Labor 3/2019

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2019 LABOR 3

L

ABOR Il lavoro nel diritto

issn 2531-4688

3

maggio-giugno 2019

Rivista bimestrale

D iretta da Oronzo Mazzotta

www.rivistalabor.it

IN EVIDENZA Il lavoro tra diritto ed economia Maria Vittoria Ballestrero

Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale Antonio Loffredo

La legittimazione comunitaria della personalizzazione del danno nella sentenza n. 194/2018 Roberto Maurelli

Giurisprudenza commentata Caterina Mazzanti, Alessandro Ventura, Adalberto Perulli, Giorgio Bolego

Pacini



Indici

Saggi Maria Vittoria Ballestrero, Il lavoro tra diritto ed economia...........................................................p. 235 Antonio Loffredo, Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale?........................................» 253 Roberto Maurelli, La legittimazione comunitaria della personalizzazione del danno nella sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018...............................................................................» 271

Giurisprudenza commentata Caterina Mazzanti, Il diritto alle ferie retribuite nel dialogo tra la Corte di Giustizia dell’Unione europea e la giurisprudenza nazionale.............................................................................................» 285 Alessandro Ventura, La forza espansiva dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata del libero professionista nel processo di generalizzazione della copertura previdenziale del lavoratore autonomo..........................................................................................................................................» 299 Adalberto Perulli, I lavoratori delle piattaforme e le collaborazioni etero-organizzate dal committente: una nuova frontiera regolativa per la Gig Economy? ..................................................» 313 Giorgio Bolego, La liquidazione dell’indennità per licenziamento ingiustificato dopo C. cost. n. 194/2018: prime indicazioni della giurisprudenza di merito............................................................» 333


Indice analitico delle sentenze Lavoro autonomo – Professioni intellettuali – Assenza di iscrizione alla Cassa di previdenza e assistenza commercialisti – Obbligo di iscrizione e contribuzione nella gestione separata Inps – Sussistenza (Cass., 14 dicembre 2018, n. 32508, con nota di Ventura) Lavoro (rapporto di) – Ciclofattorini – Qualificazione – Subordinazione – Esclusione – Collaborazione organizzata dal committente – Sussistenza (App. Torino, 4 febbraio 2019, n. 26, con nota di Perulli) – Retribuzione delle ferie – Contratto collettivo – Previsione della riduzione della retribuzione per disoccupazione parziale - Illegittimità (C. giust., 13 dicembre 2018, causa C-385/17, con nota di Mazzanti) Licenziamenti – Licenziamenti collettivi – Licenziamento ingiustificato – Apparato sanzionatorio – D. lgs. n. 23/2015, art. 3, co. 1, dopo intervento C. cost. n. 194/2018 – Determinazione dell’indennità risarcitoria - Applicazione dei criteri di calcolo stabiliti dall’art. 18, co. 5 St. lav. (Trib. Bari, 11 ottobre 2018, con nota di Bolego) – Licenziamento ingiustificato – Apparto sanzionatorio – Datore di lavoro che non supera i 15 dipendenti - D. lgs. n. 23/2015, art. 9, co. 1 – Applicabilità dei principi stabiliti da C. Cost. n. 194/2018 – Conseguenze – Determinazione dell’indennità risarcitoria - Applicabilità dell’art. 8, l. n. 604/1966 (Trib. Genova, 21 novembre 2018, con nota di Bolego) – Reintegrazione nel posto di lavoro - Diritto a percepire l’indennità sostitutiva delle ferie per il periodo intermedio – Rimessione alla CGUE (Cass., 10 gennaio 2019, n. 451, con nota di Mazzanti) Indice cronologico delle sentenze Giorno

Autorità

Pagina

2018 Ottobre 13

Trib. Bari

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Novembre 21

Trib. Genova

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Dicembre 13

C. giust., C-385/17

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Cass., n. 32508

299

2019 Gennaio 10

Cass., n. 451

285

Febbraio 4

App. Torino, n. 26

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Notizie sugli autori

Maria Vittoria Ballestrero – professoressa emerita nell’Università degli Studi di Genova Giorgio Bolego – professore ordinario nell’Università degli Studi di Trento Antonio Loffredo – professore associato nell’Università degli Studi di Siena Roberto Maurelli – dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Caterina Mazzanti – dottoranda di ricerca nell’Università degli Studi di Udine Adalberto Perulli – professore ordinario nell’Università Ca’ Foscari di Venezia Alessandro Ventura – dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”


Saggi



Maria Vittoria Ballestrero

Il lavoro tra diritto ed economia Sommario : 1. I limiti del discorso. – 2. Diritto del lavoro ed economia. Di che cosa stiamo parlando. – 3. Le trasformazioni del lavoro. – 4. Il diritto del lavoro di fronte alle trasformazioni del lavoro. – 4.1. Diritto del lavoro: in che senso? – 4.2. La funzione del diritto del lavoro tra essere e dover essere. – 4.3. Essere e dover essere. Il caso dei licenziamenti ingiustificati. – 5. Vecchie e nuove questioni: l’allargamento dell’oggetto del diritto del lavoro tra fattispecie e rimedi. – 6. Il presente. Due parole sul “decreto dignità”. – 7. Concludendo (davvero).

Sinossi. In questa “lectio” l’autore affronta il tema del rapporto tra diritto del lavoro ed economia, rispondendo alla domanda se e in quale misura, a fronte delle trasformazioni del lavoro e dell’irruzione della economia digitale, la legislazione del lavoro dell’ultimo decennio, sotto la pressione esercitata dalle dottrine economiche neo-liberiste, abbia allontanato l’essere del diritto del lavoro dal suo dover essere, che la Costituzione indica nella funzione di contemperare equamente la libertà economica delle imprese con la protezione del lavoro e la salvaguardia della libertà, dignità e sicurezza dei lavoratori. Abstract. In this “lectio” the author deals with the issue of The Relationship between Labour Law and Economics, answering the question whether and to what extent, facing the transformations of work and the disruption of the digital economy, the legislation of the last decade, under the pressure exerted by neo-liberal economic doctrines, has removed the “is” of labour law from its constitutional “ought”, that is, the equitable balancing the economic freedom of enterprises with the protection of labour and the safeguarding of workers’ freedom, dignity and safety. Parole lavoro

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chiave:

Diritto del lavoro – Economia – Costituzione – Funzione protettiva del diritto del

“Lectio” tenuta a Pisa il 27.3.2019, nell’ambito dei Seminari giuslavoristici del Dottorato in Scienze giuridiche, Dipartimento di Giurisprudenza, Università di Pisa.


Maria Vittoria Ballestrero

1. I limiti del discorso. Il titolo di questa lezione è tanto ampio da farmi correre seriamente il rischio di sciorinare “brevi cenni sull’universo”, e tanto promettente da farmi correre, non meno seriamente, il rischio di deludere le aspettative. Per schivare questi rischi, enuncerò in premessa le mie intenzioni: che sono quelle enucleare nel titolo lo spazio per una breve riflessione sul percorso del diritto che regola il lavoro, chiamato, specie nell’ultimo decennio, al difficile compito di dare risposta alle istanze di tutela dei lavoratori poste dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione dell’economia, «che si alimentano a vicenda, causando notevoli effetti sinergici»1. Senza omettere di dire che non sono nelle mie corde né la filosofia del diritto del lavoro, né le grandi sintesi su passato, presente e futuro del diritto del lavoro. Preferisco limitarmi all’analisi dell’esistente, restringendo il campo dell’analisi ad un ragionevole arco di tempo: l’ultimo decennio, caratterizzato dalle “riforme” che hanno segnato il diritto del lavoro2, mutandone, in tutto o in parte, il “paradigma” (termine molto di moda, che uso nel significato, scarnificato e anche banalizzato, di “modello di regolazione”).

2. Diritto del lavoro ed economia. Di che cosa stiamo parlando.

Ho detto che mi limiterò all’analisi dell’esistente, ma per rispettare il titolo della lezione non posso evitare di affrontare, sia pure molto brevemente, la discussione sul rapporto tra economia e diritto del lavoro. Si tratta di una discussione non recente, ma recentemente rinvigorita dalle scelte compiute dal legislatore del c.d. Jobs Act, con qualche ulteriore strascico innescato dalla sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale, nella parte in cui ha condannato la scelta del legislatore a favore della rigida predeterminazione dei firing costs, cara ai cultori degli studi di Law&Economics, noti per lo più nella vulgata di cui si è fatto portabandiera Pietro Ichino. Della discussione sul rapporto tra diritto del lavoro ed economia ha dato largamente conto il Convegno svoltosi a Bologna nel novembre del 2016 per celebrare i 30 anni della Rivista Lavoro e diritto (alla cui direzione il collega Mazzotta ed io abbiamo collaborato fin dalla nascita); il Convegno portava come titolo “Autonomia e subordinazione DEL diritto del lavoro” dove autonomia e subordinazione si riferivano più all’economia che ad altri rami del diritto. A Bologna lo scambio di opinioni è stato assai vivace3 e non è certo il caso di riassumerlo in questa sede. Ricordo solo che, in polemica con Ichino (che rimprovera-

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Cruz Villalón, Le trasformazioni delle relazioni industriali di fronte alla digitalizzazione dell’economia, in DLRI, 2018, 465. Mi riferisco alla riforma del mercato del lavoro Monti-Fornero (l. n. 92/ 2012), alla grande riforma (per estensione almeno) contenuta nel cosiddetto Jobs Act (otto decreti legislativi, emanati in attuazione della legge-delega n. 183/2014), e alla più recente piccola riforma contenuta nel cosiddetto “decreto dignità” (d.l. n. 87/2018, convertito con modifiche in l. n. 96/2018). Cfr. il fascicolo n. 4/2016 di LD, e ivi oltre alla relazione di Mariucci, gli interventi di Caruso e Del Punta, L. Zoppoli, Bavaro.

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va ai “conservatori” di Lavoro e diritto di concettualizzare un “diritto naturale del lavoro”, nostalgico dei gloriosi anni settanta e variabile indipendente dall’economia)4, mi era parso necessario precisare che ciò di cui vale la pena discutere non è l’autonomia del diritto del lavoro rispetto all’economia: una discussione che, a mio parere, non avrebbe alcun senso. Anche a non voler parlare di struttura e sovrastruttura, basta dire che il diritto del lavoro regola i rapporti economici tra imprese e lavoratori5 per dire che dall’economia non può essere “disconnesso” (come si direbbe, se l’economia fosse una piattaforma digitale). Ciò che invece merita di essere discusso è il rapporto del diritto del lavoro con le dottrine economiche, evitando di incorrere nel banale errore di confondere l’economia, cioè i fatti economici, con una dottrina economica, che è al contempo una dottrina normativa e una falsa rappresentazione. Più precisamente, merita discutere se e quanto la cultura giuslavoristica sia subalterna rispetto alla dottrina economica neo-liberista, di cui non può essere negata la pesante influenza esercitata (negli anni duemila e accentuatamente nell’ultimo decennio) su tutti gli attori presenti sulla scena del diritto del lavoro (legislatore, parti sociali, giudici e giuristi). Sono convinta che l’idea di un “diritto naturale del lavoro” (inteso come l’immutabile funzione svolta da questo ramo del diritto nella sua età dell’oro) sia del tutto estranea alla cultura della maggior parte di noi, come estranea è (o dovrebbe essere) l’idea di una “economia naturale”. Basta leggere le magistrali pagine nelle quali Natalino Irti critica la dottrina neo-liberista, secondo la quale il diritto deve adattarsi all’economia che è governata da leggi naturali oggettive e universali, che non possono essere modificate. L’economia – scrive Irti – non ha niente di naturale e postula invece delle istituzioni giuridiche (la proprietà privata, il contratto, la tutela in giudizio dei diritti); il mercato non ha niente di naturale, è il risultato di un insieme di norme, né vere né false, solo valide o non valide: non è dunque il mercato che esprime dall’interno il suo proprio diritto, ma è il diritto che lo costituisce e lo conforma dall’esterno, conformando il regime della circolazione dei beni6. Nessun “diritto naturale” del lavoro (e nessuna “economia naturale”); piuttosto, a fronte del mutamento dell’insieme delle regole che disciplinano il mercato del lavoro7, l’esigenza di continuare interrogarsi sulla funzione del diritto del lavoro (se vogliamo: sul suo paradigma)8. Per concludere: a me pare, in sostanza, che la dotta discussione sulla autonomia del diritto del lavoro rispetto all’economia sia in buona misura inutile, per la ragione che il diritto del lavoro non è una variabile indipendente dall’economia (dai fatti economici); al

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Riporto qui alcune righe della lettera che avevo inviato nella primavera del 2017 a Pietro Ichino, che l’aveva pubblicata (con il mio consenso) sul suo sito, aprendo una discussione sul rapporto tra diritto del lavoro ed economia in cui sono intervenuti altri autorevoli colleghi. Bavaro, Appunti su scienza e politica sul diritto del lavoro, in LD, 2016, 707. Irti, Le nihilisme, Dalloz, 2017. Uso qui l’espressione mercato del lavoro nel suo significato di luogo dello scambio del lavoro, che non è una merce, ma sta sul mercato come se lo fosse. Cfr. Canavesi, Appunti sulla nozione giuridica di mercato del lavoro, in G. Santoro Passarelli, Giurista contemporaneo, Liber amicorum, Tomo I, Giappichelli, 2018, 267. Sul perché i giuslavoristi non cessino di interrogarsi sulla identità della disciplina cfr. Grossi, La grande avventura giuslavoristica, in RIDL, 2009, I, 5.

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contrario, e per forza di cose, dovendo «confrontarsi immediatamente con le trasformazioni politiche, sociali ed economiche»9, può incidere sull’economia o invece subire l’arroganza dei fatti economici (per dirla con Paolo Grossi). La scelta è politica, come tale non tecnica e men che meno neutra. A proposito dell’interrogarsi sulla funzione del diritto del lavoro, mi pare di dover aggiungere (in controtendenza rispetto ai nostalgici dell’età dell’oro tra i quali vengo talora inserita), che – come sostenevo anche nelle più remote discussioni sul tema ricorrente della crisi del diritto del lavoro10 – un diritto del lavoro mutato anche profondamente rispetto al passato continua ad essere il diritto del lavoro, vale a dire quel diritto positivo su cui il giurista del lavoro è chiamato a lavorare con gli strumenti del suo mestiere di interprete. E qui vale senz’altro “l’autonomia del giuridico”: per quanto la cassetta degli attrezzi del giuslavorista sia aperta all’apporto di altre discipline, i suoi attrezzi non sono quelli che l’economista o il sociologo trovano nella propria cassetta. Se quello che positivamente esiste è il diritto del lavoro, ciò non toglie che il giurista, che respira l’aria del suo tempo, non è politicamente neutrale ed è consapevole di non esserlo, possa domandarsi se, ed eventualmente su quali basi, sia possibile costruire un “dover essere” del diritto del lavoro con il quale confrontare l’essere. La risposta coinvolge questioni politiche e di politica del diritto che da sempre mi appassionano, ma per una volta le metterò da parte; proverò invece a riflettere sulla funzione del diritto del lavoro, a partire dal significato assunto nel contesto attuale da due dei vocaboli che compaiono nel titolo di questa lezione: il lavoro e il diritto. L’economia la lascio agli specialisti: io farò solo riferimento ai fatti che ci raccontano economisti e sociologhi del lavoro nelle analisi dedicate alle trasformazioni del mercato del lavoro; dunque non alla “scienza” economica, ma ai dati rilevanti per chi ha in mano le leve del diritto: non solo il legislatore, la p.a., le parti sociali, ma anche e forse soprattutto il ceto dei giuristi (giudici e dottrina).

3. Le trasformazioni del lavoro. Parto dal lavoro, perché le trasformazioni del lavoro incidono sul mercato e il mercato si riflette (nei termini che ho cercato di chiarire sopra) sul diritto che lo regola. Che il mercato del lavoro, nel decennio segnato dalla durissima crisi economica (dalla quale non siamo usciti e nella quale anzi stiamo ripiombando: così ci dicono tutti gli indicatori economici) sia caratterizzato dalla crescita esponenziale del lavoro precario (tempo determinato, somministrazione, lavoro intermittente, lavoro occasionale e così via) è un fatto arcinoto, così come note sono le ragioni economiche, finanziarie e di riorganizzazione dei modi di produzione che stanno alla base di questa epocale trasformazione del

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Cazzetta, Quale passato per il diritto del lavoro? Giuslavoristi e costruzione della memoria repubblicana, in RIDL, 2009, I, 33 Ballestrero, Osservazioni critiche sulla persistente vitalità del diritto del lavoro, sulle proposte di riforma della subordinazione e sulla tutela da accordare al lavoro autonomo, in I “destini” del lavoro. Autonomia e subordinazione nella società postfordista, a cura di F. Amato, F. Angeli, 1998, 112 ss.

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mercato del lavoro. I testi normativi continuano a ripetere stancamente che i rapporti di lavoro stabili sono la regola e quelli precari l’eccezione: ma è un enunciato che sta perdendo vieppiù di senso, malgrado le buone intenzioni del cosiddetto “decreto dignità”, su cui tornerò oltre (infra § 6). Sono noti anche gli andamenti dell’occupazione, tornata pressoché stagnante, dopo qualche anno di modesta crescita. Nel 2018, il grave squilibrio tra contratti di lavoro a tempo indeterminato (relativamente stabili) e contratti a termine mostra segni di riequilibrio, che non può essere valutato tuttavia come una reale inversione di tendenza, perché sembra essere piuttosto l’effetto degli incentivi alla trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. Peraltro, e malgrado gli incentivi, Ministero del lavoro e INPS segnalano che le imprese stanno riducendo le assunzioni a termine (un effetto del c.d. decreto dignità?), orientandosi verso altre forme di lavoro flessibile e precario: dal lavoro intermittente, al lavoro occasionale, allo staff leasing, e fino a quella “esternalizzazione” che, agevolata dalla c.d. flat tax per il lavoro autonomo, potrebbe segnare una ripresa delle collaborazioni e delle partite IVA dopo il netto calo dovuto all’intervento anti-abusivo della legge Monti-Fornero (l. n. 92/2012) 11, poi in gran parte cancellato dal c.d. Jobs Act. I dati sull’andamento del mercato del lavoro non sono confortanti: la crisi economica spinge le imprese a caricare sulle spalle del lavoro la competitività sul mercato globale; malgrado il c.d. decreto dignità, la flessibilità “in entrata” (con l’allargamento della precarietà che comporta) continua ad essere la regola, la stabilità l’eccezione, che riesce ad allargarsi solo se drogata da esoneri contributivi, agevolazioni fiscali, incentivi economici di vario tipo (compreso il neonato trasferimento alle imprese del reddito di cittadinanza dei lavoratori poveri). Senza sgravi e incentivi, i primi contratti sono sempre a termine e dopo due anni risulta stabilizzato solo il 50% degli assunti a termine. Peraltro la percentuale di occupati è la stessa del 2008 (il 58% delle persone tra 15 e 64 anni, contro il 68% della media europea), ma si sono perse 1,8 milioni di ore lavorate: segno evidente della sottoccupazione di una quota non indifferente del mercato del lavoro12. La precarizzazione del lavoro è solo una parte del quadro, nel quale bisogna mettere in luce una parte non minore, che interessa le trasformazioni che il lavoro (o meglio il “modo di lavorare”) sta subendo, perché chiama immediatamente in causa il diritto del lavoro; con quale funzione, lo preciserò meglio dopo. Guardiamo anzitutto alle trasformazioni indotte nel lavoro dall’irruzione della tecnologia digitale e dell’automazione13. Senza alcuna pretesa di fornire descrizioni esaustive, e avvalendomi di qualche sommario riferimento a studi condotti in altre discipline14, ma anche da alcuni studiosi della nostra disciplina15, posso limitarmi a segnalare che la percentuale dei lavori a “rischio automazione” (più o meno elevata: dipende da come il rischio

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Anastasia, Il rebus del mercato del lavoro, www.lavoce.info.it, 1.2.2019. Dati tratti dal Rapporto sul mercato del lavoro del 2018 (Rapporto integrato Istat, Inps, Inail, Anpal, Ministero del lavoro). 13 Uso il termine “irruzione” d’accordo con Cruz Villalón, op. cit., 470: è più corrente l’espressione disruptive technology, ma “dirompente” dà l’idea di una cesura netta con il passato, mentre si tratta piuttosto di una trasformazione estremamente veloce. 14 Immordino, Nell’era delle nuove macchine il lavoro cerca un futuro, www. lavoceinfo.it, 12.2018. 15 Cfr. De Simone, Lavoro digitale e subordinazione, in RGL, 2019, I, 3 . 12

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viene calcolato) è comunque una percentuale rilevante; l’automazione cambia la natura del lavoro, eliminando alcune mansioni, e rendendo di conseguenza obsoleti i lavoratori meno qualificati, adibiti a mansioni che possono essere più facilmente automatizzate, e che non sono in grado di acquisire nuove competenze. L’automazione rende invece essenziali alcune competenze (skills) e più produttivi i lavoratori che le possiedono; lavoratori che sono in grado di “adattarsi” ad un nuovo modo di lavorare, nel quale l’utilizzazione della tecnologia informatica può far perdere di rilievo (in tutto o in parte) al tempo e al luogo di lavoro. Dell’irruzione delle nuove tecnologie è figlia la disciplina del lavoro agile (traduzione opinabile di smart work) (l. n. 81/2017), sulla quale non posso qui soffermarmi. Ma almeno un’osservazione vorrei farla: spacciare l’agilità del lavoro come la via per la conciliazione tra attività professionale e care familiare mi pare cosa che meriterebbe di essere discussa criticamente; e invece la legge di bilancio 2019 (l. 30 dicembre 2018, n. 145) prevede addirittura la priorità di accesso al lavoro agile per le lavoratrici nei tre anni successivi al congedo di maternità e per i lavoratori con figli disabili (art. 1, comma 486). Che peraltro l’agilità del lavoro ponga notevoli problemi, non solo di salvaguardia della dignità e della riservatezza del lavoratore (nel difficile bilanciamento tra tutela della privacy del lavoratore e potere di controllo da remoto del datore di lavoro)16, ma anche di controllo delle condizioni e del tempo di lavoro, è questione che ha suscitato notevole interesse fra i giuslavoristi17. Diritto alla “disconnessione” sembra essere la formula per garantire ai lavoratori (meno smart di quel che sembra) il diritto al proprio tempo (privato) di non lavoro. Disconnessione: una parola che torna, impellente, nel lavoro coinvolto nella gig economy (di cui dirò tra un attimo). Automazione e digitalizzazione irrompono e distruggono lavoro prima di ricrearne. Il problema dell’occupazione dei “lavoratori obsoleti” (secondo il FMI le donne rischiano di essere la maggioranza dei lavoratori sostituiti da un algoritmo) è un grave problema al quale il mercato non dà risposta, o se risponde lo fa con la riduzione del costo (non solo monetario) del lavoro. Il problema è sociale; le risposte devono essere politiche, e coinvolgono scelte lungimiranti sul sistema educativo (e della formazione). Ma, ammesso che queste risposte effettivamente arrivino, i tempi sono lunghi, mentre il problema richiede soluzioni urgenti. Non credo che il cosiddetto reddito di cittadinanza architettato dal governo giallo-verde come “misura fondamentale di politica attiva del lavoro” sia la risposta. Ma non ho la possibilità di spiegare qui perché. Dalle trasformazioni che riguardano l’organizzazione del lavoro e il modo di lavorare nelle imprese, sempre più globalizzate e digitalizzate, occorre tenere distinte le trasformazioni portate dall’inserimento del lavoro nella platform economy, più genericamente detta sharing economy. Espressione questa seconda che preferisco non usare, a causa della sua

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Sostiene la necessità di affievolire la tutela della privacy per bilanciarla con le esigenze di controllo del datore di lavoro Del Punta, Il Sole 24ore, 27.2.2019. 17 Bellavista, Sorveglianza dei lavoratori, protezione dei dati personali ed azione collettiva nell’economia digitale, in G. Santoro Passarelli, cit., Tomo II, 717; De Simone, cit.; v. anche Ingrao, Il controllo a distanza sui lavoratori e la nuova disciplina privacy: una lettura integrata, Cacucci, 2018.

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ingannevole traduzione in “economia collaborativa” o “della condivisione”: ingannevole perché non viene affatto meno «il conflitto di interessi tra le parti insito in qualsiasi tipo di relazioni contrattuali»18. Sharing indica una economia dello scambio p2p (o del baratto) di beni e servizi via internet, mediato da piattaforme digitali. Ne sono esempi ben noti Blablacar, Airbnb, eBay (ma non Amazon nei suoi snodi logistici)19. A giudicare da quello che si scrive e si pubblica sulle riviste e nei volumi collettanei degli ultimi anni, sembra che il lavoro coinvolto nella platform economy (gig economy, economia dei lavoretti, è un’espressione appropriata) sia ormai, oltre che dilagante (come in effetti è), anche preponderante. Come invece non è, almeno dalle nostre parti: secondo calcoli recenti20, le persone impiegate nella gig economy (dalla consegna dei pasti a domicilio, al trasporto di merci e persone, alle pulizie, al dog-sitting, ma anche alle consulenze informatiche, e così via) in Italia sono 700.000, e per 150.000 è l’occupazione principale; il 12% di questi gig workers sono quei riders di cui si sono occupati di recente i giudici del lavoro (e di cui parlerò oltre). Nella gig economy non esiste il posto di lavoro, “spacchettato” in mini-tasks (che durano poco e sono poco remunerati)21 coordinati attraverso piattaforme digitali, che consentono di tenere sotto controllo le prestazioni e, altresì, di sottoporle al giudizio dei consumatori (i pro-sumers che scrivono su Trip-advisor). Il modello più noto è Uber (che opera con due app, per gestire una l’offerta degli autisti disponibili, l’altra la domanda dei possibili utenti), anche se, in Italia e non solo, l’interesse maggiore si è appuntato sul problema della concorrenza (sleale?) con i taxisti, anziché sul regime giuridico delle prestazioni degli autisti ingaggiati via app da Uber22. Coinvolge molte più persone il complesso e meno intelligibile fenomeno del crowdworking (parola chiave: la disintermediazione). Sulla piattaforma digitale (crowd employment platform) il committente (crowdsourcer) carica una commessa la cui evasione è indirizzata ad una “folla” (crowd) di persone; chi si aggiudica la commessa può trovarsi ovunque e può svolgerla come vuole (fermo restando il termine finale). La piattaforma digitale può essere un mero intermediario tra domanda e offerta: ma, trattandosi di prestazioni lavorative (sia pure di lavoro autonomo) e non di merci, è opportuno domandarsi se il diritto del lavoro non abbia nulla da dire in proposito23. Le cose cambiano, e il diritto del lavoro è senz’altro chiamato in causa, quando la piattaforma è il luogo nel quale si affida una prestazione di lavoro, e agisce come struttura verticale, centro di imputazione (anche se

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Cruz Villalón, op. cit., 472. I giornali si sono occupati di recente della protesta dei drivers che lavorano negli appalti di Amazon. Sulla gig economy v. l’inchiesta giornalistica ricca di informazioni interessanti di Staglianò, Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri, Einaudi, 2018. 20 Di Paola, Fare i conti con la gig economy, www.lavoceinfo.it, 31.8.2018. Sui lavoretti della gig economy cfr. Bano, Il lavoro povero nell’economia digitale, in LD, 2019, 129. 21 Cfr. i dati raccolti in Eurofound, Employment and working conditions of selected types of platform work, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2018. 22 Non così altrove. Gli autisti sono stati definiti workers, non employees: per questa distinzione cfr. la decisione sul caso Aslam v. Uber dell’Employment Tribunal di Londra, su cui Voza, Il lavoro e le piattaforme digitali: the same old story?, WP D’Antona, It., 336/2017; ampiamente Deakin, Markou, The Law-Technology Cycle and the Future of work, in DLRI, 2018, p.445. Workers sono lavoratori non subordinati ma economicamente dipendenti (dunque non in employment status, ma in business status per conto non proprio ma di altri). Sulle condizioni di lavoro degli autisti di Uber negli USA v. ancora le testimonianze raccolte da Staglianò, op. cit. 23 Cfr. le osservazioni di Voza, op. cit.

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lo nega: come Uber) di contratti di lavoro (come qualificabili, è questione tutt’altro che semplice da risolvere, come dirò oltre). Il fenomeno del platform work è ancora contenuto nei numeri, ma ad attrarre i giuslavoristi affamati di novità ci sono i problemi apparentemente nuovi che li interrogano. Anche se, come ha scritto qualcuno, it’s the same old story24. Cercherò anche io di dire perché, per certi versi, è la solita vecchia storia (infra, § 5).

4. Il diritto del lavoro di fronte alle trasformazioni del lavoro.

Il lavoro si è trasformato. E il diritto?

4.1. Diritto del lavoro: in che senso? Prima di rispondere a questa domanda mi pare necessario precisare che parlo qui del “diritto” in senso oggettivo (o, per dirla in modo più sofisticato, del discorso prescrittivo delle autorità normative: il legislatore, ma non solo), nella consapevolezza, tuttavia, che è il lavoro dottrinale a «modellare il diritto»25, e che molto di quello che consideriamo diritto vigente è Juristenrecht 26. Parlando del diritto oggettivo del lavoro mi limiterò a guardare al solo legislatore, trascurando la contrattazione collettiva, che pure svolge una funzione normativa di fondamentale importanza. La visione è certamente riduttiva, ma la giustifica la circostanza che il diritto del lavoro sta conoscendo, non da ora, ma accentuatamente negli ultimi dieci anni, una stagione di ritorno al dominio del legislatore; un legislatore sempre meno interessato non dico al consenso delle parti sociali, ma neppure all’interlocuzione con organizzazioni che pure rappresentano milioni di lavoratori e molte migliaia di imprese. A parte il lavoro pubblico che, tra riforma Brunetta e riforma Madia, sembra aver abbandonato la strada della della c.d. privatizzazione, anche il lavoro privato è sempre più minutamente regolato dalla legge. Lo spazio riservato alla contrattazione collettiva, pure nella selva dei rinvii, è, oltre che residuale, interstiziale. La selva è ora in parte disboscata dalla previsione “riordinante” contenuta nell’art. 51 d.lgs. n. 81/2015, che mette un freno all’aziendalizzazione del sistema contrattuale, depotenziando la carica esplosiva dell’art. 8 l. n. 148/201127; ma la contrattazione attende, per riguadagnare spazio e soprattutto ruolo, un intervento legisla-

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Voza, op. cit.: citazione dalla canzone As Time goes by, leitmotiv del cult movie Casablanca. Guastini, La sintassi del diritto, Giappichelli, 2011, 446. 26 Guastini, Teorie dell’interpretazione. Lo stato dell’arte, in LD, 2014, 233, qui 235. 27 Cfr. L. Zoppoli, Il lavoro tra vecchio e nuovo diritto: il diritto sindacale, in Labor, n. 6/218, 631. L’art. 8 sta però conoscendo una nuova fortuna a seguito della restrizione ai contratti a termine perseguita dal decreto dignità, con l’introduzione delle causali dopo 12 mesi, il termine massimo di 24 mesi, l’aggravio contributivo. Il contratto collettivo di prossimità derogatorio è stato riscoperto come la strada aperta per by-passare i nuovi limiti legali. 25

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tivo di sostegno. Alludo a quella legge sulla rappresentanza sindacale e sull’efficacia erga omnes dei contratti collettivi invocata da più anni e da più parti, incluse le organizzazioni tradizionalmente ostili all’intervento legislativo. Non so davvero se quella attuale sia la stagione politica giusta per ottenere la risposta attesa. Ma temo di no. Per una volta trascurerò anche di prendere direttamente in esame la giurisprudenza, alla quale io stessa ho di recente attribuito un ruolo fondamentale nella “costruzione” del diritto del lavoro vivente28; si intende però che quando si parla delle disposizioni di legge, il riferimento alla giurisprudenza è implicito, poiché il diritto vive nella interpretazione che ne forniscono i giudici e più in generale i giuristi.

4.2. La funzione del diritto del lavoro tra essere e dover essere. Tanto precisato, vengo all’interrogativo su quali trasformazioni abbia subito il diritto del lavoro: per rispondere occorre domandarsi, in sintesi, se, negli anni 2000, e più accentuatamente nell’ultimo decennio, sotto la forte pressione esercitata dalle imprese alla ricerca dell’efficienza competitiva nell’economia globalizzata e sfidate insieme dalla crisi economica e dall’irruzione della quarta rivoluzione industriale (l’industria digitalizzata 4.0), il diritto del lavoro abbia imboccato una via neo-liberista, lasciando che quella pressione erodesse la funzione che la Costituzione assegna al diritto del lavoro: una funzione che riassume – a mio avviso – quel dover essere del diritto del lavoro, che per comodità chiamerò “paradigma costituzionale”. Risponde positivamente alla domanda quel settore della dottrina giuslavoristica (della quale faccio parte) secondo cui il diritto del lavoro da vent’anni a questa parte sta sacrificando sull’altare dell’efficienza competitiva delle imprese la funzione, a cui lo chiama appunto la Costituzione, di imporre al mercato regole dirette a correggere, in senso prolabour, lo squilibrio delle forze in gioco. Secondo questa dottrina, il diritto del lavoro appare oggi piegato dalla scelta politica di usare la disciplina giuridica del mercato del lavoro in funzione ancillare, come riformulazione in termini di diritto delle cosiddette “leggi” del mercato, e dunque come strumento di politiche economiche pro-business, perché è appunto il business che accredita le leggi del mercato29. Leggere nella Costituzione il dover essere del diritto del lavoro non è certo un’idea originale: sul “paradigma costituzionale” del diritto del lavoro la letteratura abbonda, e posso semplicemente rinviare ad essa30, limitandomi a dire che l’insieme dei principi e delle regole costituzionali assegnano al diritto del lavoro una funzione di protezione del lavoro, garantendo il diritto al lavoro e proteggendo l’eguaglianza, la libertà, la dignità e la sicurezza dei lavoratori come persone prima ancora che come parti di un contratto (artt.

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Cfr. Ballestrero, Il ruolo della giurisprudenza nella costruzione del diritto del lavoro, in LD, 2016, 761. È questa la lettura proposta da Mariucci, Culture e dottrine del giulavorismo, in LD, 2016, 585, su cui si sono appuntate le critiche di Caruso, Del Punta, Il diritto del lavoro e l’autonomia perduta, ivi, 645. 30 Per tutti, da ultimo, Perulli, Il valore del lavoro e la disciplina del licenziamento illegittimo, in Il libro di diritto dell’anno Treccani 2019, Treccani, 339. 29

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3, comma 2, 4, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, comma 2, Cost.)31. La Corte costituzionale (nella recente sentenza di cui dirò tra un attimo) ha richiamato «l’equilibrato componimento» tra la libertà d’impresa e la tutela dei lavoratori; non un bilanciamento, nel quale l’uno o l’altro dei valori in gioco prevalga sull’altro a seconda dell’occasione, ma un equilibrio costante, tarato sulla centralità che la Costituzione assegna al lavoro, e che non deve mai essere persa di vista. Se non è il caso di ripetere qui cose tante volte dette sulla centralità del lavoro nella nostra Costituzione, mi pare invece che varrebbe invece la pena di dedicare spazio all’analisi della distanza che separa attualmente tra l’essere del diritto del lavoro dal dover essere scritto nella Costituzione. L’analisi comporta la ricostruzione di un percorso non lineare e non privo di contraddizioni, ma il cui esito (visto dalla parte dei lavoratori, che del diritto del lavoro dovrebbero essere i maggiori azionisti) resta sbilanciato in favore delle imprese. La richiesta delle imprese di disporre di un uso flessibile della forza lavoro (nell’an, nel quantum e nel quomodo, avrebbe detto Beppe Pera) continua infatti ad essere accolta senza troppe remore dal legislatore, malgrado la recente riscoperta della dignità dei lavoratori, annacquata tuttavia da un inedito bilanciamento con la dignità (sic) delle imprese32. Varrebbe la pena. Ma qui non posso che limitarmi al solo esempio dei licenziamenti nel contratto a tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015): un esempio molto significativo dell’essere del diritto del lavoro, dato che la flessibilità in uscita garantita dalla pressoché totale soppressione della tutela restitutoria per i lavoratori licenziati senza giusta causa o giustificato motivo33 (vale a dire quella reintegrazione nel posto di lavoro, già fortemente ridimensionata dalla legge Monti-Fornero del 2012) costituisce la misura più conosciuta (e controversa) della politica del lavoro della stagione del c.d. Jobs Act renziano. Sul d.lgs. n. 23/2015 si è pronunciata la Corte costituzionale nella sentenza n. 194/2018; una sentenza che ha riacceso la luce sul paradigma costituzionale del diritto del lavoro. Non mi dilungherò qui nel commento alla sentenza34: cercherò solo di mettere in evidenza in quale misura il dover essere riprende campo, e quanta parte del confronto tra essere e dover essere resta invece in ombra.

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Sul “paradigma costituzionale” del diritto del lavoro cfr. Cruz Villalón, op. cit.; l’A. si riferisce alla Costituzione spagnola, ma la sua riflessione vale anche (e direi a maggior ragione) per il nostro modello costituzionale. 32 Mi riferisco al d.l. n. 87/2018, conv. con modifiche in l. n. 96/2018. È singolare (per non dire patetica) l’intitolazione del decreto (“disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”): non per la menzione della dignità dei lavoratori, ovviamente, ma per quella della “dignità delle imprese”, della quale sino ad ora mi pare che nessun legislatore si fosse preoccupato, e pour cause. Il bilanciamento, se a questo si voleva alludere, non è tra dignità degli uni e dignità delle altre, ma tra diritti fondamentali degli uni e interessi economici delle altre. 33 La tutela in forma specifica (reintegrazione piena) resta garantita solo per i licenziamenti nulli, mentre la reintegrazione con tutela economica ridotta è garantita solo in casi marginali di licenziamento disciplinare (quando sia insussistente il fatto materiale addebitato al lavoratore). 34 Rinvio a quanto ho scritto nel saggio La Corte costituzionale censura il d.lgs. n.23/2015: ma crescono davvero le tutele dopo l’intervento della Corte?, in LD, 2019, 243, e ivi riferimenti, cui adde L. Zoppoli, Il licenziamento “de-costituzionalizzato” con la sentenza n. 194/2018. La Consulta argina, ma non architetta, in DRI, 2019, 1.

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4.3. Essere e dover essere. Il caso dei licenziamenti ingiustificati. Come è largamente noto, la Corte costituzionale ha accolto tra le eccezioni di incostituzionalità sollevate dalla giudice rimettente (ordinanza 26 luglio 2017, seguita dall’ordinanza correttiva 2 agosto 2017)35 solo quella relativa al modo di calcolo dell’indennità forfetaria che, per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti (dopo il 7 marzo 2015), costituisce la tutela pressoché esclusiva garantita contro i licenziamenti ingiustificati. Cancellando nel testo dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 e nell’art. 3, comma, legge n. 96/2018, le parole che definiscono il rigido sistema di calcolo dell’indennità predeterminato in base all’anzianità di servizio del lavoratore licenziato, la Corte ha restituito al giudice il potere di decidere discrezionalmente l’ammontare dell’indennità, tenendo però nel debito conto, oltre all’anzianità (criterio che i giudici già privilegiavano), anche altri criteri (la Corte indica, come già insiti nel sistema, i criteri previsti dall’art. 8, l. n. 604/1966, e dall’art. 18, comma 5, St. lav.)36. Le reazioni di un settore della dottrina giuslavoristica (vicina al sentire degli imprenditori, che paventano la discrezionalità del giudice) sono state negative: con questa decisione – si è detto – la Corte ha portato un duro colpo alla certezza del diritto, rendendo incerto, e dunque non più prevedibile, il costo del licenziamento. Capisco il disappunto, ma vorrei sommessamente notare che la rigida predeterminazione del costo del licenziamento illegittimo non ha a che fare con la certezza del diritto. Sono convinta, come altri, che la certezza non sia un mito da sfatare (per citare Bobbio), ma un principio inespresso, strumentale alla realizzazione di altri principi più alti (come quello di legalità), da difendere dalle molte erosioni cui è sottoposto37. Non mi pare invece che meriti di essere difesa la predeterminazione del costo del licenziamento ingiustificato, che ha a che fare non con la certezza del diritto, ma con quel calcolo preventivo (talora opportunistico) del costo di un atto illegittimo, che preme molto alle imprese perché mette al riparo dalla valutazione discrezionale del giudice 38. Mi convincono le ragioni dette dalla Corte costituzionale nella

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In Labor n.2/2018 con un commento di D’Ascola, Appunti sulla questione di costituzionalità del licenziamento a tutele crescenti, 228. La Corte ha aggiunto che il giudice «terrà innanzitutto conto del criterio dell’anzianità» (prescritto dall’art. 1, comma 7, l. n. 183/2014 «che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n. 23/2015»): come in effetti abitualmente fa. Sulla priorità del criterio dell’anzianità le opinioni divergono: la ritiene necessaria Giubboni, Il licenziamento del lavoratore con contratto “a tutele crescenti” dopo l’intervento della Corte costituzionale, WP D’Antona, It., 379/2018; non così Speziale, La sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in RGL 2019, II, 3, e Perulli, op. cit. 37 La certezza del diritto è un principio inespresso, che può essere ricavato da altri principi espressi, strumentale alla realizzazione di altri principi più alti (come quello di legalità), che lo giustificano, e a sua volta matrice – e fondamento assiologico – di altri principi subordinati che lo concretizzano (devo questa definizione a Riccardo Guastini). Sono tornati di recente sul tema della certezza del diritto cfr. Luciani, Lanterna magika. I diritti “finanziariamente condizionati”, in G. Santoro Passarelli, op. cit., Tomo I, 138; Mazzotta, Nel laboratorio del giuslavorista, ivi, Tomo II, 1523; tra i fattori che mettono in discussione la certezza del diritto viene inclusa l’interpretazione creativa (creazione di norme inespresse) da parte degli organi dell’applicazione, giudici in primis, confondendo forse l’interpretazione creativa con l’arbitrarietà a causa, da un lato, del successo della teoria della giustizia case by case e, su un altro versante – su cui tornerò oltre – dell’abbandono della fattispecie a vantaggio della prospettiva rimediale (su cui sin d’ora Treu, Rimedi, tutele e fattispecie: riflessioni a partire dai lavori della Gig economy, in LD, 2017, 367). 38 L’efficienza è legata anche alla certezza dei costi, e non è irragionevole che lo sia. Sottolinea Mazzotta, op. cit., 1532, che la prevedibilità interessa anche ai lavoratori, ai quali conviene sapere se “vale la pena” di impugnare un licenziamento: non dubito che nei fatti sia così, ma occorre domandarsi se e in quale misura la prevedibilità dello scarso vantaggio economico dell’esito favorevole della causa si traduca in una negazione di giustizia. 36

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sentenza n. 194/2018 (su cui per brevità non mi soffermo), e anche la considerazione (ma questo la Corte non lo ha detto) che la funzione deterrente della sanzione può implicare anche l’alea di un “costo” dell’atto illegittimo più alto di quanto previsto da chi lo ha commesso, senza che questo coinvolga la certezza della “pena”: certezza che, nella specie, sussiste, e consiste nella presenza di una regola che stabilisce che quel determinato comportamento illegittimo è sanzionato, e individua l’ambito sanzionatorio entro il quale il giudice stabilirà la sanzione applicabile al caso di specie. La Corte ha restituito al giudice il potere di adeguare l’entità dell’indennità (contenuta, non dimentichiamolo, tra un minimo e un massimo)39 al pregiudizio subito dal lavoratore, ma non ha messo in dubbio la legittimità della scelta del legislatore di assicurare al lavoratore illegittimamente licenziato una tutela solo economica, che non ha neppure i requisiti necessari per essere definita come tutela per equivalente. La considerazione della persona del lavoratore e del danno derivante dal licenziamento illegittimo riaccende la luce sui parametri costituzionali, ma l’ombra continua a gravare su ampie zone di quei parametri. A mantenere in ombra il diritto al lavoro (art. 4, comma 1, Cost.) contribuisce la mancata risposta ad un interrogativo di fondo posto dalla disciplina dei licenziamenti nel contratto a tutele crescenti, e cioè se risponda a quella “progressiva garanzia” del diritto al lavoro di cui la Corte già parlava nel lontano 1965, la sostituzione della tutela in forma specifica (che nella sentenza n. 141/2006 le S.U. avevano ritenuto prioritaria) con un rimedio economico che ha “funzione risarcitoria”, ma non risarcisce il danno effettivamente subito dal lavoratore che ha perso il lavoro40. L’ordinanza di rimessione non aveva interrogato la Corte sulla questione, e alla Corte basta richiamare i propri precedenti per riaffermare che il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitoriomonetario; ma poi deve aggiungere: «purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza». Il richiamo alla “ragionevolezza” potrebbe servire a riaccendere la luce, questa volta sul principio di eguaglianza: l’ordinanza di rimessione aveva infatti interrogato la Corte sulla disparità di trattamento derivante dall’avere il legislatore riservato una protezione deteriore ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, e della compatibilità di tale disparità appunto con il principio di eguaglianza. Ma la luce non si accende. La Corte ha preferito cavarsela richiamando la propria consolidata giurisprudenza, secondo cui «il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche». Ma la Corte sa bene che, anche a voler dare per buono (e buono non è in questo caso) l’argomento del “fluire del tempo”, un problema di legittimità costituzionale si pone ancora, perché la stessa Corte ha più volte

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Sulla entità del minimo e del massimo dell’indennità la Corte si è limitata ad affermare che il massimo è senz’altro adeguato; è questo un punto in cui la sentenza si discosta dal parere espresso dal Comitato europeo dei diritti sociali (che vigila sull’applicazione della Carta sociale europea) sul caso finlandese, citato dalla Corte costituzionale: cfr. Ballestrero, La Corte costituzionale, cit. 40 È lecito domandarsi se possa parlarsi ancora di garanzia del diritto al lavoro (inteso nel suo significato minimo di protezione della stabilità nel posto di lavoro che il lavoratore già occupa) quando ad un rimedio restitutorio se ne sostituisce uno che non è in grado neppure di levarsi al rango di tutela per equivalente del bene perduto: così Tullini, Effettività dei diritti fondamentali del lavoratore: attuazione, applicazione, tutela, in DLRI, 2016, 291. Ritiene che l’indennità prevista dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 non possa qualificarsi come “tutela per equivalente” Perulli, op. cit., 340.

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affermato, e in questa occasione ribadito, che spetta «alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme». Sorprendentemente (perché totalmente ai di fuori dei test ordinariamente usati) la Corte giudica “ragionevole” la giustificazione addotta dal legislatore per privare della tutela restitutoria (fatta eccezione per pochi casi) i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015; giustificazione coincidente con lo “scopo”, dichiaratamente perseguito, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione». Salvo aggiungere: «Tanto chiarito circa la non irragionevolezza del contestato regime temporale, non spetta a questa Corte addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita dal legislatore può aver conseguito». La Corte sembra allora voler prendere sul serio la correlazione tra riduzione della tutela della stabilità e aumento dei livelli occupazionali, molto controversa sul piano empirico e scientifico; una correlazione che avrebbe richiesto quella verifica “a valle” che la Corte non ha ritenuto rientrasse nei suoi compiti, se non altro per valutare la proporzionalità (e dunque adeguatezza e necessità) della misura adottata rispetto ai risultati sperati. Risultati che notoriamente non ci sono. Come ho detto sopra, la zona che risulta illuminata dalla sentenza della Corte è (solo) quella nella quale i principi contenuti negli artt. 4 e 35 Cost. travolgono la predeterminazione rigida (in base alla sola anzianità di servizio) del costo di un licenziamento. Afferma la Corte: «All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza». Il principio di eguaglianza – dice in sostanza la Corte – deve orientare il bilanciamento tra la tutela della persona del lavoratore «nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro», e i «valori dell’impresa». Giusto, certamente. Peccato che, essendo riferito alla decisione del giudice sul singolo caso, il bilanciamento non è chiamato in causa appropriatamente. Il discorso verte infatti (non sulle scelte che il legislatore compie nella limitazione del potere di recesso del datore di lavoro, ma) sull’indennità da assegnare in concreto ad un lavoratore ingiustamente licenziato. A parte che mi pare del tutto ovvio che l’esercizio illegittimo del potere di licenziare non possa essere fatto rientrare tra i “valori” dell’impresa, vorrei ricordare che il giudice che abbia valutato ingiustificato il licenziamento ha già effettuato il bilanciamento in concreto tra diritto al lavoro e libertà d’impresa, facendo prevalere il primo sul secondo (il bilanciamento in astratto lo fa il legislatore, formulando le regole sulla giustificazione dei licenziamenti). Se il giudice ha già ritenuto ingiustificato il licenziamento, l’unico bilanciamento (se così vogliamo chiamarlo) che gli resta da fare è quello di “calibrare” (entro il plafonnement imposto da legislatore) l’indennità, misurandola non sui “valori dell’impresa”, ma sul danno inflitto dal licenziamento alla persona del lavoratore41.

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Ma cfr. le osservazioni critiche di Zoppoli, Il licenziamento “de-costituzionalizzato”, cit., sul bilanciamento tra prevedibilità dei costi per l’impresa e indennizzo del lavoratore ingiustamente licenziato.

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In conclusione: ascriverei alla Corte costituzionale, che ha fatto cadere un pezzo della disciplina dei licenziamenti, il merito di aver riacceso la luce sul dover essere del diritto del lavoro; ma lasciando nell’ombra parti importanti della tutela del diritto al lavoro che fa parte del paradigma costituzionale, la Corte ci ha mostrato che il gap tra l’essere e il dover essere del diritto resta ancora molto largo.

5. Vecchie e nuove questioni: l’allargamento dell’oggetto

del diritto del lavoro tra fattispecie e rimedi.

I licenziamenti e la loro disciplina sono certamente se non il cuore del diritto del lavoro almeno una parte importante del suo corpus: non è certo un’affermazione peregrina che la qualità della tutela contro i licenziamenti è strettamente connessa al livello di protezione dei diritti fondamentali dei lavoratori42. In sostanza lo aveva già detto la Corte costituzionale nel lontano 1963, riscrivendo il regime della prescrizione dei crediti dei lavoratori. Ma sul tavolo del diritto del lavoro che deve far fronte alle trasformazioni del lavoro ci sono altre questioni scottanti. Tra queste non è certo di minor conto, anche se coinvolge ancora un numero relativamente basso di lavoratori, la questione della qualificazione dei lavori attuati “on demand” coinvolti in un settore della gig economy. Questione che rimette in discussione, oltre al principio, più volte affermato dalla Corte costituzionale, dell’indisponibilità del tipo contrattuale, anche la perdurante dicotomia tra lavoro autonomo e lavoro subordinato: the same old story, certo, ma sotto le più aggiornate spoglie dell’alternativa tra fattispecie e rimedi, cui proprio i “lavoretti” della gig economy forniscono – come dirò tra un attimo – l’occasione per rinfocolare le polemiche che un tempo correvano tra sostenitori del metodo tipologico e sostenitori del giudizio sussuntivo. Di lavoretti si parla parecchio, e non sfugge l’urgenza di assicurare ai lavoratori coinvolti (giovani e meno giovani) un minimo di protezione. Dunque non è un caso che una delle prime mosse (poi finite nel nulla) del vice premier del Governo giallo-verde e Ministro del lavoro Di Maio, nel tentativo di rendere visibile che tutto il cambiamento non si riduce a vietare gli sbarchi dei naufraghi, sia stata quella di occuparsi della vicenda dei riders (quelli che consegnavano i pasti a domicilio per Foodora), le cui rivendicazioni erano uscite sconfitte dalla sentenza 11.4.2018 del Tribunale di Torino43. Nelle stanze del Ministero si era allora affacciata l’ipotesi di riscrivere l’art. 2094 c.c., per ricomprendere espressamente nella nozione di subordinazione giuridica una prestazione nella quale l’orario di lavoro non sia predeterminato e il lavoratore sia libero di accettare la prestazione richiesta, precisando (con riferimento implicito ai riders) che «l’organizzazione fa capo al datore di lavoro qualora la prestazione avvenga tramite piattaforme digitali, applicazioni o

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Sul nesso tra tutela contro i licenziamenti illegittimi e precarietà cfr. L. Zoppoli, Il diritto del lavoro giallo-verde: tra demagogia, cosmesi e paralisi regressiva, WP D’Antona, It., 377/2018. 43 Cfr. Del Conte, Razzolini, La gig economy alla prova del giudice: la difficile reinterpretazione della fattispecie e degli indici denotativi, in DLRI, 2018, 673.

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algoritmi elaborati dal datore di lavoro o per suo conto, anche se la prestazione stessa sia svolta in tutto o in parte con strumenti nella disponibilità del prestatore». Fortemente sconsigliato da imprese e sindacati a proseguire su questa strada, il Ministro ha abbandonato la partita: meglio lasciar fare alla contrattazione collettiva, gli avevano suggerito, e così ha fatto. Salvo che la via della contrattazione si sta rivelando difficile. La partita è ripresa nelle aule giudiziarie; con una sentenza che ha avuto larga eco mediatica, la Corte d’Appello di Torino, ribaltando in buona parte la decisione del Tribunale di Torino, ha riconosciuto ai riders (alcuni, ma non tutti i) diritti propri dei lavoratori subordinati sanciti dalla legge e i diritti derivanti dall’applicazione del contratto di collettivo assunto come parametro riferimento (il contratto della logistica); il giudice ha riconosciuto nella attività della piattaforma quella di un committente di collaborazioni etero-organizzate ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 (una delle innovazioni più importanti introdotte dal c.d. Jobs Act). Discostandosi però dalla lettera dell’art. 2 (alle collaborazioni etero-organizzate «si applica la disciplina del lavoro subordinato»), il giudice ha applicato selettivamente la disciplina del lavoro subordinato, formulando implicitamente una “norma inespressa”, che suona così: questa disciplina si applica nei limiti della compatibilità con la prestazione del collaboratore che, non presentando tutti i caratteri propri della prestazione di lavoro subordinato, continua a dover essere qualificata come collaborazione autonoma, benché etero-organizzata44. Si può dire, estremizzando e prescindendo da quanto scritto in motivazione, che il giudice, consapevole dell’insufficienza qualificatoria della fattispecie della subordinazione (peraltro da tempo soggetta ad interventi di restauro anche da parte del legislatore, che ha moltiplicato i sotto-tipi e diversificato le discipline)45, abbia usato un approccio “rimediale” anziché ricorrere alla sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta. Si può dire, se per approccio rimediale intendiamo, nella specie, il rifiuto da parte del giudice del netto dualismo autonomia/subordinazione (cui lo costringerebbe invece il riferimento alle fattispecie astratte: artt. 2094 e 2222 c.c.), e la costruzione di un’area intermedia, in cui si mescolano i tratti della subordinazione e dell’autonomia, al fine di graduare le tutele applicabili, selezionate secondo la propria valutazione dei bisogni di protezione del lavoratore. La qualificazione in termini di lavoro subordinato avrebbe comportato senz’altro l’applicazione dell’intero statuto protettivo; lasciando fuori la riconduzione alla fattispecie astratta della subordinazione (che pure era possibile: qualificando i riders come lavoratori intermittenti, on demand appunto)46, e lasciando invece i riders nel limbo47 (dei collaboratori etero-organizzati), anche il disposto dell’art. 2 viene nell’occasione letto in un’ottica rimediale.

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Sulla questione dell’applicazione piena o selettiva del diritto del lavoro cfr. le osservazioni di Tullini, Le collaborazioni eteroorganizzate dei riders:quali tutele applicabili?, in Lavori Diritti Europa, n. 1/2019. 45 Così Treu, op. cit. 46 De Simone, op. cit.; critica la riconduzione alla fattispecie del lavoro intermittente Bano, op. cit., che distingue la precarietà “digitale”, caratterizzata da una più radicale destrutturazione del rapporto di lavoro, dalla precarietà “analogica”, nella quale rientra la fattispecie del lavoro intermittente. Sulla questione cfr. anche Tullini, La qualificazione dei rapporti di lavoro dei gig workers: nuove pronunce e vecchi approcci metodologici, in Lavori Diritti Europa, n. 1/2018. 47 Sui limb-workers cfr. Deakin, Markou, op.cit.

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Sono d’accordo con Treu48 sulla crisi qualificatoria della fattispecie “lavoro subordinato”: le discipline del lavoro accessorio e del lavoro agile sono una prova dell’adattamento (non sempre felice) della fattispecie alle trasformazioni del lavoro, che perde la continuità, perde i riferimenti tradizionali di tempo e di luogo, si frammenta e si ricompone nel collegamento da remoto tra datore di lavoro e lavoratore. Mi convincono però gli argomenti spesi da Mazzotta49, al quale faccio senz’altro rinvio, a favore del non abbandono della fattispecie: penso anche io che la qualificazione del contratto non possa fare a meno della fattispecie. Nel caso citato, che apre la strada ad altre possibili manipolazioni, la norma inespressa (che sta dietro all’approccio rimediale) mi pare davvero arbitraria: la lettera della legge è pur sempre un paletto da rispettare. Non mitizzo la certezza del diritto, ma ritengo vada difesa dalla giustizia case by case, affidata alle scelte soggettive del giudice e alle sue “opzioni valoriali”.

6. Il presente. Due parole sul “decreto dignità”. Arrivo finalmente alle conclusioni di questo lungo discorso. Fin qui ho parlato dell’essere del diritto del lavoro fermandomi in realtà al 2017, e dunque senza tenere conto che con le elezioni politiche del 4 marzo 2018 il quadro politico è radicalmente cambiato; il governo del Paese è passato in altre mani che promettono “il cambiamento”. Se, e se mai in che direzione, questo governo cambierà il percorso del diritto del lavoro è presto per dirlo. Per ora di concreto abbiamo non abbiamo molto in mano: a parte un d.d.l. sul salario minimo legale, presentato in Senato dal M5S, ancora in fase di discussione in Commissione, e il varo del cosiddetto reddito di cittadinanza (un reddito minimo garantito fortemente condizionato, e non un vero reddito “di cittadinanza”: d.l. n. 4/2019, conv. con modifiche in l. n. 26/2019), gli interventi sul lavoro si riducono al c.d. decreto dignità (d.l. n. 87/2018, conv. con modifiche in l. n. 96/2018), al quale si aggiunge qualche misura sporadica, introdotta con la legge di bilancio 2019 (l. n. 145/2018) sul lavoro agile, sugli sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato a favore di laureati, dottori di ricerca ecc., sulla esclusione dai limiti del contratto a termine e della somministrazione per p.a., enti di ricerca, ecc., sul congedo di maternità e paternità obbligatori. Il pezzo forte è il decreto dignità, di cui non ho la possibilità di analizzare il contenuto, dovendomi limitare ad esprimere un giudizio: sommario, ma non preconcetto. Si tratta di una disciplina neonata (i vagiti del periodo transitorio hanno suscitato reazioni molto negative), di cui solo più avanti potrà valutarsi l’impatto sul mercato del lavoro. Ma tra gli interpreti già si confrontano, oltre alle prese di posizione radicalmente nega-

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Treu, op. cit. Mazzotta, op. cit.

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tive (che riflettono la cattiva accoglienza da parte del mondo delle imprese), due opinioni più sfumate di segno opposto: secondo alcuni siamo di fronte ad un primo passo, magari insufficiente e inadeguato tecnicamente, ma apprezzabile, sulla strada del ritorno indietro rispetto alle politiche del diritto pro-business della stagione renziana e prima ancora montiana50; secondo altri51, il “regresso” (nel senso di un ritorno al passato pre-riforme da Monti al Jobs Act) non c’è, perché le politiche del diritto restano nella sostanza pro-business, solo ridipinte con un nuovo make-up (non di grande qualità, peraltro). Se con il decreto dignità il legislatore avesse realizzato le sbandierate intenzioni di mettere un freno alla precarizzazione del lavoro, restituendo dignità e sicurezza ai lavoratori, esprimerei un giudizio positivo. Ma l’analisi del contenuto del decreto mi porta a giudicare più convincente la seconda opinione che ho richiamato, e dunque ad esprimere un giudizio che positivo non è: per l’incertezza (o meglio la confusione) degli obiettivi e il traballante drafting legislativo utilizzato. Come è noto, i tre capitoli principali del decreto sono: i contratti a termine e la somministrazione; i licenziamenti illegittimi; il contratto di prestazione occasionale (che sostituisce i vecchi voucher); si dovrebbe aggiungere la misura di contrasto alle delocalizzazioni, ma questa sembra più che altro ispirata dalle pulsioni nazionalistiche di questo governo. Per quanto riguarda il primo capitolo: la reintroduzione delle causali, se comportasse davvero il ripristino della temporaneità come elemento strutturale delle assunzioni a termine (o della somministrazione a termine), segnerebbe il ritorno al regime pre-riforma Fornero e, piaccia o non piaccia (e si sa che non piace), una reale restrizione del ricorso a queste forme di lavoro precario. Ma la causale è richiesta solo dopo 12 mesi, o 4 proroghe, o il rinnovo entro i 24 mesi di durata massima (i limiti sono inoltre derogabili in una molteplicità di casi). La combinazione tra un vincolo della causalità mal apposto (che lascia del tutto liberi i primi 12 mesi) e la restrizione (non necessaria, se non addirittura controproducente) del limite di durata, oltre a colpire solo un segmento della precarietà, rischia di accentuare il turn over fra lavoratori precari, e, per quanto riguarda la somministrazione, di rilanciare lo staff leasing (che tante perplessità aveva suscitato, ma che fino ad ora non aveva avuto successo). Preoccupa peraltro la “riscoperta” della contrattazione di prossimità in deroga per aggirare i nuovi vincoli posti dalla legge a fronte della marcata preferenza delle imprese per le assunzioni a termine, pure gravate da oneri contributivi maggiorati52. Per quanto riguarda il secondo capitolo, come si è giustamente osservato53, la tutela consistente nella “conversione” del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, che il giudice dovrà decidere nel caso in cui manchi la causale, dovrebbe trovare sostegno nel rafforzamento della tutela contro i licenziamenti. Ma così non è, perché il contratto a termine si converte in contratto a tutele crescenti. È vero che il decreto dignità ha elevato gli importi minimo e massimo dell’indennità forfetaria, ma il licenziamento, per i lavo-

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Mariucci, Luci e ombre del decreto dignità, wwwcomma2.it., 7.8.2018. L. Zoppoli, Il diritto del lavoro giallo-verde, cit. 52 Significativa l’intesa sulle deroghe stipulata di recente tra Assolavoro, la maggiore organizzazione delle Agenzie private di intermediazione, e sindacati aderenti alle Confederazioni. 53 Ancora L. Zoppoli, op. ult. cit. 51

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Maria Vittoria Ballestrero

ratori assunti dopo il 7 marzo, resta regolato dal d.lgs. n. 23/2015, al quale l’unica vera correzione è stata apportata dalla sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale. Qualche giudice54 ha interpretato l’art. 1, d.lgs. n. 23/2015 nel senso della non applicabilità in caso di trasformazione volontaria del contratto a termine (in quanto diversa dalla “conversione” di cui parla la legge) in contratto a tempo indeterminato, ma non mi pare probabile che questa interpretazione possa avere successo. Resta dunque il nodo di una tutela affievolita dei diritti del lavoratore a fronte dei licenziamenti ingiustificati: la conversione in contratto a tempo indeterminato non garantisce allora al lavoratore una affidabile stabilità nel posto di lavoro. Quanto infine al contratto di prestazione occasionale, le modifiche introdotte riportano indietro l’orologio rispetto alla normativa adottata (dal governo Gentiloni) a seguito della abrogazione della vecchia disciplina (abrogazione disposta per evitare il referendum, motivato dal dilagare dell’abuso dei voucher e dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale). L’art. 54 bis, d.l. 24 aprile 2017, n. 50 (conv. in l. n. 96/2017) viene riformulato dal decreto dignità, che torna ad allargare la platea dei beneficiari per favorire le imprese (fino a otto dipendenti) turistico-alberghiere e le imprese agricole, lasciando peraltro in piedi un sistema sanzionatorio estremamente debole. Che tutto ciò venga presentato come un vantaggio per i lavoratori mi lascia francamente molto perplessa. Ma allora, si obietta, è meglio il lavoro nero? No, non lo è. Il lavoro nero è una piaga da combattere; ma non credo che la riapertura dello spazio all’uso (e all’abuso) dei voucher sia la risposta giusta.

7. Concludendo (davvero). Visto il quadro politico attuale, a quanti non nutrono speranze che il cambiamento promesso da questo governo giallo-verde possa portarci verso la realizzazione del dover essere costituzionale del diritto del lavoro, viene spontaneo domandarsi se l’unica prospettiva auspicabile non sia quella di una tregua, che metta finalmente un freno alla bulimia regolativa dell’ultimo decennio. Una tregua che consenta di riaprire una discussione sul diritto del lavoro che coinvolga grandi sindacati e organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro: la loro intermediazione continua ad essere fondamentale per scrivere regole rispettose di quell’equilibrato componimento degli interessi richiamato dalla Corte costituzionale, che appare oggi un obiettivo lontano e difficile da raggiungere.

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Così Trib. Roma, ord. 6 agosto 2018.

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Antonio Loffredo

Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale? Sommario : 1. Il lavoro nell’era digitale: tanto rumore per nulla? – 2. C’è qualcosa di nuovo oggi nel lavoro, anzi d’antico. – 3. La subordinazione nel lavoro digitale alla prova del formalismo giuridico. – 4. Il caso Uber. – 5. I modelli di imprese digitali e l’individuazione del datore di lavoro genuino.

Sinossi. Il saggio affronta alcuni aspetti del lavoro nell’era digitale: in particolare, la questione della natura giuridica dei rapporti di lavoro con le piattaforme e delle modalità attraverso le quali si organizzano le imprese usando gli strumenti offerti dalla digitalizzazione della produzione. L’autore effettua anche una ricostruzione storico-evolutiva delle recenti trasformazioni organizzative che trovano riferimenti nel diritto del lavoro delle origini e riportano a una situazione di squilibrio contrattuale paragonabile a quella degli inizi del secolo scorso. Abstract. The essay deals with some aspects of work in the digital age: in particular, the question of the legal nature of labour relations with platforms and the ways in which companies are organised using the tools offered by the digitalisation of production. The author also carries out a historical reconstruction of the organizational transformations that he tries to connect with the labour law of the origins, also on the matter of the contractual imbalance. Parole chiave: Economia digitale – Lavoro subordinato – Impresa digitale – Subfornitura – Codatorialità

1. Il lavoro nell’era digitale: tanto rumore per nulla? I giuslavoristi da qualche tempo si sono visti obbligati nuovamente a discutere degli effetti di una rivoluzione tecnologica sul diritto del lavoro ed è innegabile la tentazione di affermare che siamo di fronte all’ennesimo fenomeno gattopardesco che minaccia di trasformare tutto, salvo poi lasciare il panorama sostanzialmente inalterato; insomma, questo paventato rischio di crollo dei pilastri sui quali è stato costruito il diritto del lavoro potrebbe essere facilmente bilanciato dall’inquadramento sistematico del rapporto di lavoro che si mostrerebbe, ancora una volta, sufficientemente elastico per adattarsi e farvici rientrare


Antonio Loffredo

anche questi nuovi fenomeni economici, come già accaduto per le rivoluzioni tecnologiche che hanno preceduto questa. Del resto, già la rivoluzione tecnologica degli anni ’80 aveva prodotto un dibattito che si era focalizzato sulla capacità del diritto del lavoro di rispondere a queste nuove sfide con le proprie strutture o se ci fosse stato bisogno di profonde riforme per adattarlo alle novità proposte dalla tecnologia1: sotto questo punto di vista, lo scenario non sembra molto cambiato. Bisogna ammettere, però, che uno sguardo più approfondito e meno pigro fa sorgere il dubbio che qualche elemento dissonante esista; difatti, gli studi che si erano occupati di questi temi nel passato avevano dovuto fare i conti con gli effetti sul rapporto di lavoro di trasformazioni organizzative delle forme di produzione espressamente nate con l’obiettivo di renderle più efficienti e di ridurne i costi. La digitalizzazione della produzione che stiamo sperimentando attualmente, invece, non è nata, né si è sviluppata, con il limitato obiettivo di trasformare il modo attraverso cui si producono beni e servizi e, pertanto, non ha avuto conseguenze solo nel mondo del lavoro ma ha inciso in maniera molto significativa sulla vita delle persone in generale, rivoluzionandone le abitudini quotidiane. Non è un mistero, difatti, che essa abbia prodotto effetti non trascurabili addirittura sulle dinamiche della politica istituzionale e della democrazia in tutto il mondo attraverso la nascita di partiti, movimenti e personaggi politici che hanno saputo sfruttare a proprio vantaggio gli strumenti del mondo virtuale, talvolta in maniera decisamente preoccupante per la tenuta della democrazia stessa. Questi fenomeni socio-politici sembrano, insomma, voler segnare l’inizio di una nuova era della società moderna e sono anch’essi effetto di un’esigenza di modificare alcuni dei pilastri di quella novecentesca attraverso un cambio di paradigma che ha portato, neanche tanto lentamente, a replicare virtualmente la realtà fisica nella quale viviamo. Le spinte ideali che li hanno determinati trovano le proprie radici, probabilmente, in una differente idea dell’individuo e del suo ruolo nella società che nasce da una (forse malintesa o forse più ampia) idea di libertà; essa ha messo in discussione ogni tipo di mediazione tra individuo e società in tutti gli ambiti, finanche nelle forme di accesso alla conoscenza, provando a eliminare, nei limiti del possibile e a volte anche oltre questi limiti, le regole e i loro “sacerdoti”. Questa disintermediazione ha determinato un effetto di spiazzamento per alcuni dei protagonisti della società novecentesca, come gli intellettuali e i corpi intermedi in generale, che della formazione e dell’informazione erano stati i custodi nel secolo scorso; poi, che il risultato finale di questo processo sia stato probabilmente differente rispetto alle intenzioni di chi, più o meno consapevolmente, ha iniziato questo percorso e che l’assoluta libertà desiderata si sia trasformata nella dittatura dell’algoritmo, è altro discorso. In questo panorama, il rapido evolversi delle tecnologie, oltre ad abbassare il costo del lavoro per unità di prodotto, ha anche drasticamente ridotto, fino quasi ad azzerarli, i tempi ed i costi della comunicazione e dell’informazione, contribuendo a creare un’economia globale ad alta intensità tecnologica; perciò, ripercorrendo i passaggi di quella distinzione

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V. Vardaro, Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in Gaeta, Marchitiello, Pascucci (a cura di), Itinerari, Franco Angeli, 1989, 232.

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Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale

tra “tecnica” e “tecnologia” che già era stata effettuata da Vardaro a proposito della rivoluzione tecnologica degli anni ’80 del secolo scorso2 e riconoscendo che l’era digitale ha determinato una rivoluzione non solo tecnologica ma soprattutto mentale3, si può volgere lo sguardo al tema delle trasformazioni del lavoro nell’impresa in quest’epoca con la speranza di riuscire a scattare una fotografia dai contorni non troppo sfocati. Infatti, questi fenomeni si sono inseriti nell’ambito del già avanzato declino del paradigma taylor-fordista, avvenuto a favore di un nuovo modello produttivo secondo il quale l’impresa non si organizza più per contiguità ma “per connessione”4: l’immagine tipica è quella dell’impresa a rete, composta di una pluralità di centri produttivi distanti, per quanto collegati attraverso le infrastrutture di comunicazione e trasporto e con rapporti commerciali anche molto intensi per quanto riguarda gli effetti che possono determinare sui rapporti di lavoro. Queste imprese crescono dimagrendo5 e, inserendo continuamente nel processo produttivo tecnologie labour-saving che determinano successivi ridimensionamenti organizzativi, non solo non hanno creato occupazione ma l’hanno divorata. Pertanto, risulta indispensabile analizzare il lavoro nell’impresa digitale anche con la lente delle modalità attraverso le quali essa si organizza proprio grazie agli strumenti digitali. Non c’è dubbio che l’universo da indagare sia estremamente frammentato e variegato, con differenze talmente grandi da impedire anche solo di provare a effettuare un inquadramento sistematico comune. Tuttavia, questi fenomeni sembrano avere un dato che li tiene insieme, ovvero la sostanziale negazione del principio contenuto nella Dichiarazione di Philadelphia del 1944 secondo la quale il lavoro non è una merce. Spesso in questi fenomeni le persone che lo offrono vengono trattate come tali nonostante il fattore lavoro non possa essere equiparato agli altri fattori della produzione per la circostanza che esso è indivisibile dalla persona che lo presta. D’altro canto, è facile notare che “molte merci ricevono protezione e cure (sia da parte dei privati che dello Stato) tanto da far invidia a non pochi lavoratori subordinati e autonomi […] Forse sarebbe meglio considerarlo una merce, ma una merce tanto pregiata da richiedere l’applicazione di norme di effettiva tutela da parte di chi intenda utilizzarla a partire dal principio, oggi tanto affermato quanto disatteso, per cui il suo costo minimo sia tale da garantire, a chi lo presta, una vita libera e dignitosa”6. La ragione socio-economica che spiega l’iper-sfruttamento di molti lavoratori coinvolti in questi cicli produttivi può essere individuata nel fatto che gli strumenti offerti dalla digitalizzazione della società garantiscono all’imprenditore un esercito di riserva di lavoratori disponibili al momento in cui ne ha bisogno e la possibilità di dimenticarsene una volta

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5 6

V. Vardaro, op. cit., 241. Baricco, The game, Einaudi, 2018, passim. Secondo alcuni (già Revelli, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in Ingrao P. - Rossanda R. (a cura di), Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, 1995, 161), questi ultimi non sarebbero altro che uno sviluppo del fordismo, soprattutto per quanto riguarda il rapporto gerarchico tra lavoratore e datore, “una radicalizzazione del taylorismo. Come una sorta di fordismo potenziato”. Per l’analisi del fenomeno moderno in questo stesso senso v. Sundararajan, The sharing economy, Mit Press, 2016. Revelli, La sinistra sociale, Bollati Boringhieri, 1997, 51. Loy G., La professionalità, in RGL, 2003, I, 772-773.

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che la prestazione si è conclusa, con una serie di microcontratti indipendenti7, una sorta di modello “usa e getta” incompatibile con i principi del diritto del lavoro. Del resto, come autorevole dottrina ci ha da tempo insegnato, l’uso della tecnologia nel diritto del lavoro non è mai neutra8 e anche in questo caso i rapporti di forza che sono alla base della relazione lavorativa non sono usciti inalterati e hanno permesso, infatti, una facile elusione delle regole (anche essenziali) del rapporto. In questo senso, il lavoro della gig economy9 costituisce una spia di quanto si sta già verificando da diversi anni perché sfrutta l’assenza (o “aterritorialità”) del datore di lavoro, ruolo occupato spesso dall’algoritmo che gestisce la piattaforma stessa, fictio utile a scaricare le responsabilità economiche dell’assenza di lavoro sulle spalle dei lavoratori. Tali questioni si incrociano, insomma, con i problemi giuridici derivanti dalle ridotte tutele di cui godono i lavoratori delle imprese economicamente dipendenti da quella principale a livello sia nazionale sia, soprattutto, sovranazionale. È il fenomeno della cd. aziendalizzazione del diritto del lavoro, effetto diretto della globalizzazione e della perdita di centralità dello Stato e della legge, sua fonte normativa tipica, che ha determinato lo sviluppo di un ordine de-legalizzato10. La perdita di centralità dello Stato nella disciplina dei rapporti di lavoro11 ha determinato la sua parziale sostituzione funzionale da parte delle aziende transnazionali, spazio (appunto) virtuale e privo di controllo da parte degli Stati, che impone standard normativi con i quali devono confrontarsi anche le imprese nazionali per poter competere sul mercato globale. In questo modo, pian piano, l’interesse aziendale ha colonizzato quello generale, facendoli coincidere anche dogmaticamente.

2. C’è qualcosa di nuovo oggi nel lavoro, anzi d’antico. La digitalizzazione dell’economia e l’aziendalizzazione del diritto del lavoro vanno a braccetto in quanto le imprese moderne si erano già profondamente rimodellate a seguito della finanziarizzazione dell’economia ma, con la digitalizzazione della società, sono diventate per molti aspetti astratte, liquide, artificiali, in un solo termine, immateriali. Tuttavia, è indispensabile per i giuristi domandarsi se sia possibile per l’ordinamento accettare che l’impresa diventi immateriale (v. infra par. 5). Questi fenomeni hanno operato congiuntamente e hanno ricevuto una tale eco nel lessico giuridico che si è fatto riferimento ai rischi ai quali sono sottoposti i lavoratori che operano nella gig economy coniando nuovi termini, come quello di “uberizzazione” dei rapporti di lavoro e non è un caso che il simbolo di questo fenomeno si sia sviluppato

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Loi, Il lavoro nella gig economy nella prospettiva del rischio, in RGL, 2017, 265. Vardaro, op. cit., 306. 9 De Stefano, The rise of the just-in-time workforce: on-demand work, crowdwork, and labor protection in the gig-economy, in Comp. Lab. L. & Pol’y J., vol. 37, no. 3, 471. 10 Bavaro, L’aziendalizzazione nell’ordine giuridico-politico del lavoro, in LD, 2013, 213. 11 Baylos Grau, Globalización y Derecho del Trabajo: Realidad y proyecto, in Cuadernos de Relaciones Laborales, 1999, n. 15, 23. 8

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Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale

nell’ambito dei trasporti se è vero che in molte occasioni è stato proprio quello il settore che per primo ha messo in discussione alcuni pilastri tipici del diritto del lavoro: si pensi ai noti casi dei barrocciai dei primi del novecento, dei pony express degli anni ’80 e quello, appunto più recente, di Uber12. Le imprese digitali hanno approfittato, infatti, del fenomeno descritto nel paragrafo precedente, favorito anche dalle moderne riforme del diritto del lavoro, legandolo con un altro molto più antico, che ci riporta quasi agli albori del lavoro industriale. Come accade oggi per molti lavoratori coinvolti nell’economia digitale, anche agli inizi del secolo scorso il lavoro a domicilio era stato, infatti, dipinto come un luogo di libertà rispetto a quello in fabbrica13; i lavoratori, anzi, per essere più precisi, le lavoratrici a domicilio erano state fatte sentire diverse dai lavoratori subordinati dell’industria, come delle produttrici, portatrici di uno status sociale più elevato, perché caratterizzato da una maggiore autonomia. Inutile dire che si trattava di una libertà del tutto teorica se è vero che c’è stato bisogno di una legge nel 1958 per raddrizzare almeno parzialmente queste storture, introducendo la presunzione della subordinazione nel lavoro a domicilio e restituendo a questi lavoratori alcune delle tutele che meritavano, facendo prevalere il dato sostanziale su quello giuridico-formalistico. Oggi come allora non si può sottovalutare la rilevanza che l’aspetto psicologico e la retorica della libertà e dell’autonomia hanno avuto nell’espandersi di questi fenomeni che, da un lato, hanno affascinato le giovani generazioni con l’illusione di avere meno vincoli nella loro vita lavorativa ma, dall’altro, gli hanno nascosto che lo scambio sarebbe avvenuto con il fatto che proprio su di essi sarebbe ricaduto il peso di sopportare il rischio economico della mancanza del lavoro, pur non potendo incidere su di esso in alcun modo. L’accettazione del rischio della mancanza di lavoro, vista nella prospettiva della loro presunta libertà di scegliere se accettare oppure no un determinato posto, costituisce proprio uno dei nodi centrali sia dal punto di vista economico sia da quello giuridico del fenomeno14, che ha portato parte della giurisprudenza a qualificare questi lavoratori come autonomi, effettuando un’operazione quasi inversa rispetto a quella barassiana che individuava questo come effetto della mancanza di subordinazione e non di certo come un indice. Non può stupire allora che molte analisi sul lavoro che si sviluppa attraverso le piattaforme digitali si siano focalizzate sul tema della qualificazione del rapporto di lavoro15. Il tema della subordinazione è difatti centrale, anche dal punto di vista dogmatico, a condizione però che essa venga interpretata alla luce delle nuove forme in cui si esprime e, quindi, senza dimenticare che la sua essenza continua a “risiedere nell’elemento dell’alienazione”16. D’altro canto, però, la questione non deve essere sopravvalutata per

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Voza Il lavoro e le piattaforme digitali: the same old story?, in WP D’Antona, It. 336/2017. Gaeta, Lavoro e distanza e subordinazione, ESI, 1993, 14. 14 Sul tema del rischio si v. l’interessante contributo di Loi, op. cit., 259. 15 Tra gli altri v. Biasi, Dai pony express ai riders di Foodora. L’attualità del binomio subordinazione-autonomia (e del relativo metodo di indagine) quale alternativa all’affannosa ricerca di inedite categorie, in Working ADAPT WP, no. 11; Perulli, 2017, Lavoro e tecnica al tempo di Uber, in RGL, 195. 16 Vardaro, op. cit., 299 e, in giurisprudenza, la nota sentenza della C. cost., 5 febbraio 1996, n. 30. 13

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almeno due ordini di motivi. Da un lato, il dilemma tra subordinazione e autonomia del rapporto di lavoro ha perso parte della sua drammaticità nel diritto del lavoro italiano a seguito della profonda riduzione delle tutele nel rapporto di lavoro subordinato; non si vuole assolutamente negare che le differenze di garanzie tra i due tipi di rapporti esistano e siano ancora notevoli ma oggi, rispetto a qualche anno fa, rientrare nell’uno o nell’altro non significa più passare dal “paradiso” delle tutele “all’inferno” della loro assenza assoluta. Dall’altro, per quanto le ragioni sociali siano molto rilevanti, stavolta dal punto di vista simbolico, forse non sono altrettante significative da quello quantitativo perché la percentuale di riders nel mercato del lavoro italiano non può che essere marginale e fisiologicamente temporanea, riguardando una fetta del mercato tendenzialmente destinata a transitare per brevi periodi in questo tipo di occupazioni. Ovviamente, questo dato non può in alcun modo costituire un alibi per continuare a sfruttare questi lavoratori, anzi è urgente e indifferibile un loro coerente inquadramento sistematico, compito che per il momento è stato completamente delegato alla giurisprudenza, che ha affrontato le prime controversie giungendo a risultati contrastanti e insoddisfacenti, com’era peraltro facilmente prevedibile. Invece di puntare al riconoscimento della natura subordinata del rapporto può talvolta essere anche più significativo per i lavoratori sul piano pratico delle tutele l’operazione di stabilire l’esistenza di un rapporto di lavoro con il datore di lavoro “sostanziale” piuttosto che con quello formale, vicenda giuridica che si può verificare con una certa frequenza in diverse ipotesi di datori di lavoro “digitali”. Del resto, così come i lavoratori digitali, anche i modelli imprenditoriali presenti nella gig economy sono molto differenziati e, per questo motivo, ai meri fini di una maggior chiarezza espositiva, può risultare utile una schematizzazione tra due tipi di modelli17: uno trilaterale che si caratterizza per il classico rapporto a tre tra piattaforma, lavoratore e cliente e un altro quadrilaterale, all’interno del quale si inserisce un ulteriore soggetto imprenditoriale, con il quale la piattaforma intrattiene rapporti di natura commerciale. Ovviamente questa suddivisione, come si diceva, ha soprattutto finalità descrittive e non deve essere interpretata in maniera rigida, anche perché esistono imprese molto note, come Uber appunto, che utilizzano alternativamente l’uno o l’altro modello: nel primo, gli autisti di Uber sono proprietari delle macchine e collaborano direttamente con la piattaforma18 mentre nel secondo, essa stringe rapporti commerciali con cooperative che, a loro volta, assumono gli autisti in proprio. Evidentemente, entrambi i modelli devono fare i conti con i principi vigenti di diritto del lavoro e, in particolare, nel modello trilaterale il principale problema giuridico che viene a galla riguarda la qualificazione del rapporto di lavoro mentre in quello quadrilaterale è l’individuazione del datore di lavoro sostanziale: quest’ultima indagine è tuttora poco frequentata dai giuslavoristi mentre per la prima si susseguono ormai con una certa frequenza le pronunce giurisprudenziali e i contributi della dottrina in molti ordinamenti giuridici.

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Loffredo/Tufo, Digital Work in the Transport Sector: in Search of the Employer, in Work Organisation, Labour & Globalisation, vol. 12, no. 2, 2018, 23. 18 Aloisi, Commoditized workers: case study research on labor law issues arising from a set of ‘on-demand/gig-economy’ platforms, in Comp. Lab. L. & Pol’y J., vol. 37, no. 3, 672-673.

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Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale

3. La subordinazione nel lavoro digitale alla prova del

formalismo giuridico.

La giurisprudenza chiamata in causa a valutare la natura subordinata oppure autonoma del rapporto ha riguardato principalmente due figure di lavoratori: i riders (di Foodora, Deliveroo, Glovo ecc.) e gli autisti di Uber. Queste controversie hanno conquistato gli onori delle cronache accademiche e della stampa anche per la visibilità sociale di questi lavoratori e del conflitto che sono riusciti a innescare, nonostante si trovino in una situazione di estrema precarietà e debolezza contrattuale. Pur non volendo affrontare in profondità il tema della natura giuridica del rapporto, alcuni aspetti delle argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza nazionale e comparata risultano interessanti anche per l’altra questione, ovvero quella dell’individuazione del datore di lavoro “genuino” nei rapporti commerciali che vedono coinvolte anche le imprese digitali. A tali fini può essere utile rammentare che la giurisprudenza tende a collegare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con l’esercizio concreto dei poteri datoriali e con l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale in modo strutturale19 e non meramente funzionale. Inoltre, parte di essa20 riconosce la sussistenza del potere di direzione anche nella mera possibilità di indirizzare le direttive ai lavoratori, almeno in alcuni contesti organizzativi e a seconda del contenuto professionale della prestazione21. Di conseguenza, anche quando la piattaforma non esercita espressamente il potere direttivo in modo classico, la mera esistenza di una connessione online con i lavoratori ne può presupporre il potenziale esercizio e, di conseguenza, la subordinazione. Discorso simile può farsi per gli altri due poteri: quello di controllo viene sempre più spesso esercitato sull’esito della prestazione, collegandolo alle direttive del datore di lavoro fornite all’inizio dell’esecuzione22 e risulta rafforzato dall’uso del Gps23, per cui è diventato ben più invasivo di quello classico24. Evidentemente anche il potere disciplinare può essere esercitato in maniera peculiare, ad esempio attraverso la possibilità di venire disconnessi dall’applicazione dello smartphone per averne violato i termini e le condizioni25; altra forma “anomala” di esercizio di questo potere, almeno potenziale26, è poi il sistema di valutazione (rating) operato non dal datore ma dai clienti.

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Cass., 11 ottobre 2017, n. 23846, in www.cortedicassazione.it. Cass., 27 ottobre 2016, n. 21710, in www.cortedicassazione.it; Cass., 26 agosto 2013, n. 19568, in www.cortedicassazione.it. 21 Ichino, Il lavoro subordinato: definizione e inquadramento, in Schlesinger (a cura di), Il Codice Civile. Commentario, Giuffrè, 25; Marimpietri, 2009, Il lavoro subordinato, in Vallebona (a cura di), I contratti di lavoro, Utet, 34. 22 Tra la giurisprudenza v., tra le altre, Cass., 27 novembre 2002, n. 16805, in www.cortedicassazione.it; in dottrina già da tempo sul telelavoro v. Gaeta, Il telelavoro: legge e contrattazione, in DLRI, 1995, 552; Nogler, Lavoro a domicilio, in Comm Sch, Giuffrè, 2000. 23 Elemento valorizzato dalla Cassazione francese, secondo quanto riporta Spinelli, Riders: anche il Tribunale di Milano esclude il vincolo di subordinazione nel rapporto lavorativo, in RGL, II, 2019, in corso di pubblicazione, nota 13. 24 De Stefano, op. cit. 25 V. Section 12.2 Uber Technology Services Agreement, consultabilie all’indirizzo http://ucustomersupport.com/wp-content/ uploads/2016/01/Uber-Driver-Terms-and-Conditions.pdf. In dottrina sulla questione Birgillito, Lavoro e nuova economia: un primo approccio critico. I molti vizi e le poche virtù dell’impresa Uber, in Labour & Law Issues, 2016, vol. 2, no. 2, 2016, 73. 26 Zoppoli L., Contratto di lavoro, subordinazione e organizzazione, in Esposito, Gaeta, Santucci, Zoppoli A., Zoppoli L., Istituzioni di diritto del lavoro e sindacale. Mercato, contratti e rapporti di lavoro, vol. 3, II ed., Giappichelli, 2015, 64. 20

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Insomma, si sono profondamente modificate le forme attraverso le quali si esprimono i rapporti gerarchici all’interno dell’impresa, riducendo, ad esempio, gli spazi classicamente di competenza del potere organizzativo27, devolvendo il potere di controllo a strumenti digitali e quello disciplinare ai clienti, ovvero il controllo diventa di sistema. L’arretramento dei poteri imprenditoriali nel rapporto di lavoro è solo formale e sembra ampiamente giustificato dal fatto che essi non sono più necessari all’imprenditore in questo tipo di organizzazioni, caratterizzate come sono da una molteplicità di contratti (commerciali, autonomi o subordinati ma precari) stipulati con soggetti la cui diligenza viene garantita dalla necessità di avere una retribuzione decente. Si sta, perciò, portando a conclusione quel passaggio che ci ha condotto, neanche tanto lentamente, dall’alienazione tipica della fabbrica fordista alla precarizzazione del lavoro e quindi della vita: com’era stato già brillantemente notato negli anni ’80, una “riduzione obbiettiva della subordinazione tecnica, … si traduce in una crescita soggettiva della subordinazione di tipo esistenziale”28. Questa situazione di evidente subordinazione, sia dal punto di vista dell’eterodirezione sia da quello socio-economico, però sembra essere ignorata da buona parte della giurisprudenza che si è trovata di fronte alla difficoltà di inquadrare correttamente questi modelli organizzativi; per il momento, i giudici sembrano aver scelto la via del formalismo, attaccandosi alle interpretazioni classiche riguardanti la subordinazione, talvolta giungendo addirittura all’estremo di dare peso al nomen iuris di un contratto firmato dalle parti in condizioni di evidente squilibrio; insomma, si sta scegliendo di applicare vecchie tecniche giuridiche a rapporti la cui subordinazione si esprime attraverso nuove modalità, in maniera non dissimile rispetto a quando si volle adattare lo schema della locatio operarum al nascente rapporto di lavoro industriale, non volendo guardare la novità che la realtà sociale stava mostrando di fronte agli occhi di tutti, anche dei giuristi. Le forme attraverso le quali si esercitano i poteri potranno essere pure cambiate ma l’intensità della subordinazione non è affatto diminuita, semmai è vero il contrario. Per questi motivi, è piuttosto agevole criticare la giurisprudenza che ha negato la natura subordinata di questi rapporti, così come quella che ha provato equilibrismi ermeneutici per trovare soluzioni intermedie, comunque insoddisfacenti. Com’è noto, i tribunali di Milano29 e di Torino30 hanno negato con le loro prime sentenze la subordinazione ai riders, utilizzando come argomento decisivo in tal senso il fatto che dal loro contratto di collaborazione non deriverebbe alcun obbligo a lavorare e nemmeno a essere reperibili, spettando a loro completamente la scelta se lavorare oppure no; questa ricostruzione dei giudici di primo grado prescinde anche dal fatto che questa disponibilità a lavorare doveva essere espressa sempre nell’ambito degli slots fissati dalla piattaforma e, in caso di ripensamento rispetto a una disponibilità precedentemente offerta, del rischio di vedere ridotta la propria “fedeltà” con possibili conseguenze sulle future attribuzioni31.

27

Santos Fernández, El contrato de trabajo como lìmite al poder del empresario, Bomarzo, 2005, 103-112. Vardaro, op. cit., 300. 29 Trib. Milano, 10 settembre 2018, in RGL, 2019, II. 30 Trib. Torino, 7 maggio 2018, in RGL, 2018, II, 371, con nota di Spinelli. 31 Spinelli, op. cit.; Turrin, Dopo il Tribunale di Torino anche il Tribunale di Milano esclude la subordinazione per i riders, in Labor, 2018, 28

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Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale

Questa circostanza sarebbe incompatibile, secondo i giudici, con la sottoposizione al potere di eterodirezione e sarebbe corroborata da altri elementi indiziari come l’utilizzo di un mezzo proprio e l’insussistenza di un corrispettivo fisso; ci troveremmo di fronte, insomma, a fattorini completamente autonomi, al punto che ne andrebbe esclusa anche la loro configurabilità come collaboratori etero-organizzati con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, ex art. 2 d.lgs. n. 81/2015, in quanto i tempi sarebbero completamente nelle mani dei lavoratori. Quest’approccio non può essere assolutamente condiviso non solo perché dimentica quella giurisprudenza32 che riconosce l’esistenza della subordinazione quando essa si presenta meramente durante l’esecuzione della prestazione, considerando la scelta di lavorare oppure no un elemento esterno al contenuto del rapporto ma, più in generale, perché mostra un’assoluta insensibilità al fenomeno sociale che si trova a giudicare e non effettua alcuno sforzo per cercare di comprenderne le reali situazioni di dipendenza (anche giuridica) che lo caratterizzano. La Corte di appello di Torino, invece, si è calata maggiormente nel fenomeno reale anche se ha scelto quale norma giuridica da applicare l’art. 2 d.lgs. n. 81/2015 riguardante le collaborazioni etero-organizzate33. Al di là del dibattito sul valore sistematico della norma e sulla sua portata innovatrice, va di certo salutata positivamente l’opzione interpretativa della Corte d’appello che ha puntato, almeno, a un’estensione delle tutele del lavoro subordinato a queste fattispecie di confine dal punto di vista dell’esecuzione della prestazione34. Tuttavia, per raggiungere quest’obiettivo essa ha scelto di inerpicarsi su un terreno piuttosto scivoloso, quello dell’individuazione di un tertium genus tra la subordinazione e l’autonomia distinguendo la prima per la sottoposizione al potere gerarchico, la seconda per un coordinamento consensualmente definito e il tertium nell’etero-organizzazione non definita consensualmente35. L’effetto di questa scelta è stato di non applicare per intero la disciplina protettiva del lavoro subordinato alla fattispecie, come invece sembra dire espressamente la norma. Infatti, la Corte sceglie, non senza un certo grado di opinabilità, di garantire ai riders solo alcune selezionate tutele, quali quelle riguardanti la retribuzione, la sicurezza e salute nel luogo di lavoro, le ferie, la previdenza e i limiti di orario mentre, piuttosto arbitrariamente, esclude quelle sui licenziamenti in base alla sorprendente affermazione che non è stata riconosciuta la natura subordinata del rapporto. Da tale argomentazione si dovrebbe evincere che solo la tutela contro il recesso costituisca una caratteristica del lavoro subordinato mentre, ad esempio, la retribuzione prevista dal contratto collettivo o le ferie no; ne fuoriesce così una disciplina del lavoro a pezzi difficilmente giustificabile anche dal punto di vista formale, oltre che sostanziale.

20 ottobre. Cass., 13 febbraio 2018, n. 3457 in www.cortedicassazione.it. 33 Carabelli - Spinelli, La Corte d’appello di Torino ribalta il verdetto di primo grado: i riders sono collaboratori etero-organizzati, in RGL, II, 2019, in corso di pubblicazione e Bassetti, I riders ai confini della subordinazione: la Corte d’Appello di Torino indica una strada ma lascia aperti molti dubbi, in Diritti&Lavoro flash, n. 2, 2019, in corso di pubblicazione. 34 Carabelli - Spinelli, op. cit. 35 Carabelli - Spinelli, op. cit. 32

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Insomma, si ha la sensazione che, anche quando viene posta la corretta attenzione alle novità che il fenomeno presenta, il problema venga trattato con lo stesso approccio che caratterizzò la giurisprudenza sui pony express di oltre trent’anni fa36, che a sua volta ricorda quella dei barrocciai di inizio secolo37, mentre andrebbe fatto lo sforzo giuridico di valorizzare il “profilo soggettivo del diritto del lavoro [che] significa, quindi, innanzitutto considerazione intrecciata della subordinazione tecnica e di quella esistenziale”38, attraverso un’interpretazione evolutiva e non formalistica dei suoi requisiti39.

4. Il caso Uber. Solo parzialmente sovrapponibile alla giurisprudenza sui riders è quella riguardante gli autisti di Uber perché, tranne in rari casi, essa non ha avuto come oggetto principale la tematica della natura giuridica del rapporto di lavoro ma, più in generale, le caratteristiche imprenditoriali della piattaforma da parte, tra gli altri, di giudici italiani40, spagnoli41, inglesi42 (v. infra), statunitensi43 e anche della Corte di Giustizia UE44. Quest’ultima, in particolare, si è occupata della questione riguardante il settore merceologico nel quale essa deve essere considerata operativa, al fine di individuare la disciplina normativa da applicare, e ne ha negato la qualificazione come impresa digitale, a favore di quella di impresa di trasporti, a seguito di considerazioni giuridiche talmente intuitive da apparire banali, come ad esempio il fatto che se i suoi autisti sono in concorrenza con i taxi allora anche la piattaforma lo è, perché inscindibile è il suo nesso con gli autisti45, senza i quali Uber non

36

Tullini, Prime riflessioni dopo la sentenza di Torino sul caso Foodora, in Lavoro, Diritti, Europa, 2018, 2. Voza op. cit. 38 Vardaro, op. cit., 301, come avvenuto in Spagna dove si è valorizzato l’elemento dell’alienità del risultato (che però costituisce un indice della subordinazione secondo l’Estatuto de los Trabajadores,). Sulle sentenze spagnole v. Pacella, Alterità del risultato, alienità dell’organizzazione: ancora una sentenza spagnola qualifica come subordinati i fattorini di Deliveroo, in LLI, n. 4, 2018, 61; Pérez Rey, Son los riders trabajadores?, Comentario a los primeros escarceos judiciales en torno a las identidades debiles de la economia uberizada, in www.actumsocial.es, 2018, 2. 39 Romagnoli, Se l’amore per la specie fa perdere di vista il genere (a proposito del caso Foodora), in DLM, 2018, 195. 40 Trib. Roma, sez. IX, 7 Aprile 2017, in DeJure; Trib. Torino, sez. I, 22 Marzo 2017, in DeJure; Trib. Torino, sez. spec. impresa, 1 Marzo 2017, in DeJure; Trib. Milano, ord., sez. spec. impresa, 9 luglio 2015, in RIDL, 2016, no. 1, II, 46 ff.; Trib. Milano, ord., sez. spec. impresa, 25 Maggio 2015, in DeJure. 41 Audiencia Provincial Civil de Madrid, Sección Vigesimoctava, 23.1.2017, n. 15, in http://cdn.elindependiente.com/wp-content/ uploads/2017/02/auto_uber.pdf. 42 Per una ricostruzione in chiave comparata v. De Stefano, Lavoro su piattaforma e lavoro non standard in prospettiva internazionale e comparata, in RGL, 2017, 241. 43 Il tribunale di ultima istanza dello Stato di New York ha recentemente riconosciuto, con una sentenza del 12 luglio 2018, tre autisti di Uber come dipendenti della piattaforma e ha obbligato quest’ultima a pagare i contributi non corrisposti per l’intero rapporto. La decisione è consultabile in http://uiappeals.ny.gov/uiappeal-decisions/596722-appeal-decision.pdf 44 C-434/15, Asociación Profesional Élite Taxi v. Uber Systems Spain SL, in http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf;jsessionid =9ea7d2dc30dd79aed293274c44bcae02ba0c72d956f5.e34KaxiLc3qMb40Rch0SaxyNaNn0?text=&docid=198047&pageIndex=0&doc lang=EN&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=834073. 45 Trib. Roma, sez. IX, 7 Aprile 2017; Trib. Milano, ord., sez. spec. impresa, 9 luglio 2015, punto 4.3; Trib. Milano, ord., sez. spec. impresa, 25 maggio 2015, in DeJure. 37

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Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale

esisterebbe46. In tal senso, sempre la C. giust. ha segnalato anche l’irrilevanza della proprietà dei mezzi al fine di qualificare l’impresa come digitale o di trasporti, considerazione che si può agevolmente, e a maggior ragione, estendere anche al fine della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro. Su questo piano, nel noto caso inglese Aslam and Farrar v. Uber47, le cui conclusioni sono state confermate dalla sentenza di appello dell’Employment Appeal Tribunal di Londra del 10 novembre 201748, è stato riconosciuto agli autisti ricorrenti la qualificazione giuridica di workers (anche se non quella più pregnante di employees) dell’impresa americana nel Regno Unito. Le ragioni di fondo che sostengono tale decisione sono riassumibili nel fatto che Uber, decidendo d’imperio le tariffe e non permettendo all’autista di cambiarle, impone molteplici condizioni (tra cui addirittura il percorso da seguire) e stabilisce un sistema di rating della prestazione degli autisti che si può paragonare all’esercizio dei poteri di controllo e di valutazione della prestazione, con possibili sanzioni disciplinari aventi effetti anche sulla retribuzione. La sentenza d’appello londinese ha sottolineato, poi, soprattutto l’obbligo contrattuale per gli autisti di accettare almeno l’80% dei tragitti proposti, il che determina di fatto una esclusività nella committenza perché per essi risulta di fatto impossibile avere rapporti contrattuali con altre imprese di trasporti. Pertanto, come anche per i riders, gli autisti non possono essere considerati né piccoli imprenditori né lavoratori autonomi, visto che essi possono vedere aumentare i propri guadagni solamente passando più tempo al volante, così come i lavoratori dipendenti possono avere un salario maggiore solo lavorando più ore e facendo lavoro straordinario, concetto che dovrebbe essere completamente estraneo al lavoro autonomo. Usando le parole della C. giust., “Uber esercita un’influenza determinante sulle condizioni della prestazione di siffatti conducenti [fissando] … il prezzo massimo della corsa, che tale società riceve tale somma dal cliente prima di versarne una parte al conducente non professionista del veicolo e che essa esercita un determinato controllo sulla qualità dei veicoli e dei loro conducenti nonché sul comportamento di quest’ultimi, che può portare, se del caso, alla loro esclusione”49. Sono ormai tante le pronunce che hanno messo in evidenza come Uber non può essere considerata semplicemente una piattaforma digitale ma necessariamente qualcosa di più50, infatti, le argomentazioni contenute in molte di esse toccano punti cruciali dell’organizzazione della piattaforma, sottolineando in particolare come essa non si limiti alla selezione

46

Punto 56 dell’opinione dell’Avvocato Generale Szpunar del 11.5.2017, Case C-434/15, Asociación Profesional Elite Taxi v. Uber Systems Spain SL, especially points 41 ff., in http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=190593&pageIndex=0&doclang =en&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=834582 47 Sentenza del 28 ottobre 2016, https://www.judiciary.gov.uk/wp-content/uploads/2016/10/aslam-and-farrar-v-uber-reasons-20161028. pdf 48 https://assets.publishing.service.gov.uk/media/5a046b06e5274a0ee5a1f171/Uber_B.V._and_Others_v_Mr_Y_Aslam_and_Others_ UKEAT_0056_17_DA.pdf 49 Punto 39 della citata sentenza C-434/15, Asociación Profesional Élite Taxi v. Uber Systems Spain SL. 50 Considerazioni simili sono riscontrabili in alcuni casi statunitensi come Berwick v. Uber Technologies Inc., 3 giugno 2015, Case n. 11 – 46739 EK, Labor Commissioner dello Stato di California, punto 9, in https://digitalcommons.law.scu.edu/cgi/viewcontent.cgi?article =1988&context=historical, e, con riferimento a Lyft, in Cotter v. Lyft Inc., no. 13 – cv - 04065 - VC, 2015 WL 1062407, consultabile in http://www.lyftdriverlawsuit.com/courtdocs.

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degli autisti, specificando il tipo di macchina che deve essere utilizzata, ma ne controlli le attività attraverso il sistema di rating e la decisione del prezzo e del percorso di ogni singola corsa51, caratteristiche che fanno dubitare fortemente – anche in ordinamenti giuridici molto diversi gli uni dagli altri – che essa non costituisca il vero datore di lavoro degli autisti.

5. I modelli di imprese digitali e l’individuazione del datore

di lavoro genuino.

Nel modello quadrilaterale, che coinvolge piattaforma, impresa partner, lavoratore e cliente, la questione giuridica più rilevante risulta essere proprio l’individuazione dell’imprenditore/datore di lavoro reale; a tal fine non è sufficiente la disciplina giuslavoristica per risolvere la questione ma è indispensabile l’esame dei contratti che coinvolgono rapporti commerciali tra imprese, anche perché spesso i legami tra esse sono talmente stringenti da fare ritenere che sussista una dipendenza economica per le imprese “satellite” rispetto a quella principale. Questo elemento diventa, poi, particolarmente significativo nelle reti piramidali in cui si condividono, formalmente o sostanzialmente, anche le prestazioni dei lavoratori52 perché ne può derivare come effetto l’esercizio di un duplice potere di controllo da parte dell’impresa principale: sia sull’impresa dipendente sia sui lavoratori, attraverso l’esercizio di caratteristiche tipicamente datoriali nel rapporto di lavoro che fanno almeno dubitare che l’impresa a capo della piramide intrattenga relazioni giuridicamente rilevanti esclusivamente con le altre imprese e non anche con i lavoratori da esse dipendenti. In effetti, in molte occasioni il potere direttivo e quello disciplinare vengono sì esercitati dal datore di lavoro formale ma per conto delle imprese collegate, quello di controllo viene effettuato direttamente sulla base dei risultati delle prestazioni dei lavoratori e i profitti sono condivisi tra i datori di lavoro, sia formale sia sostanziale53, spesso in modo poco equilibrato. La confusione di ruoli, nonché della titolarità di obblighi e diritti, aumenta ulteriormente quando l’impresa principale impone alle partner delle clausole di esclusività che gli impediscono di fatto (e talvolta anche di diritto) di partecipare attivamente nel mercato e di avere un vero e proprio rischio d’impresa. Non può essere un caso, allora, che l’unico dato normativo del nostro ordinamento nel quale si fa espresso riferimento alla nozione di “codatorialità”, anche se con la principale finalità di permettere che un lavoratore possa essere soggetto ai poteri di più datori, si ritrovi proprio all’interno della l. n. 33/2009 in cui è disciplinato il contratto di rete.

51

Cfr. C-434/15, Asociación Profesional Élite Taxi, v. Uber Systems Spain SL; Audiencia Provincial Civil de Madrid, Sección Vigesimoctava, 23 gennaio 2017, n. 15, punti 89-90. V. anche l’opinione dell’Avvocato Generale Szpunar del 11 maggio 2017, C-434/15, Asociación Profesional Elite Taxi v. Uber Systems Spain SL, punti 41 ss., in http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=190 593&pageIndex=0&doclang=en&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=834582. 52 Speziale, Il datore di lavoro nell’impresa integrata, in DLRI, 2010, 38. 53 Speziale, op. cit., 47.

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Invece, vale la pena rammentare che, negli altri casi, la dottrina commercialistica che si è occupata dell’art. 2082 c.c.54 non ha mai messo in discussione il riferimento all’organizzazione aziendale55 e al rischio a proprio carico quali caratteristiche indefettibili dell’imprenditore. Entrambi questi dati giuridici sono stati ritenuti quasi ontologici della figura dell’imprenditore, a prescindere dall’ordinamento giuridico analizzato; quindi, a maggior ragione all’interno di uno stesso ordinamento, la figura di datore usata dalla giurisprudenza giuslavoristica non poteva che fare riferimento alle basi fissate in quella di diritto commerciale, cioè dalla necessità di trovarsi sempre di fronte a un soggetto che esercita professionalmente un’attività economica organizzata accollandosene i rischi e, per tale motivo, viene tutelato anche nella Costituzione. Infatti, in caso di assenza di una delle suddette prerogative (il binomio organizzazione aziendale e rischio a proprio carico) in una controversia, il giudice del lavoro è obbligato a ricercare l’imprenditore genuino per imputargli la titolarità del rapporto di lavoro. La situazione – è noto – si è formalmente modificata dopo l’approvazione del d.lgs. n. 276/2003, il cui art. 29 da un lato ha confermato che l’appalto si deve caratterizzare per la presenza sia dell’assunzione del rischio d’impresa sia di un’organizzazione di mezzi ma, dall’altro, che quest’ultima poteva risultare anche solamente “dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto”, operando così una decisa frattura tra la nozione commercialistica d’imprenditore e quella lavoristica di datore di lavoro, una divaricazione difficilmente giustificabile sul piano logico e sistematico. Questo goffo tentativo di separazione da una nozione derivante dal diritto commerciale perseguiva l’obiettivo di ricondurre l’imprenditorialità della prestazione dedotta in contratto nella somministrazione interamente nell’attività di preparazione e di gestione del rapporto di lavoro, ricostruendo la vera differenza con l’appalto nella circostanza secondo cui l’organizzazione dei mezzi necessaria per poter configurare l’appaltatore come imprenditore genuino fosse ricavabile in ogni caso anche dal mero esercizio del potere organizzativo. Peraltro, guardando la vicenda anche da altra prospettiva, la stessa nozione di subordinazione, se legata esclusivamente all’esercizio del potere organizzativo, rischia di confondersi facilmente con fattispecie limitrofe, come si è visto per gli autisti di Uber e, soprattutto, per i riders. Non a caso la giurisprudenza in tema di rapporti interpositori vietati è stata per lungo tempo quasi completamente sovrapponibile a quella riguardante la subordinazione56; per queste ragioni, l’immutata redazione dell’art. 2094 c.c. fa ritenere che un’operazione che puntava a modificare giuridicamente la figura del datore (cioè di una delle due parti del contratto), lasciando però inalterati i connotati della subordinazione,

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Minervini L’imprenditore. Fattispecie e statuti senza data, Morano, 1966; Buonocore, L’impresa, in Tratt. Dir. Comm., Giappichelli, 2002; Graziani Minervini, Belviso, Santoro, Manuale di diritto commerciale, Giappichelli, 2015, 35 ss. 55 Campobasso, Diritto commerciale, Giappichelli, vol. II, 2012, 25. 56 Mazzotta, “Divide et impera”, in LD, 1988, 368; Bellocchi, Interposizione e subordinazione, in ADL, 2001, 163 ss.; contra Del Punta, Appalto di manodopera e subordinazione, in DLRI, 1995, 650. Sull’evoluzione del rapporto tra interposizione e subordinazione e sull’attuale distanza esistente tra le due fattispecie v. Barbera, Trasformazioni della figura del datore di lavoro e flessibilizzazione delle regole del diritto, in Aa.Vv., La figura del datore di lavoro. Articolazioni e trasformazioni, Giuffrè, 2010, 15.

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ovvero le caratteristiche dell’altra parte del contratto, abbia facilitato (se non promosso) prassi abusive e una scissione giuridica della figura del datore di lavoro, che assomigliano molto a una semplice scomposizione del binomio potere/responsabilità57, caratteristica ineliminabile nella figura dell’imprenditore58. Questa scelta legislativa ha contribuito ad aiutare l’impresa nella scelta di frammentarsi giuridicamente e, contemporaneamente, di mantenere compatta e concentrata la propria organizzazione dal punto di vista economico. Se a ciò si aggiunge che la transnazionalizzazione delle imprese ha determinato anche un flusso liquido di decisioni e ordini, che a volte si nascondono giuridicamente e non emergono per quello che sono realmente, ovvero esercizio dei poteri imprenditoriali, allora è facile rendersi conto che l’operazione non è stata priva di conseguenze all’interno dell’ordinamento giuridico, pure nell’analisi del tema dell’impresa digitale, perché ha generalizzato una nozione “leggera” di imprenditore che ha favorito lo sviluppo di prassi abusive a causa della confusione di funzioni datoriali degli imprenditori. Per questo motivo può essere interessante fare un accenno anche a una diversa impostazione, meno classica e più attenta alle funzioni – appunto – dell’imprenditore nel rapporto di lavoro59, per verificare se le piattaforme possono svolgere tutti i compiti del datore di lavoro ed essere considerate tali. Ad esempio, solo per citare le funzioni più tipicamente datoriali, anche nel modello “quadrilaterale” non c’è dubbio che quando le piattaforme collaborano con le aziende, siano queste ultime quelle che hanno formalmente il potere di selezionare i lavoratori e di scegliere se assumerli o licenziarli; tuttavia, è allo stesso modo evidente che ciò non preclude la possibilità che il potere economico esercitato dalla piattaforma sulla società partner possa causare interferenze anche pesanti nel rapporto di lavoro. Infatti, spesso il profilo del lavoratore da assumere viene specificamente individuato nel contratto commerciale che unisce impresa e piattaforma e, allo stesso modo, se un lavoratore non rispetta i termini e le condizioni stabiliti dalla piattaforma60, essa può esercitare pressioni sull’azienda per porre fine alla collaborazione, inducendo la società partner a licenziarlo. Si tratta, quindi, di funzioni che possono risultare sostanzialmente condivise dalla piattaforma e dalle imprese della rete. Inoltre, anche se i soggetti che ricevono la prestazione possono risultare sia le società partner sia le piattaforme, sono solo queste ultime a fornire il lavoro e a garantire, di conseguenza, la concreta possibilità di una retribuzione. Infatti, la rete dei clienti coincide con quella delle piattaforme, al punto che spesso le società partner e le piattaforme vengono percepite come un’entità unica dall’utenza, che in molti casi non è neppure a conoscenza del fatto che si tratta di soggetti giuridicamente diversi, in quanto tutti utilizzano gli stessi brand. Questo modello risulta essere molto conveniente per le piattaforme dal punto di vista economico, soprattutto in Italia; infatti, i lavoratori vengono assunti e pagati dalle aziende

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Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, 2005. Alcalà Diaz, Aspectos econòmicos e instrumentos juridico-mercantiles de descentralizaciòn empresarial, in Rev. Der. Soc., 2003, 95. 59 Prassl, The concept of the employer, Oxford University Press, 2015. 60 Per esempio, le condizioni di “qualità del servizio” imposte da FlixBus costituiscono delle obbligazioni per le parti, come espressamente previsto nell’art. 2, Allegato n. 2, La qualità nel servizio delle linee, Contratto di collaborazione FlixBus. 58

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partner, che sono i datori di lavoro formali e che sono spesso anche delle piccole imprese, alle quali risulta più semplice nei fatti non applicare i CCNL perché magari non hanno una presenza sindacale in azienda. Invece, quelle grandi, come le piattaforme digitali, possono incontrare maggiori difficoltà anche dal punto di vista dell’immagine se volessero non applicare contratti collettivi, come dimostrano le recenti evoluzioni delle vicende Amazon e Ryanair in Italia. Anche un altro conflitto, meno noto, sembra confermare queste sensazioni, ovvero quello di FlixBus: si tratta di un’azienda apparsa qualche anno fa nel mercato del trasporto passeggeri su gomma in molti paesi europei e che in poco tempo è diventata egemone nel settore, approfittando anche della liberalizzazione delle regole riguardanti il trasporto passeggeri via autobus a medio e lungo raggio. Il segreto di questo successo passa proprio per il collegamento tra il mondo digitale e quello degli autobus e l’elemento che differenzia FlixBus da ogni altra impresa del settore è che essa non è proprietaria neppure di un autobus, avendo scelto di appoggiarsi su imprese di trasporto locale già esistenti. Il modello imprenditoriale prescelto è stato quello della rete temporanea d’imprese, della quale essa si pone a capo, occupandosi della logistica, delle prenotazioni e della commercializzazione, ovvero FlixBus richiede le autorizzazioni amministrative per svolgere il servizio, organizza gli orari, sceglie i percorsi (potendo poi anche modificarli unilateralmente) e decide i prezzi dei biglietti. Questa separazione di compiti attribuisce il diritto a FlixBus di esercitare, appunto, un duplice potere di controllo: uno sulle imprese che formano parte della rete e un altro, meno giustificabile dal punto di vista giuridico e sistematico, sui lavoratori di queste imprese. Infatti, se risulta giuridicamente legittima l’imposizione di standard di qualità per i mezzi di trasporto e il controllo sulla programmazione degli orari, crea invece qualche dubbio il diritto alla supervisione su tempi, pause e turni degli autisti. Alcune clausole del contratto che lega la piattaforma alle imprese di trasporti mostrano addirittura la presenza di elementi che sembrano incidere sulle scelte in merito alle politiche sulle assunzioni da parte delle imprese della rete, mentre altre impongono agli autisti espressamente mansioni ulteriori rispetto a quelle previste dai loro contratti. In questa situazione, la piattaforma ha firmato il 18 dicembre 2017 un protocollo d’intesa con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative61 nel quale, tra le altre cose, ha preso l’impegno di applicare e, soprattutto, di far applicare alle imprese della rete il contratto collettivo nazionale del settore Autoferrotranvieri. La firma del protocollo risulta estremamente importante per gli effetti a cascata che si possono avere sui rapporti di lavoro dei prestatori delle imprese partner della rete e sembra essere l’ennesima prova di come FlixBus, e in generale le piattaforme si trovino spesso in una posizione di egemonia economica nei confronti delle altre imprese, al punto da poter imporre l’applicazione delle condizioni contrattuali commerciali e finanche quelle contenute in un determinato contratto collettivo se intendono stabilire un rapporto di collaborazione. Bisogna, inoltre, riconoscere come l’intervento delle organizzazioni sindacali nei confronti dell’impresa madre, anche se non si tratta formalmente di un’azienda di trasporti, abbia puntato alla

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http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=17847:flixbus17&catid=227&Itemid=139

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sostanza del fenomeno e abbia effettuato una scelta che si è rivelata particolarmente adatta per affrontare questo tipo di situazione. Tali conclusioni hanno particolare rilevanza nell’approccio funzionalistico62 che si sta indagando perché, anche la gestione dell’impresa, sia in relazione al suo mercato interno sia a quello esterno, vede la piattaforma come protagonista indiscussa in quanto, da un lato nei rapporti con le imprese partner le piattaforme decidono unilateralmente le condizioni essenziali in contratti standard all’interno dei quali stabiliscono gli standard minimi di qualità per i servizi, fissano gli orari di lavoro e specificano i comportamenti specifici che devono essere tenuti dai lavoratori nell’esecuzione della prestazione; dall’altro, però, il rischio d’impresa è condiviso tra le piattaforme e le aziende partner che mettono a disposizione la loro struttura sostanziale, mentre la piattaforma gestisce il marchio e l’immagine del servizio. Insomma, anche l’approccio funzionalistico sembra alimentare il dubbio che le piattaforme possano essere considerate datori di lavoro in prima persona anche nel modello quadrilaterale e non solo in quello trilaterale. In ogni modo, a prescindere dall’approccio che si possa preferire, i dubbi che entrambi fanno emergere impongono che questi fenomeni vengano affrontati anche dal diritto del lavoro e, soprattutto, se ne individuino le conseguenze sul piano del rapporto. Le opzioni possibili sono due: la prima è quella più classica, e forse da preferire per la certezza che garantirebbe, ovvero quella di rafforzare il compito del giudice di individuare quale sia il datore di lavoro genuino nella vicenda triangolare o quadrilaterale saltando gli schemi formalistici e, di conseguenza, assegnargli il rapporto di lavoro con tutti gli obblighi e i poteri ad esso correlati. Si tratta, da un lato, di prendere atto che i poteri datoriali, e gli obblighi che ne scaturiscono a carico dei lavoratori, derivano sempre dall’inserimento in un’organizzazione, a volte anche indipendentemente dall’espressione di un consenso a essere sottoposto a quel potere, tanto è vero che già tempo addietro si era sostenuta una concezione acontrattualistica dell’interposizione63; perciò, l’indagine sull’organizzazione dei mezzi non può fermarsi al mero esercizio del potere organizzativo ma si deve necessariamente estendere ai mezzi che fanno di quel soggetto un imprenditore, alla luce dell’art. 2082 c.c. Dall’altro, diventa indispensabile nelle reti un’analisi concreta sul reale rischio d’impresa che hanno alcune di esse e se non si tratta invece di mere pedine mosse in uno scacchiere nel quale non hanno la possibilità di giocare in alcun modo se non accettando le regole imposte da altri. La seconda soluzione si muove completamente all’interno della logica contrattuale perché prova a ricorrere alla tecnica del collegamento negoziale per dimostrare la possibilità di una codatorialità64. In effetti, la ricostruzione di una pluralità di datori di lavoro non è

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V. Prassl-Risak, Uber, Taskrabbit, and co.: platforms as employers? Rethinking the legal analysis of crowdwork, in Comp. Lab. L. & Pol’y J., vol. 37, no. 3, 2016, 619. 63 Mazzotta, Rapporti interpositori e contratto di lavoro, Giuffrè, 1979, passim. 64 Speziale, op. cit.; M.T. Carinci, Introduzione: il concetto di datore di lavoro alla luce del sistema: la codatorialità e il rapporto con il divieto di interposizione, in Ead. (a cura di), Dall’impresa a rete alle reti d’impresa. Scelte organizzative e diritto del lavoro, Giuffrè, 2015, 1 ss.; Garofalo D., Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative, in http://www.aidlass.it/wp-content/uploads/2017/04/ GAROFALO-RELAZIONE-AIDLASS-9-5-2017.pdf., 2017, 38.

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Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale

contraria al diritto del lavoro italiano65, che non fornisce una definizione di datore di lavoro ma solo di lavoratore subordinato66, e avrebbe il pregio di provare a dare una risposta a un fenomeno che, come abbiamo visto, esiste già nei fatti: ovvero, le imprese coinvolte in una rete hanno un interesse comune ad organizzare i rapporti di lavoro con l’obiettivo di raggiungere un unico obiettivo economico e, per tale ragione, quelle che ne sono a capo esercitano spesso i poteri datoriali anche su lavoratori che non sono loro dipendenti. In questo senso, sarebbe giusto che si prendessero interamente le conseguenze giuridiche di questo modello67, quindi anche gli obblighi e non solo i poteri. Può risultare di aiuto sul tema anche la sentenza n. 254/2017 della C. cost.68, nella quale la Consulta ha riconosciuto che il regime della responsabilità solidale prevista dall’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/03 a tutela dei crediti dei lavoratori deve essere interpretato in maniera tale da ricomprendervi anche ogni ipotesi di subfornitura, vista l’identica esigenza di tutela che hanno i lavoratori anche quando il loro utilizzo indiretto non avviene sulla base di un contratto di appalto. Pertanto, la stessa genericità della nozione di subfornitura, che sembra sussistere ogni volta in cui la prestazione di un lavoratore va a vantaggio di un imprenditore che non è anche il suo datore di lavoro, potrebbe permettere di estendere alle imprese a capo di modelli come quello quadrilaterale degli obblighi come, ad esempio, la responsabilità solidale rispetto ai crediti e, più in generale, rispetto ai diritti dei lavoratori, al fine di evitare che diventino come Arlecchino, servitori di due padroni.

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Razzolini, Contitolarità del rapporto di lavoro nel gruppo caratterizzato da unicità di impresa, in WP D’Antona, It., n. 89, 2009; Treu, Introduzione, in Id. (a cura di), Contratto di rete. Trasformazione del lavoro e reti di imprese, Ipsoa, 2015, 14. 66 Speziale, op. cit., 26. 67 Speziale, op. cit., 45 ss. 68 Per un commento, v. Calvellini, La responsabilità solidale al di là dei confini dell’appalto, fino alla subfornitura (e oltre), in RGL, 2018, III, 298.

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La legittimazione comunitaria della personalizzazione del danno nella sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 Sommario : 1. Premessa: brevi cenni sulla personalizzazione del danno. – 2. La legittimazione comunitaria della personalizzazione del danno. – (Segue): la “legittimazione comunitaria” della personalizzazione del danno e il parere del Comitato Europeo dei diritti sociali. – 4. Le possibili conseguenze delle affermazioni della Corte costituzionale.

Sinossi. Lo scritto si occupa della recente pronuncia della Corte costituzionale n. 194/2018, con particolare riferimento all’influenza della normativa comunitaria sulla personalizzazione del danno risarcibile per il licenziamento illegittimo (art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015). Abstract. The paper deals with the recent judgment of the Constitutional Court n. 194/2018, with particular reference to the influence of the european law on the personalization of the damages for the unlawful dismissal (art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015). Parole chiave: Corte costituzionale – Licenziamento – Indennità risarcitoria – Personalizzazione del danno – Jobs Act

1. Premessa: brevi cenni sulla personalizzazione del danno. L’ordinamento lavoristico conosce ormai molteplici strumenti di tutela del lavoratore illegittimamente licenziato poiché, dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori ad oggi, vari sono stati i rimedi risarcitori per ristorare il danno da perdita delle retribuzioni.


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L’ultima fase di questa evoluzione dell’ordinamento è rappresentata dalla sentenza della Corte costituzionale dell’8 novembre 2018, qui commentata1. Il più evidente tratto comune a tutte le fasi di questa evoluzione è la parziale deroga ai princípi generali in materia di responsabilità contrattuale e risarcimento del danno, coerentemente con una tendenza generale della legislazione speciale che sempre più spesso non utilizza le categorie del diritto civile, o comunque le adatta alla speciale materia trattata2. Venendo alle singole fasi di questa evoluzione, occorre ricordare che, nel sistema antecedente alla novella del 2012, l’impatto economico del rimedio risarcitorio sul datore di lavoro era sottratto alla discrezionalità del Giudice, in quanto il criterio di commisurazione legale dell’indennità ex art. 18 Stat. lav. scontava come uniche variabili la durata del processo e le eventuali, ed invero assai rare, allegazioni delle parti sul danno ulteriore ovvero inferiore rispetto a quello forfettizzato dalla legge. Ed infatti, per un verso, il risarcimento in questione era ancorato, nella quantificazione, a ciò che il lavoratore avrebbe avuto diritto a percepire in forza dell’obbligazione retributiva, salvo la prova di danno ulteriore a carico del lavoratore o di danno inferiore, specialmente per aliunde perceptum, a carico del datore di lavoro (funzione risarcitoria)3; per altro verso, il medesimo risarcimento era forfettizzato in un minimo inderogabile di cinque mensilità, con conseguente irrilevanza di eventuali circostanze idonee ad incidere in senso riduttivo sull’entità del danno secondo il diritto comune, neppure in caso di sentenza emessa prima di cinque mesi dalla data del licenziamento (funzione sanzionatoria)4. Con l’entrata in vigore della legge 28 giugno 2012, n. 92, il quadro è radicalmente cambiato, e, superando quella che è stata definita «l’iniqua uniformità sanzionatoria del vec-

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C. cost., 8 novembre 2018, n. 194, in GU, 14 novembre 2018, n. 45. Secondo Tosi, Spigolature di dottrina sulla sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale e sul suo “dopo”, in DRI, 2019, 2, è noto che «la disciplina del licenziamento sia da sempre considerata speciale rispetto alla disciplina codicistica dell’inadempimento contrattuale» e «le conseguenze del licenziamento illegittimo trovino esaustiva regolazione nell’ambito della prima malgrado essa sia andata facendosi sempre più articolata nel tempo». Il sistema dei licenziamenti è stato definito un «microsistema» che sempre di più si arrocca nella sua specialità e mal sopporta le incursioni del diritto comune da Cester, I licenziamenti tra passato e futuro, in ADL, 2016, 1111. Sul rafforzamento degli elementi di specialità rispetto al diritto comune, specie dopo le ultime riforme, vedi anche Valentini, Le conseguenze dell’illegittimità del licenziamento, in Pellacani (a cura di), I licenziamenti individuali e collettivi, Giappichelli, 2013, 452. In generale, sempre sul tema dei rapporti tra diritto del lavoro e diritto civile, G. Santoro-Passarelli, Appunti sulla funzione delle categorie civilistiche nel diritto del lavoro dopo il Jobs Act, in Mazzotta (a cura di), Lavoro ed esigenze dell’impresa fra diritto sostanziale e processo dopo il Jobs Act, Giappichelli, 2016, 173 ss.; Ichino, Il percorso tortuoso del diritto del lavoro tra emancipazione dal diritto civile e ritorno al diritto civile, in RIDL, 2012, I, 59 ss.; Magnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie, Cedam, 2006. Per una generale ricognizione sul tema, Gambacciani, I criteri legali di determinazione delle indennità risarcitorie nei licenziamenti, in MGL, 2018, 39 e ss. Cass., sez. un., 29 aprile 1985, n. 2762, in FI, 1985, I, 2247, con nota di D’Antona; il principio veniva ribadito anche dalla successiva Cass., 24 settembre 1988, n. 522, in NGL, 1988, 852, che onerava il datore di lavoro di provare oltre l’aliunde perceptum anche la sussistenza di un fatto colposo del lavoratore in relazione al danno che il medesimo avrebbe potuto evitare usando la normale diligenza; sulle peculiarità dei meccanismi risarcitori applicati al licenziamento illegittimo rispetto al diritto comune, si veda Cester, Tutela reale e tutela obbligatoria nei licenziamenti illegittimi, in Gragnoli, (a cura di), L’estinzione del rapporto di lavoro subordinato, CEDAM, 2017, 736 e ss. Cass., sez. un., 23 aprile 1987, n. 3975, in FI, 1987, I, 2059; in senso conforme, Cass., 23 dicembre 2011, n. 28703, in GC Mass, 2011, 12, 1851; Cass., 22 settembre 2011, n. 19286, in GLav, 2011, 45, 41; Cass., 14 settembre 2009, n. 19770, in MGL, 2010, 3, 192; Cass., 28 agosto 2007, n. 18146, in GC Mass, 2007, 10, 1322; Cass., 18 dicembre 2001, n. 15991, in MGL, 2002, 6, 86.

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chio art. 18 Stat. lav.»5, il legislatore ha optato per una graduazione delle tutele in ragione della gravità del vizio denunciato, stabilendo per ognuna di esse la “forbice” entro cui il Giudice potrà muoversi per quantificare, in concreto, l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore. Evidentemente, questa disciplina, che ripropone in gran parte la tecnica normativa già utilizzata per l’art. 8 della legge n. 604/1966, ha attribuito al Giudice un importante grado di discrezionalità6, che si è tentato di bilanciare con un «onere di specifica motivazione» in relazione alle circostanze del caso concreto che egli vorrà porre a fondamento della sua determinazione7. In questo scenario, una delle più rilevanti novità del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, è stata proprio quella di azzerare di fatto ogni margine di discrezionalità del Giudice, introducendo un sistema di quantificazione rigido che, pur confermando la tecnica dei minimi e dei massimi risarcibili, prevede che l’indennità cresca in modo direttamente proporzionale all’anzianità di servizio del lavoratore, con voluta esclusione di ogni altro ulteriore elemento di valutazione preso a riferimento dalla precedente normativa8. Il d.l. n. 87/2018, c.d. “Decreto Dignità”, non ha modificato questa tecnica, lasciando inalterata, almeno sotto questo profilo, la ratio della riforma. La più forte reazione9, invece, è stata proprio quella della Corte costituzionale, la quale, con l’affermata illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d. lgs. n. 23/2015, ha sostenuto due fondamentali assunti: il primo è che il meccanismo di determinazione dell’indennità risarcitoria prevista da tale norma imporrebbe un criterio di liquidazione legale forfettizzato, appiattito esclusivamente sul criterio dell’anzianità e non incrementabile, neppure fornendo prova dell’ulteriore pregiudizio subíto dal lavoratore nel caso concreto; il secondo è che tale meccanismo minerebbe la funzione dissuasiva dell’indennità, poiché essa non costituirebbe più un valido deterrente per il datore di lavoro che intenda licenziare senza una legittima giustificazione. Il presupposto logico di queste affermazioni, implicitamente rinvenibile nella pronuncia della Corte costituzionale, è che l’indennità da licenziamento illegittimo sia caratterizzata da quella “doppia anima”, per un verso risarcitoria e per l’altro sanzionatoria, come insegnano le Sezioni Unite della Suprema Corte, secondo cui il risarcimento di cui all’art. 18 Stat. lav., nella sua formulazione antecedente alla novella del 2012, aveva una «attitudine plurifunzionale», nel senso che riguardava «l’insieme delle attribuzioni patrimoniali volte a tenere indenne il lavoratore dalle conseguenze pregiudizievoli della sospensione del

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Pisani, Il licenziamento disciplinare: novità legislative e giurisprudenziali sul regime sanzionatorio, in ADL, 2015, 1, 97 e ss. De Luca Tamajo, La sentenza costituzionale 194 del 2018 sulla quantificazione dell’indennizzo per licenziamento illegittimo, in DLM, 2018, 3. Cfr. art. 18, comma 5, Stat. lav. Cfr. art. 3, 4, 6 e 9, del d.lgs. n. 23/2015. Proia, Le tutele contro i licenziamenti dopo la pronuncia della Corte costituzionale, in MGL, 2018, 197 e ss.; Perulli, La disciplina del licenziamento illegittimo di cui all’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 alla luce del c.d. “Decreto Dignità” e della sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, in Fiorillo - Perulli, “Decreto Dignità” e Corte costituzionale n. 194/2018, Giappichelli, 2019; Pisani, La Corte costituzionale e l’indennità per il licenziamento ingiustificato: l’incertezza del diritto “liquido”, in MGL, 2018, 149 e ss.

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rapporto di lavoro», conseguenze, queste, che non si esaurivano nella perdita delle retribuzioni, ma attenevano, altresì, alla lesione del dipendente nel suo diritto al lavoro10. Muovendo da questo presupposto logico la Corte costituzionale si è spinta ancora oltre, arrivando ad assumere che, per mantenere la coerenza con la suddetta doppia anima risarcitoria e sanzionatoria, l’unico criterio di determinazione possibile per l’indennità risarcitoria da licenziamento illegittimo sia quello della «personalizzazione del danno»11, che si vuole rimessa alla discrezionalità del Giudice, sia pure nell’ambito delle circostanze del caso concreto allegate dalle parti12. In ciò risiede, evidentemente, la portata innovativa della sentenza, che si è ispirata agli approdi, relativamente recenti, dalle note sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite13, la quale, nell’affrontare il delicato tema del risarcimento del danno non patrimoniale, ha esplorato, per la prima volta, il tema della personalizzazione del danno, sia quando esso derivi da un fatto illecito, sia quando scaturisca da un inadempimento contrattuale. Nell’impostazione delle Sezioni Unite, la personalizzazione del danno è un criterio che consente di superare la predeterminazione forfettaria del risarcimento del danno biologico, ovviando alla rigidità delle tabelle utilizzate per il suo calcolo e agli automatismi che consentivano di quantificare i danni morali ed esistenziali in un percentuale di esso14. D’altronde, nel nostro ordinamento già si rinvengono una serie di norme che mirano ad adeguare il ristoro del creditore al pregiudizio da lui effettivamente subíto. Così l’art. 1223 c.c. che impone di ristorare anche il mancato guadagno che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento che ha causato la perdita; l’art. 1224 c.c., che consente di provare il maggior danno da ritardo non coperto dagli interessi moratori di legge; l’art. 1225 c.c. che limita il risarcimento del danno a quanto effettivamente prevedibile; l’art. 1227 c.c. che limita il risarcimento in caso di fatto colposo del creditore; il tutto anche con possibilità di ricorrere all’equità integrativa da parte del Giudice qualora il danno non sia quantificabile nel suo preciso ammontare, ai sensi dell’art. 1226 c.c.

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Cass, sez. un.., 29 aprile 1985, n. 2762, cit.; in dottrina, Mazziotti, Il licenziamento illegittimo, Liguori Editore, 1982, 233 e ss.; Tosi, Spigolature di dottrina sulla sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale e sul suo “dopo”, cit. Sostengono, invece, che la funzione sanzionatoria e dissuasiva del datore di lavoro resti secondaria nella ricostruzione fornita dalla Corte, Ichino, Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento e l’indennizzo nella sentenza della Consulta, in RIDL, 2018, II, 1050, e M. T. Carinci, La Corte costituzionale ridisegna le tutele del licenziamento ingiustificato nel Jobs Act: una pronuncia destinata ad avere un impatto di sistema, ivi, 1059. 11 M. T. Carinci, La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele economiche per il licenziamento individuale ingiustificato nel “Jobs Act”, e oltre, cit. 12 Vallebona, Tutele crescenti: de profundis, in MGL, 2018, 251 e ss., il quale precisa che per l’anzianità di servizio l’onere spetta al lavoratore; per i dipendenti occupati e per la dimensione dell’attività economica l’onere spetta al datore in quanto parte più vicina alla prova (cfr. Cass., sez. un., 10 gennaio 2006, n. 141 relativa ai requisiti dimensionali previsti per il licenziamento); per il comportamento e condizioni delle parti l’onere spetta a ciascuna parte (ad es. il lavoratore può dedurre e provare la sua disoccupazione involontaria o il numero dei familiari a carico; il datore può dedurre e provare che gli introiti dell’azienda sono pochi o negativi); De Angelis, Sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale e giudizi pendenti: prime riflessioni, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 387/2019. 13 Cass., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975, in GI, 2009, 1, 61, con nota di Rescigno. In argomento vedi anche Cass., 7 giugno 2011, n. 12408, in RIDL, 2011, 11, 1041; Cass., 13 dicembre 2012, n. 22909, in GDir, 2013, 14, 67; Cass., 6 marzo 2014, n. 5243, in La Tribuna, Archivio giuridico della circolazione e dei sinistri stradali, 2014, 6, 614; Cass., 21 settembre 2017, n. 21939, inedita; Cass., 27 marzo 2018, n. 7513, in GDir, 2018, 17, 13. 14 Mosca, Immissioni intollerabili, la prova del danno esistenziale, in RCP, 2008, 2, 395.

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Si tratta, a ben vedere, di criteri di quantificazione non dissimili da quelli previsti, per il rapporto di lavoro, dall’art. 8 della l. n. 604/196615 e dall’art. 18, comma 5, Stat. lav.16: ad esempio, il criterio delle «condizioni delle parti», fra cui rientra anche la rioccupabilità del lavoratore, frequente messo in relazione con l’altro criterio della sua «anzianità di servizio», richiama evidentemente il concetto di mancato guadagno di cui all’art. 1223 c.c. Ovviamente, nel consueto dialogo tra le due branche del diritto17, le citate disposizioni lavoristiche vanno ben oltre i tradizionali princípi del risarcimento del danno da inadempimento delle obbligazioni, poiché fanno riferimento anche ad ulteriori circostanze peculiari ed esclusive del rapporto di lavoro, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, le dimensioni dell’attività economica e così via. Ma il senso non cambia, poiché la tecnica normativa è la medesima sia per la disciplina codicistica sia per quella speciale lavoristica: personalizzare il danno, e cioè individuare criteri per aumentare o diminuire il risarcimento in considerazione delle circostanze del caso concreto18. Questa funzione, come è noto, trova copertura costituzionale negli artt. 2, 3 e 24 Cost. e, segnatamente, nell’esigenza di tutelare in modo eguale situazioni analoghe ed in modo diseguale situazioni diverse. Ma la Costituzione non impone alcun criterio per raggiungere questo obiettivo; sicché il legislatore è libero, nella sua discrezionalità, di adottare il criterio ovvero i criteri che ritiene più opportuni al fine di assicurare la giustizia sostanziale del caso concreto. Tanto è vero che, prima della sentenza in commento, non si sono mai registrati dubbi interpretativi in relazione ai criteri per la personalizzazione dei danni patrimoniali; il problema semmai si era posto solo per i danni non patrimoniali, la cui personalizzazione è affidata a tabelle giurisprudenziali per la quantificazione del danno alla salute, non recepite in norme di diritto e, dunque, sguarnite di crismi di legalità, non essendo neppure collocabili nei fatti di comune esperienza di cui all’art. 115, comma 2, c. p. c.19. Inoltre, per una valutazione esaustiva sui criteri legislativi di personalizzazione del danno da licenziamento illegittimo, non va trascurato che essi servono a quantificare una mera «indennità», non qualificata come risarcitoria; mentre la personalizzazione del danno non patrimoniale è utile a trovare la misura di un vero e proprio risarcimento. Questa differenza terminologica non può essere sottaciuta, considerato che, per la dottrina civilistica il concetto di risarcimento e quello di indennizzo non sono affatto sinonimi,

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Nella versione modificata dall’art. 2, comma 3, della l. n. 108/90 e da intendersi integrata con i criteri stabiliti dall’art. 30, comma 3, della l. 4 novembre 2010, n. 183. 16 Nella versione modificata dall’art. 1, comma 42, lettera b), della l. n. 92/12. 17 In argomento si veda Mazzotta, Diritto del lavoro e categorie civilistiche, in RIDL, 1991, I, 35 e ss.; G. Santoro-Passarelli, (a cura di), Diritto del lavoro e categorie civilistiche, Giappichelli, 1992; F. Carinci, Diritto privato e diritto del lavoro, Giappichelli, 2007; Perulli, Diritto del lavoro e diritto dei contratti, in ADL, 2007, 429 e ss. 18 In argomento, sembrano invece individuare una notevole distanza fra diritto del lavoro e diritto comune Pedrazzoli, Licenziamenti soggettivi e oggettivi e sanzioni: una introduzione con le novità del «Collegato lavoro», in Pedrazzoli, (a cura di), Licenziamenti e sanzioni nei rapporti di lavoro, CEDAM, 2011, XXVI e ss.; Tosi, Spigolature di dottrina sulla sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale e sul suo “dopo”, cit. 19 Vidiri, La liquidazione del danno non patrimoniale: declino delle tabelle e necessaria personalizzazione del danno, in GC, 2011, 3, 141; Casola, Esonero da responsabilità del datore di lavoro e conseguenze processuali in tema di danno differenziale, in RIDL, 2009, I, 99 e ss.; in giurisprudenza, Cass., 11 aprile 2006, n. 8386, in GLav, 2006, 27, 35, con nota di Toffoletto.

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in quanto il secondo è caratterizzato dall’incidenza di circostanze speciali che inducono a discostarsi, in sede di liquidazione, dal riferimento al danno o a parte di esso, per ispirarsi, invece, ad esigenze di soddisfazione secondo criteri in tutto o in parte indipendenti20. Sicché, in questa logica, sarebbe ragionevole ritenere che l’interpretazione costituzionalmente orientata elaborata dalla giurisprudenza, si debba declinare diversamente a seconda che si tratti di risarcimento ovvero di mero indennizzo.

2. La “legittimazione comunitaria” della personalizzazione del danno e l’art. 24 della Carta Sociale Europea.

In assenza di una espressa copertura costituzionale, la pronuncia in commento, nel sindacare la discrezionalità del legislatore nella scelta del criterio di commisurazione dell’indennità di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015, ha fatto ricorso anche alle fonti sovranazionali, cercando di offrire alla propria pronuncia quella che, per comodità, si potrebbe definire la sua “legittimazione comunitaria”. Ed infatti, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, anche in riferimento agli art. 76 e 117 Cost., ritenendo che la potestà legislativa sarebbe stata esercitata in contrasto il principio del «congruo indennizzo» fissato dall’art. 24 della Carta Sociale Europea21, così come interpretato nella decisione n. 106/2014 del Comitato Europeo dei diritti sociali. Ma, a parere di chi scrive, le argomentazioni della sentenza non trovano conforto né nel tenore testuale nella norma comunitaria invocata, né tantomeno nella sua interpretazione ad opera del Comitato Europeo. In primo luogo, in un caso come quello di specie, la Corte sembra liquidare troppo sbrigativamente il complesso tema dell’idoneità della Carta Sociale Europea a costituire parametro di legittimità costituzionale limitandosi a rinviare, in argomento, alla sentenza della Corte costituzionale n. 120/201822. Ma il caso risolto da quella sentenza era completamente diverso, poiché lì la Corte aveva dichiarato illegittima una norma che vietava la costituzione di organizzazioni sindacali da parte del personale della Guardia di finanza, in contrasto con l’obbligo espresso, previsto dall’art. 5 della Carta, di non pregiudicare il diritto a costituire organizzazioni sindacali. In quel caso si trattava, insomma, di applicare una norma che poneva un obbligo ben preciso e non ulteriormente declinabile, come tale direttamente applicabile nell’ordinamento

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Pisani, La Corte costituzionale e l’indennità per il licenziamento ingiustificato: l’incertezza del diritto liquido, cit., il quale richiama Caricato, Danno e indennità, Giappichelli, 2012, 18 e 117, Scognamiglio, voce Indennità, in Noviss. Dig. It.,VIII, Giappichelli, 1968, Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. III, parte I, tomo II, Milano, 1954, 512, Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Giuffrè, 1991, 146, G. Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, ESI, 1960, 186. 21 Cfr. Carta Sociale Europea di Strasburgo del 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva nel nostro ordinamento con Legge 9 febbraio 1999, n. 30. 22 C. cost., 13 giugno 2018, n. 120, in FI, 2018, I, 2581.

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nazionale per il tramite dell’art. 117 Cost., che, come è noto, funge da porta di ingresso del diritto comunitario nel nostro ordinamento23. Nel caso di specie, invece, si trattava di applicare una norma a precetto generico («congruo indennizzo») che, isolatamente considerata, non è dirimente nella valutazione sull’adeguatezza del metodo di calcolo dell’indennità prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015. Ed infatti, il principio generale fissato dalla Carta Sociale, pur confermando uno stretto collegamento fra la regola di giustificazione necessaria e le sanzioni per la sua violazione, non indica quale debba essere il grado di incisività di queste ultime, lasciando ampio spazio, dunque, a quel rispetto per le «legislazioni e prassi nazionali», espressamente affermato dall’art. 30 della Carta di Nizza, anch’esso in tema di licenziamento ingiustificato24. Questa estrema eterogeneità fra le due norme della Carta Sociale, venute in questione, rispettivamente, nella sentenza in commento e in Corte cost. n. 120/2018, non può passare inosservata, soprattutto se si considera che la Carta Sociale Europea non è normativa recepita dai Trattati, né è contenuta in regolamenti o direttive self executing, ma è un atto proveniente dal Consiglio Europeo, e cioè da un organo deputato ad «assicurare in modo permanente l’impulso politico necessario alla costruzione europea»25. Pertanto la Carta è un atto di natura tipicamente programmatica, con cui il Consiglio Europeo stabilisce linee di orientamento per la futura attività di normazione delle istituzioni comunitarie26. Tanto è vero che, al momento dell’approvazione della Carta, il Parlamento europeo, il Comitato economico e sociale e le organizzazioni sindacali dei lavoratori avevano sostenuto la necessità di utilizzare strumenti diversi e più incisivi, quali la direttiva27. E lo stesso CNEL ebbe a sostenere che la Carta, in sostanza, sarebbe «un esempio di platonismo giuridico: schemi astratti di buone intenzioni che non riescono (o stentano) a concretarsi in provvedimenti di efficacia reale»28. Probabilmente il giudizio è troppo severo, perché in alcune materie disciplinate dalla Carta Sociale, ad esempio l’orario di lavoro, le istituzioni comunitarie hanno poi effettivamente legiferato, imponendo agli Stati membri obblighi uniformi29 che, nel nostro ordinamento sono stati recepiti dal noto d.lgs. n. 66/2003. In altri casi, invece, fra cui, appunto, le conseguenze sanzionatorie del licenziamento individuale illegittimo, l’Unione europea è rimasta ancora inerte; sicché i princípi fissati

23

Per tutti, cfr. Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, Giappichelli, 2016, 271 e ss. Per questa ricostruzione si veda, per tutti, Cester, Tutela reale e tutela obbligatoria nei licenziamenti illegittimi, cit., 733 e ss., il quale, infatti, ribadisce l’inesistenza di incompatibilità fra ordinamento interno e normativa comunitaria in relazione al regime di tutele apprestato, individuando l’unico possibile terreno di scontro, sul piano della giustificazione, nell’area del recesso ad nutum; in senso contrario, De Simone, Quale stabilità per chi: la giustificazione delle tutele differenziate, in Ballestrero (a cura di), La stabilità come valore e come problema, Giappichelli, 2007, 53; Suppiej, Controllo dei licenziamenti e rappresentanze dei lavoratori, in RIDL, 2003, I, 402 e ss.; Valentini, Licenziamento e reintegrazione. Il dialogo tra giurisprudenza e dottrina, Giappichelli, 2007, 36. 25 Vertice di Parigi del 1972, in Boll. Cee, 1972, 2, 9. 26 La Macchia, La Carta comunitaria dei diritti sociali, in DLRI, 1990, 4, 48, 769 e ss. 27 Parlamento europeo, Risoluzione del 15.3.1989, in G.U.com.eur., C. 96, 17.4.89, 61; 14.9.1989, ivi, C. 120, 16.5.89, p. 5. 28 CNEL, Memorandum su “I problemi di definizione ed attuazione della Carta Sociale Europea”, sessione del 12.12.1989, relatore Crea, p. 9. 29 Cfr. Direttive 93/104/CE e 2000/34/CE e 2003/88/CE. 24

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nella Carta Sociale, in relazione a questi aspetti, rimangono meri precetti di indirizzo politico rivolti alle istituzioni comunitarie. Già solo questo aspetto sarebbe più che sufficiente e mettere seriamente in discussione il richiamo operato dalla Corte costituzionale. Ma anche ove si volesse erroneamente sostenere che l’art. 24 della Carta Sociale Europea possa costituire, anche in tema di sanzioni per licenziamento illegittimo, parametro di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117 Cost., il problema dell’estrema genericità della norma si riproporrebbe sul piano dell’interpretazione, poiché questa genericità rende impossibile un giudizio di legittimità costituzionale senza richiamare altri valori, come l’uguaglianza, la ragionevolezza il diritto al lavoro, e cioè quei valori da cui la Corte ha già desunto l’insufficienza dell’indennizzo previsto dal d.lgs. n. 23/2015. Ma, se è così, allora il giudizio di legittimità in riferimento alla Carta Sociale si risolve, in definitiva, in giudizio riferito agli artt. 3 e 4 Cost., già esaminati dalla sentenza30, e non vi è alcuna ragione di ricorrere alla Carta Sociale, se non, come si diceva prima, per fornire una sorta di legittimazione comunitaria all’iter motivazionale della pronuncia.

3. (Segue): la “legittimazione comunitaria” della

personalizzazione del danno e il parere del Comitato Europeo dei diritti sociali. La Corte costituzionale non sembra ignorare i limiti applicativi dell’art. 24 della Carta Sociale Europea, tanto è vero che per dare un qualche contenuto concreto al precetto generico «congruo indennizzo», è obbligata a richiamare una decisione del Comitato europeo dei diritti sociali, la n. 106/2014, che appunto ne riguardava l’applicazione in riferimento all’ordinamento finlandese. Senonché, prima ancora di esaminare i contenuti della suddetta decisione, occorre interrogarsi sugli effetti che essa può spiegare sul piano interno. La Corte costituzionale, sul punto, ricorre a sofisticati equilibrismi: da un lato, riconosce che le decisioni del Comitato non vincolano i giudici nazionali, in base alla citata sentenza n. 120/2018, dall’altro, afferma che la sentenza medesima avrebbe riconosciuto l’autorevolezza di tali decisioni. Ma il punto non è affatto pacifico, come dimostra il fatto che la questione è discussa anche in seno alle Nazioni Unite 31. Infatti l’autorevolezza cui si riferisce la suddetta sentenza n. 120/2018 è pur sempre un’autorevolezza nell’indirizzo di politica giuridica, poiché è pacifico che il Comitato non ha alcun potere decisorio.

30

Orlandini, Le fonti di diritto internazionale nella sentenza n. 194/2018, in Andreoni - Fassina, La sentenza della Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti: quali orizzonti?, I Seminari della Consulta giuridica della CGIL, 2019, 2, 103 e ss. 31 Cfr. UN Doc. A/73/10 Report of the International Law Commission, Seventieth Session (30 April -1 June and 2 July – August 2018), specie Conclusion n. 13.

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Tanto è vero che, in quella sentenza, il riconoscimento dell’autorevolezza delle decisioni del Comitato si è accompagnato ad una serie di puntualizzazioni che ne limitano fortemente l’impatto nell’ordinamento italiano. Più in particolare, è stato puntualizzato che si tratta di «principi ad attuazione progressiva», evocando la distinzione tra diritti fondamentali di prima e di seconda generazione, è che il Comitato è un organo non giurisdizionale, le cui decisioni (al contrario di quelle della CEDU) non costituiscono res giudicata e non possono quindi ritenersi vincolanti per la Corte, per quanto autorevoli. Ragion per cui, in quel caso, la Corte ha potuto semplicemente ignorarle. Anche la dottrina maggioritaria ritiene che il giudice nazionale può agevolmente scegliere di non adeguarsi alla giurisprudenza del Comitato, motivando in senso difforme alle decisioni di quest’ultimo32; mentre non ha trovato riscontro, neppure nella pronuncia in commento, la tesi contraria formulata da una parte della dottrina costituzionalistica, secondo cui le pronunce del Comitato sono vincolanti, sia perché il Comitato è l’unico organo istituzionalmente deputato ad interpretare la Carta, sia perché quelle pronunce - pur di carattere non propriamente giurisdizionale e sprovviste di sanzioni - sono emesse all’esito di specifiche procedure finalizzate ad accertare la violazione degli obblighi previsti dalla Carta33. In buona sostanza, le decisioni del Comitato sono una sorta di parere meramente consultivo, che viene trasmesso al Consiglio Europeo, il quale, solo se lo ritiene opportuno, può raccomandare allo Stato di prendere specifiche misure per adeguare la propria legislazione alla Carta Sociale Europea. Si tratta, dunque, di una decisione non definitiva, che si inserisce in un procedimento più ampio, cui può far seguito, ipoteticamente, una presa di posizione da parte delle istituzioni europee, ma pur sempre con atti non vincolanti e di semplice indirizzo politico34. Tanto è vero che la Finlandia, ad oltre quattro anni da quella decisione, non ha ricevuto alcuna raccomandazione; sicché la decisione cui si è ispirata la Corte costituzionale non ha mai avuto alcun seguito, e ciò dimostra che essa è priva anche della sua basilare funzione di indirizzo politico, non essendo stata trasfusa in alcuna raccomandazione neppure dall’organo comunitario deputato a darvi attuazione, e cioè il Consiglio Europeo. In altri Stati dell’Unione Europea, che pure hanno adottato meccanismi sanzionatori di tipo economico non dissimili da quelli del d.lgs. n. 23/2015, nella sua originaria formulazione, la compatibilità con l’ordinamento comunitario non è mai neppure stata messa in discussione35.

32

Amoroso, Sull’obbligo della Corte costituzionale italiana di prendere in considerazione le decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali e Russo, La definizione del parametro di costituzionalità fondato sulla Carta sociale europea: il valore delle pronunce del Comitato europeo dei diritti sociali, entrambi in Interventi al Seminario La normativa italiana sui licenziamenti; quali compatibilità con la Costituzione e la Carta sociale europea?, Ferrara, 28 giugno 2018, 81 e ss. e 128 e ss. 33 Panzera, Diritti ineffettivi? Gli strumenti di tutela della Carta sociale europea, in AIC, 2017, 1. 34 Straziuso, La carta sociale del consiglio d’europa e l’organo di controllo: il Comitato europeo dei diritti sociali. Nuovi sviluppi e prospettive di tutela, Atti del Convegno annuale dell’Associazione “Gruppo di Pisa”, Trapani, 8-9 giugno 2012. 35 Pedrazzoli, Regole e modelli del licenziamento in Italia e in Europa. Studio comparato, in GDLRI, 2014, 3 e ss.; Tullini, Riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello giudiziale di controllo, in RIDL, 2013, I, 150.

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Ma anche a voler prescindere dall’analisi delle fonti del diritto comunitario, ed entrando nel merito della suddetta decisione del Comitato Europeo, le conclusioni non cambiano. Nelle motivazioni del provvedimento si legge infatti che l’indennizzo sarebbe congruo «se è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un valido motivo e da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustificatamente». Ebbene, neppure dalla lettura di questo passaggio si ricava alcun principio da cui desumere che l’indennizzo previsto dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 non sia «adeguato», trattandosi di una mera enunciazione di principio, alla stregua della quale il Comitato riteneva insufficiente le sanzioni dell’ordinamento finlandese, già inferiori a quelle italiane, in quanto non prevedevano una tutela rafforzata per i casi più gravi di illegittimità del licenziamento, ad eccezione della disciplina sulle discriminazioni, comunque ritenuta troppo residuale. Ma nel nostro ordinamento questa criticità non sussiste, perché sia i licenziamenti per giustificato motivo disciplinare che quelli per motivo oggettivo godono della tutela piena dell’art. 2, e non solo nel caso del licenziamento discriminatorio, ma anche in tutti gli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge. Il licenziamento per motivo disciplinare, inoltre, gode anche della tutela reale a risarcimento limitato di cui all’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015. Sicché l’ordinamento finlandese, sul punto, non è sovrapponibile a quello italiano, e l’automatica estensione della decisione del Comitato anche al d.lgs. n. 23/2015, senza ulteriori specificazioni, non appare condivisibile. Tanto è vero che la CGIL, nonostante il precedente finladese, aveva presentato un reclamo collettivo al Comitato europeo dei diritti sociali, affinché quest’ultimo prendesse posizione in relazione ai medesimi temi poi affrontati dalla Corte costituzionale con la sentenza in commento36. Ciò posto, non si intende qui ignorare che il processo di integrazione europea tende naturalmente ad un’integrazione delle fonti e dei sistemi37, con quell’inevitabile impatto sulle decisioni dei giudici nazionali che si declina, di volta in volta, in un vincolo penetrante nei confronti delle sentenze della Corte di giustizia38, passando per il più blando rispetto della “sostanza” delle sentenze della Corte di Strasburgo39, fino ad arrivare al mero obbligo “di prendere in considerazione” le decisioni del Comitato nell’interpretazione della Carta sociale europea.

36

Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) v. Italia, Complaint No. 158/2017. 104. Ruggeri, L’interpretazione conforme e la ricerca del sistema di sistemi come problema, in www.Associazione italianacostituzionalisti. it, 2, 2014, 1 e ss. 38 C. giust., 29 aprile 1999, causa C-224/97, punti 26 e seguenti. 39 La Corte costituzionale italiana, a partire dal 2009 (con riferimento alla CEDU), ha precisato, ad esempio, che il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla “giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente” (C. cost., 19 luglio 2011, n. 263; C. cost., 26 novembre 2009, n. 311) “in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza” (Cfr. C. cost., 26 novembre 2009, n. 311, C. cost., 9 novembre 2011, n. 303), fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro (Cfr. C. cost., 23 gennaio 2012, n. 15; C. cost., 30 novembre 2009, n. 317). 37

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Anzi, occorrerebbe riflettere sul fatto che proprio l’esigenza di una valorizzazione dei risultati ermeneutici delle decisioni del Comitato, che ponga queste ultime in un circuito di decisioni che concorrono, nel loro integrarsi, ad assicurare le garanzie predisposte da un ordinamento complesso, impone all’interprete fedele di valutare attentamente, caso per caso, se il precedente trattato nella decisione del Comitato europeo è davvero conferente ed applicabile nel giudizio interno. Diversamente, se non sussiste alcuna esigenza di armonizzare fattispecie tra loro dissimili, viene meno altresì l’auspicata influenza del precedente europeo nel diritto interno.

4. Le possibili conseguenze delle affermazioni della Corte costituzionale.

L’approccio utilizzato dalla Corte costituzionale nell’affrontare il tema dei rapporti con la Carta Sociale e con la giurisprudenza del Comitato Europeo suggerisce ulteriori spunti di riflessione. Invero, se volessimo guardare “oltre la siepe”, scopriremmo che per molte norme dell’ordinamento lavoristico, il confronto/scontro con i precetti generali della Carta Sociale Europea, potrebbe risolversi in nuove censure di illegittimità costituzionale. Il fenomeno, secondo alcuni sarebbe positivo40, secondo altri rischia di risolversi in un potenziale conflitto fra sistemi che «attenua, inevitabilmente, il principio della certezza del diritto per la determinante ragione che ha un ordine sempre precario»41. Per esigenze di sintesi è opportuno soffermarsi solo su alcuni casi eclatanti, ma il catalogo delle norme interessate potrebbe essere ben più ampio: E così, l’art. 42, comma 5, lett. b) del d.lgs. n. 81/2015, che consente di sottoinquadrare l’apprendista, anche a fini economici, potrebbe essere incostituzionale, perché in contrasto con l’art. 7 della Carta Sociale Europea che, per questi lavoratori, richiede una retribuzione «equa», senza alcuna distinzione rispetto alla retribuzione del lavoratore già formato di cui al precedente art. 2 della Carta medesima; tutto ciò, peraltro, con gravissimi effetti dissuasivi per l’utilizzo di uno schema contrattuale che, ad oggi, costituisce una delle forme privilegiate per l’accesso al lavoro. Anche l’art. 4, comma 4, del d.lgs. n. 68/1999, che impone al datore di lavoro di ricollocare i lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle mansioni solo “ove possibile” potrebbe essere incostituzionale, perché in contrasto con l’art. 15 della Carta Sociale Europea che, invece, impone la «creazione di posti di lavoro protetti in funzione del grado di incapacità».

40 41

Orlandini, Le fonti di diritto internazionale nella sentenza n. 194/2018, cit. Persiani, La sentenza della Corte Cost. n. 194/2018. Una riflessione sul dibattito dottrinale, in LavoroDirittiEuropa, 2019, 1, il quale richiama Cosio, La sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale e l’ordinamento complesso, ivi; Vidiri, La sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018: tra certezza del diritto ed ordinamento complesso (tanto rumore per nulla), ivi.

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Perfino l’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 23/2015, che ha abolito la tanto esecrata procedura preventiva di conciliazione per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, potrebbe essere dichiarato incostituzionale, perché in contrasto con l’art. 21 della Carta Sociale, che, invece, impone che i lavoratori debbano essere «consultati in tempo utile sulle decisioni previste che potrebbero pregiudicare sostanzialmente i loro interessi, in particolar modo quelle che potrebbero avere conseguenze importanti sulla situazione del lavoro nell’impresa». Anche il d.lgs. 66/2003, pur emanato in attuazione di direttive comunitarie, potrebbe essere dichiarato incostituzionale relativamente agli artt. 3, 4 e 10, in materia di durata settimanale dell’orario di lavoro e ferie, perché in contrasto sia con l’art. 2, comma 1, della Carta Sociale che impone, invece, «una durata ragionevole» funzionale a «ridurre gradualmente la settimana lavorativa», sia con il successivo comma 4, che impone «una riduzione della durata del lavoro e ferie retribuite supplementari» per coloro che svolgono «lavori pericolosi o insalubri». E si potrebbe continuare ulteriormente in relazione alle “pause sufficienti” per le lavoratrici madri in allattamento, ovvero al diritto al lavoro per gli anziani, ovvero ancora, al diritto di sciopero ed alla Legge n. 146/90, da anni oggetto di censura da parte del Comitato per contrasto con l’art. 6, par. 4, della Carta Sociale. Sicché, in definitiva, l’argomentazione della Corte costituzionale, animata dall’intento di favorire il lavoratore illegittimamente licenziato, potrebbe teoricamente avere conseguenze inattese sulla posizione soggettiva del lavoratore ancora in servizio.

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Giurisprudenza commentata



Giurisprudenza C orte di Giustizia UE, sentenza 13 dicembre 2018, causa C-385/17; Pres. Von Danwitz – Rel. Lycourgos – Avv. Gen. Bobek – T. Hein (Avv. Eidinger) c. A. Holzkamm Gmbh (Avv. Brehm e Witten). Retribuzione delle ferie – Contratto collettivo – Previsione della riduzione della retribuzione per disoccupazione parziale – Illegittimità.

L’art. 7, par. 1, della dir. 2003/88/CE nonché l’art. 31, par. 2, della Carta di Nizza devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, ai fini del calcolo dell’indennità per ferie retribuite, consente di prevedere con contratto collettivo che siano prese in considerazione le riduzioni di retribuzione risultanti dall’esistenza, durante il periodo di riferimento, di giorni in cui, a causa di disoccupazione parziale, non sia prestato lavoro effettivo, circostanza che ha come conseguenza che il dipendente percepisce, per la durata delle ferie annuali minime, un’indennità per ferie retribuite inferiore alla retribuzione ordinaria che egli riceve durante i periodi di lavoro. (1)

Corte di cassazione, ordinanza 10 gennaio 2019, n. 451; Pres. Bronzini – Est. Cinque – P.M. Patrone – C.C. (Avv. Proietti) c. I. (Avv. Maresca e Boccia). Licenziamenti – Reintegrazione nel posto di lavoro – Diritto a percepire l’indennità sostitutiva delle ferie per il periodo intermedio – Rimessione alla CGUE.

Occorre sottoporre alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE: se l’art. 7 par. 2 della direttiva 2003/88 e l’art. 31 punto 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, anche separatamente considerati, debbano essere interpretati nel senso che ostino a disposizioni o prassi nazionali in base alle quali, cessato il rapporto di lavoro, il diritto al pagamento di una indennità pecuniaria per le ferie maturate e non godute (e per un istituto giuridico quale le cd. “Festività soppresse” equiparabile per natura e funzione al congedo annuale per ferie) non sia dovuto in un contesto in cui il lavoratore non abbia potuto farlo valere, prima della cessazione, per fatto illegittimo (licenziamento accertato in via definitiva dal giudice nazionale con pronuncia comportante il ripristino retroattivo del rapporto lavorativo) addebitale al datore di lavoro, limitatamente al periodo intercorrente tra la condotta datoriale e la successiva reintegrazione. (2) (1) Sulle questioni pregiudiziali. – Omissis. Occorre ricordare, in via preliminare, da un lato, che, come emerge dalla stessa formulazione dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, disposizione alla quale tale direttiva non consente di derogare, ogni lavoratore beneficia di un diritto alle ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane, diritto che, secondo giurisprudenza costante della Corte, deve essere conside-

rato come un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione (sentenza del 20 luglio 2016, Maschek, C-341/15, EU:C:2016:576, punto 25 e giurisprudenza ivi citata). Tale diritto, conferito a ciascun lavoratore, è espressamente sancito all’articolo 31, paragrafo 2, della Carta, alla quale l’articolo 6, paragrafo 1, TUE riconosce lo stesso valore giuridico dei Trattati (Omissis).


Giurisprudenza

Dall’altro lato, si deve rilevare che la direttiva 2003/88 tratta il diritto alle ferie annuali e quello all’ottenimento di un pagamento a tale titolo come due aspetti di un unico diritto (omissis). Per quanto riguarda, in secondo luogo, la retribuzione che deve essere versata al lavoratore a titolo del periodo di ferie annuali minime garantite dal diritto dell’Unione, la Corte ha già avuto occasione di precisare che l’espressione «ferie annuali retribuite», di cui all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, significa che, per la durata delle «ferie annuali», ai sensi di tale direttiva, la retribuzione deve essere mantenuta; in altre parole, il lavoratore deve percepire la retribuzione ordinaria per tale periodo di riposo (Omissis). Infatti, l’obbligo di pagare queste ferie è volto a mettere il lavoratore, in occasione della fruizione delle stesse, in una situazione che, a livello retributivo, sia paragonabile ai periodi di lavoro. (Omissis) (2) La motivazione del rinvio. – La necessità di adire in via pregiudiziale la Corte di Giustizia è dovuta alla prospettazione di una questione sottoposta a questa Suprema Corte – giudice di ultima istanza e, quindi, obbligato ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (già art. 234 del Trattato che istituisce la Comunità Europea) al rinvio pregiudiziale – che: a) riguarda l’interpretazione dell’art. 7 (par. 2) della direttiva 2003/88 nonché dell’art. 31 punto 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, congiuntamente o autonomamente considerati; b) è rilevante ai fini della decisione della controversia; c) non può essere decisa alla stregua di precedenti sentenze della CGUE non essendo la sua esegesi autoevidente in quanto sullo specifico punto sussistono dubbi interpretativi. Il problema interpretativo (omissis) riguarda il riconoscimento del diritto al pagamento dell’indennità sostitutiva delle ferie e dei permessi per festività soppresse, maturate e non godute, per fatto imputabile al datore di lavoro (licenziamento dichiarato illegittimo con provvedimento definitivo dell’AG) con riguardo al periodo intercorrente tra il recesso e la successiva reintegra. È opportuno premettere che, secondo la costante giurisprudenza del diritto dell’Unione, il diritto alle ferie retribuite di almeno quattro settimane deve essere considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione – Omissis. Ad esso non si può derogare e la sua attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88 (omissis). Tale diritto, conferito a ciascun lavoratore, è espressamente sancito dall’art. 31, paragrafo 2, della Carta,

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alla quale l’art. 6, paragrafo 1 TUE, riconosce lo stesso valore giuridico dei Trattati (omissis). Da quanto riportato può, quindi, evincersi, a parere del Collegio, che tra diritto alle ferie retribuite ed espletamento dell’attività lavorativa durante il periodo di riferimento, non vi è un netto automatismo e, comunque, possono incidere fattori esterni non imputabili al lavoratore ai fini del riconoscimento di una indennità sostitutiva (omissis). In tema di licenziamento va, poi, evidenziato che la giurisprudenza italiana è consolidata nel ritenere che, accertata in sede giudiziaria l’illegittimità del recesso, ove trovi applicazione la tutela reale, il dipendente ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro. La sentenza che dispone la reintegrazione del lavoratore ha efficacia ripristinatoria del rapporto di lavoro nel senso che questo deve intendersi ricostituito ad ogni fine giuridico ed economico sulla base della sola pronuncia del giudice, senza la necessità di un atto di riassunzione da parte del datore di lavoro. Invero, l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento ed il conseguente ordine di reintegrazione ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18 comportano la ricostituzione “de iure” del rapporto di lavoro il quale va considerato, quindi, come mal risolto. A seguito e per effetto della pronuncia dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento, il rapporto di lavoro tra le parti deve ritenersi ripristinato e, d’altra parte, se così non fosse, non sarebbe possibile l’intimazione di un secondo licenziamento (cfr. tra le altre, Cass. 29.1.2008 n. 2139; Cass. 20.9.2005 n. 18497). È stato, poi, affermato (da ultimo Cass. 29.11.2016 n. 24270) che, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, l’attribuzione al lavoratore delle retribuzioni percepite dalla data di intimazione del licenziamento fino all’esercizio del diritto di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione non comprende l’indennità sostitutiva delle ferie non godute, né i permessi per riduzione mensile dell’orario di lavoro, attesa la loro natura sia risarcitoria che retributiva, che spettano unicamente nel caso in cui il lavoratore, essendo in servizio effettivo, abbia svolto la propria attività nel corso di tutto l’anno senza fruirne, in quanto il dipendente licenziato, nel periodo intercorrente tra il recesso e l’esercizio dell’opzione per l’indennità, si trova in una situazione, sia pure “forzata” di riposo. Alla stregua di tale stato della normativa e della giurisprudenza del diritto dell’Unione ed italiana, il dubbio interpretativo che si pone è quello, pertanto, di accertare se, in un contesto in cui il rapporto di lavoro, sospeso per fatto illegittimo addebitabile alla parte datoriale ma formalmente in atto, in virtù di un provvedimento giurisdizionale definitivo con efficacia ex tunc, il lavoratore, il quale non abbia potuto espletare la propria prestazione per un accadimento non imputabile ad esso, abbia o meno diritto al pagamento della indennità sostitutiva per le ferie maturate ma


Caterina Mazzanti

non godute, limitatamente al periodo intercorrente tra il recesso e la reintegrazione: ciò a tutela di un diritto fondamentale del diritto sociale dell’Unione, riconosciuto dall’art. 31 paragrafo 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, di cui è titolare e che non ha potuto esercitare.

Tale ultima disposizione si pone, altresì, quale ulteriore parametro di necessaria considerazione, cui la Direttiva 2003/88 dà espressione concreta. (Omissis).

Il diritto alle ferie retribuite nel dialogo tra la Corte di Giustizia dell’Unione europea e la giurisprudenza nazionale Sommario : 1. I casi. – 2. Premessa. Le due pronunce a confronto. – 3. Il diritto alle ferie come diritto sociale fondamentale alla luce dell’art. 31, par. 2, Carta di Nizza. – 4. La maturazione del diritto alle ferie. – 5. Gli effetti del mancato svolgimento della prestazione lavorativa sul diritto alle ferie retribuite. – 6. Osservazioni conclusive.

Sinossi. Il commento affronta il tema del diritto alle ferie retribuite nell’ordinamento europeo. L’autrice si sofferma su due aspetti principali. Il primo, rappresentato dal significativo richiamo, da parte delle due pronunce in esame, dell’art. 31, par. 2, Carta di Nizza, disposizione che offre un utile spunto di riflessione in merito al generale profilo delle fonti dell’ordinamento europeo e alla rilevanza che in esso assume la Carta di Nizza. Il secondo, relativo alla relazione tra prestazione lavorativa e maturazione del diritto alle ferie, rapporto che, se considerato alla stregua di un nesso automatico di causa-effetto, porta a limitare sensibilmente o ad escludere la maturazione del predetto diritto per i periodi nei quali il lavoratore non abbia effettivamente lavorato. Abstract. The pronounces deal with the topic of the right to paid leave from the perspective of European Law. The author analyzes two main aspects. The first, represented by the significant reference, by the two decisions in question, to art. 31, par. 2, Charter of Nice. Through the overmentioned norm it is possible to reflect on the importance that the Charter of Nice assumes in the European legal framework. The second, consisting in the connection between work performance and right to leave, a relationship which, if considered as an automatic cause-effect link, leads to a significant limitation or exclusion of the aforementioned right for the periods in which the worker has not actually worked.

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Giurisprudenza

1. I casi. Il presente contributo intende analizzare congiuntamente le pronunce riportate in epigrafe, relative al tema del diritto alle ferie annuali retribuite nella prospettiva dell’ordinamento europeo. Con la prima sentenza, la Corte di Giustizia dell’Unione europea è stata chiamata a dirimere una controversia inerente al metodo di calcolo della cosiddetta «indennità per ferie retribuite» stabilita dalla legge tedesca (Mindesturlaubgesetz für Arbeitnehmer), in forza della quale si deve avere riguardo alla retribuzione lorda percepita nelle ultime 13 settimane. Nel computo della predetta indennità non devono, invece, essere considerate le eventuali diminuzioni retributive dovute ai periodi di disoccupazione parziale. Tuttavia, il legislatore ha previsto che la contrattazione collettiva dell’edilizia può tenerne conto per rispondere a particolari esigenze del settore, con la conseguenza che l’indennità per ferie retribuite ammonta, nel caso in cui il lavoratore si sia trovato in disoccupazione parziale per un determinato periodo di tempo, ad un importo inferiore rispetto a quella percepita in presenza del normale regime lavorativo. Tale circostanza si riscontra anche nel caso che interessa il ricorrente il quale, nel corso del 2015, a causa della disoccupazione parziale, non lavora per ventisei settimane. Tra il 2015 e il 2016 beneficia, in particolare, di trenta giorni di ferie, che corrispondono alle ferie minime riconosciute dalla legge tedesca, durante le quali la relativa indennità subisce una sensibile contrazione, a causa dei lunghi periodi di inattività, che vengono computati nella predetta base di calcolo, in forza di quanto disposto dal citato contratto collettivo di categoria. La paventata contrarietà della disciplina nazionale rispetto a quella europea induce i giudici chiamati a decidere la causa a disporre un rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia. In questa sede si chiede se gli artt. 7, dir. 2003/88/CE e 31, par. 2, Carta di Nizza ostino ad una normativa interna che consente al contratto collettivo di considerare nella base di calcolo della retribuzione per ferie le riduzioni retributive conseguenti alla disoccupazione parziale, con la conseguenza che il lavoratore riceverà, per la durata delle ferie annuali minime di quattro settimane, un’indennità per ferie annuali inferiore. I giudici di Lussemburgo rispondono positivamente al quesito, evidenziando che la regola sancita dalla normativa nazionale comporta una significativa lesione del diritto alle ferie del lavoratore. Da qui la necessità che il giudice del rinvio, in generale tenuto ad interpretare la normativa nazionale in modo conforme a quella comunitaria, riconosca al ricorrente una retribuzione per ferie retribuite non inferiore a quella percepita in presenza del normale regime lavorativo, alla luce dei richiamati artt. 7, dir. 2003/88/CE e 31, par. 2, Carta di Nizza. La seconda pronuncia in commento, l’ordinanza di rimessione n. 451/2019 della Corte di cassazione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, riguarda la complessa vicenda di una lavoratrice licenziata illegittimamente e successivamente reintegrata. La ricorrente, che all’epoca della causa non lavorava più alle dipendenze della società convenuta, sostiene di avere diritto alla corresponsione dell’indennità per ferie retribuite maturate nel periodo intermedio tra i due eventi. La pretesa si fonda su due rilievi. ll primo, secondo cui la retro-

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attività dell’annullamento del licenziamento comporterebbe la ricostituzione del rapporto a partire dal momento del recesso stesso, in forza del regime disposto per la nullità di diritto comune, applicabile anche a tale fattispecie, da cui discenderebbe la maturazione delle ferie. Il secondo, alla luce del quale il mancato svolgimento della prestazione lavorativa nella descritta fase intermedia, che in linea generale determinerebbe l’esclusione del diritto in questione, è imputabile ad un atto illegittimo del datore di lavoro. La singolarità del caso ha suggerito alla Corte di cassazione – che tradizionalmente esclude la sussistenza delle ferie in assenza di attività lavorativa1 – ad aprirsi al confronto con la Corte di Giustizia dell’Unione europea. Con l’ordinanza in commento chiede ai giudici europei se gli artt. 7, dir. 2003/88/CE e l’art. 31, paragrafo 2, Carta di Nizza, anche separatamente considerati, ostino a disposizioni o a prassi nazionali che negano il diritto al pagamento di una indennità pecuniaria per le ferie maturate e non godute nella fase intercorrente tra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione in ragione del fatto che in tale fase il lavoratore non ha lavorato. Significativo è il rilievo secondo cui, in particolare, la mancata prestazione lavorativa è imputabile ad un comportamento illegittimo del datore di lavoro e non, quindi, al lavoratore. Occorre sin d’ora evidenziare la singolarità della scelta operata dai giudici di legittimità, Innanzitutto, la Corte di cassazione, anziché rivolgersi alla Corte costituzionale, attenendosi all’obiter dictum della recente sentenza n. 269/2017 della Consulta2, ha optato per la diversa via del ricorso ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia. Sul punto, ci si soffermerà anche in conclusione. Inoltre, la questione pregiudiziale è formulata ricorrendo a due parametri normativi da considerare anche separatamente, l’art. 7, dir. 88/2003/CE e il meno frequente art. 31, par. 2, Carta di Nizza.

2. Premessa. Le due pronunce a confronto. Le due pronunce offrono l’occasione per formulare alcune riflessioni in merito al diritto alle ferie nel quadro dell’ordinamento europeo e al possibile ampliamento della sua portata grazie all’intervento della Corte di Giustizia. Due sono i profili di maggiore interesse, che rappresentano il fil rouge esistente tra i due provvedimenti. Il primo concerne il piano generale delle fonti del diritto. Al riguardo, a destare particolare interesse è il riferimento alla Carta di Nizza, piuttosto inusuale nella prassi generale3. È noto che la citata Carta, che rappresenta la sintesi delle tradizioni costituzionali comuni ai singoli stati membri4, nell’art. 31, par., 2 include il diritto alle ferie all’interno del nove-

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Cass., 8 luglio 2008, n. 18707 in GC Mass., 2008, 1111; Cass., 23 ottobre 2000, n. 13953, in GC Mass. 2000, 2165; Cass., 5 maggio 2000, n. 5624, in GC Mass., 2000, 933. C. cost., 14 dicembre 2017, n. 269, in GCost 2017, 6, 2925, nota di Scaccia. Albi, Il patrimonio costituzionale europeo e il diritto alle ferie come diritto fondamentale, in RIDL, 2008, 1, 116. L’autore richiama nello specifico C. giust., 27 giugno 2006, C-540/03 in materia di ricongiungimento familiare; C. Giust., 13 marzo 2007, C-432/05. Barberis, L’Europa del diritto, Il Mulino, 2008, 187 ss.; Gambino, Diritti fondamentali e Unione europea. Una prospettiva costituzionalcomparatistica, Giuffrè, 2009, 23; Ricci, Il diritto alla limitazione dell’orario di lavoro, ai riposi e alle ferie nella dimensione

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ro dei diritti sociali fondamentali. Sicché, tale disposizione imprime una significativa vis espansiva al citato diritto, resa possibile grazie al fatto che a partire dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009, la Carta occupa il rango di fonte primaria, al pari dei trattati istitutivi dell’Unione europea ed enuncia i principi sui quali si fonda la normativa di diritto derivato, quale la dir. 2003/88/CE in materia di organizzazione dell’orario di lavoro. Di conseguenza, la presenza dell’art. 31, par. 2, Carta di Nizza nelle pronunce in commento sembra diretta a valorizzare la natura di diritto sociale fondamentale delle ferie e, nell’ordinanza della Corte di cassazione, è centrale, perché alla luce del rinvio la disposizione può essere considerata dai giudici europei anche separatamente rispetto a quella dell’art. 7, dir. 2003/88/CE. Ciò consentirebbe di ritenere che la citata Carta gioca, ora, un ruolo fondamentale in considerazione del fatto che può essere assunta quale parametro autonomo per vagliare la legittimità della descritta prassi giurisprudenziale e, quindi, non funge unicamente da chiave di lettura dell’art. 7, dir. cit. Il secondo profilo – squisitamente giuslavoristico – concerne il problema della relazione tra prestazione lavorativa e maturazione del diritto alle ferie, rapporto che, se considerato alla stregua di un nesso automatico di causa-effetto, porta a limitare sensibilmente o ad escludere la maturazione del predetto diritto per i periodi nei quali il lavoratore non abbia effettivamente lavorato. Il problema ha un impatto diverso nelle due pronunce. Nella vicenda Hein, il contratto collettivo consente di considerare la mancata prestazione lavorativa nella determinazione dell’importo della retribuzione da assumere alla base del calcolo dell’indennità per ferie, che risulta sensibilmente inferiore nel caso in cui il lavoratore non abbia lavorato a causa della disoccupazione parziale. Nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 451/2019, l’automatismo tra la prestazione lavorativa e la maturazione delle ferie porterebbe, addirittura, ad escludere del tutto la sussistenza di diritto alle ferie per il periodo intermedio tra il recesso illegittimo e la reintegrazione, posto che il lavoratore durante tale fase non ha lavorato. In entrambe le fattispecie sembra, tuttavia significativo evidenziare che la mancata prestazione non è imputabile al lavoratore. Nel primo caso, essa è dovuta alla disoccupazione parziale. Nel secondo, ad un comportamento del datore di lavoro, che recede illegittimamente dal rapporto.

3. Il diritto alle ferie come diritto sociale fondamentale alla

luce dell’art. 31, par. 2, Carta di Nizza.

Come detto, le due pronunce in commento sono accomunate innanzitutto dal forte richiamo dell’art. 31, par. 2, Carta di Nizza che, assieme all’art. 7, dir. 2003/88/CE, costituisce il parametro di conformità al diritto dell’Unione europea delle normative nazionali e delle

costituzionale integrata (fra Costituzione italiana e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), in WP D’Antona, Int. 79/2010, 2.

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prassi giurisprudenziali interne. Il riferimento alla Carta di Nizza da parte dei giudici appare molto rilevante perché raro, al punto che in passato si è messo persino in discussione l’effettivo valore giuridico della Carta5. Come detto, soltanto a partire dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009, l’art. 6 TUE ha chiarito che essa costituisce fonte di rango primario, al pari dei Trattati su cui si fonda l’Unione europea, con un importante passo in avanti verso il riconoscimento di una sua autonomia costituzionale. Oggi, la tutela dei diritti sociali fondamentali dell’ordinamento euro-unitario appare, quindi, garantita da un testo organico che riassume le tradizioni costituzionali condivise dai singoli Stati membri. Con una formulazione simile a quella di una disposizione costituzionale, l’articolo 31, par. 2, reca un «principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione europea»6 (punto 22 della sentenza Hein in commento), alla luce del quale «ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite». La norma, situata all’interno del capo IV della Carta, intitolato «solidarietà», riconosce alle ferie la dignità di diritto sociale fondamentale7, «inerente alla sfera della personalità del lavoratore in quanto essere umano»8, come avviene nel nostro ordinamento attraverso la previsione dell’art. 36, comma 3, Cost., che ne enfatizza la caratteristica dell’irrinunciabilità.9 In questo scenario, il diritto alle ferie persegue una duplice funzione10. Da un lato, quella di preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore, dall’altro, quella di garantire la realizzazione della sua sfera personale e la tutela della dignità della persona, valore cui fa espresso riferimento il primo paragrafo dello stesso art. 31, Carta di Nizza. Si tratta di due profili differenti, che costituiscono due facce della stessa medaglia, rappresentata dalla tutela dell’individuo, cui concorrono entrambi. La disposizione della citata Carta, grazie al suo ampio respiro, potrebbe, quindi, prestarsi a contrastare il rischio di una compromissione del diritto al riposo annuale. Non si può trascurare, infatti, che la fruizione delle ferie resta comunque subordinata all’atto determinativo del datore di lavoro, cui spetta il potere di sceglierne la collocazione temporale in risposta alle sue esigenze di impresa e financo di posticipare la fruizione di parte del periodo minimo annuale di quattro settimane11. Al riguardo, la contrattazione collettiva, cui il legislatore delega la disciplina della materia, è

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Albi, op. cit., 115; Ballestrero, Europa dei mercati e promozione dei diritti, in WP D’Antona, Int. 55/2007, 9 ss., secondo la quale «una solenne dichiarazione (alla quale si riconosce la natura di “atto politico”, magari ad alto contenuto simbolico) non costituisce “fonte del diritto”, e non è perciò assimilabile al diritto costituzionale e al diritto internazionale comune degli Stati membri». 6 Così anche in C. giust., 20 luglio 2016, causa C-341/15, Maschek, in GDir, 2016, 33, 22; C. giust., 24 gennaio 2012, causa C-282/10, Bectu, in RIDL, 2, 2012, 557, con nota di Riccardi. Si vedano, in particolare, le conclusioni dell’Avvocato Generale A. Tizzano dell’8 febbraio 2001 in merito alla citata causa Bectu, punto 28. 7 Albi, op. cit., 116; Giubboni, Diritti e politiche sociali nella «crisi» europea, in WP D’Antona, Int. 30/2004, 9 ss. 8 Del Punta, La nuova disciplina delle ferie, in Leccese (a cura di), L’orario di lavoro. La normativa italiana di attuazione delle direttive comunitarie, Ipsoa, 2004, 379. 9 Senza pretese di esaustività, sull’art. 36 Cost., vedere, tra gli altri, P. Sandulli, Ferie dei lavoratori (voce), in Enc. Dir., Giuffrè, 1968, XVII, 180; V. Ferrante, Orario e tempi di lavoro, Dike Giuridica Editrice, 2014, 78; Colapietro, sub art. 36, in Bifulco, Celotto, Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, 2006, 742; Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, 2006, 37 ss.; Ricci, Il diritto alla limitazione dell’orario di lavoro, ai riposi e alle ferie nella dimensione costituzionale integrata (fra Costituzione italiana e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), in WP D’Antona, Int. 79/2010, 6. 10 Ricci, Tempi di lavoro e tempi sociali, 2005, Giuffrè, 373. 11 Fenoglio, Le ferie: dalle recenti sentenze della Corte di Giustizia. Nuovi spunti di riflessione sulla disciplina italiana, in ADL, 2009, 452.

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risultata, spesso, inadeguata, poiché nel tentativo di trovare un bilanciamento tra gli opposti interessi del datore di lavoro e del lavoratore, si è spinta talvolta fino ad ampliare il periodo di “riporto” di diciotto mesi e a ridurre la quota minimale delle ferie da godere necessariamente nell’anno di maturazione12. La presenza del diritto alle ferie nel tessuto della Carta di Nizza consente, quindi, di riflettere sulla portata dell’art. 31, par. 2 nelle pronunce in commento. La citata disposizione sembrerebbe qui assumere due possibili significati. Innanzitutto, si potrebbe ritenere che l’art. 31, par. 2, cit. funge soltanto da strumento interpretativo, da lente attraverso cui leggere la disciplina recata in materia di risposo annuale dall’art. 7, par. 1, dir. 2003/88/CE, che dispone più nel dettaglio che «gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da una indennità finanziaria, salvo il caso di fine del rapporto di lavoro». È questa la funzione che sembrerebbe giocare nella sentenza della Corte di Giustizia C-385/17 (Hein). In altri termini, l’art. 31, par. 2, altro non farebbe se non enucleare il principio su cui si fonda la normativa di diritto derivato. Tuttavia, l’inciso presente nell’ordinanza della Corte di cassazione, riferito agli artt. 7, dir. 2003/88/CE e 31, par. 2, Carta di Nizza, secondo cui le due disposizioni possono essere «anche considerate separatamente», sembra suggerire che la norma della Carta di Nizza assolve ad un’ulteriore funzione. Qualora il giudizio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE conducesse a ritenere che la disciplina interna è contraria alla disposizione della Carta di Nizza, ciò consentirebbe di riconoscere a tale norma una diretta applicabilità sul piano dell’ordinamento interno, con una sensibile espansione del diritto alle ferie. In linea generale, poi, ne discenderebbe che sarebbe possibile risolvere anche il problema dell’assenza di efficacia diretta delle direttive inattuate nei rapporti tra privati. Sul punto, è noto che qualora le direttive non siano state oggetto di specifica attuazione da parte dello Stato membro, la Corte di Giustizia riconosce ad esse efficacia verticale, nelle controversie tra privati e Stato, ma non orizzontale, in quelle tra privati soltanto13. Che le disposizioni della Carta di Nizza siano direttamente applicabili, poiché fonti di rango primario, sembrerebbe essere una soluzione accolta da tempo dalla giurisprudenza di legittimità, alla luce della quale, tuttavia, «l’applicabilità diretta della Carta di Nizza è predicabile solo per le ipotesi

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Fenoglio, op. cit., ibidem. L’autrice cita, a titolo esemplificativo, l’art. 10 ccnl dei metalmeccanici sottoscritto il 20 gennaio 2008 secondo cui «ove, per cause dovute ad imprescindibili esigenze del lavoro dell’azienda ed in via del tutto eccezionale» il lavoratore non benefici del periodo minimo di quattro settimane di ferie annuali, la «fruizione avrà luogo non appena possibile avuto riguardo alle esigenze tecnico-organizzative». 13 C. giust., 14 gennaio 1988, causa C-227-230/85, Commissione c. Belgio, in Racc. C Giust. CE, I-673; C. giust., 22 giugno 1989, causa C-103/88, Fratelli Costanzo, in Racc. C Giust. CE, 1839 ss.; C. giust., 12 luglio 1990, causa C-188/89, Foster, in Racc. C. Giust. CE, 1990, 1313; Amadeo, L’efficacia obiettiva delle direttive comunitarie ed i suoi riflessi nei confronti dei privati. Riflessioni a margine delle sentenze sui casi Linster e Unilever, in Dir. Un. Eur., 2001, 95 ss.; B. Conforti, Sulle direttive della CEE, in Giur. it., 1972, 83 ss.; Favilli, Ancora una riforma delle norme sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione delle politiche dell’Unione europea, in Riv. dir. intern., 2013, 701 ss.; Mastroianni, Direttive non attuate, rimedi alternativi, principio di uguaglianza, in Dir. Un. eur., 1998, 81 ss.

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nelle quali la fattispecie sia disciplinata dal diritto europeo e non già, totalmente, da norme nazionali prive di alcun legame con il diritto dell’Unione Europea»14. Esse costituiscono inoltre, il fondamento stesso su cui sono emanate le direttive, fonti di diritto derivato. Sicché, il meccanismo dell’applicazione diretta della Carta di Nizza potrebbe quindi condurre ad un sensibile ampliamento dei diritti sociali fondamentali all’interno degli Stati membri, anche nelle controversie tra privati, consentendo di raggiungere le medesime finalità perseguite dalle direttive, i cui obiettivi si vedrebbero altrimenti frustrati a causa della loro mancata attuazione.

4. La maturazione del diritto alle ferie. Tralasciando momentaneamente le considerazioni attinenti al piano delle fonti e all’inquadramento del diritto alle ferie nel tessuto della Carta di Nizza, appare necessario spostare l’attenzione sul problema della maturazione delle ferie annuali retribuite, che rappresenta il secondo profilo comune alle due pronunce in commento. Al riguardo, l’art. 7, par. 1, dir. 2003/88/CE descrive tale diritto individuando due componenti15. Da un lato, quella del riposo lavorativo, riconosciuto alla stregua di un diritto primario e, dall’altro, quella dell’indennità sostitutiva, prevista in via secondaria e sussidiaria, qualora non sia possibile beneficiare del primo16. Si tratta di una norma dotata di effetto diretto17, che prevede una tutela minima per il lavoratore18 ed è inderogabile in pejus, come più volte evidenziato dalla Corte di Giustizia19. Ne discende che devono essere ritenute nulle le clausole dei contratti collettivi che stabiliscono una durata delle ferie inferiore alle quattro settimane. Il presupposto generale per il godimento del diritto alle ferie è rappresentato dal fatto che il lavoratore abbia effettivamente lavorato20. È evidente, infatti, che la finalità perseguita dagli art. 31, par. 2, Carta di Nizza e dall’art. 7, par. 1, dir. 2003/88/CE, di garantire il riposo e la realizzazione della sfera personale del lavoratore, è giustificata soltanto se egli abbia effettivamente consumato le sue energie psico-fisiche svolgendo l’attività cui è adibito21. In altri termini, la maturazione delle ferie è sinallagmaticamente collegata alla prestazione lavorativa e, in linea generale, non è possibile fruire di un periodo di riposo

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Cass., sez. un., 13 giugno 2012, n. 9595, in GC Mass., 2012, 6, 783; analogamente, Cass., sez. II, 27 ottobre 2014, n. 22772, in GC Mass., 2014, Cass., sez. un., 20 giugno 2012, n. 10130, in GC. Mass. 2012, 6, 813; Cass., 25 luglio 2014, n. 17006, in GC Mass., 2014. 15 Mattarolo, Ferie non godute senza volontà del lavoratore: permanenza del diritto o indennità sostitutiva? in LG, 5, 2009, 467 ss.; Caponetti, Il diritto alle ferie tra prassi nazionale e giurisprudenza comunitaria, in MGL, 2009, 11, 804. 16 C. Giust., 20 gennaio 2009, causa C-350/06 e causa C-520/06, Schultz-Hoff e a., con nota di Mattarolo, op. cit., 467 ss. 17 C. Giust., 24 gennaio 2012, causa C-282/10, Dominguez, in RIDL, 2012, 2, 551 con nota di Riccardi. 18 Ichino, Valente, Orario di lavoro e i riposi. Art. 2107-2109, in Busnelli (diretto da), Commentario al Codice civile, Giuffrè, 379. V. inoltre C. giust., 16 marzo 2006, causa C-131/04 e C-257/04, Robinson-Steele e a., in Racc. I-2531 e C. giust., 20 gennaio 2009 cit., in Racc., I/179. 19 C. giust., 26 giugno 2001, causa C-173/99, Bectu, cit.; C. giust., 18 marzo 2004, causa C-342/01, Merino-Gómez, in FI, 2004, IV, 229. 20 La giurisprudenza si esprime in tali termini già da tempo. V. ex multis, Cass., 8 marzo 1979, n. 1451, in GC Mass., 1979, 3. Più recentemente, v. ex multis Cass., 8 luglio 2008, n. 18707, cit.; Cass., 23 ottobre 2000, n. 13953, cit.; Cass., 23 ottobre 2000, n. 5624, cit. 21 Testa, Il diritto alle ferie del lavoratore subordinato, Giappichelli, 2012, 70.

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in relazione al lavoro non ancora svolto22. A partire da tale premessa, ci si chiede, dunque, quali siano le conseguenze, sul piano del diritto alle ferie, della mancata esecuzione della prestazione lavorativa per causa non imputabile al lavoratore e, in particolare, se alla luce di tale circostanza, la disciplina europea prevista dai due citati articoli ammette comunque il descritto automatismo.

5. Gli effetti del mancato svolgimento della prestazione

lavorativa sul diritto alle ferie retribuite.

In linea generale, il rilievo secondo cui il diritto alle ferie matura con riferimento ai periodi in cui il lavoratore ha effettivamente lavorato è pacificamente condiviso dalla giurisprudenza europea23, come confermato anche dalla Corte di Giustizia nel caso Hein, nel quale si precisa che la durata delle ferie annuali minime retribuite è pari a quattro settimane e che il godimento di tale diritto resta comunque subordinato al fatto che il lavoratore abbia effettivamente lavorato durante il periodo di riferimento. Pertanto, secondo i giudici di Lussemburgo, il diritto alle ferie annuali retribuite deve essere calcolato in funzione delle fasi di lavoro effettivo e, ciò comporta che al ricorrente spettino due settimane di ferie soltanto, posto che nel corso del 2015 egli non ha lavorato per 26 settimane. Ciononostante, l’art. 7, par. 1, dir. 2003/88/CE impone unicamente una durata minima delle ferie annuali e non osta a che una normativa nazionale o un contratto collettivo dispongano un diritto alle ferie annuali retribuite di durata superiore, indipendentemente dal fatto che l’orario di lavoro dei dipendenti sia stato ridotto a causa di disoccupazione parziale. Se, da un lato, sussiste il principio dell’automatismo tra prestazione lavorativa e diritto alle ferie, dall’altro, tuttavia, secondo la Corte di Giustizia, sotto il profilo del trattamento economico, la base di calcolo della cosiddetta «indennità per ferie retribuite» è comunque costituita dalla normale retribuzione. Non rilevano, quindi, le eventuali diminuzioni incorse a causa della disoccupazione parziale. Detta soluzione appare condivisibile per due motivi essenziali. In primo luogo, come evidenziato dalla sentenza in esame (punto 44), la retribuzione ordinaria durante il periodo di ferie è volta a consentire al lavoratore un pieno godimento del relativo diritto. Diversamente, la retribuzione inferiore a quella normale potrebbe sortire l’effetto di indurre ad una rinuncia del diritto al riposo da parte del lavoratore, quantomeno nel periodo di lavoro effettivo. Questo possibile risvolto contrasta, a tutta evidenza, con la caratteristica dell’irrinunciabilità delle ferie, la quale, seppur non espressamente prevista dalla Carta di Nizza – diversamente dall’art. 36, comma 3, Cost. – è intrinseca alla loro natura di diritto sociale fondamentale della persona ed è comunque desumibile dall’e-

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Ferrante, Orario e tempi di lavoro, cit., 87. C. giust., 4 ottobre 2018, causa C-12/17, Dicu, in D&G, 4 ottobre 2018, con nota di Libero Nocera; C. giust., 11 novembre 2015, causa C-219/14, Greenfield, in D&G, 11 novembre 2015, con nota di Milizia.

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sistenza di un limite minimo di durata delle stesse. Il rilievo evidenziato basterebbe, quindi, per ritenere che la normativa interna è contraria a quella dell’ordinamento europeo. In secondo luogo, la modalità di calcolo descritta dalla citata contrattazione collettiva compromette il piano dell’utilità del diritto alle ferie. Infatti, il riconoscimento del normale regime retributivo ha la funzione di consentire al lavoratore, in occasione della fruizione del riposo, di porsi in una condizione economica paragonabile ai periodi di lavoro e di permettergli, così, di fruire al meglio del tempo per realizzare i suoi interessi. Tuttavia, l’obbligo in capo al datore di lavoro di concedere la retribuzione ordinaria sussiste soltanto per la durata delle ferie annuali minime previste dal diritto dell’Unione e non anche per tutta la durata di quelle di cui è possibile beneficiare in forza del diritto nazionale. Alla luce di ciò, il richiamo dell’art. 31, par. 2, Carta di Nizza presente nella pronuncia in commento conferisce una significativa vis espansiva al diritto alle ferie. Una simile apertura è del pari rinvenibile nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte di cassazione n. 451/19. Come anticipato, nonostante la precedente giurisprudenza interna accolga la soluzione dell’automatismo tra prestazione lavorativa e maturazione delle ferie24, i giudici di legittimità si chiedono se alla luce degli art. 31, par. 2, Carta di Nizza e 7, par. 1, dir. 2003/88/CE, tale ragionamento possa essere accolto anche con riferimento all’ipotesi in cui la mancata esecuzione della prestazione lavorativa dipenda non da una circostanza imputabile al lavoratore, ma da un atto illegittimo del datore di lavoro. Il problema concerne specificamente il periodo intermedio tra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione, nel quale in forza dell’annullamento dello stesso, dotato di effetti ex tunc, il rapporto si ricostituisce a partire dal recesso. Il dubbio resta, di fatto, aperto. Infatti, da un lato, è possibile ritenere che se il lavoratore non ha svolto alcuna attività, non necessiterebbe di fruire delle ferie, in quanto delle due finalità cui sono tese le ferie si privilegerebbe la prima, quella relativa alla tutela del bene della salute e al recupero delle energie psico-fisiche che qui, a tutta evidenza, non sono state consumate. Dall’altro lato, però, la mancata prestazione è determinata da un atto illegittimo del datore di lavoro e non dal lavoratore, che avrebbe senz’altro svolto la sua attività se non gli fosse stato intimato il recesso. In questo caso, oltretutto, la soluzione negativa potrebbe precludere al lavoratore la possibilità di svolgere le attività funzionali alla realizzazione della sua sfera individuale cui è diretto il diritto alle ferie nella sua dimensione costituzionale. La fattispecie in esame non appare, peraltro, isolata. Non si trascura, infatti, l’esistenza di ipotesi nelle quali il diritto alle ferie matura nonostante la mancata prestazione lavorativa25, qualora l’assenza dal lavoro sia dovuta a motivi indipendenti dalla volontà del lavoratore. A livello internazionale, del problema se n’è occupata in tempi risalenti la Convenzione O.I.L. n. 132/1970, in base alla quale ai fini della maturazione del diritto alle ferie, «alle condizioni che saranno stabilite da parte dell’autorità competente o dall’organismo appropriato in ciascun Paese, le assenze dal lavoro per motivi indipendenti dalla volontà

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Cass., 8 luglio 2008, n. 18707, cit.; Cass., 23 ottobre 2000, n. 13953, cit.; Cass., 5 maggio 2000, n. 5624, cit. Mattarolo, Ancora una sentenza della Corte di Giustizia sul diritto alle ferie del lavoratore malato, in LG, 2010, 2, 159 ss.

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Giurisprudenza

del prestatore interessato, così come le assenze per malattia, infortunio o maternità, devono essere computate nel periodo di servizio». La norma, tuttavia, non è idonea a risolvere esaustivamente il problema, giacché finalizzata unicamente ad attribuire una competenza generale in capo ai singoli Stati cui spetta il compito di individuare i casi e i limiti entro i quali tali fattispecie possono essere equiparate a quella del lavoro effettivo. Con specifico riferimento all’ordinamento italiano, sono numerose le ipotesi di sospensione del rapporto per le quali il legislatore ha comunque previsto la maturazione del diritto alle ferie nonostante l’assenza di un’effettiva prestazione lavorativa. A titolo esemplificativo si si citano la malattia, l’infortunio, la gravidanza e il puerperio, menzionate dall’art. 2110 c.c., nonché i periodi di congedo di maternità26. Nonostante l’intervento diffuso da parte del legislatore sulla materia, permangono, tuttavia, i dubbi in merito ad alcune fattispecie che non sono state oggetto di specifica disciplina, come quella del caso oggetto dell’ordinanza in commento, sicché è proprio in merito a tali ipotesi che l’intervento giurisprudenziale appare necessario. Sembra di poter ritenere, comunque, che l’art. 31, par. 2, Carta di Nizza potrebbe portare in tali casi ad ampliare la portata del diritto alle ferie.

6. Osservazioni conclusive. Le due pronunce in commento consentono di confermare l’esistenza di un’osmosi tra l’ordinamento interno ed europeo anche sul piano dei diritti afferenti al rapporto di lavoro27. Se da un lato la Carta di Nizza raccoglie le tradizioni costituzionali comuni ed è nata grazie all’apporto dei singoli Stati membri, dall’altro essa consente di sopperire ai deficit di tutela che possono riscontrarsi nella realtà odierna e penetra, quindi, all’interno dei confini nazionali. È ciò che sembra potersi riscontrare, in particolare, nell’ordinanza n. 451/19 della Corte di cassazione. Il significativo riferimento alla Carta di Nizza induce a collocare la pronuncia in commento all’interno di un filone costituito da un numero esiguo di sentenze, che ha valorizzato tale Carta con l’intento di perseguire due obiettivi. Il primo è quello di rafforzare valori fondamentali già esistenti nel nostro ordinamento a livello costituzionale. Il secondo è quello di realizzare un risultato favorevole per una delle parti interessate dalla controversia, altrimenti difficilmente ottenibile28. Sicché, l’art. 31, par. 2, cit., da un lato ha l’effetto di valorizzare la portata dell’art. 36, comma 3, Cost., dall’altro potrebbe portare al riconoscimento del diritto alle ferie nel periodo intermedio tra licenziamento illegittimo e reintegrazione e, dunque, ad un risultato che non potrebbe essere facilmente raggiunto altrimenti.

26

Ichino, Valente, Orario di lavoro e i riposi. Art. 2107-2109, cit., 366. Bronzini, Rapporto di lavoro, diritti sociali e Carte europee dei diritti. Regole di ingaggio, livello di protezione, rapporti tra le due carte, in WP D’Antona, Int. 118/2015. 28 Conti, L’uso fatto della Carta dei diritti dell’Unione da parte della Corte di cassazione, in D’Andrea, Moschella, Ruggeri, Saitta (a cura di), La Carta dei diritti dell’Unione Europea e le altre Carte (ascendenze culturali e mutue implicazioni), 195 ss. 27

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Caterina Mazzanti

Esemplificativo dell’orientamento giurisprudenziale cui si fa cenno è il caso, inerente al danno da demansionamento, nel quale la Corte di cassazione ha affermato che il diritto soggettivo del lavoratore nascente dall’attività professionale altamente qualificata non è soltanto protetto dagli artt. 1, 4 e 35, Cost., ma è tutelato anche dall’art. 15 comma 1, Carta di Nizza, secondo cui «ogni individuo ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata»29. Ancora, in tema di disabilità, con riguardo al diritto all’assunzione del disabile, i giudici di legittimità30 hanno fatto riferimento all’art. 26, Carta di Nizza, in forza del quale «l’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità». Venendo poi al piano degli equilibri esistenti tra organi giurisdizionali, l’ordinanza della Corte di cassazione sembrerebbe mettere in discussione quanto affermato dalla Corte costituzionale con specifico riferimento al caso in cui si paventi un conflitto tra una disposizione nazionale e, allo stesso tempo, i diritti e i principi sanciti dalla Carta di Nizza e dalla nostra Costituzione. Sul punto, è noto che con la sentenza n. 269/201731, la Consulta ha affermato la necessità di sollevare la questione di legittimità costituzionale e non, quindi, quella pregiudiziale ex art. 267 TFUE, anche qualora la disposizione europea sia dotata di effetti diretti, dando così priorità al proprio giudizio erga omnes condotto «alla luce dei parametri interni (ex artt. 11 e 117 Cost.) ed eventualmente di quelli europei, secondo l’ordine di volta in volta appropriato». Di conseguenza, nel caso di specie, la scelta operata dai giudici di legittimità di disattendere tali indicazioni potrebbe quindi portare ad una sorta di «cortocircuito». Caterina Mazzanti

29

Cass., 2 febbraio 2010, n. 2352, in RIDL, 2010, III, 628, con nota di Albi. Cass., 20 novembre 2014, n. 24723, in FI, 2015, 2, I , 493 31 C. cost., 14 dicembre 2017, n. 269, cit. 30

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Giurisprudenza C orte di C assazione , sentenza 14 dicembre 2018, n. 32508; Pres. Manna – Est. Calafiore – P.M. Celentano (concl. diff.) – I.N.P.S. (avv. Maritato, De Rose, D’Aloisio, Matano, Sciplino) c. S.C. Cassa senza rinvio App. Caltanissetta, sent. n. 168/2016. Lavoro autonomo – Professioni intellettuali – Assenza di iscrizione alla Cassa di previdenza e assistenza commercialisti – Obbligo di iscrizione e contribuzione nella gestione separata Inps – Sussistenza.

Il commercialista, iscritto all’Albo professionale ma non alla Cassa di previdenza e assistenza dei dottori commercialisti per non aver superato i redditi previsti per l’iscrizione obbligatoria, è tenuto ad iscriversi e a contribuire alla gestione separata Inps, ai sensi dell’art. 2, comma 26, della legge n. 335/1995, interpretata autenticamente dall’art. 18, comma 12, d. l. n. 98 del 2011, conv. in legge n. 111/2011, in quanto il versamento della sola contribuzione integrativa dovuto per l’iscrizione all’Albo non rileva in senso contrario poiché ad esso non segue alcuna posizione previdenziale individuale in favore del professionista. (Omissis) Svolgimento del processo. Con sentenza n. 168 del 2016, la Corte d’Appello di Caltanissetta ha confermato la decisione del Tribunale di Caltanissetta di accoglimento del ricorso proposto da S. C., dottore commercialista iscritto all’albo professionale ma non alla Cassa dei dottori commercialisti per non aver superato i redditi previsti per l’iscrizione obbligatoria, avverso la propria iscrizione d’ufficio disposta dall’Inps nella Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995 e l’intimazione di pagamento relativa ai contributi per il lavoro autonomo svolto nell’anno 2005. A sostegno della decisione, la Corte territoriale ha osservato che l’estraneità della posizione dei liberi professionisti rispetto all’ambito applicativo della Gestione separata si deduce, oltre che dall’art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995, anche dall’art. 18, comma 12, d.l. n. 98 del 2011 conv. in l. n. 11 del 2011, norma che interpretando autenticamente il disposto del citato art. 2, comma 26, ha reso manifesto che l’iscrizione alla Gestione separata presso l’Inps ha carattere residuale, essendo obbligata solo per i lavoratori autonomi che esercitano una professione per la quale non sia obbligatoria l’iscrizione ad appositi albi, ovvero per coloro che, pur iscritti ad albi, svolgano un’attività non soggetta a versamento contributivo agli enti di previdenza per i liberi professionisti e ciò in quanto la ratio della istituzione della Gestione separata è quella di assicurare copertura assicurativa e tutela previdenziale a soggetti che, in difetto di iscrizione a tale gestione, ne resterebbero privi. Le citate condizioni non ricorrono nel caso di specie in cui l’attività esercitata non è tra quelle non soggette all’iscrizione all’albo professionale, trattandosi di

attività di commercialista, né è tra quelle non soggette al versamento contributivo agli enti di cui al comma 11 (casse professionali di cui al d.lgs. n. 509 del 1994 ed al d.lgs. n. 103 del 1996), avendo la Cassa di previdenza ed assistenza per i dottori commercialisti imposto il pagamento di contributi sul reddito prodotto, non facendo la legge alcuna distinzione in ordine al tipo di contribuzione ed in particolare non rilevando che si tratti di contributo integrativo e non soggettivo. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’Inps, fondato su di un unico motivo, cui ha non ha opposto difese S.C. (Omissis) Motivi della decisione. Con l’unico motivo di ricorso, ai sensi dell’articolo 360, primo comma n.3, cod. proc. civ., il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 2, comma 26 e ss., l. 8 agosto 1995 n. 335, dell’art. 18, comma 12, d. l. 6 luglio 2011 n. 98 (conv. con modif. in l. 15 luglio 2011 n. 111) nonché l. n. 1067 del 1953. Ha censurato la sentenza per avere affermato l’insussistenza dell’obbligo di iscrizione alla Gestione separata e del pagamento della contribuzione in capo ai dottori commercialisti che svolgono attività libero professionale per la quale, in difetto del raggiungimento del reddito previsto dalla regolamentazione della Cassa per i dottori commercialisti, non sussiste obbligo di iscrizione alla Cassa stessa senza considerare che l’art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995 deve trovare applicazione nella fattispecie, essendo presenti i presupposti richiesti: esercizio di attività professionale soggetta all’iscrizione all’albo; assenza di obbligo di iscrizione alla cassa professionale. La questione principale, oggetto del motivo proposto, concerne l’obbligo di iscrizione alla Gestione


Giurisprudenza

separata presso l’INPS dei dottori commercialisti non iscritti obbligatoriamente alla Cassa di previdenza ed assistenza dei dottori commercialisti (CNPADC) alla quale versano esclusivamente un contributo integrativo in quanto iscritti agli albi, cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio, è già stata decisa, sebbene riferita alla categoria professionali degli ingegneri ed architetti, da questa Corte di cassazione con le sentenze. nn. 30344 del 2017, n. 30345 del 2017, n. 1172 del 2018, n. 2282 del 2018, n.1643 del 2018, con le quali si è affermata la sussistenza dell’obbligo in discorso. (Omissis) Questa Corte di cassazione ritiene di dover dare seguito ai propri specifici precedenti in ragione, oltre che di quanto nei medesimi affermato, anche di considerazioni più ampie sollecitate dalla estensione della questione oggetto del presente ricorso a diverse categorie di professionisti (avvocati, praticanti avvocati, commercialisti) che, al pari degli ingegneri e degli architetti, svolgono attività per cui è necessaria l’iscrizione ad albo o ad elenco e per i quali esiste una cassa che gestisce l’assicurazione obbligatoria di categoria alla quale chi esercita l’attività professionale, pur senza esservi iscritto per varie ragioni, versa obbligatoriamente un contributo integrativo. Le tesi reciprocamente contrapposte poggiano sull’affermazione o sulla negazione della permeabilità del sistema professionale di categoria rispetto alla regola fissata dall’art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995, laddove risulti che il reddito prodotto attraverso l’esercizio della professione de qua non sia inciso da obbligo contributivo utile a costituire una posizione previdenziale in favore dello stesso professionista. Esiste, dunque, una questione di fondo, comune alle singole tipologie professionali nei cui confronti l’Inps ha fatto valere l’obbligo di iscrizione alla Gestione separata la cui soluzione impone: a) la verifica dell’ambito di concreta, attuale, operatività di tale Gestione e, quindi, l’individuazione della sua funzione all’interno del sistema della previdenza; b) il confronto del risultato di tale verifica con l’ambito di concreta operatività della gestione affidata dalla legge alle apposite casse professionali (in ragione del disposto del d.lgs. n. 194 del 1994 o del d.lgs. n. 103 del 1996). Giova ricordare, con riguardo al caso di specie, che ai sensi dell’art. 3 del Regolamento unitario della Cassa nazionale per i dottori commercialisti, sono esonerati dall’iscrizione alla Cassa dei dottori commercialisti i professionisti che pur essendo in possesso di entrambi i requisiti previsti per l’iscrizione – Omissis. risultano iscritti ad un’altra forma di previdenza obbligatoria per lo svolgimento di un’attività diversa da quella di dottore commercialista, oppure sono beneficiari di un trattamento pensionistico derivante dall’iscrizione a un’altra forma di previdenza obbligatoria.

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Tali soggetti possono avvalersi della facoltà di non iscriversi alla Cassa presentando, entro lo stesso termine previsto per l’iscrizione, la domanda di esonero. – Omissis. Costoro, conseguentemente, non sono tenuti al versamento del contributo soggettivo, bensì unicamente al versamento del contributo integrativo, dovuto da tutti gli iscritti all’albo di dottore commercialista, indipendentemente dall’iscrizione alla Cassa professionale. (Omissis) Come è noto, questa Corte di cassazione con la sentenza a SS.UU. n. 3240 del 2010, che per questo aspetto continua ad esprimere arresti del tutto condivisibili e non contrastati, a proposito della L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 26, il cui testo dispone: “A decorrere dal 1 gennaio 1996 sono tenuti all’iscrizione presso una apposita gestione separata, presso l’Inps, e finalizzata all’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, i soggetti che esercitino, per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di cui al T.U. delle imposte sui redditi approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 49, comma 1, e successive modificazioni e integrazioni, nonché i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di cui all’art. 49, comma 2, lett. A), medesimo testo unico e gli incaricati alla vendita a domicilio. Sono esclusi dall’obbligo i soggetti assegnatari di borse di studio, limitatamente alla relativa attività”, ha affermato che: - con la creazione della nuova gestione separata si è inteso estendere la copertura assicurativa, nell’ambito della cd. “politica di universalizzazione delle tutele”, non solo a coloro che ne erano completamente privi, ma anche a coloro che ne fruivano solo in parte, a coloro cioè che svolgevano due diversi tipi di attività e che erano “coperti” dal punto di vista previdenziale, solo per una delle due, facendo quindi in modo che a ciascuna corrispondesse una forma di assicurazione; - la caratteristica della norma, che si evince dal testo, è l’aver assoggettato ad assicurazione non più determinate categorie di lavoratori ma due tipi di reddito da lavoro autonomo: quelli di cui all’art. 49, comma 1, del TUIR che derivano dall’esercizio, abituale ancorché non esclusivo, di arti e professioni e quelli di cui al secondo comma dello stesso articolo, derivanti dagli uffici di amministratore e sindaco di società e da altri rapporti di collaborazione coordinata e continuativa; (Omissis) - diversamente, nel citato art. 2, comma 26, il riferimento è invece eteronomo e supportato esclusivamente dalla norma fiscale (i citati articoli del TUIR), per cui, nella gestione separata, l’obbligazione contributiva è basata sostanzialmente sulla mera percezione di un reddito (omissis). - la nuova tutela previdenziale può, quindi, essere “unica”, in quanto corrispondente all’unica attività svolta, oppure “complementare” a quella apprestata


Alessandro Ventura

dalla gestione a cui il soggetto è iscritto in relazione all’altra attività lavorativa espletata; - la compatibilità, per i percettori dei redditi di cui all’art. 46 del TUIR, della doppia iscrizione è testualmente prevista dalla L. 27 dicembre 1997, n.449, art. 59, comma 16, laddove, all’interno della gestione separata, è prevista un differente aliquota per coloro i quali sono iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria e quanti non lo sono (omissis) - la regola generale è quindi che all’espletamento di duplice attività lavorativa, quando per entrambe si prevede la tutela assicurativa, deve corrispondere la duplicità di iscrizione e non si ha, peraltro, duplicazione di contribuzione, perché a ciascuna fa capo una attività diversa. Inoltre ciascuna delle obbligazioni contributive viene parametrata sulla base dei compensi rispettivamente percepiti, che non si cumulano, ma restano distinti e sottoposti alla rispettiva aliquota di prelievo. Alle conclusioni cui giunsero le Sezioni Unite n. 3240 del 2010, può aggiungersi, consolidandole e rendendole attuali, che la finalità di conseguire l’estensione delle tutele attribuita alla gestione separata sin dalla sua costituzione, si è accentuata (tanto da realizzare, secondo una condivisibile opinione, una sorta di positiva eterogenesi dei fini rispetto all’originaria mera finalità di cassa) attraverso un’opera di costante ampliamento delle categorie di lavoratori tenute a detta iscrizione. Si è giunti, dunque, all’estensione dell’obbligo assicurativo a quasi tutti i lavoratori autonomi (omissis). Il presupposto da cui deriva l’obbligo di iscrizione dei suddetti soggetti è in linea di principio strettamente correlato alla qualificazione fiscale dei redditi che essi percepiscono ed alla entità dei medesimi che diventa irrilevante se inferiore alla soglia di cui all’art. 44, comma 2, d.l. n. 269 del 2003. Tale complessivo ed articolato quadro normativo, che si è correttamente ricondotto ad una consapevole scelta legislativa di estensione della copertura assicurativa anche attraverso il piano oggettivo, perché ancorata direttamente alla produzione di redditi qualificati secondo la disciplina tributaria, induce a ritenere che la copertura previdenziale realizzata attraverso la istituzione della Gestione separata non è limitata alla protezione nominativa di singole figure di lavoratori autonomi rimaste prive di tutela assicurativa ed emergenti via via a seconda delle evoluzioni del sistema economico e produttivo, ma ha assunto una funzione di chiusura del sistema che si rivolge alle aree soggettive ed oggettive non coperte da altre forme di assicurazione obbligatoria e che risponde all’obbligo dello Stato di dare concretezza al principio della universalità delle tutele assicurative obbligatorie relative a tutti i lavoratori (art. 35 Cost.), rispetto agli eventi indicati nell’art. 38, secondo comma, della Costituzione, nei

modi indicati dal comma quarto dello stesso articolo 38 della Costituzione. Sono lavoratori tutti coloro che traggono dalla loro personale attività professionale i mezzi necessari a soddisfare le esigenze di vita proprie e familiari, ivi compresi anche i lavoratori autonomi ed i liberi professionisti, secondo il dettato costituzionale, per cui essi vanno tutelati dal punto di vista previdenziale al verificarsi di una delle situazioni di bisogno individuate dallo stesso art. 38 Cost. (Omissis) Su queste premesse va verificata la sostenibilità, rispetto alla appena enunciata regola dell’universalizzazione delle tutele, della tesi avallata dalla sentenza impugnata secondo cui, in applicazione del disposto dell’art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995 come interpretato dall’art. 18, comma 12, d.l. n. 98 del 2011 conv. in l. n. 11 del 2011, si sottrae all’obbligo di iscrizione alla gestione separata il professionista che, per svariate ragioni dovute alle specifiche discipline previdenziali di categoria, non sia soggetto alla iscrizione presso la cassa professionale di riferimento benché soggetto all’obbligo di versamento del contributo integrativo. La risposta non può essere positiva proprio in quanto la funzione assunta nel sistema dalla Gestione separata risponde ad una logica di copertura universale, soggettiva ed oggettiva, delle attività umane produttive di reddito da lavoro che è ben distante dalla logica, sostanzialmente rispondente a scelte organizzative dello Stato in materia previdenziale, sottesa all’attribuzione alle casse professionali (sia privatizzate che di nuova istituzione) della gestione dei rapporti assicurativi degli iscritti. In altri termini, il principio di universalizzazione soggettivo ed oggettivo della copertura assicurativa obbligatoria si traduce operativamente nella regola secondo la quale l’ obbligo (ex art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995) di iscrizione alla gestione separata è genericamente rivolto a chiunque percepisca un reddito derivante dall’esercizio abituale (anche se non esclusivo), ma anche occasionale (entro il limite monetario indicato nell’art. 44, comma 2, del D.L. n. 269/2003) di un’attività professionale per la quale è prevista l’iscrizione ad un albo o ad un elenco, anche se il medesimo soggetto svolge anche altra diverse attività per cui risulta già iscritto ad altra gestione. Tale obbligo viene meno solo se il reddito prodotto dall’attività professionale predetta è già integralmente oggetto di obbligo assicurativo gestito dalla cassa di riferimento. Per tale ragione non è corretto adottare, nella ricerca della soluzione della questione, una logica limitata ad un mero riparto di competenze tra Gestione separata e cassa professionale con la pretesa di paralizzare il pieno dispiegarsi del principio di universalizzazione delle tutele, improntato a precisi obblighi derivanti dalla Costituzione, per effetto dell’attribuzio-

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Giurisprudenza

ne alla cassa professionale del compito di gestire il rapporto assicurativo dei propri associati. Va, infatti, rimarcato che il principio di autonomia riconosciuto alle Casse professionali dal d.lgs. 594 del 1994 realizza, nel rispetto della natura pluralista dell’intero sistema previdenziale, il diverso scopo di rispettare le istanze del gruppo professionale nella gestione dell’assicurazione obbligatoria, all’interno dello spazio assegnato loro dalla legge (art. 3, comma 12, l. n. 335 del 1995), senza il concorso finanziario da parte dello Stato. (Omissis) L’art. 2 del d.lgs. n. 509/1994 ha attribuito autonomia gestionale, organizzativa e contabile a tali associazioni o fondazioni, con i limiti dovuti «alla natura pubblica dell’attività svolta» (art. 2, 1° co.). Così i nuovi soggetti fruiscono di autonomia statutaria e regolamentare (art. 1, 4 0 co.), si finanziano attraverso i versamenti contributivi dei propri iscritti, con divieto di contribuzioni pubbliche (art. 1, 1° e 3 0 co.) ma permane, nei loro confronti, il controllo pubblico (art. 3). (Omissis) Corte Cost. n. 15/1999 rammenta che «la privatizzazione degli enti pubblici di previdenza e assistenza è inserita nel contesto del complessivo riordinamento o della soppressione di enti previdenziali, in corrispondenza ad una direttiva più generale volta ad eliminare duplicazioni organizzative e funzionali nell’ambito della pubblica amministrazione», le Casse sono sfuggite a questo processo di “razionalizzazione organizzativa” o “fusioni ed incorporazioni” in quanto «enti che, non usufruendo di alcun sostegno finanziario pubblico, intendono mantenere la loro specificità ed autonomia, assumendo la forma dell’associazione o della fondazione». Da ultimo, con la sentenza 7/2017 la Corte ha ribadito che la trasformazione delle Casse operata dal decreto n. 509/1994, «pur avendo inciso sulla forma giuridica dell’ente e sulle modalità organizzative delle sue funzioni, non ha modificato il carattere pubblicistico dell’attività istituzionale di previdenza ed assistenza. Peraltro, la Corte delle leggi ricorda come il principio del buon andamento di cui all’art. 97 Cost. stia alla base del portato normativo del d.lgs. n. 509/1994, essendo la riforma stata ispirata dall’esigenza di «percorrere una strada alternativa di tipo mutualistico rispetto alla soluzione «generalista» della previdenza». (Omissis) Sulle premesse sin qui esposte va esaminato il disposto dell’art. 18, comma 12, del d.l. n. 98 del 6 luglio 2011, convertito dalla legge n. 111 del 15 luglio del 2011, che, esplicitando l’intento di voler chiarire quali liberi professionisti siano tenuti alla iscrizione alla gestione separata, dispone che il comma 26 del citato art. 2 della I. 335 del 1995 va inteso nel senso che” i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo tenuti all’iscrizione presso l’apposita gestione separata INPS

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sono esclusivamente i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia subordinato alla iscrizione ad appositi albi professionali ovvero attività non soggette al versamento contributivo agli enti di cui al comma 11 in base ai rispettivi ordinamenti, con esclusione dei soggetti di cui al comma 11”. La congiunzione “ovvero” può avere sia funzione meramente esplicativa, per cui sarebbero tenuti alla iscrizione i soggetti che esercitano una attività professionale per il cui esercizio non è richiesta l’iscrizione agli albi professionali e che dunque non sono tenuti al versamento di alcuna contribuzione alle casse professionali, che funzione disgiuntiva, per cui sarebbero tenuti alla iscrizione i soggetti che esercitano una attività professionale per il cui esercizio non è richiesta l’iscrizione agli albi professionali ed altresì coloro che, pur iscritti agli albi, non sono tenuti al versamento di alcuna contribuzione alle casse professionali. Dal punto di vista astratto, è possibile, poi, intendere il “versamento contributivo”, come riferito al contributo soggettivo o anche a quello integrativo, giacche viene messo in dubbio se il versamento che esonera dalla iscrizione sia solo quello soggettivo, finalizzato alla creazione di una posizione previdenziale o anche quello integrativo (che viene versato da tutti coloro che sono iscritti agli albi ma non alle casse). Quest’ultimo versamento in quanto “sterile”, perché non produttivo di alcuna prestazione per il soggetto tenuto al pagamento, avrebbe una mera finalità solidaristica in senso lato. Le ulteriori questioni derivate dalla legge interpretativa, come già sottolineato dai precedenti specifici di questa Corte nn. 30344 del 2017, n. 30345 del 2017, n. 1172 del 2018, n. 2282 del 2018, n.1643 del 2018 vanno risolte, necessariamente, alla luce della ricostruzione sistematica sopra rappresentata (omissis). La norma interpretata, infatti, significativamente intitolata all’armonizzazione degli ordinamenti pensionistici, pur nel rispetto della pluralità degli organismi assicurativi (art. 1, comma 1 0 I. n. 335 del 1995), ha chiaramente indicato la volontà di estendere l’area della tutela assicurativa attraverso l’istituzione della Gestione separata, facendone un principio dell’intera riforma. Il principio ha trovato sostanziale, seppure non totale, concretizzazione nei sensi sopra ricordati, e la sua portata deve incidere anche sulla disciplina sostanziale delle previdenze di categoria, ridimensionando in caso di sua negazione, i criteri di autonomia e di separazione delle tutele, che caratterizzano il provvedimento sulla privatizzazione, adottato dal d.lgs. n. 509 del 1994. Pertanto, l’unica forma di contribuzione obbligatoriamente versata che può inibire la forza espansiva della norma di chiusura contenuta nell’art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995 come chiarita dall’art. 18, comma 12, d.l. n. 98 del 2011, non può che essere quella correlata ad un obbligo di iscrizione ad una gestione di categoria, in applicazione del divieto di duplicazione


Alessandro Ventura

delle coperture assicurative incidenti sulla medesima attività professionale. Per tale ragione la contribuzione integrativa, in quanto non correlata all’obbligo di iscrizione alla cassa professionale, ed a prescindere dalla individuazione della funzione assolta all’interno del sistema di finanziamento delle attività demandate alla cassa professionale, non attribuisce al lavoratore una copertura assicurativa per gli eventi della vecchiaia, dell’invalidità e della morte in favore dei superstiti per cui non può

essere rilevante ai fini di escludere l’obbligo di iscrizione alla Gestione separata presso l’INPS. (Omissis) In definitiva, accolto il primo motivo di ricorso e dichiarato inammissibile il secondo, la sentenza impugnata va cassata e, poiché non è necessario effettuare alcun accertamento ulteriore, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto dell’opposizione all’iscrizione d’ufficio presso la Gestione separata per l’anno 2005 ed alla intimazione di pagamento proposte da S.C. (Omissis)

La forza espansiva dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata del libero professionista nel processo di generalizzazione della copertura previdenziale del lavoratore autonomo Sommario : 1. Il caso e le indicazioni della sentenza. – 2. La copertura previdenziale dell’attività libero-professionale. – 3. Il conflitto tra i regimi previdenziali. – 4. La funzione sussidiaria della “gestione separata” nel riparto di competenze con le casse professionali di previdenza.

Sinossi. Il commento verte sulla individuazione degli obblighi contributivi dei liberi professionisti con particolare riguardo alla ipotesi in cui siano esonerati dal versamento della contribuzione soggettiva alla propria Cassa di previdenza categoriale. In linea con i principi affermati nella sentenza annotata, l’A. propende per l’attribuzione alla Gestione separata Inps di una valenza sistematica e di una forza espansiva utile ad attrarre nella propria area di imposizione contributiva tutti i redditi rinvenienti da attività professionali non soggetti ad altro regime di previdenza obbligatoria IVS. Abstract. The paper focuses on identifying the contributory obligations of freelancers with particular regard to the hypothesis in which they are exempted from the so-called subjective contribution to their professional category’ pension fund. In line with principles in the already established case law, the A. values the special INPS fund for freelancers (so-called gestione separata) as having a systematic value and an expansive force capable to attract all income deriving from professional activities not subject to different regimes of mandatory retirement, disability and survivors contribution.

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1. Il caso e le indicazioni della sentenza. Con la sentenza in commento, la Corte di cassazione si pronuncia in modo dirimente sulla determinazione dell’ambito applicativo della Gestione separata, deducibile dall’art. 2, comma 26, della legge n. 335 dell’8 agosto 1995, come interpretato autenticamente dall’art. 18, comma 12, d.l. n. 98 del 6 luglio 2011 convertito in legge n. 111 del 15 luglio 2011, rispetto alla posizione dei liberi professionisti iscritti ad un albo professionale. La vicenda oggetto di giudizio prende le mosse dalla intimazione di pagamento relativa a contributi evasi disposta dall’Inps nei confronti di un commercialista regolarmente iscritto all’albo professionale ma esonerato dall’ulteriore iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza dei dottori commercialisti (CNPADC) per non aver superato i redditi previsti per l’iscrizione obbligatoria. Per l’Istituto nazionale di previdenza sociale la mancata iscrizione alla cassa professionale implica l’assoggettamento dell’attività del commercialista al regime della Gestione separata (c.d. “quarta gestione”) con contestuale iscrizione obbligatoria. Il professionista ha proposto ricorso avverso la sua iscrizione di ufficio e l’intimazione di pagamento dei relativi contributi disposta dall’Inps, lamentando l’inesistenza dei presupposti applicativi della Gestione separata. Il Tribunale di Caltanissetta adito ha accolto il ricorso in senso favorevole al professionista con decisione successivamente confermata in appello dalla Corte territoriale di Caltanissetta che ne ha condiviso l’argomentazione, osservando che il carattere residuale dell’iscrizione alla quarta gestione Inps implica l’estraneità del commercialista dal suo ambito applicativo. Secondo la Corte d’Appello, infatti, dal tenore letterale dell’art. 2, comma 26, l. n. 335/1995 e dell’art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011, se ne dovrebbe ricavare che l’iscrizione alla Gestione separata sia obbligatoria per i lavoratori che esercitano una professione per la quale non sia prevista l’iscrizione in albi professionali o, in ogni caso, la cui attività non sia soggetta a contribuzione previdenziale alla propria cassa professionale. Per i giudici di merito questo non sarebbe il caso dei dottori commercialisti la cui attività è esercitata previa iscrizione all’albo professionale ed è soggetta a contribuzione integrativa alla Cassa di previdenza, nonostante la ricorrenza di ipotesi di esonero dal versamento della contribuzione soggettiva. Sotto quest’ultimo aspetto, infatti, il presupposto legale (escludente) del requisito dell’assoggettamento al “versamento contributivo” delle attività esercitate dal libero professionista, non essendo ulteriormente specificato, non consentirebbe interpretazioni tese ad attribuire una diversa rilevanza giuridica alla tipologia di contribuzione dovuta (integrativa o soggettiva). Soccombente nei primi due gradi di giudizio, l’Inps ha proposto ricorso in Cassazione con un unico motivo inerente l’inidoneità della contribuzione integrativa alla Cassa professionale ad escludere l’iscrizione alla Gestione separata del commercialista obbligato al versamento. L’argomentazione offerta si sviluppa sulla constatazione che la contribuzione integrativa non è utile a costituire una posizione previdenziale in favore del professionista e, in quanto tale, non integrerebbe il presupposto di esclusione legale dal campo applicativo della Gestione separata presso l’Inps. La Suprema Corte ha risolto la questione della “permeabilità del sistema professionale di categoria alla regola fissata dall’art. 2, comma 26, l. n. 335 del 1995” riaffermando, per un verso, la necessità di una ricostruzione sistematica volta a dissipare l’ambiguità letterale nel testo di legge del termine “versamento contributivo” e, per altro verso, aggiornando

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e consolidando le decisioni già assunte su analoghe questioni di diritto in sede di legittimità. Infatti, seppure con riferimento a categorie professionali diverse da quelle dei commercialisti, si rinvengono molteplici precedenti di Cassazione con esito affermativo della sussistenza dell’obbligo di iscrizione alla Gestione separata. Inoltre, le argomentazioni elaborate dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 3240/2010, hanno consentito ai Giudici di ultima istanza spunti per la definizione di una soluzione interpretativa di carattere sistematico apparentemente incontrovertibile. Così, dalla interpretazione sistematica della riforma previdenziale operata dalla legge n. 335 dell’8 agosto 1995, la Suprema Corte ha ricavato la volontà del legislatore di «estendere l’area della tutela assicurativa attraverso l’istituzione della Gestione separata, facendone un principio dell’intera riforma» in modo da «incidere anche sulla disciplina sostanziale delle previdenze di categoria». I criteri di autonomia e di separazione delle tutele che informano il sistema delle casse di previdenza professionali sanciti dal d.lgs. n. 509/1994, cedono rispetto al processo di generalizzazione della copertura previdenziale. Nella scelta del legislatore, infatti, la Gestione separata ha assunto una «funzione di chiusura del sistema» che si rivolge tanto alle aree soggettive quanto a quelle oggettive non coperte da altre forme di assicurazione obbligatoria» in funzione della migliore attuazione del principio costituzionale di universalità delle tutele assicurative obbligatorie (ex art. 35 Cost.). L’effettività di tali principi comporta, inevitabilmente, non soltanto la protezione nominativa delle figure di lavoratori che ne fossero ancora privi ma anche l’assoggettamento a copertura previdenziale di tutte le forme di reddito da questi conseguibili nell’esercizio della loro attività. Alla luce di tali passaggi argomentativi, corposamente sviluppati nella parte motiva della sentenza, la Suprema Corte ha ritenuto insussistenti le ragioni per rimettere il ricorso alle Sezioni Unite e ha accolto il ricorso dell’Istituto nazionale di previdenza sociale, decidendo nel merito e rigettando l’opposizione proposta dal commercialista.

2. La copertura previdenziale dell’attività libero-professionale. La gestione della previdenza obbligatoria del settore libero professionale è stata storicamente assicurata da un sistema di casse previdenziali operante in favore di specifiche categorie di lavoratori autonomi esercenti una professione “regolamentata”, tradizionalmente organizzata in albi. La loro disciplina è stata oggetto di alcuni tra gli interventi più significativi dell’ampio processo di riforma dell’ordinamento previdenziale avviato all’inizio degli anni ’90 in una prospettiva di razionalizzazione e universalizzazione delle tutele. Le innovazioni più significative per il settore si rintracciano dapprima nel d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509, che ha operato la “privatizzazione”, in associazioni o fondazioni dotate di personalità giuridica, degli enti pubblici previdenziali professionali già esistenti1. In

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Un’analisi compiuta del processo di privatizzazione delle casse professionali in una prospettiva di razionalizzazione degli previdenziali “minori” è operata da Carbone, La privatizzazione degli enti di previdenza, in Commentario della riforma previdenziale dalle leggi

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secondo luogo, la riforma pensionistica del 1995 ha esteso la copertura previdenziale ai lavoratori autonomi esercenti attività professionali non “ordinistiche” e ai lavoratori autonomi privi di una tutela previdenziale2. La generalizzazione della copertura previdenziale per il lavoro autonomo professionale ha trovato concretezza con l’istituzione della quarta gestione dell’INPS, ad opera dell’art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, conosciuta dai più come “gestione separata”, nonché tramite il conferimento di una delega al Governo per la promozione di forme autonome di previdenza obbligatorie sul modello delineato dal d.lgs. n. 509/1994. La delega, conferita dall’art. 2, comma 25, l. n. 335/1995, è stata attuata con il d.lgs. n. 103/1996, che ha prescritto l’estensione della copertura previdenziale obbligatoria ai soggetti che svolgono attività libero professionale condizionata all’iscrizione in appositi albi o elenchi, ancorché titolari di un’altra posizione previdenziale in forza di un ulteriore rapporto di lavoro subordinato, privi di un’autonoma cassa professionale. Secondo l’art. 3, l. n. 335/1995, gli enti esponenziali nazionali degli enti abilitati alla tenuta degli albi, qualora sprovvisti di propria cassa di previdenza ed assistenza, avrebbero dovuto provvedere alla copertura previdenziale dei professionisti, alternativamente, attraverso la costituzione di un proprio ente di categoria, la partecipazione all’ente pluricategoriale istituito ai sensi dell’art. 4, d.lgs. n. 103/19963, o l’inclusione della categoria professionale per la quale essi sono istituiti in una delle forme di previdenza obbligatorie già esistenti per altra categoria professionale similare4. In mancanza di specifici atti deliberativi posti a tal fine, le articolazioni nazionali degli ordini professionali avrebbero dovuto, ai sensi dell’art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, prevedere per la propria categoria di iscritti l’inclusione nella “gestione separata” presso l’Inps5. Le innovazioni della disciplina previdenziale nel settore libero professionale, si sono collocate nel solco dell’azione riformatrice di matrice universalizzante dell’ordinamento previdenziale che ha comportato la riduzione del «divario di regolamentazione giuridica»6 tra le varie

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“Amato” alla finanziaria del 1995, a cura di Persiani - Cinelli, Giuffrè, 1995; Carbone, La tutela previdenziale dei liberi professionisti, Utet, 1998; Bozzao, Gli enti previdenziali privatizzati, in La riforma del sistema previdenziale, a cura di Pessi, Cedam, 1995, 327 ss.; Canavesi, L’incerto destino della privatizzazione della previdenza dei liberi professionisti tra «paure» del legislatore e autofinanziamento, in La previdenza dei liberi professionisti dalla privatizzazione alla riforma Fornero, a cura di Canavesi, Giappichelli, 2017, 3 ss.; sull’ambito di operatività delle casse previdenziali categoriali, v. Cass., 13 febbraio 2018, n. 3461, con nota di Carbone, in FI, 2018, 4, 1221 ss. Per i primi commenti cfr. Vianello, La nuova tutela previdenziale per le attività di lavoro autonomo, libero-professionale e di collaborazione coordinata e continuativa, in La riforma del sistema pensionistico, a cura di Cester, Giappichelli, 1996, 270 ss.; Rigi Luperti, Tutela previdenziale e lavoro autonomo, in La riforma del sistema previdenziale, a cura di Pessi, Cedam, 1995, 279 ss. Con decreto interministeriale in data 3 agosto 1999 sono stati approvati lo statuto e il regolamento dell’Ente di previdenza ed assistenza pluricategoriale (EPAP) degli Attuari, dei Chimici, dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali, dei Geologi, ai sensi dell’art. 6, comma 5, del decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103. Cinelli, Positività e incongruenze della «quarta gestione» INPS, in RDSS, 3, 2014, 311, evidenzia gli effetti benefici della riforma pensionistica in termini di aggregazione, sviluppo e consolidamento sociale delle categorie di liberi professionisti che, fino ad allora, «non erano state in grado di esprimere e far valere una volontà collettiva, atta ad acquisire loro, tramite la costituzione di una propria cassa, quelle stesse forme di tutela previdenziale già da tempo acquisite dalle categorie “storiche” di liberi professionisti». V. Petrillo, Gli obblighi contributivi del libero professionista tra gestione separata inps e cassa previdenziale di categoria, in RIDL, 2, 2018, 376. Cit. Cinelli, op cit., che stigmatizza le pratiche simulatorie nella configurazione della natura giuridica dei rapporti di lavoro finalizzate al risparmio di costi differenziali di tipo fiscale e previdenziale; quello della riforma “Dini” non è il primo tentativo di offrire una copertura previdenziale ai lavoratori parasubordinati, Vianello, Attività libero-professionale e iscrizione alla gestione separata INPS. Universalizzazione delle tutele o mera fiscalizzazione del sistema previdenziale?, in RDSS, 2018, 2, 299, 330, ricorda i primi tentativi di estensione in tal senso attraverso il d.l. 22 maggio 1993, n. 155 e l’art. 11, comma 11, l. 24 dicembre 1993, n. 537.

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tipologie di lavoro autonomo, perseguita attraverso l’attrazione nel regime previdenziale della Gestione separata non soltanto dei liberi professionisti privi di albo, ma anche dei lavoratori parasubordinati e dei soggetti impiegati in attività di lavoro autonomo c.d. “minore”7. Il perimetro applicativo della gestione è definito dall’art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, che impone l’obbligo di iscrizione per tutti i soggetti che esercitino le attività di lavoro autonomo individuate (indirettamente) in base al regime fiscale dei redditi prodotti nel loro esercizio e non (direttamente) in base alla configurazione giuridica delle attività sottese8. La formulazione “lasca” del dettato normativo ha comportato difficoltà in ordine alla esatta identificazione delle categorie di lavoratori obbligati alla iscrizione nella Gestione separata e, conseguentemente, il sorgere di cospicuo contenzioso9. Per il settore libero-professionale, i nodi interpretativi hanno riguardato, in primis, i casi di esercizio plurimo di attività autonome e di doppia iscrizione previdenziale10, di inquadramento contributivo di attività autonome non professionali11, nonché i casi di esercizio di attività autonome professionali da parte di pensionati12. Ulteriore questione, assai delicata sul piano interpretativo, è quella relativa alla possibile inclusione nell’obbligo di contribuzione alla Gestione separata dei liberi professionisti iscritti ad un albo professionale ma, al contempo, esonerati dal versamento del contributo soggettivo presso la rispettiva cassa di previdenza ed assistenza.

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Si rammenta che l’art. 2, comma 57, della legge 28 giugno 2012, n. 92, ha disposto per i collaboratori e le figure assimilate, iscritti in via esclusiva alla Gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, un progressivo aumento delle aliquote contributive per una sostanziale parificazione con la contribuzione versata all’Inps dai lavoratori subordinati, fissando l’aliquota nella misura del 33% a far data dall’anno 2018. Con riferimento, invece, alla problematica questione dell’estensibilità del principio di automaticità delle prestazioni oltre la subordinazione cfr. Casale, L’automaticità delle prestazioni previdenziali. Tutele, responsabilità e limiti, BUP, 2017, 246 ss. 8 La norma fa riferimento ai «soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di cui al comma 1 dell’art. 49 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 e successive modificazioni ed integrazioni, nonché i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di cui al comma 2, lettera a ), dell’art. 49 del medesimo testo unico e gli incaricati alla vendita a domicilio di cui all’art. 36 della legge 11 giugno 1971, n. 426». 9 Per una rassegna delle principali questioni oggetto di contenzioso previdenziale dei professionisti, v. Carbone, Il contenzioso in materia di contribuzione previdenziale delle casse categoriali dei liberi professionisti, in RDSS, 2018, 163 ss. 10 Cfr. Cass., sez. un., 12 febbraio 2010, n. 3240, in GI, 2010, 10, 2104 ss., con nota di Canavesi, Esercizio di attività commerciale da parte del socio amministratore di s.r.l.: le Sezioni unite si pronunciano a favore dell’unicità dell’iscrizione al regime previdenziale corrispondente all’attività prevalente, 2108 ss., che ha affermato il principio dell’unicità dell’iscrizione previdenziale secondo il criterio dell’attività prevalentemente esercitata, ricavabile dal comma 208, dell’art. 1, l. 23 dicembre 1996, n. 662; successivamente la norma è stata interpretata autenticamente, in senso diametralmente opposto, dall’art. 12, comma 11, d. l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni in l. 30 luglio 2010, n. 122, tornando alla cognizione delle Sezioni Unite, v. Cass., sez. un., 8 agosto 2011, n. 17076, in GI, 2012, 10, 2076 ss., con nota di Canavesi, Sul principio di prevalenza in caso di esercizio di plurime attività commerciali, artigiani e bracciantili, 2083 ss., che ha affermato la non operatività del criterio dell’attività prevalente per i rapporti di lavoro a carattere autonomo per i quali è obbligatoriamente prevista l’iscrizione alla gestione previdenziale “separata” di cui alla l. n. 335/1995, art. 2, comma 26. 11 Sulla configurabilità dell’obbligo contributivo in relazione al reddito prodotto dal professionista ove questo non sia direttamente collegabile all’esercizio dell’attività libero professionale, v. Cass., 11 giugno 2004, n. 11154, in FI, 2005, 1, 561; Cass., 19 febbraio 2008, n. 4057, in FI, 2008, 1, 2889; Cass., 29 agosto 2012, n. 14684, FI, 2012, 1, 2627; Cass., 11 marzo 2013, n. 5975, FI, 2013, 1, 1505; Cass., 8 marzo 2013, n. 5827, ibidem; Cass., 26 gennaio 2016, n. 1347 in GI, 2016, 1, 918 ss.; Cass., 8 maggio 2017, n. 11161, in FI, 2018, 121; la giurisprudenza di legittimità si è orientata nel tempo in favore della non estraneità alla professione regolamentata dell’attività prestata in connessione e in modo funzionale ad essa, anche avvalendosi della stessa base culturale su cui si fonda, e per il conseguente assoggettamento alla contribuzione dei redditi percepiti secondo il regime previdenziale di categoria. 12 La questione ha trovato specifica soluzione a seguito di intervento legislativo con l’art. 18, co. 11, d.l. n. 98/2011, conv. dalla l. n. 111/2011, relativo all’obbligo di iscrizione e contribuzione alla propria cassa professionale.

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La Corte Suprema è stata chiamata a pronunciarsi proprio su questa spinosa questione giuridica, emanando la sentenza qui in commento. La pronuncia, non si discosta dai precedenti di legittimità, ma si apprezza per un’attenta ricostruzione sistematica volta a consolidare l’orientamento espresso per la prima volta su casi analoghi con le pronunce gemelle del 18 dicembre 201713.

3. Il conflitto tra i regimi previdenziali. Nell’immediato vigore della legge l. n. 335/1995, non erano trasparite interferenze tra il regime previdenziale delle casse di previdenza ed assistenza deputate alla gestione della previdenza obbligatoria dei liberi professionisti iscritti in un albo e quello dell’allora istituenda Gestione separata. Infatti, nonostante l’ambiguo rinvio all’art. 49, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi (ora art. 53), sembrasse, per la genericità della formula, includere nel campo di applicazione della quarta gestione Inps i liberi professionisti tout court, ovvero senza distinzione tra i soggetti già tenuti alla contribuzione ad una propria cassa di previdenza professionale e quelli privi di copertura previdenziale, è apparso subito chiara l’insostenibilità di una tesi volta all’assoggettamento a contribuzione dello stesso reddito prodotto da un’unica attività professionale14. Indubitabile, dunque, che i liberi professionisti iscritti ad una cassa di previdenza categoriale e assicurati ai fini della tutela IVS, fossero esclusi dal campo di applicazione dell’art. 2, comma 26, l. n. 223/1995, con riferimento alle attività e ai redditi già soggetti a versamento contributivo presso la Cassa. Diversamente, sono sorte perplessità, di lì a poco, con riguardo ai quei professionisti esentati dalla iscrizione ad una Cassa di previdenza di categoria e dal versamento di contribuzione soggettiva in relazione ai redditi prodotti nell’esercizio dell’attività professionale regolamentata. A dire il vero, l’Istituto nazionale della previdenza sociale aveva presto assunto una posizione netta in proposito, asserendo l’assoggettamento al contributo per «i liberi professionisti iscritti a casse di categoria, relativamente ai redditi professionali non assoggettati a contribuzione alle casse stesse», senza tralasciare che in caso di esclusivo pagamento alla cassa professionale di «un contributo forfettario a titolo di solidarietà, non comportante la valutazione del periodo ai fini pensionistici a carico della cassa professionale», il reddito avrebbe comunque dovuto essere assoggettato a contribuzione Inps15. Le indicazioni diffuse dall’Inps tramite circolare esplicativa, però, non hanno evitato il ricorrere di casi in cui, all’esercizio della facoltà di non iscrizione alla Cassa previdenziale di categoria o dell’opzione per il versamento della sola contribuzione integrativa, i liberi

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V. Cass., 18 dicembre 2017, n. 30344 e n. 30345, in RIDL, 2018, 2, II, 375 ss. con nota di A. Petrillo. In tal senso Conte, Sull’obbligo di iscrizione e contribuzione alla gestione separata Inps degli ingegneri esercenti attività libero professionale iscritti all’albo ma esclusi da tutela previdenziale Inarcassa, in LPO, 2018, 5-6, 324. 15 Cfr. circ. Inps 25 giugno 1996, n. 112 e, in termini espliciti, circ. Inps 12 giugno 1996, n.124; in dottrina tesi originariamente paventata da Vianello, La nuova tutela previdenziale, cit., 286,287. 14

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professionisti non abbiano fatto conseguire il richiesto adempimento degli obblighi collaterali alla Gestione separata. Il fenomeno, numericamente rilevante, è sfociato in un contenzioso altrettanto cospicuo all’indomani della cosiddetta operazione PoseidOne avviata dall’Inps nel corso del 2009 per la verifica delle posizioni contributive di tutte le categorie di liberi professionisti e rilanciata negli anni successivi grazie alla implementazione di forme di collegamento delle banche dati telematiche dell’Istituto con quelle dell’Agenzia delle Entrate, delle Camere di Commercio e di altri Enti convenzionati, che hanno consentito di rilevare i redditi dichiarati e non soggetti ad alcuna forma di contribuzione previdenziale valida ai fini IVS16. All’esito di tali riscontri, l’Inps ha disposto l’iscrizione d’ufficio alla Gestione separata con conseguente recupero della contribuzione arretrata calcolata sui redditi prodotti dai professionisti accertati, nei limiti di prescrizione, anche grazie al “conforto” legislativo nel frattempo sopraggiunto con l’art. 18, comma 12, del d. l. 6 luglio 2011, n. 98, conv in l. 15 luglio 2011, n. 111, di interpretazione autentica della legge n. 335/95, art. 2, comma 26. La norma si era resa necessaria per la rilevanza delle dimensioni che il fenomeno andava assumendo e avrebbe dovuto chiarire definitamente la portata applicativa della Gestione separata, statuendo che nel novero dei destinatari dell’obbligo contributivo sono ricompresi «(…) esclusivamente i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia subordinato all’iscrizione ad appositi Albi professionali, ovvero attività non soggette al versamento contributivo agli Enti di cui al comma 11 [le Casse previdenziali di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509 e 10 febbraio 1996, n. 103] in base ai rispettivi statuti ed ordinamenti (…)»17. Sul piano esegetico, però, il bisogno di certezza è stato “tradito” da un dettato normativo che, ancora una volta, ha presentato insidie interpretative. Contrariamente a quanto dato per assodato dall’Inps, il tenore letterale della norma di interpretazione autentica ha alimentato la tesi del carattere meramente residuale della Gestione sperata con la conseguente esclusione dei redditi del professionista anche se assoggettati alla sola contribuzione integrativa prevista dalle Casse categoriali. La formula dell’art. 18, comma12, d. l. n. 98/2011, infatti, con le parole “versamento contributivo” non opererebbe alcuna distinzione tra i tipi di contribuzione rilevanti a tal fine, questo parimenti considerato che sia la contribuzione soggettiva sia quella integrativa assolvono, seppure in diverso modo, alla funzione di «precostituire i mezzi finanziari necessari al raggiungimento dei fini istituzionali delle Casse categoriali»18. Accanto alla argomentazione di carattere testuale, in sede di merito si è originariamente affermato un indirizzo interpretativo maggioritario, sfavorevole all’Inps, basato anche su

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La problematica ha interessato in particolar modo la categoria degli ingegneri e degli architetti per i quali vige il divieto di iscrizione all’Inarcassa nel caso in cui espletano altra attività lavorativa con iscrizione Inps, come testimoniato dalla rilevanza. 17 Così circ. Inps n. 99/2011 e mess. n. 709/2012; l’Istituto ha riaffermato la propria posizione anche nelle circolari n. 5/2011 e n. 74/2014, sostenendo l’iscrivibilità dei professionisti che abbiano esercitato eventuali facoltà di non versamento/iscrizione alla Cassa, in base alle previsioni dei rispettivi Statuti o regolamenti, per mancato raggiungimento di un livello minimo di reddito, esercizio di attività di tirocinio o praticantato, esistenza di altra copertura contestuale allo svolgimento della professione, o qualsiasi altra causa esonerativa dall’obbligo di versamento del contributo soggettivo. 18 Verbatim, Carbone, op. cit., 165.

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questioni di carattere sistematico secondo cui la riforma previdenziale avrebbe istituito la Gestione separata esclusivamente per quei soggetti altrimenti sforniti di qualsiasi forma obbligatoria di previdenza19.

4. La funzione sussidiaria della “gestione separata”

nel riparto di competenze con le casse professionali di previdenza.

Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte ha fugato ogni residuo dubbio sulla valenza sistematica della Gestione separata nel sistema previdenziale riformato. Susseguita ai precedenti di legittimità concernenti le categorie professionali degli architetti e degli ingegneri 20, la vicenda che si è sviluppata in relazione ai requisiti di iscrizione alla Cassa di previdenza ed assistenza dei dottori commercialisti (CNPADC) ha rappresentato l’occasione per il giudice di legittimità di riaffermare la collocazione della Gestione separata nella “logica universalistica della tutela previdenziale”21. Come necessario corollario della sua valenza sistematica ha, conseguentemente, dichiarato la permeabilità del sistema professionale di categoria rispetto al criterio di imponibilità contributiva alla Gestione separata dei redditi rinvenienti dall’esercizio di attività professionale, qualora non assoggettati ad altra forme di contribuzione previdenziale obbligatoria valida ai fini dell’assicurazione IVS. Sul piano sistematico, lo sviluppo argomentativo della sentenza annotata ha preso le mosse dagli esiti della ricostruzione del quadro giuridico previdenziale operata dalle Sezioni Unite nella sentenza del 12 febbraio 2010, n. 3240, analogamente a quanto riscontrabile nei cinque precedenti di legittimità. Sulla scorta di tale ricostruzione sistematica, la Corte ha sostenuto che la Gestione separata fosse stata istituita al fine di estendere la copertura assicurativa sia sul piano soggettivo sia oggettivo. La sua funzione, dunque, assolverebbe alla copertura previdenziale delle categorie dei lavoratori privi di assicurazione e, al contempo, della tipologia di attività lavorativa produttiva di reddito alla quale non corrisponda un regime assicurativo IVS. Con la Gestione separata, dunque, viene conclamata l’esistenza di un regime previdenziale di tipo “complementare” in grado di intercettare le residue attività generatrici di reddito precedentemente non incise da contribuzione. D’altronde la doppia iscrizione è testualmente prevista a livello normativo tramite una differenziazione

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V. Vianello, Attività libero-professionale e iscrizione alla gestione separata INPS. Universalizzazione delle tutele o mera fiscalizzazione del sistema previdenziale?, cit., 298; in tal senso v. anche Conte, op. cit., 326, 327, e la giurisprudenza di merito ivi richiamata, nonché i precedenti richiamati da Petrillo, op. cit., 379, 380 e da Monterisi, Casse di previdenza dei professionisti e gestione separata Inps, in PF, 2016, 1, 16 ss. 20 Cass., 18 dicembre 2017, nn. 30344 e 30345, cit.; Cass., 18 gennaio 2018 n. 1172, in dejure, Cass., 30 gennaio 2018, n. 2282, in DPL, 2018, 23, 1445, con nota di Chies; Cass., 23 gennaio 2018, n.1643, in dejure. 21 Cit. Cinelli, op. cit., 310, per l’A. l’istituzione della gestione separata e la relativa generalizzazione della copertura previdenziale ha colmato una grave lacuna del sistema previdenziale, ai fini dell’attuazione del principio costituzionale sancito dell’art. 35, primo comma, della tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.

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delle aliquote per coloro i quali sono iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria e quanti non lo sono22. Tale conclusione è corroborata dalla dinamica dell’obbligazione contributiva delineata dall’art. 2, comma 26, l. n. 335/1995, che in quanto agganciata alla norma fiscale è basata sostanzialmente sulla mera percezione di un reddito. Secondo la Corte «la copertura assicurativa obbligatoria si traduce operativamente nella regola secondo la quale l’ obbligo (…) di iscrizione alla gestione separata è genericamente rivolto a chiunque percepisca un reddito derivante dall’esercizio abituale (anche se non esclusivo), ma anche occasionale (entro il limite monetario indicato nell’art. 44, comma 2, del D.L. n. 269/2003) di un’attività professionale per la quale è prevista l’iscrizione ad un albo o ad un elenco, anche se il medesimo soggetto svolge anche altra diversa attività per cui risulta già iscritto ad altra gestione». Punctum dolens della vicenda in commento, la predetta regola di carattere generale subisce una deroga solo qualora il reddito prodotto nell’esercizio dell’attività professionale sia integralmente oggetto di obbligo assicurativo. Il riferimento è a quel “versamento contributivo”, ex art. 18, comma 12, d. l. n. 98/2011, che possiede “virtù esonerativa” a condizione che gli si riconosca natura “propriamente previdenziale”23. Tale carattere “virtuoso” è estraneo alla contribuzione integrativa, generalmente calcolata in quota fissa percentuale sul reddito prodotto, dovuta alle Casse previdenziali di categoria per fare fronte ai costi dell’attività istituzionale e, pertanto, improduttiva sul piano delle prestazioni pensionistiche, oltre che priva di ogni corrispettività sul piano previdenziale. Vieppiù che, come posto correttamente in evidenza dalla dottrina più autorevole, i connotati propri della contribuzione integrativa ne lascerebbero trasparire la natura sostanzialmente fiscale, di tributo imposto al professionista per la sola iscrizione all’Albo24. Orbene, alla luce della valenza sistematica riconosciuta dall’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità in materia, in ambito professionale la Gestione separata ha assunto una funzione sussidiaria rispetto a quella delle casse di previdenza ed assistenza di categoria talché, nella logica universalistica, il regime previdenziale della quarta gestione Inps tenderà ad espandersi a discapito del rispettivo riparto di competenze, ogniqualvolta si registri un arretramento di tutela del regime previdenziale professionale di categoria. Alessandro Ventura

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Da ultimo cfr. circ. Inps del 6 febbraio 2019, n. 19, con la quale l’Istituto comunica le aliquote contributive della gestione separata per l’anno 2019. 23 Così Vianello, op. cit., 306. 24 L’analisi che si condivide è di Vianello, op. cit., 309.

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Giurisprudenza C orte d’Appello di Torino, sentenza 4 febbraio 2019, n. 26, Pres. Fierro – Est. Rocchetti – P. M. et al. (Avv. ti Bonetto – Druetta) c. Digital Services XXXVI Italy S.r.l. (Avv.ti Tosi, Lunardon, Realmonte). Lavoro (rapporto di) – Ciclofattorini – Qualificazione – Subordinazione – Esclusione – Collaborazione organizzata dal committente – Sussistenza.

Il rapporto di lavoro dei ciclofattorini addetti al food delivery non è di natura subordinata, essendo inquadrabile nella fattispecie della collaborazione organizzata dal committente di cui all’art. 2 d.lgs. n. 81/2015. Svolgimento del processo. Gli odierni appellanti (oltre al signor M. A.) avevano convenuto in giudizio, avanti al Tribunale di Torino in funzione di Giudice del lavoro, la Digital Services XXXVI Italy s.r.l. (Foodora) deducendo di avere prestato la propria attività lavorativa a favore della convenuta con mansioni di fattorino in forza di contratti di collaborazione coordinata e continuativa a tempo determinato prorogati fino al 30.11.2016 e chiedendo l’accertamento della costituzione tra le parti di un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con condanna della convenuta: - alla corresponsione delle somme a loro dovute a titolo di differenze retributive dirette e indirette e competenze di fine rapporto in forza dell’inquadramento nel V livello del CCNL logistica o nel VI livello del CCNL terziario; - al ripristino del rapporto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento (30.11.2016) a quella dell’effettiva ricostituzione, previo accertamento della nullità, inefficacia o illegittimità del licenziamento; - al risarcimento del danno subito per la violazione da parte del datore di lavoro della normativa in materia di privacy, sia per quanto concerne l’accesso ai dati personali che per quanto concerne il controllo a distanza; - al risarcimento del danno subito per la violazione da parte del datore di lavoro delle disposizioni di cui all’art. 2087 c.c. e per la mancanza di un’adeguata tutela antinfortunistica. Si costituiva in giudizio la convenuta contestando in fatto e in diritto il fondamento delle domande. Dopo avere autorizzato il deposito di memorie sulle deduzioni istruttorie, il giudice interrogava liberamente i ricorrenti e il legale rappresentante della convenuta e ammetteva alcuni dei numerosi capitoli di prova testimoniale dedotti dalle parti. Assunte le prove, all’udienza di discussione dell’11.4.2018, il giudice decideva la causa respingendo tutte le domande proposte e compensando le spese di lite. Avverso la sentenza del Tribunale (n. 778/2018) propongono appello i ricorrenti, avanzando, e reiterando, istanze istruttorie (con particolare riferimento a produ-

zioni documentali) e chiedendo la riforma totale o parziale della stessa e l’accoglimento delle domande già avanzate in primo grado. Resiste l’appellata nel costituirsi, a sua volta, in questo grado di giudizio opponendosi alle istanze istruttorie avversarie e chiedendo, in via di principalità, la conferma della sentenza appellata, in via subordinata chiede di detrarre dalle spettanze eventualmente dovute, tanto per la diversa qualificazione del rapporto di lavoro quanto per il licenziamento, gli importi percepiti dagli odierni appellanti, a decorrere da ottobre 2016, per lo svolgimento di attività lavorativa di qualunque genere ovvero quanto gli odierni appellanti avrebbero potuto percepire in virtù di altra attività lavorativa nella misura che dovesse essere accertata in corso di causa e/o ritenuta di giustizia. In ogni caso, con vittoria di spese, diritti ed onorari del presente giudizio. All’udienza dell’11.01.2019 i Difensori delle Parti hanno concordemente dato atto della rinuncia agli atti, e alla azione, avanzata da M. A. (notificata dallo stesso alla appellata in data 10.12.2018 ed accettata dalla società che non si è, infatti, costituita nei suoi confronti) pertanto il Collegio ha dichiarato l’estinzione del processo nei confronti del ricorrente in questione. Invitati i Difensori alla discussione, all’esito della stessa, la Corte ha deciso la causa come da separato dispositivo di sentenza di cui è stata data lettura. Motivi della decisione * Sulla ricostruzione dei fatti di causa Il primo Giudice, alla luce dell’istruttoria svolta, ha correttamente ricostruito le modalità con le quali i ricorrenti svolgevano la loro attività lavorativa, rilevando che: “La prestazione lavorativa dei ricorrenti si è svolta a grandi linee nel modo seguente. Dopo avere compilato un formulario sul sito di Foodora (doc.12 ricorrenti), venivano convocati in piccoli gruppi presso l’ufficio di Torino per un primo colloquio nel quale veniva loro spiegato che l’attività presupponeva il possesso di una bicicletta e la disponibilità di uno smartphone; in un secondo momento veniva loro proposta la sottoscrizione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, dietro versamento di una


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caparra di E 50, venivano loro consegnati i dispositivi di sicurezza (casco, maglietta, giubbotto e luci) e l’attrezzatura per il trasporto del cibo (piastra di aggancio e box). Il contratto che veniva sottoscritto aveva le seguenti caratteristiche (risultanti dallo stesso doc.6 dei ricorrenti): - era un contratto di “collaborazione coordinata e continuativa”; - era previsto che il lavoratore fosse “libero di candidarsi o non candidarsi per una specifica corsa a seconda delle proprie disponibilità ed esigenze di vita”; - il lavoratore si impegnava ad eseguire le consegne avvalendosi di una propria bicicletta “idonea e dotata di tutti i requisiti richiesti dalla legge per la circolazione”; - era previsto che il collaboratore avrebbe agito “in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo di subordinazione, potere gerarchico o disciplinare, ovvero a vincoli di presenza o di orario di qualsiasi genere nei confronti della committente”, ma era tuttavia “fatto salvo il necessario coordinamento generale con l’attività della stessa committente” - era prevista la possibilità di recedere liberamente dal contratto, anche prima della scadenza concordata, con comunicazione scritta da inviarsi a mezzo raccomandata a/r con 30 giorni di anticipo; - il lavoratore, una volta candidatosi per una corsa, si impegnava ad effettuare la consegna tassativamente entro 30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, pena applicazione a suo carico di una penale di 15 euro; - il compenso era stabilito in E 5,60 al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali per ciascuna ora di disponibilità; - il collaboratore doveva provvedere ad inoltrare all’INPS “domanda di iscrizione alla gestione separata di cui all’art.2, comma 26, della legge 8 agosto 1995 n.335” e la committente doveva provvedere a versare il relativo contributo; - la committente doveva provvedere all’iscrizione del collaboratore all’INAIL ai sensi dell’art.5 del D.Lgs, 23 febbraio 2000 n.38; il premio era a carico del collaboratore per un terzo e della committente per due terzi; - la committente doveva affidare al collaboratore in comodato gratuito un casco da ciclista, un giubbotto e un bauletto dotato dei segni distintivi dell’azienda a fronte di un versamento di una cauzione di E 50. Al contratto era allegato un foglio contenente l’informativa sul trattamento dei dati personali e la prestazione del consenso. La gestione del rapporto avveniva attraverso la piattaforma multimediale “Shyftplan” e un applicativo per smartphone (inizialmente “Urban Ninjia” e poi “Hurrier”), per il cui uso venivano fornite da Foodora delle apposite istruzioni (docc.14 e 15 ricorrenti). L’azienda pubblicava settimanalmente su Shyftplan gli “slot”, con indicazione del numero di riders necessari per coprire ciascun turno.

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Ciascun rider poteva dare la propria disponibilità per i vari slot in base alle proprie esigenze personali, ma non era obbligato a farlo. Raccolte le disponibilità, il responsabile della “flotta” confermava tramite Shyftplan ai singoli riders l’assegnazione del turno. Ricevuta la conferma del turno, il lavoratore doveva recarsi all’orario di inizio del turno in una delle tre zone di partenza predefinite (Piazza Vittorio Veneto, Piazza Carlo Felice o Piazza Bernini), attivare l’applicativo Hurrier inserendo le credenziali (user name e password) per effettuare l’accesso (login) e avviare la geolocalizzazione (GPS). Il rider riceveva quindi sulla app la notifica dell’ordine con l’indicazione dell’indirizzo del ristorante. Accettato l’ordine, il rider doveva recarsi con la propria bicicletta al ristorante, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l’ordine e comunicare tramite l’apposito comando della app il buon esito della verifica. A questo punto, posizionato il cibo nel box, il rider doveva provvedere a consegnarlo al cliente, il cui indirizzo gli era stato nel frattempo comunicato tramite la app; doveva quindi confermare di avere regolarmente effettuato la consegna. * Sulla motivazione posta dal primo Giudice a fondamento della sua decisione. Ciò premesso, il Giudice di prime cure ha ritenuto che tali rapporti di lavoro non avessero natura subordinata alla luce delle seguenti considerazioni: 1) la volontà delle parti che avevano sottoscritto contratti di collaborazione coordinata e continuativa; 2) la circostanza che i ricorrenti non fossero obbligati a dare la propria disponibilità lavorativa per uno dei turni indicati da Foodora e, a sua volta, che la convenuta potesse accettare la disponibilità data dai ricorrenti e inserirli nei turni da loro richiesti ma potesse anche non farlo (pertanto se il datore di lavoro non poteva pretendere dal lavoratore lo svolgimento della prestazione lavorativa non poteva neppure esercitare il potere direttivo e organizzativo); 3) con riferimento all’inserimento del rider in un turno (a seguito della disponibilità manifestata dallo stesso) l’istruttoria aveva dimostrato l’insussistenza dell’esercizio un potere gerarchico disciplinare da parte della società nei confronti dei ricorrenti (convenuta che non aveva mai adottato azioni disciplinari nei confronti degli attori anche se questi dopo avere dato la loro disponibilità la revocavano o non si presentavano a rendere la prestazione). Mentre le modalità di svolgimento della prestazione e le relative indicazioni e verifiche operate dalla convenuta rientravano a pieno titolo nelle esigenze di coordinamento dettate dalla necessità di rispetto dei tempi di consegna. Il primo Giudice ha, pertanto, respinto le domande aventi ad oggetto: la condanna al pagamento delle differenze retributive, quelle di nullità ed inefficacia del


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licenziamento e quelle risarcitorie in quanto presupponevano il riconoscimento della subordinazione. Inoltre il Tribunale, nel rammentare che i ricorrenti avevano invocato in via subordinata l’applicazione della norma di cui all’articolo 2 del d.lgs. 81/2015, ha accolto la tesi sostenuta dalla difesa dell’azienda e cioè che si trattava di una disposizione incapace di produrre nuovi effetti giuridici sul piano della disciplina applicabile alle diverse tipologie di rapporti di lavoro. Posto che: “la norma dispone infatti che sia applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro: è quindi necessario che il lavoratore sia pur sempre sottoposto al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro e non è sufficiente che tale potere si estrinsechi soltanto con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro perché deve al contrario riguardare anche i tempi e il luogo di lavoro. Così come è stata formulata, la norma viene quindi ad avere addirittura un ambito di applicazione più ristretto di quello dell’art.2094 c.c. Senza considerare poi il fatto che appare difficile parlare di organizzazione dei tempi di lavoro in un’ipotesi come quella oggetto di causa in cui i riders avevano la facoltà di stabilire se e quando dare la propria disponibilità ad essere inseriti nei turni di lavoro”. * Sui motivi di appello. La difesa degli appellanti censura la sentenza di primo grado sostenendo che il Tribunale abbia dato eccessivo rilievo ai contratti di collaborazione sottoscritti dai lavoratori, senza sindacare la reale volontà delle parti che, alla luce delle risultanze istruttorie con riferimento ai concreti comportamenti posti in essere in sede precontrattuale, risulterebbe tutt’altro che unanime nel porre in essere rapporti di collaborazione autonoma. Inoltre, il Giudice di prime cure non avrebbe nemmeno considerato che non vi era piena corrispondenza tra il testo dei presunti contratti e la realtà dell’attività lavorativa svolta dai ricorrenti. Viene ribadito che dalle prove acquisite emergerebbe la sottoposizione dei riders al potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro. È criticata, infine, l’interpretazione data dal Giudice di prime cure alla disposizione del “jobs act” intesa come eccessivamente restrittiva e contraddittoria, ove la norma è ritenuta avere un ambito di applicazione più limitato di quello dell’articolo 2094 cc (spiegazione che finisce con il vanificare l’effettiva intenzione del legislatore che l’ha posta in essere). * Sulle istanze di acquisizione documenti in appello. Ora, prima di esaminare i motivi di impugnazione, appare necessario decidere sulle nuove istanze di produzione documenti avanzate dalla difesa degli appellanti in questo grado di giudizio. A) Viene chiesta l’acquisizione (allegato 1 in appello) della trascrizione di alcune mail e chat riguardanti

gli appellanti di epoca anteriore al giudizio di primo grado (anno 2016) e del questionario INAIL relativo a un infortunio subito dal Signor Omissis in data 4.9.2016 (riguardo al quale nulla era stato allegato e dedotto nel ricorso introduttivo del giudizio). Nonché di mail contenenti bozze di contratto di assunzione full- time inviata al Sig. M. e part-time al Sig. R. (non firmate). Ritiene, però, il Collegio che si tratti di produzioni tardive e comunque inammissibili ove non si sostanziano in documenti. Pertanto tale produzione non viene ammessa. B) Viene chiesta l’acquisizione di un cd (allegato 2) contenente la registrazione di una puntata di una trasmissione televisiva (“carta bianca”) del 24.4.2018 e tale produzione è ammessa ed acquisita al fascicolo processuale in quanto successiva alla sentenza di primo grado e producibile solo in appello, riservando il Collegio ogni valutazione sulla rilevanza della stessa. C) Viene chiesta l’acquisizione di un documento (allegato 3) tratto da un sito della appellata dal quale si evincerebbe (circostanza contestata dalla difesa della società) che Foodora richiedeva almeno 20 ore di disponibilità settimanali agli aspiranti riders. Ora, il documento in questione è sì successivo al giudizio di primo grado (è del giugno 2018) tuttavia è irrilevante posto che gli appellanti nel ricorso introduttivo del giudizio non hanno dedotto di avere lavorato mediamente 20 ore settimanali. Le uniche deduzioni sul punto sono state fatte dalla convenuta nella sua memoria di costituzione con l’indicazione per ciascuno di essi di un orario inferiore e la stessa difesa degli appellanti, solo in sede di discussione in questo grado di giudizio, ha sostenuto (senza che vi fossero allegazioni sul punto) lo svolgimento di un monte ore lavorativo settimanale superiore a quello indicato dall’azienda ma comunque inferiore alle 20 ore settimanali asseritamente richieste dalla società. Il Collegio decide, quindi, di non acquisirlo. D) Viene chiesta l’acquisizione del fascicolo contenente l’attività di accertamento effettuata dall’Ispettorato del lavoro (a seguito di denuncia dei lavoratori) e di copia di un reclamo proposto dagli appellanti all’Autorità Garante della privacy, produzione che il Collegio non ritiene di acquisire alla luce del provvedimento di reiezione della opposizione alla archiviazione del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Torino del 12.07.2018, conseguente a un esposto-querela presentato contro ignoti per gli stessi fatti (asserita violazione dell’articolo 4 l. n.300/70 e violazione della normativa in materia antinfortunistica). * Sulla subordinazione. Con riferimento alla sussistenza, o meno, del vincolo della subordinazione il Collegio non può non rilevare che i rapporti di lavoro oggetto di causa hanno avuto una durata compresa tra i sei e gli undici mesi (6 mesi Ca., 7 mesi La., 8 mesi Pi. e Gi. e 11 mesi Ru.) con una

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prestazione media decisamente inferiore alle 20 ore settimanali (anche a volere accedere a quanto sostenuto, solo in sede di discussione e senza alcun riscontro, dalla difesa degli appellanti -quella della appellata aveva indicato un “range” da 7 ore settimanali a 12 ore alla luce di quanto riportato nelle buste paga- i lavoratori in questione avrebbero lavorato in media dalle 68,5 ore mensili alle 44/45 ore). Si tratta di modalità, come evidenziato dalla difesa della società, già di per sé poco compatibili con la natura subordinata dei rapporti di lavoro in essere. Quello che però rileva, per escludere la sussistenza della subordinazione, è la circostanza che gli appellanti erano liberi di dare, o no, la propria disponibilità per i vari turni (slot) offerti dalla azienda. Erano loro che decidevano se, e quando, lavorare senza dovere giustificare la loro decisione e senza doversi cercare un sostituto, inoltre potevano anche non prestare servizio nei turni per i quali la loro disponibilità era stata accettata, revocando la stessa o non presentandosi (swap - funzione di revoca- e no show - mancata presentazione). In merito si richiama la deposizione del teste Mo. (aveva svolto l’attività di rider dal febbraio 2016 al settembre dello stesso anno): “Se uno dopo essersi prenotato per un turno, ma prima che iniziasse, voleva togliere la propria disponibilità doveva utilizzare la funzione swap inoltrando una richiesta, a quel punto bisognava aspettare una risposta che arrivava via e-mail. Non si poteva considerare cambiato il turno fino a quando non si riceveva la mail di risposta che indicava il cambio di turno. Poteva capitare che qualcuno non si presentasse, in questo caso veniva richiamato dal sistema ed eventualmente escluso dal turno. Non è in realtà emerso che qualcuno sia stato costretto a effettuare un turno per il quale aveva dato la disponibilità poi revocata, tramite la funzione swap o nei fatti per mancata presentazione-no show- e, come correttamente evidenziato dal primo Giudice, non è risultato che in tali casi l’azienda adottasse provvedimenti sanzionatori. Quindi mancava il requisito della obbligatorietà della prestazione. In merito la difesa degli appellanti ha fatto riferimento a una serie di sentenze della Suprema Corte riguardanti gli addetti al ricevimento delle giocate presso le agenzie ippiche e le sale scommesse. In particolare è stata menzionata la sentenza n.3457 del 13.02.2018 che ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Genova che aveva ritenuto la sussistenza del vincolo della subordinazione poiché:“In base all’attività istruttoria espletata il rapporto di lavoro in questione risultava essersi svolto proprio in base le modalità indicate dalla citata giurisprudenza, ovverosia mediante la chiamata a seconda della necessità con fa-

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coltà di aderire da parte della lavoratrice. A completamento del ragionamento, la Corte distrettuale rilevava come l’attività svolta fosse priva di autonomia organizzativa, nel senso che si inseriva in un lavoro preordinato, nelle modalità e funzioni, dalla strutturazione stessa dell’impresa dell’appellante, nel cui ambito la D., come altri, semplicemente si occupava, quando chiamata, di raccogliere le giocate e di pagare le vincite all’interno dell’agenzia ippica. Insomma, vi era stabile inserimento nell’organizzazione altrui e assolvimento di compiti essenziali, senza i quali essa non poteva funzionare, con appunto alienità di questa e ad un tempo alienità dei risultati della prestazione (aspetti decisivi e sufficienti, questi ultimi due secondo Corte cost. 5 feb. 1996 n. 30, seguita da Cass. lav. n. 820/07, per qualificare come subordinata un’attività lavorativa). Nel citato arresto la Suprema Corte ha affermato che: 4.d. La predisposizione e l’assoggettamento sono la descrizione del contenuto del rapporto, nel suo materiale svolgimento. Il fatto che il lavoratore sia libero di accettare o non accettare l’offerta e di presentarsi o non presentarsi al lavoro e senza necessità di giustificazione, non attiene a questo contenuto, bensì è esterno, sul piano non solo logico bensì temporale (in quanto precede lo svolgimento). Tale fatto è idoneo solo (eventualmente) a precludere (per l’assenza di accettazione) la concreta esistenza d’un rapporto (di qualunque natura); e comporta la conseguente configurazione di rapporti instaurati volta per volta (anche giorno per giorno), in funzione del relativo effettivo svolgimento, e sulla base dell’accettazione e della prestazione data dal lavoratore. L’accettazione e la presentazione del lavoratore, espressioni del suo consenso, incidono (come elemento necessario ad ogni contratto) sulla costituzione del rapporto e sulla sua durata: non sulla forma e sul contenuto della prestazione (e pertanto sulla natura del rapporto). 4. e. Egualmente è a dirsi per la possibilità che, fin dall’inizio o nello svolgimento del rapporto, il lavoratore, con il preventivo generale consenso del datore, si faccia sostituire da altri, che gli subentra: fatto temporalmente e logicamente esterno al contenuto ed allo svolgimento della prestazione. Poiché il singolo rapporto si instaura volta per volta (anche giorno per giorno), sulla base dell’accettazione e della prestazione data dal lavoratore ed in funzione del suo effettivo svolgimento, la preventiva sostituibilità incide sull’individuazione del lavoratore quale parte del singolo specifico contingente rapporto: non esclude la personalità del rapporto stesso (che poi si instaura), e pertanto la subordinazione, la quale resta riferita a colui che del rapporto è effettivamente (pur contingentemente) soggetto (svolgendo la prestazione e percependo la retribuzione)”. Ora, pur con la doverosa attenzione a tale autorevole pronuncia, e però considerando che quando si deve analizzare una sentenza non si può che fare riferimento al contesto in cui si è realizzata la prestazione lavorativa oggetto di causa (che era quello delle agenzie ippiche e


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non del lavoro nelle piattaforme digitali, come nel nostro caso), non ritiene questo Collegio di potere condividere la sentenza nella parte in cui afferma che la libertà di presentarsi o meno a rendere la prestazione (senza dovere fornire giustificazioni in merito) possa configurarsi come elemento “esterno al contenuto del rapporto”. Non solo la modalità di svolgimento della prestazione ma anche l’obbligo di lavorare sono requisiti di fattispecie nell’articolo 2094 cc. Il contenuto dell’obbligazione gravante sul dipendente è testualmente definito dall’articolo 2094 cc come prestazione del proprio lavoro, sicché il predetto obbligo entra a far parte del contratto. Si rammenta che sempre la Suprema Corte, in altra sentenza che pure aveva esaminato la giurisprudenza della Cassazione che all’epoca si era formata con riferimento agli addetti delle sale scommesse (da ultimo confermata nel sopracitato arresto) aveva nondimeno affermato che: “Ai fini della distinzione fra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo, assume comunque valore determinante - anche a voler accedere ad una nozione più ampia della subordinazione, con riferimento a sistemi di organizzazione del lavoro improntati alla “esteriorizzazione” di interi cicli del settore produttivo l’accertamento della avvenuta assunzione, da parte del lavoratore, dell’obbligo contrattuale di porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative e di impiegarle con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro e in funzione dei programmi cui è destinata la produzione, per il perseguimento dei fini propri dell’impresa datrice di lavoro (nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva escluso la subordinazione in relazione ad una lavoratrice che, facendo parte di un gruppo di giovani che prestavano di sera la propria attività di camerieri presso un ristorante, veniva indirizzata presso l’esercizio secondo turni giornalieri e settimanali organizzati dalla stessa lavoratrice secondo accordi con il suo gruppo, a seconda delle proprie esigenze, senza obbligatorietà della prestazione). (Sez. L, Sentenza n. 2842 del 26/02/2002, Rv. 552597 - 01). È innegabile che, a seguito della stipula del contratto di lavoro, in capo al lavoratore sorge l’obbligazione principale di eseguire la prestazione lavorativa, sottostando, entro i limiti sanciti dalla legge e dai contratti collettivi, al potere direttivo e al potere disciplinare del datore di lavoro. Nel caso di specie l’appellata poteva disporre della prestazione lavorativa degli appellanti solo se questi decidevano di candidarsi a svolgere l’attività nelle fasce orarie (slot) stabilite. È vero che si trattava di slot predeterminati dalla società ma è anche vero che la stessa non aveva il potere di imporre ai riders di lavorare nei turni in questione o di non revocare la disponibilità data, a dimostrazione della insussistenza del vincolo della subordinazione.

Alla luce di quanto sopra sottolineato assume allora rilevanza (anche se non decisiva ma comunque rafforzativa circa la valutazione autonoma dei rapporti di lavoro oggetto di causa) il nomen juris concordemente adoperato dalle parti in sede di conclusione dell’accordo, proprio ai fini della qualificazione del rapporto medesimo. Pertanto la domanda principale dei ricorrenti/odierni appellanti deve essere respinta. * Sull’applicazione dell’articolo 2 del d.lgs. 81/2015. Non ritiene, invece, il Collegio di condividere quanto affermato dal Tribunale in relazione alla invocata (in via subordinata) applicazione della norma di cui all’articolo 2 del D.lgs 81/2015 secondo cui: “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Ritenere, infatti, che una norma di legge non abbia un contenuto precettivo (come pur affermato da autorevole dottrina, tra cui spicca la difesa della appellata) è una valutazione che si comprende in ambito scientifico ma è preclusa ad un Organo giudicante il quale è tenuto ad applicare le leggi dello Stato in vigore, anche se si tratta di una norma di non facile interpretazione stante il sottile confine tra il dettato della stessa e il disposto dell’articolo 2094 cc. Compito del Giudice è quindi quello di interpretare la norma, delinearne l’ambito di applicazione (il perimetro) e verificare se la fattispecie concreta (oggetto di causa) rientri nella previsione della stessa. Secondo il Collegio la norma in questione individua un terzo genere, che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 cc e la collaborazione come prevista dall’articolo 409 n.3 c.p.c. evidentemente per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito della evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle recenti tecnologie, si stanno sviluppando. Postula un concetto di etero-organizzazione in capo al committente che viene così ad avere il potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa del collaboratore e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi di lavoro. Pur senza “sconfinare” nell’esercizio del potere gerarchico, disciplinare (che è alla base della eterodirezione) la collaborazione è qualificabile come etero-organizzata quando è ravvisabile un’effettiva integrazione funzionale del lavoratore nella organizzazione produttiva del committente, in modo tale che la prestazione lavorativa finisce con l’essere strutturalmente legata a questa (l’organizzazione) e si pone come un qualcosa che va oltre alla semplice coordinazione di cui all’articolo 409 n. 3 c.p.c, poiché qui è il committente che determina le modalità della attività lavorativa svolta dal collaboratore.

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Abbiamo così l’esercizio del potere gerarchico-disciplinare- direttivo che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato ex art 2094 cc (in cui il prestatore è comunque tenuto all’obbedienza), l’etero-organizzazione produttiva del committente che ha le caratteristiche sopra indicate (e rientra nella previsione di cui all’articolo 2 del del D.lgs 81/2015) e la collaborazione coordinata ex art 409 n.3 c.p.c. in cui è il collaboratore che pur coordinandosi con il committente organizza autonomamente la propria attività lavorativa (in questo caso le modalità di coordinamento sono definite consensualmente e quelle di esecuzione della prestazione autonomamente). Altro aspetto importante, per stabilire se al caso concreto è applicabile la norma in questione, è quello di accertare se la prestazione lavorativa ha il carattere della “continuatività”. Carattere che, ritiene il Collegio, deve essere valutato in senso ampio tenuto conto della funzione di tutela della norma e della peculiarità (e continua evoluzione) dei rapporti di lavoro che è chiamata a disciplinare. Va quindi intesa da un lato come non occasionalità e dall’altro, riguardo alla esecuzione della prestazione, come svolgimento di attività che vengono (anche se intervallate) reiterate nel tempo al fine di soddisfare i bisogni delle parti. Alla luce di quanto sopra, tenuto conto delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa dei ricorrenti come descritte, ritiene il Collegio che la domanda avanzata dagli stessi in via subordinata debba essere accolta. Gli appellanti, infatti, lavoravano sulla base di una “turnistica” stabilita dalla appellata, erano determinate dalla committente le zone di partenza, venivano comunicati loro tramite app gli indirizzi cui di volta in volta effettuare la consegna (con relativa conferma), i tempi di consegna erano predeterminati (30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo). Indubbiamente le modalità di esecuzione erano organizzate dalla committente quanto ai tempi e ai luoghi di lavoro. Inoltre gli appellanti avevano sottoscritto dei contratti di collaborazione nei quali era prevista una durata di alcuni mesi e avevano svolto attività per la società appellata in via continuativa per quasi tutte le settimane in tale arco temporale. Ritiene, infine, questa Corte che l’applicazione dell’articolo 2 d.lgs 81/2015 non comporti la costituzione di una rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra le parti, come chiesto dalla Difesa degli appellanti. La norma stabilisce solo che a far data dal 1° gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione autonoma etero-organizzata (in essere), che però continuano a mantenere la loro natura. Ciò significa che il lavoratore etero-organizzato resta, tecnicamente, “autonomo” ma per ogni altro aspetto, e in particolare per quel che riguarda sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (quindi inquadra-

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mento professionale), limiti di orario, ferie e previdenza, il rapporto è regolato nello stesso modo. Viene, pertanto, fatto salvo l’assetto negoziale stabilito dalle parti in sede di stipulazione del contratto con l’estensione delle tutele previste per i rapporti di lavoro subordinato. Quindi, entro tali limiti, deve essere accolta la domanda degli appellanti volta al riconoscimento del loro diritto a ottenere il trattamento retributivo dei lavoratori dipendenti ma solo riguardo ai giorni e alle ore di lavoro effettivamente prestate. Non essendo l’appellata iscritta ad alcuna associazione imprenditoriale che abbia sottoscritto contratti collettivi, ritiene il Collegio (riguardo all’attività e alle mansioni svolte dai ricorrenti) che debba essere riconosciuta loro (ex art 36 Cost) la retribuzione diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti del V livello del CCNL logistica-trasporto-merci. In tale livello sono, infatti, inquadrati i fattorini addetti alla presa e alla consegna. La società appellata dovrà, così, essere condannata a pagare a ciascuno degli appellanti quanto dovuto in relazione ai giorni e alle ore di attività lavorativa effettivamente prestata dai medesimi, dedotto quanto da loro già percepito (sul punto, nelle conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio, è stata richiesta solo la condanna generica). * Sui licenziamenti. La domanda deve essere respinta posto che non vi è riconoscimento della subordinazione. Inoltre i contratti di collaborazione prorogati fino al 30.11.2016 non sono stati rinnovati alla scadenza. L’appellata ha offerto ai riders con contratto in scadenza a novembre 2016 (tra cui gli odierni appellanti) la prosecuzione del rapporto con modalità diverse (retribuzione a cottimo). Si vedano gli allegati 9-10 alla memoria di costituzione della convenuta nel primo grado di giudizio, comunicazioni con le quali si invitano i ricorrenti a partecipare ad un incontro in data 2.11.2016 in cui sarebbero state loro illustrate loro le nuove proposte contrattuali. Non vi è stata pertanto una interruzione, da parte della società, dei rapporti di lavoro in essere prima della loro scadenza naturale. * Sul risarcimento del danno per violazione dell’articolo 2087 cc. Nel caso di specie si deve evidenziare che, a prescindere dall’ambito di applicazione dell’articolo 2087 cc, gli odierni appellanti non imputano alla appellata alcun danno patrimoniale derivante dalla violazione di tale norma (e di norme antinfortunistiche specifiche) e chiedono il ristoro di un danno non patrimoniale non meglio precisato (lo stesso Ca. solo in sede di appello ha dedotto tardivamente l’esistenza di un infortunio senza muovere, nel ricorso presentato in questa fase di giudizio, alcun specifico rilievo alla società). Ora, si rammenta che la Suprema Corte ha affermato che:


Adalberto Perulli

Possono essere risarcite plurime voci di danno non patrimoniale, purché allegate e provate nella loro specificità, purché si pervenga ad una ragionevole mediazione tra l’esigenza di non moltiplicare in via automatica le voci risarcitorie in presenza di lesioni all’integrità psicofisica della persona con tratti unitari suscettibili di essere globalmente considerati, e quella di valutare l’incidenza dell’atto lesivo su aspetti particolari che attengono alla personalità del danneggiato. (Sez. 1 - , Ordinanza n. 13992 del 31/05/2018, Rv. 649164 - 01). La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, come predicata dalle sezioni unite della S.C., deve essere interpretata, rispettivamente, nel senso di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto non suscettibile di valutazione economica e come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, procedendo ad un accertamento concreto e non astratto, dando ingresso a tutti i mezzi di prova normativamente previsti, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni. (Sez. 3 - , Sentenza n. 901 del 17/01/2018, Rv. 647125 - 01) Il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, quale il diritto alla libera manifestazione del pensiero, non può mai ritenersi “in re ipsa”, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici. (Fattispecie in tema di danno non patrimoniale lamentato da un rappresentante sindacale aziendale, che era stato sanzionato illegittimamente per aver offeso l’onore del datore di lavoro denunciando, nei limiti della verità oggettiva, irregolarità negli appalti, e che aveva allegato genericamente di aver subito discredito nell’ambiente di lavoro e sociale, a causa dell’irrogazione della sanzione disciplinare, poi annullata dal giudice). (Sez. L, Sentenza n. 7471 del 14/05/2012, Rv. 622793 - 01). Orientamento oramai uniforme scaturente da Cass. SU 26972/2008. La relativa domanda deve, pertanto, essere respinta. *Sul risarcimento del danno per violazione della normativa in materia di privacy e sui controlli a distanza. Anche con riferimento a tale domanda il Collegio non può che rilevare come i ricorrenti (odierni appellanti) non abbiano dedotto né provato di avere subito un danno dall’asserito illegittimo utilizzo dei dati personali, limitandosi a chiedere un risarcimento di E 20.000,00 per ciascuno senza nemmeno indicare (come correttamente evidenziato dal Giudice di prime cure) alcun parametro utile alla quantificazione del danno subito. Tra l’altro tale ultimo passaggio motivazionale della appellata sentenza non risulta essere oggetto di alcuna specifica doglianza nei motivi di impugnazione. Ora, la Suprema Corte in merito ha ritenuto che:

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale per violazione dell’art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. codice della privacy), è ammissibile la prova per testimoni di tale danno, in quanto esso non può ritenersi “in re ipsa”, ma va allegato e provato, sia pure attraverso il ricorso a presunzioni semplici, e, quindi, a maggior ragione, tramite testimonianze, che attestino uno stato di sofferenza fisica o psichica. (nel caso di specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che non aveva ammesso la testimonianza circa la sofferenza psicologica di un soggetto, dovuta alla comunicazione di dati afferenti la sua appartenenza sindacale). (Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 22100 del 26/09/2013, Rv. 627948 - 01). Non decisiva è pertanto l’ordinanza della Suprema Corte n.14242 del 4/6/2018 (invocata dalla difesa degli appellanti) che aveva respinto il ricorso della Agenzia delle Dogane che era stata condannata al risarcimento del danno in favore di un suo dipendente il quale era stato oggetto di un provvedimento di trasferimento, a seguito di una indagine avviata dalla locale Procura della Repubblica, poiché nella stessa determina si dava atto della vicenda ed era stata comunicata utilizzando un protocollo ordinario e rendendo quindi la vicenda di pubblico dominio. In tale pronuncia la Suprema Corte aveva affermato che: 1) spetta al giudice valutare, sulla base delle allegazioni del danneggiato e di presunzioni semplici (tenendo anche conto dell’eventuale prova contraria fornita dal danneggiante) se il danno debba essere risarcito in quanto lesivo di diritti la cui violazione non debba e non possa essere tollerata dal danneggiato; 2) una volta ritenuto che il bene violato faccia parte di valori fondamentali, ovvero dei diritti inviolabili della persona, il Giudice deve disporre che il danno debba essere risarcito quantomeno in via equitativa, salvo la prova contraria dedotta dal danneggiante. Però in quel caso (come evidenziato dalla Cassazione) dalla sentenza impugnata si evinceva provata l’illecita lesione del diritto alla riservatezza del ricorrente mediante la diffusione di dati giudiziari inerenti alla sua persona, il giudicante aveva così ritenuto, ricorrendo a presunzioni semplici, che tale condotta avesse causato nel dipendente un forte senso di turbamento e di vergogna. A dimostrazione che un danno, per essere risarcito in sede civile, deve essere allegato e provato, cosa che nel nostro caso non è avvenuta. Identiche considerazioni vanno fatte riguardo alla denunciata violazione della normativa sui controlli a distanza, con particolare riferimento alla geo-localizzazione tramite gli smartphone, posto che difetta qualsiasi allegazione sulla sussistenza e l’entità di un pregiudizio (non dimostrabile alla luce di quanto dedotto nel ricorso introduttivo del primo grado di giudizio). * In conclusione. L’appello merita quindi di essere accolto in misura parziale, nel senso che deve essere accertato e dichiarato che (ex art 2.dlgs 81/2015) gli appellanti hanno il diritto di vedersi corrispondere quanto maturato in

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relazione alla attività lavorativa da loro effettivamente prestata in favore dell’appellata sulla base della retribuzione, diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti del V livello CCNL logistica trasporto merci, dedotto quanto percepito. Inoltre l’appellata deve essere condannata a pagare a ciascun appellante il dovuto in conformità a quanto sopra deciso oltre interessi e rivalutazione monetaria dal dovuto al saldo.

Le restanti domande avanzate dagli appellanti devono, invece, essere respinte con conseguente assoluzione dalle stesse della appellata. Ritiene il Collegio, in relazione all’esito della causa, di compensare nella misura di due terzi le spese di entrambi i gradi di giudizio, la restante parte, liquidata come da dispositivo, deve essere posta a carico della appellata parzialmente soccombente. – Omissis.

I lavoratori delle piattaforme e le collaborazioni etero-organizzate dal committente: una nuova frontiera regolativa per la Gig Economy? Sommario : 1. Premessa; – 2. La subordinazione insussistente; – 3. L’art. 2 del d.lgs. 81/2015: una norma non apparente; – 4. Un terzo genere?; – 5. Le prospettive legislative.

Sinossi. Il commento alla sentenza della corte d’Appello di Torino sul caso dei riders di Foodora mette in evidenza l’interpretazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 in materia di collaborazioni organizzate dal committente in connessione sistematica con le categorie della subordinazione (art. 2094 c.c.) e delle collaborazioni coordinate e continuative (art. 409, n. 3, c.p.c.). La norma, che non coincide né con l’ambito di applicazione della fattispecie tipica di subordinazione (caratterizzata dall’esercizio del potere direttivo datoriale) né con quella delle collaborazioni coordinate (connotate dall’autonomia organizzativa del prestatore), ha come scopo l’estensione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a rapporti di lavoro autonomo “etero-organizzato”, che restano tali nonostante l’assimilazione regolativa attuata dal disposto in esame. Il commento rappresenta l’occasione per uno sguardo d’orizzonte più ampio sulle prospettive regolative dei rapporti di lavoro nell’ambito della Gig economy. Abstract. The comment on the judgment of the Court of Appeal of Turin on the case of Foodora’s riders highlights the interpretation of the art. 2 of Legislative Decree no. 81/2015 on the subject of collaborations organized by the client in systematic connection with the categories of subordination (art. 2094 c.c.) and coordinated and continuous collaborations (art. 409, n. 3, c.p.c.). The rule, which does not coincide with the scope of application of the typical subordination case (characterized by the exercise of employer management power) nor with that of coordinated collaborations (characterized by the employee’s organizational autonomy), has the aim of extending of the regulation of the employment relationship subordinated to relationships of autonomous work “heteroorganized”, which remain such despite the regulatory assimilation implemented by the provision in question. The comment represents the occasion for a broader view of the regulatory perspectives of labor relations within the Gig economy.

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1. Premessa. Era naturale che il primo banco di prova per l’applicazione di una norma volta ad estendere il campo di applicazione delle tutele del rapporto di lavoro subordinato riguardasse una delle nuove attività lavorative, formalmente autonome, rese possibili dalla proliferazione di piattaforme digitali, riconducibili al complesso fenomeno del crowd-working ovvero, come nel caso in esame, al work on demand via app, presente soprattutto nel settore dei servizi. Questo inedito segmento del mercato del lavoro intermediato dalle piattaforme digitali soffre la mancanza di alternative concrete alla riconduzione del caso di specie al dominio della subordinazione, unica vera spiaggia in un sistema giuridico che continua a riprodurre una iniqua segmentazione tra attività lavorative effettivamente tutelate (perché subordinate) e attività prestatorie sprovviste di protezione sociale adeguata (perché rese in forma autonoma). Come dire che, di fronte alla grande dicotomia tra autonomia e subordinazione, la ratio di tutela del diritto del lavoro continua a riferirsi unicamente al lavoro salariato, lasciando il variegato mondo del lavoro autonomo, all’interno del quale allignano le forme più precarie della para-subordinazione, alle debolissime garanzie previste dalla legge n. 81/20171. Una situazione parzialmente diversa vivono quegli ordinamenti in cui la grande dicotomia, pur presente, smorza i suoi toni mediante congegni di tutela applicabili ai lavoratori non subordinati, ma comunque bisognosi di protezione sociale: è il caso di quei sistemi giuridici che, prendendo atto di una crescente inefficienza della logica binaria nel garantire un adeguato equilibrio tra universalismo e selettività delle tutele, estendono solo alcune protezioni tipiche del diritto del lavoro ai prestatori collocati nell’area grigia, dando vita a quelle che vengono (impropriamente) qualificate come “categorie intermedie”2. Talvolta la creazione di queste intermediate categories si è dimostrata abbastanza efficace nel garantire ai prestatori delle piattaforme digitali alcune protezioni minime fondamentali, in materie come il compenso e l’orario di lavoro (è il caso del Regno Unito, dove gli autisti di Uber sono stati qualificati dal Tribunale come workers), mentre in altri casi, come la Spagna, la Germania e l’Italia, le forme di lavoro parasubordinato o economicamente dipendente risultano non adeguatamente protette, ed aprono la via a diffuse prassi abusive sintetizzate nella formula del “falso lavoro autonomo”, evocata anche dalla Corte di Giustizia europea per identificare quei lavoratori – appunto, falsi lavoratori autonomi – ai quali si consente l’esercizio dei diritti collettivi senza che ciò comporti un conflitto con il diritto della concorrenza3. In altri contesti, come quello francese, il legislatore è intervenuto direttamente per fornire un set di tutele minime ai lavoratori (non subordinati) delle piattaforme, di fatto realizzando un sistema selettivo e mirato di protezione: la Loi Travail, recante «nouvelles

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In tema si vedano i saggi di Perulli, Razzolini, Martone e Cagnin in Fiorillo, Perulli (a cura di) Il jobs act del lavoro autonomo e del lavoro agile, Giappichelli, 2018. Per un’analisi comparativa sia consentito il rinvio allo studio realizzato da chi scrive per la CE: Perulli, Economically dependent/quasisubordinate (parasubordinate) employment: Legal, social and economic aspects, Brussels, 2003; di recente dedica attenzione a questa tematica, tra gli altri, Davidov, A Purposive approach to Labour Law, OUP, 2016, 135 ss. C. giust., 4 dicembre 2014, C-413/13; secondo l’opinione dell’Avvocato Generale Wahl tra i disguised self employed vi sarebbero anche i self-employed persons who are economically dependent on a sole (or main) customer (para. 52).

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libertés et de nouvelles protections pour les entreprises et les actif», si è mossa in questo senso, laddove prevede regole applicabili ai «lavoratori autonomi che ricorrono per l’esercizio della loro attività professionale a una o più piattaforme di messa in relazione per via elettronica» onde, qualora la piattaforma determini le caratteristiche della prestazione di servizi forniti o del bene venduto e fissi il suo prezzo, vengono garantiti al prestatore una serie di diritti normalmente non riconosciuti ai lavoratori autonomi4. In questo scenario il nostro sistema si caratterizza per la presenza nel tessuto normativo di una norma assai peculiare, l’art. 2, co.1, del d.lgs. n. 81/2015, la cui formulazione e i cui effetti sono stati oggetto di una accesa discussione dottrinale5. Con questa norma si prevede l’estensione della disciplina del lavoro subordinato (a far data dal 1 gennaio 2016) anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Nonostante una grossolana assonanza con l’incipit dell’art. 409, n. 3, c.p.c., le “collaborazioni organizzate dal committente” non coincidono con le collaborazioni coordinate e continuative previste dall’art. 409, n. 3, c.p.c.. Si tratta, infatti, di prestazioni “organizzate”, non “coordinate”; “personali”, non prevalentemente personali”; “di lavoro” e non – come recita la norma processualistica – di “opera”. Tale norma, del tutto inapplicata, sembrava destinata a rimanere lettera morta, vuoi perché una diffusa opinione dottrinale ne depotenziava la portata innovativa ritenendola sostanzialmente ripetitiva di assetti regolativi già codificati dalla giurisprudenza in materia di subordinazione, sino al punto da farne una norma “apparente”, sia perché la stessa giurisprudenza chiamata ad applicarla nei confronti dei fattorini di Foodora ne aveva fornito un’interpretazione paradossale, tale da individuarne, del tutto inutilmente, un campo di applicazione addirittura più ristretto rispetto a quello delineato dall’art. 2094 c.c.. Di conseguenza, si è diffusa in dottrina l’opinione secondo cui nell’ambito del lavoro prestato tramite piattaforme, caratterizzato da un’ampia libertà di scelta circa il se, il dove e il quando dell’attività, gli spazi di potenziale applicazione dell’art. 2 risultano “assai ridotti, se non nulli”6. Come ora vedremo, queste scettiche conclusioni potrebbero venire smentite ove si confermasse la chiara e rigorosa rilettura della norma offerta dalla Corte d’Appello di Torino (sentenza n. 26/2019), la quale ha accolto in misura parziale l’appello presentato dai riders, riformando la sentenza di primo grado che aveva negato sia la natura subordinata del rapporto sia la loro riconducibilità al lavoro etero-organizzato ex art. 2, d. lgs. n. 81/2015. La Corte ha messo in luce i travisamenti delle precedenti ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali, ponendo le premesse per una corretta impostazione dei profili

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Si tratta dell’assicurazione sociale in caso di infortuni e malattie professionali, di un diritto alla formazione professionale e alla certificazione delle competenze, ma anche di diritti collettivi come il diritto di organizzazione sindacale, una sorta di diritto sciopero inteso come peculiare strumento di tutela contro i comportamenti ritorsivi della piattaforma, ed infine dell’indennità di disoccupazione per i lavoratori che perdano le occasioni di operare sul mercato attraverso le piattaforme tecnologiche. Sia consentito sin d’ora, anche per il dialogo critico instaurato con la dottrina e per i riferimenti bibliografici, il rinvio a Perulli, Le collaborazioni organizzate dal committente, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Giappichelli, 2015, 279 ss.; Perulli, Le nuove frontiere del diritto del lavoro, in RGL, 2016, I, 11 ss. Cfr. Dagnino, Ancora ostacoli sulla “via giurisprudenziale” alla protezione dei lavoratori della Gig Economy in Italia, in ADL, 2019, II, 164.

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teorico-ricostruttivi sollevati dall’interpretazione della norma in esame nel suo complesso raccordo sistematico con le categorie della subordinazione dell’autonomia, e con le loro interne declinazioni, aprendo di fatto, inaspettatamente, un nuovo e forse promettente fronte regolativo per il platform work7.

2. La subordinazione insussistente. Secondo la Corte d’Appello di Torino, che conferma sul punto la statuizione del Tribunale torinese, i rapporti di lavoro dei rideres di Foodora non sono di natura subordinata in ragione della non obbligatorietà della prestazione di lavoro e della correlativa mancanza di un obbligo di ricevere la prestazione, ove offerta, in capo al committente/datore di lavoro. Come è noto, la questione della riconducibilità a subordinazione di una fattispecie in cui il prestatore può, senza incorrere in sanzioni, svincolarsi dall’obbligo di assoggettamento al potere direttivo si era posta, molti anni or sono, con riferimento ai c.d. pony express, antenati dei moderni riders, che già solcavano le strade delle città consegnando a domicilio: questione risolta negativamente dalla Cassazione in quanto «la configurabilità dell’eterodirezione contrasta con l’assunto secondo cui la parte che deve rendere la prestazione può, a suo libito, interrompere il tramite attraverso il quale si estrinseca il potere direttivo dell’imprenditore»8. Analogamente la Corte d’Appello ritiene che in mancanza del requisito della “obbligatorietà della prestazione” non sia corretto inquadrare il lavoro reso dai ciclofattorini nei termini della subordinazione: i riders sono infatti liberi di dare o meno la propria disponibilità per i vari turni (slot) offerti dall’azienda, decidendo quindi in autonomia se e quando lavorare. Ma v’è di più, perché essi possono addirittura non rendere la prestazione nei turni per i quali avevano già dato la loro disponibilità, recepita dalla società, revocando la stessa o semplicemente non presentandosi (con le funzioni swap e no show), senza per ciò incorrere in provvedimenti sanzionatori. La Corte d’Appello, sul punto, ritiene di non seguire l’impostazione della Corte di Cassazione (n. 367/2018) in un giudizio relativo agli addetti al ricevimento delle giocate presso le agenzie ippiche e le sale scommesse: in quel caso il vincolo della subordinazione era stato ritenuto compatibile con la peculiare facoltà, concessa al prestatore, di accettare o non accettare l’offerta e di presentarsi o meno al lavoro, in quanto tale profilo non riguarderebbe il contenuto del rapporto e il suo materiale svolgimento trattandosi di un elemento esterno al rapporto, onde l’accettazione e la presentazione del lavoratore pur incidendo sulla costituzione del rapporto e sulla sua durata non riguarda la forma e il contenuto della prestazione (e quindi la natura del rapporto). In effetti la postura ricostruttiva dell’obbligazione di lavoro prospettata dalla Suprema Corte nella sentenza in esame non appare ragionevolmente accoglibile nella misura in cui trascura inspiegabilmente la circostanza per cui non solo le

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Cfr. Martelloni, La Corte d’appello di Torino tira la volata ai riders di Foodora, in Questione Giustizia, 17 aprile 2019. Cass., 10 luglio 1991, n. 7608; Cass., 25 gennaio 1993, n. 811.

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concrete (materiali) modalità di svolgimento della prestazione rilevano ai fini della qualificazione del rapporto, ma rileva massimamente anche l’obbligazione di lavorare, la quale, a seguito dalla stipula del contratto di lavoro subordinato, rappresenta l’antecedente logicogiuridico per l’estrinsecazione del potere direttivo dell’imprenditore. Tant’è che secondo una risalente tesi dottrinale il contratto di lavoro subordinato prevede una doppia coppia di posizioni giuridiche soggettive di credito-obbligo: l’una antecedente, «che fa capo al potere direttivo dell’imprenditore e al dovere di obbedienza del prestatore; l’altra susseguente che consta da un lato dell’obbligazione di lavoro e dall’altro non del potere direttivo, già esercitato quando la singola obbligazione di lavoro si costituisce, ma del credito di lavoro»9. Vale la pena di rammentare che il requisito evidenziato dalla Corte d’Appello torinese, vale a dire l’obbligatorietà della prestazione, è stato impiegato anche dal Tribunale di Milano nel caso della piattaforma Foodihno (Glovo)10 e costituisce uno dei principali test impiegati dalla giurisprudenza britannica per identificare il rapporto di lavoro subordinato: il c.d. mutuality of obligation riguarda infatti la reciproca promessa delle parti di mantenere in essere un rapporto di lavoro subordinato per un certo periodo di tempo; in questa prospettiva il contratto di lavoro è subordinato se sussiste una esplicita o implicita obbligazione in capo al prestatore ad eseguire con regolarità la prestazione richiesta11. Le conclusioni cui giunge la Corte d’Appello in punto di incompatibilità tra subordinazione ed assenza di obbligo di lavorare non sembrano quindi seriamente revocabili in dubbio12. Le tesi dottrinali che predicano un diverso approccio al problema qualificatorio, mobilitando vuoi la nozione di “subordinazione attenuata”, vuoi quella della “doppia alienità” non sembrano centrare l’obiettivo, in quanto la rilevata assenza di un preciso obbligo di prestazione in capo al lavoratore impedisce non solo l’esercizio del potere direttivo dell’imprenditore nell’accezione più rigorosa e restrittiva (ordini e direttive specifiche), ma anche in quella più lata che ammette direttive meramente programmatiche, escludendo finanche la possibilità di ravvisare l’alienità del prestatore rispetto all’organizzazione e al risultato, nella misura in cui, potendosi liberamente sottrarre all’obbligo lavorativo, il rider non risulta stabilmente inserito nell’organizzazione del committente e non può dirsi estraneo ad un risultato alla cui realizzazione, essendo libero di sottrarsi alla prestazione, non risulta in alcun modo partecipe.

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Cfr. Suppiej, La struttura del rapporto di lavoro, II, Cedam, 1963, 59; F. Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, 1985, 194. La sentenza milanese ritiene che la libertà di decidere, di settimana in settimana, in quali giorni e in quali orari lavorare – ed anche di non lavorare affatto - non sia compatibile con lo stato di subordinazione: cfr. T. Milano, 10 settembre 2018. 11 Sia consentito il rinvio a Perulli, Subordinate, Autonomous and Economically Dependent Work: A Comparative Analysis of Selected European Countries, in G. Casale (ed.), The Employment Relationship. A Comparative Overview, Hart Publishing-International Labour Office, Oxford-Geneva, 2011, 161. 12 Considera “valido” l’argomento dell’autonomia delle parti di offrire/ricevere la prestazione al fine di negare la natura subordinata del rapporto Gramano, Dalla eterodirezione alla eteroorganizzazione e ritorno. Un commento alla sentenza Foodora, in Labor, 2018, 609 ss. 10

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3. L’art. 2: una norma non apparente. La parte più interessante della sentenza del Collegio torinese, tuttavia, non riguarda la negazione della natura subordinata del rapporto di lavoro, bensì il riconoscimento a tali soggetti dello status di collaboratori etero-organizzati dal committente, ai sensi dell’art. 2 del d. lgs. n. 81/2015, con conseguente applicazione della disciplina dei rapporti lavoro subordinato. Diversamente da quanto aveva statuito il Tribunale, la Corte d’Appello ritiene che la fattispecie in esame vada inquadrata nell’ambito dell’art. 2 e sotto questo profilo esprime un principio di diritto molto importante, già avanzato da chi scrive relativamente alla identificazione dei tratti caratterizzanti quest’area sovratipica di prestazioni autonome, cui vengono estese le tutele del rapporto di lavoro subordinato13. Il punto sviluppato dalla Corte è tecnicamente notevole, non tanto perché smentisce conclusioni frettolosamente tirate in dottrina circa la non impiegabilità dell’art. 2 in materia di lavoro tramite piattaforme digitali14, quanto perché, a monte, fornisce una razionale e condivisibile ricostruzione teorica della norma, rendendola di fatto operativa anche (ma non solo) in questo specifico contesto. Sconfessando la tesi sostenuta dalla difesa di Foodora e dal Tribunale in primo grado, secondo cui l’art. 2 è una norma “apparente” e quindi inutile, meramente confermativa della tradizionale concezione della subordinazione come assoggettamento del lavoratore al potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro, la Corte afferma che ogni norma di legge deve avere un contenuto precettivo, onde l’interprete, per fornire un significato a questo enunciato legislativo, è chiamato a distinguere subordinazione (art. 2094 c.c.), etero-organizzazione (art. 2) e prestazione d’opera coordinata e continuativa (art. 409 n. 3 c.p.c.), identificando i relativi tratti tipici o sovratipici. Come dire che a fronte della ricostruzione riduttiva dell’art. 2 offerta dal Tribunale, la Corte d’Appello riafferma il primato dell’interpretazione testuale e teleologica e, più in generale, il ruolo della dogmatica giuridica, giungendo alla conclusione che la norma in esame esprime un nuovo concetto normativo (l’etero-organizzazione) irriducibile a quello della subordinazione di cui all’art. 2094 c.c., e una precisa ratio legis, volta ad ampliare (e non a restringere, come

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Perulli, Le collaborazioni organizzate dal committente, cit. Cfr. ad es. Capponi, La regolazione delle collaborazioni etero-organizzate tra legge e contratto: il caso delle piattaforme di food delivery, in DRI, 2018, 1258; in senso diverso, reputa “plausibile” l’effetto estensivo del tipo standard in tutte le situazioni in cui il lavoro organizzato dalla piattaforma si attui offline e il committente ne gestisca l’esecuzione con modalità stringenti, Tullini, Il lavoro nell’economia digitale: l’arduo cammino della regolazione, in Perulli, (a cura di), Lavoro autonomo e capitalismo delle piattaforme, Kluwer-Cedam, 2018. Da parte mia, in Capitalismo delle piattaforme e diritto del lavoro. Verso un nuovo sistema di tutele?, in Perulli (a cura di), Lavoro autonomo e capitalismo delle piattaforme, cit., 126, ho sostenuto che bisogna «evitare l’impiego di nozioni aggressive ed espansionistiche di subordinazione, valutando attentamente anche la qualificazione in termini di prestazione eteroorganizzata dal committente (art. 2, co. 1, d. lgs. n. 81/2015)», esprimendo «scetticismo verso una forzata e, soprattutto, generalizzata riconduzione a subordinazione dei molteplici rapporti che animano la proteiforme esperienza dell’attività mediata da piattaforme digitali»; ivi, 144-145, sostengo la tesi di una rivalutazione, anche legislativa, delle categorie intermedie «che garantisca la genuinità delle forme di lavoro autonomo economicamente dipendente, unitamente ad un più corposo ed adeguato apparato di tutele a loro favore». In sostanza, pur ritenendo di escludere un impiego “automatico” della nozione di prestazione etero-organizzata dal committente nell’ambito del platform work, e guardando con favore anche a soluzioni legislative ad hoc, sul modello francese, o a più radicali ripensamenti in senso modulare (per soglie di tutela) del sistema giuslavoristico, ho sin da subito individuato nell’art. 2 una norma volta ad allargare i confini delle tutele in tutte le situazioni in cui, pur mancando il requisito della subordinazione, si realizzino condizioni di etero-organizzazione.

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erroneamente ritenuto dal Tribunale) l’ambito delle tutele, per far fronte all’evoluzione del mercato del lavoro e agli effetti su di esso prodotti da un pervasivo impiego delle nuove tecnologie digitali. Inoltre, secondo la Corte l’art. 2 è applicabile al caso di specie perché, contrariamente a quanto aveva ritenuto il Giudice di primo grado, il riferimento all’etero-organizzazione “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” non deve essere riguardato come requisito di esercizio di un potere direttivo specifico e puntuale in relazione all’orario e al luogo di lavoro, bensì come espressione di una prerogativa organizzativa diversa dal potere direttivo che si sostanzia nella predisposizione unilaterale di una “turnistica” e delle zone di partenza dei riders da parte della committente. 3.1. Anzitutto la Corte d’Appello ritiene, a ragione, di non seguire la ricostruzione dottrinale secondo la quale il criterio dell’etero-organizzazione coincide nella sostanza con la nozione di subordinazione ex art. 2094 c.c., perché «non è configurabile eterodirezione senza eterorganizzazione e neppure eterorganizzazione senza eterodirezione»15. La tesi criticata ritiene che l’art. 2 non svolga alcuna funzione di ampliamento della categoria di subordinazione, né abbia novellato in alcun modo l’art. 2094 c.c., collocandosi piuttosto a latere, «sul versante dell’art. 409 c.p.c. n. 3, che peraltro neppure novella e la cui fattispecie è comunque incardinata sull’assenza del “carattere subordinato” della collaborazione», onde l’art. 2 si conferma una “norma apparente”, cioè priva «di efficacia propriamente normativa»16. Ora, a prescindere dalla circostanza per cui una norma di legge non può essere priva di “efficacia normativa” (salvo ritenere che il legislatore abbia promulgato una norma inefficace!) e che l’interprete deve sforzarsi di fornire all’enunciato normativo un senso, e non un non-senso, la tesi in esame contrasta con l’interpretazione secondo l’intenzione del legislatore (art. 12 preleggi) così come emergente dal dato letterale, in cui si afferma che la disciplina del lavoro subordinato si applica “anche ai rapporti…”, estendendo quindi l’ambito di applicazione della disciplina del lavoro subordinato all’area delle collaborazioni autonome etero-organizzate. Di conseguenza, la Corte d’Appello accoglie la tesi che ravvisa nell’art. 2 una norma di estensione delle tutele a figure che gravitano nell’area grigia tra subordinazione ed autonomia, affatto riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 2094 c.c. nella misura in cui l’etero-organizzazione non coincide con l’etero-direzione. Esiste quindi, come già sostenuto da chi scrive17, un “sottile confine” tra il dettato dell’art. 2 e il disposto dell’art. 2094 c.c., consistente in ciò che «mentre nella subordinazione tipica l’oggettivazione della forza-lavoro consente al creditore di esercitare un potere di costante intervento sulle modalità organizzative intrinseche del comportamento dovuto, incidendo sull’oggetto dell’obbligazione e sull’iter strumentale che meglio consente di fatto di conseguire il risultato utile per il creditore, nella prestazione “organizzata dal committente” il raggio d’azione dell’autorità è del tutto impersonale, non si sostanzia in ordini o direttive, ma riguarda le modalità organizzative estrinseche della prestazione e della sua esecuzione»18. Compito del Giudice è quello di delineare i due diversi campi di applicazione: ciò che la Corte d’Appello fa distinguendo tra il potere direttivo che sta alla base dell’eterodirezione, e il concetto di etero-organizzazione, sussistente quando la presta-

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Tosi, L’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015: una norma apparente? in ADL, 2015, 13. Tosi, op. cit. 17 Cfr. Perulli, Le collaborazioni organizzate dal committente, cit., 299 ss. 18 Perulli, op. ult. cit., 303 s. 16

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zione è effettivamente integrata funzionalmente nell’organizzazione produttiva del committente «in modo tale che la prestazione lavorativa finisce con l’essere strutturalmente legata a questa (l’organizzazione) e si pone come qualcosa che va oltre alla semplice coordinazione di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c., poiché qui è il committente che determina le modalità della attività lavorativa svolta dal collaboratore». Correttamente la Corte afferma che mentre la subordinazione richiede l’esercizio di un potere direttivo, gerarchico, e disciplinare, il lavoro etero-organizzato postula l’integrazione funzionale del prestatore nell’organizzazione produttiva, onde il committente non si limita a coordinare l’attività ma impone le modalità organizzative con cui la prestazione si attua (nel caso di specie stabilendo i turni, le zone di partenza, gli indirizzi di consegna e i tempi di consegna dei fattorini). Vale dunque rilevare come la Corte d’Appello abbia ben compreso che l’“organizzazione” della prestazione da parte del committente, cui si riferisce l’art. 2, co.1, è un elemento tipologicamente estraneo alla fattispecie (rimasta intatta all’esito della riforma) di cui all’art. 2094 c.c., i cui tratti vengono connotati da altri elementi normativi di per sé necessari e sufficienti per la produzione dell’effetto giuridico: in primis l’assoggettamento del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro19. Il potere direttivo, nelle sue molteplici accezioni dottrinali, è il dispositivo giuridico che consente non solo l’organizzazione della prestazione nel contesto produttivo, ma, più radicalmente, la determinazione dell’oggetto dell’obbligazione lavorativa, di volta in volta modulabile in ragione delle esigenze gestionali dell’impresa. Questo potere, che viene talvolta denominato direttivo-organizzativo, non deve confondersi con le prerogative di “etero-organizzazione” contemplate dall’art. 2, co. 1. In particolare, l’art. 2, co. 1, non descrive una fattispecie caratterizzata dalla soggezione in senso tecnico ad un potere direttivo-organizzativo del “committente”, riferendosi, invece, ad una più generica e meno pervasiva facoltà del committente di organizzare la prestazione del lavoratore anche in ragione del tempo e del luogo, rendendola di fatto compatibile con il substrato materiale e con i fattori produttivi apprestati dal committente (ciò che la Corte descrive con il concetto di «integrazione funzionale del lavoratore nella organizzazione produttiva del committente»). Le esigenze organizzative, condensate nel substrato materiale della prestazione, retroagiscono sulla sfera debitoria senza tuttavia incidere sull’oggetto dell’obbligazione, di talché la prestazione “organizzata dal committente” è sì conformata in relazione alle modalità di accesso e di fruizione dei mezzi preposti alla produzione (anche in ragione della dimensione collettiva dell’impresa), ma non è assoggettata all’altrui sfera di comando come invece accade in virtù della situazione di soggezione tipica della subordinazione. Ogniqualvolta la prestazione venga inserita all’interno di un “dispositivo organizzativo” capace di “formattare”, anche sotto il profilo spazio-temporale la prestazione, a prescindere dall’esercizio in concreto dei poteri direttivi tipici del datore di lavoro giusta lo schema dell’art. 2094 c.c., si realizza una situazione di etero-organizzazione: si pensi all’inserimento del prestatore all’interno dei locali del committente, all’esecuzione della prestazione entro determinate fasce orarie secondo compatibilità organizzativo-produttive, all’impiego di mezzi e beni strumentali del committente che incidono sulle “modalità di esecuzione” della prestazione. 3.2. Avendo correttamente distinto tra eterodirezione ed eteroorganizzazione, la Corte d’Appello supera agevolmente il falso ostacolo individuato in dottrina ed in giurispruden-

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Rinvio a Perulli, Il potere direttivo dell’imprenditore, Giuffrè, 1992.

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za per sostenere l’inapplicabilità dell’art. 2 al caso del platform work, rappresentato dal requisito che le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente “anche con riferimento ai tempi e al luoghi di lavoro”. Nelle parole del Tribunale torinese, tale requisito richiede che il lavoratore «sia pur sempre sottoposto al potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro e non è sufficiente che tale potere si estrinsechi soltanto con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro perché deve al contrario riguardare anche i tempi e il luogo di lavoro», giungendo alla conclusione che il campo di applicazione dell’art. 2 è più ristretto di quello dell’art. 2094 c.c. L’errore di questa postura interpretativa sta nel manico: nell’aver cioè confuso l’etero-organizzazione e l’etero-direzione, laddove i due concetti, debitamente distinti, consentono di leggere il requisito dell’art. 2 (“anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”) non già come richiesta di esercizio del potere direttivo in materia di luogo/orario di lavoro, bensì come prerogativa di organizzazione spazio-temporale della prestazione che nulla ha a che vedere con stringenti vincoli di orario di lavoro e di luogo, riguardando invece la definizione di ambiti temporali e spaziali (anche virtuali) entro cui effettuare la prestazione in ragione delle compatibilità della struttura produttiva del committente20. In questa prospettiva il rider è organizzato “anche” con riferimento al luogo e al tempo della prestazione non nel senso che è assoggettato al potere direttivo datoriale in materia di luogo ed orario di lavoro, quanto perché risulta integrato funzionalmente nell’organizzazione produttiva del committente, rispettando la “turnistica” stabilita dal committente e i luoghi di partenza comunicati tramite app, unitamente agli indirizzi cui di volta in volta effettuare la consegna. La predeterminazione dei tempi di consegna, aspetto relativo alle “modalità di esecuzione della prestazione” e non al tempo e al luogo di lavoro, trattandosi piuttosto di un termine finale di adempimento e non di rispetto di un orario di lavoro, completano il quadro dell’etero-organizzazione della prestazione, consentendo alla Corte di ritenere che «indubbiamente le modalità di esecuzione erano organizzate dalla committente quanto ai tempi e ai luoghi di lavoro». 3.3. La Corte d’Appello, dopo aver distinto l’eterodirezione dall’etero-organizzazione, si perita di distinguere quest’ultima dal “coordinamento” di cui all’art. 409 n. 3, c.p.c., sconfessando la prospettazione dottrinale che, in una logica ricostruttiva del tutto speculare a quella che identifica la etero-organizzazione con la subordinazione (retro), sostiene la sussunzione dell’etero-organizzazione nell’ambito del coordinamento21. La diversa ipotesi ricostruttiva seguita dalla Corte, già avanzata da chi scrive22, è la seguente: il “sottile distinguo” tra l’art. 2 e l’art. 409 n. 3 c.p.c. è ravvisabile nei caratteri legali-tipici del coordinamento, i quali, diversamente da quanto accade per l’etero-organizzazione, sono definiti di comune accordo dalle parti, senza alcun elemento di unilateralità, ciò che modifica

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In tal senso anche Carabelli, Collaborazioni e lavoro occasionale tra autonomia e subordinazione, in Il lavoro autonomo e il lavoro agile alla luce della legge n. 81/2017, Ediesse, 2018, 54. 21 Tesi sostenuta in particolare da Carabelli, Collaborazioni e lavoro occasionale tra autonomia e subordinazione, in Il lavoro autonomo e il lavoro agile alla luce della legge n. 81/2017, cit., 41 ss, e ripresa da Spinelli, La qualificazione giuridica del rapporto di lavoro dei fattorini tra autonomia e subordinazione, nota a Trib. Torino, 7 maggio 2018, in RGL, 2018, 371 ss. 22 Sia consentito il rinvio a Perulli, Il nuovo art. 409, n. 3, c.p.c., in Fiorillo, Perulli, Il jobs act del lavoro autonomo e del lavoro agile, cit., 141 ss.

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qualitativamente (nella loro natura giuridica) i due istituti in esame. Invero, affermare il contrario, e cioè che l’organizzazione delle collaborazioni ex art. 2 coincide con il coordinamento dell’art. 409, n. 3, c.p.c., rende indistinte due fattispecie che, invece, hanno effetti e trattamenti alternativi fra loro; né vale sostenere che le prestazioni etero-organizzate si materializzano quando nell’accordo sulle modalità del coordinamento previsto nel novellato art. 409, n. 3, c.p.c., le parti concordemente attribuiscono al committente un potere di etero-organizzazione. Questo modus procedendi non appare coerente con l’interpretazione letterale della legge nella misura in cui l’art. 2 impiega il termine “organizzazione”, mentre nell’art. 409, n. 3, c.p.c., compare il termine “coordinamento”; né sembra rispettoso dell’interpretazione teleologica dal momento che la ratio legis della novella consiste nel rendere il coordinamento delle collaborazioni un fatto consensuale, e non nel consentire che quel medesimo potere unilaterale venga consensualmente riattribuito al committente sub specie di “potere di organizzazione” in un’altra fattispecie (quella dell’art. 2). La Corte d’Appello, nel tentativo di fornire uno spazio di operatività all’art. 2 al fine di ampliare il campo di applicazione delle tutele del rapporto di lavoro subordinato, sceglie di rimanere ancorata al rispetto delle categorie giuridiche esistenti e alle regole di interpretazione logico-sistematica, prendendo atto che il legislatore non solo ha distinto il potere di organizzazione (art. 2) dal potere direttivo (art. 2094 c.c.) ma ha pure annullato il potere di coordinamento (art. 409 n. 3, c.p.c.), rendendolo consensuale. In questo nuovo quadro concettuale delineato con la novella dell’art. 409, n. 3, c.p.c. si apre quindi uno spazio per identificare una prestazione etero-organizzata, non etero-diretta (nel senso di direttive puntuali e continue ex art. 2094 come interpretato dalla giurisprudenza maggioritaria), né coordinata (nel senso che il collaboratore segue delle modalità di coordinamento definite consensualmente) ma assoggettata ad una etero-organizzazione anche spazio-temporale; tale etero-organizzazione si distingue dal coordinamento perché quest’ultimo ha cessato di essere una prerogativa unilaterale, diventando null’altro che una modalità consensuale di programmazione della prestazione in aderenza a quanto previsto in generale per il lavoro autonomo dall’art. 2224 c.c.

4. Un terzo genere? La Corte si riferisce all’art. 2 come ad un “terzo genere” che si colloca tra subordinazione e collaborazione coordinata e continuativa. Il riferimento, descrittivo più che normativo, non deve tuttavia trare in inganno: le collaborazioni organizzate dal committente rientrano nel genere “lavoro autonomo”, tant’è che la Corte, accogliendo anche sotto questo profilo la tesi avanzata da chi scrive, afferma che l’applicazione dell’art. 2 non comporta la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato e che la collaborazione autonoma mantiene la propria natura. Il lavoratore etero-organizzato rimane quindi autonomo, ma “per ogni altro aspetto” la disciplina sarà quella del rapporto di lavoro subordinato. Questa soluzione interpretativa supera la diversa prospettazione, pure avanzata in dottrina, secondo cui l’art. 2 co. 1, determina una riqualificazione della fattispecie concreta, che assumerebbe i tratti della subordinazione. Questa soluzione, incoerente rispetto all’interpretazione testuale della norma (che, come si è visto, opera sulla disciplina e non sulla fattispecie di subordinazione), aprirebbe ulteriori plessi problematici di ardua soluzione: si tratta di una riqualificazione ope legis? Richiede

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comunque una sentenza del giudice? E se sì, si tratta di una sentenza di mero accertamento o costitutiva? La norma può essere interpretata come una presunzione di subordinazione? E in caso affermativo, si tratta di una presunzione relativa o assoluta? Tali interrogativi, non privi di conseguenze sul piano concreto della disciplina applicabile, anche sotto il profilo processuale, confermano la bontà della soluzione prescelta dalla Corte torinese. Piuttosto, sembra aprirsi uno spazio per discutere se l’effettiva volontà del legislatore è quella di estendere tutte le norme del rapporto di lavoro alla fattispecie di cui all’art. 2, o solo una parte, quella compatibile con la natura autonoma del rapporto. Ad esempio, nel caso in esame la disciplina del licenziamento è stata esclusa, e questa scelta può sembrare una contraddizione della pronuncia. In realtà, la Corte sembra aver correttamente statuito: poiché i rapporti di collaborazione dei ricorrenti (co.co.co. a tempo determinato) non si trasformano in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato mantenendo la loro natura di rapporti di lavoro autonomo a termine, non vi è stata alcuna interruzione ante tempus da parte della società, e ciò può spiegare in parte qua il rigetto della domanda relativa all’applicazione delle tutele in caso di licenziamento illegittimo. Più in generale, si può discutere su alcuni non secondari problemi di estensione dell’intero edificio delle norme di disciplina del rapporto di lavoro subordinato, con particolare riferimento a quelle relative ai poteri gerarchico-direttivi: si pensi, ad esempio, all’applicabilità a tali rapporti, caratterizzati da etero-organizzazione ma non da etero-direzione, del dovere di obbedienza ex art. 2104 c.c., ovvero della norma in materia ius variandi (art. 2013 c.c.). Si tratta di dispositivi che, in linea di massima, non dovrebbero trovare applicazione con riguardo a rapporti in cui non viene dedotta in obbligazione una prestazione di facere eterodiretta secondo le disposizioni e gli ordini impartiti dal datore di lavoro, bensì una prestazione di lavoro etero-organizzata, la cui natura rimane autonoma23. Non è affatto chiaro, inoltre, se anche la disciplina previdenziale/assistenziale ed amministrativa relativa al rapporto di lavoro subordinato venga ricompresa nell’estensione, ovvero, trattandosi di rapporti aventi natura autonoma, permanga vigente, sotto questi profili non strettamente attinenti alla “disciplina del rapporto” il diverso regime previdenziale/assistenziale del lavoro parasubordinato24. Stante il tenore assai vago del disposto, sul punto sarà opportuno un chiarimento da parte dello stesso legislatore attraverso una norma di interpretazione autentica, ovvero un’indicazione da parte degli istituti pensionistici ed ispettivi, o ancora, in ultima istanza, la verifica giurisprudenziale. Ciò posto, potrà suscitare perplessità, dal punto di vista dogmatico la scelta del legislatore consistente nell’estensione della disciplina della subordinazione a figure in senso lato autonome. Schemi normativi di questo genere sono stati sin qui sconosciuti al sistema giuridico italiano, il quale ha sempre proceduto all’identificazione tipologica della fatti-

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Perulli; in senso analogo Carabelli, op. cit., 56 s. Sotto questo profilo, quindi, il legislatore avrebbe dovuto essere più preciso e selettivo, distinguendo all’interno della disciplina complessiva le materie non estensibili (come fecero a suo tempo D’Antona e Alleva nelle proposte sul lavoro sans phrase: Cfr. Alleva, Ridefinizione delle fattispecie di contratto di lavoro, prima proposta di legge, e D’Antona, Ridefinizione delle fattispecie di contratto di lavoro, seconda proposta di legge, in Ghezzi, (a cura di), La disciplina del mercato del lavoro. Proposte per un Testo Unico, Ediesse, 1996, rispettivamente 187 ss. e 195 ss. 24 Dubbi sull’applicabilità della tutela previdenziale ai collaboratori eteroorganizzati sono sollevati da Persiani, Note sulla disciplina di alcune collaborazioni coordinate, in ADL, 2015, I, 1256 ss.

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specie come punto di riferimento alla stregua del quale l’ordinamento determina gli effetti ad essa ricondotti, giusta il modello fattispecie-effetto. Così, per definizioni normative (o sub-definizioni) nell’ambito della fattispecie generale di cui all’art. 2094 c.c. sono state normate fattispecie connotate da una subordinazione “speciale”, come il lavoro a domicilio25. La tecnica legislativa impiegata dal legislatore con l’art. 2 dev’essere invece ricondotta allo schema, conosciuto e praticato in altri sistemi, dell’estensione trans-tipica delle tutele a fattispecie di lavoro non subordinato. L’ordinamento francese conosce da tempo simili tecniche di estensione/assimilazione, come accade con l’art. L. 7321-1 del Code du Travail, che si riferisce ai gerenti di succursali e con l’art. 7322-1, relativo ai gerenti non salariati delle succursali di commercio al dettaglio alimentare26. Si tratta di figure “ibride”, di natura imprenditoriale, benché si applichi nei loro confronti il Code du Traval senza necessità di accertare l’esistenza di un lien de subordination juridique27.

5. Le prospettive legislative. I “lavoro delle piattaforme”, nelle molteplici forme in cui si struttura nell’ambito della Gig Economy, attende risposte regolative efficaci, che spesso non vengono garantite da sistemi di diritto del lavoro ancora basati sulla visione tradizionale del rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’impresa. Non a caso si moltiplicano le iniziative, a tutti i livelli delle fonti normative, per fornire ai platform workers tutele adeguate, nella consapevolezza che, anche al di là delle qualificazioni giuridiche formali, il problema sostanziale attiene alla tutela del lavoro nella specifica condizione in cui viene prestato. Il Parlamento europeo nella risoluzione del 16 aprile 2019 sulla Proposta di direttiva relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili, fa espresso riferimento ai profondi cambiamenti dei mercati del lavoro a causa della digitalizzazione e alla comparsa di nuove forme di lavoro che si distanziano notevolmente dai rapporti di lavoro tradizionali, creando incertezza in merito alla protezione sociale e ai diritti applicabili per i lavoratori interessati. Tuttavia il testo approvato dal Parlamento europeo ripropone la classica bipartizione tra autonomia e subordinazione affermando espressamente che i lavoratori tramite piattaforma digitale potranno fruire delle tutele previste dalla direttiva a patto che rispettino i criteri stabiliti dalla CGE per determinare la condizione di lavoratore, mentre i lavoratori effettivamente autonomi non vi dovrebbero rientrare. Si è persa, così, un’altra occasione per impostare diversamente il tema delle tutele del lavoro, sempre meno razionalmente governato da sistemi di tipo binario fondati su definizioni non più congruenti rispetto all’evoluzione delle

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Come è noto il comma 2 dell’art. 1, l. n. 877/1973 precisa che la subordinazione in “deroga” a quanto stabilito dall’art. 2094 c.c., ricorre quando il lavoratore a domicilio è tenuto ad osservare «le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nell’esecuzione parziale, nel completamento o nell’intera lavorazione di prodotti oggetto dell’imprenditore committente». 26 Cfr. Peskine, Wolmark, Droit du travail, Dalloz, 6 édition, Paris, 42. 27 Cfr. Perulli, Lavoro autonomo e dipendenza economica, oggi, in RGL, 2003, 221 ss.

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forme di organizzazione del lavoro e della produzione. In questa prospettiva sembra muoversi, invece, il legislatore interno, con il c.d. emendamento “Di Maio”, che prevede anzitutto una modifica dell’art. 2, comma 1, sostituito dal seguente: «1. Si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente, anche attraverso il ricorso a piattaforme digitali come definite all’articolo 47-bis, comma 2». In tal modo la prospettiva aperta dalla sentenza della Corte d’Appello di Torino troverebbe una consacrazione legislativa, consentendo con maggior facilità di collocare i platform workers nel cono delle tutele del rapporto di lavoro subordinato grazie alla norma di estensione, peraltro debitamente alleggerita dall’eliminazione del richiamo alla organizzazione “anche con riferimento al luogo e ai tempi di lavoro” che aveva, come si è visto, sollevato problemi interpretativi ostativi all’impiego della disposizione in esame nel settore delle piattaforme. L’emendamento prevede inoltre un “Capo V-bis” dedicato alla Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali in cui (art. 47-bis) si dispone livelli minimi di tutela per i lavoratori che, tramite piattaforma, effettuano consegne a domicilio nell’ambito di rapporti di lavoro autonomo: «1. Al fine di promuovere un’occupazione sicura e dignitosa e nella prospettiva di accrescere e riordinare i livelli di tutela per i prestatori occupati con rapporti di lavoro non subordinato, le disposizioni del presente Capo stabiliscono livelli minimi di tutela dei lavoratori impiegati nelle attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di veicoli a due ruote o assimilabili, anche attraverso piattaforme digitali». La norma più significativa, però, è quella contenuta nell’art. 47-ter, che, pur limitata ad una materia specifica (Copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), per la prima volta sembra aprire un nuovo orizzonte alla regolazione del lavoro, traducendo chiaramente in termini normativi l’idea, a lungo coltivata ma mai realizzata, di tutele universali al di là della qualificazione del rapporto in un senso o nell’altro: «1. I prestatori di lavoro di cui al presente Capo, a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto intercorrente con l’impresa titolare della piattaforma digitale, sono soggetti alla copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali di cui decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124». Vedremo se tali norme, una volta entrate in vigore, saranno in grado di garantire adeguate tutele ai soggetti più deboli di questo nuovo mercato del lavoro intermediato dalle piattaforme. Certo è che la sentenza della Corte d’Appello di Torino un segnale di attenzione per queste figure lavorative lo ha lanciato. Tocca ora al legislatore, alla dottrina e alle sentenze che verranno continuare il lavoro di definizione di un quadro normativo in evoluzione, per renderlo non solo formalmente razionale ma, soprattutto, assiologicamente rispondente ai bisogni di tutela che il fragile mondo del lavoro digitale esprime. Adalberto Perulli

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Giurisprudenza Tribunale di Bari, sentenza 11 ottobre 2018, Giud. Calia – B. D. (avv.ti Sbarra e Netti) c. P. Lorusso & C. s.r.l. (contumace). Licenziamenti – Licenziamenti collettivi – Licenziamento ingiustificato – Apparato sanzionatorio – D. lgs. n. 23/2015, art. 3, co. 1, dopo intervento C. cost. n. 194/2018 – Determinazione dell’indennità risarcitoria – Applicazione dei criteri di calcolo stabiliti dall’art. 18, co. 5 St. lav.

Dopo la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale, l’indennità prevista dall’art. 3, co. 1, d. lgs. n. 23/2015 - compresa fra un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità - va determinata sulla base dei criteri enunciati dall’art. 18, co. 5, St. lav., vale a dire in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti. (Nel caso di specie il giudice, accertata l’illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 4, co. 3 e 9 della l. n. 223/1991, ha dichiarato estinto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e, contemperando la gravità della violazione procedurale con le ridotte dimensioni dell’attività economica, il basso numero di lavoratori occupati e la scarsa anzianità del ricorrente, ha liquidato l’indennità in misura pari a dodici mensilità). (1)

Tribunale di Genova, ordinanza 21 novembre 2018; Giud. Basilico – L. G. (avv. Bozzo) c. Mentelocale web s.r.l. (avv.ti D’Arrigo e Medina). Licenziamenti – Licenziamento ingiustificato – Apparato sanzionatorio – Datore di lavoro che non supera i 15 dipendenti – D. lgs. n. 23/2015, art. 9, co. 1 – Applicabilità dei principi stabiliti da C. Cost. n. 194/2018 – Conseguenze – Determinazione dell’indennità risarcitoria – Applicabilità dell’art. 8, l. n. 604/1966.

I principi fissati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 194/2018 trovano applicazione anche in relazione all’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo di una lavoratrice assunta con contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti in un’azienda che non supera i 15 lavoratori; pertanto, tenuto conto delle elevate competenze professionali e delle gravi violazioni di natura contrattuale che hanno portato al licenziamento, l’entità del ristoro va fissata nella misura massima di sei mensilità, poiché le condizioni ed il comportamento delle parti costituiscono elementi essenziali nella liquidazione dell’indennità risarcitoria. (2) (1) Il presente giudizio, introdotto con ricorso ex art. 1 co. 47 e ss. l. 92/2012 omissis ha per oggetto l’impugnativa del licenziamento decorrente dal 15.12.17 e intimato il 30.10.17 al ricorrente Omissis dalla datrice di lavoro Omissis. Il ricorrente, premesso di aver lavorato alle dipendenze della convenuta dal 1.4.2016 al 15.12.2017 e di

essere stato licenziato all’esito della procedura prevista dalla l. 223/1991, ha rassegnato le seguenti conclusioni: “1) accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento per violazione delle procedure previste dall’art. 4 l. 223/1991 e, conseguentemente, in applicazione del combinato disposto degli art. 5 c. 3 l. 223/1991 e del terzo periodo del 7° comma dell’art. 18 L. 300/70, condannare la società datrice di lavoro al pagamento in


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favore del ricorrente del risarcimento del danno nella misura massima di legge (24 mensilità) rapportato all’ultima retribuzione globale di fatto, o in quell’altra misura che sarà ritenuta di giustizia. 2) In subordine, accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento per l’omesso invio da parte della società convenuta delle comunicazioni di cui all’art. 4 co. 9 L. 223/91 (ovvero inefficacia delle stesse) ed applicare il terzo periodo del 7° comma dell’art. 18 L. 300/70 (ex art. 5 comma 3 L. 223/91) condannando la società datrice di lavoro al pagamento in favore del ricorrente del risarcimento del danno nella misura massima di legge (24 mensilità) rapportato all’ultima retribuzione globale di fatto o in quell’altra misura che sarà ritenuta di giustizia”. Omissis Dalla busta paga di dicembre 2017 (doc. 5) si evince che il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fra il ricorrente e la società convenuta è sorto in data 01.04.16 per lo svolgimento di mansioni di impiegato di 5° livello – qualifica di addetto alla programmazione turistica. È parimenti attestato dalla documentazione (cfr. all. 1, 2, 3) che il licenziamento oggetto del presente giudizio è stato intimato all’esito di una procedura di mobilità avviata in data 05.10.2017 ai sensi degli artt. 4 e 24 della legge 223/1991. Il ricorrente ha dedotto l’illegittimità del proprio licenziamento perché intimatogli in totale dispregio della disposizione di cui all’art. 4 co. 3 l. 223/1991. Omissis. Alla luce di quanto suesposto, si deve concludere che si è al cospetto di una comunicazione almeno in parte laconica e carente delle indicazioni dettagliatamente elencate dal legislatore e ritenute indispensabili affinché le associazioni sindacali possano svolgere il ruolo che la legge loro assegna. L’omessa esposizione di tutti gli elementi legislativamente tipizzati si risolve in un inadempimento essenziale che non può essere sanato in sede di incontri sindacali e con le informazioni rese in quel contesto; in altre parole, esso vizia la procedura in modo insanabile. Omissis. Sulla scorta delle precedenti considerazioni il ricorso deve essere accolto. Occorre ora soffermarsi sulle conseguenze derivanti dall’inosservanza delle norme di cui agli articoli 4 co. 3 e 4 co. 9 della l. 223/1991, entrambi richiamati dall’art. 4 co. 12. Il comma 3 dell’art. 5 della medesima legge 223 (novellato dalla l. 92/2012) stabiliva quanto segue: “Qualora il licenziamento sia intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all’articolo 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni. In caso di violazione delle procedure richiamate all’ar-

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ticolo 4, comma 12, si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18. In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo articolo 18. Ai fini dell’impugnazione del licenziamento si applicano le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni”. Per l’inosservanza delle procedure era dunque prevista la tutela “indennitaria forte” di cui all’art. 18 co. 7 terzo periodo, che a sua volta rinvia all’art. 18 co. 5 (co. 7: “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni”; co. 5 “Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo”). Questa è infatti la tutela richiesta nelle conclusioni del ricorso. L’odierno ricorrente è stato però assunto in data 01.04.16, sicché deve trovare applicazione nei suoi confronti la nuova disciplina dettata dal d.lgs. 23/2015 per i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 07.03.15 (data di entrata in vigore del d.lgs. 23/2015). L’art. 10 del menzionato d.lgs. 23 dispone che “In caso di licenziamento collettivo ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all’articolo 2 del presente decreto. In caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991, si applica il regime di cui all’articolo 3, comma 1”. A sua volta l’art. 3 co. 1 così recita: “Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e con-


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danna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. Il d.l. 87/2018, conv. in l. 96/2018, ha da ultimo modificato l’art. 3 co. 1 appena riportato, elevando la misura dell’indennità, che deve essere compresa fra sei e trentasei mensilità; si ritiene tuttavia che tale novella sia inapplicabile al caso in esame, poiché il licenziamento qui impugnato è stato intimato in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.l. 87/2018. In definitiva, siccome il rapporto di lavoro del ricorrente è durato poco più di un anno e mezzo (dal 01.04.16 al 15.12.17), egli potrebbe aspirare unicamente alla corresponsione dell’indennità minima pari a quattro mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Deve però darsi atto che la Corte Costituzionale, con sentenza del 26.09.18, le cui motivazioni non risultano ancora depositate, ha dichiarato l’illegittimità della disposizione di cui all’art. 3 co. 1 d.lgs. 23/2015 nella parte in cui determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato; in particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Consulta, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Oggetto di censura è stato quindi il criterio “automatico” di determinazione della misura dell’indennità, collegato al solo parametro dell’anzianità di servizio del dipendente, e non anche le soglie minima e massima della stessa. A fronte di tale pronuncia, pur nella consapevolezza che “Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” (art. 30 co. 3 l. 87/1953, in ossequio all’art. 136 co. 1 Cost.), e che tale pubblicazione nella specie non è ancora avvenuta, si ritiene di dover interpretare in maniera costituzionalmente orientata l’art. 3 co. 1 ancora (presumibilmente per pochi giorni) vigente, determinando l’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato, compresa fra un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità, sulla base dei criteri già enunciati dall’art. 18 co. 5 St.lav., a sua volta richiamato dall’art. 18 co. 7, vale a dire “in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti”. In conclusione, accertata l’illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 4 co. 3 e co. 9 l. 223/1991, il rapporto di lavoro va dichiarato estinto

con effetto dal 15.12.17, data del licenziamento, e la società convenuta va condannata al pagamento in favore del ricorrente di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale che si reputa congruo determinare nella misura di dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (cfr. ultima busta paga di dicembre 2017, doc. 5), oltre interessi e rivalutazione monetaria dal licenziamento fino al soddisfo. La predetta quantificazione dell’indennità è giustificata dalla considerevole gravità della violazione procedurale, consistente principalmente nella omissione del raffronto tra i dipendenti attinti dal licenziamento e quelli mantenuti in organico; tale profilo, concernente il comportamento tenuto dall’azienda, deve essere contemperato con le ridotte dimensioni dell’attività economica e il basso numero di lavoratori occupati, unitamente alla scarsa anzianità del ricorrente, sicché induce a ritenere equa, fra il minimo di 4 e il massimo di 24, un’indennità pari a 12 mensilità. Quanto alla regolamentazione delle spese del giudizio, esse seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. Nella liquidazione delle spese si tiene conto dei valori medi previsti dalle tabelle allegate al d.m. 55/14 in relazione alla tipologia di causa (procedimento in materia di lavoro), al valore della controversia (nella specie indeterminabile, quindi con riferimento allo scaglione compreso tra € 26.000 ed € 52.000) e alle fasi in cui si è articolata l’attività difensiva espletata nel presente giudizio (quindi senza fase istruttoria). Considerati i parametri generali di cui all’art. 4 d.m. citato e, in particolare, la non significativa complessità delle questioni di diritto affrontate, appare congrua una riduzione nella misura massima consentita. Deve infine essere disposta la distrazione delle spese in favore dei difensori costituiti dichiaratisi anticipanti. P.Q.M. Visto l’art. 1 co. 49 l. 92/2012, - accoglie la domanda proposta da omissis nei confronti della omissis, in persona del legale rappresentante pro tempore, e, per l’effetto, dichiara estinto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna la società convenuta al pagamento in favore del ricorrente di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal licenziamento fino al soddisfo; - condanna la società convenuta al pagamento in favore del ricorrente delle spese di lite, che liquida in € 3.513,00, oltre rimborso spese forfettarie 15%, iva e c.p.a., con distrazione in favore dei procuratori dichiaratisi anticipanti. (2)

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Omissis Con ricorso depositato il 15.5.2018 L.G. ha chiesto la condanna di Omissis web s.r.l. e Omissis s.r.l. (di seguito, per brevità M.web e M.srl), quali responsabili in via tra loro solidale o come meglio visto, a corrisponderle un’indennità risarcitoria pari a ventiquattro mensilità della sua ultima retribuzione globale di fatto, previo accertamento incidentale della spettanza del compenso dovuto al direttore responsabile di testata giornalistica; in via subordinata ha chiesto che l’indennizzo dovuto venga determinato in dodici o, al peggio, sei mensilità. Le due imprese convenute si sono costituite con distinte memorie, contestando con gli stessi argomenti difensivi la fondatezza delle domande avversarie e chiedendone la reiezione. Entrambe hanno eccepito in via preliminare l’irritualità dell’azione esperita ai sensi dell’art. 1, co. 47 segg. l. 92/2012, per difetto dei presupposti di applicabilità dell’art. 18 l. 300/70. Dopo il vano esperimento del tentativo di conciliazione e l’interrogatorio libero delle parti, respinte le istanze istruttorie, la causa è stata discussa anche nel merito. 1. Il rito. Omissis 2. Il licenziamento. È pacifico e documentato tra le parti il fatto che, dopo un incarico conferitole nel 2000 con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa per organizzare la produzione dei contenuti del portale internet mentelocale.it [all. 1 al ricorso], ella sia stata assunta l’1.1.2009 ancora da M.srl come collaboratrice ai sensi dell’art. 2 CCNL del settore giornalistico, per “coordinare la redazione del notiziario del sito web Omissis” [all. 4 ric.]. L’art. 2 disciplina del figura del collaboratore fisso, lavoratore subordinato senza obbligo di presenza quotidiana nella redazione. Devono però sussistere “continuità di prestazione, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio”. In base al CCNL vigente al momento del licenziamento, si ha, in particolare: “- continuità di prestazione allorquando il collaboratore fisso, pur non dando opera quotidiana, assicuri, in conformità del mandato, una prestazione non occasionale, rivolta a soddisfare le esigenze formative o informative riguardanti uno specifico settore di sua competenza; - vincolo di dipendenza allorquando l’impegno del collaboratore fisso di porre a disposizione la propria opera non venga meno tra una prestazione e l’altra in relazione agli obblighi degli orari, legati alla specifica prestazione e alle esigenze di produzione, e di circostanza derivanti dal mandato conferitogli; - responsabilità di un servizio allorquando al predetto collaboratore fisso sia affidato l’impegno di redigere normalmente e con carattere di continuità articoli

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su specifici argomenti o compilare rubriche” (art. 2, secondo comma). Con la lettera del 17.10.2017 si è motivato il licenziamento con “l’intenzione assunta da M.web di modificare il proprio assetto organizzativo tramite una ridistribuzione delle competenze e delle responsabilità tra il personale al fine di far fronte alle difficoltà del settore ed alle nuove esigenze del mercato, tentando così di dare adeguata competitività all’azienda. Tal riorganizzazione che M.web ha deciso di intraprendere coinvolge principalmente le posizioni del personale impiegato con le mansioni di “collaboratore esterno”, art. 2 del Contratto Collettivo di Lavoro Giornalistico, prevedendo la soppressione di tale posizione lavorativa da Lei ricoperta. Purtroppo, come Lei sa, l’azienda non ha al proprio interno posizioni adeguate al suo inquadramento” [all. 11 ric.]. Nella comunicazione si è annunciato anche il versamento dell’indennità sostitutiva del preavviso “a totale tacitazione di ogni competenza per la cessazione del rapporto” nell’ammontare previsto dall’art. 27 CCNL e secondo il contenuto della dichiarazione a verbale in calce a questa clausola. Impugnando il licenziamento la ricorrente ha contestato l’inesistenza della riorganizzazione descritta nella comunicazione e la scelta di lei come unica risorsa eccedente, essendo ella al contempo – e la circostanza è incontroversa – l’unica lavoratrice della redazione inquadrata come dipendente. In terzo luogo ha eccepito la mancata adozione della procedura prevista dall’art. 7 l. 604/66 (modif. ex art. 1 l. 92/2012). 3. Le mansioni della ricorrente. Omissis 4. L’illegittimità del licenziamento. È attività giornalistica “la prestazione di attività intellettuale dedicata alla raccolta, al commento ed alla elaborazione di notizie, destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale” [Cass., sez. lav., 1827/1995]. Chi la svolge prestando lavoro subordinato è soggetto al contratto di lavoro giornalistico. Esso o, quanto meno, le previsioni comuni contenute nel CCNL del biennio 1959/60 hanno infatti acquisito efficacia erga omnes per effetto del richiamo compiuto dal DPR 153/61, a sua volta adottato in applicazione della legge 741/59 [cfr. in tal senso già Cass., sez. lav., 2885/1979]. Pertanto il nuovo piano editoriale non ha modificato la realtà dell’ambiente di lavoro in cui operava la ricorrente al momento del licenziamento. Il differente inquadramento attribuito ai redattori dopo l’ispezione dell’INPGI è avvenuto in violazione delle regole della contrattazione collettiva di generale applicazione, tra le quali vi sono quelle relative alle qualifiche professionali. Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, determinato da esigenze di riassetto orga-


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nizzativo dell’azienda, il giudice non può sindacare la scelta dei criteri di gestione, ma può controllare soltanto l’esistenza reale del motivo addotto ed il suo collegamento col recesso intimato al lavoratore [cfr., tra le tante, Cass., sez. lav., 7474/2012, 15157/2011 e 24235/2010]. Non v’è prova scritta dell’esistenza del piano editoriale riferito da M.web. Per com’è descritto nella memoria di costituzione, esso si fonda su un presupposto falso (l’esistenza d’un software che renda superflui apporti redazionali), poiché in una redazione editoriale è imprescindibile la figura d’una persona che selezioni il materiale da pubblicare e assegni ai giornalisti i servizi. Inoltre, per quanto s’è detto, il riassetto è avvenuto in violazione delle regole che governano il lavoro giornalistico. Ma v’è di più. La legge sulla stampa prescrive la presenza d’un direttore responsabile in ogni giornale o altro periodico (art. 3, primo comma, l. 47/48). Il direttore responsabile d’una testata giornalistica deve essere iscritto quanto meno all’albo dei giornalisti pubblicisti (art. 46 l. 69/63 e sentenza Corte cost. 98/68). La presenza e la qualifica della ricorrente nella redazione di mentelocale.it era giustificata da questa disciplina. La sua sostituzione da parte dell’amministratore delegato dell’impresa editoriale che, per propria ammissione, non è giornalista né professionista né pubblicista, è contra legem (artt. 45 l. 69/93, 348 e 498 c.p.). Per giustificare il licenziamento si sarebbe dunque compiuta una violazione della legge anche penale. Mweb ha riferito in memoria di avere avuto alle proprie dipendenze altri tre lavoratori subordinati a tempo pieno e tre a tempo parziale, oltre ad un apprendista. È emerso dagli interrogatori liberi che anche i primi tre erano componenti della redazione. La scelta di licenziare la ricorrente non si collega pertanto al nuovo piano editoriale ed alle ragioni esposte negli atti introduttivi delle convenute, se non per il fatto – irrilevante sotto il profilo organizzativo – che soltanto a costei era applicato il CCNL per il lavoro giornalistico. Manca dunque la prova d’un collegamento funzionale effettivo tra il riassetto aziendale enunciato ed il provvedimento adottato nei confronti della ricorrente. Per tutte le ragioni esposte il licenziamento è senz’altro illegittimo. 5. Il collegamento economico-funzionale tra le imprese convenute. Si è già accennato al fatto che la ricorrente ritenga che la scissione tra le due società convenute non abbia fatto venire meno l’identità della loro organizzazione e della loro attività, sicché esse andrebbero considerate come parte d’un unico centro d’imputazione rispetto al suo rapporto lavorativo.

Secondo l’orientamento ormai consolidato della Suprema Corte – cui tutti i difensori si sono rifatti nella discussione orale della causa – “il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società di un medesimo gruppo non comporta il venir meno della autonomia delle singole società dotate di distinta personalità giuridica e pertanto non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, intercorso tra un lavoratore ed una di tali società, si estendevano alla società-madre o ad altre società dello stesso gruppo, salva peraltro la possibilità di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro - anche al fine di accertare la sussistenza o meno del requisito numerico costituente il presupposto della cosiddetta tutela reale del lavoratore licenziato - ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge degli atti costitutivi delle società del gruppo mediante interposizioni fittizie e viceversa reali ma fiduciarie” [Cass., sez. lav., 11801/1993; nello stesso senso in seguito Cass., 3136/1999 e 4274/2003]. La giurisprudenza ha nel tempo affinato questa massima, individuando i requisiti per la configurazione della fattispecie invocata dalla ricorrente: “a) l’unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo, con correlativo interesse comune; c) il coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario, tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori che fruiscono dell’attività del lavoratore” [Cass., sez. lav., 7717/2003; più di recente Cass., sez. lav., 160/2017]. L’onere di provare questi requisiti incombe sul lavoratore, tenuto a dimostrare che la realtà fattuale supera la formale divaricazione di personalità giuridica delle diverse imprese. La ricorrente ha allegato soltanto tre circostanze: l’identità degli amministratori; l’identità di sede e spazi lavorativi; l’impiego promiscuo da parte delle due convenute di una lavoratrice, P.P., rimasta alle dipendenze formali di M.srl solo perché invalida. Quest’ultimo elemento non integra l’ultimo dei requisiti dettati dalla Cassazione, che investe “la prestazione lavorativa” della persona che agisce per fare valere il proprio diritto a godere d’una tutela piena verso il licenziamento. È stato osservato in dottrina che l’unicità del centro d’imputazione del rapporto di lavoro nel gruppo d’imprese può dare luogo, una volta che sia dimostrato il frazionamento fittizio diretto ad eludere la disciplina giuslavoristica, ad una fictio juris: il lavoratore può così beneficiare dell’applicazione di

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tale disciplina, ferma restando la strutturazione delle diverse società appartenenti ad un gruppo d’imprese. Questa logica è condivisibile, poiché garantisce l’applicazione delle norme degli artt. 18 e 35 l. 300/70, secondo il loro spirito di protezione della posizione del lavoratore, anche prescindendo dalla ricerca dell’intento fraudolento nel frazionamento delle imprese. Tale logica richiede però che a subire l’impiego promiscuo da parte delle varie persone giuridiche sia la parte ricorrente e non qualunque prestatore di lavoro dell’una o dell’altra società. Manca di conseguenza la prova di uno dei requisiti definiti dalla stessa difesa attrice, nella discussione orale, come fondamentale. A ciò si aggiunga che la scissione di M.web da M.srl ha separato attività operativamente eterogenee: da una parte quella editoriale e quella legata alla gestione di servizi via internet, assunte dal soggetto beneficiario [all. 4 mem.], dall’altra quella di ristorazione, rimasta presso la società scissa, che occupa un organico di personale numericamente assai più consistente [all. 2 ric.]. Non v’è prova che tali rispettive attività si intrecciano o interferiscano l’un l’altra, dunque che siano integrate tra loro. L’utilizzo comune di parte della struttura amministrativa, che è stato dedotto, atterrebbe infatti, se anche fosse dimostrato, al requisito strutturale, non a quello funzionale. È pur vero che alcune circostanze acquisite al giudizio fanno dubitare della genuinità della scissione: la collocazione in M.srl della menzionata P.P., frutto d’una strategia d’impresa unica (cfr. int. P.M.: «..rimasta alle dipendenze di Mentelocale Srl all’atto della scissione in quanto invalida, sicché andò a coprire lo spazio dedicato alla riserva»); l’uso parziale comune della struttura di segreteria («per M.web l’ufficio amministrativo si identificava con V. D., la quale era una dipendente a tempo parziale di M.srl»); l’assenza soprattutto d’un contratto che regolamenti la fornitura dei servizi amministrativa dall’una all’altra società. Tuttavia nell’attuale fase processuale (priva di preclusioni probatorie dettate da termini di decadenza rigidi), la carenza probatoria dianzi verificata e relativa ad alcuni dei requisiti giurisprudenziali impedisce di conferire a questi ultimi elementi i connotati degl’indizi gravi, univoci e concordanti per la ricostruzione giuridica d’un unico centro d’imputazione. 6. Il requisito dimensionale per la massima tutela rivendicata. Non è pertanto possibile accogliere la domanda della ricorrente per l’applicazione dell’art. 18, co. 5 o 6, l. 300/70 in ragione del collegamento economicofunzionale tra le due società convenute. Nel ricorso si sostiene che la “c.d. tutela reale alla fattispecie sarebbe con ogni probabilità giustificata” anche dall’organico della sola M.web, previo accertamento della natura subordinata dei rapporti lavorativi

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di alcuni addetti alla redazione giornalistica. Vengono menzionati C.T., A.S., R.U. e F.B.. Per dare dimostrazione di quell’assunto si afferma che tutti costoro sarebbero “assoggettati ai poteri di direzione, organizzazione e disciplina degli amministratori delle due società”. L’enunciato dell’atto difensivo neppure si sofferma sui contenuti dell’attività svolta rispettivamente dai singoli lavoratori. La circostanza allegata a prova della dimensione dell’organico di M.web risulta dunque del tutto generica, quindi inammissibile in una fase processuale pur deformalizzata – ma ad istruttoria piena – qual è quella regolata dall’art. 1, co. 48 e 49, l. 92/2012. Non potendo il rapporto essere imputato alle due parti convenute e mancando il requisito dimensionale in capo a M.web, la fattispecie esaminata è estranea al campo di applicazione dell’art. 7 l. 604/66 (modif. ex art. 1, co. 40, L. 92/2012). Pertanto la mancata adozione della procedura preventiva prevista da quella norma non costituisce un vizio del licenziamento in esame. La domanda diretta ad ottenere un indennizzo commisurato ai parametri dell’art. 18 l. 300/70 è dunque infondata sotto tutti i profili fatti valere in ricorso. Questa conclusione non è motivo, come detto, per modificare il rito col quale la causa è stata instaurata. 7. La tutela spettante verso il licenziamento. La reiezione della tesi della ricorrente sull’unicità del centro d’imputazione del suo rapporto di lavoro comporta che esso non possa dirsi proseguito senza discontinuità da quando era stato costituito presso M.srl. Non può quindi negarsi la genuinità della sua assunzione da parte di M.web alla data, 6.12.2016, di efficacia della scissione. Di conseguenza, il rapporto di lavoro è sorto nella vigenza del d.lgs. 23/2015, la cui disciplina va applicata al recesso dichiarato illegittimo. Tale recesso va soggettivamente imputato solo a M.web, unico titolare del rapporto di lavoro al momento in cui è stato intimato. Di conseguenza il ricorso va respinto nei confronti dell’altra parte convenuta. Poiché M.web non raggiunge i requisiti dimensionali previsti dall’art. 18 l. 300/70, la ricorrente ha diritto alla sola tutela dell’art. 9, primo comma, d. lgs. 23/2015. Il licenziamento è stato intimato prima del d.l. 87/2018 (conv. nella legge 96/2018), sicché non è soggetto alla disciplina che ha incrementato il numero minimo delle mensilità spettanti. La norma dell’art. 9, primo comma, determina il valore dell’indennizzo stabilendo che è dovuto quello dell’art. 3, primo comma, del medesimo d. lgs. 23/2015, ma “dimezzato”. L’8 novembre scorso la Corte costituzionale ha depositato la motivazione della sentenza con cui quest’ultima disposizione è stata dichiarata illegittima per contrasto con gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, nonché, con riferimento all’art. 24 della Carta sociale europea, 76 e 117, primo comma, Cost., limi-


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tatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” [Corte cost., 194/2018]. La Corte ha censurato questo meccanismo poiché, parametrato alla sola anzianità di servizio, non garantisce un risarcimento adeguato al danno effettivo subito dal lavoratore ingiustificatamente licenziato e sufficientemente dissuasivo nei confronti del datore di lavoro autore d’un illecito. Essa ha pertanto rimesso al giudice la determinazione dell’indennità risarcitoria spettante tenendo conto, nel rispetto dei limiti edittali previsti dalla norma, non solo dell’anzianità, ma anche di altri criteri, quali quelli dettati dall’art. 8 l.604/66 o dall’art. 18, quinto comma, l. 300/70. L’art. 9, primo comma, d. lgs. 23/2015 non ha subito censure, non essendo stato oggetto del quesito di costituzionalità. È inevitabile però valutare l’incidenza della pronuncia 194/2018 anche sulla sua applicazione, sia perché questa norma richiama direttamente quella dell’art. 3, primo comma, per assumere la base di calcolo dell’indennizzo dovuto ai dipendenti delle piccole imprese sia perché adotta lo stesso congegno, ancorato esclusivamente all’anzianità di servizio (diversamente dall’omologa disposizione dell’art. 8 l. 604/66, indicata dalla Consulta come modello costituzionalmente corretto). Le argomentazioni della sentenza 194/2018 muovono da considerazioni che investono la “predeterminazione forfetizzata del risarcimento del danno” alla luce di principi generali dell’ordinamento. All’interno del disposto dell’art. 9, primo comma, non v’è un elemento, neppure d’ordine sistematico, che renda ragionevole discostarsene per il solo fatto che l’impresa datrice di lavoro sia priva del requisito dimensionale dell’art. 18 l. 300/70. Onde evitare un’applicazione contrastante col pronunciamento della Corte costituzionale, deve ritenersi che il rinvio al “ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’art. 3, comma 1..” vada letto in riferimento a tutti i criteri risarcitori indicati dalla sentenza 194/2018. Rimettendo al giudice una valutazione più lata del valore dell’indennizzo risarcitorio, questa soluzione interpretativa, costituzionalmente orientata incontra il medesimo confine rappresentato dal “rispetto dei limiti, minimo e massimo” previsti dalla disposizione applicata, secondo l’espressione usata dalla Corte. Nel caso dell’art. 9, primo comma, d. lgs. 23/2015 il limite dettato dal legislatore è soltanto massimo. 8. L’entità dell’indennizzo risarcitorio. L’esito dell’accertamento ispettivo dell’INPGI avalla le risultanze dell’interrogatorio libero dell’amministratore di M.web e della corrispondenza depositata col ricorso ed in corso di causa [all. 16 e 18]. Tutti questi elementi convergono nel fare ritenere effettivo il ruolo direttivo ed organizzativo assegnato

a G. nella redazione; quella di direttore responsabile era dunque non una “nomina svincolata dal rapporto di lavoro”, così come la convenuta ha sostenuta nella propria memoria, ma un incarico che le affidava funzioni concrete. Questo accertamento va compiuto, seppure in via incidentale, anche nella presente procedura, essendo connesso alla determinazione del valore dell’indennizzo (art. 1, co. 48, l. 92/2012). Va di conseguenza condivisa l’impostazione della difesa attrice che ha ritenuto di assumere come base di calcolo dell’indennizzo dovuto la retribuzione del capo redattore, in considerazione delle dimensioni modeste della redazione e della qualificazione professionale limitata del personale da lei coordinato. Parte convenuta non ha contestato la correttezza contabile del computo di tale retribuzione-base mensile, che ammonta pertanto ad € 5.309,62 [all. 13 ric.]. Non v’è ragione, in assenza di conteggi difformi, per distinguere tra ultima retribuzione globale di fatto, ai sensi dell’art. 18 l. 300/70, e retribuzione utile ai fini del TFR, costituente il parametro risarcitorio per il d. lgs. 23/2015. Il disconoscimento dell’apporto professionale richiesto alla ricorrente, le gravi violazioni che hanno accompagnato il recesso, le ombre gravanti sulla scissione aziendale seguita in dieci mesi dalla decisione di licenziarla costituiscono elementi meritevoli di considerazione nella quantificazione del risarcimento dovuto, ben più della mera anzianità di servizio. Quest’ultima é del resto conseguenza della costituzione recente della nuova impresa datrice di lavoro a causa della menzionata scissione. Tra gli elementi testé citati ha particolare rilievo quello contrattuale, giacché l’attribuzione della qualifica di collaboratrice esterna è destinata ad incidere non solo sul valore della retribuzione spettante, ma anche sulle prospettive di ricollocazione della ricorrente nell’ambiente giornalistico. Va di conseguenza riconosciuto un indennizzo pari al limite massimo di sei mensilità. M.web va in definitiva condannata a corrispondere alla ricorrente l’importo complessivo di € 31.857,72. Su tale importo vanno applicati la rivalutazione monetaria e gl’interessi legali, a seguito della sentenza del 23 ottobre 2000, n. 459, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 22 comma trentasei l. 724/94. Gli interessi vanno calcolati sul capitale rivalutato annualmente, secondo il più recente orientamento della Corte Suprema [Cass., sez. un., 29 gennaio 2001, n. 38]. Poiché la condanna non segue ad una pronuncia ricostituiva del rapporto con effetto ex tunc, gli interessi decorrono dalla data della presente decisione. Omissis P.Q.M. applicando l’art. 1, co. 49, l. 92/2012,

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Giurisprudenza

a) respinge il ricorso nei confronti di M.srl.;

il complessivo importo di € 31.857,72, con gli interes-

b) dichiara estinto il rapporto di lavoro della ricor-

si legali, sulla somma capitale da rivalutarsi anno per

rente L. G. con M.web e dichiara tenuta e conseguen-

anno, decorrenti dalla data della presente ordinanza e

temente condanna quest’ultima, in persona del suo

sino al saldo;

legale rappresentante pro tempore, a corrisponderle

Omissis

La liquidazione dell’indennità per licenziamento ingiustificato dopo C. cost. n. 194/2018: prime indicazioni della giurisprudenza di merito Sommario : 1. I casi. – 2. Il nuovo quadro normativo: dall’indennizzo crescente alla indennità “personalizzata”. – 3. La natura risarcitoria dell’indennità per licenziamento ingiustificato. – 4. I criteri di determinazione dell’indennità. – 5. L’onere della prova e l’obbligo di specifica motivazione. – 6. Osservazioni conclusive.

Sinossi. Il commento evidenzia che dopo l’intervento della sentenza n. 148/2018 della Corte costituzionale il ristoro per l’illegittima estromissione dal rapporto di lavoro non può essere parametro alla sola anzianità di servizio. Tutt’altro, i criteri offerti alla discrezionale valutazione del giudice non possono che essere molteplici. In quest’ottica, entrambe le decisioni precisano che il giudice di merito, nel procedere alla liquidazione dell’indennità risarcitoria, deve effettuare una valutazione complessiva del caso concreto, contemperando il criterio dell’anzianità con gli ulteriori criteri di natura oggettiva (numero dei dipendenti occupati, dimensione dell’attività economica, situazione del mercato del lavoro locale) e soggettiva (comportamento e condizione delle parti) desumibili dall’evoluzione sistematica della disciplina sui licenziamenti. Abstract. The comment highlights that after the Constitutional Court’s ruling n. 194/2018 the compensation for unjustified dismissal cannot be calculated only on the basis of length of employment. The judge will have to use a number of criteria. In this perspective, both decisions specify that the judge, in determining the amount of compensation, must carry out an overall assessment of the specific case, considering the criterion of the length of employment togheter other criteria of an objective nature (number of employees, size of economic activity, local situation of the labor market) and subjective (behavior and condition of the parties) that can be deduced from the systematic evolution of the rules on dismissals.

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Giorgio Bolego

1. I casi. Le decisioni in commento costituiscono i primi pronunciamenti della giurisprudenza di merito in ordine alla quantificazione dell’indennità spettante al lavoratore assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tutele crescenti, che abbia subito un licenziamento ingiustificato, dopo l’intervento della sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale1. Con tale decisione, il giudice delle leggi, in parziale accoglimento delle questioni sollevate dal Tribunale di Roma2, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 3, co. 1, d. lgs. n. 23/2015 – anche nella versione modificata dal d.l. n. 87/2018 (cd. Decreto dignità), convertito in l. n. 96/2018 – nella parte in cui prevede(va) un rigido e automatico criterio di calcolo dell’indennità ancorato al solo parametro dell’anzianità («due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio»). In particolare, il Tribunale di Bari, ha accertato l’illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 4, co. 3 e 9 della l. n. 223/1991, ritenendo che la comunicazione iniziale non offriva alcun elemento utile a confrontare le posizioni dei lavoratori da porre in mobilità con quelli da mantenere in servizio, così impedendo alle organizzazioni sindacali ed ai lavoratori di verificare la regolarità della procedura. Dichiarata la cessazione del rapporto lavorativo, il giudice, nel procedere alla quantificazione dell’indennità, ha escluso l’applicabilità delle modifiche introdotte dal d.l. n. 87/2018 perché il licenziamento era stato intimato prima della sua entrata in vigore; inoltre, pur nella consapevolezza che «le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione... e che tale pubblicazione nella specie non è ancora avvenuta», ha ritenuto di dover fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 3, co. 1, d. lgs. n. 23/20153, quantificando l’indennità spettante al lavoratore, compresa fra il minimo di 4 e il massimo di 24 mensilità, sulla base dei criteri enunciati dall’art. 18, co. 5, St. lav., vale a dire non solo in relazione all’anzianità di servizio, ma anche in considerazione del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti. Sulla base di una valutazione complessiva del caso concreto, l’indennità è stata determinata nella misura di 12 mensilità, rispetto alle 4 che sarebbero state liquidate in ragione della sola anzianità di servizio, pari a circa un anno e mezzo. Il giudice del Tribunale di Genova, invece, ha esteso il dispositivo della sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale ai licenziamenti disciplinati dall’art. 9 del d. lgs. n. 23/2015, cioè ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato instaurati dopo il 7 marzo 2015

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Pubblicata in RIDL, 2018, II, 1031, con note di Ichino, Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento e l’indennizzo nella sentenza della Consulta, e M. T. Carinci, La Corte costituzionale ridisegna le tutele del licenziamento ingiustificato nel Jobs Act: una pronuncia destinata ad avere un impatto di sistema. Cfr. Trib. Roma, ord. 26 luglio 2017, in RIDL, 2017, 775, con nota di Proia, Sulla questione di costituzionalità del contratto a tutele crescenti. Critico sul punto Cester, Il Jobs Act sotto la scure della Corte costituzionale: tutto da rifare?, in LG, 2019, 173, nt. 27, che rileva una «(davvero forzata) interpretazione costituzionalmente orientata».

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Giurisprudenza

con datori di lavoro che non superano i limiti dimensionali stabiliti dall’art. 18, co. 8 e 9 St. lav. 4. Ha quindi affermato che anche nel caso di licenziamento ingiustificato di una lavoratrice impiegata in un’impresa di piccole dimensioni, l’indennità non va calcolata esclusivamente in proporzione all’anzianità di servizio, poiché il giudice deve avere la possibilità di determinare discrezionalmente la sanzione sulla scorta degli ulteriori parametri previsti dall’art. 8, l. n. 604/1966 e dall’art. 18, co. 5 della l. n. 300/1970 (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa, anzianità di servizio del prestatore di lavoro, comportamento e condizioni delle parti), pur rimanendo nei limiti stabiliti dal legislatore. Nel caso di specie l’indennità è stata liquidata nella misura massima di 6 mensilità, rispetto alle 2 che sarebbero spettate alla lavoratrice in ragione dell’anzianità di servizio di soli 10 mesi. Tali decisioni dimostrano che, se è vero che nei primi anni di applicazione del d. lgs. n. 23/2015 l’attenzione è stata monopolizzata dallo sforzo di ricostruire la regola dell’an dell’indennità (cioè l’ingiustificatezza semplice del licenziamento5), affiora ora, in tutta la sua complessità, anche il problema del quantum. Infatti, una volta accertata l’illegittimità del negozio di recesso e dichiarato estinto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, il giudice deve ora procedere alla liquidazione dell’indennità attraverso un’operazione complessa e artificiosa poiché, in definitiva, si tratta di dare un valore monetario al disvalore assegnabile alla cessazione ingiustificata del rapporto di lavoro «cui l’ordinamento reagisce (o, meglio, deve reagire)»6. In quest’ottica, le stesse decisioni offrono un’importante occasione per ricostruire il nuovo apparato sanzionatorio applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 che abbiano subito un licenziamento ingiustificato.

2. Il nuovo quadro normativo: dall’indennizzo crescente alla indennità “personalizzata”.

Come è stato rilevato, né il “decreto Dignità”, né la sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 hanno demolito l’impianto normativo del contratto di lavoro a tutele crescenti7: il d. l. n. 87/2018 si è limitato ad innalzare il minimo (da 4 a 6 mensilità) ed il massimo (da 24 a 36 mensilità) dell’indennità dovuta in caso di licenziamento non supportato da

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Ammettono l’estensione dei principi affermati dalla Corte costituzionale, che si è pronunciata sull’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 23/2015, alla disciplina dei licenziamenti nelle piccole imprese, regolata dall’art. 9 del medesimo decreto, M. T. Carinci, La Corte costituzionale ridisegna le tutele del licenziamento ingiustificato nel Jobs Act, cit., 1059, nt. 1; De Luca Tamajo, La sentenza costituzionale 194 del 2018 sulla quantificazione dell’indennizzo per licenziamento illegittimo, in DLM, 2018, 641; Cester, Il Jobs Act sotto la scure, cit., 173. Su tale problematica cfr., in relazione ai licenziamenti per ragioni oggettive Zoli, I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo dalla legge n. 604 del 1966 al d. lgs. n. 23 del 2015, in, Quaderni di ADL, 2015, Licenziamenti nel contratto a tutele crescenti, 75 ss.; in relazione a quelli per ragioni soggettive Nogler, Licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa nel d. lgs. n. 23 del 2015, in ADL, 2015, 507 ss.. Sull’automaticità del criterio di calcolo previsto dalla formulazione originaria dell’art. 3, co. 1, d. lgs. n. 23/2015 v. Trib. Monza, 27 aprile 2017, in DeJure. Così Mazzotta, Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in Labor, 1 dicembre 2018, 2. In tal senso v. De Luca Tamajo, La sentenza costituzionale 194 del 2018, cit., 635.

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giusta causa o giustificato motivo; la Corte costituzionale, invece, ha considerato legittimo sia il passaggio da un sistema sanzionatorio incentrato sulla sanzione reintegratoria ad uno incentrato sulla tutela indennitaria8, sia la previsione di una sanzione edittale circoscritta tra un minimo e un massimo (il range attuale va da 6 e 36 mensilità), dichiarando non conforme a costituzione il solo segmento disciplinare relativo al parametro di quantificazione dell’indennità. Infatti, la censura della Corte ha riguardato il solo meccanismo di calcolo, pressoché automatico, dell’indennità, che fin dall’emanazione del d. lgs. n. 23/2015 è stato oggetto di molteplici critiche: perché circoscrive la valutazione del giudice al solo controllo delle ragioni di legittimità del licenziamento9; perché non risulta completamente a tutele crescenti, posto che opera comunque il limite massimo delle 24 (ora 36) mensilità10; perché non consente di tener conto della gravità del vizio che caratterizza il negozio di licenziamento11, introducendo un criterio egualitaristico che prescinde dalla diversità delle situazioni concrete12; perché introduce un indennizzo di modesta entità per i lavoratori con bassa anzianità di servizio, permettendo di arrivare alle 36 mensilità solo nel 203313. La decisione della Corte costituzionale supera, almeno in parte, tali criticità; infatti, come dimostrano le decisioni in commento, il venir meno del criterio aritmetico-contabile di determinazione dell’indennità rilancia la discrezionalità valutativa del giudice14, assegnandogli il compito di stabilire, di volta in volta, il punto di bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco. In questa prospettiva, secondo la Corte, la discrezionalità valutativa del giudice potrà muoversi in uno spazio delimitato tra un minimo ed un massimo, ma con lo scopo di stabilire l’indennità più adeguata al caso concreto, in una logica di personalizzazione della tutela monetaria, anche al fine di scongiurare trattamenti omologanti di situazioni diverse (v. punto 11 del Considerato).

3. La natura risarcitoria dell’indennità per licenziamento

ingiustificato.

La censura della Corte si è incentrata, dunque, sul criterio di quantificazione standardizzato dell’indennità, che a suo giudizio tradisce il principio di personalizzazione del risarcimento, muovendo dalla considerazione secondo cui l’indennità prevista dall’art. 3,

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Enfatizza questo profilo della sentenza costituzionale Ichino, Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento, cit., 1032. Zoli, I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo dalla legge n. 604, cit., 89. 10 Mattarolo, Le conseguenze risarcitorie o indennitarie del licenziamento illegittimo, in F. Carinci, Cester (a cura di), Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015, Adapt University Press, cit., 130; ma anche Cester, Il Jobs Act sotto la scure, cit., 164, che in proposito parla di «imbroglio linguistico». 11 Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.it – 273/2015, 87. 12 Mazzotta, Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, cit., 5. 13 De Luca Tamajo La sentenza costituzionale 194 del 2018, cit., 635. 14 In tal senso v. Sanlorenzo, Al centro il Giudice. La Corte costituzionale e il Jobs Act, in www.questionegiustizia.it del 9 novembre 2018; Martone, Calcolabilità del diritto e discrezionalità del giudice: a proposito della illegittimità costituzionale del “Jobs Act”, in ADL, 2018,, 1521, che in proposito evidenzia una chiara scelta di politica del diritto da parte della Corte costituzionale. 9

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Giurisprudenza

co. 1, d. lgs. n. 23/2015 ha natura risarcitoria del pregiudizio derivante dall’illegittima estromissione del lavoratore15. È questo il presupposto logico su cui si fonda l’intera decisione della Corte16, il quale, tuttavia, risulta tutt’altro che pacifico. Infatti, a differenza dell’art. 8, l. n. 604/1966 – che parla di risarcimento del danno attraverso il versamento di un’indennità – e dell’art. 18, co. 5, St. lav. – che fa esplicito riferimento all’«indennità risarcitoria onnicomprensiva» –, l’art. 3, co. 1, d. lgs. n. 23/2015 menziona una «indennità onnicomprensiva non soggetta a contribuzione previdenziale» senza alcun riferimento alla funzione risarcitoria. Nel silenzio del legislatore sul punto, la dottrina ha riconosciuto all’indennità in parola ora funzione risarcitoria17, ora funzione sanzionatoria18, ora entrambe19. Per la Corte costituzionale, invece, «la qualificazione come “indennità” dell’obbligazione prevista dall’art. 3 comma 1 del d. lgs. n. 23 del 2015 non ne esclude la natura di rimedio risarcitorio, a fronte di un licenziamento … adottato in violazione di una preesistente e non modificata norma imperativa» (punto 10 del Considerato). In effetti, è difficile disconoscere che in materia di licenziamenti illegittimi, cioè intimati in carenza di giusta causa o giustificato motivo (art. 1, l. n. 604/1966), lo scopo del legislatore sia quello di garantire una compensazione rispetto a una perdita ingiustamente subita dal lavoratore, in quanto estromesso dal rapporto lavorativo e privato delle utilità che esso è suscettibile di procurargli20. Per questa ragione la Corte, in conformità ai propri precedenti in materia di forfetizzazione del danno, richiama l’esigenza della personalizzazione o individualizzazione dell’indennità (punto 12.3 del Considerato), che viene inquadrata nella prioritaria funzione risarcitoria del danno patito dal lavoratore21. Tuttavia, si è puntualmente osservato che l’esigenza di personalizzazione si attaglia meglio ai danni alla persona e ai suoi diritti fondamentali, piuttosto che ai danni di natura essenzialmente patrimoniale, come sono quelli derivanti dalla perdita del posto di lavoro22, anche perché i danni alla persona lesivi della

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Particolarmente critico sul punto Pisani, La corte costituzionale e l’indennità per il licenziamento ingiustificato: l’incertezza del diritto”liquido”, in MGL, 2018, 152, secondo il quale l’applicazione all’indennità in parola dei principi generali in materia di risarcimento del danno costituisce una forzatura, poiché non tiene conto della sua specialità rispetto al risarcimento del danno in senso proprio. 16 Così si esprime De Angelis, Sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale e giudizi pendenti: prime riflessioni, in in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.it – 387/2019, 2. 17 Cfr. Vianello, Il licenziamento illegittimo nel contratto a tutele crescenti: il nuovo parametro di determinazione del risarcimento, in RIDL, 2018, I, 76; Filì, Tutela risarcitoria e indennitaria: profili qualificatori, previdenziali e fiscali, in Ghera, Garofalo D. (a cura di), Le tutele per i licenziamenti e per la disoccupazione involontaria nel Jobs Act 2, Cacucci, 2015, 206. 18 Cfr. Mattarolo, Le conseguenze risarcitorie o indennitarie del licenziamento illegittimo, cit., 130, secondo la quale l’indennità ha funzione prevalentemente sanzionatoria. 19 Di “sanzione risarcitoria” parla Vidiri, Il licenziamento disciplinare nel primo decreto attuativo del Jobs Act tra luci e non poche ombre, in ADL, 2015, 358; mentre Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.it, n. 273/2015, 89 ritiene l’indennità «polifunzionale, diretta ora a fini puntivi ora a fini restitutori e rimediali delle conseguenze (illecito licenziamento) indiscutibilmente produttivo di danno”. 20 In tal senso v. Cester, Il Jobs Act sotto la scure, cit., 168. 21 M. T. Carinci, La Corte costituzionale ridisegna le tutele, cit., 1062. 22 Cester, Il Jobs Act sotto la scure della Corte costituzionale, cit., 169, il quale soggiunge che laddove vengono in considerazione danni propriamente patrimoniali, sia pur nel quadro di un rapporto a stretta “implicazione personale”, i meccanismi forfetari e predeterminati possono rappresentare uno strumento di rapida e pronta definizione delle controversie, sulla base di un bilanciamento degli interessi talvolta un poco sommario, ma comunque ispirato a criteri di concretezza ed effettività.

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dignità morale derivanti dal licenziamento ingiurioso o da reato sono sempre stati riconosciuti come oggetto di un risarcimento autonomo e integrale23. Su questi profili la posizione della Corte è chiarissima e foriera di indicazioni sistematiche. Infatti, dopo aver ricapitolato le proprie principali decisioni in materia licenziamenti, la sentenza costituzionale afferma che il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, ben può prevedere un meccanismo di tutela del lavoratore anche solo risarcitoriomonetario24, purché tale modello si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. In particolare, scrive la Corte, «in una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia» (punto 11 del Considerato, corsivo mio). In quest’ottica, nella parte finale della decisione, la Corte rinvia ai criteri richiamati dall’art. 8, l. n. 604/1966 e dall’art. 18, co. 5 St. lav. precisando che nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, spetta al giudice quantificare l’importo dell’indennità, tenendo conto «innanzitutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, co. 7, lett. c) della legge 183 del 2014 e che ispira il disegno riformatore del d. lgs. 23 del 2015 – nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti» (punto 15 del Considerato). In tal modo la Corte, dopo aver dichiarato incostituzionale il meccanismo di calcolo caratterizzante il contratto a tutele crescenti, mostra di prediligere la soluzione adotta dalla l. n. 92/2012, che assegna al giudice una certa discrezionalità attraverso il rinvio non solo a criteri tipicamente oggettivi di determinazione del quantum risarcitorio (quali l’anzianità del lavoratore, il numero dei dipendenti occupati, la dimensione dell’attività economica), ma anche a criteri puramente soggettivi (quali il comportamento e le condizioni delle parti).

4. I criteri di calcolo dell’indennità. È questa la pars costruens della sentenza costituzionale, ma è anche quella più controversa poiché, da un lato, apre ad una situazione di notevole incertezza, riconoscendo al

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Sul punto v. Mattarolo, Le conseguenze risarcitorie o indennitarie del licenziamento illegittimo, cit., 128; sul licenziamento ingiurioso quale illecito extracontrattuale cui consegue il diritto al risarcimento del danno morale v. Cass. 30 dicembre 2011, n. 30668, in RIDL, 2012, II, 587, con nota di Allocca, La liquidazione del danno non patrimoniale da licenziamento ingiurioso tra autonomia e personalizzazione del risarcimento; Cass. 16 maggio 2006, n. 11432, in DRI, 2007, 488, con nota di FIORE, Il diritto del lavoratore al risarcimento del danno in caso di licenziamento ingiurioso. 24 In tal senso si è già espressa C. cost. 30 giugno 1994, n. 268, in RIDL, 1995, II, 237, con nota di Manganiello, Legge e autonomia collettiva nella disciplina dei criteri di scelta per la riduzione del personale: la consulta introduce il criterio di ragionevolezza; nonché, in materia di contratto a termine, C. Cost. 11 novembre, 2011, n. 303, in RIDL, 2012, II, 252, con nota di Zappalà, La consulta e la ponderazione degli interessi nel contratto a termine: stabilizzazione versus indennità risarcitoria forfetizzata, entrambe citate in motivazione.

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giudice un margine decisionale di ben 30 mensilità25; dall’altro, non fornisce una chiara disciplina in merito alla tipologia ed alla rilevanza dei criteri di calcolo, aprendo la disputa tra chi ritiene che la sentenza sia puramente ablativa, perché il dispositivo della decisione non richiama alcun parametro26 e chi invece propende per la natura additiva o manipolatoria, ritenendo necessaria una lettura integrata tra dispositivo e motivazione27. Invero, il primo dubbio che si pone alla luce della struttura della sentenza costituzionale è se i criteri stabiliti dall’art. 8, l. n. 604/1966 e dall’art. 18, co. 5 St. lav. siano vincolanti per il giudice. Secondo un primo orientamento, poiché il dispositivo fa corpo con la motivazione, tali ulteriori criteri sarebbero vincolanti28, sicché la norma di risulta verrebbe ad assumere i caratteri di una disciplina speciale, che riprende i parametri legali presuntivi di liquidazione, ponendosi in chiave derogatoria al principio generale in materia di liquidazione dei danni stabilito dall’art. 1223 c.c.29. Per un diverso orientamento, invece, in assenza di chiare indicazioni nel dispositivo, i criteri menzionati nella motivazione non sarebbero vincolanti, sicché il giudice potrebbe fare riferimento anche ad altri parametri, pur sempre desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina dei licenziamenti30. Seguendo tale linea interpretativa si è affermato che l’aspetto di specialità della tutela risarcitoria in questione, rispetto a quella di diritto comune, sarebbe costituito dalla fissazione di un minimo (6 mensilità) e di un massimo (36 mensilità), per il resto dovendosi applicare le regole del diritto privato in materia di liquidazione del danno31. Un terzo orientamento, infine, ritiene verosimile che sul piano pratico-operativo i giudici applicheranno proprio i criteri evocati dalla Corte, privilegiando quello dell’anzianità sia pur in combinazione con gli ulteriori parametri economici e comportamentali32. Pare questa la linea interpretativa non prescritta, ma comunque suggerita dalla Corte costituzionale, che nell’offrire «il volto più nobile del c.d. costituzionalismo»33, non introduce ex novo criteri sostitutivi di quello adottato dal legislatore delegato, ma neppure rinvia alla mera discrezionalità del giudice o, addirittura, ad una sorta di giudizio equitativo. In altri termini, i criteri desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina in materia di licenziamenti, esemplificativamente indicati dalla Corte costituzionale, potranno essere certamente utilizzati dal giudice di merito, al quale, peraltro, non può dirsi

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In tal senso v. Pisani, La corte costituzionale e l’indennità per il licenziamento ingiustificato, cit., 160. In tal senso v. Saracini, Licenziamento ingiustificato: risarcimento e contenuto essenziale della tutela, in DLM, 2018, 652; Pisani, La corte costituzionale e l’indennità per il licenziamento ingiustificato, cit., 159; De Angelis, Sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale e giudizi pendenti, cit., 9. 27 M. T. Carinci, La Corte costituzionale ridisegna le tutele, cit., 1063; di «manipolazione del testo legislativo» parla anche Ichino, Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento, cit., 1056. 28 In tal senso v. M. T. Carinci, La Corte costituzionale ridisegna le tutele, cit., 1064. 29 Sul punto, in relazione alla disciplina prevista dall’art. 8, l. n. 604/1966, v. Boscati, La tutela obbligatoria, in Diritto del lavoro. Commentario, dir. da F. Carinci, Vol. III, a cura di Miscione, Il rapporto di lavoro subordinato: garanzie del reddito, estinzione e tutela dei diritti, Utet, 2007, 336. 30 Saracini, Licenziamento ingiustificato, cit., 652. 31 De Angelis, Sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale e giudizi pendenti, cit., 9; contra Cester, Il Jobs Act sotto la scure, cit., 172. 32 De Luca Tamajo, La sentenza costituzionale, cit., 639. 33 Così, Mazzotta, Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, cit., 630 26

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precluso l’utilizzo di criteri diversi o ulteriori quale, ad esempio, quello previsto dall’art. 30 della l. n. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro), stranamente non considerato dalla decisone costituzionale34. Anche questa disposizione, infatti, rientra nell’evoluzione sistematica cui si riferisce la Corte e oltre a riprendere i criteri contemplati dall’art. 8 della l. n. 604/1966, contiene anche un riferimento all’andamento del mercato del lavoro locale, nonché un rinvio alla contrattazione collettiva per quanto riguarda l’individuazione di ulteriori parametri ai quali il giudice potrebbe fare riferimento in sede di liquidazione35. Si è comunque segnalata la necessità di un uso prudente dei criteri di quantificazione36 sia per scongiurare il risultato paradossale di costruire una tutela risarcitoria per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 notevolmente più robusta di quella applicabile agli assunti prima37; sia perché i criteri richiamati dalla Corte risultano tutt’altro che idonei a determinare il pregiudizio subito dal lavoratore e a realizzarne la personalizzazione. Infatti, taluni di essi possono essere utili ai fini della dissuasività (si pensi al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa e dell’attività economica), ma sul piano dell’adeguatezza risarcitoria rilevano poco, perché poco hanno a vedere con il concreto pregiudizio subito dal lavoratore per la perdita del posto di lavoro38. Per questa ragione, in sede di liquidazione dell’indennità risarcitoria non si potrà non considerare il criterio dell’anzianità espressamente richiamato dalla legge delega e dalla stessa Corte costituzionale, ma non già quale fattore esclusivo della moltiplicazione, bensì come elemento di valutazione da esaminare in combinazione con gli altri al fine di determinare il numero delle mensilità e personalizzare l’indennizzo.

5. L’onere della prova e l’obbligo di specifica motivazione. La liquidazione dell’indennità avviene in sede processuale, ove assume rilievo l’aspetto della distribuzione dell’onere della prova dei vari elementi che caratterizzano il caso concreto. Si è osservato che, dal lato del lavoratore si tratterebbe di fatti costitutivi del suo diritto ad una certa misura dell’indennità, che probabilmente verrà domandata sempre nella misura massima; dal lato del datore di lavoro, invece, di fatti estintivi diretti ad abbassare il numero delle mensilità fino alla soglia minima, che rimane tutt’ora valida perché fatta salva dalla Corte e quindi come tale liquidabile. Pertanto, in base ai princìpi generali dovrebbe

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Lo rileva anche Pisani, La corte costituzionale e l’indennità per il licenziamento ingiustificato, cit., 165. Sulla ragionevolezza di tali criteri v. Pedrazzoli, Licenziamenti, soggettivi e oggettivi, e sanzioni: una introduzione con le novità del «Collegato lavoro», in Id. (a cura di), Licenziamenti e sanzioni nei rapporti di lavoro, Cedam, 2011, XLIX 36 Cester, Il Jobs Act sotto la scure, cit., 170. 37 Tale possibilità è evidenziata da Ichino, Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento, cit., 1057: per effetto della sentenza costituzionale «chi è stato assunto dal 7 marzo 2015 in poi può vedersi liquidato un indennizzo di molto superiore (fino a un massimo di 36 mensilità)» a quello previsto per gli assunti prima del 7 marzo 2015 dal novellato art. 18 St. lav., che prevede un indennizzo da 12 a 24 mensilità». 38 In tal senso Saracini, Licenziamento ingiustificato, cit., 653. 35

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essere onere del lavoratore provare quelli che la incrementano e, all’inverso, onere del datore di lavoro provare quelli che la riducono39. La tesi non pare pienamente condivisibile poiché il fatto costitutivo del diritto all’indennità è rappresentato dal licenziamento illegittimo rispetto al quale è onere del datore di lavoro fornire le ragioni giustificatrici (art. 5, l. n. 604/1966). Se, a fronte dell’impugnazione del lavoratore, il datore non fornisce la prova delle ragioni giustificatrici, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro all’indennità risarcitoria. Quest’ultima, tuttavia, non è più determinata in modo automatico, moltiplicando le due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per il numero di anni di anzianità di servizio, ma è liquidata dal giudice all’interno del range che va dalle 6 alle 36 mensilità. È in questa fase del giudizio che vengono in rilievo i singoli elementi, ma non già quali fatti costitutivi del diritto, bensì come circostanze rilevanti ai fini della liquidazione dell’indennità. Vero è, invece, che i singoli criteri possono incidere, a seconda dei casi, sia in senso incrementale che riduttivo dell’indennità; sicché l’onere della prova andrà distribuito in ragione dell’interesse di volta in volta rilevante, trattandosi di circostanze in base alle quali il giudice procederà alla liquidazione dell’indennità risarcitoria calibrandola in relazione al caso concreto. D’altro canto, secondo l’orientamento della Suprema Corte formatosi a proposito dell’art. 8 della l. n. 604/66, spetta al giudice di merito la determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo40 attraverso una valutazione complessiva del caso concreto, tenendo conto di una pluralità di fattori, estrinseci al negozio di licenziamento in quanto riferibili sia alle condizioni organizzative entro cui si è svolto il rapporto di lavoro (v. il riferimento al numero dei dipendenti occupati e alle condizioni dell’impresa) sia alle caratteristiche dei soggetti coinvolti (comportamenti e condizioni delle parti, anzianità di servizio)41. Resta da considerare, infine, che dopo l’intervento della Corte costituzionale il margine di valutazione del giudice è molto ampio e l’unico limite alla sua discrezionalità valutativa è costituito dal principio di ragionevolezza, dovendo egli motivare la decisione sia in riferimento ai criteri utilizzati, sia alla “pesatura” ad essi riconosciuta, fornendo una puntuale giustificazione delle ragioni che lo hanno portato a liquidare un certo numero di mensilità piuttosto che un altro. Tuttavia, come è stato rilevato, difficilmente la decisione del giudice di merito potrà essere censurabile in Cassazione, soprattutto alla luce della nuova versione restrittiva del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., che non consente più la censura per motivazione illogica e contraddittoria, ma soltanto per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti42.

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In tal senso v. Pisani, La corte costituzionale e l’indennità per il licenziamento ingiustificato, cit., 165. Cass., 5 gennaio 2001, n. 107, in MGL, 2001, 381. 41 In tal senso v. Ratti, I rimedi contro il licenziamento illegittimo, in Pedrazzoli (a cura di), Licenziamenti e sanzioni nei rapporti di lavoro, Cedam, 2011, 217. 42 Sul punto v. Cass., 25 maggio 2017, n. 13178, in FI, Rep. 2017, v. Lavoro (Rapporto), 1330, la quale, pronunciandosi in relazione al co. 5 dell’art. 18 Stat. lav., ha ritenuto non censurabile in sede di legittimità la valutazione del giudice di merito in ordine alla comparazione dei criteri ed alla scelta di privilegiarne alcuni a scapito degli altri, per adeguare la misura del risarcimento alla concreta situazione posta al suo esame. 40

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6. Osservazioni conclusive. Le decisioni in commento risultano conformi alle esposte linee interpretative e forniscono talune prime indicazioni in merito al ragionamento logico-giuridico che il giudice dovrà effettuare ai fini della quantificazione dell’indennità risarcitoria. Il Tribunale di Bari, infatti, nel soppesare i diversi elementi caratteristici del caso concreto, ha assegnato rilievo prevalente alla «considerevole gravità della violazione procedurale» (elemento riconducibile al comportamento del datore di lavoro), contemperando tale criterio con le ridotte dimensioni dell’attività economica, il basso numero dei lavoratori occupati, la scarsa anzianità di servizio. Attraverso tale valutazione complessiva del caso concreto ha determinato l’ammontare dell’indennità risarcitoria nella misura di 12 mensilità, anziché delle 4 mensilità che sarebbero spettate in applicazione del meccanismo automatico previsto dalla formulazione originaria dell’art. 3, co. 1, d. lgs. n. 23/2015. Il Tribunale di Genova, invece, in relazione ad un licenziamento intimato da datore di lavoro che non supera i 15 dipendenti, ha liquidato l’indennità spettante al lavoratore nella misura massima delle 6 mensilità prevista dall’art. 9 del d. lgs, n. 23/2015, in ragione del «disconoscimento dell’apporto professionale richiesto alla ricorrente, delle gravi violazioni che hanno accompagnato il recesso, le ombre gravanti sulla scissione aziendale seguita in dieci mesi dalla decisione di licenziarla». Tutti questi elementi sono stati considerati dal giudice genovese «meritevoli di considerazione nella quantificazione del risarcimento dovuto, ben più della semplice anzianità di servizio, la quale, tra l’altro, nel caso di specie, era conseguenza della recente costituzione della nuova impresa datrice di lavoro a causa della menzionata scissione». Entrambe le decisioni, peraltro, non considerano il parametro della situazione del mercato del lavoro, quasi a conferma che si tratta di un criterio difficilmente utilizzabile, anche in ragione dell’inaffidabilità dei dati statistici in proposito43. Esse evidenziano, inoltre, che entrambi i giudici di merito hanno portato l’attenzione sulla gravità del negozio di licenziamento, facendo prioritario rifermento al disvalore sociale del comportamento del datore di lavoro, il quale ha ben poco a che fare con il pregiudizio effettivamente subito dal lavoratore per effetto dell’estromissione dal rapporto lavorativo. In altri termini, le decisioni in esame sembrano prediligere la funzione sanzionatoria a quella risarcitoria dell’indennità riconosciuta, così come fanno trasparire la tendenza a perseguire una finalità incrementale, provvedendo alla liquidazione dell’indennità in misura maggiore a quella che sarebbe derivata dall’applicazione del meccanismo di calcolo previsto dall’originaria formulazione dell’art. 3 co. 1, d. lgs. n. 23/2015, richiamato anche dall’art. 9 per i datori di lavoro di piccole dimensioni. Tuttavia, in una prospettiva di lungo periodo, non ci si può esimere dall’osservare che il modello delineato dalla Corte costituzionale potrebbe anche portare nella direzione opposta. La norma di risulta, infatti, consente tuttora la condanna del datore di lavoro al

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Per tale critica v. Pedrazzoli, Licenziamenti, soggettivi e oggettivi, e sanzioni, cit., XLIX.

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pagamento di un’indennità nella misura minima delle 6 mensilità (3 mensilità per i datori di lavoro sotto soglia); e dal momento che è stata soppressa la regola dell’automatico proporzionamento dell’indennizzo all’anzianità di servizio, il giudice è ora abilitato a condannare il datore nella misura minima anche in relazione ad un lavoratore che abbia maturato cinque, dieci, o venti anni di anzianità di servizio. Come è stato rilevato ciò potrebbe accadere, ad esempio, quanto la persona licenziata, con elevata anzianità di servizio, abbia trovato subito una nuova occupazione; quando il datore di lavoro si sia attivato per offrire un’altra opportunità di lavoro; quando sia stata accertata una mancanza non lieve del lavoratore, ma non sufficientemente grave da integrare la ragione giustificatrice della sanzione disciplinare massima44. Invero, la “personalizzazione” dell’indennità risarcitoria ne consente l’adattamento anche alle ipotesi in cui il lavoratore con notevole anzianità di servizio abbia subito un pregiudizio modesto, oppure abbia concorso al verificarsi o all’accentuarsi del pregiudizio patito. Ovviamente si tratta di situazioni che potranno verificarsi solo nei prossimi anni, quando i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 avranno raggiunto le suddette anzianità. Tuttavia, a tale considerazione non pare possibile obiettare che l’indennità deve pur sempre rivestire anche carattere dissuasivo, cioè essere tale da escludere l’azzardo morale del datore di lavoro, che potrebbe essere tentato di licenziare senza valida giustificazione compromettendo l’equilibrio degli interessi composti dal contratto di lavoro. Infatti, la finalità dissuasiva non è perseguita dall’indennità liquidata in concreto dal giudice, che opera in via rimediale, bensì dalla sanzione edittale massima, potenzialmente applicabile, che attualmente è stabilita nel limite delle 36 mensilità e può trovare applicazione fin da subito, a prescindere dall’anzianità di servizio. Fa eccezione il caso delle imprese minori, ove la sanzione massima espressamente stabilita dall’art. 9, d. lgs. n. 23/2015, in linea con quanto previsto dall’art. 8 della l. n. 604/1966, è di 6 mensilità; ma proprio per questo, al riguardo, sono stati prospettati ulteriori dubbi di costituzionalità45. Giorgio Bolego

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Ichino, Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento, cit., 1056. Cfr. Saracini, Licenziamento ingiustificato, cit., 659.

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