicare, in base alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee 11 dicembre 1997, in causa C-55/96, la normativa nazionale che […] rendeva comunque impossibile l’espletamento delle attività di collocamento da parte delle imprese private, prevedendo sanzioni penali e amministrative per la violazione di tale divieto”. In senso conforme Cass., 6 settembre 2003, n. 13054, in Mass., 2003 per la quale “qualora sia accertata la ricorrenza dei tre presupposti indicati dalla sentenza della Corte di giustizia 11 dicembre 1997, in causa C-55/96, […] è imposto al giudice italiano di disapplicare la normativa nazione sul divieto di mediazione privata e sul correlato divieto di assunzione non per il tramite degli uffici di collocamento, per violazione dei predetti articoli del trattato”. Conforme infine Cass., 15 marzo 2002, n. 384, in D&G, 2002, 14, 38). 22 Sul punto cfr. D’Imperio, Casi e questioni in materia di lavoro, in LG, 1998, 9, 748, per il quale nel settore agricolo l’introduzione del lavoro interinale avrebbe dovuto avvenire in via del tutto sperimentale e sotto il vigile controllo degli organi ispettivi, per prevenire fenomeni di caporalato ormai dilaganti nelle regioni meridionali.
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lavoratore per avviarlo a prestazioni di lavoro temporaneo fosse punito con la pena alternativa dell’arresto non superiore ad un anno e dell’ammenda da Lire 5.000.000 a Lire 12.000.00023. Quasi contemporaneamente, il d.lgs. 23 dicembre 1997, n. 469, che in concorso al “pacchetto Treu” definiva la possibilità di un collocamento privato previa autorizzazione da affiancare al sistema pubblicistico, il d.lgs. n. 467/1997, concernente la soppressione degli uffici periferici di collocamento del Ministero del Lavoro, con conseguente decentramento delle funzioni da essi svolte, nonchè la l. n. 608/1996, che comportava l’abolizione del nullaosta degli uffici di collocamento nelle procedure di avviamento al lavoro, compivano un altro passo verso una maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro. Con tali normative, infatti, cessavano di esistere le condizioni di fatto e di diritto del monopolio pubblico e di abuso di posizione dominante nell’intermediazione del lavoro che avevano giustificato la pronuncia della Corte di Giustizia sopra richiamata, pur tuttavia, rimanendo confermata la disciplina generale previgente nel suo complesso, ed in particolare la reazione penale dell’ordinamento rispetto a fenomeni di illecito esercizio delle attività predette24.
3. Il nuovo quadro sanzionatorio introdotto dal d.lgs. 10
settembre 2003, n. 276.
Il d.lgs. n. 276/2003, abrogando all’art. 85 le disposizioni di cui all’art. 27, l. n. 264/1949 (lett. a), l. n. 1369/1969 (lett. c), dell’art. 21, comma 3, l. n. 56/1987 (lett. d), degli articoli 9-bis, comma 3, e 9-quater, commi 4 e 18, quest’ultimo limitatamente alla violazione degli obblighi di comunicazione, del d.l. n. 510/1996, convertito con modificazioni dalla l. n. 608/1996 (lett. e), nonché, infine, degli articoli da 1 a 11, l. n. 19/1997 ridefinisce le fattispecie di reato sopra viste25, prevedendo in particolare l’ipotesi contravvenzionale di
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La continuità di disciplina trova conferma nella giurisprudenza, la quale in più occasioni esclude l’avvenuta abolitio criminis delle ipotesi contravvenzionali previste dalle ll. n. 264/1949 e n. 1369/1960 da parte della l. n. 196/1997. 24 Cfr. l’art. 10 l. n. 196/1997. Secondo Pret. di Milano, 23 giugno 1999, inoltre “l’introduzione della nuova disciplina in tema di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo non ha liberalizzato indiscriminatamente l’intermediazione delle prestazioni lavoro, ma ha disciplinato una particolare figura contrattuale ed un’attività sottoposta ad autorizzazione e connessa alla osservazione di specifici adempimenti. Il tenore letterale dell’art. 10 l. n. 196 del 1997, che stabilisce che nei confronti di chi violi il nuovo regime e di chi fornisca prestatori di lavoro dipendenti senza la regolare iscrizione all’albo continuano a trovare applicazione le sanzioni penali di cui alla l. n. 1369 del 1960, esclude la sussistenza di un’ipotesi di abrogazione implicita del divieto di intermediazione, confermando l’operatività delle relative sanzioni penali per l’inosservanza delle disposizioni che vietano l’intermediazione e l’interposizione nel mercato del lavoro”. 25 La riforma attuata dal d.lgs. n. 276/2003 conferma la scelta del tipo contravvenzionale nel determinare la struttura delle ipotesi di reato in materia, già adottata dalle ll. nn. 264/1949 e 1369/1960. Si intende prescindere in questa sede dall’analisi del dibattito dottrinale sulla natura sostanziale ovvero formale della distinzione tra delitto e contravvenzione. La dottrina maggioritaria propende per la tesi c.d. “formale”, sussistendo una diversità tra le due tipologie strutturali unicamente in virtù degli effetti formali ed in relazione all’applicazione di taluni istituti giuridici. In questo senso, deporrebbe altresì il dato normativo del codice penale stesso, ove esso dispone all’art. 39 che i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice. Cfr. per un approfondimento, ex plurimis, Ronco, Romano, Ardizzone, Sub art. 39, in
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esercizio non autorizzato dell’attività di intermediazione di cui all’art. 18, comma 1, terzo periodo, il reato di esercizio non autorizzato delle attività di ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale di cui all’art. 18, comma 1, quinto periodo, i reati di somministrazione non autorizzata di cui all’art. 18, comma 1, primo periodo, e di utilizzazione illecita di cui all’art. 18, comma 2, il reato di somministrazione fraudolenta di cui all’art. 2826, il reato di illecita imposizione di oneri in capo ai lavoratori di cui agli artt. 11 e 18, commi 4 e 4-bis, ed infine i reati di appalto e distacco illecito di cui all’art. 18, comma 5-bis e di appalto e distacco fraudolento di cui al citato art. 2827. Lo strumentario a disposizione del giudice penale appariva, tuttavia, modesto. In tal senso la mediazione non autorizzata e il c.d. pseudo-appalto di manodopera hanno continuato e continuano ad avere rilevanza penale, ma la costante previsione di mere fattispecie contravvenzionali si è rivelata insufficiente ad arginare le forme più gravi e sistematiche di sfruttamento del lavoro28. Il problema, nella prassi applicativa, è stato talvolta affrontato ricorrendo alla contestazione del reato di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), in grado però di intercettare solo quei fatti caratterizzati da un marcato sfruttamento della vittima e, dunque, inidoneo a fronteggiare compiutamente il fenomeno del caporalato; parimenti non risolutivo, ancorché per motivi diversi, si è rivelato il tentativo di ricondurre lo stesso fenomeno nell’alveo delle fattispecie di estorsione e di violenza privata29.
3.1.
Il reato di esercizio non autorizzato dell’attività di intermediazione (art. 18, comma 1, terzo periodo, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276).
In particolare l’art. 18, comma 1, terzo periodo, d.lgs. n. 276/2003, ha introdotto una ipotesi contravvenzionale che sanziona specificamente l’esercizio abusivo delle attività di cui all’articolo 4, comma 1, lettera c), ossia l’attività di intermediazione di lavoro non svolta dalle agenzie per il lavoro. Il reato in commento è finalizzato alla tutela di una molteplicità di beni giuridici, precisamente riguardanti il genuino incontro tra domanda ed offerta di lavoro, in una dimensione individuale, ma anche collettiva, con particolare attenzione alla salvaguardia delle categorie di lavoratori svantaggiati e disabili, con puntuale aderenza al disposto degli artt.
Ronco, Romano, Ardizzone, Codice penale ipertestuale, Giuffrè, 2012; Padovani, Il binomio irriducibile. La distinzione dei reati in delitti e contravvenzioni, in Marinucci, Dolcini (a cura di), Diritto penale in trasformazione, F. Angeli, 1985, 421; Padovani, Delitti e contravvenzioni, in Dig. Pen., III, Utet, 1989; Pisani, Contravvenzione, in Enc. Giur., IX, 1988; Vigna, Bellagamba, Le contravvenzioni nel codice penale, Giuffrè, 1974; Madeddu, Nuovi orientamenti sulla distinzione tra delitti e contravvenzioni, in GP, 2002, 5, 2, 257. 26 Ad oggi abrogato dal d.lgs. n. 81/2015 in considerazione delle grandi difficoltà applicative connesse alla sanzione. Cfr. sul punto Falasca, Manuale di diritto del lavoro, VII ed., 2016, 71. 27 Ad oggi abrogato – del pari della fattispecie del reato di somministrazione fraudolenta- ad opera del d.lgs. n. 81/2015 in considerazione delle grandi difficoltà applicative connesse alla sanzione. Cfr. sul punto FALASCA, op. cit., 72. 28 Cfr. Chiappi, Appalti illeciti, un fenomeno che cresce in maniera preoccupante, in http://lavoroeimpresa.com/2017/05/02. 29 Cfr. Fiorella, Responsabilità penale individuale e responsabilità penale degli enti, Giappichelli, 2012, 341. In giurisprudenza v. Cass. Pen., Sez. V, 20 gennaio 2016, n. 8639; Cass. Pen., 31 agosto 2010, n. 32525, in LG, 2010, n. 11, 1085, con nota di Piovesana, Commette estorsione l’imprenditore che impone ai lavoratori retribuzioni “fantasma” e dimissioni in bianco; Cass. pen., 5 ottobre 2007, n. 872, in LG, 2008, n. 2, 137, con nota di Piovesana, L’estorsione nel lavoro non è esclusa da un accordo.
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2, 3, 4, 35, 37 e 38 della Costituzione. In secondo luogo, protezione della persona del lavoratore inteso principalmente come colui che è in cerca di un lavoro, al quale il d.lgs. intende assicurare, in conformità degli articoli della Costituzione di cui sopra, la dovuta dignità e il corretto accesso alle opportunità occupazionali che il mercato del lavoro mette a disposizione. Dal punto di vista meramente strutturale, il reato è di natura contravvenzionale (per cui non è configurabile il tentativo) e soggetti attivi risultano essere gli “agenti di intermediazione”, ossia chiunque, costituito in forma societaria o meno, eserciti l’attività di intermediazione senza la dovuta autorizzazione e la successiva iscrizione all’Albo delle Agenzie per il lavoro. Ad integrare l’elemento soggettivo richiesto per il reato de quo è sufficiente la colpa, sebbene difficilmente configurabile nella prassi, non essendo necessaria una adesione partecipativa e consapevole (dolo generico o specifico) o anche solo eventuale (dolo eventuale) da parte del soggetto attivo30. Il reato in commento prevede altresì una circostanza attenuante ed una aggravante. Quanto alla prima, essa opera, invero difficilmente nella pratica, se non vi è scopo di lucro e comporta l’applicazione della sola ammenda da euro 500 a euro 2.500. Si tratta di una circostanza attenuante ad effetto speciale, poiché applica la diminuzione della pena dell’ammenda fino ad un terzo ed elimina la previsione dell’arresto fino a sei mesi, con ciò trasformando la pena in una di tipo diverso. Ai sensi dell’art. 59 c.p., infine, la circostanza attenuante opera obiettivamente, a prescindere dal fatto che l’autore del reato la conoscesse o per errore la ritenesse inesistente, unicamente laddove obiettivamente sia assente lo scopo di lucro31. Diversamente, una circostanza aggravante trova applicazione se vi è sfruttamento dei minori, e comporta la pena dell’arresto fino a diciotto mesi e l’aumento dell’ammenda fino al sestuplo. È infine disposta la confisca del mezzo di trasporto eventualmente adoperato per la realizzazione delle condotte criminose, in continuità con la normativa previgente di cui all’art. 27, l. n. 264/1949.
3.2.
Il reato di esercizio non autorizzato delle attività di ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale (art. 18, comma 1, quinto periodo, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276).
La versione originaria dell’apparato sanzionatorio del d.lgs. n. 276/2003, invero, non prevedeva un’ipotesi di reato a parte per l’esercizio non autorizzato delle attività di ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale, riconducendo la
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Romano, op. cit. 346. Sottolinea Rausei, in Illeciti e sanzioni – Il diritto sanzionatorio del lavoro, IPSOA, 2011, 66, come «in realtà un’attenta riflessione dovrebbe indirizzare l’indagine sull’assenza dello scopo di lucro non tanto in capo al soggetto agente, bensì all’ente agenzia di mediazione per il quale esso opera, destinatario primo e finale dell’interesse o vantaggio ricavabile dalla condotta illecita».
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pratica contra legem di tutte le attività di cui all’articolo 4 comma primo del decreto ad un’unica previsione sanzionatoria, salva la fattispecie speciale di abusiva, e poi non autorizzata, intermediazione di lavoro, di cui all’originario secondo periodo del primo comma della norma. Il d.lgs. n. 251/2004, facendo propria una critica avanzata da autorevole dottrina32, manifestava di ritenere incongrua la mancanza di una pena ad hoc per l’ipotesi di reato in commento, e prevedeva al quinto periodo del comma primo l’applicazione della pena della sola ammenda da euro 750 ad euro 3.750, mantenendo al successivo periodo del medesimo comma un’attenuante comune in caso di assenza di scopo di lucro comportante la diminuzione della pena ad un terzo, ossia da euro 250 ad euro 1.250. Soggetto attivo del reato è qualsiasi persona facente parte di agenzie deputate all’esercizio delle attività di ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale. Con riguardo alla condotta, le attività di ricerca e selezione del personale, come specificato all’articolo 2, comma 1, lettera c), d.lgs. n. 276/2003, consistono in “attività di consulenza, di consulenza di direzione finalizzata alla risoluzione di una specifica esigenza dell’organizzazione committente, attraverso l’individuazione di candidature idonee a ricoprire una o più posizioni lavorative in seno all’organizzazione medesima, su specifico incarico della stessa e comprensiva di: analisi del contesto organizzativo dell’organizzazione committente; individuazione e definizione delle esigenze della stessa; definizione del profilo di competenze e di capacità della candidatura ideale; pianificazione e realizzazione del programma di ricerca delle candidature attraverso una pluralità di canali di reclutamento; valutazione delle candidature individuate attraverso appropriati strumenti selettivi; formazione della rosa di candidature maggiormente idonee; progettazione ed erogazione di attività formative finalizzate all’inserimento lavorativo; assistenza nella fase di inserimento dei candidati; verifica e valutazione dell’inserimento e del potenziale dei candidati”. Le attività di supporto alla ricollocazione professionale sono invece individuate alla successiva lettera d), come “l’attività esercitata su specifico ed esclusivo incarico dell’organizzazione committente, anche in base ad accordi sindacali, finalizzata alla ricollocazione nel mercato del lavoro di prestatori di lavoro, singolarmente o collettivamente considerati, attraverso la preparazione, la formazione finalizzata all’inserimento lavorativo, l’accompagnamento della persona e l’affiancamento della stessa nell’inserimento nella nuova attività”. Si tratta di attività che si pongono in una fase chiaramente anteriore all’occupazione dei candidati, per la ricerca e la selezione del personale, e alla ricollocazione dei prestatori di lavoro da reinserire, per il supporto alla ricollocazione professionale, tuttavia non per ciò è possibile escludere un concorso formale di reato per le seguenti fattispecie.
32
Cfr. Rausei, op. cit., il quale sosteneva l’inadeguatezza dell’apparato edittale originario dell’art. 18 comma 1 primo periodo ad adattarsi alle condotte di ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale, non apparendo opportuno applicare una pena calcolata sulla base del numero dei lavoratori occupate e delle giornate di lavoro ad una condotta che veniva a collocarsi ex se in un momento antecedente alla costituzione del rapporto di lavoro stesso, ossia, come l’attività di intermediazione, nella fase di inserimento all’attività lavorativa.
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3.3.
I reati di somministrazione non autorizzata e di utilizzazione illecita (art. 18, comma 1, primo periodo, e comma 2, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276).
In sostituzione delle previgenti disposizioni della l. n. 196/1997 e prima di essa della l. n. 1369/1960, il decreto Biagi introduce tre fattispecie di reato, o due, se si aderisce alla tesi del reato composto formato da somministrazione e utilizzazione non autorizzate, ed una fattispecie di illecito amministrativo, per sanzionare l’attività di somministrazione di lavoro contra legem. L’apparato sanzionatorio in materia di somministrazione di lavoro poggia, come nel caso dei reati di attività di intermediazione non autorizzata e non autorizzata attività di ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale, su un rinvio al Titolo I del decreto legislativo, recante ad oggetto “Disposizioni generali”, e in particolare all’art. 2, contenente al comma 1, lettera a), la definizione di “contratto di somministrazione di lavoro”, indicato come il contratto avente ad oggetto la fornitura professionale di manodopera, a tempo indeterminato o a termine, ai sensi dell’art. 20. Nell’ipotesi originaria, il reato di cui all’articolo 18, comma 1, primo periodo, e quello di cui al comma 2 del medesimo articolo, punivano rispettivamente l’esercizio non autorizzato dell’attività di somministrazione di manodopera e l’utilizzazione della manodopera somministrata illecitamente, con la pena dell’ammenda di euro 5 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. Il quadro edittale era decisamente arretrato, dal sapore antiquato, poiché la sanzione equivaleva quantitativamente all’ammenda di Lire 10.000. Superate alcune incoerenze redazionali, il d.lgs. n. 251/2004 ha tuttavia posto rimedio alla situazione, innalzando il quantum edittale, prevedendo l’ammenda di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. Taluna dottrina33 ha avanzato la tesi per la quale tali ipotesi di reato concorrerebbero a formare un reato “composto”, destinato alla repressione di due momenti dello stesso fenomeno criminoso, che pertanto insorgono necessariamente in maniera simultanea. L’elemento soggettivo può consistere ora nel dolo ora nella semplice colpa, sebbene difficilmente somministratore ed utilizzatore nella prassi potranno provare di non aver aderito neppure nella forma del dolo eventuale agli elementi di fatto della condotta criminosa34.
3.4. I reati di appalto e distacco illecito (art. 18, comma 5-bis d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276).
L’articolo 4 del d.lgs. n. 251/2004 ha aggiunto il comma 5-bis dell’art. 18, d.lgs. n. 276/2003 prevedendo che “nei casi di appalto privo dei requisiti di cui all’articolo 29, comma 1, e di distacco privo dei requisiti di cui all’articolo 30, comma 1, l’utilizzatore
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Cfr. Rausei, op. cit., 814; Rausei, Somministrazione illegittima e sanzioni, in Guida alle paghe – Il Sole 24 ore, 2008, 1, 32. Formica, La tutela penale del mercato del lavoro, op cit., 207.
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e il somministratore sono puniti con la pena dell’ammenda di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione. Se è sfruttamento dei minori, la pena è dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo”. L’intervento correttivo del legislatore ha portato ad un esito conclusivo il problema di diritto intertemporale inerente all’avvenuta depenalizzazione dell’interposizione derivante da uno pseudo-appalto, previamente sanzionata dagli art. 1 e 2, l. n. 1369/1960 e non più richiamata espressamente dalla versione originaria del d.lgs. n. 276/2003. La portata di tale quaestio appariva invero già risolta dal decreto legislativo in commento nella sua versione originaria, poiché lo pseudo-appalto giungeva a configurare un’ipotesi ora di intermediazione non autorizzata, punita ai sensi dell’art. 18, comma 1, terzo periodo, ora di somministrazione non autorizzata, sanzionata al primo periodo del comma 1 dell’articolo medesimo. L’art. 4 del decreto correttivo, pertanto, ha semplicemente esplicitato dei contenuti ormai patrimonio comune del legislatore35 e della giurisprudenza36, non dando vita ad una nuova fattispecie di reato, bensì chiarendo e riformulando dei contenuti già espressi37. Il reato si configura quando è posto in essere un contratto di appalto non genuino, mancante dei requisiti legali di validità di cui all’art. 1655 c.c. e all’art. 29, d.lgs. n. 276/ 2003, e in particolare di un effettivo esercizio dei poteri direttivi e di organizzazione dei mezzi e dei lavoratori da parte dell’appaltatore, nonché dell’assunzione da parte del medesimo del rischio d’impresa38. È, altresì, necessaria per la configurazione del reato l’effettiva e concreta utilizzazione delle prestazioni lavorative da parte dell’impresa appaltante. Il reato è punibile indifferentemente a titolo di dolo o di colpa, sebbene quest’ultima difficilmente configurabile nella prassi39. La pena ricalca con esattezza il quadro edittale previsto per il reato di somministrazione non autorizzata di cui all’art. 18, comma 1, primo periodo, d.lgs. n. 276/2003, e ciò a riprova del fatto che il comma 5-bis dell’articolo in commento ha esplicitato un’illiceità già prima riconducibile all’ipotesi dell’interposizione fittizia contra legem del primo periodo del comma 1. Per quel che riguarda il reato di distacco illecito, sanzionato egualmente ai sensi dell’art. 18, comma 5-bis, d.lgs. n. 276/2003, esso si configura quando è posto in essere un distacco fittizio, in realtà risolventesi in una mera fornitura di prestatori di lavoro, in violazione delle disposizioni di cui al d.lgs. Biagi. Valgono a tal proposito le considerazioni svolte poco sopra con riguardo al reato di appalto illecito, che evidenziavano il ruolo meramente
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Cfr. sul punto Ministero del Lavoro, Circolare 21 febbraio 2005, n. 7, la quale precisa che “le ipotesi di appalto e distacco fuori dai limiti di cui agli artt. 29 e 30 integrano una ipotesi di somministrazione senza autorizzazione e quindi irregolare, riconoscendo pertanto in capo al lavoratore il diritto di agire in giudizio ex art. 414 c.p.c. domandando una sentenza costitutiva del rapporto di lavoro nei confronti dell’utilizzatore con effetto sin dall’inizio della somministrazione”. 36 Cfr. Cass. pen., sez. III, 3 aprile 2004, n. 2583, che afferma che «stante una chiara opzione non formalista del legislatore nella materia, per cui i contratti valgono per il loro contenuto effettivo e non per il nomen iuris loro assegnato, ogni volta che un imprenditore utilizzi prestazioni di lavoratori forniti da altri”, e quindi anche nelle forme dell’appalto e del distacco, “assumendosi però l’organizzazione dei mezzi, la direzione dei lavoratori e il rischio d’impresa, si concretizza una somministrazione di manodopera, che resta vietata e penalmente sanzionata se priva dei requisiti soggettivi e oggettivi prescritti dalla nuova legge». 37 Cfr. Rausei, Illeciti e sanzioni, op. cit., 878. 38 Cfr. in questo senso Cass. pen., sez. III, 6 novembre 2012, n. 2334. 39 Cfr. Rausei, Illeciti e sanzioni, op. cit., 880.
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chiarificatore del comma 5-bis, stante la già previgente punibilità delle condotte di appalto illecito e in questo caso anche di distacco contra legem. La condotta consiste in particolare nel realizzare un distacco definitivo e ad interesse prevalente del distaccatario e non temporaneo e ad interesse del distaccante, come invece nel distacco lecito professionale. In secondo luogo, mentre il distacco lecito consiste in definitiva in un’espressione del potere organizzativo del datore di lavoro distaccante, che modifica le modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, nel distacco illecito potere organizzativo, disciplinare e direttivo sono esercitati da parte del committente distaccatario, con ciò svuotandone il legittimo detentore. Nel distacco illecito, infine, vengono meno i caratteri tipici del distacco lecito di estraneità del lavoratore all’organizzazione aziendale del distaccatario, nella quale invero si trova inserito in maniera stabile e definitiva40. Quanto al quadro sanzionatorio previsto, valgono le considerazioni svolte in precedenza per il reato di appalto illecito.
4. Le misure dell’Unione Europea contro il caporalato e
lo sfruttamento del lavoro degli stranieri: in particolare la Direttiva 2009/52/CE.
A questo punto, appare opportuno esaminare i provvedimenti adottati dall’Unione Europea in materia di contrasto al “caporalato” e allo sfruttamento del lavoro degli stranieri. Con la Dir. 2009/52/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, emanata il 18 giugno 2009 e recepita in Italia dal d.lgs. n. 109/201241, il legislatore europeo individua la fonte del problema dello sfruttamento dei lavoratori migranti extracomunitari in Europa, non solo nel fatto in sé dello sfruttamento medesimo, ma nella possibilità, per gli stessi, di trovare lavoro senza il rispetto dei requisiti di ingresso e permanenza regolare nel territorio nazionale, e, in generale, dei vincoli di legge imposti dall’ordinamento ai migranti42. Di tal che, la direzione indicata ai singoli legislatori degli Stai membri dalla direttiva in commento, vuole essere quella di prevedere un divieto generale di assunzione dei cittadini di paesi
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Cfr. sul punto Cass. pen., sez. III, 29 ottobre 2009, n. 47006 in GP, 3, 2009, 331, per la quale «è configurabile il reato di distacco illecito nel caso in cui il lavoratore sia distaccato presso altro soggetto in mancanza di un interesse proprio del datore di lavoro distaccante». La sentenza riguarda il caso di due maestre di scuola materna che erano state assunte dal titolare di una cooperativa, con cui non avevano alcun rapporto di lavoro, esclusivamente per essere distaccate presso un asilo infantile. Ancora, in senso conforme, cfr. Cass. pen., sez. III, 10 giugno 2009, n. 38919, in GP, 3, 2009, 244, per cui il reato de quo è integrato dal distacco di un dipendente presso altra impresa perché esegua la propria prestazione lavorativa in favore di quest’ultima, senza che esista un rilevante interesse del datore di lavoro che disposto il distacco. Tale condotta, precisa la corte, era già vietata dall’abrogata l. n. 1369/1960 agli artt. 1 e 2. Cfr. anche Cass., 23 aprile 2009, n. 9694, Cass., 2 settembre 2004, n. 17748, in Mass. Cass. pen., 2004, 54. 41 Cfr. anche la Dir. 2009/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, emanata il 25 maggio 2009, concernente norme minime sulle condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini di paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati, recepita ed attuata in Italia dal d.lgs. n. 108/2012. 42 Cfr. sul punto il Considerando n. 2, per cui la possibilità di trovare lavoro pur non avendo lo status giuridico richiesto è un fattore fondamentale di richiamo dell’immigrazione illegale nell’Unione europea, ed è quindi opportuno che l’azione contro l’immigrazione e il soggiorno illegali comporti misure per contrastare tale fattore di richiamo.
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terzi43 non autorizzati a soggiornare nell’Unione europea accompagnato da sanzioni44 nei confronti dei datori di lavoro che lo violano (Considerando n. 4), datori essi stessi in primo luogo tenuti a verificare la genuinità e la regolarità dell’ingresso e della permanenza nel territorio europeo dei migranti (Considerando n. 9). Le sanzioni adottande devono essere in primo luogo di carattere finanziario, proporzionali al numero dei cittadini di paesi terzi assunti illegalmente (art. 5 par. 2 lett. a), comprendenti il pagamento dei costi medi di rimpatrio degli stessi (lett.b), nonché ridotte in caso di impiego da parte di datori di lavoro a fini privati e ove congiuntamente non sussistano condizioni lavorative di particolare sfruttamento (art. 5 par. 3). Parallelamente, sotto il profilo sanzionatorio gli Stati membri devono adottare dei provvedimenti che escludano i datori di lavoro responsabili dei comportamenti incriminati dal benefici di alcune o tutte le prestazioni, sovvenzioni o aiuti pubblici, compresi i fondi dell’Unione europea gestiti dagli Stati membri, per un periodo fino a cinque anni (art. 7 par. 1 lett. a), nonché dalla partecipazione ad appalti pubblici definiti nella Dir. 2004/18/ CE del Parlamento europeo e del Consiglio, per un periodo anche qui fino a cinque anni (lett. b); infine l’esclusione deve avvenire anche nei confronti del rimborso di alcune o di tutte le prestazioni, sovvenzioni o aiuti pubblici, inclusi i fondi dell’Unione europea gestiti dagli Stati membri, concessi al datore di lavoro fino a dodici mesi prima della constatazione dell’assunzione illegale (lett. c). La direttiva impone, altresì, come poc’anzi affermato, l’introduzione di sanzioni di carattere penale, e nello specifico stabilisce il livello minimo di tutela, richiedendo agli Stati membri di garantire la punibilità delle violazioni in materia di assunzioni irregolari, ove intenzionali, proseguite ovvero reiterate in modo persistente, aventi ad oggetto l’impiego simultaneo di un numero significativo di cittadini di paesi terzi irregolarmente soggiornati, accompagnate da condizioni lavorative di particolare sfruttamento, concernenti l’assunzione illegale di un minore, ovvero infine perpetrate da un datore di lavoro che, ricorre al lavoro o ai servizi di un cittadino di un paese terzo, il cui soggiorno è irregolare, nella consapevolezza che lo stesso è vittima della tratta di esseri umani (art. 9). Sono fatte salve altre sanzioni o misure di natura non penale, come ad esempio la pubblicazione della decisione giudiziaria pertinente al caso (art.10). La Dir. 2009/52/CE contiene, infine, delle indicazioni in merito alle sanzioni da comminare alle persone giuridiche, ritenute responsabili dei reati de quibus.
43
L’art. 2 lett. a) della Direttiva in commento definisce “cittadino di un paese terzo” chiunque non sia cittadino dell’Unione ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 1 del trattato, né un beneficiario del diritto comunitario alla libera circolazione, quale definito all’articolo 2, paragrafo 5 del codice frontiere Schengen. Analogamente, alla lett. b) è definito “cittadino di un paese terzo il cui soggiorno è irregolare” un cittadino di un paese terzo presente nel territorio di uno stato membro che non soddisfi o non soddisfi più le condizioni di soggiorno o di residenza in tale Stato membro; infine, alla lett. d) è definito come “lavoro illegale” l’impiego di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno è irregolare. 44 In particolare, secondo i Considerando n. 13 e n. 18, tali sanzioni devono consistere comprendere oltre che disposizioni penali ed amministrative, anche i contributi ai costi del rimpatrio dei cittadini irregolari, nonché l’esclusione da taluni benefici o sovvenzioni o aiuti pubblici o dalle procedure di appalti pubblici o dal rimborso di prestazioni, compresi i fondi dell’Unione europea gestiti dagli Stati membri. Centrale rimane comunque il ruolo delle sanzioni penali, poiché l’esperienza ha mostrato che i sistemi di sanzioni esistenti si sono rivelati insufficienti, poiché le sole sanzioni amministrative non sono un deterrente abbastanza forte per certi datori di lavoro senza scrupoli (Considerando n. 22).
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La prescrizione, tuttavia, è meramente facoltativa, poiché, ai sensi del Considerando n. 25, gli Stati membri non sono obbligati ad introdurre la responsabilità penale delle persone giuridiche45. In ogni caso, ove prevista, tale responsabilità degli enti deve sussistere ove il fatto è stato commesso a loro vantaggio da qualsiasi soggetto che, agendo a titolo individuale o in quanto parte di un organo della persona giuridica, detenga una posizione preminente in seno alla persona giuridica in virtù del potere di rappresentanza della persona giuridica, dell’autorità di prendere decisioni per conto della persona giuridica, oppure dell’autorità di esercitare un controllo in seno alla stessa (art. 11 par. 1). In ogni caso, precisa la Direttiva, la responsabilità della persona giuridica, determinata secondo i criteri predetti, non esclude la comminatoria di sanzioni penali nei confronti delle singole persone fisiche responsabili dei reati medesimi (art. 11 par. 3). Da notare, in ultima analisi, la predisposizione di meccanismi incentivanti ed agevolanti la denuncia delle condotte criminose da parte dei lavoratori stranieri vittime delle stesse, per cui al Considerando n. 26, tali strumenti debbono riguardare sia le denunce presentate personalmente, sia quelle effettuate per il tramite di terzi come i sindacati o altre associazioni46. Analogamente, il Considerando n. 27 esprime l’opportunità che gli Stati membri rilascino permessi di soggiorno di durata limitata, commisurata a quella dei relativi procedimenti nazionali, ai cittadini di paesi terzi che sono stati oggetto di condizioni lavorative di particolare sfruttamento o sono stati minori assunti illegalmente e che cooperano nei procedimenti penali nei confronti dei datori di lavoro, conformemente ai permessi similarmente concessi ai migranti in merito ai reati di tratta di esseri umani.
5. Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del
lavoro (art. 603-bis c.p.).
Non era, pertanto, più differibile, la previsione di un intervento legislativo che arrivasse a contrastare, senza ulteriori indugi il grave fenomeno del “caporalato”. Il legislatore, così, è intervenuto introducendo la nuova fattispecie penale dell’art. 603-bis c.p47, riconoscendo l’esistenza di una lacuna nel sistema repressivo delle distorsioni del mercato del lavoro ed
45
Attuazione avvenuta in Italia solo con la l. n. 199/2016. Soggetti terzi che, ai sensi dell’articolo 13 par. 2 della Direttiva sono titolari di un interesse legittimo a garantire che la predetta direttiva sia rispettata, e perciò possono, per conto o a sostegno di un cittadino di un paese terzo assunto illegalmente, e con il suo consenso, avviare tutte le procedure amministrative o civili previste ai fini dell’applicazione della direttiva. È precisato inoltre al successivo par. 3 che l’assistenza fornita da tali soggetti terzi ai migranti non è considerabile favoreggiamento del soggiorno illegale degli stessi. 47 L’art. è inserito dall’art. 12, d.l. n. 138/2011, convertito dalla l. n. 148/2011. In dottrina, v. Miscione, Caporalato e sfruttamento del lavoro, in LG, 2017, 2, 115; De Bonis, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (diretto da), Trattato di diritto penale. Diritto penale del lavoro, Giappichelli, 2015, 536; Di Martino, Caporalato e repressione penale: appunti su una correlazione (troppo) scontata, in Dir. pen. contemp., 2015, 16; Bricchetti, Pistorelli, “Caporalato”: per il nuovo reato pene fino a 8 anni, in GLav, 2011, 35, 50. 46
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individuando la mancanza di un’incriminazione in grado di intercettare quei comportamenti che non si risolvono nella mera violazione delle regole poste dal d.lgs. n. 276/200348. La norma, nella versione ante l. n. 199/2016, puniva, “salvo che il fatto costituisca più grave reato“, chiunque svolgesse un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori. Il reato di cui all’art. 603-bis c.p. era pertanto configurabile solo nel caso in cui la condotta vietata fosse posta in essere in forma “organizzata”. È, dunque, evidente che non avrebbe potuto essere penalmente perseguibile il “caporale” che avesse svolto in proprio l’attività illecita, senza alcuna organizzazione, situazione, peraltro, più ipotetica che reale, considerato che, di regola, chi svolge tali attività illecite «dipende» da un’organizzazione criminale. Invero, un primo dubbio interpretativo riguardo la formulazione della norma poteva, innanzitutto, porsi laddove il legislatore faceva riferimento alla nozione di “organizzazione” dell’attività di intermediazione, con tutte le ambiguità che ne derivano. A parere di chi scrive, l’espressione “attività organizzata” di intermediazione evoca l’esercizio non occasionale della suddetta attività attraverso l’impiego di mezzi necessari atti a garantirne l’effettività. L’organizzazione, ai fini della perseguibilità penale dei fatti, avrebbe potuto essere anche rudimentale, purché idonea per la realizzazione delle attività criminose contemplate dalla nuova fattispecie penale. È, dunque, evidente l’intenzione del legislatore di colpire le organizzazioni criminali che si arricchiscono con il business del caporalato e di restringere l’ambito applicativo dell’incriminazione nella preoccupazione che la nuova fattispecie potesse prestarsi ad interpretazioni estensive che trascendessero l’effettivo obiettivo di tutela prefissato. Una seconda criticità riguardava la nozione di “sfruttamento” della manodopera. Il legislatore non si è preoccupato affatto di definire tale aspetto, sicché è utile richiamare l’etimologia del termine: l’approfittare senza scrupoli di altre persone per il proprio utile49. Altri aspetti rimasti inesplorati dal legislatore hanno riguardato i concetti di violenza, minaccia ed intimidazione, che potevano ricorrere alternativamente, e quello di approfittamento dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, individuato in un apposito ed autonomo inciso della norma. Come noto, il requisito della “violenza” si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente il lavoratore della libertà di determinazione e di azione, ben potendo trattarsi di violenza fisica, propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima
48
Come anticipato, fino all’introduzione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro avvenuto solo nel 2011, la giurisprudenza cercava di far rientrare tali condotte offensive entro il solco dei reati di riduzione in schiavitù e di estorsione o violenza privata, potendo, così, intercettare, tuttavia, solo le condotte più evidenti e dovendo cedere il passo a quelle forme di violenza e sfruttamento meno evidenti e più subdole ma, proprio per questo, ancor più gravi. 49 Da il Sabatini, Coletti, Dizionario della Lingua Italiana, edizione on line: http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/S/ sfruttamento.shtml.
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o di violenza impropria che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà del lavoratore impedendone la libera determinazione50. Quanto, poi, al requisito della “minaccia”, la condotta minatoria necessaria ad integrare l’elemento oggettivo della fattispecie penale de qua poteva consistere, in generale, in qualsiasi comportamento deciso, perentorio e univoco dell’agente che fosse astrattamente idoneo a produrre l’effetto di turbare o diminuire la libertà psichica e morale del lavoratore sfruttato51. Infine, quanto al concetto di “intimidazione”, un utile parametro normativo di riferimento può essere costituito dalla nozione contemplata dall’art. 416-bis c.p.52, sicché l’intimidazione contemplata dall’art. 603-bis c.p. risultava dalla capacità di suscitare terrore scaturente dall’esercizio dell’attività illecita in forma organizzata, che, pertanto, dev’essere dotata di specifica potenzialità atta a ingenerare uno stato di sudditanza psicologica, indipendentemente dal compimento di particolari atti di violenza o minaccia, posto che l’effetto intimidatorio fa parte di qualsiasi attività criminosa svolta in forma organizzata53. Da ultimo, a completamento degli elementi oggettivi normativamente richiesti per la configurabilità dell’illecito penale in commento, era altresì necessario che l’attività illecita descritta fosse svolta «approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori», dovendosi intendere per stato di necessità qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale: in altri termini, la nozione di stato di bisogno o di necessità coincide con la definizione di “posizione di vulnerabilità” indicata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani, alla quale la l. n. 228/2003 ha voluto dare attuazione54. Quanto, poi, alla definizione dello stato di “approfittamento” dei lavoratori, la nozione richiama alla mente il ben noto delitto di usura. In tal senso, mutuando l’esegesi operata dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento al delitto di cui all’art. 644 c.p., esso deve intendersi quale esigenza impellente che, limitando la volontà del lavoratore, lo induca ad accettare lo svolgimento di una prestazione lavorativa sottopagata o, comunque, in condizioni lavorative deteriori rispetto a quelle di mercato, in condizioni di sfruttamento55.
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Fiandaca, Musco, Diritto penale, parte speciale, Zanichelli, 2015, 632. Fiandaca, Musco, op. cit. 634. 52 In questo senso v. Giuliani, I reati in materia di caporalato, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, CEDAM, 2015, 55. 53 V., ad esempio, per il requisito della forza intimidatrice nel delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, Cass. pen., sez. I, 15 dicembre 1986, n.17463, in RIDPP, 2, 974. 54 Recante “Misure contro la tratta di persone”, pubblicata sulla G.U. n. 195 del 23 agosto 2003. 55 Cfr. ex plurimis, per la nozione di stato bisogno con riferimento al delitto di usura, Cass. pen., sez. II, 10 dicembre 2010, n. 43713, in RIDPP 248. 51
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6. La l. 29 ottobre 2016, n. 199. Con la l. n. 199/2016 recante “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”, sono state introdotte nell’ordinamento nuove misure destinate a colpire con maggior rigore il fenomeno del caporalato. In particolare, le principali novità del provvedimento possono riassumersi come di seguito: 1) modifica dell’articolo 603-bis c.p. – (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro). La nuova norma non modifica affatto l’impianto fondamentale della fattispecie, ma va a meglio identificare gli aspetti critici della precedente, aumentandone, altresì, il rigore sanzionatorio56. È così, attualmente, prevista la pena della reclusione da 1 a 6 anni e della multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, nei confronti di chiunque recluti manodopera, allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; ovvero, chiunque utilizzi, assuma o impieghi manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui sopra, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Lo sfruttamento dello stato di bisogno assurge, dunque, ad elemento caratteristico della condotta criminosa, sia che ciò avvenga per tramite del caporale che trasporta i lavoratori dai punti di ritrovo, fino ai luoghi di raccolta, pretendendo per il servizio la ricompensa dal lavoratore, sia senza l’intermediazione illecita del caporale, ma direttamente dal datore di lavoro che sfrutti lo stato di bisogno della manodopera. La nuova legge, poi, al fine di circoscrivere le ambiguità interpretative della nozione di “sfruttamento” stabilisce che costituiscono, alternativamente, indice di sfruttamento, la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni: i. reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; ii. reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; iii. sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; iv. sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Costituiscono, poi, aggravanti specifiche, che comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà, il fatto che il numero dei lavoratori reclutati sia superiore a tre; che uno o
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Miscione, op.cit.,116.
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più soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa, l’aver commesso il reato esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro. Come si evince, dunque, non è più richiesto che il lavoratore sia “in nero”57, ben potendo essere stato assunto regolarmente da un datore di lavoro che si approfitti del suo stato di bisogno. Lo spettro di azione è, dunque, rappresentato da tutti i luoghi dove il lavoratore si trovi in stato di bisogno e vi sia sfruttamento di tale condizione di debolezza58; 2) modifica dell’art. 380 c.p.p. con previsione dell’arresto obbligatorio in caso di flagranza di reato (e non più facoltativo come in precedenza); 3) introduzione dei numeri 1. e 2. all’art. 603-bis c.p. che comporta l’applicazione di un’attenuante da un terzo ai due terzi della pena in caso di collaborazione con le autorità giudiziaria o di polizia; 4) rafforzamento dell’istituto della confisca dei beni che sono serviti o sono stati destinati a commettere il reato, e, delle cose che ne costituiscono il prezzo, il prodotto od il profitto, che può essere disposta anche per equivalente, allorquando non sia possibile soddisfarsi sui beni di cui il reo ha la disponibilità; 5) inclusione del reato di “caporalato” trai i cc.dd. reati presupposto, ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, per la responsabilità amministrativa dell’ente, con una sanzione pecuniaria prevista da 400 a 1.000 quote (l’importo di una quota varia da un minimo di 258 a un massimo di 1.549 euro); 6) adozione di misure cautelari relative all’azienda in cui è commesso il reato (c.d. controllo giudiziario dell’azienda). Nello specifico qualora ricorrano i presupposti indicati nel comma 1 dell’articolo 321 c.p.p.59, il giudice dispone, in luogo del sequestro, il controllo giudiziario dell’azienda presso cui è stato commesso il reato, qualora l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale. L’amministratore giudiziario affianca l’imprenditore nella gestione dell’azienda ed autorizza lo svolgimento degli atti di amministrazione utili all’impresa, riferendo periodicamente al giudice. Infine, egli è deputato al controllo del rispetto delle norme e delle condizioni lavorative la cui violazione costituisce, ai sensi dell’articolo 603-bis c.p. indice di sfruttamento lavorativo, procede alla regolarizzazione dei lavoratori che al momento dell’avvio del proce-
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Ovviamente, qualora il lavoratore sia impiegato “in nero” si rende applicabile anche la c.d. maxi-sanzione di cui all’art.3, comma 3, d.l. n. 12/2002, conv. dalla l. n. 73/2002 e s.m.i., che va a punire la specifica violazione amministrativa che costituisce comportamento diverso rispetto all’ipotesi di caporalato che la l. n. 199/2016 sanziona. 58 Cfr. Gheido, Casotti, Le nuove disposizioni contro il caporalato, DPL, 47, 2016, 2813. 59 Art. 321 – Oggetto del sequestro preventivo: “Quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a richiesta del pubblico ministero il giudice competente a pronunciarsi nel merito ne dispone il sequestro con decreto motivato. Prima dell’esercizio dell’azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari”.
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dimento per i reati previsti dall’articolo 603-bis prestavano la propria attività lavorativa in assenza di un regolare contratto e, al fine di impedire che le violazioni si ripetano, adotta adeguate misure anche in difformità da quelle proposte dall’imprenditore o dal gestore, per evitare che si verifichino ulteriori situazioni di sfruttamento lavorativo; 7) si prevede, poi, l’estensione alle vittime del caporalato delle provvidenze del Fondo anti-tratta. Tale fondo, operativo dal 2000 e coordinato dal Dipartimento per le pari Opportunità, garantisce assistenza, ai sensi dell’art. 13 della legge 228/2003, alle presunte vittime di tratta e a quelle già identificate come tali, per un periodo minimo di tre mesi, prorogabile di altri tre. Le persone prese in carico da enti pubblici o del privato sociale hanno diritto ad adeguate condizioni di alloggio, di vitto e di assistenza sanitaria. Al termine di questo periodo, i beneficiari potranno, comunque, fruire, ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. n. 286/1998, di una serie di ulteriori servizi ed attività quali accoglienza residenziale, counselling psicologico, assistenza legale, mediazione linguistico-culturale, accompagnamento ai servizi socio-sanitari, formazione professionale, supporto nella ricerca del lavoro, per un periodo di 12 mesi; 8) potenziamento della Rete del lavoro agricolo di qualità, cui possono aderire attraverso apposite convenzioni, gli sportelli unici per l’immigrazione, le istituzioni locali, i centri per l’impiego, nonché i consorzi tra aziende agricole in funzione di strumento di controllo e prevenzione del “lavoro nero” in agricoltura. Attraverso il potenziamento della Rete si potrà finalmente attestare il percorso delle verifiche effettuate dagli enti competenti, individuando e valorizzando le aziende che risultino essere in regola con le leggi ed i contratti di lavoro60; 9) graduale riallineamento delle retribuzioni nel settore agricolo, che potrà avvenire anche solo tramite contratto aziendale, purché l’accordo di recepimento dell’accordo provinciale di riallineamento venga sottoscritto dalle stesse parti che hanno stipulato quell’accordo.
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A tal proposito, sembra utile ricordare che già lo scorso 27 maggio 2016 i Ministri dell’Interno, del Lavoro e delle Politiche agricole hanno firmato il “Protocollo contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura”. Il Protocollo si prefigge di consolidare la “Rete del lavoro agricolo di qualità” per mettere in atto iniziative volte alla realizzazione di progetti concreti contro il fenomeno del “caporalato” e il miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Le principali linee di intervento del Protocollo riguardano: stipula di convenzioni per l’introduzione del servizio di trasporto gratuito per i lavoratori agricoli che copra l’itinerario casa/lavoro; istituzione di presidi medico-sanitari mobili per assicurare interventi di primo soccorso; bandi per promuovere l’ospitalità dei lavoratori stagionali in condizioni dignitose per contrastare la nascita o il perdurare di ghetti. Alle previsioni contenute nel Codice penale, dunque, si accompagnano interventi di ampio respiro – che coinvolgono un gran numero di istituzioni, organizzazioni ed associazioni – non prettamente normativi, ma in ogni caso rivolti a contrastare la piaga del “caporalato”.
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7. Considerazioni conclusive. Il fenomeno del “caporalato” è stato oggetto nel corso degli ultimi decenni di una disciplina diversificata, ora come ipotesi di reato di natura contravvenzionale, ora, viceversa, come fattispecie delittuose. In un primo momento, fu predisposto un apparato sanzionatorio di tipo contravvenzionale: gli artt. 27, l. n. 264/1949, e 1, l. n. 1369/1960, punivano l’esercizio abusivo delle attività di intermediazione e interposizione nei rapporti di lavoro, al di fuori dei rigidi requisiti imposti dalla legge. Le testé citate disposizioni legislative non costituivano, tuttavia, un corpus normativo che disciplinasse ad hoc il fenomeno del “caporalato”, che rientrava, invero, nell’area del penalmente rilevante unicamente laddove si manifestava tramite la pratica abusiva delle attività di intermediazione e somministrazione di lavoro, così come disciplinate dalle norme anzidette. Per molti decenni, quello del “caporalato” fu un fenomeno che dovette adattarsi a fatica alla rigidità delle varie fattispecie astratte di volta in volta previste, senza, tuttavia, riuscire ad essere ricompreso totalmente in alcuna di esse. Il compito di colmare la lacuna normativa dovuta alla mancanza di una previsione specificamente dedicata al “caporalato” veniva perciò delegato dal legislatore all’interprete, tuttavia al prezzo di uno scarso rendimento in termini di tutela dei valori offesi e di contrasto al fenomeno. Il quadro sanzionatorio rimase sostanzialmente invariato, sotto il profilo della tutela dei beni giuridici coinvolti, anche a seguito delle riforme attuate dalla l. n. 196/1997, comportante l’introduzione del contratto di lavoro interinale, nonché del d.lgs., n. 276/2003. Quest’ultimo riformulava il novero delle ipotesi di reato, prevedendo, in luogo delle precedenti, i reati di esercizio non autorizzato dell’attività di intermediazione di manodopera, esercizio non autorizzato dell’attività di somministrazione di manodopera e utilizzazione illecita, esercizio non autorizzato delle attività di ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale, di somministrazione fraudolenta ed infine di appalto e distacco illeciti e fraudolenti. Si trattò di una revisione generale delle precedenti contravvenzioni e fu attuata esplicitando maggiormente le condotte incriminate, pur mantenendone comunque immutata l’impostazione di fondo, tant’è vero che la giurisprudenza di legittimità ebbe a discorrere in termini di continuità normativa (abrogatio sine abolitione) tra le leggi del 1949 e del 1960 e il decreto legislativo in commento61. Nondimeno, la mancata previsione di uno specifico delitto di “caporalato”, che avrebbe potuto apparire esclusivamente come frutto di un lassismo del legislatore, tuttavia, ad un’analisi più approfondita, affondava le proprie radici maggiormente in un’insufficiente o confusionaria individuazione dei beni giuridici offesi dal fenomeno in questione62.
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Cfr. ex plurimis, Cass., 3 febbraio 2006, n. 32, in LG, 8, 2006, 78; in dottrina, sull’argomento, mi sia consentito il rinvio a Costa, Solidarietà e tutele negli appalti, in VTDL, 2, 2016, 382; Id., Solidarietà e codatorialità negli appalti, in WP D’Antona, It., n. 302/2016, 8. 62 PERINA, Il divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro dopo il d.lgs. 10 settembre 2003 n. 276, in MGL, 2004, 331.
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In primo luogo, infatti, adottando il tipo contravvenzionale, il “caporalato” restava impunito nella forma del tentativo, giacché quest’ultimo è configurabile unicamente in relazione ai delitti, secondo il disposto dell’art. 56 c.p.. Diveniva, dunque, impossibile svolgere un ruolo di efficacia preventiva rispetto a forme criminose in fieri, ancorché sempre nel rispetto del principio di offensività del reato. In secondo luogo, la scelta di prediligere la forma del delitto avrebbe consentito un valido fondamento giustificativo nella possibilità di prevedere, in relazione alla condanna, l’applicazione di talune pene accessorie, che già di per sé possono svolgere un ruolo fondamentale nel contrasto al fenomeno del “caporalato”. Tali affermazioni non intendono, tuttavia, sminuire la qualità e l’importanza degli interventi normativi in commento. Essi furono certamente fondamentali nella regolamentazione e nella “costituzionalizzazione” dei meccanismi di stipulazione e svolgimento dei rapporti di lavoro, soprattutto ove questi coinvolgessero non solamente il singolo lavoratore ed il datore di lavoro, bensì altresì terzi soggetti interposti, vieppiù mediante complesse formule di appalto e leasing di manodopera. In particolare, il d.lgs. n. 276/2003, ebbe l’importanza di allargare la nozione di “lavoratore” destinatario della tutela normativa non solo ai c.d. insiders, i.e. ai soggetti sottoposti alle dipendenze di un datore di lavoro, ma anche ai c.d. outsiders, ossia a quegli individui in cerca di lavoro, che frequentemente finivano per essere vittime di pratiche distorsive del funzionamento naturale del mercato del lavoro. Un fattore determinante che aprì ad un processo di riforma verso un maggior contrasto del fenomeno del “caporalato” fu la Direttiva n. 52 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea del 18 giugno 2009, recante norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Tali individui costituiscono, infatti, un’alta percentuale all’interno del numero delle vittime del “caporalato” e, in generale, di forme di sfruttamento in ambito lavorativo. I singoli Stati membri aderenti all’Unione Europea, sono stati, così, sollecitati ad introdurre nei rispettivi ordinamenti nazionali misure sanzionatorie di carattere penale adeguate, proporzionate e dissuasive contro i fenomeni di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e sfruttamento delle prestazioni lavorative dei migranti. Notevole importanza assumevano poi, nelle indicazioni del legislatore europeo, le pene accessorie dell’esclusione da finanziamenti e sovvenzioni statali e sovranazionali, la confisca del prezzo e del profitto del reato nonché del mezzo di trasporto adoperato, ed infine la previsione di forme di responsabilità penale delle persone giuridiche nel cui vantaggio o interesse fossero state poste in essere le condotte criminose. Il nostro ordinamento, invero, denotava un certo ritardo rispetto ad un’elaborazione normativa internazionale che predicava ed imponeva il rispetto del bene giuridico della dignità del lavoratore e, in genere, della persona migrante. L’inadeguatezza sotto il profilo della tutela contro il “caporalato” era evidente: tale fenomeno, infatti, è ex se una forma di sfruttamento delle vittime, e solamente a partire da tale constatazione è possibile contrastarlo efficacemente. L’attenzione del legislatore nazionale verso la condizione del cittadino straniero migrante, specialmente se lavoratore, è stata quindi insufficiente, soprattutto a ragione del fatto che l’elevata frequenza con cui tali
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soggetti erano – e sono tutt’ora – vittime del “caporalato” e di fenomeni similari avrebbe dovuto suscitare un’urgenza di intervento normativo, che un legislatore ossequioso dei princìpi costituzionali non avrebbe potuto ignorare. Unicamente con la l. n. 148/2011 che introduce il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro e con l’attuazione della direttiva 18 giugno 2009, n. 5263, si registrano segnali positivi verso una maggior tutela della dignità umana dei lavoratori e dei migranti. Tali modifiche costituiscono un primo passo verso il contrasto del fenomeno del “caporalato” perpetrato nei confronti di lavoratori stranieri irregolarmente soggiornanti nel territorio nazionale. In secondo luogo esse costituiscono un forte incentivo per il legislatore nazionale nella riforma altresì delle norme a tutela dei lavoratori interni, anch’essi sistematicamente vittime del “caporalato” soprattutto nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia. Tuttavia, l’inadeguatezza delle misure penali di contrasto al “caporalato” ed in particolare del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro emerge con evidenza con riferimento, infine, ai rapporti con la disciplina della responsabilità da reato degli enti collettivi, di cui al d.lgs. n. 231/2001. Fino all’ottobre 2016, infatti, il legislatore non prevedeva l’inserimento del delitto di cui all’art. 603-bis c.p. all’interno del novero dei reati presupposto in relazione ai quali insorge la responsabilità dell’ente collettivo. La l. n. 199/2016, finalmente, ridefinisce la disciplina del delitto di intermediazione illecita, con l’intento di fornire un’adeguata tutela contro i fenomeni del caporalato e di sfruttamento del lavoro64. Numerose sono le novità apportate: i 12 articoli del nuovo testo normativo ampliano la platea dei destinatari delle sanzioni afflittive: non più soltanto l’intermediario, ma anche il datore di lavoro, sia esso persona fisica o giuridica, arrivando a prevedere l’arresto obbligatorio in flagranza e la confisca dei beni. Inoltre il nuovo art. 603-bis c.p. rimodula i suoi presupposti applicativi; sparisce il riferimento all’«organizzazione» dell’attività di intermediazione (che, come evidenziato, è stato foriero di numerose difficoltà interpretative per gli operatori del diritto), sparisce la condizione dell’approfittamento dello stato di necessità del lavoratore e, l’impiego della violenza o della minaccia viene scorporato, e non più richiesto quale requisito necessario, ai fini della configurazione della fattispecie incriminatrice: in buona sostanza oggi la consumazione del reato non è più legata a forme di organizzazione o condotte violente o intimidatorie, essendo sufficiente che vi sia il reclutamento o l’utilizzo di manodopera in condizioni di sfruttamento. Semmai, il ricorso alla violenza o alla minaccia darà luogo ad un inasprimento della pena, sì che appare manifesto come le condotte incriminate siano oramai del tutto distinte65. Anche l’individuazione degli indicatori di sfruttamento risultano essere modificati, comparendo il riferimento ad una “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palese-
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Avvenuta solo ad opera del d.lgs. n. 109/2012. In questo senso, Rotolo, relazione tenuta al Convegno “Il contrasto al lavoro sommerso. Il ruolo dell’attività di vigilanza” tenutosi in data 30 gennaio 2017, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. 65 Cfr. art. 603 - bis, comma I, n.1 e n.2 c.p. 64
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mente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”, in precedenza inesistente, e precisando che la violazione della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro denota, in ogni caso, sfruttamento del lavoro66. Un’altra novità con forte potenziale deterrente è, poi, l’introduzione della tanto auspicata responsabilità amministrativa dell’ente ove l’illecito de quo venga commesso da un soggetto (dipendente od anche terzo estraneo alla società) nell’interesse dell’impresa67; pertanto, sarà necessario che l’impresa si doti di un efficace modello organizzativo anche relativamente a tale aspetto per evitare di incorrere in pesanti sanzioni. Sul punto, il legislatore ha stabilito una soluzione alternativa, facoltativa, per il giudice: infatti, fermo restando la possibilità del “commissariamento giudiziale”, come disciplinata dal d.lgs. n. 231/2001, che, tuttavia, rischia di pregiudicare l’attività produttiva in grave danno dei livelli occupazionali, il nuovo impianto normativo prevede il “controllo giudiziario dell’azienda” (di cui peraltro non viene in alcun modo indicato un dies ad quem entro il quale il provvedimento dovrebbe concludersi), che si realizza mediante un amministratore giudiziario, il cui compito non è quello di sostituirsi all’imprenditore, ma di affiancarlo, consentendo la prosecuzione dell’attività d’impresa ed assicurando la rimozione delle condizioni dello sfruttamento lavorativo68. La nuova legge ha, poi, finalmente previsto un fondo per le vittime del caporalato e la creazione di un percorso sociale e di protezione, in precedenza del tutto assente69. Ma se da un lato, la nuova normativa è stata salutata con favore da tutte le realtà associative e sindacali del settore, a parere di chi scrive permangono alcuni dubbi sulla reale efficacia di contrasto al fenomeno del c.d. “caporalato”70. Difatti, sebbene il caporalato, in molte realtà territoriali costituisca diretta espressione della criminalità organizzata, non necessariamente si identifica con essa: basti pensare al triste e noto caso di Paola Clemente, regolarmente assunta con contratto tramite Agenzia per l’impiego, retribuita 7 euro/h, ma costretta a lavorare in condizioni di sfruttamento,
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Sino all’approvazione della l. n. 199/2016, invece, la violazione della normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro era riconosciuta quale indice di sfruttamento, soltanto qualora dalla violazione derivasse un “pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale” del lavoratore, con tutti i conseguenti problemi in ordine all’onere probatorio. Cfr. art 603 bis comma 2, n. 3. 67 All’uopo vi è stata la modifica dell’art. 25 quinquies, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. 68 Il legislatore del 2016 pertanto, sembrerebbe avere marginalmente recepito il suggerimento per una soluzione meno aggressiva, ma ugualmente temibile per l’ente datore di lavoro: il controllo giudiziario si giustifica per evitare la compromissione del valore economico dell’azienda e, dunque, ripercussioni negative sui livelli occupazionali, ma non deve, tuttavia, sottovalutarsi la temibilità dell’obbligo di regolarizzare i lavoratori sfruttati con misure “anche in difformità di quelle proposte dall’imprenditore o dal gestore” e che il suddetto controllo non è apparentemente soggetto a limiti temporali. Cfr. art. 3, comma 3, l. n. 199/2016. In dottrina v. Marino, Il caporalato quale nuova forma di schiavitù. Analisi dell’art. 603-bis c.p. in attesa di una riforma effettiva, in Il Penalista, Giuffrè, 2016, n. 1, 33. 69 Cfr. § 3, 12, n.7. 70 Dello stesso avviso, Silvestre, op. cit. 46; Treu, relazione tenuta al Convegno “Il contrasto al lavoro sommerso. Il ruolo dell’attività di vigilanza” tenutosi in data 30 gennaio 2017, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il quale parla della necessità di impiego di strumenti non esclusivamente normativi, ma di un sistema di “policy mix” fatto di sanzioni, ispezioni e incentivi all’emersione del lavoro sommerso, che renda più conveniente per l’impresa il ricorso al lavoro etico di qualità piuttosto che il ricorso al lavoro irregolare.
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che l’hanno portata a morire d’infarto all’età di 49 anni nelle campagne di Andria il 13 luglio 2015. Se si vuole porre fine a questo fenomeno è bene ripensare all’intero sistema agroalimentare (ma non solo dato che come abbiamo visto il caporalato riguarda anche altri settori economici), posto che la grande distribuzione organizzata impone un sistema di acquisto estremamente al ribasso rispetto al quale le aziende agricole sono vittime, rifacendosi sui soggetti ancora più deboli, ovvero le persone bisognose di lavorare. Occorrerebbe, pertanto, ridefinire l’intero sistema delle politiche agricole, introducendo, ad esempio, il ricorso agli indici di congruità, strumento approvato dalla Regione Puglia nel lontano 2006, riconosciuto come buona pratica europea, ma mai attuato per l’opposizione delle associazioni datoriali. Tale strumento consentirebbe di calcolare quanto prodotto si può ricavare su una determinata estensione di terreno in relazione al numero di lavoratori che si dichiara di aver impiegato: se il quantitativo prodotto non risulta essere coerente rispetto ai coefficienti indicati con gli indici di congruità dovrebbero scattare le ispezioni ed eventualmente le sanzioni, similmente a quanto, peraltro, previsto in materia di appalti edili in virtù dell’Avviso Comune sottoscritto in data 13 aprile 2013 dalle Parti sociali71. Altresì, se si vuole debellare tale fenomeno non può essere secondario il ruolo di monitoraggio degli organi di vigilanza, che devono essere dotati di tutti gli strumenti e delle risorse economiche ed umane necessarie, coerentemente al fine preposto72. Basti pensare che, persino il sistema dei voucher, ideato per il contrasto al lavoro nero, è finito con il minare le fondamenta stesse della lotta all’evasione contributiva, proprio perché esso è stato spesso usato con finalità elusive e fraudolente dalle aziende. Il tema dei controlli è, dunque, un elemento necessario per perseguire l’obiettivo di un lavoro dignitoso che sia motore di uno sviluppo economico sostenibile come prevede l’Agenda ILO dello sviluppo 203073, dando, altresì, concreta attuazione all’art. 35 della nostra Carta Costituzionale che prevede la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
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Il testo integrale dell’accordo è consultabile sul sito http: www. Cassaedilerimini.com/moduli/imprese/avvisocomune.pdf. In questa direzione, l’adozione del modello Uniemens anche in agricoltura, prevista a far data dal gennaio 2018 in forza dell’art. 8, co.2, l. n. 199/2016, rappresenta un importante strumento. Il controllo mensile e non più trimestrale delle giornate lavorate dovrebbe, infatti, permettere all’INPS di effettuare controlli più precisi e tempestivi. 73 Cfr. Obiettivo n. 8.5 dell’Agenda ILO dello sviluppo 2030. 72
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza Corte di Giustizia dell’UE, Grande Sez., sentenza 21 dicembre 2016, causa C-201/15; Pres. Lenaerts – Rel. Prechal – AG Wahl – Anonymi Geniki Etairia Tsimenton Iraklis (AGET Iraklis) c. Ypourgos Ergasias, Koinonikis Asfalisis kai Koinonikis Allilengyis, con l’intervento di Enosi Ergazomenon Tsimenton Chalkidas. Licenziamenti – Licenziamento collettivo – Normativa interna greca – Autorizzazione preventiva p.a. – Art. 49 TFUE – Libertà di stabilimento – Art. 16 CDFUE – Libertà d’impresa – Dir. 98/59/CE – Non conformità.
La direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, deve essere interpretata nel senso che essa non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, in forza della quale un datore di lavoro, in mancanza di accordo con i rappresentanti dei lavoratori su un piano di licenziamento collettivo, può procedere al suddetto licenziamento solo se l’autorità pubblica nazionale competente alla quale tale piano deve essere notificato non adotta, nel termine previsto dalla summenzionata normativa e in esito all’esame del fascicolo e ad una valutazione delle condizioni del mercato del lavoro, della situazione dell’impresa nonché dell’interesse dell’economia nazionale, una decisione motivata con la quale è negata l’autorizzazione a realizzare, in tutto o in parte, i licenziamenti prospettati. Diverso è tuttavia il caso qualora risulti – circostanza che spetta, eventualmente, al giudice del rinvio verificare – che, alla luce dei tre criteri di valutazione ai quali tale normativa fa riferimento e dell’applicazione concreta che ne dà la suddetta autorità pubblica, sotto il controllo delle autorità giurisdizionali competenti, la summenzionata normativa ha la conseguenza di privare le disposizioni della direttiva 98/59 del loro effetto utile. L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta, in una situazione come quella oggetto del procedimento principale, ad una normativa nazionale come quella descritta nella prima frase del primo comma del presente punto. Licenziamenti – Licenziamento collettivo – Normativa interna greca – Autorizzazione preventiva p.a. – Art. 49 TFUE – Libertà di stabilimento – Art. 16 CDFUE – Libertà d’impresa – Dir. 98/59/CE – Crisi economica – Tasso di disoccupazione – Irrilevanza.
La circostanza che il contesto nazionale sia caratterizzato da una crisi economica acuta e da un tasso di disoccupazione particolarmente elevato non autorizza lo Stato membro a privare di effetto utile le disposizioni della direttiva (98/59), non contenendo, quest’ultima, alcuna clausola di salvaguardia che autorizzi una deroga in via eccezionale alle disposizioni di armonizzazione in essa contenute al ricorrere di un contesto del genere. Né, d’altra parte, la situazione socio-economica dello Stato membro consente di derogare all’art. 49 TFUE, atteso che i Trattati non prevedono che in tali ipotesi si possa derogare a tale disposizione del diritto primario o che quest’ultima possa essere semplicemente e puramente disapplicata, come sembra suggerire il giudice del rinvio.
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (GU 1998, L 225, pag. 16), e degli articoli 49 e 63 TFUE.
Giurisprudenza
2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra l’Anonymi Geniki Etairia Tsimenton Iraklis (AGET Iraklis) e l’Ypourgos Ergasias, Koinonikis Asfalisis kai Koinonikis Allilengyis (Ministro del Lavoro, della Previdenza sociale e della Solidarietà sociale, in prosieguo: il «Ministro») in merito ad una decisione con la quale quest’ultimo non ha autorizzato la AGET Iraklis a procedere ad un licenziamento collettivo. Contesto normativo – Omissis. Diritto greco 9. Rubricato «Obblighi del datore di lavoro in materia di informazione e consultazione», l’articolo 3 del Nomos n. 1387/1983 Elenchos omadikon apolyseon kai alles diataxeis (legge n. 1387/1983, sul controllo dei licenziamenti collettivi e altre disposizioni), nella versione applicabile ai fatti del procedimento principale (in prosieguo: la «legge n. 1387/1983»), così prevede: «1. Il datore di lavoro, prima di effettuare un licenziamento collettivo, è tenuto a consultare i rappresentanti dei lavoratori per esaminare la possibilità di evitare o limitare i licenziamenti e le loro conseguenze negative. – Omissis. 10. Intitolato «Procedura di licenziamento collettivo», l’articolo 5 della legge n. 1387/1983 dispone quanto segue: «1. La durata delle consultazioni tra i lavoratori e il datore di lavoro è di venti giorni dall’apposito invito del datore di lavoro ai rappresentanti dei lavoratori (…). L’esito delle consultazioni è riportato in un verbale che viene sottoscritto dalle due parti ed è presentato dal datore di lavoro al Prefetto o al [Ministro], ai sensi delle disposizioni di cui al paragrafo 3 dell’articolo 3. 2. Se viene raggiunto un accordo tra le parti, i licenziamenti collettivi sono effettuati in conformità del contenuto dell’accordo (…). 3. In mancanza di accordo tra le parti, il Prefetto o il [Ministro] possono, con decisione motivata, emanata entro dieci giorni dalla comunicazione del summenzionato verbale, dopo aver esaminato gli elementi del fascicolo e aver valutato le condizioni del mercato del lavoro, la situazione dell’impresa nonché l’interesse dell’economia nazionale, prolungare le consultazioni di altri venti giorni, su domanda di una delle parti interessate, oppure non approvare, in tutto o in parte, i licenziamenti progettati. – Omissis. 11. Ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della legge n. 1387/1983, «i licenziamenti collettivi effettuati in violazione di dette disposizioni di legge sono nulli». Procedimento principale e questioni pregiudiziali – 12. La AGET Iraklis, il cui principale azionista è il gruppo multinazionale francese Lafarge, produce cemento in tre stabilimenti situati, rispettivamente, in Αgria Volou, Αliveri e Chalkida (Grecia). 13. Durante il periodo novembre 2011 – dicembre 2012, la AGET Iraklis ha invitato, in diverse occasioni, i lavoratori dello stabilimento di Chalkida a partecipare
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a incontri finalizzati ad adeguare le attività di detto impianto tenuto conto della caduta della domanda di cemento, evitando nel contempo licenziamenti collettivi. 14. Invocando, in particolare, una contrazione delle attività nel settore dell’edilizia nella regione dell’Attica (Grecia) e l’esistenza di capacità eccedentarie di produzione, nonché la necessità di preservare la sopravvivenza finanziaria dell’impresa e le condizioni di sviluppo delle attività del gruppo, tanto nel mercato greco quanto all’estero, il consiglio di amministrazione della AGET Iraklis, con decisione del 25 marzo 2013, ha approvato un piano di ristrutturazione che prevedeva la chiusura definitiva dell’impianto di Chalkida, che impiegava 236 lavoratori, nonché un riorientamento della produzione nelle altre due fabbriche mediante un aumento della produttività di queste ultime. 15. Con lettere del 26 marzo e del 1o aprile 2013, la AGET Iraklis ha invitato l’Enosi Ergazomenon Tsimenton Chalkidas (sindacato rappresentativo dei lavoratori della fabbrica di Chalkida; in prosieguo: il «sindacato») ad incontri che si sarebbero tenuti, rispettivamente, il 29 marzo e il 4 aprile 2013, per la comunicazione di informazioni sui motivi che avevano condotto all’adozione del summenzionato piano e sulle modalità dei licenziamenti prospettati nonché per la consultazione in merito alle possibilità di evitare o ridurre tali licenziamenti e le loro conseguenze negative. 16. Non avendo il sindacato dato seguito a nessuno dei due inviti, il 16 aprile 2013, la AGET Iraklis ha presentato al Ministro una richiesta d’approvazione del piano di licenziamento collettivo di cui trattasi. 17. La direzione del lavoro dipendente del Ministero del Lavoro ha preparato una relazione che prendeva in considerazione le condizioni del mercato del lavoro, la situazione dell’impresa e l’interesse dell’economia nazionale, e che raccomandava di respingere la suddetta richiesta per mancanza di un piano di integrazione dei lavoratori implicati in altre fabbriche appartenenti alla AGET Iraklis e per il fatto che le statistiche dell’Ufficio del lavoro ellenico mostravano un tasso di disoccupazione sempre più elevato. 18. Nel suo parere, emesso su domanda del Ministro e dopo aver sentito la AGET Iraklis e il sindacato, il Consiglio Superiore del Lavoro si è espresso contro l’autorizzazione del piano di licenziamento collettivo di cui trattasi, considerandone insufficiente la motivazione, in quanto, in particolare, la necessità dei licenziamenti collettivi prospettati non era stata dimostrata in base a dati concreti e circostanziati e gli argomenti fatti valere dalla AGET Iraklis apparivano troppo vaghi. 19. Fondandosi su tale parere, il 26 aprile 2013, il Ministro ha deciso di non autorizzare il suddetto piano di licenziamento collettivo. 20. A sostegno del ricorso diretto all’annullamento di tale decisione da essa presentato dinanzi al Symvoulio tis Epikrateias (Consiglio di Stato, Grecia), la AGET Iraklis sostiene che l’articolo 5, paragrafo 3, della legge
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n. 1387/1983, il base al quale è stata adottata la suddetta decisione, viola tanto la direttiva 98/59, quanto gli articoli 49 e 63 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»). – Omissis. 25. In tale contesto il Symvoulio tis Epikrateias (Consiglio di Stato) ha deciso quindi di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se sia conforme, in particolare, alle disposizioni della direttiva 98/59/CE e, in generale, agli articoli 49 e 63 TFUE, una norma di diritto nazionale, quale l’articolo 5, paragrafo 3, della legge 1387/1983, che subordini i licenziamenti collettivi in una data impresa a un’autorizzazione dell’amministrazione rilasciata sulla base dei criteri attinenti: a) alle condizioni del mercato del lavoro, b) alla situazione dell’impresa e c) all’interesse dell’economia nazionale. 2) Nell’ipotesi di risposta negativa alla prima questione, se una norma di diritto nazionale di tale contenuto sia conforme, in particolare, alle disposizioni della direttiva 98/59/CE e, in generale, agli articoli 49 e 63 TFUE quando sussistano ragioni sociali serie, quali una grave crisi economica e un tasso di disoccupazione particolarmente elevato». Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione. – Omissis. 27. La direttiva 98/59, come emerge dal suo considerando 2, mira a rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi. Ai termini dei considerando 3 e 7 di tale direttiva, devono essere oggetto di ravvicinamento delle legislazioni segnatamente le differenze sussistenti tra le disposizioni in vigore negli Stati membri relativamente alle misure capaci di attenuare le conseguenze derivanti dai licenziamenti collettivi (v., in particolare, sentenza del 12 ottobre 2004, Commissione/Portogallo, C‑55/02, EU:C:2004:605, punto 52). – Omissis. 30. Né la direttiva 98/59, né, in precedenza, la direttiva 75/129, menomano quindi la libertà del datore di lavoro di procedere o meno a licenziamenti collettivi (v., riguardo alla direttiva 75/129, sentenze del 12 febbraio 1985, Dansk Metalarbejderforbund e Specialarbejderforbundet i Danmark, 284/83, EU:C:1985:61, punto 10, e del 7 settembre 2006, Agorastoudis e a., da C‑187/05 a C‑190/05, EU:C:2006:535, punto 35). 31. Le suddette direttive non precisano, in particolare, le circostanze nelle quali il datore di lavoro deve prospettare licenziamenti collettivi e non incidono in alcun modo sulla sua libertà di giudizio in merito al se e al quando debba elaborare un piano di licenziamento collettivo (v., riguardo alla direttiva 75/129, sentenza del 12 febbraio 1985, Dansk Metalarbejderforbund e Specialarbejderforbundet i Danmark, 284/83, EU:C:1985:61, punto 15). 32. Pur se, nell’armonizzare in tal modo le norme applicabili ai licenziamenti collettivi, il legislatore
dell’Unione ha voluto, nel contempo, garantire una protezione di analoga natura dei diritti dei lavoratori nei vari Stati membri e ravvicinare gli oneri che dette norme di tutela comportano per le imprese dell’Unione europea (v., in particolare, sentenza del 9 luglio 2015, Balkaya, C‑229/14, EU:C:2015:455, punto 32 e giurisprudenza citata), dall’articolo 1, paragrafo 1, e dall’articolo 5 della direttiva 98/59 risulta nondimeno che quest’ultima mira, in proposito, a istituire una tutela minima relativa all’informazione e alla consultazione dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi e che gli Stati membri restano liberi di adottare provvedimenti nazionali più favorevoli a detti lavoratori (v., in particolare, sentenza del 18 gennaio 2007, Confédération générale du travail e a., C‑385/05, EU:C:2007:37, punto 44). 33. Da tutto quel che precede deriva che, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 30 delle sue conclusioni, le condizioni sostanziali alle quali è, eventualmente, subordinata la possibilità per il datore di lavoro di procedere o meno a licenziamenti collettivi non rientrano, in linea di massima, nell’ambito di applicazione della direttiva 98/59 e restano, di conseguenza, di competenza degli Stati membri. – Omissis. 35. Occorre tuttavia precisare, in proposito, che tale conclusione sarebbe, in via d’eccezione, diversa nell’ipotesi in cui un regime nazionale siffatto abbia, alla luce delle sue modalità più precise o della maniera in cui è concretamente attuato dall’autorità pubblica competente, la conseguenza di privare del loro effetto utile le disposizioni degli articoli da 2 a 4 della direttiva 98/59. – Omissis. 42. A tale proposito, la AGET Iraklis ha segnatamente sostenuto dinanzi alla Corte che l’autorità pubblica competente si è sistematicamente opposta ai piani di licenziamento collettivo che le erano stati notificati, circostanza che ha avuto come conseguenza che i rappresentanti dei lavoratori di frequente si astengano, come avvenuto nel contesto del procedimento principale, dal partecipare a consultazioni ai fini di tentare di trovare un accordo sulle possibilità di evitare o di ridurre i licenziamenti prospettati e di attenuarne le conseguenze. 44. Alla luce di quanto precede, occorre rispondere alla prima parte della prima questione dichiarando che la direttiva 98/59 deve essere interpretata nel senso che essa non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, in forza della quale un datore di lavoro, in mancanza di accordo con i rappresentanti dei lavoratori su un piano di licenziamento collettivo, può procedere al suddetto licenziamento solo se l’autorità pubblica nazionale competente, alla quale tale piano deve essere notificato, non adotta, nel termine previsto dalla summenzionata normativa e in esito all’esame del fascicolo e ad una valutazione delle condizioni del mercato del lavoro, della situazione dell’impresa nonché dell’interes-
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se dell’economia nazionale, una decisione motivata con la quale è negata l’autorizzazione alla realizzazione, in tutto o in parte, dei licenziamenti prospettati. Diverso è tuttavia il caso qualora risulti – circostanza che spetta, eventualmente, al giudice del rinvio verificare – che, alla luce dei tre criteri di valutazione ai quali rinvia tale normativa e dell’applicazione concreta che ne dà la suddetta autorità pubblica, sotto il controllo delle autorità giurisdizionali competenti, la summenzionata normativa ha la conseguenza di privare le disposizioni della direttiva 98/59 del loro effetto utile. Sugli articoli 49 e 63 TFUE – Omissis. 46. Rientra quindi, segnatamente, nell’ambito della libertà di stabilimento la situazione in cui una società stabilita in uno Stato membro crei una società controllata in un altro Stato membro. Ciò vale anche, ai sensi di una giurisprudenza costante, allorché una società siffatta o un cittadino di uno Stato membro acquisisce una partecipazione nel capitale di una società stabilita in un altro Stato membro che gli conferisce una sicura influenza sulle decisioni della società e gli consente di indirizzarne le attività (v., in tal senso, sentenze del 21 ottobre 2010, Idryma Typou, C‑81/09, EU:C:2010:622, punto 47 e giurisprudenza citata, nonché dell’8 novembre 2012, Commissione/Grecia, C‑244/11, EU:C:2012:694, punto 21 e giurisprudenza citata). – Omissis. 48. Da costante giurisprudenza risulta che la nozione di «restrizione» ai sensi dell’articolo 49 TFUE concerne, in particolare, misure che, seppur applicabili senza discriminazione quanto alla nazionalità, sono idonee ad ostacolare o rendere meno attraente l’esercizio della libertà di stabilimento (v., in particolare, sentenze del 21 aprile 2005, Commissione/Grecia, C‑140/03, EU:C:2005:242, punto 27, e del 21 ottobre 2010, Idryma Typou, C‑81/09, EU:C:2010:622, punto 54). 49. Nella suddetta nozione rientrano, segnatamente, le misure adottate da uno Stato membro che, seppur indistintamente applicabili, pregiudichino l’accesso al mercato per le imprese di altri Stati membri, ostacolando in tal modo il commercio intracomunitario (v., in particolare, sentenza del 28 aprile 2009, Commissione/ Italia, C‑518/06, EU:C:2009:270, punto 64 e giurisprudenza citata). – Omissis. 53. Il suddetto esercizio comporta del pari, in linea di principio, la libertà di determinare la natura e la portata dell’attività economica che sarà svolta nello Stato membro ospitante e in particolare le dimensioni degli impianti stabili e il numero di lavoratori richiesti a tal fine, nonché, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 65 delle sue conclusioni, la libertà di ridurre, successivamente, il volume di tale attività o persino la libertà di rinunciare, eventualmente, a quest’ultima e al suddetto stabilimento. 54. Occorre sottolineare, riguardo a tali aspetti, che, ai sensi della normativa controversa nel procedimento principale, la possibilità stessa per uno stabilimento di procedere ad un licenziamento collettivo è, nella
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fattispecie, assoggettata al requisito dell’assenza di opposizione da parte dell’autorità pubblica competente. Orbene la decisione di procedere a un licenziamento collettivo rappresenta una decisione fondamentale nella vita di un’impresa (v., per analogia, riguardo a decisioni vertenti su scioglimento volontario, scissione o fusione, sentenza del 13 maggio 2003, Commissione/ Spagna, C‑463/00, EU:C:2003:272, punto 79). 55. Si deve necessariamente constatare, in proposito, che una normativa nazionale siffatta costituisce una rilevante ingerenza in talune libertà di cui godono, in generale, gli operatori economici (v., per analogia, sentenza del 28 aprile 2009, Commissione/Italia, C‑518/06, EU:C:2009:270, punto 66). – Omissis. 59. – Omissis. In tale contesto, anche ammesso che la normativa di cui trattasi nel procedimento principale produca effetti restrittivi sulla libera circolazione dei capitali, detti effetti sarebbero, nell’ambito di tale procedimento, la conseguenza ineluttabile di un eventuale ostacolo alla libertà di stabilimento e non giustificherebbero un esame autonomo alla luce dell’articolo 63 TFUE (v., in tal senso, sentenze del 26 marzo 2009, Commissione/Italia, C‑326/07, EU:C:2009:193, punto 39 e giurisprudenza citata, nonché dell’8 novembre 2012, Commissione/Grecia, C‑244/11, EU:C:2012:694, punto 30). – Omissis. 61. Risulta da una giurisprudenza costante che una restrizione alla libertà di stabilimento può essere ammessa solo se giustificata da motivi imperativi di interesse generale. In tale ipotesi, occorre altresì che essa sia idonea a garantire il conseguimento dell’obiettivo in questione e che non vada oltre quanto è necessario per raggiungerlo (v. sentenze del 29 novembre 2011, National Grid Indus, C‑371/10, EU:C:2011:785, punto 42 e giurisprudenza citata, e del 23 febbraio 2016, Commissione/Ungheria, C‑179/14, EU:C:2016:108, punto 166). 62. Come ricordato, nel contesto della presente causa, dal giudice del rinvio, è parimenti costante giurisprudenza che i diritti fondamentali garantiti dalla Carta sono applicabili a tutte le situazioni regolate dal diritto dell’Unione e che, quindi, essi devono essere rispettati, segnatamente, allorché una normativa nazionale rientra nell’ambito di applicazione di tale diritto (v., in particolare, sentenza del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson, C‑617/10, EU:C:2013:105, punti da 19 a 21) 63. Ciò si verifica in particolare allorché una normativa nazionale è atta ad ostacolare una o più libertà fondamentali garantite dal Trattato e allorché lo Stato membro interessato adduce ragioni imperative di interesse generale per giustificare siffatto ostacolo. In un’ipotesi del genere, la normativa nazionale di cui trattasi potrà fruire delle eccezioni così previste solo se essa sia conforme ai diritti fondamentali dei quali la Corte garantisce il rispetto (v. sentenze del 18 giugno 1991, ERT, C‑260/89, EU:C:1991:254, punto 43, e del 30 aprile 2014, Pfleger e a., C‑390/12, EU:C:2014:281, punto 35). – Omissis.
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66. Nella fattispecie, occorre constatare che una normativa nazionale come quella controversa nel procedimento principale comporta, come ha rilevato il giudice del rinvio, una limitazione all’esercizio della libertà d’impresa sancita all’articolo 16 della Carta. 67. La Corte ha già dichiarato, in effetti, che la tutela conferita da quest’ultima disposizione implica la libertà di esercitare un’attività economica o commerciale, la libertà contrattuale e la libera concorrenza (sentenza del 22 gennaio 2013, Sky Österreich, C‑283/11, EU:C:2013:28, punto 42). – Omissis. 70. A tal proposito, occorre nondimeno ricordare che l’articolo 52, paragrafo 1, della Carta ammette la possibilità di apportare limitazioni all’esercizio dei diritti sanciti dalla stessa, sempre che siffatte limitazioni siano previste dalla legge, rispettino il contenuto essenziale di tali diritti e libertà e, nel rispetto del principio di proporzionalità, siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui (v., in particolare, sentenza del 31 gennaio 2013, McDonagh, C‑12/11, EU:C:2013:43, punto 61). Sulle ragioni imperative di interesse generale. – Omissis. 73. Per contro, la tutela dei lavoratori rientra tra le ragioni imperative di interesse generale riconosciute dalla Corte (v., in particolare, sentenze del 23 novembre 1999, Arblade e a., C‑369/96 e C‑376/96, EU:C:1999:575, punto 36; del 13 dicembre 2005, SEVIC Systems, C‑411/03, EU:C:2005:762, punto 28, nonché dell’11 dicembre 2007, International Transport Workers’ Federation e Finnish Seamen’s Union, C‑438/05, EU:C:2007:772, punto 77). – Omissis. 75. In particolare, la Corte ha infatti già ammesso che le considerazioni attinenti al mantenimento dell’occupazione possono costituire, in determinate circostanze e a certe condizioni, giustificazioni accettabili per una normativa nazionale avente l’effetto di ostacolare la libertà di stabilimento (v., in tal senso, sentenza del 25 ottobre 2007, Geurts e Vogten, C‑464/05, EU:C:2007:631, punto 26). – Omissis. 77. Poiché dunque l’Unione non ha soltanto una finalità economica ma anche una finalità sociale, i diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali devono essere bilanciati con gli obiettivi perseguiti dalla politica sociale, tra i quali figurano in particolare, come risulta dall’articolo 151, primo comma, TFUE, la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione (v., in tal senso, riguardo alle corrispondenti disposizioni del Trattato CE, sentenza dell’11 dicembre 2007, International Transport Wor-
kers’ Federation e Finnish Seamen’s Union, C‑438/05, EU:C:2007:772, punto 79). 78. Nello stesso senso, occorre ricordare che in forza dell’articolo 147, paragrafo 1, TFUE, l’Unione contribuisce ad un elevato livello di occupazione promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri nonché sostenendone e, se necessario, integrandone l’azione, tutto ciò rispettando le competenze degli Stati membri. Dal canto suo, l’articolo 147, paragrafo 2, TFUE, enuncia che nella definizione e nell’attuazione delle politiche e delle attività dell’Unione si tiene conto dell’obiettivo di un livello di occupazione elevato. L’articolo 9 TFUE, infine, precisa che, nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto segnatamente delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione e la garanzia di un’adeguata protezione sociale. Sulla proporzionalità. – Omissis. 80. Come risulta dalla giurisprudenza ricordata al punto 61 della presente sentenza, affinché ricorra tale ipotesi, occorre che le suddette restrizioni siano idonee a garantire il raggiungimento dell’obiettivo di interesse generale da esse perseguito e che non vadano al di là di quanto necessario per raggiungere tale obiettivo. – Omissis. 85. Pur se, come è stato rilevato al punto 69 della presente sentenza, l’instaurazione di un regime di inquadramento del genere costituisce un’ingerenza nell’esercizio della libertà d’impresa e, segnatamente, della libertà contrattuale di cui dispongono le imprese, in particolare nei confronti dei lavoratori da esse impiegati, occorre ricordare, a tal proposito, che, secondo costante giurisprudenza della Corte, la libertà d’impresa non costituisce una prerogativa assoluta, bensì deve essere presa in considerazione rispetto alla sua funzione nella società (v., in particolare, sentenza del 22 gennaio 2013, Sky Österreich, C‑283/11, EU:C:2013:28, punto 45 e giurisprudenza citata). 87. È ben vero che la Corte – relativamente ad una normativa in forza della quale talune imprese non avevano alcuna possibilità di partecipare all’organismo di contrattazione collettiva chiamato a decidere dei contratti collettivi né, pertanto, la facoltà di far valere efficacemente i loro interessi in un iter contrattuale o di negoziare gli elementi atti a determinare l’evoluzione delle condizioni di lavoro dei loro dipendenti in vista della loro futura attività economica – ha già dichiarato che, in un caso del genere, la libertà contrattuale delle suddette imprese risultava seriamente ridotta cosicché una limitazione siffatta era atta a vanificare la sostanza stessa del loro diritto alla libertà d’impresa (sentenza del 18 luglio 2013, Alemo-Herron e a., C‑426/11, EU:C:2013:521, punti 34 et 35). 88. Nondimeno, è sufficiente rilevare, nella fattispecie, che un regime come quello descritto al punto 83 della presente sentenza non ha affatto, di per sé, la conseguenza di escludere, per sua stessa natura,
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qualsiasi possibilità per le imprese di procedere a licenziamenti collettivi, giacché esso mira unicamente a inquadrare una possibilità del genere. Non si può pertanto considerare che un regime siffatto incida sul contenuto essenziale della libertà d’impresa. – Omissis. 92. Orbene, considerata la potenziale portata di tali ripercussioni, un meccanismo di inquadramento dei licenziamenti collettivi come quello descritto ai punti 83 e 90 della presente sentenza può – particolarmente in mancanza di qualsiasi norma del diritto dell’Unione destinata a prevenire tali licenziamenti e che vada al di là dei settori dell’informazione e della consultazione rientranti nell’ambito della direttiva 98/59 – rivelarsi idoneo a contribuire al rafforzamento del livello di protezione effettiva dei lavoratori e della loro occupazione, regolando, quanto al merito, l’adozione di siffatte decisioni economiche e commerciali da parte delle imprese. Un meccanismo del genere è quindi adeguato a garantire la realizzazione degli obiettivi di interesse generale così perseguiti. – Omissis. 94. Considerato quindi nei suoi principi, siffatto inquadramento delle condizioni nelle quali si può procedere a licenziamenti collettivi può dunque soddisfare le esigenze risultanti dal principio di proporzionalità, e, pertanto, essere compatibile sotto tale aspetto, con gli articoli 49 TFUE e 16 della Carta. 95. In secondo luogo, occorre verificare se le modalità concrete caratterizzanti, nella fattispecie, il regime di inquadramento dei licenziamenti collettivi previsto dalla normativa controversa nel procedimento principale – e specificamente i tre criteri di cui deve tener conto l’autorità pubblica competente per decidere se opporsi o meno ad un licenziamento collettivo – siano idonee a garantire l’effettivo rispetto delle esigenze ricordate ai punti da 79 a 82 della presente sentenza. 96. A tal proposito, occorre menzionare, anzitutto, che è inammissibile il criterio dell’«interesse dell’economia nazionale» cui fa riferimento tale normativa. – Omissis. 98. Per contro, per quanto attiene agli altri due criteri di valutazione – Omissis. 99. Occorre tuttavia constatare che i suddetti criteri sono formulati in maniera molto generica e imprecisa. Orbene, come risulta da costante giurisprudenza, se i poteri di intervento di uno Stato membro o di una autorità pubblica, quali i poteri di opposizione di cui nella fattispecie è dotato il Ministro, non sono subordinati ad alcuna condizione, ad eccezione di un riferimento ai suddetti criteri enunciati in modo generico e senza che vengano precisate le circostanze specifiche e obiettive in cui tali poteri verranno esercitati, ne consegue un grave pregiudizio alla libertà considerata che può condurre, ove si tratti, come nella fattispecie, di decisioni il cui carattere essenziale nella vita dell’impresa è già stato sottolineato al punto 54 della presente sentenza, all’esclusione della suddetta libertà (v., in tal senso, in particolare, sentenze del 4 giugno 2002, Commissione/Francia, C‑483/99, EU:C:2002:327, punti
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50 e 51, nonché del 26 marzo 2009, Commissione/Italia, C‑326/07, EU:C:2009:193, punti 51 e 52). 100. Anche se dalla normativa nazionale controversa nel procedimento principale appare che il potere di non autorizzare il licenziamento collettivo, di cui nella fattispecie è dotata l’autorità pubblica, deve essere esercitato attraverso un’analisi del fascicolo, tenendo conto della situazione dell’impresa, nonché delle condizioni del mercato del lavoro, e dare luogo ad una decisione motivata, si deve necessariamente constatare che, in assenza di precisazioni circa le circostanze concrete nelle quali il suddetto potere può essere esercitato, i datori di lavoro interessati non sanno in quali circostanze specifiche e oggettive tale potere è applicabile, giacché le situazioni che ne consentono l’esercizio sono potenzialmente numerose, indeterminate e indeterminabili e lasciano all’autorità di cui trattasi un ampio margine discrezionale difficilmente controllabile. Criteri siffatti, che non sono precisi e non riposano dunque su condizioni oggettive e controllabili, vanno oltre quel che è necessario per conseguire gli obiettivi indicati e non possono pertanto soddisfare quanto esige il principio di proporzionalità (v., in tal senso, sentenze del 4 giugno 2002, Commissione/Francia, C‑483/99, EU:C:2002:327, punti 51 e 53; del 26 marzo 2009, Commissione/Italia, C‑326/07, EU:C:2009:193, punti 66 e 72, nonché dell’8 novembre 2012, Commissione/Grecia, C‑244/11, EU:C:2012:694, punti da 74 a 77 e 86). 101. Peraltro, come risulta del pari dalla giurisprudenza della Corte, se è vero che la circostanza che l’esercizio di siffatto potere di opposizione possa essere soggetto al controllo del giudice nazionale è necessaria per la protezione delle imprese in relazione all’applicazione delle norme sulla libertà di stabilimento, tuttavia essa non può, di per sé, essere sufficiente a sanare l’incompatibilità con tali norme dei due criteri di valutazione summenzionati (v., in tal senso, sentenza del 26 marzo 2009, Commissione/Italia, C‑326/07, EU:C:2009:193, punti 54 e 72), in quanto, in particolare, la normativa considerata non fornisce neppure al giudice nazionale criteri sufficientemente precisi per consentirgli di controllare l’esercizio del potere discrezionale dell’autorità amministrativa (v., in tal senso, sentenza del 13 maggio 2003, Commissione/Spagna, C‑463/00, EU:C:2003:272, punto 79). – Omissis. 104. Alla luce di tutto quel che precede, occorre rispondere alla seconda parte della prima domanda dichiarando che l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta, in un situazione come quella del procedimento principale, ad una normativa nazionale in forza della quale un datore di lavoro, in mancanza di accordo con i rappresentanti dei lavoratori su un piano di licenziamento collettivo, può procedere ad un licenziamento del genere solo se la pubblica autorità nazionale competente, alla quale deve essere notificato tale piano, non adotta, entro il termine previsto dalla suddetta normativa e in esito all’esame del fascicolo e
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alla valutazione delle condizioni del mercato del lavoro, della situazione dell’impresa, nonché dell’interesse dell’economia nazionale, una decisione con la quale è negata l’autorizzazione alla realizzazione, in tutto o in parte, dei licenziamenti prospettati. Sulla seconda questione – Omissis. 106. Per quanto attiene, in primo luogo, alla direttiva 98/59 [Omissis] neppure la circostanza che il contesto nazionale sia caratterizzato da una crisi economica acuta e da un tasso di disoccupazione particolarmente elevato autorizza uno Stato membro a privare di effetto utile le disposizioni della suddetta direttiva, non contenendo, infatti, quest’ultima alcuna clausola di salvaguardia che autorizzi una deroga in via eccezionale alle disposizioni di armonizzazione in essa contenute al ricorrere di un contesto nazionale del genere.
107. Per quanto attiene, in secondo luogo, all’articolo 49 TFUE, [Omissis] i Trattati, per contro, non prevedono che, al di fuori delle suddette ipotesi, si possa derogare a tale disposizione del diritto primario o che quest’ultima possa, come sembra suggerire il giudice del rinvio con la sua seconda questione, essere puramente e semplicemente disapplicata, per l’esistenza di un contesto nazionale come quello menzionato al punto 105 della presente sentenza. 108. Alla luce di quanto precede, occorre rispondere alla seconda questione dichiarando che l’eventuale esistenza, in uno Stato membro, di un contesto caratterizzato da una crisi economica acuta e da un tasso di disoccupazione particolarmente elevato non è atta ad incidere sulle risposte fornite alla prima questione. – Omissis.
Una certa idea di capitalismo. Autorizzazione preventiva al licenziamento collettivo e diritto dell’Unione Europea Sommario : 1. La vicenda. – 2. Il caos Grecia. – 3. Autorizzazione preventiva al licenziamento collettivo e diritto primario e secondario dell’UE. – 3.1. La direttiva n. 98/59/CE. – 3.2. Le libertà d’impresa (art. 16 CDFUE) e di stabilimento (art. 49 TFUE). – 4. Una certa idea di capitalismo.
Sinossi. La sentenza in commento pone il giuslavorista di fronte a (più d’) un complicato quesito circa la compatibilità di una normativa greca che attribuisce alla pubblica autorità il potere di interdire un licenziamento collettivo con la Dir. n. 98/59/CE, la libertà di stabilimento ex art. 49 TFUE e la libertà d’impresa ex art. 16 CDFUE; ancor più, la decisione in commento costringe a interrogarsi, ancora una volta, sulle penosità del «caso Grecia» nella odierna società europea e, al fondo, sullo stesso modello di capitalismo che va delineandosi negli anni della crisi, della nuova governance europea e delle misure di austerity. Benché non si sia mostrata indifferente alla gravità del quadro economico e sociale abbozzato dal giudice di rinvio e abbia concesso alcune aperture a un’interpretazione “socialmente sensibile” del diritto primario e secondario dell’UE, la Corte di giustizia non è riuscita a gettarsi oltre l’ostacolo, ma ha reso una decisione salomonica che non accontenta nessuno.
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1. La vicenda. La sentenza resa dalla Corte di giustizia dell’UE a Grande Sezione nel caso AGET Iraklis (C-201/15) non è di quelle che passano inosservate1. Benché il paragone con i grands arrêts del quartetto Laval possa, di primo acchito, sembrare inopportuno2, la pronuncia desta un immediato interesse, anzitutto, per la complessità delle questioni pregiudiziali poste alla CGUE dal Consiglio di Stato greco e per i suoi possibili risvolti sul diritto del lavoro dell’UE, sotto la prospettiva del bilanciamento tra disposizioni nazionali di tutela dei lavoratori, libertà d’impresa e di stabilimento; secondariamente, poiché non ci si può esimere dal constatare come il caso C-201/15 ponga ancora una volta lo studioso di fronte alle penosità della gestione del caso Grecia nel contesto delle recenti politiche europee, costringendolo ad interrogarsi sul modello di capitalismo che va delineandosi negli anni della crisi economica, della nuova governance europea e delle misure di austerity3. Ma andiamo con ordine. AGET Iraklis, società produttrice di cemento controllata dal gruppo francese Lafarge, si risolve, tra il 2011 e il 2012, ad avviare una procedura di licenziamento collettivo nei confronti di oltre 200 lavoratori, in vista della chiusura di uno dei suoi tre stabilimenti presenti sul territorio greco (quello sito a Calcide). L’apertura è formalizzata nella primavera del 2013 con l’invio all’o.s. (e in copia all’Ispettorato del lavoro e al Ministero del lavoro) di una comunicazione scritta, che fissava altresì, ai sensi della disciplina nazionale, due date per il confronto tra le parti; senonché, il sindacato, probabilmente poiché non vi era più nulla da discutere4, non raccoglie l’invito ad avviare un esame congiunto. Preso atto dell’impossibilità di raggiungere un accordo che avrebbe consentito di evitare la seconda fase della procedura, la società si rivolge al Ministero del lavoro, al fine di ottenere l’autorizzazione al licenziamento collettivo, ai sensi dell’art. 5, par. 3, legge n. 1387/1983. Tale autorizzazione viene, tuttavia, previa istruttoria, negata da parte del Ministero, sulla base di una valutazione dei criteri che la legge impone di prendere in considerazione: le condizioni del mercato del lavoro, l’interesse dell’economia nazionale e la situazione
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La sentenza è stata oggetto di diversi commenti pubblicati a caldo, tra i quali si segnalano quelli apparsi sui siti Social Europe (Countouris, Koukiadaki, Greek Glass Half-Full: The CJEU and Europe’s ‘Highly Competitive Social Market’ Economy, 13 febbraio 2017) e EU Law Analysis (Markakis, Case C-201/15 AGET Iraklis: Can governments control mass layoffs by employers? Economic freedoms vs labour rights, 3 gennaio 2017). 2 In ragione, essenzialmente, delle ricadute immediate sul funzionamento del mercato unico e sugli ordinamenti nazionali, che sembrano poco rilevanti nel caso di specie (v. infra § 3). 3 Ashiagbor, Unravelling the embedded liberal bargain: labour and social welfare law in the context of EU market integration, in ELJ, 2013, 3, 303 ss.; Somek, Delegation and authority: authoritarian liberalism today, in ELJ, 2015, 3, 340 ss.; Giubboni, Libertà d’impresa e diritto del lavoro nell’Unione Europea, in Costituzionalismo.it, 7 febbraio 2017. 4 Traggo e riporto la circostanza, non dal testo della sentenza, che allude soltanto al fatto che il sindacato abbia rinunciato a partecipare alla consultazione indetta dal datore di lavoro, ma da una delle prime commentatrici del caso, la quale, avendo assistito all’udienza della Grande Sezione, rileva come, a fronte della lamentela della società di una chiusura a priori del sindacato, quest’ultimo abbia osservato che la decisione datoriale, al momento dell’apertura della procedura, era definitiva e irrevocabile, anche rispetto alla volontà di non adottare misure atte a mitigarne gli effetti sul piano sociale, e che pertanto non sussisteva alcun concreto interesse a sedersi al tavolo delle trattative (Antonaki, Collective redundancies in Greece – a difficult balancing exercise for the EU legal order, in Leiden law blog, 17 maggio 2016).
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dell’impresa. Avverso il provvedimento di rigetto, la società propone ricorso al Consiglio di Stato, denunciando la contrarietà della disciplina greca alle disposizioni poste dalla Dir. n. 98/59/CE, nonché alle libertà di stabilimento e di circolazione dei capitali (artt. 49, 63 TFUE) ed alla libertà di impresa (art. 16 CDFUE). Il Consiglio di Stato, esercitando la prerogativa di cui all’art. 267 TFUE, rivolge alla CGUE una domanda pregiudiziale, articolata in due questioni: la prima concerne la compatibilità della disciplina nazionale rispetto alla Dir. n. 98/59/CE, agli artt. 49 e 63 TFUE ed all’art. 16 CDFUE; con la seconda si chiede di chiarire se, nel caso in cui tale incompatibilità sia dichiarata, la disciplina nazionale non possa essere considerata legittima sul presupposto del «contesto caratterizzato da una crisi economica acuta e da un tasso di disoccupazione particolarmente elevato».
2. Il caos Grecia. È opportuno dedicare qualche cenno alla situazione in cui versa la Grecia da alcuni anni a questa parte; non si tratta, si badi, di un esercizio di stile o di una concessione al peso geo-politico della pronuncia: la crisi economica e il tasso di disoccupazione, posti a base del veto ministeriale e richiamati a più riprese dalla Corte, rappresentano, infatti, il convitato di pietra di questa pronuncia. L’odissea greca ha inizio nel 2009, allorché, sotto il peso della crisi globale e del deterioramento degli equilibri economico-finanziari interni, il Governo si trova precluso l’accesso al mercato internazionale dei bond5. Per evitare il default del debito sovrano, la Grecia avvia una serie di serrate trattative con gli Stati della zona-euro e il FMI, in un percorso – ad oggi inconcluso – che conduce alla stipulazione di alcuni Memoranda of Understanding6: accordi mediante i quali, a fronte di aiuti finanziari, lo Stato si obbliga a implementare un complesso di misure – in relazione alle quali la distinzione tra soft e hard law perde di rilevanza – volte, in sintesi, al taglio della spesa pubblica, alla revisione di discipline-chiave del diritto del rapporto individuale di lavoro e del diritto sindacale, al contenimento delle dinamiche salariali ed alla privatizzazione di asset pubblici. Eppure, l’adozione di questa cura a lacrime e sangue, della quale è stata criticata la coerenza teorica nel rapporto mezzi-obiettivi-benefici7, posta in luce la natura anti-demo-
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Riprendono gli accadimenti precedenti e successivi al deflagrare della crisi del debito sovrano greco Koukiadaki, Kokkinou, The Greek system of collective bargaining in (the) crisis, in Koukiadaki, Távora, Martínez Lucio, Joint regulation and labour market policy in Europe during the crisis, Brussels, ETUI, 2016, 135 ss. 6 I Memoranda of Understanding sono tra gli strumenti tipici della nuova governance europea, affermatasi negli anni della crisi: sul tema, cfr. Balamoti, Evaluating the new rules of EU economic governance in times of crisis, in ELLJ, 2014, 95 ss.; Chieco, “Riforme strutturali” del mercato del lavoro e diritti fondamentali dei lavoratori nel quadro della nuova governance economica europea, in DLRI, 2015, 359 ss. 7 Tsoukala, Euro zone crisis management and the new social Europe, in CJEL, 2013, 31 ss.
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cratica8 e rappresentata la contrarietà agli standard del diritto internazionale del lavoro9, non ha sortito gli effetti sperati: non solo nel 2013 – ove si colloca la nostra vicenda – ma, ad oggi, il tasso di disoccupazione in Grecia continua a essere elevato10 ed il paese stenta a ritrovare la tanto agognata via della crescita. In breve, se la crisi, in Grecia come altrove, seguita a far sentire i propri effetti sul tessuto sociale e su quello economico-produttivo, ad essere stati nel frattempo superati sono gli assetti consolidati del sistema giuridicoistituzionale di tutela del lavoro, nella duplice dimensione individuale e collettiva11. Il tutto, per di più, operando in una zona grigia nella quale non è chiara – né scontata – la competenza delle Istituzioni UE: competenza che, facendo leva sullo stato di necessità, sembra sia divenuta più ampia e incisiva, in un fenomeno che è stato efficacemente definito di competence creep12.
3. Autorizzazione preventiva al licenziamento collettivo e
diritto primario e secondario dell’UE.
È inutile girarci tanto attorno: una disposizione che attribuisca a una p.a. un potere di veto sul licenziamento collettivo impone un limite considerevole (in astratto o, allorché il potere sia esercitato, in concreto) all’iniziativa economica privata – o alla libertà di impresa13 –, per lo meno ove si assuma che in un’economia di mercato essa implichi la libera determinazione del soggetto in ordine all’avvio, al ridimensionamento e alla cessazione dell’attività produttiva, pur nel rispetto dei vincoli (per vero, formali e di procedura) posti dall’ordinamento multi-livello14. Non è un caso, del resto, che la disciplina greca rappresenti ormai quasi un unicum nel panorama europeo15. Se in Italia il controllo preventivo da parte della pubblica autorità,
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In letteratura si è posto in luce come l’implementazione delle misure di austerity sia intervenuta nel costante aggiramento del ruolo svolto dalle parti sociali (Koukiadaki, Kokkinou, The Greek system of collective bargaining in (the) crisis, cit., 143 ss.), nonché degli organi democraticamente eletti, tanto a livello nazionale quanto europeo (Somek, Delegation and Authority: Authoritarian liberalism today, in ELJ, 2015, 340 ss.), il che non è rimasto privo di conseguenze anche sul sistema politico (Mavris, Greece’s austerity election, in NLR, 2012, 95 ss.). 9 Rocca, Enemy at the (flood) gates. EU Exceptionalism’ in recent tensions with the international protection of social rights, cit. 10 Il 2016 ha fatto registrare un tasso di disoccupazione in Grecia pari al 23,5%, il più alto dell’UE e della zona-euro (Eurostat 2016); un valore, inoltre, raddoppiato rispetto a quello pre-crisi (nel 2009 il tasso di disoccupazione era al 9,6% e nel 2010 al 12,7%). Nel 2013 il tasso di disoccupazione era al 27,5%. 11 È la denuncia dell’International Trade Union Confederation (ITUC), IMF attacks on Greek workers’ rights are unacceptable, 30 marzo 2017. 12 Cfr. tra i molti Tsoukala, Euro zone crisis management and the new social Europe, cit. 13 Secondo la denominazione accolta dalla CDFUE, all’art. 16: per un commento alla disposizione v. Malberti, Sub art. 16. Libertà d’impresa, in Mastroianni, Pollicino, Allegrezza, Pappalardo, Razzolini, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Giuffrè, 2017, 310 ss. 14 La CGUE lo afferma con chiarezza in AGET Iraklis, al punto 53 della sentenza. 15 Non stupisce, infatti, che la Corte non si sia mai occupata di una questione analoga nella sua giurisprudenza sulla Direttiva n. 98/59: in una rapida – quanto incompleta – rassegna si segnalano, piuttosto, le questioni della dimensione comunitaria della nozione di licenziamento collettivo (C. giust., 12 ottobre 2004, causa C55/02, Commissione c. Repubblica portoghese; C. giust., 27 gennaio 2005, causa C-188/03, Junk), dell’eventualità che il licenziamento collettivo non sia riconducibile ad un atto di volontà del datore di lavoro
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introdotto dopo la fine del secondo conflitto mondiale per esigenze di controllo sociale e dei livelli occupazionali, è stato superato con il normalizzarsi della situazione politica ed economica, in Francia, ad esempio, eccezion fatta per una breve parentesi nel dopoguerra, un’autorizzazione amministrativa al licenziamento «economico» è stata introdotta nel 1975 e mantenuta in vigore fino al 198616; in Olanda, invece, disposizioni siffatte, introdotte all’indomani della seconda guerra mondiale, sono ancora in vigore17. Con l’eccezione dell’Olanda – il cui Governo si è astenuto dall’intervenire nel procedimento instaurato davanti alla CGUE – il caso C-201/15 non pare suscettibile di ricadute immediate sugli altri ordinamenti nazionali. A destare interesse sono dunque le argomentazioni spese dalla CGUE nell’operare il bilanciamento tra le istanze dell’Europa Sociale e le libertà economiche garantite dal Trattato e dalla Carta di Nizza.
3.1. La direttiva n. 98/59/CE. Il nucleo della direttiva è costituito, come noto, dalla procedimentalizzazione dei poteri datoriali, mediante una procedura di informazione e consultazione sindacale ed un interessamento della pubblica autorità, che interviene, in effetti, soprattutto al fine di agevolare la conclusione di un accordo tra le parti; non sono contemplate nel testo (nonostante le suggestioni emerse durante l’elaborazione della direttiva originaria) un’autorizzazione amministrativa né, tantomeno, l’obbligatoria predisposizione di un piano sociale: in tal senso, si può affermare che la disciplina assicura una tutela modesta ai lavoratori18. Modesta, sì, ma minimale, nella misura in cui lo scopo di armonizzare le discipline nazionali e garantire una protezione analoga ai lavoratori negli Stati Membri19 non pregiudica, ai sensi dell’art. 5 della direttiva, la possibilità di introdurre discipline più favorevoli per i lavoratori20. Questa, in breve, è la logica che induce la Corte ad escludere che, in via di principio,
(C. giust., 10 dicembre 2009, causa C-323/08, Rodríguez Mayor), dell’applicabilità della direttiva ai datori di lavoro che nella loro attività non perseguono scopi di lucro (C. giust., 16 ottobre 2003, causa C-32/02, Commissione c. Repubblica italiana), delle modalità di calcolo delle soglie dei lavoratori (C. giust., 18 gennaio 2007, causa C-385/05, Confédération Général du Travail) e della nozione di stabilimento (C. giust., 30 aprile 2015, causa C-80/14, Union of Shop, Distributive and Allied Workers). 16 Cfr. Camerlynck, G. Lyon-Caen, Droit du travail, Paris, Dalloz, 1978, 184-186. Si tenga, tuttavia, presente che nel sistema francese l’autorità amministrativa è titolare di incisivi poteri di intervento nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo, soprattutto con riferimento alle ipotesi in cui sia obbligatoria, per l’impresa, la predisposizione di un plan de sauvegarde de l’emploi (artt. L 123357 ss.): cfr. Peskine, Wolmark, Droit du travail, Dalloz, 2017, 450 ss. 17 Cfr. Gaudu, Collective redundancies for economic motives: convergences and controversies, in ELLJ, 2011, 9, nt 7; amplius Jacobs, Labour law in the Netherlands, Alphen aan den Rijn, Kluwer law International, 2015, II ed., 176-177: l’autore rammenta che l’autorizzazione preventiva fu originariamente concepita (nel 1945) quale strumento di regolazione del mercato del lavoro nel periodo della ricostruzione post-bellica, finalizzato soprattutto ad impedire ai lavoratori di abbandonare settori industriali ritenuti essenziali in favore di altri (l’autorizzazione era richiesta anche in caso di dimissioni); nel 2014, prosegue l’autore, il provvedimento del 1945 è stato abrogato, ma l’autorizzazione preventiva (che può essere sostituita da strumenti rimessi all’autonomia collettiva) è stata confermata per i soli datori di lavoro, trovando ormai la propria ratio nella «protezione dei lavoratori avverso licenziamenti ingiustificati», atteso che «la mera esistenza di un controllo ex ante sui licenziamenti imporrebbe agli imprenditori un self-restraint in materia di licenziamenti o in ogni caso li indurrebbe ad esercitare con prudenza il proprio potere di recesso unilaterale» (trad. mia). 18 Cfr. Roccella, Treu, Diritto del lavoro dell’Unione Europea, Torino, Giappichelli, 415. 19 C. giust., 9 luglio 2015, causa C‑229/14, Balkaya, punto 32. 20 C. giust., 18 gennaio 2007, causa C-385/05, Confédération Général du Travail, cit., punto 44.
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la direttiva osti a una disciplina che, in caso di mancato accordo tra le parti, attribuisca alla p.a. un potere di veto sul licenziamento collettivo (punto 33)21. Tanto precisato, la Corte si sofferma, tuttavia, sull’eventualità che la formulazione dei criteri che la p.a. deve prendere in considerazione (interesse dell’economia nazionale, condizioni del mercato del lavoro, situazione dell’impresa) possa portare a un esito diverso. Ciò, in particolare, si verificherebbe nel caso in cui, alla luce della concreta attuazione di tali criteri da parte della pubblica autorità (in un apprezzamento che la Corte rimanda al giudice nazionale), gli stessi si dimostrino ampi ed indeterminati al punto da comprimere del tutto il diritto del datore di lavoro di effettuare un licenziamento collettivo, privando così la direttiva del proprio effet utile (spec. punto 44). Il ragionamento è criticabile. Anzitutto, poiché esso si risolve in una contraddizione interna alla sentenza (se ne dirà nel paragrafo successivo, seguendo le motivazioni della sentenza, che riproduce il ragionamento con riferimento alla libertà d’impresa e di stabilimento); in secondo luogo, poiché l’effet utile della direttiva solo a costo di una forzatura può essere fatto coincidere con la libertà del datore di lavoro, una volta esperita la procedura, di concludere il licenziamento collettivo22: la direttiva mira a limitare la prerogativa datoriale, in ciò sostanzialmente esaurendosi il contributo del legislatore europeo e, per converso, l’obbligo degli Stati Membri di darvi attuazione. Sul punto, in definitiva, ben avrebbe fatto la Corte ad aderire alla ricostruzione dell’AG Wahl, secondo il quale, atteso che la dir. n. 98/59 non entra nel merito delle condizioni sostanziali del licenziamento, gli Stati Membri sono liberi, al riguardo, di adottare proprie determinazioni: la legittimità della disciplina greca rispetto alla direttiva non riposerebbe, pertanto, sul carattere migliorativo della stessa, ma sulla separazione dei rispettivi ambiti di applicazione23.
3.2. Le libertà di impresa (art. 16 CDFUE) e di stabilimento (art. 49 TFUE). Gli aspetti di maggiore interesse di AGET Iraklis sono relativi al tentativo della Corte di operare un bilanciamento tra la disciplina nazionale e le libertà sancite agli artt. 16 CDFUE e 49 TFUE24. Il ragionamento sulle libertà economiche procede in parallelo, prendendo le mosse dalla constatazione che la disciplina greca è, in effetti, suscettibile di causarne una restrizione25; non trattandosi, tuttavia, di libertà assolute, la questione si risolve in quella della
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In altri termini, benché la direttiva fin dalla sua versione originaria non pregiudichi la libertà del datore di lavoro di procedere ad un licenziamento collettivo né tantomeno incida sul se e sul quando debba avviare la relativa procedura (C. giust., 12 febbraio 1985, causa C-284/83, Dansk Metalarbejderforbund e Specialarbejderforbundet i Danmark), agli Stati Membri è dato introdurre una disciplina più efficace nella tutela garantita ai lavoratori. 22 È quanto rileva Ratti, Tecniche di bilanciamento fra tutela del lavoro e libertà di impresa nel diritto europeo, di prossima pubblicazione in LG, 2017. 23 In tal senso Giubboni, Libertà d’impresa e diritto del lavoro nell’Unione Europea, cit., 123. 24 La Corte ha rilevato come il profilo della violazione della libertà di circolazione dei capitali resti assorbito (in quanto sua diretta conseguenza) dall’esame relativo alla violazione della libertà di stabilimento (punto 59 della sentenza). 25 Da una parte, poiché la libertà d’impresa ricomprende la «libertà di esercitare un’attività economica o commerciale, la libertà
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legittimità di tali restrizioni, sotto il profilo della adeguatezza e proporzionalità. Il modello di ragionamento è ben noto: esso, in particolare, si fonda, quanto alla libertà d’impresa, sul dato testuale di cui all’art. 52 CDFUE, che ammette limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà previsti dalla Carta, purché siano previste per legge, ne rispettino il contenuto essenziale e, in ossequio al principio di proporzionalità, siano necessarie e rispondano a finalità d’interesse generale26; quanto alla libertà di stabilimento, la Corte richiama la propria giurisprudenza in merito alle restrizioni introdotte dagli Stati Membri, che devono – parimenti – superare il test di proporzionalità, perseguire finalità di interesse generale27 e non porsi, in ogni caso, in violazione di diritti e libertà fondamentali28, che nel caso de quo coincidono con la libertà d’impresa ex art. 16 CDFUE. Nel tentativo di districarsi nelle maglie di questo caso scottante, la Corte oscilla tra i suoi due precedenti più rilevanti in materia di bilanciamento tra libertà d’impresa e istanze sociali (tra quelli resi dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona): Sky Österreich29, che, riconosciuta la funzione sociale della libertà d’impresa, ne ricava l’opportunità di congrue limitazioni «da parte dei poteri pubblici suscettibili di stabilire, nell’interesse generale, limiti all’esercizio dell’attività economica», e la criticatissima Alemo Herron30, che esalta il nucleo incomprimibile – la sostanza stessa – della libertà d’impresa, per affermarne l’incompatibilità con una disposizione (britannica) che, in materia di diritti dei lavoratori nel contesto di un trasferimento di azienda, riteneva opponibile al cessionario un rinvio dinamico ai contratti collettivi conclusi dal cedente. Ne scaturisce una decisione bipolare, che, nelle premesse, offre una lettura socialmente sensibile del quadro giuridico – che potrà essere richiamata di qui in avanti in casi simili31 –, ma che, al momento di trarre le conclusioni, finisce per dichiarare l’incompatibilità della disciplina nazionale rispetto all’art. 49 TFUE, come auspicato dall’AG Wahl32. Sotto il primo profilo, è degno di nota che la Corte abbia rilevato che la libertà d’impresa deve essere intesa nel senso della funzione svolta nella società e che l’Unione non si pone solo obiettivi
contrattuale e la libera concorrenza» (punto 67); dall’altra, poiché la libertà di stabilimento, nella cui fattispecie rientra la «situazione in cui una società stabilita in uno Stato membro crei una società controllata in un altro Stato membro», osta in via di principio a «misure che, seppur applicabili senza discriminazione quanto alla nazionalità, sono idonee ad ostacolare o rendere meno attraente l’esercizio della libertà di stabilimento», ostacolando «in tal modo il commercio intracomunitario» (punti 46-49). 26 Sul tema cfr. Ferraro, Lazzerini, Sub art. 52. Portata e interpretazione dei diritti e dei principi, in Mastroianni, Pollicino, Allegrezza, Pappalardo, Razzolini, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, cit., 1062 ss. 27 Punto 61 della sentenza ed ivi riferimenti giurisprudenziali. 28 Il precedente più rilevante è C. giust., 26 febbraio 2013, causa C‑617/10, Åkerberg Fransson, ove la CGUE ha affermato il principio secondo il quale il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali garantiti dalla CDFUE deve essere garantito ogni qual volta una normativa nazionale rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione (cfr. Baraggia, La tutela dei diritti in Europa nel dialogo tra Corti: “epifanie” di una Unione dai tratti ancora indefiniti, in Rivista AIC, 2015, 2): nel caso Aget Iraklis ciò deriverebbe dalla circostanza che la normativa nazionale entra nel raggio di azione della libertà di stabilimento, apportandovi una limitazione. 29 C. giust., 22 gennaio 2013, causa C-283/11, Sky Österreich. 30 C. giust., 18 luglio 2013, causa C-426/11, Alemo-Herron, sulla quale v. Prassl, Freedom of contract as a general principle of EU law? Transfers of undertakings and the protection of employer rights in EU law, in ILJ, 2013, 4, 434 ss.; Syrpis, Novits, The EU internal market and domestic labour law: looking beyond autonomy, in Bogg, Costello, Davies, Prassl, The The autonomy of labour law, Oxford, Hart, 2015, 300-302. 31 Il bicchiere è, infatti, mezzo pieno per Countouris, Koukiadaki, Greek Glass Half-Full: The CJEU and Europe’s ‘Highly Competitive Social Market’ Economy, cit. 32 Attirandosi così le critiche sferzanti di Giubboni, Libertà d’impresa e diritto del lavoro nell’Unione Europea, cit.
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economici (mercantilistici, verrebbe da dire) ma anche sociali, richiamando, per la prima volta in modo espresso nella propria giurisprudenza, la clausola sociale orizzontale ex art. 9 TFUE33. Per questa via, la Corte giunge ad affermare che la disciplina greca, volta ad assicurare ai lavoratori una tutela efficace (così perseguendo un interesse generale), sia adeguata, nei mezzi, rispetto allo scopo (così rispettando il principio di proporzionalità): ne deriva che la stessa può «essere compatibile, sotto tale aspetto, con gli articoli 49 TFUE e 16 della Carta» (punto 94). Di qui in avanti la sentenza cambia registro: con riferimento ai criteri contenuti nella legge greca, infatti, la Corte – riprendendo il ragionamento svolto con riferimento alla Direttiva – osserva che la loro formulazione è «generica e imprecisa» (punto 99) e che né l’obbligo di svolgere un’istruttoria e motivare il provvedimento di rigetto, né il successivo controllo giurisdizionale fanno venir meno il pregiudizio subito dal datore di lavoro, che si troverebbe nella situazione di non poter ragionevolmente prevedere «le circostanze concrete nelle quali il suddetto potere può essere esercitato» (punto 100): il che va «oltre quel che è necessario per conseguire gli obiettivi indicati», sì da violare il «principio di proporzionalità» (punto 100). La conclusione non è condivisibile, nella misura in cui, se si afferma, in via di principio, la compatibilità di una disciplina come quella greca rispetto (dapprima, alla direttiva n. 98/59 e, in seguito, anche) alle libertà di stabilimento e d’impresa, non si vede come si possa poi d’un tratto negare che tale asserzione implichi inevitabilmente un certo margine di apprezzamento della p.a. (discrezionale ma suscettibile di controllo giurisdizionale ex post, come nel caso greco), mediante la ponderazione di alcuni criteri, da principio generici, ma da precisare in relazione al caso concreto, motivando l’eventuale provvedimento di rigetto.
4. Una certa idea di capitalismo. Seguendo il filone di letteratura sulle varietà di capitalismi, inaugurato dallo studio pioneristico di Hall e Soskice del 200134 e ripreso in seguito da numerosissimi contributi35, la Grecia fa parte della sotto-categoria delle economie miste di mercato di marca “mediterranea”: il cui segno distintivo, tra gli altri, è quello di un intervento deciso dello Stato nell’economia, che sarebbe causa, anche per la scarsa trasparenza ed affidabilità dei processi decisionali della p.a., di inefficienze, sprechi ed importanti diseconomie nella gestione dei processi produttivi. Quanto ciò corrisponda al vero, non è dato sapere; né, tantomeno, è chiaro se la vicenda della crisi economico-sociale in Grecia affondi qui le proprie radici, come talvolta lascia intendere la vulgata, anche politica. Quel che si può osservare è che
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Sul tema cfr. Ferrara, L’integrazione europea attraverso il «social test»: la clausola sociale orizzontale e le sue possibili applicazioni, in RGL, 2013, I, 295 ss. 34 Hall, Soskice, Varieties of capitalism: the institutional foundations of comparative advantage, Oxford, OUP, 2001. 35 Ad es., sotto la prospettiva del ruolo dei sindacati, Hassel, Trade Unions and the Future of Democratic Capitalism, in, Beramendi, HÄusermann, Kitschelt, Kriesi, The Politics of Advanced Capitalism, New York, Cambridge University Press, 2015, 231 ss.
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nel rendere la sentenza sul caso AGET Iraklis, abbia pesato l’idea stessa dell’incompatibilità – ab imis – tra una misura che consente ai poteri pubblici di interferire con il libero esercizio dell’attività economica e la concezione di capitalismo che si va delineando in Europa negli anni della crisi. Due rilievi critici possono essere mossi al riguardo. Anzitutto, la formulazione dell’art. 16 CDFUE, che riconosce la libertà d’impresa «conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali», dovrebbe disporre a una maggiore cautela e prudenza l’interprete che si appresta ad operare un bilanciamento (coordinamento) tra la libertà d’impresa e le peculiarità degli ordinamenti nazionali: le loro costituzioni economiche36. In secondo luogo, la decisione della Corte, nonostante le indubbie aperture interpretative – che si atteggiano però a meri obiter dicta –, finisce per porsi nel solco della giurisprudenza Alemo-Herron, nella quale i diritti garantiti ai lavoratori dalle direttive sociali rappresentano non un livello minimo, ma un tetto oltre il quale gli Stati Membri non possono porre i propri standard di tutela37. Giulio Centamore
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Cfr. Malberti, Sub art. 16. Libertà d’impresa, cit., spec. 314-315. Prassl, Freedom of contract as a general principle of EU law? Transfers of undertakings and the protection of employer rights in EU law, cit.
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Giurisprudenza C orte di C assazione , sentenza 9 novembre 2016, n. 22798; Pres. Nobile – Est. Amendola – P.M. Matera (concl. conf.) – Varvarito Lavori S.r.l. (avv. Rolfo, Paloscia) c. M.S. (avv. Stramaccia). Conferma App. Firenze sent. n. 1021/2013. Recesso – licenziamento per giustificato motivo oggettivo – obbligo di repêchage – mansioni – demansionamento.
Viola l’obbligo di repêchage il datore di lavoro che manca di attivarsi nella ricerca di mansioni, anche inferiori, cui adibire il lavoratore, con conseguente illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo. Svolgimento del processo – Con sentenza del 19 settembre 2013 la Corte di Appello di Firenze, in riforma della decisione di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato a M.S. in data (omissis) dalla Varvarito Lavori Srl, condannando quest’ultima alla reintegrazione del dipendente, oltre alle pronunce patrimoniali consequenziali limitate, quanto al risarcimento del danno, nella somma pari ad otto mensilità della retribuzione globale di fatto per un importo mensile di Euro 2.525,96, oltre accessori e spese. La Corte territoriale, pur condividendo la valutazione fatta dal primo giudice in ordine al venir meno della necessità di personale addetto alla conduzione di macchine escavatrici, ha tuttavia rilevato che i libri matricola denotavano nuove assunzioni di manovali e che il M. aveva espressamente segnalato nell’atto introduttivo la circostanza delle nuove assunzioni e la mancata offerta di compiti equivalenti o anche di livello inferiore; ne ha tratto il convincimento che fosse mancata “ogni prova dell’impossibilità di repêchage” con conseguente illegittimità del licenziamento. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Varvarito Lavori Sri con due motivi. Ha resistito con controricorso M.S.. Parte ricorrente ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c. pervenuta però in cancelleria fuori termine. Diritto Motivi della decisione – Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione dell’art. 2103 c.c. “nel merito della presunta violazione del cd. obbligo di repêchage e comunque contraddittorietà della sentenza su di un punto decisivo della controversia”. Si sostiene che l’obbligo di repêchage gravante sul datore di lavoro “non si estenda anche alle mansioni inferiori a quelle del lavoratore licenziato”. In correlazione si ravvisa una contraddittorietà della motivazione laddove si riferisce a nuove assunzioni, pacificamente riguardanti la mansione di manovale e quindi sicuramente mansione inferiore rispetto a quelle dell’inquadramento contrattuale di appartenenza del M.
La censura è infondata. Come noto, condizione di legittimità di un licenziamento disposto per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, a mente della L. n. 604 del 1966, art. 3 è anche l’impossibilità di utilizzazione del lavoratore destinatario della risoluzione del rapporto in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte. Pacifico che la verifica della possibilità del cd. repêchage vada condotta con riferimento a mansioni equivalenti. Più controverso se tale verifica debba investire anche la possibilità di adibizione a mansioni inferiori, frapponendosi ad essa l’ostacolo dell’inderogabilità della norma contenuta nell’art. 2103 c.c., comma 2 – nel testo pro tempore vigente, antecedente alla riformulazione introdotta dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3 – che comminava la nullità di ogni patto contrario a quanto stabilito dal comma 1 disposizione codicistica citata. Secondo una risalente giurisprudenza tale divieto “non consente deroghe neppure nell’ipotesi in cui la sua applicazione possa risolversi in un pregiudizio per il lavoratore, in quanto - sancendo la nullità di ogni patto contrario al fine di eliminare ogni possibilità di elusione del divieto di variazione deteriore della posizione del lavoratore, e privilegiando così l’esigenza della certezza – ha adottato uno strumento di tutela rigido, che opera in tutte le direzioni e può, quindi, in condizioni particolari, comportare anche un sacrificio per il prestatore di lavoro” (v. Cass. n. 1026 del 1980; Cass. n. 7281 del 1983). Nel corso del tempo, al cospetto del divieto inderogabile di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori, si sono configurate eccezioni non solo da parte della legge (ad L. n. 223 del 1991, ex. art. 4, comma 11; L. n. 68 del 1999, art. 4, comma 4; L. n. 151 del 2001, art. 7, comma 5) ma anche ad opera della giurisprudenza, sull’assunto razionale che le deroghe all’espressa previsione di nullità sono giustificate nelle sole ipotesi in cui vi è una oggettiva prevalenza dell’interesse del di-
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pendente al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto. In tale sviluppo risulta fondamentale l’arresto delle sezioni unite di questa Corte (sent. n. 7755 del 1998), secondo cui la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro subordinato, ai sensi della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3, a condizione che risulti ineseguibile l’attività svolta in concreto dal prestatore e che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti ai sensi dell’art. 2103 c.c. ed eventualmente inferiori, in difetto di altre soluzioni. Secondo il Supremo Collegio le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro sono prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del prestatore, rilevandosi già all’epoca che “ad una non rigida interpretazione dell’art. 2103 c.c. inducono le maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro”. Il principio è stato ribadito in successive pronunce che hanno valorizzato come l’assegnazione a mansioni inferiori del lavoratore divenuto fisicamente inidoneo costituisce un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, adeguamento che deve essere sorretto, oltre che dall’interesse, anche dal consenso del prestatore (Cass. n. 15500 del 2009; Cass. n. 18535 del 2013). Sull’aspetto del ruolo della volontà del lavoratore nella vicenda risolutiva assai di recente (Cass. n. 10018 del 2016) si è precisato che, poiché la inidoneità del prestatore giustifica il recesso solo nell’ipotesi in cui le energie lavorative residue non possano essere utilizzate altrimenti nell’impresa, anche in mansioni inferiori, il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a ricercare possibili soluzioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, divenendo libero di recedere dal rapporto solo qualora la soluzione alternativa non venga accettata. Gli esposti principi, affermati in caso di sopravvenuta infermità permanente con conseguente impossibilità della prestazione, hanno trovato ingresso anche in altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (v. Cass. n. 21579 del 2008). Così in una ipotesi di soppressione, a seguito della riorganizzazione aziendale, del posto di lavoro si è statuito che “l’art.
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2103 c.c. si interpreta alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, sicché, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, non è necessario un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale” (Cass. n. 23698 del 2015). Ancor più di recente si è ribadito che le ragioni poste a fondamento della ricordata pronuncia delle Sezioni Unite n. 7755 del 1998 conservano piena validità anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente a soppressione del posto di lavoro in conseguenza di riorganizzazione aziendale; anche in questa ultima ipotesi è infatti ravvisabile una nuova situazione di fatto (inerente al nuovo assetto dell’impresa anziché alla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore) legittimante il consequenziale adeguamento del contratto, così come identiche sono le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore); al contempo analoghi devono ritenersi i limiti alla rilevanza della utilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori, da individuarsi nel rispetto dell’assetto organizzativo dell’impresa insindacabilmente stabilito dall’imprenditore e nel consenso del lavoratore all’adibizione a tali mansioni (in termini Cass. n. 4509 del 2016, conf. a Cass. n. 21579/2008 cit.). Alla stregua degli esposti insegnamenti il mezzo di gravame fondato sull’assunto, errato in diritto, secondo cui l’obbligo di repêchage gravante sul datore di lavoro “non si estenda anche alle mansioni inferiori a quelle del lavoratore licenziato”, non può che essere respinto, atteso che, come riportato nello storico della lite, il lavoratore aveva segnalato sin dall’atto introduttivo del giudizio la circostanza delle nuove assunzioni di manovali e la mancata offerta datoriale di compiti equivalenti o anche di livello inferiore e che, nel corso del giudizio medesimo, tali fatti – secondo la Corte territoriale – avevano trovato conferma, conclamando la violazione dell’obbligo di repêchage. (omissis)
Elena Gramano
Dal patto all’obbligo di demansionamento Sommario: 1. Il caso. – 2. L’obbligo di repêchage: le questioni interpretative aperte. – 3. Obbligo di repêchage e mansioni inferiori nel vigore del “vecchio” art. 2103 c.c. – 4. La soluzione offerta dalla Corte di Cassazione. – 5. Prospettive alla luce del “nuovo” art. 2103 c.c..
Sinossi. La Corte di Cassazione, chiamata a decidere dell’impugnazione – proposta dal datore di lavoro – della pronuncia con cui la Corte d’appello aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo a fronte del mancato assolvimento dell’obbligo datoriale di repêchage, ha rigettato il ricorso statuendo che è errato in diritto il principio – sostenuto dal ricorrente – per cui l’obbligo di repêchage non si estende anche alle mansioni inferiori a quelle del lavoratore licenziato. Il Supremo Collegio ha così fatto proprio l’orientamento secondo cui spetta al datore, prima di intimare il licenziamento, l’obbligo di ricercare possibili soluzioni alternative anche sul terreno delle mansioni inferiori e di rappresentare al prestatore il possibile demansionamento, divenendo libero di recedere dal contratto solo ove la soluzione alternativa non sia stata accettata; pertanto, viola l’obbligo di repêchage il datore di lavoro che manca di attivarsi nella ricerca di mansioni anche inferiori cui adibire il lavoratore, con conseguente illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo.
1. Il caso. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi sul tema dei limiti dell’obbligo di repêchage e sul tema del ruolo della volontà del prestatore di lavoro, quale presupposto per legittimare il demansionamento a fronte di un possibile licenziamento. La vertenza nasce dall’impugnazione, da parte della società datrice di lavoro, della pronuncia di appello con la quale la Corte del merito, dopo avere accertato l’effettiva soppressione delle mansioni di conduzione di macchine escavatrici cui era adibito il lavoratore licenziato, aveva nondimeno dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, a fronte del mancato assolvimento dell’obbligo di repêchage. L’assunzione di nuovo personale, cui erano state affidate mansioni di manovale, dimostrava, secondo il convincimento del giudice, che alla data del recesso vi fossero concrete alternative al licenziamento e che il datore di lavoro non avesse affatto offerto dette mansioni al lavoratore, mancando così di assolvere all’obbligo di repêchage.
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Con il primo motivo di ricorso, la parte soccombente denuncia la violazione dell’art. 2103 c.c. – nella versione anteriore alla novella del 20151, applicabile ratione temporis –, sostenendo che l’obbligo di repêchage non possa estendersi alle mansioni inferiori. Nella specie, il datore di lavoro non sarebbe stato affatto tenuto ad offrire al lavoratore le mansioni di manovale, per lo svolgimento delle quali aveva proceduto a nuove assunzioni, in quanto mansioni collocate in un livello di inquadramento contrattuale inferiore rispetto a quelle da ultimo svolte dal prestatore di lavoro licenziato.
2. L’obbligo di repêchage: le questioni interpretative aperte. La Corte è chiamata ad affrontare una complessa questione, la cui soluzione impone di procedere alla analisi di alcuni problemi preliminari. Premessa implicita del ragionamento della Corte è l’esistenza del c.d. obbligo di repêchage, ossia l’obbligo del datore di lavoro, che intenda licenziare un lavoratore per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3, l. 15 luglio 1966, n. 604, di verificare la possibilità di adibire il prestatore a diverse mansioni, senza che ciò comporti alterazioni della struttura organizzativa2. Se l’esistenza del suddetto obbligo può dirsi ormai pacifica3, e se pacifica poteva dirsi la sua estensione allo spettro delle mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte alla luce del “vecchio” art. 2103 c.c., decisamente controversa era la questione della possibilità di adibire il lavoratore anche a mansioni inferiori, al fine di evitarne il licenziamento, nonostante la comminatoria di nullità di ogni patto contrario di cui al comma 2 dell’art. 2103 c.c. medesimo. Invero, la questione è stata risolta in via interpretativa da quella giurisprudenza, ormai consolidata, che ha ritenuto legittimo il patto di demansionamento tra datore di lavoro e lavoratore, purché giustificato esclusivamente dalla necessità di evitare il licenziamento. Al consolidamento di questa impostazione (c.d. teoria del male minore) si è giunti per gradi.
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L’art. 2103 c.c. è stato riscritto ad opera dell’art. 3, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81. Cass., 13 giugno 2016, n. 12101, in RFI, 2016, voce Lavoro (rapporto), n. 493; Cass., 28 settembre 2016, n. 19185, in GD, 2016, 43, 52; Cass., 1 dicembre 2015, n. 24421, in RFI, 2015, voce Contratto in genere, n. 347; Cass., 24 giugno 2015, n. 13116, in NGL, 2015, 589; Cass., 12 febbraio 2014, n. 3224, in NGL, 2014, 522; Cass., 21 febbraio 2013, n. 4299, in NGL, 2013, 515; Cass., 18 novembre 2015, n. 23620, in LG, 2016, 6, 580, con nota di Zampini. 3 Tale obbligo, definito dalla più che consolidata giurisprudenza, non è espressamente disciplinato dal legislatore. Proprio la sua matrice esclusivamente giurisprudenziale ha fatto sì che il repêchage sia stato oggetto delle critiche di parte della dottrina a fronte dell’affermato carattere creativo delle sentenze che tale figura hanno coniato praeter legem. Sul tema: Brun, Giustificato motivo oggettivo di licenziamento e sindacato giudiziale, in QDLRI, 2002, 26, 149; Ead., Il licenziamento economico tra esigenze dell’impresa e interesse alla stabilità, Cedam, 2012, 54; Ogriseg, Il giustificato motivo di licenziamento: prospettive interdisciplinari, in DRI, 2003, III, 485; Ichino, Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in RIDL, 2002, I, 472; Pisani, Il repêchage nel licenziamento per motivi oggettivi: la «creazione» si espande al pari dell’incertezza, in MGL, 2013, IV, 187; Persiani, Diritto del lavoro e autorità dal punto di vista giuridico, in ADL, 2000, I, 34; Calcaterra, La giustificazione causale del licenziamento per motivi oggettivi nella giurisprudenza di legittimità, in DRI, 2005, III, 621; Novella, Dubbi e osservazioni critiche sul principio di insindacabilità delle scelte economico-organizzative dell’imprenditore, in RIDL, 2004, IV, 791. 2
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La stessa sentenza in commento ripercorre i passaggi essenziali dell’evoluzione delle soluzioni interpretative prospettate dalla giurisprudenza in materia. A fronte dell’alternativa tra licenziamento e adibizione a mansioni professionalmente non equivalenti, un primissimo orientamento, presto superato, aveva ritenuto di restare coerente alla lettera della disposizione, affermando che, a fronte del carattere indubbiamente imperativo dell’art. 2103 c.c., nessun rilievo giuridico poteva essere riconosciuto alla esigenza, pure innegabile nei fatti, di soddisfare l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro4. Si riteneva, infatti, che il problema della perdita del posto di lavoro conseguente all’obsolescenza della professionalità acquisita o, semplicemente, al venire meno della sua utilizzabilità da parte del datore di lavoro non fosse risolvibile per il tramite dell’art. 2103 c.c. 5, il cui ambito di applicazione ed il cui carattere inderogabile erano chiaramente esplicitati dalla norma6. Secondo questa interpretazione, l’unica soluzione che poteva legittimare il demansionamento del lavoratore consisteva nel c.d. recesso modificativo7: solo la risoluzione per mutuo consenso del contratto di lavoro, seguita dalla instaurazione di un nuovo rapporto avente diverso oggetto, poteva legittimare di fatto l’adibizione del lavoratore a nuove mansioni (anche inferiori)8. A fronte dell’instaurazione di un nuovo rapporto, le parti ben avrebbero potuto regolare ex novo le rispettive obbligazioni. La giurisprudenza non ha tardato a percepire in tutta la sua evidenza il paradosso9 cui poteva condurre l’interpretazione strettamente letterale dell’art. 2103 c.c. Ogniqualvolta, infatti, il mutare degli assetti organizzativi e produttivi determinava il venire meno della necessità di avvalersi di una certa professionalità, l’applicazione dell’art. 2103 c.c. comportava che il datore di lavoro non potesse ricorrere a una variazione delle mansioni, salvo che le nuove mansioni richiedessero la professionalità già acquisita dal prestatore, così determinando le condizioni per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore. Il primo passo verso l’individuazione di un inedito spazio di deroga dell’art. 2103 c.c. è stato compiuto con riferimento al caso di sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni. Furono, in particolare, le sezioni unite della Suprema Corte10 a farsi carico di definire puntualmente il fondamento normativo dell’obbligo di repêchage e di giustificare altresì, seppure con riferimento alle ipotesi di sopravvenuta inidoneità alle mansioni, anche la legittimità dell’adibizione a mansioni inferiori.
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Pera, Interrogativi sullo “Statuto dei lavoratori”, in D&L, 1970, I, 200; De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Jovene, 1976, 231. 5 Negano così la legittimità del demansionamento: Cass., 19 giugno 1987, n. 5388, in GC Mass, 1987; Trib. Firenze, 3 novembre 1988, in RIDL, 1989, II, 770; Trib. Monza, 2 luglio 1975, in RGL, 1975, II, 1034; Trib. Milano, 29 novembre 1975, in OGL, 1976, 36. 6 Cass., 5 aprile 1984, n. 2231, in RFI, 1985, voce Lavoro (rapporto), n. 846. 7 Riva Sanseverino, Disciplina delle attività professionali. Impresa in generale, Sub art. 2103 c.c., in Scialoja, Branca, Commentario del codice civile, 1977, 361; Treu, Sul c.d. recesso modificativo del rapporto di lavoro, in RS, 1962, 847; Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Jovene, 1963, 267; Liso, La mobilità del lavoratore in azienda, Giuffrè, 1982, 73. 8 Cass., 17 aprile 1996, n. 3640, in RGL, 1997, II, 29. 9 Definito «scontro inesorabile» tra il carattere inderogabile della norma e le esigenze di flessibilità anche a tutela di interessi del prestatore di lavoro da Grandi, La mobilità interna, in Aa.Vv., Strumenti e limiti della flessibilità, Giuffrè, 1986, 292. 10 Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755, in RIDL, 1999, II, 170, con nota di Pera.
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Secondo le sezioni unite11 il repêchage altro non rappresenta che il riflesso della definizione delle mansioni esigibili da parte del datore di lavoro. Se, infatti, il licenziamento deve rappresentare l’ultima strada percorribile dal datore12, a fronte di esigenze di carattere organizzativo o produttivo, senza che possano sussistere alternative, ne consegue che, prima di poter ritenere sussistenti le condizioni del recesso datoriale, occorrerà verificare che tutte le mansioni astrattamente esigibili dal lavoratore non siano in concreto affidabili al medesimo. Ecco, quindi, la necessità di identificare, preliminarmente, le stesse mansioni esigibili, per il tramite dell’art. 2103 c.c. Ebbene, alla luce di questa lettura, è certo che il repêchage debba estendersi alle mansioni esigibili dal datore di lavoro in via ordinaria: le mansioni «equivalenti» a quelle da ultimo svolte, ai sensi dell’art. 2103 c.c. nella formulazione anteriore alla riforma del 2015. Il problema sorge, invece, con riferimento alla possibilità di estendere il repêchage anche alle mansioni inferiori, richiedendo così al datore di lavoro di verificare, preliminarmente al licenziamento, la vacanza di posizioni di livello inferiore nell’ambito dell’organizzazione produttiva. A fronte, infatti, di contrastanti orientamenti, furono proprio le citate sezioni unite del 1998 a riconoscere la legittimità del patto di demansionamento, ossia l’accordo tra le parti avente ad oggetto l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle di provenienza, concluso al solo fine di evitare un licenziamento13. La legittimità del patto di demansionamento, dapprima riconosciuta nei casi di sussistenza di ragioni oggettive inerenti alla persona del lavoratore (la sopravvenuta inidoneità alle mansioni), è stata poi estesa ai casi di sussistenza di ragioni oggettive inerenti alla sfera del datore di lavoro14. Alla luce di questo orientamento, a fronte della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, questo può ritenersi condizione per legittimare l’adibizione del lavoratore a mansioni estranee alla sua sfera professionale e, quindi, all’area dell’«equivalenza»15.
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Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755, cit. Sul licenziamento come extrema ratio: Mancini, Sub art. 18, in Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, in Scialoja, Branca (a cura di), Commentario al codice civile, Zanichelli, 1972, 259. 13 Cass., 28 ottobre 2015, n. 22029, in DG, 2015; Cass., 10 ottobre 2005, n. 19686, in GL, 2005, 49, 31; Cass., 9 marzo 2004, n. 4790, in RIDL, 2004, II, 789: «ai sensi dell’art. 2103 (nuovo testo) cod. civ. la modifica in pejus delle mansioni del lavoratore è illegittima, salvo che sia stata disposta con il consenso del dipendente e per evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione del lavoratore stesso, la cui diversa utilizzazione non contrasta, in tal caso, con l’esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma». 14 Da ultimo Cass., 8 marzo 2016, n. 4509, in NGL, 2016, 421. 15 Cass., 18 marzo 2009, n. 6552, in RFI, 2010, voce Lavoro (rapporto), n. 1452; Cass., 13 agosto 2008, n. 21579, in RFI, 2009, voce Lavoro (rapporto), n. 1504; Cass., 22 agosto 2006, n. 18926, in RGL, 2007, 43. 12
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3. Obbligo di repêchage e mansioni inferiori nel vigore del «vecchio» art. 2103 c.c. Successivamente alla pronuncia delle sezioni unite, si è consolidato l’orientamento che ritiene legittimo il patto di demansionamento al fine di evitare il licenziamento16. Restava, in ogni caso, aperta una questione essenziale, affrontata e risolta dalla sentenza in esame: se l’adibizione a mansioni inferiori sia una semplice possibilità cui le parti, nell’esercizio della libertà negoziale riconosciuta per via giurisprudenziale, possono liberamente accedere al fine di evitare il licenziamento; oppure se le mansioni inferiori rientrino nell’alveo dell’obbligo di repêchage, imponendosi così al datore di lavoro di estendere la verifica della non utilizzabilità aliunde delle prestazioni del lavoratore anche con riferimento a mansioni inferiori, di per sé non esigibili ai sensi dell’art. 2103 c.c. La complessità del tema si intuisce dalla varietà di soluzioni offerte dalla giurisprudenza, anche molto recente. Secondo un primo orientamento, piuttosto consolidato, la facoltà delle parti di addivenire ad un accordo di demansionamento, quale alternativa al licenziamento, non comporta l’estensione dei confini del repêchage, il cui adempimento continua a dover essere verificato con riferimento alle sole mansioni equivalenti17. Altra parte della giurisprudenza ha ritenuto, invece, che il datore di lavoro sia tenuto a formulare, ove possibile, una proposta di demansionamento al lavoratore passibile di licenziamento, e che il recesso sia legittimo solo a fronte del rifiuto opposto da costui dell’offerta datoriale18. La volontà del lavoratore, al quale si richiede un consenso ai fini del perfezionamento dell’accordo di demansionamento, sarebbe pertanto un requisito essenziale per la legittima adibizione a mansioni inferiori; e, tuttavia, spetterebbe al datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento, di ricercare possibili soluzioni alternative e, dove possibile, di prospettare al prestatore il demansionamento, divenendo libero di recedere dal rapporto solo qualora la soluzione alternativa non sia stata accettata19. Ancor più di recente, sempre in applicazione della vecchia normativa, si è ribadito che i limiti alla rilevanza dell’utilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori debbono individuarsi non solo nel rispetto dell’assetto organizzativo dell’impresa, insindacabilmente stabilito dall’imprenditore, ma anche nel consenso del lavoratore all’adibizione a tali mansioni20. Non senza qualche margine di contraddizione, tuttavia, alcune sentenze, nell’am-
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Cass., 28 ottobre 2015, n. 22029, in Banca Dati FI; Cass., 12 giugno 2015, n. 12253, in GI, 2015, 12, 2683, con nota di De Feo; Cass., 19 novembre 2015, n. 23698, in NGL, 2016, 147; Cass., 18 dicembre 2012, n. 23330, in FI, 2013, 1, col. 467; Cass., 12 luglio 2012, n. 11775, in RFI, 2013, voce Lavoro (rapporto), n. 897; Cass., 22 agosto 2006, n. 18269, in NGL, 2006, 629; Cass., 20 maggio 1993, n. 5695, in RFI, 1993, voce Lavoro (rapporto), n. 723. 17 Cass., 12 giugno 2015, n. 12253, cit.; Cass., 11 marzo 2013, n. 5963, in LG, 2013, 5, 519; Trib. Milano, 25 novembre 2002, in NGL, 2003, 344; Trib. Bari, 28 novembre 2013, in Banca Dati DeJure. 18 Cass., 13 agosto 2008, n. 21579, in RIDL 2009, II, 664, con nota di Varva; Cass., 23 ottobre 2013, n. 24037, in RIDL, 2014, II, 296, con nota di Zanetto; Cass., 28 novembre 2008, n. 28449, in MGI, 2008; Cass. 26 marzo 2010 n. 7381, in OGL, 2010, 469; Cass., 12 febbraio 2014, n. 3224, cit. 19 Questo orientamento è stato ribadito recentemente da Cass., 16 maggio 2016, n. 10018, in RFI, 2016, voce Lavoro (rapporto), n. 505. 20 Cass., 8 marzo 2016, n. 4509, cit.
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mettere l’adibizione, previo consenso, alle mansioni inferiori, hanno richiesto che la nuova posizione sia compatibile con il bagaglio professionale specifico del lavoratore21. Diversamente, alcune pronunce si sono spinte a ritenere irrilevante il consenso della parte obbligata22, ritenendo che il demansionamento, quale unica alternativa al licenziamento, debba essere disposto mediante esercizio unilaterale dello jus variandi23. In questo modo, si è affermata l’illegittimità del licenziamento per mancato assolvimento dell’obbligo di repêchage laddove il datore di lavoro avesse potuto adibire il dipendente a mansioni inferiori24. In particolare, una recente pronuncia25 ha sancito che il demansionamento vada disposto «a prescindere dall’accettazione o meno da parte del lavoratore e dunque dall’esistenza di un patto di demansionamento». Tuttavia, il demansionamento così unilateralmente disposto è stato ritenuto ammissibile solo a fronte di «una certa omogeneità con i compiti originariamente svolti dal lavoratore»26. Non sarebbe, dunque, configurabile un obbligo del datore di lavoro di offrire al lavoratore anche mansioni del tutto incompatibili con quelle svolte in precedenza. Infine, tornando al rilievo del consenso del lavoratore, una parte della giurisprudenza, invero non consolidata, ha ritenuto più in generale valido il patto di demansionamento, laddove il mutamento di mansioni sia stato disposto «a richiesta dello stesso lavoratore, ossia in base ad un’esclusiva scelta dello stesso, pervenuto a tale unilaterale decisione senza alcuna sollecitazione, neppure indiretta, del datore di lavoro che l’abbia invece subita»27. Secondo questa prospettiva, a fondamento della validità del patto di demansionamento potrebbe, quindi, esservi un qualsiasi interesse del dipendente, non necessariamente qualificato o tipico28, anche diverso dalla necessità della conservazione del posto di lavoro.
4. La soluzione offerta dalla Corte di Cassazione. La sentenza in esame giunge alla conclusione di estendere l’obbligo di repêchage alle mansioni inferiori. La Corte, infatti, rigetta il ricorso della datrice di lavoro statuendo che è errato in diritto il principio, sostenuto dalla ricorrente, secondo cui l’obbligo di repêchage gravante sul datore di lavoro «non si estenda anche alle mansioni inferiori a quelle del la-
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Cass., 8 marzo 2016, n. 4509, cit.; Cass., 19 novembre 2015, n. 23698, cit. Cass., 22 maggio 2014, n. 11395, in ADL, 2015, I, 143, con nota di Magrini; Cass., 1 marzo 2001, n. 2948, in D&L , 2002, II, 181; contra Cass., 23 ottobre 2013, n. 24037, cit. 23 Cass., 19 ottobre 2012, n. 18025, in LG, 2013, I, 91; Cass., 26 aprile 2012, n. 6501, in OGL, 2012, I, 362; Cass., 2 gennaio 2013, n. 6, in FI, 2013, I, col. 467. 24 Cass., 19 agosto 2009, n. 18387, in OGL, 2010, 441, con nota di Fratello; Cass., 23 ottobre 2013, n. 24037, cit. 25 Cass., 10 maggio 2016, n. 9467, in GI, 2016, 10, 2195, con nota di Miraglia. 26 Cass., 10 maggio 2016, n. 9467, cit.; Cass., 13 agosto 2008, n. 21579, cit.; Cass., 19 novembre 2015, n. 23698, cit. 27 Cass., 8 agosto 2011, n. 17095, in GL, 2011, 41, 24; Cass., 9 marzo 2004, n. 4790, in RFI, 2004, voce Lavoro (rapporto), n. 942; Cass., 20 maggio 1993, n. 5693, in RIDL, 1994, II; 161; contra, Cass., 14 aprile 2011, n. 8527, in RFI, 2011, voce Lavoro (rapporto), n. 911; Cass., 15 gennaio 2004, n. 521, in OGL, 2004, I, 66; Cass., 18 marzo 2009, n. 6552, in D&L, 2009, II, 507; Cass., 20 gennaio 2003, n. 777, in NGL, 2003, 355. 28 Cass., 8 agosto 2011, n. 17095, cit. 22
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voratore licenziato». Nelle argomentazioni della sentenza, tuttavia, non risulta precisato in modo chiaro il ruolo del consenso del lavoratore. Da un lato, infatti, la sentenza richiama i precedenti secondo cui non è necessario un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori29. Dall’altro, si richiamano precedenti che avevano esplicitato che i limiti alla rilevanza della utilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori devono individuarsi, oltre nel rispetto dell’assetto organizzativo dell’impresa insindacabilmente stabilito dall’imprenditore, anche nel consenso del lavoratore all’adibizione a tali mansioni30. Invero, entrambi gli orientamenti ritengono essenziale la positiva volontà del lavoratore di accettare il demansionamento. Tuttavia, a variare è il tenore dell’obbligo gravante sul datore di lavoro: nell’un caso, egli deve attivarsi per la ricerca di soluzioni alternative al recesso e, ove possibile, deve prospettarle al prestatore di lavoro, di cui si domanda il consenso; nell’altro caso, non è tenuto a proporre il demansionamento, ma le parti sono libere di addivenire ad un accordo di demansionamento. La Corte sembra fare proprio il primo dei descritti orientamenti. Così che, al datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento, spetta l’obbligo di ricercare possibili soluzioni alternative anche sul terreno delle mansioni inferiori e di rappresentare al prestatore il demansionamento, divenendo libero di recedere dal contratto solo qualora la soluzione alternativa non sia stata accettata. La positiva volontà del lavoratore continua a costituire, pertanto, un requisito essenziale per la legittima adibizione a mansioni inferiori. Tuttavia, viola l’obbligo di repêchage il datore di lavoro che manca di attivarsi nella ricerca di mansioni, anche inferiori, cui adibire il lavoratore, con conseguente illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo. Le sentenza, che si iscrive nel solco di un orientamento non del tutto consolidato, nell’estendere il repêchage alle mansioni inferiori o nel richiedere un comportamento attivo al datore di lavoro nel domandare il consenso del lavoratore al demansionamento, determina l’estensione di un obbligo, quello del repêchage, che se poteva, non senza qualche forzatura, trovare la propria ragion d’essere nell’art. 2103 c.c. quanto alle mansioni equivalenti, e cioè esigibili dal creditore, è stato nondimeno esteso anche a mansioni inferiori, in realtà niente affatto esigibili e, anzi, espunte per disposizione di legge dall’area dell’obbligazione del lavoratore. Dalla legittimazione, per via giurisprudenziale, della facoltà per le parti di stipulare un accordo di demansionamento, si è finiti così con l’estendere un obbligo gravante sul datore di lavoro che nella vecchia disposizione non trovava alcun appiglio normativo, neppure indiretto.
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Cass., 16 maggio 2016, n. 10018, cit. Cass., 8 marzo 2016, n. 4509, cit.
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5. Prospettive alla luce del “nuovo” art. 2103 c.c. La questione dell’estensione dell’obbligo di repêchage alle mansioni inferiori, nonché quella della rilevanza del consenso del prestatore di lavoro al proprio demansionamento, restano aperte e controverse nelle ipotesi di applicazione dell’art. 2103 c.c., nella formulazione risalente allo Statuto dei lavoratori. Le medesime questioni possono, forse, dirsi risolte dalla nuova disposizione coniata dall’art. 3, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 8131. La novellata disciplina prevede che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni di assunzione o a mansioni riconducibili al livello e alla categoria legale di inquadramento di quelle da ultimo svolte. Prevede, altresì, diverse ipotesi di legittima adibizione a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore: la sussistenza di una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore (comma 2); le «ulteriori ipotesi» previste dalla contrattazione collettiva (comma 4); l’ipotesi in cui le parti sottoscrivono in una delle c.d. sedi protette accordi di modifica delle mansioni, che possono comportare anche il mutamento della categoria legale, del livello di inquadramento e della retribuzione, ove stipulati nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle proprie condizioni di vita (comma 6). In considerazione della prima ipotesi di legittimo demansionamento, si può ritenere che l’obbligo di repêchage si estenda oggi anche alle mansioni riconducibili al livello di inquadramento immediatamente inferiore rispetto alle mansioni da ultimo svolte32. Proprio il riconoscimento del potere unilaterale di esigere l’espletamento di mansioni inferiori, infatti, comporta che esse si iscrivano a pieno titolo nell’area dell’obbligazione del lavoratore, seppure subordinatamente al realizzarsi di una condizione (la modifica de-
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Sul nuovo art. 2103 c.c. molto è stato scritto: Brollo, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in ADL, 2015, 6, 1156; Ead., Il diritto del lavoro all’epoca delle nuove flessibilità. Il mutamento di mansioni dopo il Jobs Act, in GI, 2016, 3, 737; Sordi, Il nuovo art. 2103 c.c.: prime questioni interpretative, in LPO, 2016, 9-10, 498; Miscione, Jobs Act: le mansioni e la loro modificazione, in LG, 2015, 5, 437; Garilli, La nuova disciplina delle mansioni tra flessibilità organizzativa e tutela del prestatore di lavoro, in DLRI, 2016, 1, 129; Cester, La modifica in pejus delle mansioni nel nuovo art. 2103 c.c., ibidem, 167; Ferluga, La dequalificazione unilaterale nella nuova disciplina delle mansioni, in VTDL, 2016, I, 69; Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli, 2015; Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenute nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, in WP D’Antona, It., 2015, 257, 6-7; Zoli, La disciplina delle mansioni, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Giappichelli, 2015, 333; Voza, Autonomia privata e norma inderogabile nella nuova disciplina del mutamento di mansioni, in WP D’Antona, It., 2015, 262, 7; Ferrante, Riflessioni a caldo sulla progettata modifica degli artt. 4 e 13 dello “Statuto”, in F. Carinci (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi. Atti del X Seminario di Bertinoro-Bologna del 23-24 ottobre 2014, in Adapt Labour Studies, 2015, 315; De Feo, La nuova nozione di equivalenza professionale, in ADL, 2015, 4-5, 853; Gargiulo, Lo jus variandi nel “nuovo” art. 2103 Cod. Civ., in WP D’Antona, It., 2015, 268; Balletti, I poteri del datore di lavoro tra legge e contratto, Relazione Giornate di Studio Aidlass, Napoli 16 e 17 giugno 2016, 25; Falsone, Jus variandi e ruolo della contrattazione collettiva, in Zilio Grandi, Gramano (a cura di), La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act, Giuffrè, 2016, 57; Gramano, La riforma della disciplina del jus variandi, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario Breve alla Riforma “Jobs Act”, 2016, Cedam, 534. 32 Secondo Liso, Brevi osservazioni, op. cit., 11, questa è solo una delle opzioni interpretative possibili, che si affianca alla diversa interpretazione secondo cui il legislatore avrebbe voluto «configurare, invece, una situazione non coincidente con il gmo, o non necessariamente coincidente». Si segnala sul punto l’opinione di Pisani, L’ambito del repêchage alla luce del nuovo art. 2103 cod. civ., in ADL, 2016, III, 537.
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gli assetti organizzativi) positivamente determinata33. L’impossibile ricollocazione aliunde deve pertanto estendersi a tutte le mansioni astrattamente esigibili, incluse quelle di livello immediatamente inferiore, laddove si realizzi una modifica degli assetti organizzativi che comporti il venire meno dell’utilizzabilità delle mansioni precedentemente svolte34. La nuova disposizione rappresenta il fondamento normativo dell’estensione e della stessa disciplina del repêchage. Non solo, infatti, si può oggi affermare, sulla base del medesimo ragionamento svolto dalle sezioni unite nel 199835, che il datore di lavoro è tenuto al demansionamento laddove possibile in alternativa al licenziamento, ma anche i limiti di tale obbligo e del relativo adempimento: in primo luogo, si estende alle sole mansioni ricomprese nel livello di inquadramento immediatamente inferiore; secondariamente, deve essere comunicato per iscritto a pena di nullità e non può compromettere il livello di inquadramento e di retribuzione del lavoratore. A differenza di quanto affermato per via interpretativa dalla giurisprudenza confermata dalla sentenza in esame, risulta oggi chiara la portata dell’obbligo, che non si estende a qualsiasi mansione inferiore, come potrebbero suggerire alcune pronunce emanate in applicazione della vecchia disciplina. La lettura della nuova disposizione consente di chiarire anche il ruolo del consenso del lavoratore. Nel rispetto delle condizioni previste dalla legge, il datore di lavoro deve unilateralmente adibire il lavoratore a mansioni di livello inferiore, laddove vacanti, al fine di evitarne il licenziamento. In sostanza, a fronte di un’oggettiva esigenza che rende non più utilizzabile la prestazione del lavoratore, il datore di lavoro è chiamato ad una duplice verifica: che non sussistano posizioni vacanti riferibili a mansioni del medesimo inquadramento (e, in questo caso, potrà procedere con la variazione senza dovere giustificare la propria scelta aziendale); subordinatamente, che non sussistano posizioni vacanti riferibili a mansioni di inquadramento immediatamente inferiore (e qui dovrà procedere con la variazione delle mansioni esplicitando l’esigenza aziendale sottesa e il nesso di causalità in considerazione del quale essa incide sulla posizione del lavoratore interessato). Solo in caso di esito negativo di entrambe le verifiche, il datore di lavoro potrà procedere a licenziare per giustificato motivo oggettivo o, se ne sussistono le condizioni, a stipulare un accordo in sede protetta ai sensi del menzionato comma 6. Il patto di demansionamento di cui al comma sesto36, a fronte delle medesime condizioni che giustificherebbero l’esercizio dello jus variandi di cui al comma secondo, si giustifica così solo laddove si renda necessario inquadrare il lavoratore nel livello non immediatamente inferiore o in una categoria legale diversa da quella di origine (ad es. nel passaggio
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Secondo una seconda prospettiva, diverse sarebbero le ragioni che militerebbero nel senso della non estendibilità del repêchage alle mansioni inferiori: Voza, Autonomia privata e norma inderogabile, op. cit., 9; Ciucciovino, Giustificato motivo di licenziamento e repêchage dopo il Jobs Act, in MGL, 2016, 7, 440; Sordi, Il nuovo art. 2103 e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Aa.Vv. (a cura di), La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, Bari, 2016, 127. 34 Il mutamento delle mansioni dovrà essere accompagnato, ove necessario, da un percorso formativo offerto dal datore di lavoro, al fine di mettere il lavoratore nelle condizioni di espletare le nuove prestazioni richieste (art. 2103, comma 3, c.c.). 35 Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755, cit. 36 Voza, Autonomia privata e norma inderogabile, op. cit., 5; Sitzia, La (in)certezza del diritto nel “Jobs Act” all’italiana: mansioni e volontà individuale assistita, in LG, 2016, 10, 845.
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da dirigente a quadro). La necessità del rispetto di vincoli formali e del perseguimento di interessi tipici del prestatore di lavoro si rendono necessari alla luce dell’intensità del sacrificio di costui, che impone una garanzia della genuinità della sua volontà e della sua piena consapevolezza del contenuto dell’accordo. Elena Gramano
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Giurisprudenza C orte d’Appello di Milano, sentenza 30 marzo 2016, n. 447/2016; Pres. Curcio – Est. Bianchini – Grancasa s.p.a. (avv. Daverio e Florio) c. P. M. L e S. M (avv. Paulli, Pironi, Laratro). Conferma Trib. Milano sent. n. 2787/2015. Lavoro (rapporto di) – Sciopero – Obbligo di giustificazione assenza – Buona fede – Non sussiste – Licenziamento – Discriminatorio – Ritorsivo.
Non sussiste, nemmeno sulla base dei principi di correttezza e buona fede, un obbligo dei lavoratori di giustificare le assenze dal lavoro determinate dalla partecipazione ad uno sciopero; un obbligo di comunicazione, invero, sussiste solo quando l’assenza è determinata da altre ragioni quali la malattia. Ne consegue che il licenziamento intimato a seguito del rifiuto di dichiarare la partecipazione allo sciopero è nullo in quanto ritorsivo e discriminatorio. Motivi della decisione. – Con sentenza 2787/15 il giudice del lavoro del tribunale di Milano rigettava l’opposizione avanzata da Grancasa spa contro l’ordinanza emessa ex art. 1 co. 49 L. nr. 92/12 che aveva dichiarato la nullità dei licenziamenti intimati il 26.1.15 a X ed a Y in quanto ritorsivi ed aveva conseguentemente ordinato la reintegra dei lavoratori nel posto di lavoro e la condanna della società al risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino alla reintegra oltre interessi e rivalutazione ed oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali ed al pagamento delle spese di lite. La reclamante lamenta l’erroneità della sentenza per non avere il tribunale attribuito rilevanza all’inesistenza di dichiarazioni da parte di X e di Y in ordine al motivo delle loro assenze non potendosi ritenere sufficiente la comunicazione sindacale del 31.10.14 ed avendo i dipendenti l’obbligo giuridico, imposto dai principi di correttezza e buona fede oltre che dalle norme di legge che regolano il procedimento disciplinare, di rispondere alle richieste dell’azienda sui motivi delle loro assenza. Rilevava altresì le omissioni della sentenza in ordine alle eccezioni sollevate dalla società rispetto al fatto che le assenze non potevano trovare giustificazione all’adesione allo stato di agitazione stante l’infondatezza della stesso per difetto di interesse collettivo. Chiede pertanto la riforma della sentenza con il rigetto delle domande avanzate dai lavoratori nel loro ricorso introduttivo. Hanno resistito X e Y chiedendo il rigetto del reclamo e la conferma della sentenza impugnata. Il reclamo non può trovare accoglimento. Con lettera 26.1.15 X e Y dipendenti di Grancasa spa (in qualità di addetta al reparto cassa con mansioni di cassiera la prima ed in qualità di addetto al reparto scaffalatura con mansioni di commesso il secondo) ve-
nivano licenziati senza preavviso a seguito delle lettere di contestazione (del 16.12.14; 30.12.14 e 7.1.15 per X e del 5.12.14, 16.12.14, 30.12.14 e 7.1.15 per Y con le quali veniva loro contestata l’assenza ingiustificata al lavoro nelle giornate specificamente indicate. In particolare la società contestava che, malgrado fosse stata esposta in bacheca la tabella contenente la turnistica settimanale con l’indicazione della loro presenza nelle domeniche e nei giorni festivi indicati, non si presentavano al lavoro senza rendere alcuna giustificazione né alcun preavviso, neppure orale “violando l’obbligo di prestare la loro attività lavorativa e gettando l’azienda in un grave disservizio organizzativo”. – Omissis. Ciò posto, va chiarito che: in data 31.10.14 veniva dichiarato dai lavoratori di Grancasa aderenti a ADL (Associazione Sindacale Diritti Lavoratrici e Lavoratori) lo stato di agitazione e veniva proclamato lo sciopero del lavoro festivo e domenicale; la comunicazione era firmata oltre che dal rappresentante dell’associazione sindacale anche dalla sig.a X in qualità di RSA ed era sia affissa nella bacheca sindacale sia trasmessa alla società (doc. 5 e 6 atti reclamati). a questa seguiva una comunicazione con cui l’azienda, richiamata “la dichiarazione di stato di agitazione e sciopero del lavoro festivo e domenicale per i dipendenti di Grancasa del 31.10.14”, esprimeva la sua contrarietà all’iniziativa ribadendo la sua posizione; – Omissis. In tale situazione erano inviate le reiterate contestazioni (4 nell’arco di un mese) a X ed a Y per assenza ingiustificata in quanto i due lavoratori, inseriti nei turni di lavoro per le giornate di domenica e festivi, non si presentavano al lavoro. La società sostiene che gli odierni reclamati, richiesti di giustificare l’assenza, non davano risposta mentre era loro preciso dovere fornire una spiegazione del comportamento tenuto e chiarire che questo era
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da collegarsi alla loro adesione allo sciopero indetto dall’organizzazione sindacale di riferimento. In sostanza ciò che la società lamenta è il fatto che il tribunale abbia negato l’esistenza di un preciso obbligo dei lavoratori a giustificare l’assenza nel momento in cui ne erano richiesti dalla società La tesi non è condivisibile in quanto, come già correttamente osservato dal tribunale, una volta proclamata l’astensione dal lavoro non vi era alcun obbligo da parte dei lavoratori di comunicare espressamente al datore che la loro assenza era conseguente alla adesione alla stessa; al contrario era ravvisabile un onere di comunicazione nel caso in cui l’assenza fosse stata determinata da altra ragione, per esempio una malattia, così da evitare la trattenuta retributiva. Nessun dubbio si pone in ordine alla legittimità dello sciopero proclamato da ADL in quanto diretto a tutelare un interesse professionale collettivo dei lavoratori (rappresentato nel caso specifico dalla richiesta aziendale di prestazione lavorativa anche la domenica ed i festivi con differente regolamentazione rispetto al passato) e non a perseguire finalità pretestuose e il soddisfacimento di contingenti esigenze di singoli lavoratori. – Omissis. Considerato che Grancasa era stata tempestivamente informata della proclamazione dello sciopero con la comunicazione del 31.10.14 alla quale aveva risposto ribadendo la propria scelta organizzativa e dimostrando così di non voler avviare alcuna trattativa sul punto; che lo stato di agitazione era stato ribadito con la comunicazione inviata poco più di un mese dopo, che la prima comunicazione sindacale era sottoscritta anche dalla sig. X nella sua posizione di RSA, non può non ravvisarsi la natura ritorsiva sia delle lettere di contestazione con cui la società richiedeva in maniera insistente ai due lavoratori (di cui una RSA) di giustificare un’assenza che essa già sapeva essere determinata dalla loro adesione allo sciopero sia della conseguente intimazione di licenziamento ove, pur richiamando le contestazioni, veniva sanzionato un comportamento qualificator come “insubordinazione” mentre i due dipendenti si erano limitati ad esercitare il loro diritto di sciopero.
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Il collegamento tra l’assenza e lo sciopero emerge altresì con evidenza dal fatto che il sindacato aveva già più volte contestato lo svolgimento del lavoro domenicale e festivo; che il movente dello stato di agitazione era rappresentato proprio da tale imposizione aziendale, che lo stesso Y nel corso di un precedente procedimento disciplinare determinato sempre da un’assenza dal lavoro nel turno di domenica ma in epoca precedente all’indizione dell’astensione, aveva espresso il suo rifiuto a svolgere la prestazione di domenica e nei giorni festivi. Appare quindi chiaro che il comportamento aziendale integrava un’ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo dei lavoratori del quale Grancasa era perfettamente consapevole. Evidente è quindi la violazione dei principi di correttezza e buona fede da parte della reclamante stante l’utilizzo di uno strumento quale quello del procedimento disciplinare reiterato per pervenire ad una valutazione solo apparentemente idonea a giustificare il recesso per giusta causa. L’azienda invero utilizzava in maniera abnorme lo strumento della contestazione per attribuire addebiti che sapeva essere insussistenti in quanto le assenze non richiedevano di essere giustificate costituendo esercizio del diritto di sciopero e quindi perveniva al licenziamento dei dipendenti servendosi di un motivo costruito appositamente e dal contenuto palesemente ritorsivo e discriminatorio. Che peraltro questo sia stato l’unico motivo del licenziamento emerge con chiarezza proprio dall’esame del complessivo comportamento aziendale. Alla luce di quanto esposto, assorbita ogni altra questione, il reclamo va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo tenuto conto del valore della controversia. Va altresì dovuto da parte della reclamante il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato di cui all’art. 13 co. 1 quater DPR 115/01 così come modificato dall’art. 1 co.7 L. 228/12 – Omissis.
Maria Laura Picunio
Se sussista un obbligo del lavoratore di giustificare l’assenza per sciopero Sommario: 1. La vicenda oggetto del giudizio. – 2. Lo sciopero come astensione dal lavoro in difesa di un interesse collettivo. – 3. I principi di correttezza e buona fede. – 4. I principi di correttezza e buona fede come fonte di obblighi accessori. – 5. Buona fede e diritto di sciopero. – 6. Conclusioni.
Sinossi. Nel commento si affronta la problematica relativa alla possibilità di porre a carico del lavoratore, anche sulla base dei principi di correttezza e buona fede, un obbligo di giustificare le assenze motivate dalla partecipazione ad uno sciopero. Nell’analisi della questione si chiarisce dapprima quando le assenze possano dirsi giustificate per la partecipazione allo sciopero, e ci si sofferma, successivamente, sulla valenza degli obblighi di correttezza e buona fede, in particolare nell’esercizio del diritto di sciopero.
1. La vicenda oggetto del giudizio. La decisione in commento sviluppa un tema di notevole interesse: oggetto della questione è infatti la legittimità di un licenziamento per assenza ingiustificata intimato a lavoratori partecipanti ad uno sciopero a seguito del loro rifiuto di motivare l’assenza dal lavoro. La sentenza n. 447/2016 della Corte di Appello di Milano conferma quanto statuito dal giudice di primo grado, che aveva dichiarato la nullità dei licenziamenti in quanto ritorsivi e discriminatori, essendo stati intimati esclusivamente in ragione della partecipazione dei lavoratori allo sciopero. La vicenda che origina la controversia vede coinvolti due lavoratori ai quali veniva contestata l’assenza ingiustificata dal lavoro in una pluralità di giornate nelle quali era stato indetto uno sciopero; nello specifico, oggetto della contestazione era il fatto che gli stessi non si fossero presentati al lavoro nei turni assegnati e ciò senza rendere alcuna giustificazione o fornire un preavviso. L’azienda eccepiva, invero, nonostante la proclamazione da parte del sindacato dello stato di agitazione, il difetto dell’interesse collettivo necessario per giustificare le assenze come sciopero e contestava inoltre la mancata giustificazione delle assenze nell’ambito del procedimento disciplinare cui erano stati sottoposti. Per tale motivo l’azienda intimava il recesso, ritenendo violato l’obbligo giuridico imposto dai principi di correttezza e buona fede – oltre che dalle norme in materia di procedimento disciplinare – di rispondere alle richieste sui motivi dell’assenza. La sentenza annotata offre, dunque, l’occasione di riflettere circa la configurabilità di un dovere di giustificare le assenze qualora le stesse costituiscano esercizio del diritto di
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sciopero, in particolare interrogandosi sulla possibilità che tale obbligo possa trovare fondamento nei principi di correttezza e buona fede. Il tema risulta peraltro strettamente connesso a quello della sussistenza dell’interesse collettivo, che deve necessariamente caratterizzare l’astensione del lavoro perché possa essere qualificata come esercizio del diritto di sciopero. A ben vedere, infatti, se non sussistesse l’interesse collettivo, le assenze non sarebbero legittimate dalla partecipazione allo sciopero ma costituirebbero, in quanto non giustificate, mero inadempimento contrattuale, senza necessità di richiamare anche la violazione di obblighi integrativi del contratto per sanzionarle.
2. Lo sciopero come astensione dal lavoro in difesa di un interesse collettivo. Per quanto riguarda la questione della titolarità dell’interesse collettivo, l’assenza dei lavoratori si considera esercizio del diritto di sciopero nella misura in cui è finalizzata alla tutela di un interesse facente capo ad «una pluralità di persone ad un bene idoneo a soddisfare un bisogno comune di tali persone1». Infatti il momento teleologico costituisce assieme all’astensione dal lavoro l’unico limite coessenziale del diritto di sciopero, essendo stati ritenuti arbitrari gli altri limiti2. È lo stesso rilievo costituzionale dello sciopero che porta a richiedere che esso sia necessariamente finalizzato alla realizzazione di un interesse collettivo, posto che, se così non fosse, se l’astensione dal lavoro fosse giustificata da un interesse meramente individuale del lavoratore, non ci sarebbe motivo di determinare l’esenzione dal diritto comune dei contratti3, con la conseguenza che tale astensione costituirebbe un’ipotesi di semplice inadempimento contrattuale, esulando dall’esercizio del diritto di sciopero4. Si comprende, dunque, l’importanza di definire il concetto di interesse collettivo. Esso si contraddistingue innanzitutto per il contenuto, in quanto si ritiene necessaria l’individuazione, ad opera di una pluralità di soggetti, di uno specifico bene da perseguire, bene che dev’essere idoneo a soddisfare un’esigenza, un bisogno proprio dei lavoratori5. Per quanto concerne, invece, il piano soggettivo, è necessario che la valutazione sottesa allo sciopero abbia carattere interrelazionale, in quanto comune espressione di un’esigenza di una pluralità di lavoratori6, mentre si tende ad escludere la necessità di un’attuazione collettiva dello sciopero, ritenendosi sufficiente che la pluralità di soggetti caratterizzi la fase deliberativa.
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F. Santoro-Passarelli, Autonomia collettiva, giurisdizione, diritto di sciopero, in Saggi di diritto civile, I, Jovene, 1961, 446. A. Zoppoli, La titolarità sindacale del diritto di sciopero, Jovene, 2006, 39. Ghezzi, Diritto di sciopero e attività creatrice dei suoi interpreti, in RTDPC, 1963, I, 27. A. Zoppoli, op. cit., 40. Vigoriti, Interessi collettivi e processo, Giuffrè, 1979, 16. A. Zoppoli, op. cit., 42.
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Le caratteristiche descritte sono le sole che caratterizzano il nucleo del diritto di sciopero. Infatti si può dire ormai superata l’idea, propria di una giurisprudenza risalente, secondo cui la proclamazione è condizione di legittimità dell’esercizio del diritto di sciopero, mentre ad oggi la proclamazione risulta necessaria solo nello sciopero nei servizi pubblici essenziali, per comprensibili esigenze legate ai beni protetti. Da quanto descritto consegue che l’astensione dal lavoro possa essere considerata inadempimento contrattuale anche se formalmente dovuta alla partecipazione allo sciopero solo quando sia priva delle caratteristiche richiamate, necessarie per realizzare la sospensione delle obbligazioni fondamentali del rapporto di lavoro. La giurisprudenza, infatti, ammette l’applicazione delle sanzioni previste per l’assenza ingiustificata dal lavoro solo nei casi in cui l’astensione non abbia la finalità di realizzare un interesse collettivo ma sia, viceversa, diretta «a perseguire finalità pretestuose e il soddisfacimento di contingenti esigenze di singoli lavoratori7», in quanto in questi casi non può essere ricondotta all’esercizio del diritto di sciopero. Nel caso in cui, viceversa, siano integrati i presupposti dello sciopero, è opportuno precisare in che modo l’assenza del lavoratore si inserisca nell’ambito dello stesso. Qualora il lavoratore sia assente nelle giornate nelle quali è stato proclamato o deliberato uno sciopero, l’assenza dal lavoro viene considerata come esercizio di detto diritto; solo nel caso in cui il lavoratore abbia, invece, interesse all’accertamento di una diversa giustificazione dell’assenza, allo stesso è attribuita la facoltà di provare la relativa causale. Così, per esempio, nell’ipotesi in cui il lavoratore non possa presentarsi al lavoro nella giornata in cui è stato indetto uno sciopero a causa di un’affezione morbosa, lo stesso avrà interesse a dichiarare la causa dell’assenza, in modo da non essere considerato scioperante e poter percepire la retribuzione. Al di fuori di tali ipotesi, in cui è evidente l’interesse dello stesso lavoratore a far valere la differente causa di giustificazione dell’assenza, non sembrano residuare margini per escludere che l’assenza del lavoratore costituisca esercizio del diritto di sciopero. La qualificazione dell’assenza come esercizio del diritto di sciopero non presuppone nemmeno l’affiliazione del lavoratore al sindacato proclamante, giacché non solo è pacificamente ammesso che, indipendentemente dalla sigla proclamante, tutti i lavoratori abbiano il diritto di partecipare allo sciopero, ma è altresì riconosciuto che lo sciopero possa essere indetto anche da coalizioni spontanee, differenti dai sindacati, purché portatrici di un interesse collettivo. Proprio nell’ambito degli scioperi indetti da comitati spontanei nello sciopero nei servizi pubblici essenziali si è avuta una conferma di quanto esposto, in quanto, al fine di individuare i destinatari delle sanzioni, i membri del comitato vengono identificati con i lavoratori assenti dal lavoro, muovendo dal presupposto che l’astensione dal lavoro coincida, se non altrimenti giustificata, con l’esercizio del diritto di sciopero8.
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Cass., 17 dicembre 2004, n. 23552, in DRI, 2005, 506 con nota di Iorio; Cass., 23 luglio 1991, n. 8234, in MGL, 1991, 150. Cfr. le delibera n. 03/107 del 19 giugno 2003 e la delibera n. 08/87 del 21 febbraio 2008 e n. 08/224 dell’8 maggio 2008 in Pascucci, Le sanzioni della l. n. 146/1990 e le astensioni collettive delle coalizioni spontanee, in LPA, 2008, V, 711.
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3. I principi di correttezza e buona fede. Ciò considerato, è necessario analizzare se, nell’ipotesi in cui le assenze costituiscano esercizio del diritto di sciopero, sia legittima la richiesta formulata dall’azienda di giustificare l’assenza dichiarando la partecipazione allo sciopero, motivata sulla base degli obblighi di correttezza e buona fede cui è tenuto il lavoratore. Il principio secondo cui le parti del rapporto obbligatorio devono comportarsi nell’esecuzione del contratto secondo le regole della correttezza e buona fede è uno dei principi cardine del diritto civile, basti considerare la pluralità di disposizioni codicistiche che ne sono espressione (artt. 1175, 1337, 1338, 1358, 1366, 1375, 1460 c.c.). I principi di correttezza e buona fede assumono la valenza di «requisiti etici della condotta delle parti di ogni rapporto obbligatorio»9, tanto che agli stessi viene riconosciuta la funzione di “veicolo” di accesso delle norme costituzionali, in particolare del dovere costituzionale di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost.10, all’interno del diritto delle obbligazioni e dei contratti, realizzando le finalità sociali proprie dell’ordinamento11. Così, le suddette clausole generali assolvono la funzione solidaristica, richiamando nella sfere reciproche del creditore e del debitore la considerazione dell’interesse dell’altra parte12 e improntando il rapporto contrattuale a «criteri di reciprocità, finalizzati, in sostanza, a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e della proporzione»13. Nel diritto del lavoro le clausole di correttezza e buona fede si sviluppano seguendo un percorso peculiare, godendo nel tempo di alterne fortune: in un primo momento la bona fides assunse un ruolo fondamentale, contribuendo a forgiare i singoli istituti del contratto di lavoro14 che, in quanto collocato nel genus locativo, rientrava nei negotia bonae fidei, rapporti caratterizzati da una disciplina complessa, comprendente, oltre a quanto espressamente previsto dal contratto, tutte le ulteriori obbligazioni reputate necessarie in base al comune sentire15, con la conseguenza che le norme lavoristiche appaiono fondarsi su una prassi giurisprudenziale connessa all’equità, rappresentando un tangibile esempio di creazione spontanea del fenomeno giuridico16. Successivamente, dopo un periodo, quello post-corporativo, in cui la clausola di correttezza e buona fede veniva utilizzata pressoché a senso unico, allo scopo di ampliare l’obbligo di prestazione del lavoratore17, con il rafforzamento, ad opera delle riforme legislati-
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Cass., 11 febbraio 2005, n. 2855, in GI, 2005, X, 1810. Cass., 12 gennaio 2012, n. 236, in FI, 2012, I, 755; Cass., 23 dicembre 2009, n. 27214, in GD 2010, VIII, 78; Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in RCP, 2010, II, 345. 11 Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Giuffré, 1969; Zoli, La tutela delle posizioni strumentali del lavoratore: dagli interessi legittimi all’uso delle clausole generali, Giuffré, 1988; Tullini, Clausole generali e rapporto di lavoro, Maggioli, 1990. 12 Relazione ministeriale al codice civile. 13 Cass., 18 settembre 2009, n. 20106 cit. 14 Perulli, La buona fede nel diritto del lavoro, in RGL, 2002, I, 4; v. anche D. Garofalo, Mobbing e tutela del lavoratore tra fondamento normativo e tecnica risarcitoria, in LG, 2004, 8; nonché Castelvetri, Correttezza e buona fede nella giurisprudenza del lavoro. Diffidenza e proposte dottrinali, in DRI, 2001, 238. 15 Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Società editrice libraria, 1901, 561. 16 Corradini, Il criterio della buona fede e la scienza del diritto privato, Giuffré, 1970, 413. 17 Cass., 17 aprile 1985, n. 2559, in NGL, 1985, 595; Cass., 5 ottobre 1985, n. 5859, n. 3301, ivi, 744; Cass., 3 giugno 1985, n. 3301, in NGL, 1986, 23. 10
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ve degli anni sessanta, di un diritto del lavoro caratterizzato dall’inderogabilità e ispirato a forti esigenze di tutela dei lavoratori, l’applicazione del principio menzionato subisce una battuta d’arresto, in quanto, in un diritto già sin troppo regolamentato dalle norme di legge e dalle previsioni dei contratti collettivi, sembrava non residuare più spazio per l’applicazione di clausole generali18. Non solo, ma il fondamento stesso di detto principio sembra contrastare con lo spirito del diritto del lavoro, diritto caratterizzato dalla diseguaglianza tra le parti e dalla necessità di tutelare una delle due parti, il lavoratore. Solo all’inizio degli anni ‘80 si assiste alla formazione di un’autorevole indirizzo giurisprudenziale19 che, proprio muovendo dalla necessità di tutela del prestatore di lavoro, applica in modo innovativo i principi di correttezza e buona fede, indirizzandoli in funzione di contenimento dell’esercizio discrezionale dei poteri e delle prerogative imprenditoriali, «in una proiezione del tutto inedita rispetto al diritto civile20». Per questa via è nota la giurisprudenza che, utilizzando i parametri di buona fede e correttezza come criterio di valutazione di scelte per natura unilaterali del datore di lavoro, conduceva a limitarne la discrezionalità in materie quali i concorsi privati, i criteri di scelta dei lavoratori nell’ambito dei licenziamenti collettivi21, arrivando, all’apice di tale teorizzazione, a postulare l’esistenza nell’ordinamento, proprio in applicazione di tali principi, di un principio di parità di trattamento tra lavoratori22, poi negato. Negli anni successivi, e a tutt’oggi, non è mancato peraltro un utilizzo dei principi di correttezza e buona fede anche con una valenza più estesa rispetto a quella descritta e nei più differenti ambiti del diritto del lavoro: si pensi, solo per menzionare alcune delle applicazioni del principio23, al riconoscimento dell’obbligo del lavoratore di ricevere nel tempo e sul luogo di lavoro le comunicazioni recettizie del datore di lavoro24, alla stigmatizzazione del comportamento del lavoratore che si sottragga più volte, adducendo diverse motivazioni, all’audizione richiesta all’interno del procedimento disciplinare25 o, sempre nell’ambito del procedimento disciplinare, a quella giurisprudenza che considera illegittimo il licenziamento disciplinare quando il comportamento addebitato fosse già conosciuto ma non contestato al lavoratore in un momento precedente, in cui per la minore gravità sarebbe stato oggetto di una sanzione conservativa26, alla nozione di giustificatezza utiliz-
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Di Majo, Incontro di studio civil-lavoristico, in G. Santoro-Passarelli (a cura di), Diritto del lavoro e categorie civilistiche, Giappichelli, 1992, 19; Persiani, Considerazioni sul controllo di buona fede dei poteri del datore di lavoro, in DL, 1995, 138. 19 Si può considerare apripista la celebre Cass., sez. un., 2 novembre 1979, n. 5688 in GI, 1980, I, 1440, con nota di Di Majo, Le forme di tutela contro i cosiddetti “poteri privati”. 20 Montuschi, L’applicazione giurisprudenziale del principio di correttezza e di buona fede nel rapporto di lavoro, in LD, 1996, 141. 21 Zoli, op. cit.; Mazzotta, Enti economici e concorsi privati: alla ricerca di una regola di diritto, in RIDL, 1987, I, 216. 22 C. cost., 9 marzo 1989, n. 103, in MGL, 1989, 127 ss., con nota di Scognamiglio. 23 Per una rassegna della casistica giurisprudenziale in cui trova applicazione il principio di buona fede si rinvia a Manicastri, Buona fede nel rapporto di lavoro, in LPO, VII - VIII, 2013, 315. 24 Cass., 18 settembre 2009 n. 20272, in RIDL, 2010, II, 349 con nota di Comandè. 25 Cass., 8 febbraio 2013, n. 3058, in D&G, 2013, 12 febbraio. 26 Trib. Torino, 9 gennaio 2004, in Gpiem, 2004, 131.
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zata nell’ambito del licenziamento del dirigente27 ma anche all’utilizzazione della buona fede nell’ambito dell’operazione di qualificazione del rapporto di lavoro28.
4. I principi di correttezza e buona fede come fonte di obblighi accessori. Sebbene i principi di correttezza e buona fede abbiano trovato pieno accoglimento nell’ambito del diritto del lavoro, la loro applicazione risulta comunque più limitata di quanto avviene nel diritto comune delle obbligazioni e dei contratti. All’interno del diritto civile, infatti, a tali obblighi viene ormai pacificamente riconosciuta anche una funzione creatrice di doveri ulteriori in capo alle parti rispetto a quelli previsti nel contratto, imponendo alle parti tutti gli obblighi che risultino necessari allo scopo di preservare l’utilità dell’altra parte, nonché l’obbligo di modificare il proprio comportamento ove ciò risulti opportuno per realizzare l’interesse negoziale, con il limite dell’apprezzabile sacrificio29. Tale impostazione ha il merito di far transitare l’obbligazione da una dimensione puramente mercantile in una dimensione “sociale”, che tenga conto degli interessi afferenti alla sfera giuridica dei soggetti e della loro integrità personale, oltre che della utilità economica derivante dall’esecuzione del contratto30. Nel diritto del lavoro, tale funzione viene spesso disconosciuta; nei casi in cui il richiamo ai principi di correttezza e buona fede viene utilizzato per porre in capo alle parti obblighi accessori, si riscontra prevalentemente un utilizzo di tali principi in funzione rafforzativa di obblighi già previsti31, come avviene, per esempio, nella definizione della portata dell’obbligo di sicurezza imposto al datore di lavoro o degli obblighi diligenza e di fedeltà in capo al lavoratore32. Al di fuori di queste ipotesi, invece, la giurisprudenza tende a negare la funzione tipica degli obblighi di correttezza e buona fede, ossia quella di creare obblighi integrativi rispetto al contratto33, riconoscendo un utilizzo del principio limitato alla definizione di comportamenti già dovuti in base al contratto collettivo o ad altri atti di autonomia privata34.
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Cass., 3 febbraio 2000, n. 1198, in RIDL, 2001, II, 771 con nota di Pilati. Di Majo, op. cit., 47. 29 Bianca, La nozione di buona fede, in RDC, 1983, I, 210; Bianca, L’obbligazione, Giuffrè, 2006, 90 ss. 30 Tullini, op. cit., 51; Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Commentario Scialoja-Branca-Galgano, Zanichelli-Il Foro italiano, 1988, 123. 31 Campanella, clausole generali e obblighi del prestatore di lavoro, Relazione in occasione delle giornate di studio Aidlass 2014, 51; Saffioti, Le clausole generali di buona fede e correttezza e la posizione del lavoratore subordinato, Giappichelli, 1999, 118 s.s. 32 Mattarolo, Obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro, in Comm. Sch., Giuffrè, 2000, 23. 33 Perulli, op. cit., 13. 34 Cass., 23 maggio 2016, n. 10666, in D&G, 2016, 24 maggio, con nota di Leverone; Cass., 1 giugno 2015, n. 11314, in www. cortedicassazione.it.; Cass., 4 giugno 2014, n. 12563, in GCM 2014; Cass., 24 giugno 1995, n. 7190, in MGL, 1995, 370. 28
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5. Buona fede e diritto di sciopero. Nell’ambito dello sciopero vi è stata una delle più significative applicazioni del principio di correttezza e buona fede, utilizzato, storicamente, nel tentativo di porre dei limiti all’utilizzo di tale diritto. Infatti la giurisprudenza, chiamata, in assenza delle norme di disciplina dello sciopero di cui all’art. 40 Cost., ad individuare in via interpretativa i limiti all’esercizio del diritto di sciopero, ha utilizzato tale principio come fondamento di detta limitazione e come parametro di valutazione del comportamento degli scioperanti35. Così, in considerazione dell’esigenza di circoscrivere il pregiudizio derivante dallo sciopero al c.d. danno giusto, in applicazione del principio di corrispettività dei sacrifici, si escludeva la liceità dei comportamenti anomali degli scioperanti attraverso il richiamo alla correttezza e alla buona fede. In particolare veniva esclusa la liceità degli scioperi c.d. anomali, quali lo sciopero a scacchiera, a singhiozzo, pignolo, in cui il danno derivante all’impresa era notevolmente più rilevante di quello subito dal lavoratore per la perdita della retribuzione. L’impostazione descritta veniva definitamente superata con l’intervento della Cassazione, che nella celebre sentenza n. 711/198036 affermava l’impossibilità di porre limiti all’esercizio della libertà di lotta sindacale, se non quando essa «si estrinsechi in atti commissivi tali da ledere beni o interessi tutelati dall’ordinamento». Tale affermazione è stata seguita da una granitica giurisprudenza, costante nell’affermare l’assolutezza del diritto di sciopero e nel negare la possibilità di introdurre limiti al suo esercizio, con il superamento, di conseguenza, anche della possibilità di introdurre limitazioni sulla base dei principi di correttezza e buona fede. È d’uopo precisare, infatti, che i limitati ambiti in cui si continuano ad utilizzare i menzionati principi per sanzionare forme di lotta anomala dei lavoratori, quali la non collaborazione o l’ostruzionismo, non rientrano nell’ambito dello sciopero, neppur inteso in senso lato, in quanto nei casi rappresentati non si è in presenza di un’astensione dalla prestazione lavorativa, ma i lavoratori offrono una prestazione irregolare ed inidonea a soddisfare l’interesse datoriale, che si traduce, pertanto, in un inadempimento37. Ulteriore ambito in cui il principio viene evocato è quello dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, nel quale la revoca immotivata dello sciopero a seguito della proclamazione, costituente il c.d. effetto annuncio, viene ritenuto illegittimo anche sulla base di tali principi. Il richiamo nel particolare settore dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, tuttavia, si può comprendere proprio in ragione delle peculiarità del settore, nel quale il ricorso allo
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Cass., 4 marzo 1952, n. 584, in RGL, 1952, II, p. 84 ss.; Cass., 28 luglio 1956, n. 2961, in MGL, 1956, p. 304 ss.; Cass., 19 giugno 1959, n. 1936, in FI, 1959, I, p. 254 ss. 36 In GI, 1980, I, 1, 1022 con nota di Ardau; in RGL, 1980, II, 12; in FI, 1980, I, 25, con nota di Genoviva; in GC., 1980, I, 803, con nota di Dell’Olio; in MGL, 1980, 176 con nota di Simi. 37 F. Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, 1957, 65; Mengoni, L’esercizio dello sciopero in relazione ai soggetti e all’oggetto, in Mazzoni (a cura di), L’esercizio del diritto di sciopero. Seminario di preparazione per dirigenti sindacali e aziendali, Giuffrè, 1969, 20.
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sciopero conduce a conseguenze pregiudizievoli per diritti di rango costituzionale, motivo per cui il suo esercizio non può portare a forme di utilizzazione fraudolenta38. L’impossibilità di riconoscere una limitazione del diritto di sciopero sulla base dei principi di correttezza e buona fede è stata autorevolmente affermata sulla base della considerazione che l’esercizio del diritto di sciopero determina la sospensione dell’obbligo di lavorare. In tale momento, caratterizzato unicamente dallo stato di conflitto tra le parti, non potrebbe, perciò, trovare applicazione un principio tipico e caratteristico della sfera del diritto delle obbligazioni e dei contratti39. Tuttavia viene ormai comunemente riconosciuto che anche nelle ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro sussistano ed anzi trovino fertile terreno gli obblighi di correttezza e buona fede, si pensi al contegno richiesto al lavoratore durante la malattia; sembra allora preferibile argomentare in modo parzialmente differente, considerando, piuttosto, come siano le stesse caratteristiche dello sciopero ad escludere un ricorso ai canoni di correttezza e buona fede. Infatti lo sciopero, in quanto tale, «è ontologicamente offensivo e, dunque, non ne è prospettabile un uso rispettoso40», di talché atteggiamenti di cooperazione, comprensione, rispetto della situazione del datore di lavoro, risultano incompatibili con esso. Allo sciopero, di conseguenza, risultano del tutto estranee le prescrizioni relative alla correttezza, in quanto la logica che ispira tali prescrizioni si pone in netto contrasto con la natura dello sciopero, nel quale «la stessa sfera datoriale è legittimamente suscettibile di aggressione41». Infatti risulta che il diritto di sciopero è tutelato anche nella sua componente lesiva, tanto che specifiche disposizioni normative vietano di ricorrere all’assunzione di lavoratori a termine o somministrati per sostituire i lavoratori scioperanti e arginare, così, il danno subito42.
6. Conclusioni. Sulla base di quanto esposto non sembra che si possa riconoscere, nemmeno sulla base degli obblighi di correttezza e buona fede, un dovere di giustificare l’assenza per sciopero. Ciò si può escludere innanzitutto considerando il particolare atteggiarsi di tali obblighi nell’esercizio del diritto di sciopero, che è caratterizzato da una situazione di conflitto che non può tollerare limitazioni ad esclusione del divieto di lesione di beni di eguale rango costituzionale. Inoltre l’obbligo in esame può essere escluso anche perché un simile dovere, di contenuto positivo, nascerebbe unicamente dall’applicazione dei principi di corret-
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Pino, L’istituto della revoca dello sciopero e il c.d. effetto annuncio, in DRI, 2008, I, 18. Montuschi, Il diritto di sciopero e il c.d. danno ingiusto, in RTDPC, 1968, 67; Di Majo, Tutela civile e diritto di sciopero, in RGL, 1980, I, 293; Martinelli, Sugli obblighi di buona fede negli intervalli lavorativi durante gli scioperi, in nota a Cass., 7 settembre 1974, n. 2433, in FI, 1974, I, 3028. 40 Saffioti, op. cit. 41 Ibidem. 42 Cass., 9 maggio 2006, n. 10624, in GD, 2006, XXIII, 68, con nota di Gramiccia, che definisce la sostituzione dei lavoratori scioperanti con lavoratori a termine «comportamento lesivo del diritto di sciopero». 39
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tezza e buona fede, mentre si è visto che nell’ambito del diritto del lavoro comunemente si esclude che gli stessi possano avere una tale forza. Tornando alla vicenda in esame, le considerazioni formulate conducono ad escludere la possibilità di considerare ingiustificata l’assenza dei lavoratori nelle giornate in cui era stato proclamato lo stato di agitazione sindacale. Dalla ricostruzione dei fatti emerge come nel caso concreto si debba vieppiù escludere un qualsiasi interesse dell’azienda a richiedere la giustificazione dell’assenza, in quanto la stessa aveva già a disposizione tutti gli elementi necessari a ricondurre le assenze dal lavoro all’esercizio del diritto di sciopero, posto che erano state precedute dalla proclamazione dello sciopero nonché dalla comunicazione delle modalità di esercizio dello stesso. Inoltre uno dei due lavoratori non solo era rsa, ma era altresì firmatario della comunicazione sindacale con la quale era stato proclamato lo sciopero, di talché la pretesa di avere una giustificazione dell’assenza, considerandola ingiustificata in mancanza di tale dichiarazione, configura una palese violazione della libertà sindacale e del diritto di sciopero. Parimenti si può escludere che la contestazione relativa alla violazione delle norme sul procedimento disciplinare abbia un qualche fondamento, in quanto non sussiste alcun obbligo del lavoratore di collaborare fornendo una difesa in relazione al fatto addebitato: la difesa è un diritto del lavoratore, che può liberamente scegliere di esercitarlo o meno. La decisione che si annota risulta pertanto condivisibile in quanto esclude che vi sia un dovere dei lavoratori di giustificare le assenze, affermando che «le assenze non richiedevano di essere giustificate costituendo esercizio del diritto di sciopero», e dichiara, conseguentemente, discriminatorio e ritorsivo il licenziamento intimato dall’azienda. Maria Laura Picunio
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Giurisprudenza Tribunale di T rento, sentenza 6 dicembre 2016; Giud. Flaim – M.T. s.a.s. (avv. Parotto, Ferrarese) c. I.N.P.S. (avv. de Pompeis, Odorizzi) e S.C.C.I. (avv. de Pompeis, Odorizzi). Lavoro (rapporto di) – Contratto di somministrazione – Violazione dell’art. 20, comma 5, lett. b), d.lgs. n. 276/2003 – Nullità – Legittimazione ad agire degli enti previdenziali – Sussistenza.
La violazione del divieto ex art. 20, co. 5, lett. b), secondo periodo, d.lgs. n. 276/2003, determina la nullità del contratto di somministrazione laddove abbia esecuzione presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione di orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessi lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione e la legittimazione ad agire per l’accertamento di tale nullità spetta anche agli enti previdenziali a tutela dei propri diritti. Lavoro (rapporto di) – Contratto di somministrazione – Somministrazione finalizzata al risparmio del costo del lavoro – Nullità per illiceità della causa – Sussistenza.
Un contratto di somministrazione di lavoro, che preveda l’utilizzazione di lavoratori che percepiscono un trattamento retributivo e previdenziale nettamente inferiore a quello dovuto ai dipendenti dell’utilizzatore, costituisce un’operazione economica illecita che vizia la causa della somministrazione di lavoro e comporta la nullità del contratto (fattispecie relativa ad un’ipotesi nella quale l’impresa utilizzatrice era stabilita in Romania dove i trattamenti retributivi e previdenziali sono notoriamente ampiamente inferiori a quelli italiani). Lavoro (rapporto di) – Contratto di somministrazione – Omessa presentazione delle denunce obbligatorie – Occultamento dei rapporti di lavoro – Evasione contributiva – Sussistenza.
Configura la fattispecie dell’occultamento di rapporto di lavoro, ai fini dell’applicazione della sanzione civile di cui all’art. 116, comma 8, l. n. 388/2000, la denuncia non conforme al vero relativa ai presupposti fattuali dell’imposizione. Motivazione. L’opposizione proposta dalla società ricorrente. La società ricorrente M.T. s.a.s. in concordato preventivo e liquidazione giudiziale propone opposizione ex art. 24 d.lgs. 26.2.1999, n.46 ed art. 30 D.L. 31.5.2010, n. 78 conv. in L. 30.7.2010, n. 122 avverso l’avviso di addebito emesso dall’I.N.P.S. in data 9.12.2015 ed avente per oggetto pretese contributive fondate sul verbale unico di accertamento e notificazione elevato dall’I.N.P.S. e dal Servizio Lavoro della Provincia Autonoma di Trento in data 11.12.2014 e sul verbale unico di accertamento e notificazione elevato dall’I.N.P.S. in data 11.12.2014, con cui i lavoratori in apparenza somministrati dalle agenzie SC s.r.l. con sede in Turnu Severin (Romania) e SCF s.r.l. con sede in
Buftea Jud. Ilfov (Romania) a M.T. s.a.s., nel periodo 17.9.2012-21.10.2013, sono stati ritenuti alle dipendenze di quest’ultima. L’opposizione si articola nei motivi che seguono. 1) Viene eccepita la “nullità dei verbali ispettivi e, conseguentemente, dell’avviso di addebito opposto” per violazione del combinato disposto dell’art. 7 co.2 lett. d) D.L. 70/2011 e dell’art. 12 co.2 L. 212/2000. 2) La società opponente nega la fondatezza nel merito delle pretese contributive avanzate dall’I.N.P.S. con l’avviso di addebito opposto in quanto: a) a seguito dell’abrogazione, per effetto dell’art. 55 d.lgs. 81/2015, dell’art. 28 d.lgs. 276/2003 è “venuto meno il presupposto (ossia la fraudolenza ex art. 28 d.lgs. 276/2003) sul quale le pretese dell’I.N.P.S. si fondano”;
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b) la società ricorrente – pur riconoscendo che nel periodo 17.9.2012-21.10.2013 ha contemporaneamente disposto, in violazione dell’art. 20 co.5 d.lgs. 276/2003 (comportante una mera irregolarità dei contratti di somministrazione), la sospensione dei rapporti di lavoro di alcuni propri dipendenti per richiesta di cassa integrazione guadagni ordinaria – CIGO e l’utilizzo di lavoratori somministrati dalle agenzie rumene SC s.r.l. (Romania) e SCF s.r.l. – evidenzia di non aver in realtà fruito della CIGO essendo intervenuti la revoca delle ammissioni già disposte e il rigetto delle domande di ammissione ancora in fase di istruttoria; inoltre nega il carattere fraudolento ex art. 28 d.lgs. 276/2003 e, quindi, la nullità delle somministrazioni de quibus in relazione al periodo 17.9.2012-21.10.2013, sostenendo che un’eventuale illiceità della causa determinerebbe la nullità ab origine del contratto (qui di somministrazione) e non già limitata ad un periodo della sua esecuzione. 3) Viene contestata l’irrogazione delle sanzioni per evasione contributiva ex art. 116 co.8 lett. b) L. 388/2000 (anziché di quelle per omissione contributiva ex art. 116 co.8 lett. a) L. 388/2000), difettando l’occultamento dei rapporti di lavoro afferenti i contributi previdenziali pretesi, atteso che “l’opponente, per tutta la durata dei contratti di somministrazione, ha sempre correttamente trasmesso la relativa documentazione all’istituto previdenziale e ha sempre correttamente registrato nel LUL le posizioni dei lavoratori somministrati”. 4) Viene contestato il quantum delle pretese retributive avanzate con l’avviso di addebito […] Omissis Le ragioni della decisione. Omissis 3) in ordine al merito. a) Appare in primo luogo necessario individuare in cosa consista la causa petendi di cui l’I.N.P.S. si è avvalso nell’avanzare, con l’avviso di addebito opposto, le pretese contributive, delle quali la società opponente contesta il fondamento. Ciò risulta necessario in quanto nelle note finali autorizzate la società opponente sostiene che l’I.N.P.S., adducendo nel presente giudizio che il fondamento delle pretese contributive de quibus sarebbe la violazione dell’art. 20, co. 5, d.lgs. 276/2003, avrebbe modificato la causa petendi indicata nei verbali di accertamento dell’11.12.2014, dove gli ispettori hanno sostenuto il carattere fraudolento ex art. 1344 cod. civ. ed ex art. 28 d.lgs. 10.9.2003, n. 276. Orbene, non vi è dubbio che la causa petendi delle pretese avanzate con l’avviso di addebito opposto si debba ricercare nei verbali di accertamento dell’11.12.2014, di cui il primo è espressamente richiamato in detto avviso in applicazione dell’art. 30 co.2 D.L. 78/2010 (“L’avviso di addebito deve contenere a pena di nullità… la causale del credito…”). È noto che la causa petendi rappresenta l’elemento oggettivo di
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identificazione dell’azione consistente nel nucleo dei fatti storici costitutivi del diritto azionato (ex plurimis, di recente, Cass. 28.9.2015, n. 19142; Cass. 28.1.2015, n. 1585; Cass. 20.7.2012, n. 12621), a prescindere dalla loro qualificazione giuridica, la quale può essere stabilita autonomamente dal giudice in forza del principio iura novit curia (ex plurimis, di recente, Cass. 31.7.2015, n. 16213; Cass. 8.3.2013, n. 5848; Cass. 24.7.2012, n. 12943). Il principale fatto storico allegato nei verbali di accertamento dell’11.12.2014 è il seguente: “… si rappresenta che nel periodo dal 17 settembre 2012 al 21 ottobre 2013 codesta ditta ha posto parte del proprio personale in cassa integrazione ordinaria per carenza di commesse. Il personale coinvolto a rotazione dal trattamento di integrazione salariale ha riguardato anche dipendenti con mansioni di autista, mansioni analoghe a quelle di gran parte del personale somministrato da parte delle agenzie suddette nello stesso periodo …” (pag. 3-4 del primo verbale). In ragione di questo fatto nei medesimi verbali gli ispettori hanno svolto due susseguenti considerazioni in diritto: “L’art. 20 comma 5 del d.lgs 10.9.2003, n. 276 vieta il contratto di somministrazione presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione. Stante il divieto suddetto e per le motivazioni indicate nell’atto di ammissione alla definizione in sede amministrativa della contravvenzione […] è stata notificata al responsabile di codesta ditta la violazione di cui all’art. 28 D.lgs. 10.9.2003, n. 276 (somministrazione fraudolenta) per il periodo dal 17.9.2012 a fine novembre 2013” (pag. 4) […]. Posto che il contratto di somministrazione risulta essere stato stipulato in frode alla legge, si rappresenta quanto previsto dall’art. 1344 (contratto in frode alla legge) del codice civile […] Altresì l’art. 1418 cod. civ. (cause di nullità del contratto) stabilisce […]. La circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 5 dell’1 febbraio 2011 in tema di appalto fraudolento stabilisce che in caso di violazione dell’art. 28 del D.lgs. 276/2003 (somministrazione fraudolenta) oltre all’applicazione delle sanzioni penali previste dalla norma medesima, a contrasto di ogni forma di inaccettabile dumping sociale ed economico, dovranno essere regolarizzati alle dipendenze dell’utilizzatore i lavoratori occupati per l’effettivo impiego del presunto appalto, rivelatosi illecito e fraudolento. La previsione ministeriale si basa sulla considerazione che il contratto di somministrazione stipulato con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo deve ritenersi nullo per frode alla legge ai sensi del combinato disposto degli artt. 1344 e 1418 del codice civile sopra menzionati”.
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In memoria di costituzione I.N.P.S. ha così dedotto: “… la società M.T. usufruì, in vari periodi degli anni 2012 e 2013, dell’integrazione salariale erogata dall’I.N.P.S. a seguito della sospensione e/o riduzione dell’attività dei propri autisti dovuta a presunta e dichiarata diminuzione dei contratti per il trasporto merci e dei relativi viaggi. Negli stessi periodi, però, la società ricorrente si avvalse, per effettuare la medesima tipologia di attività svolta dagli autisti dipendenti messi in Cassa Integrazione, di personale con la stessa qualifica di autisti, di nazionalità e residenza estera, messi a disposizione da Imprese di somministrazione con sede in Romania …” (pag. 2). “È proprio per l›utilizzo dei medesimi in tale arco temporale, in quanto illegittimo ai sensi dell’art. 20 comma 5 del D.lgs. 10.9.2003, n. 276, è stato elevato l’addebito contributivo parametrato all’imponibile retributivo dei n. 56 lavoratori formalmente somministrati dalle due Agenzie interinali rumene […] Infatti il contratto di somministrazione lavoro è espressamente vietato “presso unità produttive delle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione …” (pag. 3) […] “Per il chiaro disposto dell’art. 20 co.5 del D.lgs. 276/2003 i lavoratori utilizzati in tale periodo sono giuridicamente a carico della ditta utilizzatrice con correlato obbligo di versamento dei relativi contributi ed oneri fiscali …” (pag. 4). Appare evidente che, sulla base del medesimo nucleo di fatti, gli ispettori, pur richiamando l’ipotesi ex art. 20, co. 5, lett. b), secondo periodo, d.lgs. 276/2003, si sono soffermati su quella ex 1344 c.c. ed ex art. 28 d.lgs. 276/2003, mentre nel presente giudizio il difensore dell’I.N.P.S. ha menzionato soltanto la prima ipotesi. Tuttavia, trattandosi di diverse qualificazioni giuridiche formulate in riferimento ai medesimi fatti non vi è alcuna mutatio libelli (e, a ben vedere, neppure un’emendatio libelli). Inoltre questo giudice può qualificare giuridicamente i fatti medesimi in via autonoma, statuendo se integrino o meno una delle due ipotesi formulate dai rappresentanti dell’I.N.P.S. (attore in senso sostanziale) o anche, prescindendo da esse, una diversa fattispecie. b) È pacifico (avendolo riconosciuto anche la difesa di parte opponente) che: - nel periodo 17.9.2012-21.10.2013 la società M.T. s.a.s. ha contemporaneamente disposto la sospensione dei rapporti di lavoro di alcuni propri dipendenti per richiesta di cassa integrazione guadagni ordinaria - CIGO e l’utilizzo, per l’espletamento di mansioni identiche a quelle svolte dai primi (autista per il trasporto di merci su strada), di lavoratori somministrati dalle agenzie rumene SC s.r.l. (Romania) e SCF s.r.l.;
- siffatte condotte integrano la fattispecie ex art. 20, co. 5, lett. b), secondo periodo d.lgs. 276/2003, secondo cui: “Il contratto di somministrazione di lavoro è vietato: […] b) salva diversa disposizione degli accordi sindacali, il divieto opera altresì presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione”. Mentre ad avviso della difesa dell’I.N.P.S. “per il chiaro disposto dell’art. 20, co. 5, del D.lgs. 276/2003 i lavoratori utilizzati in tale periodo sono giuridicamente a carico della ditta utilizzatrice con correlato obbligo di versamento dei relativi contributi ed oneri fiscali…”, invece parte opponente sostiene che “l’I.N.P.S. […] nel caso di contratto irregolare non ha alcuna legittimazione ad agire per chiedere – in luogo del lavoratore – la costituzione di un rapporto di lavoro tra quest’ultimo e l’utilizzatore”. Orbene, non vi è dubbio che il contratto di somministrazione di lavoro stipulato in presenza di una delle ipotesi previste dall’art. 20, co. 5, d.lgs. 276/2003 è un contratto contrario a norma imperativa; lo si desume agevolmente dalla lettera della norma (“Il contratto di somministrazione di lavoro è vietato …”) nonché dalla rubrica dell’articolo in cui quella norma è inserita (“Condizioni di liceità”). Secondo la disciplina del contratto in generale la contrarietà a norma imperativa determina la nullità ex art. 1418, co. 1, c.c. (cd. nullità virtuale) rilevabile ex officio da chiunque abbia interesse (art. 1421 c.c.). Tuttavia, come ha già evidenziato la difesa di parte opponente, l’art. 27 d.lgs. 276/2003 dispone (sotto la rubrica dal significato equivoco di “somministrazione irregolare”, equivoco in quanto estraneo alle tradizionali figure di invalidità negoziale) che: “Quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 20 e 21, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e), il lavoratore può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414 del codice di procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione”. Secondo l’interpretazione prevalente (seguita dall’opponente e non considerata dal difensore dell’I.N.P.S.) nelle ipotesi di cd. somministrazione irregolare ex art. 27 d.lgs. 276/2003 (tra cui certamente rientra anche quella in esame in quanto prevista dall’art. 20, co. 5, lett. b) secondo periodo) soltanto il lavoratore utilizzato, e non altri soggetti che ne avrebbero interesse (primi fra tutti gli istituti previdenziali in favore dei quali sorge, per effetto della costituzione di un rapporto di lavoro subordinato tra utilizzatore e lavoratore, il diritto ai relativi contributi e premi),
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ha legittimazione ad agire per la costituzione in via giudiziale di un rapporto di lavoro subordinato con l’utilizzatore. Questa soluzione ermeneutica è stata aspramente criticata in dottrina. Un autorevole studioso – sulla premessa che la configurazione di una nozione di somministrazione irregolare distinta dalla somministrazione fraudolenta costituisce “un tentativo maldestro di introdurre distinzioni giuridiche incompatibili con il quadro complessivo: ciò vale per l’idea che la somministrazione irregolare possa essere appaiata ad una sorta di annullabilità e quella fraudolenta ad una sorta di nullità. Il discorso non regge perché il contratto di somministrazione non conforme alle regole è nullo per contrarietà a norma imperativa e dunque quella che viene qualificata come mera irregolarità è in realtà una species del genus nullità. Ne deve derivare che la somministrazione fraudolenta appare – ad onta delle millimetriche distinzioni spesso evocate dai commentatori – come un inutile doppione della disciplina sanzionatoria della somministrazione irregolare. Se infatti della nozione di frode alla legge si dà, come la più moderna riflessione ha da tempo proposto, una accezione oggettiva, sfuma l’autonomia concettuale fra le due situazioni dal momento che sempre e comunque la somministrazione irregolare ha la funzione di eludere la disciplina garantistica” – ha ritenuto che “la qualificazione in termini di nullità dell’accordo interpositorio e la natura dichiarativa dell’azione dovrebbe condurre, ancora una volta secondo i principi, a far valere la razionalità sulla lettera della legge, ampliando la platea dei soggetti abilitati all’azione. La maldestra dizione legislativa potrebbe ricostruirsi nel senso che il riferimento letterale al «ricorso» (anziché all’azione) avrebbe la mera funzione di consentire la precisazione che l’atto introduttivo del giudizio può essere notificato anche al solo datore «interponente» e nulla più”. Questo orientamento dottrinale appare persuasivo perché pienamente condivisibile appare il metodo di cui è esplicitamente espressione: nelle situazioni in cui “all’interprete deve far capo l’ingrato compito di ridistribuire le aporie e le contraddizioni del legislatore” occorre “far tesoro dell’unica bussola affidabile che è la coerenza sistematica rispetto al quadro complessivo”. In definitiva, ritenuto che: - la (qui pacifica) violazione del divieto ex art. 20, co. 5, lett. b), secondo periodo, d.lgs. 276/2003 determina la nullità del contratto di somministrazione laddove abbia esecuzione (come pacificamente avvenuto nel caso in esame nel periodo 17.9.2012-21.10.2013) presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione; - la legittimazione ad agire per l’accertamento di tale nullità e della conseguente sussistenza di un rap-
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porto di lavoro subordinato tra utilizzatore e lavoratori illecitamente somministrati non è riservata a costoro, ma spetta anche agli enti previdenziali a tutela dei propri diritti (aventi per oggetto i prescritti contributi e premi), le pretese contributive avanzate dall’I.N.P.S. con l’avviso di addebito opposto appaiono fondate quanto meno nell’an. La circostanza che successivamente l’I.N.P.S. abbia provveduto, in relazione al periodo 17.9.201221.10.2013, a revocare le ammissioni alla CIGO, concernente i lavoratori alle dipendenze dell’opponente, già concesse e a respingere quelle ancora istruttoria appare circostanza irrilevante ai fini della debenza dei contributi relativi alle prestazioni svolte dai lavoratori illecitamente somministrati in quanto anche nell’ipotesi in cui I.N.P.S. recuperasse per intero le somme utilizzate mediante compensazione dalla società opponente ai fini dell’anticipazione dell’integrazione salariale e riscuotesse i contributi dovuti in ordine ai rapporti di lavoro illegittimamente sospesi, non potrebbe comunque esser cancellato il fatto che i lavoratori illecitamente somministrati sono stati utilizzati dalla società opponente in sostituzione dei propri dipendenti illegittimamente sospesi. c) Ma vi è di più. La somministrazione di lavoro, da parte dalle agenzie SC s.r.l. con sede in Turnu Severin (Romania) e SCF s.r.l. con sede in Buftea Jud. Ilfov (Romania) a M.T. s.a.s., nel periodo 17.9.2012-21.10.2013, costituisce un’operazione economica nulla non solo per violazione della norma imperativa ex art. 20, co. 5, lett. b), secondo periodo, d.lgs. 276/2003, ma anche per illiceità della causa (senza necessità di ricorrere alla figura della frode alla legge, peraltro di difficile applicazione in presenza di un unico contratto tipico). In proposito occorre ancora una volta partire dal principale fatto storico allegato nei verbali di accertamento dell’11.12.2014: “… si rappresenta che nel periodo dal 17 settembre 2012 al 21 ottobre 2013 codesta ditta ha posto parte del proprio personale in cassa integrazione ordinaria per carenza di commesse. Il personale coinvolto a rotazione dal trattamento di integrazione salariale ha riguardato anche dipendenti con mansioni di autista, mansioni analoghe a quelle di gran parte del personale somministrato da parte delle agenzie suddette nello stesso periodo …” (pag. 3-4 del primo verbale). Nel caso in esame sussiste (ovviamente sempre in relazione al periodo 17.9.2012-21.10.2013) un quid pluris rispetto alla fattispecie ex art. 20, co. 5, lett. b), secondo periodo d.lgs. 276/2003 (i cui elementi costitutivi sono la somministrazione di lavoro, la contestuale operatività di una sospensione dei rapporto o di una riduzione di orario con diritto al trattamento di integrazione salariale, l’identità tra le mansioni svolte dai lavoratori somministrati e quelle proprie dei lavoratori sospesi o con orario ridotto) rappresentato dal fatto
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che le agenzie di somministrazione sono situate e operano in Romania e, conseguentemente, le assunzioni dei lavoratori inviati presso la società opponente sono state effettuate in Romania, dove i trattamenti retributivi e previdenziali sono – il fatto deve considerarsi notorio – ampiamente inferiori a quelli italiani. Quindi nella vicenda in esame non si è realizzata una mera sostituzione dei lavoratori dipendenti dell’utilizzatrice sospesi con i lavoratori somministrati (il che comporterebbe solamente l’integrazione della fattispecie ex art. 20, co. 5, lett. b), secondo periodo, d.lgs. 276/2003), ma questa sostituzione è avvenuta, da parte della società opponente, soddisfacendo le medesime esigenze produttive sottese ai rapporti di lavoro intercorrenti con i propri dipendenti mediante l’utilizzo di lavoratori comportante un costo retributivo e previdenziale nettamente inferiore; costoro, infatti, hanno ricevuto dalle agenzie di somministrazione rumene un trattamento retributivo e previdenziale nettamente inferiore a quello che sarebbe loro spettato per il fatto di soddisfare con le proprie prestazioni le stesse esigenze produttive che la società opponente, operando lecitamente, avrebbe realizzato avvalendosi dei propri dipendenti. Non vi è dubbio che utilizzare lavoratori che percepiscono un trattamento retributivo e previdenziale inferiore a quello dovuto costituisce (oltre che un inadempimento contrattuale nell’ipotesi di accertamento su iniziativa dei lavoratori di un rapporto di lavoro diretto con l’utilizzatore) un’operazione economica illecita che vizia la causa della somministrazione di lavoro (con conseguente nullità “strutturale” ex artt. 1343 e 1418, co. 2, c.c. rilevabile d’ufficio da chiunque vi abbia interesse ai sensi dell’art. 1421 c.c., ivi compresi, quindi, gli enti previdenziali). Non deve stupire, in presenza di un contratto ad esecuzione continuata o comunque periodica, quale può essere il contratto di somministrazione di lavoro, che l’illiceità della causa si realizzi solamente in una certa fase dell’esecuzione, dove, appunto, ricorre quella circostanza di fatto costituente il quid pluris che connota di illiceità l’operazione economica sottesa al negozio. Parte opponente svolge diffuse considerazioni in ordine alla disciplina ex d.lgs. 72/2000 in tema di distacchi per lo svolgimento di prestazioni di servizi transnazionali, che, però, si rivelano inconferenti al caso in esame, stante (sinteticamente) la ricorrenza del quid pluris appena evidenziato. 4) in ordine alle sanzioni civili. La società opponente contesta anche la fondatezza delle sanzioni civili ex art. 116 co.8 L. 23.12.2000, n. 388 (“in caso di evasione connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero, cioè nel caso in cui il datore di lavoro, con l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate, al pagamento di una sanzione civile, in ragione
d’anno, pari al 30 per cento; la sanzione civile non può essere superiore al 60 per cento dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge …”) irrogata con l’avviso di addebito opposto (anziché di quelle per omissione contributiva ex art. 116, co. 8, lett. a), L. 388/2000 prevista “nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie…”). Nega ricorra nel caso in esame il presupposto dell’occultamento dei rapporti di lavoro afferenti i contributi previdenziali pretesi, atteso che “l’opponente, per tutta la durata dei contratti di somministrazione, ha sempre correttamente trasmesso la relativa documentazione all’istituto previdenziale e ha sempre correttamente registrato nel LUL le posizioni dei lavoratori somministrati”. L’assunto non può essere condiviso. Secondo l’ormai consolidato orientamento, espresso dalla Suprema Corte (Cass. 20.2.2013, n. 4188; Cass. 25.6.2012, n.10509; Cass. 27.12.2011, n. 28966), in riferimento ai contributi dovuti al Fondo lavoratori dipendenti gestito dall’I.N.P.S., l’omessa o infedele denuncia mensile all’I.N.P.S. (attraverso i cosiddetti modelli D.M.10) di rapporti di lavoro o di retribuzioni imponibili (ancorché registrati nei libri di cui è obbligatoria la tenuta), concretizza l’ipotesi di “evasione contributiva” di cui all’art. 116, co. 8, lett. b) L. 388/2000, e non la meno grave fattispecie di “omissione contributiva” di cui alla lett. a) della medesima norma, che riguarda le sole ipotesi in cui il datore di lavoro, pur avendo provveduto a tutte le denunce e registrazioni obbligatorie, ometta il pagamento dei contributi, dovendosi ritenere che l’omessa o infedele denuncia configuri occultamento dei rapporti o delle retribuzioni o di entrambi e faccia presumere l’esistenza della volontà datoriale di realizzare tale occultamento allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti; conseguentemente, grava sul datore di lavoro inadempiente l’onere di provare la mancanza dell’intento fraudolento e, quindi, la sua buona fede, onere che non può tuttavia reputarsi assolto in ragione della avvenuta corretta annotazione dei dati, omessi o infedelmente riportati nelle denunce, sui libri di cui è obbligatoria la tenuta. Osserva la Corte che: “… il termine occultamento non indica necessariamente l’assoluta mancanza di qualsivoglia elemento documentale che renda possibile l’eventuale accertamento della posizione lavorativa o delle retribuzioni, posto che anche soltanto attraverso la mancata (o incompleta o non conforme al vero) denuncia obbligatoria viene celata all’ente previdenziale (e, quindi, occultata) l’effettiva sussistenza dei presupposti fattuali dell’imposizione e ciò, si badi, proprio attraverso l’adempimento funzionalmente diretto a consentire all’Istituto l’agevole conoscenza, mese per mese, del proprio credito contributivo[…]. Né a contrario avviso può condurre il rilievo che, in ipotesi di
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registrazione dei rapporti e delle effettive retribuzioni, l’ente impositore potrebbe venire a conoscenza della situazione effettiva, atteso che tale conoscenza resterebbe, in difetto di una denuncia periodica veritiera, meramente eventuale, collegata cioè ad un altrettanto eventuale accertamento (ovvero al raffronto tra i dati di cui alla denuncia obbligatoria e quelli ricavabili dai CUD consegnati ai lavoratori), e non farebbe quindi venir meno, in relazione alla denuncia infedele, l’occultamento dei rapporti o delle retribuzioni (che, a tutto concedere, sussisterebbe comunque fintanto che non fossero – eventualmente – attuati gli accertamenti ispettivi o i raffronti con i dati evincibili dai modelli CUD) […]. Né può sottacersi che, come già posto in luce dalla ridetta pronuncia delle Sezioni Unite n. 4808/2005, un’interpretazione meno rigorosa del concetto di omissione, esteso a tutte le ipotesi che in qualunque modo abbiano reso possibile all’Ente previdenziale l’accertamento degli inadempimenti contributivi, anche a distanza di tempo, o in ritardo rispetto alle cadenze informative periodiche prescritte dalla legge, aggraverebbe la posizione dell’Istituto, imponendogli un’incessante attività ispettiva, laddove il sistema postula, anche nel suo aspetto contributivo, per la sua funzionalità, una collaborazione spontanea tra i soggetti interessati …”. Nel caso in esame appare pacifico che la società datrice opponente, oltre al mancato pagamento dei contributi dovuti, ha registrato nel Libro Unico del La-
voro come somministrati lavoratori, che, invece, dovevano essere considerati alle sue dipendenze e ha omesso di presentare le denunce prescritte in presenza di lavoratori subordinati (in particolare, per quanto concerne l’I.N.P.S., i cd. mod. D.M.10). Quindi, se, ad avviso della Suprema Corte, ricorre l’ipotesi dell’evasione ex art. 116, co. 8, lett. b), L. 388/2000 anche quando il reddito, seppur registrate nei libri contabili, non sia stato denunciato nel prescritto modello, a fortiori la medesima fattispecie si perfeziona quando, come nel caso in esame, manchi anche la registrazione nei libri contabili. In realtà la società opponente ha effettuato gli adempimenti formali previsti nell’ipotesi di somministrazione regolare, e non quelli propri dei rapporti di lavoro subordinato effettivamente intercorsi (secondo le statuizioni della presente sentenza), che quindi risultano occultati. Né si può ritenere che I.N.P.S. fosse in grado di venire a conoscenza agevolmente della situazione effettiva mediante il raffronto tra le registrazioni dei lavoratori somministrati nel LUL della società opponente e la documentazione presentata dalla stessa ai fini dell’ammissione alla CIGO, tant’è vero che ciò ha richiesto lo svolgimento di una complessa indagine condotta non solo dagli ispettori I.N.P.S., ma anche da quelli del Servizio Lavoro della Provincia Autonoma di Trento, culminata nei verbali di accertamento dell’11.12.2014. Omissis.
Distinzione tra somministrazione nulla, irregolare e fraudolenta: il problema della legittimazione attiva dell’ente previdenziale e quello dell’applicabilità delle sanzioni per evasione contributiva Sommario: 1. La fattispecie sottoposta all’esame del Tribunale di Trento e le questioni affrontate. – 2. La distinzione normativa fra somministrazione irregolare, fraudolenta e nulla: gli orientamenti dottrinali e la posizione assunta dal giudice nella sentenza in commento. – 3. Osservazioni critiche sulla soluzione adottata dal Tribunale di Trento e l’eventuale rilevanza della distinzione fra somministrazione nulla, irregolare e fraudolenta a seguito della riforma varata con il d.lgs. n. 81/2015. – 4. Somministrazione nulla, somministrazione irregolare e sanzioni civili per evasione contributiva.
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Sinossi. Il Tribunale di Trento affronta, nella sentenza commentata, il problema della effettiva possibilità di distinguere fra le fattispecie della somministrazione nulla, irregolare e fraudolenta, approfondendo altresì la possibilità di applicare, a tali ipotesi, le sanzioni previste dall’art. 116, l. n. 388/2000 in materia di evasione contributiva. La nota approfondisce in maniera critica il ragionamento sviluppato dal giudice, contestualizzandolo rispetto all’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in materia, nonché valutandone le implicazioni rispetto alla nuova disciplina dettata per la somministrazione di lavoro dal d.lgs. n. 81/2015.
1. La fattispecie sottoposta all’esame del Tribunale di Trento
e le questioni affrontate.
La fattispecie esaminata dal Tribunale di Trento nella sentenza in commento ricade nell’ambito di applicazione della disciplina dettata in materia di somministrazione di lavoro dagli artt. 20 e seguenti del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. Disciplina che, com’è noto, distingueva formalmente le fattispecie della somministrazione irregolare, della somministrazione nulla e della somministrazione fraudolenta, collegando a ciascuna fattispecie un differente regime sanzionatorio a carico del somministratore e dell’utilizzatore1. Il tratto di maggiore rilevanza che contraddistingue la sentenza in commento è costituito proprio dall’approfondimento che il Tribunale di Trento sviluppa su tale distinzione pervenendo a svuotarla di un reale significato normativo. La sentenza si segnala, dunque, in prima battuta, per essere la prima fra le sentenze edite sull’argomento. Prima di passare ad approfondire il ragionamento svolto dal giudice trentino, è però importante subito ricordare che la disciplina dettata dalle disposizioni sopra richiamate – e con essa, dunque, la stessa formale distinzione fra somministrazione irregolare e somministrazione fraudolenta – è stata abrogata dall’art. 55, comma 1, lett. d), d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81. Quest’ultimo decreto, nel dare attuazione alla delega conferita al Governo con la l. 10 dicembre 2014, n. 183, ha, infatti, riformato la disciplina della somministrazione di lavoro ponendola su basi sensibilmente differenti rispetto a quelle sulle quali era fondata la regolazione varata nel 20032.
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In particolare, com’è noto: il quarto comma dell’art. 20 d.lgs. n. 276/2003 prescriveva la nullità del contratto di somministrazione carente di forma scritta (somministrazione nulla); l’art. 27 d.lgs. n. 276/2003 sanciva il diritto del lavoratore somministrato irregolarmente di chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore, con effetto dall’inizio della somministrazione (somministrazione irregolare); l’art. 28 d.lgs. n. 276/2003 prevedeva l’applicazione nei confronti del somministratore e dell’utilizzatore della sanzione dell’ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e ciascun giorno di somministrazione in caso di somministrazione posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore (somministrazione fraudolenta). 2 Com’è noto, peraltro, la disciplina dettata dal d.lgs. n. 276/2003 per la somministrazione di lavoro era stata oggetto di numerosi interventi correttivi negli anni precedenti. Basti ricordare, a mo’ di esempio, la vicenda della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato che, inizialmente ammessa nell’originaria formulazione dell’art. 20 d.lgs. n. 276/2003, è stata poi abrogata (ad opera dell’art. 1, comma 46, l. n. 247/2007) per infine essere successivamente reintrodotta (ad opera dell’art. 2, comma 143, l. n. 191/2009 che ha abrogato l’art. 1, comma 46, l. n. 247/2007). Per una ricostruzione dell’impianto della precedente disciplina v. in
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Per quanto in particolare rileva in rapporto alla sentenza in commento, la nuova disciplina non menziona la fattispecie della somministrazione fraudolenta. L’art. 38 d.lgs. n. 81/2015, rubricato somministrazione irregolare, contempla, infatti, l’ipotesi della somministrazione priva di forma scritta (sanzionandola con la nullità) e quella della somministrazione realizzata al di fuori dei limiti e delle condizioni dettate dagli artt. 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lett. da a) a d) (sanzionata con il riconoscimento del diritto del lavoratore di chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore). Nonostante le differenze fra la vecchia e la nuova regolamentazione, la sentenza qui pubblicata riveste un notevole interesse per almeno due ragioni. In primo luogo, le disposizioni interpretate nella sentenza in commento dettano regole applicabili ai rapporti di somministrazione che si siano conclusi in data antecedente all’entrata in vigore della nuova disciplina. L’interesse per le conclusioni espresse nella sentenza in commento permane, dunque, in relazione alle controversie ancora in corso o per quelle che potrebbero essere attivate con riferimento a rapporti di somministrazione esauritisi in data antecedente al 25 giugno 2015 (data di entrata in vigore del d.lgs. n. 81/2015). Ai rapporti che si siano conclusi successivamente, trattandosi di rapporti di durata3, deve ritenersi applicabile la nuova disciplina (artt. 30-40 d.lgs. n. 81/2015), ad eccezione delle regole destinate a definire i presupposti di legittimità per la stipulazione del contratto di somministrazione. Con riferimento a tale profilo, la valutazione della validità del contratto di somministrazione di lavoro dovrà essere compiuta necessariamente facendo riferimento ai limiti posti dall’ordinamento al momento della stipulazione del contratto (tempus regit actum). Le conclusioni alle quali è pervenuto il Tribunale nella sentenza in commento possono però assumere, in secondo luogo, un’indubbia rilevanza anche nel lavoro di interpretazione della nuova regolamentazione della somministrazione di lavoro. Il ragionamento che il Tribunale sviluppa con riferimento alla distinzione fra somministrazione nulla, irregolare e fraudolenta e le decisioni conseguentemente assunte nella sentenza possono essere utilizzate nell’applicazione della nuova disciplina per la solu-
particolare i contributi raccolti in Del Punta, Romei (a cura di), I rapporti di lavoro a termine, Giuffrè, 2013 e in Aimo, Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, Utet, 2014. Sulla nuova disciplina v., tra gli altri: Calcaterra, Lo staff leasing dall’ostracismo alla liberalizzazione, in RIDL, 2016, I, 579; Id. (a cura di), La somministrazione di lavoro. Problemi e prospettive tra diritto nazionale e diritto dell’Unione europea dopo la l. 78/2014, Giuffrè, 2014; Furlan, La somministrazione di lavoro all’indomani del Jobs Act, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma Jobs Act, Cedam, 599; Ciucciovino, Il sistema sanzionatorio del contratto a termine e della somministrazione di lavoro dopo il Jobs Act, in DLRI, 2015, 611; Alessi, Il sistema “acausale” di apposizione del termine e di ricorso alla somministrazione: come cambia il controllo sulla flessibilità, in DLRI, 2015, 597; Aimo, La nuova disciplina su lavoro a termine e somministrazione a confronto con le direttive europee: assolto il dovere di conformità?, in DLRI, 2015, 635; Riccardi, Filì, La somministrazione di lavoro, in Ghera, Garofalo (a cura di), Contratti di lavoro, mansioni e misure di conciliazione vita-lavoro nel Jobs Act, Cacucci, 2015, 293; Speziale, Le politiche del lavoro del Governo Renzi: il Jobs Act e la riforma dei contratti e di altre discipline del rapporto di lavoro, in WP D’Antona”, it, n. 233/2014. 3 La Cassazione, con orientamento consolidato, afferma che il principio di irretroattività della legge sancito dall’art. 11 preleggi non impedisce alla legge nuova di regolare gli effetti non ancora esauriti di un rapporto giuridico sorto anteriormente, purché essa sia diretta a disciplinare tali effetti, con autonoma considerazione dei medesimi, indipendentemente dalla loro correlazione con l’atto o il fatto giuridico che li abbia generati (ex plurimis: Cass., 16 aprile 2008, n. 9972, in Immobili & Diritto, 10, 51, con nota di Spagnuolo; Cass., 28 settembre 2002, n. 14073, in Ragiufarm, 2003, 75, 77; Cass. 5 aprile 2000, n. 4221, in RIDL, 2001, II, 118, con nota di Putaturo Donati; Cass., 5 maggio 1999, n. 4462, in GC, 1999, I, 1966).
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zione di tre questioni di grande rilevanza: 1) la fattispecie della somministrazione irregolare configura un’ipotesi di nullità, con applicazione del relativo regime, o concretizza un’ipotesi diversa di invalidità, come sembrerebbe far intendere la formale distinzione operata dalle disposizioni sopra richiamate con la somministrazione nulla (espressamente prevista solo per l’assenza della forma scritta)?; 2) è possibile riconoscere in capo all’ente previdenziale la legittimazione ad agire per l’accertamento della nullità o irregolarità della somministrazione anche in assenza e comunque a prescindere dall’azione del lavoratore?; 3) è configurabile la fattispecie dell’evasione contributiva per occultamento del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 116, comma 8, l. n. 388/2000 nell’ipotesi in cui si verifichi una somministrazione nulla e/o irregolare? La controversia sottoposta all’esame del Tribunale di Trento trae origine dall’opposizione presentata dall’impresa utilizzatrice avverso un avviso di addebito notificato dall’INPS avente ad oggetto pretese contributive avanzate dall’ente previdenziale sull’assunto della irregolarità/fraudolenza del contratto di somministrazione stipulato dalla stessa azienda con due agenzie di somministrazione aventi sede in Romania. In particolare, l’INPS ha argomentato la violazione dell’art. 20, comma 5, d.lgs. n. 276/2003 riscontrando che, nello stesso periodo in cui si avvaleva dei lavoratori somministrati, l’utilizzatrice godeva del regime di sospensione dei rapporti di lavoro, con erogazione del trattamento di integrazione salariale, a vantaggio dei lavoratori impiegati nelle mansioni di autista; mansioni, queste ultime, analoghe a quelle alle quali era adibito il personale somministrato dalle agenzie di somministrazione. L’ente previdenziale ha, dunque, contestato la validità della somministrazione, qualificandola, dapprima nel verbale di accertamento, come somministrazione fraudolenta ai sensi degli artt. 1344 c.c. e 28 d.lgs. n. 276/2003 e, successivamente nell’avviso di addebito conseguente al verbale di accertamento, come somministrazione irregolare in quanto eseguita in violazione dell’art. 20, comma 5, lett. d), d.lgs. n. 276/2003. Oltre alle omissioni contributive, l’INPS ha applicato le sanzioni civili previste dall’art. 116, comma 8, l. n. 388/2000, affermando che l’invalidità della somministrazione realizza una condotta idonea ad occultare i rapporti di lavoro con i lavoratori somministrati, dando luogo ad una ipotesi di evasione contributiva. La società opponente, pur riconoscendo di aver avuto accesso, nel periodo in cui era in corso la somministrazione, al trattamento dell’integrazione salariale per lavoratori impiegati in mansioni analoghe a quelle dei lavoratori somministrati, ha eccepito: a) la nullità dell’atto di accertamento e di quello di addebito, in quanto l’INPS avrebbe contestato nei due provvedimenti due condotte diverse (somministrazione fraudolenta in un caso e irregolare nell’altro); b) l’impossibilità di qualificare la somministrazione come nulla, poiché tale conseguenza opererebbe solo nella somministrazione fraudolenta e non in quella irregolare, al più verificatasi nella fattispecie in questione; c) con riferimento a quest’ultimo profilo, l’opponente ha peraltro rilevato di non aver in realtà fruito del trattamento di cassa integrazione, poiché l’ente previdenziale aveva revocato il provvedimento di ammissione;
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d) che in ogni caso l’opponente non poteva essere condannata al pagamento delle sanzioni civili, poiché i rapporti di lavoro non erano stati occultati, essendo sempre stata inviata all’istituto previdenziale, per tutta la durata dei contratti di somministrazione, la documentazione relativa ai rapporti di lavoro, correttamente registrati nel libro unico della somministratrice.
2. La distinzione fra somministrazione irregolare,
fraudolenta e nulla: gli orientamenti dottrinali e la posizione assunta dal giudice nella sentenza in commento.
Aderendo all’opinione elaborata da un’autorevole dottrina, espressamente richiamata nella sentenza4, il Tribunale di Trento basa la propria decisione sulla assimilazione fra i concetti di somministrazione irregolare, somministrazione fraudolenta e somministrazione nulla. In particolare, secondo l’impostazione richiamata, la categoria della somministrazione irregolare individuata dalla legge, consistendo in un’ipotesi di fornitura di lavoratori realizzata in violazione delle norme imperative individuate dall’art. 27 d.lgs. n. 276/2003, integrerebbe, in ogni caso, gli estremi della fattispecie del contratto nullo in ragione del principio generale sancito dall’art. 1418 c.c. La somministrazione irregolare non sarebbe, dunque, assimilabile ad un’ipotesi di annullabilità, dovendo essere piuttosto considerata come una species del genus nullità. Sulla base di tale ragionamento, il Tribunale di Trento conclude che priva di reale valore giuridico è altresì la distinzione operata dall’art. 28 d.lgs. n. 276/2003 fra somministrazione irregolare e somministrazione fraudolenta. Intendendo quest’ultima in senso oggettivo, quindi a prescindere dalle intenzioni perseguite dai soggetti coinvolti (comunque molto difficili da accertare in giudizio), anche la somministrazione irregolare realizza, di fatto, un’elusione della disciplina normativa che la rende sostanzialmente assimilabile alla somministrazione fraudolenta. Dovendo essere ricondotte alla categoria della nullità tutte le tre forme di somministrazione (nulla, irregolare e fraudolenta), la sentenza conclude che “la legittimazione ad agire per l’accertamento di tale nullità e della conseguente sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra utilizzatore e lavoratori illecitamente somministrati non è riservata a costoro, ma spetta anche agli enti previdenziali a tutela dei propri diritti (aventi per oggetto i prescritti contributi e premi)”. Il giudice trentino svuota, così, di un reale significato normativo il primo comma dell’art. 27 d.lgs. n. 276/2003 che disponeva, quale rimedio alla realizzazione di una somministrazione irregolare, il diritto del lavoratore di agire in giudizio per ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore.
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La sentenza riporta testualmente l’opinione espressa da Mazzotta, Diritto del lavoro, Giuffrè, 2013, 297 e ss.
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L’orientamento sposato dal Tribunale nella sentenza in commento trova opinioni discordanti in dottrina5. In senso contrario alla riconduzione della somministrazione irregolare nell’area della nullità ed a favore della qualificazione della stessa come un’ipotesi di contratto annullabile, è stato infatti osservato come l’elemento che farebbe propendere per questa seconda alternativa dipenderebbe principalmente dalla natura costitutiva che l’art. 27 d.lgs. n. 276/2003 sembra attribuire all’azione giudiziale del lavoratore; natura coerente, appunto, con la fattispecie dell’annullabilità e non con quella della nullità, per la quale la sentenza dovrebbe invece avere un valore dichiarativo. La rilevanza della distinzione è in parte sicuramente attenuata dalla previsione, contenuta sempre nel primo comma dell’art. 27 d.lgs. n. 276/2003, che la sentenza costitutiva del rapporto di lavoro produrrebbe i suoi effetti dall’inizio della somministrazione, cosicché, almeno sotto tale piano, la sentenza, ancorché costitutiva, opererebbe comunque ex tunc (al pari di una sentenza dichiarativa della nullità del contratto) e non ex nunc (come sarebbe naturale se si attribuisse natura costitutiva alla pronuncia giudiziale). L’inquadramento della somministrazione irregolare nell’area della nullità o della annullabilità conserva però una rilevanza sul piano pratico, poiché solo nel primo caso potrebbe essere riconosciuto, a norma dell’art. 1421 c.c., il diritto di agire per ottenere la dichiarazione di nullità a tutti i soggetti, anche terzi rispetto al contratto di lavoro, che vi abbiano interesse. L’adesione del giudice della sentenza in commento alla tesi della riconduzione della somministrazione irregolare alla categoria della nullità, lo porta infatti a concludere per il riconoscimento di un’autonoma legittimazione attiva all’ente previdenziale. Ad ulteriore sostegno della propria conclusione, il giudice aggiunge, infine, che la somministrazione oggetto della controversia era comunque affetta da nullità per illiceità della causa, integrata dal fatto che il contratto di somministrazione di lavoro è stato utilizzato dall’utilizzatore per risparmiare sul costo del lavoro. Ed infatti, sembra evincersi dalla sentenza in commento che, nonostante l’art. 23 d.lgs. n. 276/2003 sancisse il principio di parità di trattamento fra lavoratori somministrati e lavoratori impiegati nelle medesime mansioni assunti direttamente dall’utilizzatore, tale regola non sarebbe stata rispettata nel caso di specie, nel quale ai lavoratori somministrati sarebbe stato applicato il trattamento retributivo e contributivo previsto dall’ordinamento rumeno; trattamento, com’è noto, notoriamente di molto inferiore a quello a cui possono accedere i lavoratori che rendano la propria prestazione in Italia. Nella sentenza in commento, dunque, il giudice ha ritenuto non necessario il ricorso alla fattispecie della somministrazione fraudolenta evocata dall’art. 28 d.lgs. n. 276/2003 neanche nell’ipotesi in cui tale tipologia contrattuale sia utilizzata per aggirare l’applicazione delle regole a tutela del lavoro subordinato; una simile ipotesi può essere infatti più agevolmente ricondotta, con i medesimi effetti giuridici, nell’ambito della fattispecie del contratto nullo per illiceità della causa.
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Per una ricostruzione degli orientamenti dottrinali formatisi sull’inquadramento della fattispecie della somministrazione irregolare e sulla sua distinzione da quella della somministrazione nulla e fraudolenta nell’ambito delle disposizioni dettate dal d.lgs. n. 276/2003, vedi da ultimo Giasanti, La somministrazione illecita, in Aimo, Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, Utet, 2014, 551.
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3. Osservazioni critiche sulla soluzione adottata dal
Tribunale di Trento e l’eventuale rilevanza della distinzione fra somministrazione nulla, irregolare e fraudolenta a seguito della riforma varata con il d.lgs. n. 81/2015. La soluzione sposata dal Tribunale di Trento presenta il merito di mettere ordine all’interno delle distinzioni contenute nelle disposizioni legislative in materia, le quali sicuramente non hanno contribuito a soddisfare, sotto il vigore della regolazione precedente alle riforme varate nel biennio 2014-2015, quelle esigenze di maggiore certezza della disciplina lavoristica che sono state spesso invocate a sostegno degli interventi di riforma di questi primi anni del nuovo millennio. Operazione tanto più meritevole se si considera il metodo rigoroso utilizzato dal giudice per pervenire alle richiamate conclusioni: scegliere, fra le diverse soluzioni possibili, quelle che risultino più coerenti con l’inquadramento sistematico dei vizi che possono colpire il contratto e, per quanto qui interessa, con le fattispecie del contratto nullo, del contratto annullabile e del contratto affetto da illiceità della causa perché stipulato in frode alla legge. Tuttavia, la soluzione sposata nella sentenza in commento presenta un profilo di criticità costituito dal fatto che la stessa svuota di significato una distinzione che, al contrario, appare nettamente indicata nella legge, pur senza essere esattamente delineata nei suoi tratti costitutivi. Com’è noto, invero, le regole che sanciscono ipotesi di nullità sono di stretta interpretazione, così da essere destinate ad operare solo in presenza dei vizi espressamente considerati da quelle stesse regole6. Sulla base di tali indicazioni, pone qualche perplessità la scelta di obliterare una distinzione, che nella legge emerge in maniera chiara, fra le ipotesi per le quali la disciplina prevede espressamente la nullità del contratto di somministrazione ed altre nelle quali al vizio da cui è affetta la fornitura di lavoro viene collegato un regime che non è compatibile con quello tipico della nullità. Dalla formulazione dell’art. 27 d.lgs. n. 276/2003 appare, invero, potersi evincere la volontà del legislatore di attribuire valore costitutivo e non meramente dichiarativo alla sentenza che riconosce l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fra il lavoratore, somministrato oltre i limiti consentiti, e l’utilizzatore. Indicazione il cui significato appare tanto più evidente nel senso di voler tenere distinta la somministrazione irregolare dalla fattispecie della nullità, per così dire, “pura”, se considerata in collegamento con la fattispecie della somministrazione di lavoro priva di forma scritta, che la normativa invece espressamente sanziona, appunto, con la nullità.
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Come ha opportunamente rilevato, proprio esaminando la disciplina della somministrazione, Romei, Il contratto di somministrazione di lavoro, in DLRI, 2006, 403, qui 433.
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Pur prendendo atto di tale distinzione, parte della dottrina, seguita dal giudice della sentenza in commento, obietta però che la fattispecie della somministrazione irregolare non sarebbe riconducibile neanche nella categoria dell’annullabilità. Ciò principalmente perché, come sopra anticipato, la somministrazione irregolare si configura pur sempre come effetto della violazione di norme imperative. A fronte di tali calzanti obiezioni, si può provare ad argomentare una soluzione, per così dire, intermedia fra le due appena richiamate, osservando che il legislatore ha la facoltà di disporre degli effetti che derivano dalla stipulazione di un accordo negoziale in violazione di norme imperative. Per chiarire il senso di tale affermazione, è sufficiente qui richiamare alcune delle fattispecie nelle quali la legge, pur prevedendo la sanzione della nullità, detta regole eccezionali rispetto al regime ordinario collegato alla configurazione di una causa di nullità. È quanto ad esempio avviene con riferimento alle c.d. “nullità di protezione”: ossia con riferimento a quelle ipotesi nelle quali il rispetto di una determinata regola imperativa è prescritta a vantaggio solo di una parte, alla quale l’ordinamento riserva la facoltà di invocarne la violazione, precludendola alla controparte; e ciò nonostante il mancato rispetto di quella norma dovrebbe, in quanto appunto imperativa, comportare la nullità del contratto7. Caratteristiche analoghe sono riscontrabili nella materia delle invalidità matrimoniali, per le quali, benché la legge utilizzi l’espressione “nullità”, è sancito un regime che i cui contenuti appaiono più vicini a quelli tipici dei negozi annullabili anziché di quelli nulli8. Gli esempi appena richiamati inducono allora a tenere in debita considerazione la circostanza che le disposizioni che sanzionano con la nullità atti e contratti posti in essere o sottoscritti in violazione di norme imperative prescrivono un regime degli effetti non sempre uniforme. Non a caso, un’autorevole dottrina ha di recente osservato come la materia delle cause di invalidità del contratto assuma nell’ordinamento contemporaneo un’impostazione relativistica e pluralista che induce ad abbandonare ogni tentativo di costruzione di una categoria generale e unitaria di nullità e a considerare che ciascun atto ha la sua patologia e che le stesse espressioni utilizzate dalla legge, ancorché identiche, non sempre esprimono lo stesso significato9. Trattando in questa prospettiva la disciplina dettata dall’art. 27 d.lgs. n. 276/2003, si può argomentare che il regime di invalidità dettato da tale disposizione non deve necessariamente essere qualificato come assimilabile ad un’ipotesi di annullabilità. La violazione dei limiti, sanciti da norme imperative con riferimento alla possibilità di avvalersi della somministrazione di lavoro, la rendono comunque nulla, ma il regime delle
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V. a mo’ di esempio: il combinato disposto degli artt. 117 e 127 d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia); gli artt. 23 e 24 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria); gli artt. 36 e 134 d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo). Nei casi indicati, la disciplina dell’invalidità diverge dall’ordinario regime prescritto per le nullità sotto i profili della legittimazione all’azione, della rilevabilità d’ufficio e della parzialità della nullità. Cfr. sul tema Buzzelli, Nullità (dir. civ.), EGT on line, 2016 ed ivi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali. 8 La rubrica della sezione VI (capo III, titolo IV, libro I) del codice civile è intitolata “Della nullità del matrimonio”, benché l’art. 117 ponga una disciplina diversa da quella tipica della nullità. 9 Del Prato, Patologia del contratto: rimedi e nuove tendenze, in RDComm, 2015, 5.
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conseguenze collegate a tale ipotesi di nullità può divergere dal regime tipico, laddove il legislatore abbia voluto sottoporlo a regole speciali. È quanto sembra essere avvenuto con riferimento alla fattispecie della somministrazione irregolare delineata dall’art. 27 d.lgs. n. 276/2003. Tale fattispecie, invero, pur configurandosi in conseguenza della violazione di disposizioni imperative, è sanzionata dall›art. 27 attraverso il riconoscimento in capo al lavoratore (al quale l’azione appare essere riservata) della possibilità di agire in giudizio per ottenere la costituzione (appunto tramite una sentenza avente un valore costitutivo e non meramente dichiarativo) di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’utilizzatore. Sintetizzando, leggendo le norma in esame alla luce della prospettiva indicata, si può concludere che somministrazione nulla e somministrazione irregolare appartengono entrambe al genus dei contratti sanzionati con la nullità, perché stipulati ed eseguiti in violazione di norme imperative. Però, solo laddove il vizio consista nella mancanza di forma scritta troverà applicazione il regime ordinario della nullità, poiché per la violazione delle altre disposizioni, le quali danno luogo alla fattispecie della somministrazione irregolare, l’ordinamento detta un regime degli effetti in parte eccezionale: natura dichiarativa della sentenza di accertamento e limitazione della legittimazione ad agire in giudizio per far valere l’invalidità al solo lavoratore irregolarmente somministrato. All’interno di tale distinzione può essere ridimensionato anche il valore che deve essere attribuito alla somministrazione fraudolenta: limitandosi l’art. 28 a prevedere l’applicazione per tale ipotesi della sanzione amministrativa, la nozione di somministrazione fraudolenta non può che essere ricostruita richiamando i principi generali e dunque la definizione evincibile dall’art. 1344 c.c., senza operare sovrapposizione con le fattispecie della somministrazione priva di forma scritta e della somministrazione irregolare. Come anticipato, la riforma della somministrazione di lavoro varata dal d.lgs. 25 giugno 2015, n. 81 ha comunque opportunamente rimosso la fattispecie della somministrazione fraudolenta, conservando quella tra somministrazione nulla e somministrazione irregolare. In particolare, analogamente a quanto previsto dalla precedente disciplina sopra esaminata, l’art. 38 d.lgs. n. 81/2015 sanziona espressamente con la nullità la sola somministrazione priva di forma scritta. Tale fattispecie può ritenersi soggetta al regime ordinario applicabile ai contratti nulli, con riconoscimento, quindi, per quanto qui interessa, della legittimazione attiva anche in capo all’ente previdenziale; azione, destinata ad ottenere una sentenza dichiarativa del rapporto di lavoro fra lavoratore e utilizzatore10, non soggetta a termini di prescrizione o decadenza secondo il regime ordinario. Il secondo comma dell’art. 38 qualifica come irregolare la somministrazione di lavoro avvenuta “al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) e d)”.
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Il primo comma dell’art. 38 d.lgs. n. 81/2015 utilizza, infatti, una formulazione coerente con il valore dichiarativo della sentenza di accertamento della nullità della somministrazione: “i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore”.
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Anche in questo caso, come già avveniva con riferimento alla disciplina dettata dalle disposizioni del 2003, l’irregolarità è conseguenza della violazione di norme imperative, ma il regime dell’invalidità risulta in parte eccezionale rispetto a quello tipico. L’azione viene infatti riservata al lavoratore, la sentenza ha valore dichiarativo e l’azione stessa è soggetta ad un regime decadenziale che lo stesso art. 38 riserva alle ipotesi di irregolarità escludendo la fattispecie della nullità per mancanza di forma scritta. Possono dunque essere estese alla nuova disciplina le conclusioni già raggiunte con riferimento al significato della distinzione impostata dal d.lgs. n. 276/2003 fra somministrazione nulla e somministrazione irregolare.
4. Somministrazione nulla, somministrazione irregolare e sanzioni civili per evasione contributiva.
Per concludere merita qualche considerazione l’ulteriore importante decisione assunta dal Tribunale di Trento, secondo il quale la fattispecie della somministrazione nulla (nella quale rientra, nella ricostruzione del giudice, anche quella che la legge denomina somministrazione irregolare) comporta l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 116, comma 8, lett. b), l. n. 388/2000 per l’ipotesi di evasione contributiva. Secondo la sentenza in commento, il fatto che i rapporti di lavoro dei lavoratori illegittimamente somministrati siano stati formalmente dichiarati dal somministratore non è infatti sufficiente a configurare la fattispecie, meno grave, dell’elusione contributiva. Ed invero, a detta del Tribunale trentino, si configura la fattispecie dell’omissione contributiva solo nell’ipotesi in cui il datore di lavoro si limiti ad omettere il pagamento dei contributi, avendo però provveduto a tutte le denunce e registrazioni obbligatorie. Viceversa, perché si concretizzi la condotta consistente nell’evasione contributiva e dunque nell’occultamento del rapporto di lavoro sono necessarie due condizioni: a) il datore di lavoro abbia omesso di denunciare l’esistenza dei rapporti. Condotta alla quale deve essere equiparata la denuncia non corrispondente all’effettivo svolgimento dei rapporti di lavoro (c.d. denuncia infedele); b) l’esistenza della volontà datoriale di realizzare l’occultamento del rapporto di lavoro allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti. Il giudice della sentenza in commento afferma di aderire, così, all’orientamento consolidato espresso in materia dalla Cassazione. Anche tale affermazione può essere però sottoposta ad alcune considerazioni critiche, anche se la conclusione di ritenere applicabile alla fattispecie in causa le sanzioni per evasione contributiva appare corretta nel caso di specie, sia pure, però, sulla base di motivi parzialmente differenti. È utile al riguardo richiamare sinteticamente i principi espressi dalla recente giurisprudenza di legittimità con riferimento alla distinzione della fattispecie della “omissione contributiva” da quella della “evasione contributiva”. Come da ultimo ribadito nella sentenza del 13 marzo 2017, n. 6405, la Suprema Corte afferma che “deve ritenersi ormai consolidato il principio secondo il quale, perché ricorra
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l’ipotesi dell’evasione contributiva, a mente dell’art. 116, comma 8, lett. a), l. n. 388/2000, è necessario che vi sia: a) occultamento di rapporti di lavoro ovvero di retribuzioni erogate; b) tale occultamento sia stato attuato con l’intenzione specifica di non versare i contributi o i premi, ossia con un comportamento volontario finalizzato allo scopo indicato”11. Con riferimento al primo profilo, la Suprema Corte precisa che il requisito dell’occultamento del rapporto di lavoro sussiste “non solo quando vi sia l’assoluta mancanza di un qualsivoglia elemento documentale che renda possibile l’accertamento della posizione lavorativa o delle retribuzioni, ma anche quando ricorra un’incompleta o non conforme al vero denuncia obbligatoria, attraverso la quale viene celata all’ente previdenziale (e, quindi, occultata) l’effettiva sussistenza dei presupposti fattuali dell’imposizione”. Soffermandoci su tale primo aspetto, si può dunque concludere, come messo in rilievo dalla Cassazione nelle sentenze poc’anzi richiamate, che l’occultamento dei rapporti di lavoro può realizzarsi, in primo luogo, in conseguenza della mancata o tardiva presentazione della denuncia mensile obbligatoria12, in quanto avente l’effetto di occultare il rapporto e la corrispondente retribuzione erogata. Con riferimento a tale prima ipotesi, la Suprema Corte opportunamente precisa che al mancato invio del modello D.M.10 non può essere sopperire l’annotazione sulle scritture che obbligatoriamente il datore di lavoro deve tenere, poiché queste rimangono nella disponibilità del datore di lavoro ed il loro controllo presupporre un accertamento ispettivo che è meramente eventuale. Da ultimo la Suprema Corte ha infatti giustamente osservato che “un’interpretazione meno rigorosa del concetto di omissione, esteso a tutte le ipotesi che in qualunque modo abbiano reso possibile all’ente previdenziale l’accertamento degli inadempimenti contributivi, anche a distanza di tempo, o in ritardo rispetto alle cadenze informative periodiche prescritte dalla legge, aggraverebbe la posizione dell’Istituto, imponendogli un’incessante attività ispettiva, laddove il sistema postula, anche nel suo aspetto contributivo, per la sua funzionalità, una collaborazione spontanea tra i soggetti interessati”13. Alla mancata comunicazione, la giurisprudenza equipara altresì, come rilevato anche dal Tribunale di Trento, la denuncia infedele. Se si scorre la recente giurisprudenza di legittimità sul tema, più sopra riportata, l’unico caso, nel quale la Cassazione si è pronunciata con riferimento ad una ipotesi di comunicazione infedele, ha riguardato una vicenda nella quale la sanzione è stata applicata ad un datore di lavoro in relazione ad un rapporto denunciato come di lavoro a progetto, ma successivamente riqualificato come di lavoro subordinato14. La fattispecie esaminata dal Tribunale di Trento si rivela, dunque, anche sotto questo profilo, inedita, in quanto chiede di accertare se possa parlarsi di infedele denuncia (e
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Consultabile in banca dati De Agostini Professionale. I principali precedenti conformi, richiamati anche nella sentenza in commento sono: Cass., 20 febbraio 2013, n. 4188; Cass., 25 giugno 2012, n. 10509, in OGL, 2012, 437; Cass., 27 dicembre 2011, n. 28966, in LG, 2012, 1181, con nota di Bonetti. 12 Da eseguirsi, com’è noto, tramite il c.d. modello D.M.10. 13 Così Cass., 13 marzo 2017, n. 6405, cit., la quale richiama sul punto le osservazioni già svolte da Cass., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4808, in FI, 2005, I, 998 e da Cass., 27 dicembre 2011, n. 28966, cit. Quest’ultima, in particolare, aveva con tal argomento superato il precedente orientamento espresso in Cass., 20 gennaio 2011, n. 1230, in DLRI, 2011, 504, con nota di Canavesi. 14 È il caso di Cass., 13 marzo 2017, n. 6405, cit.
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quindi di evasione contributiva) anche nell’ipotesi in cui, nell’ambito di una somministrazione successivamente dichiarata irregolare, il rapporto di lavoro del lavoratore somministrato sia stato dichiarato da parte dell’agenzia per il lavoro, la quale abbia provveduto nei termini ad inviare la comunicazione D.M.10 e a versare i contributi. Il Tribunale di Trento conclude per la configurabilità anche in questo caso di una evasione contributiva, poiché la registrazione dei rapporti dei lavoratori somministrati sarebbe dovuta avvenire nel libro unico dell’utilizzatore, il quale avrebbe dovuto inviare i modelli D.M.10, oltre che versare i contributi. In questo modo, secondo il Tribunale, “in realtà la società opponente ha effettuato gli adempimenti formali previsti nell’ipotesi di somministrazione regolare, e non quelli propri dei rapporti di lavoro subordinato effettivamente intercorsi (secondo le statuizioni della presente sentenza), che quindi risultano occultati”. Tale conclusione appare difficilmente compatibile, da un lato, con le previsioni dettate dall’art. 27, comma 2, d.lgs. n. 276/200315, e, dall’altro, con le finalità alle quali sono preordinate le comunicazioni obbligatorie e, in ultima analisi, lo stesso versamento dei contributi. Sotto il primo profilo, la disposizione citata prescrive che nelle ipotesi di somministrazione irregolare, “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione”. Chiara dunque è l’indicazione normativa nel senso di imputare all’utilizzatore gli atti compiuti dal somministratore, anche se nell’ambito di una somministrazione irregolare. La disposizione crea così una finzione normativa che appare poco compatibile con la fattispecie dell’evasione contributiva. Si dovrebbe altrimenti imputare all’utilizzatore l’occultamento di rapporti che, tuttavia, in forza della finzione prevista dall’art. 27 d.lgs. n. 276/2003, si deve ritenere che lo stesso abbia dichiarato, avendo versato anche i relativi contributi per il tramite del somministratore. D’altronde la previsione dettata dall’art. 27, e veniamo così al secondo profilo poc’anzi anticipato, appare coerente con le finalità perseguite dalla disciplina sugli obblighi di comunicazione e sul versamento degli obblighi contributivi. È evidente infatti che la finalità di tali regole – e, quindi, anche delle sanzioni civili dettate per le ipotesi di omissione ed evasione contributiva – è quella di far “emergere” i rapporti, nel loro corretto inquadramento giuridico, garantendo al contempo che la contribuzione per essi versata sia quella corrispondete alla predetta natura del rapporto. Se dunque può ben parlarsi di evasione contributiva nel caso in cui il rapporto dichiarato come parasubordinato si sia poi rivelato di lavoro subordinato, a conclusioni diverse si deve pervenire nel caso in cui, come in quello della somministrazione irregolare, il rap-
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Previsioni ora riversate nell’art. 38, comma 3, d.lgs. n. 81/2015.
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porto di lavoro dichiarato è sempre stato qualificato di natura subordinata e i contributi versati per il lavoratore fossero corrispondenti a tale natura. Nell’ipotesi di somministrazione irregolare non si può dunque ritenere la configurabilità, a priori, di un’ipotesi di evasione contributiva. Nel caso di specie, come si è più sopra anticipato, la configurabilità dell’evasione contributiva poteva però effettivamente ravvisarsi sotto due profili. Da un lato, nel fatto che la retribuzione riconosciuta ai lavoratori somministrati era stata inferiore a quella percepita dai dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, come prescritto dall’art. 23 d.lgs. n. 276/200316. Il mancato rispetto del principio di parità di trattamento realizza, infatti, l’occultamento almeno di una parte della retribuzione dovuta ai lavoratori irregolarmente somministrati, integrando così gli estremi della fattispecie dell’evasione contributiva. Dall’altro, è presumibile che nel caso di specie, in ragione della nazionalità rumena dell’agenzia di somministrazione, i contributi non siano stati versati all’INPS, ma eventualmente all’omologo istituto straniero. Sotto tale profilo si configura un occultamento dei rapporti di lavoro per i quali l’ente previdenziale non ha percepito alcuna somma, mentre avrebbe dovuto percepirla dovendo i lavoratori illegittimamente somministrati essere considerati sin dall’inizio alle dipendenze dell’utilizzatore. Entrambi i vizi appena indicati consentono di ritenere sussistente in questa ipotesi anche l’ulteriore requisito dell’intenzionalità dell’occultamento, in ragione del fatto che tramite l’operazione esaminata l’utilizzatore ha così realizzato, in maniera illegittima, un risparmio del costo del lavoro. Ilario Alvino
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Ora riversato nell’art. 35 d.lgs. n. 81/2015.
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Manuale sintetico dell’arbitrato Mariacarla Giorgetti, Giampaolo Impagnatiello (a cura di)
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