2018 LABOR 3
L
ABOR Il lavoro nel diritto
issn 2531-4688
3
maggio-giugno 2018
Rivista bimestrale
Diretta da Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
IN EVIDENZA L’alternativa tra contratto di lavoro a termine e a tempo indeterminato Luigi Menghini
La privacy sul luogo di lavoro: il dialogo tra Cedu e giurisdizione nazionale Francesco Perrone
Lavoro autonomo nella P.A. e norme recenti Luca Busico
Giurisprudenza commentata Silvia Ortis, Maurizio Falsone, Andrea Bombelli, Riccardo Del Punta, Flavia Schiavetti
Pacini
Indici
Saggi Luigi Menghini, Contratto di lavoro a termine e contratto a tempo indeterminato: attualità di una alternativa........................................................................................................................................ p. 253 Francesco Perrone, La tutela della privacy sul luogo di lavoro: il rinnovato dialogo tra Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e giurisdizione nazionale dopo la sentenza Bărbulescu 2.................. » 283 Luca Busico, Incarichi di lavoro autonomo nelle P.A. e normative recenti......................................... » 299
Giurisprudenza commentata Silvia Ortis, Frode alla legge e deroga alla vincolatività del certificato “E 101” nel distacco transnazionale di lavoratori.............................................................................................................. » 307 Maurizio Falsone, L’interesse ad impugnare il licenziamento sussiste anche quando non sia stata impugnata la delibera di esclusione da socio: le sezioni unite fanno discutere................................. » 325 Andrea Bombelli, La valutazione disgiunta della pluralità di addebiti nel licenziamento per giusta causa: un problema di onere probatorio sottratto al giudizio di legittimità....................................... » 341 Riccardo Del Punta, Sull’efficacia degli accordi di gestione di crisi aziendali................................... » 353 Flavia Schiavetti, Sull’insussistenza del fatto materiale nella previsione dell’art. 3, comma 2, d.lgs. 23 del 2015........................................................................................................................................ » 367
Indice analitico delle sentenze Distacco transnazionale – Regolarità contributiva – Condotta fraudolenta – Certificato E 101 – Vincolatività – Insussistenza (C. giust., 6 febbraio 2018, C-359/2016, con nota di Ortis) Licenziamenti – Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Accordo aziendale – Clausola contenente riduzione del preavviso – Natura gestionale – Efficacia nei confronti degli iscritti a sindacato dissenziente –Esclusione – Configurabilità di contrattazione di prossimità – Esclusione (App. Firenze, 20 novembre 217, n. 907, con nota di Del Punta) – Giusta causa – Insussistenza del fatto materiale – Contratto a tutele crescenti – Inadempimento – Imputabilità al lavoratore – Sussistenza (Trib. Monza, 26 ottobre 2017, con nota di Schiavetti) – Giusta causa – Plurimi addebiti – Valutazione complessiva – Onere probatorio (Cass., 30 ottobre 2017, n. 25762, con nota di Bombelli) – Socio lavoratore di cooperativa – Esclusione e licenziamento – Omessa impugnazione della delibera di esclusione – Interesse ad agire contro il licenziamento – Sussiste – Tutela reintegratoria – Esclusa – Tutela risarcitoria – Ammessa (Cass., sez. un., 20 novembre 2017, n. 27435, con nota di Falsone) Indice cronologico delle sentenze Giorno
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Autorità 2017 Ottobre Trib. Monza Cass., n. 25762 Novembre App. Firenze, n. 907 Cass., sez. un., n. 27435 2018 Febbraio C. giust., C-359/2016
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Notizie sugli autori
Andrea Bombelli – dottorando di ricerca nell’Università Cattolica del Sacro Cuore Luca Busico – coordinatore presso la Direzione del personale dell’Università di Pisa Riccardo Del Punta – professore ordinario nell’Università degli studi di Firenze Maurizio Falsone – ricercatore nell’Università degli studi di Genova Luigi Menghini – professore ordinario nell’Università degli studi di Trieste Silvia Ortis – dottoranda di ricerca nell’Università Ca’ Foscari di Venezia Francesco Perrone – giudice del lavoro nel Tribunale di Padova Flavia Schiavetti – ricercatrice nell’Università telematica internazionale Uninettuno
Saggi
Luigi Menghini
Contratto di lavoro a termine e contratto a tempo indeterminato: attualità di una alternativa Sommario: 1. Dal divieto di rapporti di lavoro senza prefissione di termine alla
prevalenza dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. – 2. La legificazione della normalità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato: dalla scarsa effettività del favor nei suoi confronti alla tutela effettiva della stabilità. – 3. Dalla rigidità alla flessibilità: la delega alla contrattazione collettiva e la duplicità delle funzioni del contratto a termine. – 4. Il d. lgs. n. 368/2001 e la sua scarsa innovatività. – 5. La diffusione della precarietà e le risposte ondivaghe del legislatore. – 6. L’inizio del presente: gli interventi dei Governi Monti e Letta e il decreto Renzi-Poletti del 2014. – 7. Il presente: il d. lgs.15 giugno 2015, n. 81 nell’ambito del Jobs Act. – 8. Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come contratto standard: gli effetti sul piano interpretativo. – 9. Il futuro. La probabile drastica riduzione del contenzioso e il limitato spazio per un intervento della Corte costituzionale e della Corte di giustizia. – 10. Conclusioni.
Sinossi. Lo scritto cerca di verificare se le recenti riforme del diritto del lavoro, laddove hanno modificato in modo rilevante, sul piano normativo, i rapporti tra la variante a termine e quella a tempo indeterminato, abbiano prodotto significativi risultati in termini di aumento dell’occupazione in generale e di incremento dell’occupazione di qualità, oppure si siano dimostrate poco rilevanti rispetto alla sovrastante incidenza sul raggiungimento di questi risultati prodotta dagli andamenti generali dell’economia e dall’uso degli incentivi economici. La riforma Fornero, il decreto Renzi-Poletti, il Jobs Act e l’intervento sui voucher ed i “lavoretti”, toccando in vario modo il tema dell’uscita dal mercato del lavoro, hanno fortemente ridimensionato il senso della stabilità e della sicurezza e posto in termini diversi rispetto al passato i rapporti tra il lavoro a tempo indeterminato e quello a termine. Per cogliere queste novità lo scritto riassume l’evoluzione più recente dell’alternativa tra le due varianti di contratto di lavoro e analizza i caratteri di quella cui oggi si è giunti, giungendo alla conclusione della scarsa utilità della riduzione delle tutele sul piano del licenziamento quale incentivo alle assunzioni stabili e della necessità di un nuovo intervento su queste tutele e sulle regole del lavoro a termine che incida (o compensi su altri piani) sulle avvilenti situazioni della precarietà a vita. Abstract. The essay deepens the recent reforms of labour law in the perspective of the relationships between the fix-term contracts and the permanent contracts, in order to investigate if the reforms have produced significant results in terms of employment rate increasing and of work quality
Luigi Menghini
growth, or if they have proved to be insignificant compared to the overlying incidence of the general economic trends and of the economic incentives. The Fornero reform, the Renzi-Poletti decree, the Jobs Act and the interventions on the others precarious contracts (the so called “vouchers” and “mini-jobs”) have strongly reduced the sense of stability and security and place in terms different from the past the relationships between permanent and fixed-term employment, touching in various ways the issue of the exit from the labour market. To grasp these innovations, the paper summarizes the complex evolution of the alternative between the two variants of the employment contract and analyses the characteristics of what has been achieved today, reaching the conclusion of the scarce usefulness of reducing protections in terms of dismissal as an incentive to steady job and the need for an intervention on the rules that limits (or compensates in other way) the steady precariousness. Parole chiave: riforme del lavoro, occupazione, precarietà, incentivi.
1. Dal divieto di rapporti di lavoro senza prefissione di
termine alla prevalenza dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Nell’ordinamento italiano la complessa evoluzione dei rapporti di lavoro tra la variante a termine e quella sine die è iniziata, tra la fine dell’ ’800 e l’inizio del ’900, con la riconduzione del lavoro operaio, da parte dei giudici e soprattutto dei probiviri, nella fattispecie del contratto di lavoro a tempo indeterminato, dal quale entrambe le parti potevano liberamente recedere previo preavviso. Questa originale soluzione, che già allora mostrava l’importante capacità dei giuristi italiani di risolvere problemi concreti creando diritto extralegislativo, ha progressivamente emarginato la regola di cui all’art. 1628 c.c. del 1865 per la quale “nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo, o per una determinata impresa”. Questo precetto era inteso a liberare il lavoratore da vincoli perpetui, ma si riferiva soprattutto alla “turba dei domestici che affollavano le case gentilizie”1 e non considerava affatto il lavoro salariato nell’industria nascente, la quale, per le sue esigenze organizzative e di dinamicità di sviluppo, non poteva certo avvalersi di una miriade di contratti a tempo determinato che scadevano in mille date diverse. Nei fatti, l’incipiente sviluppo industriale si basò su rapporti nati da contratti stipulati in modo del tutto informale e a tempo indeterminato, privi di alcuna stabilità che andasse oltre al semplice preavviso. Le esigenze dell’industria furono assecondate attraverso la creazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, mentre quelle di stabilità dei lavoratori furono praticamente rimesse alle convenienze dei datori di lavoro e ai rapporti di forza, ciò che nei fatti portava ad una tutela debolissima, ma non del tutto inesistente2.
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Corrado, Trattato di diritto del lavoro, UTET, 1966, vol. II, 605. Ho cercato di approfondire un po’ queste vicende, specie sulla scorta dei fondamentali studi di Romagnoli, Il lavoro in Italia. Un
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Contratto di lavoro a termine e contratto a tempo indeterminato: attualità di una alternativa
2. La legificazione della normalità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato: dalla scarsa effettività del favor nei suoi confronti alla tutela effettiva della stabilità.
La relazione sin qui sintetizzata tra i contratti sine die e quelli a termine nel senso che i primi erano di gran lunga più frequenti, dopo la configurazione del libero recesso con preavviso, non mutò sostanzialmente dopo che l’ordinamento italiano, in varie tappe e per favorire il ceto borghese non imprenditoriale con la legge sull’impiego privato3, ha per la prima volta legificato la normalità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed espresso il suo favore nei confronti di quest’ultimo, relegando la versione a termine in una posizione secondaria. Ho già avuto modo di rilevare come questo primo intervento, pur fondandosi sulla normalità del rapporto sine die, tutelasse la stabilità in modo poco effettivo, come del resto faceva anche l’art. 2097 c.c., sul simile presupposto della sua specialità4. La legge del 18 aprile 1962, n.230 intendeva eliminare alla radice gli abusi consentiti dalla normativa precedente e dalla sua scarsa attuazione. La anormalità e specialità del contratto a tempo determinato è stata espressa in termini netti di eccezione rispetto alla regola del contratto sine die, ammessa solo in presenza della forma scritta e di condizioni sostanziali molto restrittive, espresse non più attraverso una formula o clausola di carattere generale, ma racchiuse in alcune ipotesi tassative: per il 1° comma del suo art. 1, infatti, “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate”, eccezioni poi contenute nelle note cinque ipotesi di cui al 2° comma5. Il legislatore si era preoccupato, inoltre, di restringere al massimo le possibilità di prorogare il contratto6 e di utilizzare lo stesso lavoratore con una serie ripetuta di contratti a termine che mascherasse l’esigenza di personale stabile7. Memore delle difficoltà probatorie sorte nel periodo prece-
giurista racconta, Il Mulino, 1995 e di Fergola, La teoria del recesso e il rapporto di lavoro, Giuffrè, 1985, nel contributo, che riassumo in questo scritto ed a cui rinvio anche per tutti gli altri riferimenti, destinato agli Atti del Convegno Ricordando Sergio Magrini. Un discorso sullo “stato” del Diritto del lavoro, svoltosi a Roma, presso la LUISS, il 5 maggio 2017. 3 La legge sull’impiego privato è considerata il primo esempio di garantismo di ceto, e cioè di intervento legislativo “a garanzia di uno strato specifico di lavoratori, gli impiegati, che all’epoca potevano senz’altro essere definiti come il ceto di servizio nei confronti della classe dirigente economica”: v. Giugni, Prospettive del diritto del lavoro per gli anni ’80, in Atti del VII Congresso nazionale di Diritto del lavoro, Bari, 23-25 aprile 1982, Giuffrè, 1983, 6. 4 Mi permetto di rinviare ancora alla relazione di cui alla nota 2. 5 Il contratto a termine era ammesso: a) in presenza di un’attività lavorativa di carattere stagionale espressamente individuata in un apposito decreto; b) per la sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, sempreché nel contratto fosse indicato il nome dell’assente e la causa della sostituzione; c) per l’esecuzione di un’opera o servizio definiti e predeterminati nel tempo, aventi carattere straordinario od occasionale; d) per le lavorazioni a fasi successive che richiedessero maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative per le quali non vi fosse continuità d’impiego nell’ambito dell’azienda; e)”nelle scritture del personale artistico o tecnico della produzione di spettacoli”. 6 Per il 1° comma dell’art. 2 il termine del contratto poteva essere “con il consenso del lavoratore, eccezionalmente prorogato, non più di una volta e per un tempo non superiore alla durata del contratto iniziale, quando la proroga (fosse) richiesta da esigenze contingenti ed imprevedibili e si (riferisse) alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto (era) stato stipulato a tempo determinato…”: oggi mi sembrano condizioni quasi impossibili da verificarsi. 7 Importante, per l’applicazione concreta che ha avuto negli anni ’70, non è stata tanto la norma per la quale il contratto si considerava a tempo indeterminato qualora il lavoratore venisse riassunto a termine dopo 15 ovvero 30 giorni dalla data di scadenza di un
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dente, aveva anche imposto al datore di lavoro l’onere di provare i fatti da cui emergesse la riconducibilità della fattispecie concreta ad una delle cinque ipotesi tassative8, ed aveva introdotto, infine, il principio della parità di trattamento tra lavoratori in pianta stabile e lavoratori a termine, con diritto di quest’ultimi di percepire l’indennità di anzianità ed ogni trattamento in atto nell’impresa a favore dei dipendenti stabili, ovviamente in proporzione al periodo lavorato9. All’inizio, la legge del 1962 ebbe scarso rilievo pratico, perché i lavoratori non avevano un grande interesse a farsi trasformare il contratto di lavoro a termine in un contratto a tempo indeterminato al quale il datore di lavoro poteva mettere fine a poco prezzo. Il suo rigore veniva, inoltre, assorbito dal contesto in cui la riforma si inseriva: questa appariva come «un masso erratico in un ordinamento che (concedeva) ancora uno spazio cospicuo alla libertà e alla discrezionalità dell’imprenditore, mentre (era) ancora tutto da costruire un reale contro-potere sindacale in fabbrica»10. Gli studiosi furono attenti alla riforma, sia durante il suo iter formativo sia negli anni immediatamente successivi alla sua emanazione, ma il fortissimo sfavore legislativo nei confronti del lavoro a termine, di fronte alla tenue tutela in caso di licenziamento ingiustificato, fu spesso ritenuto eccessivo e l’irrilevanza pratica della nuova disciplina contribuì probabilmente ad un calo dell’interesse dottrinale nei suoi confronti sino a circa la metà degli anni ’7011. La situazione mutò drasticamente quando, introdotta per il licenziamento illegittimo la conseguenza della reintegra nel posto di lavoro accompagnata dal risarcimento del danno, anche la dichiarazione di invalidità della clausola appositiva del termine condusse ad analoghe conseguenze. I datori di lavoro per sfuggire alle strette maglie della disciplina del licenziamento assunsero a termine anche nei casi dubbi o in palese violazione dei limiti di legge, ma il nuovo interesse dei lavoratori ad ottenere un posto stabile e ben protetto dette vita, accompagnato dall’enorme rafforzamento del potere del sindacato, dalla riforma del processo del lavoro e dalla gestione sindacale delle cause, ad un contenzioso gigantesco, che celebrò la saldatura della normativa del 1962 con quella del 197012 e condusse ad
precedente contratto di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi, quanto quella per la quale il contratto si considerava in ogni caso a tempo indeterminato qualora si trattasse “di assunzioni successive a termine intese ad eludere le disposizioni della presente legge” (entrambe queste previsioni erano racchiuse nel secondo periodo del 2° comma dell’art. 2). 8 V. l’art. 3. 9 V. l’art. 5. 10 L’efficace espressione è di Montuschi, Il contratto di lavoro a termine nell’alternativa tra uso rigido o flessibile della forza lavoro: un modello normativo da superare? Bilancio di un’esperienza e riflessioni critiche, in Il lavoro a termine, Atti delle Giornate di Studio di Sorrento, 14-15 aprile 1978, Giuffrè, 1979, 11. Nello stesso senso v. Converso, Panzani, Pini, Raffone, Il rapporto di lavoro a tempo determinato, Angeli, 1979, 13; Menghini, Il lavoro a termine. Linee interpretative e prospettive di riforma, Giuffrè, 1980, 53 ss. 11 Avevo descritto questo andamento degli studi nel mio primo scritto sul tema, risalente a quasi 40 anni or sono (Menghini, Il lavoro a termine cit., 2 ss., 19 ss.). Per Ichino (I primi due decenni del diritto del lavoro repubblicano: dalla liberazione alla legge sui licenziamenti, in Id. (a cura di), Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Giuffrè, 2008, 61) l’iniziale interesse della dottrina sulla riforma fu piuttosto scarso, ma forse il giudizio si collega al rilievo, indiscutibile, che nel corso di tutti gli anni ’60 al tema fu dedicata una sola monografia, quella di Guido Balzarini, figlio di Renato. Anche la monografia di Mattarella, Il contratto di lavoro a tempo determinato, Giuffrè, 1970 ed altri contributi di carattere generale dei primi anni ’70 non potevano ancora considerare il tema quale risultante dalla “saldatura” tra legge del 1962 e nuovo contesto ordinamentale e sociale. 12 Sul rilievo di tale saldatura v., ad es., Montuschi, op. ult. cit., 16; Converso, Panzani, Pini, Raffone, op. loc. cit.; Menghini, op.cit., 61 ss.; Vallebona, Pisani, Il nuovo lavoro a termine, Cedam, 2001, 11 ss.; Ferraro, L’evoluzione del quadro legale, in Id. (a cura di), Il contratto a tempo determinato, Giappichelli, 2008, 5-6; Franza, Il lavoro a termine nell’evoluzione dell’ordinamento, Giuffrè, 2010, 113 ss.
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Contratto di lavoro a termine e contratto a tempo indeterminato: attualità di una alternativa
innumerevoli trasformazioni dei rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato13. A favorire questi esiti contribuì l’attribuzione alla novella di una funzione non esclusivamente antifraudolenta (e cioè volta ad impedire l’utilizzo dello strumento in esame in presenza di occasioni di lavoro non provvisorie), ma anche di forte spinta verso occupazioni stabili, nell’idea che lo sviluppo economico, che si pensava ininterrotto, avrebbe potuto far superare alle imprese anche qualche occasionale rigonfiamento dell’organico14. Dai primi anni ’70, inoltre, si era diffusa una concezione del rapporto di lavoro come tendenzialmente a tempo pieno e indeterminato, stabile e di lunga durata, capace di contenere nel suo involucro una “carriera” e di conseguenza i rapporti di lavoro a termine, interinale, a tempo parziale erano intesi come ipotesi del tutto marginali15.
3. Dalla rigidità alla flessibilità: la delega alla
contrattazione collettiva e la duplicità delle funzioni del contratto a termine. La fiammata, tuttavia, non durò molto. Dalla seconda metà degli anni ’70 sorsero i primi seri problemi per le imprese e le finanze pubbliche e si passò, pur con estrema lentezza e cautela, e spesso per risolvere casi specifici, dal garantismo rigido a quello flessibile. La disciplina del lavoro a tempo determinato cominciò a costituire un esempio rilevante di tale passaggio. La legge del 1962 doveva scontare la “non onniscienza del legislatore” e le interpretazioni prevalentemente restrittive di suoi importanti aspetti, primo fra tutti quello concernente la possibilità di assumere a termine per far fronte alle punte stagionali di attività, evidenziarono le difficoltà di adeguare la sua applicazione al veloce mutare delle situazioni aziendali e delle esigenze economiche16. Per attenuarne le rigidità si susseguirono vari interventi, il primo, opaco, chiesto dalla Rai e forse addirittura controproducente, in tema di lavoro negli spettacoli17; gli altri, in tema di punte stagionali, all’inizio molto timidi, specifici, limitati nel tempo e solo in seguito stabilizzati18. La normativa sulle punte
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Per un’analisi di questa giurisprudenza v. ancora Montuschi, op. ult. cit., 15-22; Converso, Panzani, Pini, Raffone, op. cit., 34 ss.; Roccella, I rapporti di lavoro a termine, in Varesi, Roccella, Le assunzioni. Prova e termine nei rapporti di lavoro, in Comm Sch, Giuffrè, 1990, 88-125. Per ulteriori approfondimenti mi permetto di rinviare anche a Menghini, op. ult. cit., 354 ss., nonché a tre successivi miei scritti: Id., I problemi interpretativi in tema di lavoro a termine nella recente giurisprudenza, in RIDL, 1984, I, 136 ss.; Id., Il termine, in DLComm, Vol. II, Cester (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, UTET, 1998, 417 ss. e Id., Gli orientamenti della giurisprudenza in materia di lavoro a termine, in QDLRI, n. 23, 2000, 167 ss. 14 Ho sempre sostenuto questo secondo tipo di lettura delle finalità della riforma (v., ad es., Il lavoro a termine cit., 27 ss. e 62 ss.), in seguito condiviso anche da Roccella, I rapporti di lavoro a termine cit., 80 ss. 15 V. Giugni, op. cit., 16-17. 16 Ho ricordato questi aspetti in Menghini, L’apposizione del termine cit., 231 ss. 17 Con sorpresa generale, l’articolo unico della l. n. 266/1977 sostituì il precedente testo della lett. e) dell’art. 1 della l. n. 230/1962, ammettendo l’apposizione del termine “nelle assunzioni di personale riferite a specifici spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi”. Il requisito della specificità dei programmi impedì una gestione ultraflessibile del personale, come auspicato dalla Rai (rinvio sul punto a Menghini, Il lavoro a termine, cit., 255 ss., Id., Gli orientamenti della giurisprudenza cit., 179 ss., e Id., L’apposizione del termine cit., 232-233, nonché a Franza, op.cit., 118). 18 Su di essi, e sull’innovativo sistema di controllo amministrativo preventivo, v. Montuschi, op. ult. cit., 23 ss.; Menghini, Il lavoro a
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stagionali alla fine fece diminuire drasticamente il contenzioso sul punto, ma le difficoltà del passaggio da un sistema di tutele rigido ad un sistema di flessibilità controllata sono testimoniate dalle vicende che hanno condotto all’articolo unico della legge 25 marzo 1986, n. 84. Tale norma inserendo la lett. f) nell’elenco di cui all’art. 1 della l. n. 230/1962 che consentiva assunzioni a termine effettuate dalle aziende di trasporto aereo o esercenti i servizi aeroportuali per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci, per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ciascun anno, e di quattro mesi diversamente distribuiti, nella percentuale non superiore al 15% dell’organico aziendale che, al 1° gennaio dell’anno a cui le assunzioni si riferivano, risultasse complessivamente adibito a tali servizi. Questa innovazione è stata in genere intesa come una importante novità, non tanto nella sua prima parte, ove consentiva di far fronte con personale a termine ad una punta stagionale (aprile-ottobre) fissata per legge, quanto nella seconda, laddove permetteva di ricorrere allo strumento in esame, nel limite di durata di 4 mesi, in qualsiasi periodo dell’anno e per qualsiasi ragione, in tal modo assicurando la disponibilità di una quota di flessibilità “pura” nella gestione degli organici, rimessa alle libere determinazioni dell’imprenditore19. La disposizione in esame ha eliminato ogni contenzioso ed è stata quasi dimenticata, per tornare in primo piano, invece, alla fine del 2005, dopo la sua estensione alle imprese concessionarie dei servizi postali. È stata la prima volta in cui il legislatore, per frenare le assunzioni a termine, ha utilizzato il criterio dei limiti percentuali, se pur insieme con ulteriori limiti. Decisamente più rilevante, nell’ambito dello sviluppo della flessibilità contrattata, è stata l’innovazione di carattere generale introdotta dall’art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, che consentì alla contrattazione collettiva di introdurre ipotesi di lavoro a termine ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge, con l’unico onere di fissare un limite percentuale delle stesse rispetto al numero dei dipendenti a tempo indeterminato. La vischiosità del sistema di forte ostilità nei confronti del lavoro a termine predisposto dalla legge n. 230/1962 mi aveva fatto leggere questa innovazione nel quadro del sistema normativo precedente e mi aveva fatto ritenere che le ipotesi introducibili dalla contrattazione fossero solo quelle riferite a casi di occasioni temporanee di lavoro non previsti dalla legge: le novità, in tal modo, sarebbero state relative20. Gli attori sindacali, la maggioranza degli in-
termine cit., 266 ss.; D’Antona, I contratti a termine per “punte stagionali” tra delegificazione e rilegificazione, in RGL, 1986, II, 114 ss.; Roccella, op. cit., 129 ss.; Vallebona, Pisani, op. cit., 12 ss.; Ferraro, op. cit., 6; Ciucciovino, Il sistema normativo del lavoro temporaneo, Giappichelli, 2008, 12 ss.; Franza, op. cit., 117 ss.; Menghini, L’apposizione del termine cit., 232 ss.; Saracini, Contratto a termine e stabilità del lavoro, Editoriale Scientifica, 2013, 24 ss. Il d.l. n. 876/1977, convertito nella l. n. 18/1978, ammetteva l’apposizione del termine “quando si verifichi in determinati e limitati periodi dell’anno, una necessità di intensificazione dell’attività lavorativa, cui non sia possibile sopperire con il normale organico”; la sussistenza di queste condizioni doveva essere previamente accertata dall’Ispettorato del lavoro, sentiti i sindacati provinciali di categoria maggiormente rappresentativi. Anche questa norma all’inizio fu interpretata in modo prevalentemente restrittivo, sino a che la Cassazione non chiarì che il giudice non poteva sindacare le valutazioni di merito dell’Ispettorato. 19 V. per tutti, Roccella, op. cit., 141 e la dottrina ivi citata. Non sono stato mai sicuro del fondamento di questa tesi, potendosi pensare che anche le assunzioni “libere” fossero state introdotte per consentire di far fronte ad incrementi di flussi turistici, dovuti, ad es., a grandi eventi sportivi, culturali o commerciali, ecc. (v. Il termine, cit., 428). 20 V. Menghini, Sperimentazione o svolta nella disciplina del lavoro a termine?, in RIDL, 1987, I, 580 ss. Condividevano questa mia lettura,
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terpreti e le pronunce della Cassazione sono andati, tuttavia, in senso contrario, ammettendo la possibilità dell’introduzione di ipotesi anche di carattere meramente soggettivo, ciò costituendo una notevole innovazione, che dimostrava che già alla fine degli anni ’80 le funzioni del contratto di lavoro a tempo determinato si fossero evolute: oltre a strumento utile per far fronte ad esigenze occupazionali limitate nel tempo, poteva essere utilizzato per favorire l’assunzione a termine di particolari soggetti e a opera di specifici datori di lavoro21. E per la seconda volta come strumento per limitarne l’utilizzo veniva impiegato anche il limite percentuale rispetto ai dipendenti stabili.
4. Il d. lgs. n. 368/2001 e la sua scarsa innovatività. Grazie alla contrattazione collettiva, il contenzioso sul lavoro a termine si era molto ridotto e si era verificata una crescita “giudiziosa” di questa ipotesi contrattuale22, con un generale rasserenamento della situazione complessiva dopo un travaglio ventennale23. Il sereno non è durato molto. Le prime nubi sono comparse all’orizzonte quando i sindacati hanno cominciato a stipulare con alcune grandi imprese (Telecom, Poste Italiane) accordi che introducevano ipotesi di lavoro a termine descritte attraverso causali molto ampie e generiche che hanno fatto scattare un nuovo ampio contenzioso. I giudici di merito hanno prevalentemente negato legittimità a queste ipotesi, ma la Cassazione l’ha, invece, difesa tramite l’utilizzo della tesi della delega in bianco del legislatore alle parti sociali; ma la situazione si era complicata perché spesso gli accordi Poste avevano un termine finale di efficacia e di conseguenza le frequenti assunzioni che non lo rispettavano venivano per forza dichiarate illegittime anche dalla Cassazione24. In questo contesto il 18 marzo 1999 è stato sottoscritto un accordo europeo (recepito poi nella dir. CE 1999/70) che tocca la materia del contratto a tempo determinato solo su alcuni aspetti essenziali ed in modo non stringente. Gli obiettivi perseguiti sono la garanzia della parità di trattamento (svolta nella clausola 4, di immediata applicazione negli ordinamenti interni) e la lotta agli abusi derivanti dalla ripetizione di contratti a tempo determinato (svolta nella clausola 5, di non immediata applicazione, con ampio margine di discrezionalità per gli Stati membri quanto alla sua attuazione). Nelle considerazioni generali premesse all’accordo sindacale si legge che «i contratti di lavoro a tempo indeterminato
tra gli altri, M.G. Garofalo, Commento ad una riforma incompiuta: la legge 28 febbraio 1987, n, 56 sul collocamento, in RGL, 1987, I, 25 e Pera, Diritto del lavoro, 1996, 335. Per una garbata, ma decisa, critica a questa mia tesi v. Roccella, op. cit., 77. 21 Per i riferimenti bibliografici rinvio alla relazione romana sopra cit. 22 Così Bollani, Lavoro a termine e autonomia collettiva, in QDLRI, 2000, n. 23, 143 ss.; Altavilla, I contratti a termine nel mercato differenziato, Giuffrè, 2001, 109 ss.; Monda, Il ruolo della contrattazione collettiva nella disciplina del contratto a tempo determinato, in Ferraro (a cura di) Il contratto a tempo determinato, cit., 274 ss.; Franza, op. cit.,124 ss. Per Montuschi (L’evoluzione del contratto a termine. Dalla subalternità all’alternatività: un modello per il lavoro, in QDLRI, 2000, n. 23, 10) il lavoro a termine già allora si presentava quale modello non subalterno, ma alternativo al lavoro sine die. 23 Così si esprimeva Pera, Diritto del lavoro, Padova, 2000, 334. 24 Su queste vicende v. B. Balletti, La giurisprudenza di legittimità sul rapporto di lavoro, in RGL, 2006, I, 549; Menghini, Contratto a termine e Poste italiane tra vecchia e nuova disciplina, ivi, II, 509 ss.; De Michele, Contratto a termine e precariato, Ipsoa, 2009, 140 ss.
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rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori» ed a migliorarne il rendimento, ma è stato sempre discusso se l’accordo quadro ponga dei limiti alla stipula del primo ed unico contratto25, mentre risulta ormai chiara la scarsa rilevanza, nella materia qui in esame, della clausola di non regresso, per come interpretata dalla Corte di Giustizia e poi dalla nostra Cassazione26. Chiamata a decidere sull’ammissibilità di un referendum popolare teso all’eliminazione di qualsiasi limite alla stipula dei contratti a tempo determinato, la Corte Costituzionale con una sentenza del 2000 la negò, considerando il risultato voluto dai promotori incompatibile con il rispetto del contenuto anche solo minimo ed essenziale dell’accordo quadro27. Nel frattempo in ambito sindacale si cercava di replicare a livello dei vari Stati membri ciò che era stato convenuto a livello europeo. Alla fine del 2000 il Governo di centrosinistra fece introdurre nella legge comunitaria, tra le direttive da recepire nel nostro Paese, anche quella sul lavoro a tempo determinato e le tre grandi confederazioni all’inizio del 2001 erano vicine ad un’intesa con le controparti. Senonché, mutato improvvisamente il vento politico, la CGIL non volle proseguire la trattativa, mentre CISL e UIL la vollero rapidamente concludere, con un accordo “separato” che il Governo dell’Ulivo non volle recepire, ma che poi il nuovo Governo Berlusconi inserì nel programma “dei cento giorni” e trasformò nel decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368. All’inizio, il decreto, dai suoi critici e dai suoi difensori, fu inteso come una larga liberalizzazione dell’istituto, intravista soprattutto nella sostituzione del sistema di tassatività delle ipotesi ammesse con quello basato sulla formula generale delle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”28. Questo esito era possibile, ma non sicuro. All’accordo si era pervenuti sol-
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Ormai dovrebbe essere pacifico che al primo ed unico contratto si applicano le clausole 4 ed 8 dell’accordo, ma non lo specifico limite alla stipula dello stesso costituito dalla presenza di un occasione di lavoro solo temporanea (v. da ultimo in questo senso Aimo, Il lavoro a termine tra modello europeo e regole nazionali, Giappichelli, 2017, 79, nonché Cass., 11 aprile 2017, n. 9303, ove si trovano vari precedenti della nostra Suprema Corte e della Corte di Giustizia dell’Ue), essendo necessario, ma anche sufficiente, a mio avviso, che un limite, pur non molto stringente ci sia, e potrà trattarsi o della presenza di un’occasione di lavoro non stabile, o delle qualità soggettive delle parti o di una delle parti stipulanti, o della durata massima del rapporto o della proporzione tra personale stabile ed a tempo determinato: traggo questa conclusione dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo che, se non chiede che il primo ed unico contratto sia giustificato da ragioni obiettive (v. ad es. C. giust., 11 novembre 2010, causa C-20/10, Vino I, in MGL, 2011, 227, nn. 58-63), in varie pronunce ha chiarito che per l’accordo quadro la stabilità dell’impiego costituisce “un elemento portante della tutela dei lavoratori”, contribuendo a migliorarne la qualità della vita ed il rendimento, mentre i contratti a tempo determinato soltanto in “particolari settori ed occupazioni” soddisfano le esigenze di entrambe le parti del rapporto (per questa giurisprudenza e la sua valutazione v. Menghini, L’apposizione del termine, in Tratt CP, vol. IV, Contratto di lavoro e organizzazione, tomo I, in Martone (a cura di), Contratto e rapporto di lavoro, Cedam, 2012, 247- 249). 26 Rinvio sul punto a Menghini, La durata del contratto di lavoro, in Gabrielli (diretto da), Commentario del codice civile, Cagnasso, Vallebona (a cura di), Dell’impresa e del lavoro, Utet, 2013, 671-672). Per un tentativo di non far morire il rilievo della clausola v. Alessi, Flessibilità del lavoro e potere organizzativo, Giappichelli, 2012, 102-104 ed ora Aimo, op. cit., 24 ss. Negli ultimi anni la nostra Cassazione ha seguito le indicazioni minimaliste dei giudici di Lussemburgo soprattutto decidendo sulla “causale Finanziaria” per Poste Italiane: v., ad es., Cass., 20 gennaio 2018, n. 2276 e Cass., 16 febbraio 2018, n. 3867, il cui testo può leggersi in italgiuregiustizia.it. 27 V. C. cost., 7 febbraio 2000, n. 41, in FI, 2000, I, 701, sulla quale v. Menghini, Lavoro a termine, referendum, Direttiva 1999/70/CE, Patto di Milano, in RGL, 2000, I, 575 ss.; Vallebona, Pisani, op. cit., 15 ss.; Putaturo Donati, Il contratto a tempo determinato nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Ferraro (a cura di), Il contratto a tempo determinato, cit., 169 ss.; De Michele, Contratto a termine e precariato cit., 165 ss. 28 In questo senso v., ad es., Tiraboschi, L’apposizione del termine al contratto di lavoro: in nuovo quadro legale, in La riforma del lavoro pubblico e privato e il nuovo Welfare, Ipsoa, 2008, ss.; Carabelli, Leggi sul lavoro, ricominciamo da cinque, in www.uguaglianzalibertà, maggio 2007, 2. Ho parlato genericamente di una formula generale, perché è discusso se la fattispecie in esame dia luogo ad una
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Contratto di lavoro a termine e contratto a tempo indeterminato: attualità di una alternativa
tanto attraverso la tecnica di tacere completamente su aspetti decisivi della disciplina, quali il rapporto tra contratto a termine e contratto a tempo indeterminato (ancora eccezione rispetto alla regola?), il carattere necessariamente temporaneo o no delle suddette ragioni, l’onere della prova delle stesse, le conseguenze da trarsi dall’illegittimità della clausola, le possibilità di reiterazione dei contratti oltre i blandi limiti espressamente fissati, la necessità della individuazione dei limiti percentuali da parte della contrattazione collettiva per l’utilizzabilità dell’istituto. Come si sarebbe risposto a questi interrogativi? Il dibattito fu molto acceso29 ed il contenzioso tornò a risalire, sia perché il decreto recepiva un accordo “separato”, combattuto dalla CGIL, sia per i silenzi che ne rendevano le disposizioni molto incerte, sia per il fatto che la legge delega indicava come unico criterio da seguire quello dell’attuazione della direttiva, così trasformando ogni divergenza dall’accordo quadro europeo in una violazione dei criteri di delega. Col tempo, tuttavia, la giurisprudenza, nel suo complesso, interpretò anche questo decreto inserendolo nell’ambito del sistema evolutosi da decenni nel nostro Paese, mantenendo tra le due tipologie contrattuali un rapporto di regola ed eccezione30, ammessa solo a certe condizioni sostanziali e formali, da dover essere provate dal datore di lavoro, e traendo dall’illegittimità della clausola la trasformazione del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato31; molto raramente, specie all’inizio, i giudici hanno deciso le cause pronunciando sul carattere necessariamente temporaneo o no delle ragioni giustificatrici del termine, aderendo, comunque, nei loro obiter dicta, in prevalenza, alla soluzione della temporaneità, e specie a quella della c.d. “temporaneità mite”, e cioè derivante anche dalle scelte organizzative imprenditoriali32; la gran mole di pronunce ha riguardato, invece, in modo sorprendente, l’indicazione nel contratto scritto delle specifiche ragioni per le quali si procedeva all’assunzione a tempo determinato: l’enorme, incomprensibile ed inattesa trascuratezza dei datori di lavoro nell’effettuare queste indicazioni ha condotto alla trasformazione di innumerevoli contratti, ma forse non era solo trascuratezza, dato che l’uso di espressioni generiche poteva dipendere anche dall’inesistenza di una ragione temporanea33. Non si è mai discusso, invece, nel settore del
clausola generale; sul punto v. Alessi, Flessibilità del lavoro cit., 9, nt. 23. V., tra i tanti, Ferraro, L’evoluzione del quadro legale, in Ferraro (a cura di), Il contratto a tempo determinato, cit., 7 ss.; Ciucciovino, op. cit., 215 ss.; Franza, op. cit., 209 ss.; Menghini, L’apposizione del termine cit., 241 ss.; Saracini, op. cit., 29 ss.; Preteroti, Contratto a tempo determinato e forma comune di rapporto di lavoro dopo il Jobs Act, Giappichelli, 2016, 6 ss.; Aimo, op. cit., 104 ss. 30 Per una recente riaffermazione del carattere derogatorio proprio del contratto di lavoro a tempo determinato rispetto al carattere di “normalità” di quello sine die, già prima dell’introduzione del comma 01 nell’art. 1 del d. lgs. n. 368/2001, v. Cass., 20 marzo 2017, n. 7123, in italgiuregiustizia.it. 31 Ribadiscono, da ultimo, questa conclusione Cass., 27 marzo 2014, n. 7244; Cass., 4 novembre 2016, n. 22489; Cass., 11 aprile 2017, n. 9303, tutte in italgiuregiustizia.it. 32 Fu questo l’approdo cui giunse anche la Cassazione: v., ad es., Cass., 21 maggio 2008, n. 12985, in LG, 2008, 903; Cass., 27 aprile 2010, n. 1033, in RIDL, 2011, II, 41. Per un aggiornamento della situazione v. ora Aimo, op. cit., 106-107. 33 Su queste operazioni giurisprudenziali v., ad es., a volte con accenti critici, Ferraro, op. cit., 7 e 15; Tiraboschi, L’apposizione del termine cit., 5; Rosano, Il contratto a tempo determinato nella giurisprudenza di merito, in Ferraro (a cura di), Il contatto a tempo determinato, 202 ss.; D’Arcangelo, Il contratto a tempo determinato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, ivi, 183 ss.; Ciucciovino, op. cit., 109 ss.; Franza, op. cit., 219 ss.; Menghini, L’apposizione del termine, cit., 242; Saracini, op. cit., 103 ss.; Brollo, La flessibilità del lavoro a termine dopo il “Jobs Act”, in Diritto del lavoro e mercato globale. Atti del Convegno in onore di Paolo Tosi (Torino, 11-12 aprile 2014), Esi, 2014, 142 ss.; Gragnoli, L’ultima regolazione del contratto a tempo determinato. La libera apposizione 29
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lavoro privato, di reiterazioni elusive e ad ogni modo il noto limite dei 36 mesi introdotto dall’art. 1, comma 40, della legge 24.12.2007, n. 247 nell’art. 5, comma 4 bis del d. lgs. n. 368/2001, ha colmato la lacuna aperta dal Pacchetto Treu34 e chiuso ogni problema di conformità, su questo aspetto, della normativa italiana con la disciplina europea, problema comunque inesistente, perché di fronte a numerosi contratti stipulati in un considerevole lasso di tempo per mansioni equivalenti si sarebbe comunque potuto utilizzare l’istituto della frode alla legge35. All’opera della giurisprudenza si è affiancata, ad un certo punto, anche quella della contrattazione collettiva. Il legislatore ne aveva voluto ridimensionare fortemente il ruolo, facendo accedere direttamente lavoratore e datore di lavoro alle ipotesi di lavoro flessibile, senza dover passare attraverso le espressioni dell’autonomia collettiva e sostituendo il controllo ex ante delle parti sociali con quello ex post da parte dei giudici36. L’azione sindacale non si è, tuttavia, fermata, dando luogo ad importanti accordi che a volte specificavano le ragioni per cui si poteva assumere a termine, altre volte introducevano ipotesi intese come esclusive, comunque con il risultato di frenare il contenzioso37. Giurisprudenza e contrattazione hanno dato vita ad un sistema che, se ampliava le possibilità di lavoro a tempo determinato rispetto a quello precedente, dallo stesso non si scostava di molto, confermando l’atteggiamento di prudenza e cautela dell’ordinamento nei confronti dell’istituto38.
del termine, in LG, 5, 2014, 430-432; Aimo, op. cit., 104 ss. L’art.12 della legge 24 giugno 1997, n. 196 (c.d. Pacchetto Treu) aveva sostituito tutto il 2° comma dell’art.2 della legge n. 230/1962, comma relativo alla prosecuzione del rapporto dopo la scadenza del termine ed alla successione di più contratti a tempo determinato con lo stesso lavoratore. Non era chiaro se il nuovo testo avesse conservato la norma sul divieto di successive assunzioni di carattere elusivo. Il d. lgs. n. 368/2001 aveva chiarito che l’ipotesi dell’elusione era stata eliminata. La maggioranza degli interpreti riteneva, tuttavia, che in caso di successione di contratti potesse valutarsi l’utilizzo dell’istituto del negozio in frode alla legge. Per queste vicende rinvio a Menghini, La nuova disciplina del contratto a tempo determinato, in Menghini (a cura di) La nuova disciplina del lavoro a termine, Ipsoa, 2002, 15 ss. 35 Sui residui margini di utilizzo di tale istituto v. amplius Bolego, Antonomia negoziale e frode alla legge nel diritto del lavoro, Cedam, 2011,147 ss., nonché Cass., sez. un., 31 maggio 2016, n. 11347, in italgiuregiustizia.it. 36 Ha criticato questa scelta del legislatore Giubboni, Contratto a termine e contrattazione collettiva. Note critiche sul decreto legislativo n. 368 del 2001, in RGL, 2001, I, 505 ss. Per Napoli, invece, il decreto in questione non sacrificava il ruolo delle parti sociali e questa sua opinione alla fine è risultata conforme ai risultati da queste effettivamente raggiunti (v. Il ruolo della contrattazione collettiva nella disciplina del lavoro a termine, in Id., Il diritto del lavoro tra conferme e sviluppi, Giappichelli, 2006, 159 ss.). 37 Su questa contrattazione v. Montuschi, Il contratto a termine e la liberalizzazione negata, in DRI, 2006, 610 ss; Aimo, Il contratto a termine alla prova, in LD, 2006, 468 ss.; Ranieri, Disciplina del contratto a termine e ruolo della contrattazione collettiva, in DLM, 2006, 349 ss.; Senatori, Gli orientamenti della contrattazione collettiva sul contratto a termine, in DRI, 2006, 231 ss.; Monda, op.cit., 283 ss.; Casillo, I contenuti della contrattazione collettiva sul contratto a tempo determinato, in Ferraro (a cura di), Il Contratto a tempo determinato, cit., 297 ss.; Alvino, Autonomia collettiva e legge nella regolamentazione dei rapporti di lavoro a termine, in Del Punta, Romei, I rapporti di lavoro a termine, Giuffrè, 2013, 36; Lozito, Tendenze della contrattazione nazionale in materia di contratto a termine, part-time e apprendistato professionalizzante, in RGL, 2014, I, 569 ss. 38 In questo senso v. Montuschi, op. ult. cit., 613; Aimo, op. ult. cit., 472 ss.; Ciucciovino, op. cit., 93; Menghini, L’apposizione del termine cit., 242. 34
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Contratto di lavoro a termine e contratto a tempo indeterminato: attualità di una alternativa
5. La diffusione della precarietà e le risposte ondivaghe del
legislatore.
Nella seconda metà del primo decennio del nuovo secolo il lavoro a termine è cresciuto in modo considerevole nel nostro Paese ed in Europa, facendo scoppiare in tutta la sua evidenza il problema della diffusione della precarietà del lavoro e della scarsa qualità del lavoro flessibile39. Per frenare questa tendenza il Governo Prodi, con la faticosa Riforma del Welfare del 2007, oltre ad eliminare il contratto di lavoro intermittente e la somministrazione a tempo indeterminato40, è tornato sulla disciplina del lavoro a termine, tra l’altro inserendo nel d. lgs. n. 368/2001 non solo il ricordato limite dei 36 mesi alla successione dei contratti con lo stesso lavoratore per mansioni equivalenti, ma anche, prima del comma 1 dell’art. 1, un bizzarro comma 01, in virtù del quale il contratto di lavoro subordinato è stipulato di norma a tempo indeterminato”41, norma a mio avviso non necessaria, ma disposizione “manifesto” o “bandiera”, che lasciava inalterati i preesistenti limiti di ricorso all’istituto42. Norme “bandiera” si ritrovano anche nella legislazione successiva, di segno opposto, e cioè di apertura nei confronti dell’utilizzabilità del contratto a termine, posta in essere dal Governo Berlusconi dal 2008 al 2011: tipico esempio è rinvenibile nella modifica del comma 1 dell’art. 1 del d. lgs. n. 368/2001 per la quale le ragioni dell’assunzione a tempo determinato potevano essere riferite anche all’ordinaria attività del datore di lavoro, che nulla aggiungeva alla nozione della temporaneità “mite”, generalmente accolta, come già visto, ma dava l’impressione di un rilevante accoglimento delle esigenze imprenditoriali. In questo periodo sono stati ripristinati il lavoro intermittente e la somministrazione a tempo indeterminato e sono stati resi più flessibili il diritto di precedenza ed il limite dei 36 mesi per le assunzioni a termine successive43; sono stati posti i termini di decadenza per far valere l’illegittimità dell’apposizione del termine e la sanzione per quest’ultima è stata privata del tradizionale risarcimento del danno, sostituito da un’indennità onnicomprensiva da 2,5 a 12 mensilità di retribuzione, dimezzata in presenza di graduatorie aziendali per accedere a posti stabili o precari (di fatto esistenti solo presso Poste Italiane spa)44. Questo
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Per una recente e interessante ricostruzione di questo processo v. L. Zoppoli, Il contratto a termine: profili generali ed economicosociali, in Saracini, L. Zoppoli (a cura di), Riforme del lavoro e contratti a termine, Editoriale Scientifica, 2017, 20 ss. 40 V. i commi 45 e 46 dell’art. 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 247. 41 L’inserimento è stato effettuato dall’art. 1, comma 39, della legge 24 dicembre 2007, n. 247. 42 In questo senso v. Proia, Le modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, in Persiani, Proia (a cura di), La nuova disciplina del Welfare, Cedam, 2008, 93-94; Speziale, La riforma del contratto a termine dopo la legge n. 247/2007, in RIDL, 2008, I, 188 ss.; in senso analogo, ma con qualche sfumatura diversa, v. Ferraro, Il contratto a tempo determinato nel protocollo del Welfare e nella legge 24 dicembre 2007, n. 247, in Ferraro (a cura di), Il contratto a tempo determinato, cit., 18 ss.; Alessi, La flessibilità del lavoro dopo la legge di attuazione del protocollo sul Welfare: prime osservazioni, in D&L, 2008, 10 ss. (per la quale il comma 01 impediva “la perdita della funzione lato sensu sanzionatoria del contratto a tempo indeterminato”, e cioè il venir meno dell’effetto della trasformazione del contratto atipico in tutti i casi in cui non esisteva una espressa previsione legislativa in tal senso); per un’opinione diversa v. Franza, op. cit., 246 ss. 43 Per queste innovazioni, introdotte con il d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 v. Menghini, Durata del contratto di lavoro, cit., 625. 44 V. l’art. 32, commi 4-7, della legge n. 4 novembre 2010, n. 183 e sul punto Menghini, La durata del contratto di lavoro, cit., 627 ss.
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dimezzamento si spiega con l’enorme contenzioso creato dai contratti a termine stipulati da Poste prima sulla base degli accordi ex art. 23 della legge n. 56/1987 e poi sulla base del d. lgs. n. 368/2001, contenzioso che era stata fortemente ridimensionato, ma solo per il futuro, dall’estensione alle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste del particolare sistema di assunzione a termine previsto per le aziende di trasporto aereo o esercenti i servizi aeroportuali45, ma che permaneva ancora in vita per i rapporti passati. Per questi ultimi furono stipulati degli accordi che istituivano delle graduatorie per accedere ai posti di lavoro previa rinuncia, in pratica, al risarcimento del danno ma, di fronte alla loro scarsa attuazione, prima, con la manovra estiva del 2008, fu introdotta, all’interno del d. lgs. n. 368/2001, una norma che disapplicava, per tutti i datori di lavoro, ma avendo in mente il caso Poste e solo per i giudizi in corso, il diritto alla conversione del rapporto per i casi di illegittimità del termine per violazione degli artt. 1, 2 e 4 del decreto stesso46, norma palesemente illegittima a giudizio della Corte Costituzionale47 ma, prima della sua abrogazione, tale da indurre molti dipendenti Poste ad accettare le possibilità transattive di cui ai citati accordi48. Contro queste norme è stato sparato un fuoco di fila con tutte le armi, ma solo quella del 2008, abnorme, è stata spazzata via dalla Corte Costituzionale, mentre quelle del 2010 hanno resistito a varie censure di incostituzionalità e di mancato rispetto dell’accordo europeo49. Il periodo ora considerato si è concluso con l’emanazione dell’art. 8 d.l. 13 agosto 2011, n.138, convertito in legge 14 settembre 2011, n.148. La norma consente alla contrattazione aziendale e territoriale di intervenire anche in materia di contratto a termine con norme che possono derogare alla legge ed alla contrattazione nazionale rispettando, però, le norme costituzionali ed euro unitarie. Com’è noto si tratta di una disposizione molto discussa e non si sa quanto applicata. Oggi va valutato che spazio le rimane dopo quello specificamente aperto alla contrattazione sulle tipologie di lavoro flessibili dal Jobs Act.
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L’estensione era stata effettuata dall’art. 1, comma 558, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Finanziaria 2006), che aveva inserito, dopo il comma 1 dell’art. 2 del d. lgs. n. 368/2001, un apposito comma 1 bis. Sul punto v. De Michele, Contratto a termine e precariato, Ipsoa, 2009, 169 ss. e 200 ss. 46 La norma era costituita dall’art. 4 bis del d. lgs. n. 368/2001, introdotto dall’art. 21, comma 1 bis, del d.l. n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008. 47 V. C. cost., 14 luglio 2009, n. 214, in RGL, 2009, II, 551. 48 Su queste vicende v. ancora De Michele, op. cit., 232 ss. 49 Sull’introduzione dell’indennità forfettaria al posto del risarcimento del danno effettivo v. C. cost., 11 novembre 2011, in MGL, 2011, 928, C. cost., ord., 3 maggio 2012, n. 112 e Menghini, Durata del contratto di lavoro, cit., 718-729, e la dottrina ivi citata, cui adde Saracini, op. cit., 134 ss.; Vallauri, Rapporti di lavoro a termine e strumenti rimediali, in Del Punta – Romei (a cura di), I rapporti di lavoro a termine, cit., 332 ss., Cass., 28 maggio 2015, n. 10077, in RIDL, 2016, II, 84. La sostituzione del risarcimento con l’indennità per C. cost., 25 luglio 2014, n. 226 non viola la clausola di non regresso, mentre per C. giust., 12 dicembre 2013, C-361/12, Carratù, in RIDL, 2014, II, 479, non contrasta con la clausola 4 dell’accordo quadro.
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6. L’inizio del presente: gli interventi dei Governi Monti e Letta ed il decreto Renzi-Poletti.
Sino a questo momento la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato è rimasta nel solco della tradizione. L’utilizzo di questa tipologia di contratto continuava ad essere condizionato dalla presenza di requisiti formali e sostanziali (oggettivi o soggettivi) e la sua funzione era quella di soddisfare esigenze temporanee di lavoro o di incentivare l’assunzione di soggetti deboli. Accanto a questi limiti qualitativi, alle parti sociali era rimessa la fissazione della sua quantità espressa in percentuale rispetto agli organici in pianta stabile50. Non si era riusciti o non si era voluto attenuare la protezione dei lavoratori in caso di licenziamento e per compensazione si erano moltiplicate le fattispecie di lavoro flessibile ed anche lo sfavore nei confronti del contratto a termine era di molto diminuito, anche se tecnicamente si trattava sempre di una deroga rispetto alla regola del contratto a tempo indeterminato. Ciò ha portato ad un massiccio uso concreto di tutte le fattispecie in parola ed ha dato vita al diffondersi della precarietà del lavoro con tutte le sue note conseguenze negative sul piano demografico, del futuro pensionistico, del mercato immobiliare, delle diffuse depressioni, delle scelte politiche, ecc. Era vero che il lavoro era cambiato e che accanto al nucleo del lavoro stabile con possibile carriera cresceva fortemente, massime per i giovani, quello povero e provvisorio, non continuativo, ma pochi erano quelli che si lamentavano della noia del posto fisso, mentre molti erano quelli che lo vedevano (e lo vedono) come un bene decisivo, ma difficilmente raggiungibile. Alla figura social tipica tradizionale del lavoratore subordinato a tempo pieno e indeterminato se ne affiancava un’altra molto diversa e preoccupante. Non è stata la normativa del 2001, né quelle successive che l’hanno integrata, a determinare il notevole aumento della versione a termine, ma il contesto complessivo in cui si collocava il lavoro. Ad ogni modo, tranne che per i contratti Poste, nella seconda metà del primo decennio del nuovo millennio il contenzioso era rientrato in dimensioni fisiologiche. All’inizio del secondo decennio, tuttavia, la situazione è nuovamente cambiata. La crisi economica, finanziaria ed occupazionale, aggravatasi improvvisamente qualche anno prima, ha toccato il suo culmine nel nostro Paese nel 2011, segnato dalla famosa lettera Trichet- BCE dei primi di agosto, dalla fine del Governo Berlusconi e dall’avvento del Governo Monti. Le raccomandazioni della “Troika”, nel solco di precedenti indicazioni delle istituzioni europee, invitavano il nostro Governo ad effettuare tutta una serie di riforme
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I limiti percentuali dei lavoratori assumibili a termine rispetto all’organico in pianta stabile, già sperimentati con la ricordata normativa degli anni ’80, sono stati generalizzati, pur con delle ampie esclusioni, dal comma 7 dell’art.10 del d. lgs. n. 368/2001, in seguito variamente rimaneggiato. La determinazione era affidata alla contrattazione collettiva ed era pacifico che se questa non lo faceva, i termini apposti ai contratti erano invalidi, con conseguente trasformazione del rapporto (per un approfondimento mi permetto di rinviare a Menghini, L’apposizione del termine cit., 281 ed alla dottrina ivi citata). La contrattazione è intervenuta sempre, fissando limiti ora alti, ora bassi, ora in relazione alla clausola o formula generale di cui all’art. 1, comma 1, del decreto, ora con riferimento a specifiche ipotesi da essa espressamente introdotte. In teoria, l’autonomia collettiva non avrebbe potuto introdurre ipotesi in deroga, almeno prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 138/2011, ma non sembra che sulla questione siano mai sorti problemi, così come è avvenuto di fronte alla previsione di percentuali che potevano apparire troppo alte.
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strutturali, tra cui quella del mercato del lavoro in attuazione della logica della flexicurity, all’interno della quale il tema del licenziamento era centrale. Il Governo Monti e la maggioranza della grande coalizione hanno prima drasticamente riformato il sistema pensionistico e poi hanno dato vita ad una riforma del lavoro che avrebbe dovuto essere assolutamente approvata in tempo utile per un summit europeo nel corso del quale è servita per far accettare il deficit ed il debito italiani51. La legge 28 giugno 2012, n. 212 (riforma Fornero) per la prima volta ha aumentato la flessibilità sia in entrata che in uscita, ma lo ha fatto in modo tormentato, contraddittorio ed equivoco. Dopo aver enunciato i propri obiettivi, tra i vari strumenti destinati a farli raggiungere indicava, per quanto qui interessa, quelli volti a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili, ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato, cosiddetto “contratto dominante”, quale forma comune di rapporto di lavoro, quelli destinati a rendere l’apprendistato la “modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro” e quelli diretti a contrastare “l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali”, accompagnati da una riforma della disciplina del licenziamento che la rendesse adeguata “alle esigenze del mutato contesto di riferimento”52. Parallelamente, l’art. 1, comma 9, della legge ha modificato il comma 01 del d. lgs. n. 368/2001, nel senso che da allora il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituiva non più la norma, ma la forma comune di rapporto di lavoro. Si è, dunque, abbandonato il rapporto di norma/eccezione per riprendere la relazione dell’accordo europeo, e cioè quella di comune/non comune, analoga a quella, antica, di normale/anormale. A queste affermazioni di principio si accompagnavano, tuttavia, norme con esse coerenti e norme con esse contrastanti. Tra le prime si collocavano quelle, tanto discusse, che limitano le tutele del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato attraverso la restrizione del campo di applicazione del diritto alla reintegra nel posto di lavoro53; quelle che introducono a carico dei datori di lavoro il contributo addizionale pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali in relazione “ai rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato”, contributo da restituirsi, però, in caso di trasformazione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato54; quelle che rafforzavano il limite
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Sulle “spinte” europee e del FMI a questo tipo di riforme v., ad es., V. Speziale, Le politiche del lavoro del governo Renzi: il Jobs Act e la riforma dei contratti e di altre discipline dei rapporti di lavoro, in WP D’Antona. It., 233/214, 4 ss.; Alessi, Flessibilità del lavoro e giovani, in RGL, 2015, 2, I, 308; ma vedi già F. Carinci, Il diritto del lavoro che verrà (in occasione del congedo accademico di un amico), in Diritto del lavoro e mercato globale, cit., 27 ss. 52 V. l’art. 1, comma 1, lett. a, b e c, della legge 28 giugno 2012, n. 92. 53 Le norme sui licenziamenti individuali (art.1, commi 37-43), tuttora in vigore per quelli effettuati nei confronti di lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, sono indubbiamente quelle più innovative dell’intera legge, dato che hanno fatto cadere, anche se solo parzialmente ed in modo confuso, il bene, o il mito, o il tabù della reintegrazione nel posto di lavoro. Tra i tanti studi in materia ricordo gli scritti compresi in F. Carinci, Miscione (a cura di), Commentario alla Riforma Fornero, Ipsoa, 2012, 3-84, in Pessi, Sigillò Massara, La Riforma Fornero. Legge 28 giugno 2012, n. 92, Cedam, 2013, 99-145; in Cester (a cura di), I licenziamenti dopo la legge n. 92 del 2012, Cedam, 2013, in Calcaterra (a cura di), Tutele del lavoro ed esigenze della produzione. Le riforme del quinquennio 2011-2015. Studi in onore di Raffaele De Luca Tamajo, Editoriale Scientifica, 2018, vol. I, 129-626. V. anche gli interessanti spunti “contro corrente” di Olivieri, Le tutele dei lavoratori dal rapporto al mercato del lavoro, Giappichelli, 2017. 54 V. i commi 28 ss. dell’art. 2.
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dei 36 mesi per la sequela dei contratti a termine55 ed ampliavano in maniera molto decisa, poi risultata esagerata, il periodo di tempo dopo il quale poteva essere stipulato un ulteriore contratto56; quelle che cercavano di frenare l’uso scorretto del lavoro a progetto, delle partite Iva e dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro57. Con le previsioni di principio contrastava, tuttavia, quella che introduceva la possibilità di una prima assunzione a tempo determinato del tutto a-causale, pur limitata a 12 mesi58, che poteva costituire una forte controspinta rispetto alla preferenza del rapporto a tempo indeterminato (compreso l’apprendistato, a cui la riforma riduceva le valenze formative59), tenuto anche conto dell’eliminazione del contratto di inserimento (art. 1, comma 14) e dell’attribuzione di benefici contributivi, a specifiche condizioni, per l’assunzione di lavoratori di età non inferiore a 50 anni, disoccupati da oltre 12 mesi, o di lavoratrici di qualsiasi età prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, con contratto tempo determinato o indeterminato ed in caso di stabilizzazione di rapporti a termine60. Vi era chi ipotizzava che alla fin fine il contratto a termine a-causale, di così facile utilizzo, avrebbe prevalso sul contratto a tempo indeterminato e sul contratto di apprendistato61; chi affermava l’esistenza di una nuova piena fungibilità tra le due varianti del contratto di lavoro62; chi temeva che, in un contesto di incertezza economica quale quello dell’epoca, gli imprenditori avrebbero preferito una scelta iniziale meno impegnativa (contratto a termine), per addivenire solo successivamente, se mai, ad una stabilizzazione63; chi presagiva il ri-
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V. l’art. 1, comma 9, lett. i, che inseriva nel computo dei 36 mesi anche i periodi di missione per mansioni equivalenti. V. l’art. 1, comma 9, lett. g, che portava a 60 o 90 giorni il periodo di tempo che deve trascorrere tra un contratto e l’altro. La disposizione ha creato molti problemi, e così prima lo stesso Governo Monti e poi il Governo Letta hanno provveduto a ritornare alla misura iniziale di 10 o 20 giorni, favorendo, quindi, l’utilizzo ripetuto di questa tipologia contrattuale: sulla vicenda rinvio ad Aimo, Lavoro temporaneo tra aperture (molte) e limiti (pochi), in Studi in memoria di Mario Giovanni Garofalo, vol. II, Cacucci, 2015, tomo I, 2. 57 V. l’art. 1, commi 23-30. 58 V. l’art. 1, comma 9, lett. b. Sulle innovazioni della legge Fornero in tema di lavoro a tempo determinato v. Menghini, Contratto a termine: nuove regole, in F. Carinci, Miscione (a cura di) Commentario alla riforma Fornero, cit., 2012, 93 ss. e Durata del contratto di lavoro cit., 634 ss., e la dottrina ivi citata, cui adde Speziale, La riforma del contrato a termine nella legge 28 giugno 2012, n. 92, in WP D’Antona. It., 153/2012, 1 ss.; Tosi, Il contratto a tempo determinato dopo la legge n. 92/2012, ivi, 154/2012, 1 ss.; Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli, 2012, 17 ss.; Voza, Il contratto di lavoro a tempo determinato, in Chieco (a cura di) Flessibilità e tutele nel lavoro. Commentario della legge 28 giugno 2012, n. 92, Cacucci, 2012, 75 ss.; Alessi, Flessibilità del lavoro e potere organizzativo, cit., 19 ss. e 63 ss.; Saracini, op.cit., 32 ss.; Proia, I “cortocircuiti” tra flessibilità e rigidità nei modelli contrattuali di accesso al lavoro, in ADL, 2013, 782 ss.; Faleri, Le tecniche di stabilizzazione dei rapporti di lavoro a termine e i diritti di precedenza, in Del Punta, Romei (a cura di), I rapporti di lavoro a termine, cit., 296 ss.; Ciucciovino, I requisiti sostanziali (soggettivi e oggettivi) del contratto a termine, ivi, 125 ss.; L. Zoppoli, Il “riordino” dei modelli di rapporto di lavoro tra articolazione tipologica e flessibilizzazione funzionale, in WP D’Antona”IT., 213/2014, 1 ss.; Preteroti, Contratto a tempo determinato e forma comune di rapporto di lavoro cit., 9 ss.; Aimo, Il lavoro a termine cit., 118 ss. 59 In questo senso, con riguardo ai commi 16 ss. dell’art.1, v. F. Carinci, L’apprendistato, in Commentario alla riforma Fornero, cit., 115; D’Onghia, Il contratto di apprendistato, in Flessibilità e tutele nel lavoro cit., spec. 153; Monda, Il contratto di apprendistato, in Cinelli, Ferraro, Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro, Giappichelli, 2013, 108. 60 V. i commi 8 ss. dell’art. 4. Su questi incentivi v. D. Garofalo, Gli incentivi alle assunzioni, in F. Carinci, Miscione (a cura di), Commentario alla riforma Fornero cit., 189 ss. e Tebano, Gli incentivi all’ingresso nel mercato del lavoro tra ordinamento italiano ed europeo, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Il nuovo diritto del lavoro, vol. IV, La riforma del mercato del lavoro, Giappichelli, 2014, 421 ss. Sugli incentivi all’occupazione previsti nella legge Fornero v. anche Menghini, Legalità e incentivi all’occupazione: dalla legge Fornero alla svolta del Jobs Act, in Brollo, Cester, Menghini (a cura di), Legalità e rapporti di lavoro. Incentivi e sanzioni, EUT, 2016, 153 ss. 61 V. Faleri, op. cit., 297. 62 V. ancora Proia, op. ult. cit., 785. 63 V. McBritton, Incentivi all’occupazione dei soggetti svantaggiati, in Flessibilità e tutele nel lavoro cit., 714. 56
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schio di girandole di lavoratori con bassa qualificazione sullo stesso posto, pur connesso con esigenze permanenti di lavoro64. La riforma Fornero ha raggiunto scarsi risultati sul piano dell’occupazione ed è risultata di applicazione difficile ed imprevedibile sul terreno dei licenziamenti. Per rivitalizzare l’occupazione è intervenuto, allora, il Governo Letta che, con il “Decreto lavoro”, da una parte, ha ampliato fortemente la possibilità di ricorrere a contratti a termine a-causali, affidando l’introduzione delle rispettive ipotesi alla contrattazione collettiva, anche aziendale65; dall’altra, ha previsto appositi incentivi economici per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani tra i 18 ed i 29 anni privi di impiego da almeno 6 mesi, ovvero privi di diploma di scuola media superiore o professionale, che comportassero un incremento occupazionale netto66. Si tentava, poi, di rivitalizzare l’apprendistato67, ma si è trattato di un intervento modesto, inidoneo a risolvere i problemi del suo limitato utilizzo68. Si sono lanciate anche varie forme di tirocini formativi, a volte dotati di borse o indennità69, si ipotizzavano varie misure per accrescere l’occupazione nel Mezzogiorno70, si incentivava l’assunzione a tempo indeterminato dei titolari di Aspi71 e si cercavano di stabilizzare anche gli associati in partecipazione con apporto di lavoro72. Questo insieme di incentivi all’occupazione, di ordine economico e normativo, continuava ad essere caratterizzato dall’assenza di un disegno organico e dalla corsa a soddisfare specifiche emergenze occupazionali soggettive e territoriali73. Per far crescere l’occupazione si puntava, in altre parole, a qualsiasi tipo di lavoro subordinato, sia stabile che a termine, con netta restrizione, invece, del lavoro autonomo. Si incentivava, disordinatamente, un po’ di tutto.
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V. Aimo, Il lavoro a termine tra modello europeo cit., 120. V. l’art. 7, comma 1, del d.l. 28 giugno 2013, n. 76, convertito in l. 9 agosto 2013, n. 99. Il potenziale superamento del secolare sistema di limiti variamente “causali” era rimasto del tutto sotto traccia, malgrado il suo notevole rilievo pratico e teorico (v. Menghini, La nuova disciplina del lavoro a termine del 2014: una rivoluzione utile, doverosamente provvisoria, in ADL, 2014, 6, 1232-1233). Parte della dottrina ha cercato di circoscrivere questa innovazione (v., ad es., Alessi, Le modifiche in tema di lavoro a termine nel “decreto lavoro”: alcune osservazioni in tema di “a-causalità” e proroga del contratto, in WP D’Antona, IT”, n. 188/2013, 11; Aimo, Il lavoro temporaneo tra aperture (molte) e limiti (pochi), cit., 7 ss.), ma un’altra parte valutava positivamente sia l’attribuzione alle parti sociali di una delega in bianco, che poteva prescindere da ogni causale e da ogni tetto percentuale (v. Giovannone, Tiraboschi, Il lavoro a termine nuovamente riformato, in Tiraboschi (a cura di), Il lavoro riformato, Giuffrè, 2013, 179), sia l’esperienza negoziale in concreto seguita a questa innovazione (Preteroti, op.cit., 11 ss.). 66 V. l’art. 1 del decreto e su questo complesso di incentivi Faleri, Le tecniche di stabilizzazione dei rapporti di lavoro cit., 298 ss. e D’Erario, Tiraboschi, Incentivi per nuove assunzioni a tempo indeterminato di giovani lavoratori, in Tiraboschi (a cura di), Il lavoro riformato, cit., 84-99. 67 V. l’art. 2, comma 2 e 3. 68 In questo senso, condivisilmente, v. D’Erario, Tiraboschi, Incentivi per nuove assunzioni cit., 104-110. 69 V. i comma 5 ter ss. dell’art. 2. Su tali tirocini v. ancora D’Erario, Tiraboschi, op. cit., 110 ss. 70 V. l’art. 3, nonché Caragnano, D’Erario, Il Piano per il Mezzogiorno e le misure per i lavoratori svantaggiati per il rilancio del sistema Paese, in Tiraboschi (a cura di), Il lavoro riformato, cit., 122 ss. 71 V. l’art. 7, comma 5, lett. b, nonché D’Erario, Gli incentivi per le assunzioni stabili dei percettori di assicurazione sociale per l’impiego, in Tiraboschi (a cura di), Il lavoro riformato cit., 274. 72 V. l’art. 7 bis. 73 Così Ghera, Garilli, D. Garofalo, Diritto del lavoro, Giappichelli, 2015, 590. Per una forte critica ai provvedimenti in esame del Governo Letta v. Tiraboschi, Un piano per il lavoro senza una visione e senza un progetto, in Tiraboschi (a cura di), Il lavoro riformato cit., 3 ss. 65
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Malgrado questi interventi, la recessione economica bloccava ogni miglioramento sul terreno dell’occupazione. Quando quest’ultima ha toccato minimi inauditi, per dare una scossa al Paese in via d’urgenza, il Governo Renzi ha puntato su una serie di incentivi di carattere generale, prima incentivando fortissimamente il contratto a termine, poi quello a tempo indeterminato, proseguendo la stretta contro le collaborazioni autonome. La prima scelta è avvenuta con il decreto Renzi-Poletti della primavera del 201474 che, modificando il testo del d. lgs. n. 368/2001, ha rivoluzionato la disciplina della materia generalizzando la possibilità di assunzioni a termine a-causali, pur mantenendo il testo del comma 01 dell’art. 1 introdotto dalla legge Fornero (“il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”). Il singolo contratto a termine veniva ammesso senza necessità di alcuna causale per un massimo di tre anni e con possibilità di 5 proroghe all’interno dello stesso contratto, ma nel rispetto del limite del 20% dei lavoratori a tempo indeterminato. Dai limiti qualitativi, basati sulle causali, si è passati a limiti esclusivamente di durata e quantitativi; il superamento delle percentuali, modificabili ad opera della contrattazione collettiva, comportava espressamente soltanto una sanzione amministrativa (art. 5, commi 4 septies e 4 octies). Il decreto poneva alcuni problemi applicativi: ad esempio, la nuova disciplina della proroga era scritta senza tener conto del venir meno delle causali; non era del tutto chiaro il modo di conteggiare i dipendenti ai fini delle percentuali; ci si chiedeva se il superamento delle stesse, oltre alla sanzione amministrativa, potesse comportare anche la nullità della clausola con tutte le relative conseguenze75. Questi problemi (ma non altri) sono stati risolti dal d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81, che ha recepito, con lievi modifiche, il decreto Renzi-Poletti76. L’attenzione degli studiosi si è concentrata, tuttavia, non su questi aspetti particolari, ma sul significato generale del decreto e sulla sua conformità alla disciplina euro unitaria. Lasciando al seguito del discorso questo secondo punto, sul primo va innanzitutto ricordato che l’eliminazione della necessità delle causali, da un lato, ha fatto intravedere una piena liberalizzazione dell’istituto, divenuto equivalente o alternativo al contratto a tempo indeterminato77; dall’altro, ha fatto scorgere una notevolissima apertura verso il contratto di lavoro a termine, ma non una sua piena e completa liberalizzazione, perché per il suo utilizzo permangono dei limiti (certo molto più blandi di quelli del passato) che per il contratto a tempo indeterminato non ci sono78.
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Si tratta del d.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in l.16 maggio 2014, n. 78. Per questi problemi rinvio ancora a Menghini, La nuova disciplina del lavoro a termine del 2014, cit., 1235-1240. 76 Sulle specifiche modifiche apportate al decreto Renzi-Poletti dal d. lgs. n. 81/2015 rinvio a Menghini, Lavoro a tempo determinato (artt.1, 19-29, 51 e 55), in F. Carinci (a cura di), Commento al d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, ADAPT e-Book series n. 48/2015, 159-188. 77 V. ad es. F. Carinci, Il diritto del lavoro che verrà cit., 32; Brollo, op.cit., 146: Speziale, Totale liberalizzazione del contratto a termine, in Lavorowelfare, 4/2014, Il decreto lavoro. Opinioni a confronto, 30; Gragnoli, L’ultima regolazione cit., 434 ss.; Miscione, “Jobs Act” con un primo decreto legge ed un ampio disegno di legge delega, LG, 4, 2014, 309; Alessi, Il sistema “acausale” di apposizione del termine e di ricorso alla somministrazione: come cambia il controllo sulla flessibilità, in DLRI, 2015, 4, 99. 78 In questo senso v. Magnani, La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato: novità e implicazioni sistematiche, in WP D’Antona” It, 212/2014, 5; Ciucciovino, Il sistema sanzionatorio del contratto a termine e della somministrazione di lavoro dopo il Jobs Act, in DLRI, 2015, 614; Preteroti, op.cit., 16; Cester, Il neotipo e il prototipo: precarietà e stabilità, in Mazzotta (a cura di), Lavoro ed esigenze dell’impresa fra diritto sostanziale e processo dopo il Jobs Act, Giappichelli, 2016, 75-76. 75
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Mi sembra scontato aderire per l’ennesima volta a questa seconda opinione, perché dei limiti rimangono, ma ciò che da molti è colto è la enorme differenza tra quelli attuali e quelli precedenti. I limiti meramente temporali e quantitativi, derogabili, peraltro, dalla contrattazione collettiva, semplificano enormemente la materia e la rendono più certa, perché non si discuterà più sulla temporaneità delle causali, sulla loro specificazione nel contratto e sulla loro ricorrenza nel caso di specie79. Il giudice avrà margini ristrettissimi per esprimere valutazioni di merito, potendo essere chiamato a dirimere questioni prevalentemente di calcolo, quindi molto rare80. È probabile che l’unico punto su cui potrà discutersi sia quello relativo ai margini entro i quali potranno operare le deroghe ai limiti quantitativi che potrà introdurre la contrattazione collettiva, ma c’è da chiedersi chi avrà interesse a far valere il loro superamento, se da quest’ultimo deriva, ed ormai è indiscutibile, soltanto la sanzione amministrativa (art. 23, comma 4, d. lgs. n. 81/2015). Gli studiosi si sono concentrati, peraltro, anche sugli effetti della “rivoluzione” in esame sul sistema protettivo generale del lavoro, esprimendo sia critiche severissime (ed era questa l’opinione maggioritaria), sia valutazioni positive, sia giudizi condizionati dall’inserimento delle innovazioni in questione nella imminente riforma complessiva del mercato del lavoro81. Personalmente, aderivo a quest’ultima posizione, ritenendo che l’intervento del Governo Renzi costituisse una risposta immediata ad una situazione occupazionale disperata. È vero che il lavoro non si crea per decreto, ma non consideravo sbagliato dare una forte “scossa normativa” che, come extrema ratio, potesse smuovere, anche solo un po’ e per periodi limitati, le acque stagnanti dell’occupazione, consentendo esperienze lavorative certo brevi e precarie, ma comunque di carattere subordinato. Il decreto sul punto era sincero. L’art.1 della legge di conversione si apriva, infatti, con una dichiarazione che spiegava l’emanazione dello stesso con l’urgenza di spingere le imprese ad assumere pur con contratti di breve durata, ma senza grossi limiti e problemi, in un quadro di perdurante crisi occupazionale e nel contesto di incertezza del quadro economico, segnato da recessione e stagnazione ancora molto pesanti e con ridotte possibilità di utilizzo di risorse pubbliche; in seguito questo intervento limitato avrebbe dovuto essere ripensato nell’ambito di un contesto innovatore più ampio, costituito dall’adozione “di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro con la previsione in via sperimentale del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”82.
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In questo senso v. Brollo, op.cit., 149 ss. Per simili considerazione v. anche Alessi, Il sistema “acausale”, cit., 604. e Ciucciovino, Il sistema sanzionatorio cit., 614 e 62, per la quale la chiarezza e precisione dell’attuale disciplina in tema di sanzioni toglie ogni spazio ai rimedi ordinari di diritto civile, come la frode alla legge. Come si è visto, margini, se pur molto ristretti, alla frode alla legge sono stai conservati da Cass., sez. un., 31 maggio 2016, n. 11347, nn. 62-63, cit. 81 Ho riassunto queste varie posizioni in La nuova disciplina del lavoro a termine del 2014 cit., 1222 ss., note 1-3, ed in Lavoro a tempo determinato (artt.1, 19-29, 51 e 55), in Commento al d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81 cit., 159 ss. Per De Luca Tamajo, il valore garantistico delle causali era molto basso, perché il datore di lavoro trovava comunque una causale giustificativa, salvo poi trovarsi esposto al vaglio dei giudici, talora occhiuto e diffidente, con conseguente rischio di uno stravolgimento dell’organico. Non è stato un male, quindi, eliminare un vincolo che dava poca garanzia ai lavoratori e grande alea per i datori di lavoro (v. La flessibilità nel diritto del lavoro: dalla articolazione del tipo alla gestione deregolata del rapporto, in Diritto del lavoro e mercato globale cit., p. 45). 82 Sull’approvazione di questa norma in sede di conversione del decreto v. Ichino, Il lavoro ritrovato. Come la riforma sta abbattendo il muro tra i garantiti, i precari e gli esclusi, Mondadori, 2015, 48 ss. 80
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Contratto di lavoro a termine e contratto a tempo indeterminato: attualità di una alternativa
Non vi era unanimità di vedute nemmeno sugli effetti occupazionali del decreto in questione. Vi era chi riteneva che le assunzioni a tempo determinato, spesso di breve durata, avrebbero prevalso ancor più di prima rispetto a quelle stabili, anche per il fatto che la loro risoluzione non implica i costi monetari ed umani del licenziamento83; chi presagiva che l’effetto del decreto fosse quello, già verificatosi nel passato, della sostituzione del lavoro standard con lavoro non standard, senza alcuna effettiva crescita dell’occupazione, ma con mera redistribuzione in senso precario delle occasioni di lavoro84; ma non mancava chi ipotizzava che le imprese, alla scadenza del contratto, in presenza di un’occasione stabile di lavoro, avrebbero trasformato il lavoro a termine in lavoro a tempo indeterminato, per non vanificare la formazione impartita e le conoscenze acquisite85.
7. Il presente: il d. lgs.15 giugno 2015, n. 81 nell’ambito del
Jobs Act.
L’auspicata scossa all’occupazione non c’è stata, dato che a fine dicembre 2014 i dati erano stati ancora negativi ed al limite della drammaticità per i giovani86, mentre a crescere ancora erano stati i contratti a termine87. Il Governo Renzi è allora passato dal Jobs Act, Atto I (costituito dal decreto Renzi-Poletti) al Jobs Act, Atto II, costituito dalla legge delega 10 dicembre 2014, n. 183 e dai successivi decreti delegati. La legge n. 183/2014, nell’indicare i principi della delega concernente la disciplina “delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro”, poneva al Governo, nella lett. b) del comma 7 dell’art. 1, l’obiettivo di “promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti ed indiretti”. A renderlo effettivamente più conveniente è stata la legge di stabilità per il 2015 (l. 23 dicembre 2014, n. 190), che con gli artt. 118 ss. ha esonerato per tre anni dalla contribuzione previdenziale a loro carico (anche se non da tutta) i datori di lavoro che assumevano con contratto a tempo indeterminato nel corso del 2015, con un tetto massimo di esonero di euro 8.060,00 annui. L’incentivo richiedeva varie condizioni. Importanti erano quelle che miravano ad assicurare una reale crescita dell’occupazione stabile: i lavoratori non dovevano essere già stati assunti a tempo indeterminato da qualsiasi altro datore di lavoro nei sei mesi precedenti; l’esonero non spettava per l’assunzione di lavoratori per i quali il beneficio fosse stato già usufruito in occasione di precedenti assunzioni a tempo indeter-
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V. Ballestrero, La riforma del lavoro: questioni di costituzionalità, LD, 2015, 49. Così Speziale, Le politiche del lavoro del Governo Renzi cit., 14. 85 V. Romei, La nuova disciplina del lavoro subordinato a termine, DLRI, 2014, 677. 86 In questo senso v. Mariucci, Il diritto del lavoro ai tempi del renzismo, LD, 2015,15. 87 Così Treu, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, DLRI, 2015, 155. Nel 2014 la disoccupazione, mentre si era attenuata a livello europeo passando dal 10,8% del 2013 al 10,2%, nel nostro Paese ha continuato a crescere, passando dal 12,1 al 12,3. Da anni in Italia vi era già una netta prevalenza delle assunzioni a tempo determinato come flusso (68% nel 2013) che erodeva gradualmente la netta prevalenza dei contratti a tempo indeterminato come stock, giungendo al 13,3%. 84
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minato; l’assunzione doveva riguardare lavoratori diversi da quelli che, nel corso dei tre mesi precedenti la data di entrata in vigore della legge di stabilità, avessero già avuto rapporti di lavoro a tempo indeterminato con il datore di lavoro richiedente l’incentivo o con società da questi controllate o a questi collegate o facenti capo al medesimo, anche per interposta persona; erano escluse le assunzioni di apprendisti e di lavoratori domestici88. La legge di stabilità aveva fatto leva, peraltro, anche sull’Irap, rendendo in pratica interamente deducibile dalla relativa base imponibile tutto il costo del lavoro dei dipendenti a tempo indeterminato89. A queste forme di incentivo si è aggiunta, dal marzo 2015, anche se solo per i nuovi assunti, la nuova disciplina del licenziamento, che nega ogni spazio alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di recesso datoriale privo di giustificato motivo oggettivo e ne restringe di molto quello conservato per l’assenza di giustificato motivo soggettivo, per di più ridimensionando sensibilmente gli importi degli indennizzi e legandoli rigidamente all’anzianità di servizio, di modo che il costo del licenziamento ingiustificato sia esattamente prevedibile90. I dati relativi al 2015 attestavano una crescita dell’occupazione ed in particolare delle assunzioni a tempo indeterminato, rimanendo stabili quelle a termine91. In questo nuovo contesto l’espressione per la quale il contratto a tempo indeterminato costituisce la forma comune dei rapporti di lavoro ha assunto una innegabile effettività, tale da superare la spinta verso i contratti a termine tentata con la loro quasi liberalizzazione dal decreto Renzi-Poletti. L’aumento dell’occupazione in generale e delle assunzioni con contratto a
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Per i particolari su questo incentivo v. Vergari, Promuovere forme di lavoro stabile. I nuovi incentivi universali in WP D’Antona. IT, n. 292/2016; Di Nunzio, Il contratto a tutele crescenti. Il gioco delle convenienze economiche: profili contributivi e fiscali, in M.T. Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, 233 ss., il quale ricorda, peraltro, come il comma 121 dell’art. 1 della legge in esame abbia soppresso i benefici contributivi in precedenza previsti dall’art. 8, comma 9, della l. n. 407/1990 a favore dei datori di lavoro che assumessero a tempo indeterminato lavoratori disoccupati da almeno 24 mesi o sospesi dal lavoro e beneficiari del trattamento di CIG straordinario dallo stesso periodo. 89 V. i commi 20-25 della legge n. 190/2014 e Di Nunzio, op. cit., 235 ss. Tale deducibilità, in precedenza, valeva solo per gli apprendisti. 90 V. le disposizioni di cui al d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23, valide per i licenziamenti effettuati nei confronti di dipendenti assunti dal 7 marzo in avanti. Si tratta delle norme del Jobs Act che hanno attirato l’attenzione maggiore di studiosi e giudici, perché se era difficile cogliere il senso compiuto delle modifiche introdotte all’art. 18 St. lav. dalla Riforma Fornero, altrettanto arduo è cogliere le differenze tra le norme appena modificate e quelle che il Jobs Act riserva al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Mi limito a ricordare gli scritti in materia rinvenibili nei volumi curati da M.T. Carinci – Tursi, Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015; R. Pessi, Sigillò Massara, Jobs Act. Prime riflessioni e decreti attuativi, Eurilink, 2015; F. Carinci, Jobs Act: un primo bilancio. Atti del XI Seminario di Bertinoro-Bologna del 22-23 ottobre 2015, ADAPT e-Book, series n. 54/2016; Mazzotta, Lavoro ed esigenze dell’impresa fra diritto sostanziale e processo dopo il Jobs Act, Giappichelli, 2016; Zilio Grandi, Biasi, Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Cedam, 2016; Calcaterra, Tutele del lavoro ed esigenze della produzione, cit. Aggiungo i rilievi sul punto di Olivieri, op. cit., 86 ss. 91 Secondo un comunicato dell’Inps del febbraio 2016, le assunzioni stabili effettuate nel corso del 2015, comprese le stabilizzazioni dei contratti a termine e dei contratti di apprendistato, erano state 2,4 milioni. Di queste assunzioni stabili 1.442.725 (e cioè poco più della metà) erano state effettuate usufruendo delle agevolazioni previste nella legge di stabilità per il 2015. Se si considera che nello stesso anno vi erano state 1,68 milioni di chiusure di rapporti a tempo indeterminato, il saldo attivo calcolato dall’Inps era di 764 mila posti stabili creati in più. Se si tiene presente, poi, che il 2014 si era chiuso con un saldo negativo dei posti stabili pari a circa 52.000 unità, il confronto tra i due anni evidenziava 800.000 posti stabili in più nel 2015 rispetto al 2014. A metà marzo 2016 l’Inps ha rettificato i dati relativi al 2015, precisando che le assunzioni a tempo indeterminato effettuate con gli gravi contributivi erano state 1.547.935 (e non 1.442.725), spiegando questa ulteriore crescita con la corsa all’assunzione stabile incentivata avvenuta nel dicembre 2015 (379.243 assunzioni).
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tempo indeterminato in particolare evidenziava il raggiungimento, pur parziale ed iniziale, ma importante, degli obiettivi che il Governo si era posto con il Jobs Act sul piano dell’occupazione e della spinta ai rapporti a tempo indeterminato, che si presentavano davvero come i rapporti comuni o normali. Ci si chiedeva, tuttavia, se i risultati positivi raggiunti nel 2015 erano destinati a ripetersi anche in futuro, malgrado la riduzione o addirittura l’eliminazione degli incentivi, solo in virtù dell’alleggerimento delle tutele legate al “rapporto dominante”. Sul punto o si esprimeva cautela92 o si negava che le novità introdotte dal Jobs Act, senza gli incentivi economici, potessero far pendere la bilancia delle convenienze verso il contratto a tempo indeterminato e ricomporre il dualismo del mercato del lavoro ricollocando quest’ultima fattispecie al centro del sistema93. La legge di stabilità per il 2016 (l. 28 dicembre 2015, n. 208) ha mantenuto gli incentivi contributivi a favore di chi assumeva a tempo indeterminato nel corso dello stesso anno, ma li ha ridotti ad un periodo di due anni, ad un esonero pari al 40% dei contributi dovuti e sino ad un massimo di 3.230,00 euro all’anno (art.1, commi 178 e 179)94. Dopo questa riduzione, il 2016 ha visto, rispetto al 2015, un freno della crescita delle assunzioni a tempo indeterminato ed un aumento di quelle a termine95. La ripresa occupazionale del 2015 e 2016 ha riguardato soprattutto la popolazione più matura, toccando pochissimo il settore giovanile96; per questa ragione la finanziaria per il 2017 ha concentrato la decontribuzione sulle assunzioni dei giovani. La situazione del 2017, tuttavia, in mancanza di una decontribuzione di carattere generale a favore delle assunzioni stabili, malgrado la nota lieve ripresa economica, ha rivisto una forte crescita dei contratti a termine ed un rispettivo calo di quelli a tempo indeterminato, il che ha condotto il legislatore, con la legge di bilancio 2018 (l. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, commi 100 e ss.) ad introdurre dal 1° gennaio 2018 un esonero contributivo strutturale a favore dei datori di lavoro privati (non quelli di lavoro domestico) in relazione alle assunzioni a tempo indeterminato con contratto a tutele crescenti, sia a tempo pieno che a tempo parziale, ovvero alle trasformazioni, dalla stessa data, di contratti a termine in contratti sine die, di soggetti che non abbiano ancora compiuto nel 2018 trentacinque anni di età o trent’anni dal 2019. Il beneficio, soggetto a varie condizioni, consiste nella riduzione al 50%, per un periodo massimo di 36 mesi, dei complessivi contributi previdenziali dovuti dal datore di lavoro, con esclusione dei premi e contributi INAIL, entro un tetto massimo di 3.000,00 euro annui. Nell’attuale campagna elettorale si prende atto con soddisfazione che l’occupazione sia cresciuta e di fronte alla
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V. Del Punta, Diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2015, 99. Così M. T. Carinci, All’insegna della flessibilità, cit., XVI ss. 94 Su tale nuovo incentivo v. Vergari, Promuovere forme di occupazione stabile, cit., 22 ss. e Sferrazza, Incentivi all’assunzione per il triennio 2015-2017, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 339 ss. 95 Secondo i dati comunicati dall’INPS nel marzo 2017, nel 2016 l’occupazione era aumentata di 351.000 unità rispetto all’anno precedente, i contratti di apprendistato del 20% e quelli a termine del 13,5%; le assunzioni stabili, invece, erano diminuite rispetto al 2015, passando dalle totali 2,4 milioni, comprese le stabilizzazioni dei contratti a termine e dei contratti di apprendistato, di cui 1.442.725 con beneficio delle agevolazioni, a totali 971.500, di cui 614.000 con i benefici. Per Claudio Negro questi risultati non erano disprezzabili e dimostravano l’importanza della riduzione del cuneo fiscale, che auspicava divenisse strutturale (v. la sua Nota tecnica, in Mercato del lavoro News, n. 9, del 31 marzo 2017, riportata nel suo sito da Pietro Ichino). 96 Conferma e commenta questa situazione P. Ichino, nell’intervista pubblicata in AZ Franchising, aprile 2017, ripresa nel suo sito. 93
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forte crescita delle assunzioni a termine e dei contratti “spazzatura”, si giura che saranno fatti ulteriori sforzi per far crescere quella stabile ed a beneficio dei giovani, come se tutto dipendesse dal colore del governo97. I dati relativi ai primissimi mesi del 2018 attestano una decisa ripresa delle assunzioni a tempo indeterminato, confermando che per far crescere l’occupazione gli incentivi economici sono più importanti rispetto alle riforme che hanno attenuato le conseguenze in caso di licenziamento ingiustificato o cercato di migliorare, ma senza alcun successo pratico, i servizi per l’impiego. Senza un generale taglio del cuneo fiscale e prima di una forte ripresa economica, è difficile pensare che la variante a tempo indeterminato possa costituire in modo duraturo la fattispecie statisticamente prevalente di assunzione solo in virtù delle nuove regole, dato che il lavoro a tempo determinato, per i limiti molto blandi al suo utilizzo, per di più derogabili dalla contrattazione collettiva, e per le sanzioni poco efficaci per il superamento delle percentuali, rimane indubbiamente molto appetibile per i datori di lavoro98. È anche vero, d’altra parte, che almeno in teoria non può essere superata la percentuale del 20%, o quella fissata dai contratti collettivi, e che, almeno nei settori tradizionali, è impossibile produrre efficacemente con troppi lavoratori a termine; è poi fondato anche pensare che un rapporto di lavoro subordinato è sempre preferibile rispetto a forme di occupazione ancor meno tutelate, se non irregolari99. Ed infine vale sempre il discorso che non si licenzia per capriccio. In conclusione, potrebbe sembrare di essere tornati a un secolo fa, quando, in presenza di una debolissima tutela nei confronti del licenziamento e del contratto a termine, la preferenza per una versione o l’altra (fatta valere, quasi sempre, dal solo datore di lavoro), dipendeva da fattori di carattere economico e sociale, e non tanto giuridico100. Il contesto, tuttavia, è cambiato e se vale l’osservazione per cui “non siamo più nel 1965”, vale ancor di più quella per cui “non siamo più nel 1919”. Mi pare di capire, ad ogni modo, che negli ultimi anni i Governi hanno voluto in tutti i modi migliorare i dati sull’occupazione, e di conseguenza hanno incentivato tutto, senza privilegiare una variante o l’altra, ma solo dichiarando guerra alle collaborazioni. Vedremo, ad ogni modo, se i nuovi Governi del 2018 introdurranno robusti sostegni al lavoro stabile e se avranno i positivi effetti del 2015 e 2016: bisogna, peraltro, essere consapevoli che né le norme né gli incentivi, da soli, potranno migliorare profondamente e stabilmente la situazione occupazionale in assenza di una robusta ripresa economica e di
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L’esperienza di questi anni mi fa prevedere che la disoccupazione giovanile sarà poco toccata da simili incentivi economici, neppure molto consistenti. Mi sembra, quindi, fondato ritenere (come faceva Pietro Ichino nell’intervista di cui sopra) che la nostra disoccupazione giovanile, accanto alle cause generali, abbia anche cause strutturali specifiche, da affrontare con “un servizio di orientamento scolastico e professionale capillare, moderno ed efficace”, cui aggiungerei un forte aggiornamento di ciò che fanno la scuola e gli studi superiori. 98 In questo senso v. M.T. Carinci, Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro?, in RGL, 2015, 4, I, 321 ss.; Ludovico, Il contratto a tutele crescenti. Il gioco delle convenienze giuridiche rispetto ai contratti atipici, in M.T. Carinci, Tursi (a cura di), op. cit., 218. 99 Per quest’ultimo rilievo v. A. de Felice, I nuovi equilibri del lavoro flessibile tra contratto a termine acausale e tutele crescenti, in Santoni, Ricci, Santucci, (a cura di), Il diritto del lavoro all’epoca del Jobs Act, Esi, 2016, 123. 100 Per la stessa considerazione, riferita all’oggi, v. Cester, Il neotipo e il prototipo cit., 78.
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altri vari interventi che almeno erodano un po’ il potere del capitalismo, che oggi vivrebbe anche con poco lavoro.
8. Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come contratto standard: gli effetti sul piano interpretativo.
Diversa dal discorso sulla prevalenza statistica dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato rispetto ai rapporti non standard è la riflessione concernente il rilievo giuridico dell’affermazione, ricorrente in vari punti del Jobs Act, per la quale il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è la forma comune di rapporto di lavoro101. Commentando il decreto Renzi-Poletti o le disposizioni della legge delega e del d. lgs. n. 81/2015, il significato dell’affermazione è stato giustamente valorizzato, sia quale assunzione di un vincolo teologico da parte del legislatore italiano ad adottare misure dirette alla conservazione della posizione “dominante” da parte del contratto di lavoro a tempo indeterminato come “forma comune” del rapporto di lavoro102, sia quale individuazione “antropologica” da parte del diritto del lavoro del suo referente social-tipico, centro di tutto il diritto del lavoro dello scorso secolo103. Queste ricostruzioni portano ad attribuire all’affermazione in esame il significato di “super-criterio interpretativo”, che richiede un generale vincolo di coerenza tra le singole norme e l’affermazione medesima104, ovvero quello di esprimere non un principio, ma una regola con la quale l’interprete deve fare seriamente i conti105: entrambe conducono ad affermare l’esigenza di una interpretazione restrittiva delle possibilità di deroga da parte della contrattazione collettiva alle disposizioni relative ai contingentamenti ed alla successione di contratti a termine106. Altre opinioni sono più scettiche sulla possibilità di valorizzare la “premessa” in esame, sia perché, dopo l’avvento delle nuove regole sul licenziamento, la relazione tra le due varianti del contratto di lavoro è mutata, entrambe essendo “diversamente instabili”, sia perché si fa fatica a dare significato ad una “premessa” palesemente contraddetta da una normativa specifica che apre a dismisura le possibilità di optare per la variante a termine, rendendo impensabile un equilibrio nel ricorso alle due figure107.
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Ora tale affermazione è stata trasferita dalla specifica disciplina del lavoro a termine ad una sede più alta e generale, vale a dire nell’art. 1 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, quale premessa alla disciplina di tutte le forme flessibili di lavoro di cui si occupa il decreto. Per Cester, op.cit., 75, questo “prologo” è giustificato dalla non utilizzabilità senza limiti del contratto a termine e può convivere con la liberalizzazione del primo contratto. 102 Così Bellomo, Contratto a tempo determinato e interventi sul costo del lavoro. I nuovi percorsi orientati alla salvaguardia del “contratto dominante”, in F. Carinci (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi. Atti del X Seminario di Bertinoro-Bologna del 23-24 ottobre 2014, ADAPT e-Book, Series n. 42, 2015, spec. 166. 103 Così Perulli, Le modifiche al contratto di lavoro, in F. Carinci (a cura di), Jobs Act: un primo bilancio, spec. 61 ss. 104 V. Bellomo, op. cit., 168. 105 V. Perulli, op. cit., 68. 106 Così Bellomo, op. cit., 169; Perulli, op. cit., 73. 107 V. Speziale, Le politiche del lavoro, cit., 19; M.T. Carinci, Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro?, cit., 342 ss.; Aimo, Il lavoro a termine tra modello europeo cit., 126 ss.
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Penso che il rapporto comune/non comune, come quello normale/non normale, indichi qualcosa di meno, ma comunque di vicino, rispetto al rapporto regola/eccezione108. Dopo l’eliminazione del vincolo delle causali e l’introduzione di limiti solo temporali e numerici, la non normalità del contratto a tempo determinato, rispetto alla normalità del contratto a tempo indeterminato, si pone sul piano esclusivamente quantitativo e siccome si tratta di un piano piuttosto fragile, va indubbiamente consolidato attraverso operazioni ermeneutiche restrittive, che certo non possono porre vincoli ulteriori rispetto a quelli espressamente previsti, ma che possono porre limiti, proprio in virtù delle affermazioni dell’accordo quadro europeo e delle leggi italiane sul carattere standard del contratto a tempo indeterminato, alle possibilità derogatorie degli unici limiti esistenti da parte della contrattazione collettiva o far scattare sanzioni di diritto comune in caso di comportamenti fraudolenti non espressamente previsti. Ritengo che la “premessa” sulla forma comune di rapporto di lavoro non impedisca alla contrattazione collettiva, in via generale, di derogare ai limiti protettivi di legge nel senso della possibilità di ulteriori assunzioni a tempo determinato, elevando, ad esempio, il limite del 20%, come già avvenuto109. Il vaglio delle parti sociali può rendere accettabili tali scelte, a condizione, tuttavia, che siano rispettati i valori costituzionali, le norme europee e il principio di proporzionalità e razionalità110. Gli stessi criteri potrebbero valere anche per i contratti collettivi che ampliassero a dismisura le possibilità di reiterare le assunzioni dello stesso lavoratore. E se si giocasse troppo con la stipula di contratti per mansioni non rientranti nello stesso inquadramento si potrebbe far valere il negozio in frode alla legge, quale strumento ultimo, come inteso oggi dalla Cassazione111.
9. Il futuro. La probabile drastica riduzione del contenzioso
e il limitato spazio per un intervento della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia.
Volendo gettare uno sguardo sul futuro del lavoro a termine, una prima previsione sembra scontata: la “rivoluzione” della disciplina della materia diminuirà di molto il contenzioso ed i passaggi al rapporto a tempo indeterminato per via giudiziale. Dopo l’eliminazione delle causali e dell’obbligo di specificarle nell’atto scritto, sarà difficile che non vengano rispettati i limiti quantitativi, netti e chiari, di durata e percentuali per il primo contratto e di durata complessiva per una successione di contratti. Non sarà facile, in altre parole, imbattersi in clausole nulle ed il limite dei 36 mesi per la pluralità di contratti nel
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Rinvio sul punto a Menghini, Il contratto a tempo determinato, in F. Carinci (a cura di), Jobs Act: un primo bilancio, cit., 297 ss. Ne riferisce De Felice, op.cit., 127. 110 Rimane comunque il problema di chi farà valere l’innalzamento del limite effettuato dalle parti sociali, visto che il suo superamento ora comporta la sola sanzione amministrativa. 111 V. sempre Cass., sez. un., 31 maggio 2016, n. 11347, nonché Campanella, Vincoli e sanzioni nel ricorso al contratto a termine: forma e tetti agli organici, in F. Carinci (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi, cit., 178. 109
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settore privato da decenni non viene quasi mai in discussione. Prima delle modifiche del 2014, la maggior parte della cause si giocavano sulla specificazione della ragione per cui si assumeva a termine. Non penso che i datori di lavoro sbaglieranno o saranno disattenti sui limiti quantitativi. Potrebbero superare quello percentuale, ma la sanzione amministrativa che lo accompagna non porta alla stabilizzazione del rapporto e può interessare i lavoratori molto indirettamente. Qualche causa potrebbe derivare da assunzioni effettuate all’interno di limiti quantitativi “allargati” dalla contrattazione collettiva, ma sono sempre state rare le contestazioni all’operato dei sindacati. Vi è, d’altra parte, un ulteriore aspetto che fa prevedere un notevole calo delle richieste di stabilizzazione: che utilità potrà derivare ad un lavoratore assunto a tempo determinato da un’azione volta a chiedere la costituzione di un rapporto sine die, quando quest’ultimo, dopo il decreto n. 23/2015, non è più tanto stabile, nel senso che il datore potrà procedere ad un licenziamento ingiustificato pagando, quasi sempre, una cifra bassa e conoscibile in anticipo112? Si è già visto che senza la reintegrazione i lavoratori non sono indotti a chiedere la conversione del rapporto ed è pensabile, quindi, che anche per questa ragione pochi saranno i contratti a termine che si trasformeranno in contratti a tempo indeterminato. Va considerato, tuttavia, che qualche causa potrebbe implicare pregiudiziali di costituzionalità o di conformità all’accordo quadro europeo. La sentenza della Corte Costituzionale sui contratti a termine stipulati con le fondazioni lirico-sinfoniche, nel valorizzare il ruolo delle “ragioni oggettive” come mezzo adeguato per prevenire gli abusi e nel richiamare alcune sentenze della Corte di Giustizia, mostra tutta la fragilità del nostro sistema laddove si basa su un limite dei 36 mesi derogabile da parte della contrattazione collettiva e superabile con il cambio di mansioni113. Il contenzioso potrà essere interessante per il giurista, ma oggi, nel settore privato, non esiste più se non per le vecchie questioni di Poste italiane, e sarà molto limitato anche in futuro. La censura di costituzionalità più articolata sostiene che l’introduzione del sistema di acausalità, non bilanciata da adeguati contrappesi, faccia esplodere la questione della ragionevolezza delle esenzioni dai limiti quantitativi, evidenzi una ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati, leda il «fondamento della stabilità, inteso nel senso della conservazione del rapporto», reperibile nell’art. 4 Cost. e nelle altre norme costituzionali che, da una parte, concepiscono il lavoro come dimensione della persona umana, facendolo pertanto oggetto di speciali diritti e protezioni; dall’altra garantiscono continuità al rapporto anche in presenza di eventi o dell’esercizio di diritti che ne potrebbero comportare l’estinzione114.
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In questo senso v. Alessi, Flessibilità del lavoro cit., 317. Mi riferisco a C. cost., 11 dicembre 2015, n. 260, in LG, 2016, 148, con nota di V. De Michele, Le ragioni oggettive “retroattive” del contratto a termine nella sentenza n. 260/2015 della Corte Costituzionale e mia nota in RGL, 2016, II, 164 ss. (Fondazioni liricosinfoniche e contratto di lavoro a termine). Sui problemi di conformità della disciplina interna rispetto a quella euro unitaria v. Perulli, Le modifiche al contratto di lavoro cit., p. 73 ss. e Menghini, Il contratto a tempo determinato cit., 300 ss. 114 Si veda Santucci, Vincoli sistematici (costituzionali) al contratto a termine a-causale, in F. Carinci (a cura di), La politica del lavoro cit., 230-235.
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Non ritengo che sia di per sé la a-causalità a produrre tutti questi effetti negativi. Com’è noto, le causali non sono del tutto sparite. L’inserimento nel contratto della ragione per cui si assume a tempo determinato non è più obbligatoria, ma è sempre possibile e a volte conveniente, perché permette di individuare i contratti esentati dai limiti percentuali o addirittura dell’aggravio contributivo. Ma va considerato soprattutto l’interessante spunto per il quale, anche dopo l’abolizione delle causali, la disciplina interna, come quella euro unitaria, presuppone che il contratto a termine debba soddisfare esigenze temporanee115. Questa considerazione deriverebbe dal fatto che il limite dei 36 mesi vale solo se l’assunzione successiva avviene per mansioni equivalenti (oggi per mansioni racchiuse nello stesso livello contrattuale), le stesse evidenziando l’assenza di temporaneità dell’esigenza sottostante. Io parlerei piuttosto di una sorta di a-tecnica presunzione. Introducendo nel 2007 il limite dei 36 mesi, il legislatore, quasi in via forfettaria, ha considerato insussistenti le ragioni temporanee di assunzione quando queste si ripetano, per lo svolgimento delle stesse incombenze o di incombenze analoghe o simili, per un periodo superiore a 36 mesi. La stessa logica di una presunzione può scorgersi anche nel limite percentuale: se ci si mantiene in limiti ragionevoli e giustificati, si può ammettere che quella sia la misura fisiologica, per quell’azienda, di lavoro non duraturo. Affinché il sistema regga e non contrasti con i principi costituzionali è necessario, però, che funzioni anche nell’apparato sanzionatorio/dissuasivo, ed impedisca elusioni. Come ricordato più sopra gli strumenti per perseguire tal fine non mancano116. Gli studiosi hanno posto anche altre interessanti questioni117, ma non so se e quando giungeranno all’attenzione della Corte, vista la scarsità del contenzioso. Quanto alle censure di mancata conformità all’accordo quadro europeo, vi è innanzitutto chi ha considerato la clausola di non regresso di cui alla clausola 8, punto 2, dell’intesa, ritenendo che il decreto del 2014 non la violasse perché non dava espressamente attuazione allo stesso118. L’argomento non valeva allora, visto il richiamo della normativa europea che faceva la legge di conversione, e non vale oggi, dato che la l. n. 184/2014 indica come criterio di delega proprio l’aderenza al diritto euro unitario. Bisogna vedere, allora, se tiene l’opinione per la quale l’eliminazione delle causali sarebbe compensata dal limite percentuale di legge119. Anche qui dovremo stare a vedere come le cose si svolgeranno in concreto, ma ho scarsa fiducia, nell’attuale contesto di diffuse richieste di maggior sovranità degli Stati membri, in una sensibilità della Corte di giustizia su questo piano, quando è la stessa Commissione a chiedere al nostro Paese riforme del lavoro nel senso della maggiore flessibilità.
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Si veda G. Santoro-Passarelli, Contratto a termine e temporaneità delle esigenze sottostanti, in ADL, 2015, n. 1, 191 ss. Da ultimo si veda Campanella, op. cit., 178. 117 Per tutti rinvio a L. Zoppoli, op. ult. cit., 35 ss. 118 V. Panci, Proroga del termine, continuazione del rapporto dopo la scadenza e rinnovi, in G. Santoro-Passarelli (a cura di), Jobs Act e contratto a tempo determinato, Giappichelli, 2015, 33. 119 Così Preteroti, op. cit., 73; Alessi, Il lavoro a tempo determinato dopo il d.lgs. 81/2015, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve, cit., 38. 116
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È comunque il contrasto con la clausola 5 ad essere maggiormente evocato. Si è posto in evidenza, innanzitutto, come la lett. b della stessa preveda un limite temporale alle successive assunzioni senza scartare quelle che richiedano mansioni diverse, ma ricomprendendo tutti i contratti comunque conclusi tra le stesse parti; la normativa italiana che oggi distingue tra mansioni appartenenti allo stesso livello di inquadramento e no contrasterebbe, dunque, con l’accordo quadro120. Penso che sul punto rispetto al decreto oggi in vigore sia decisivo il modo in cui il contratto collettivo articola gli inquadramenti nei vari livelli: se fa come nel contratto delle Poste, inserendo in vari livelli mansioni praticamente uguali, il contrasto è evidente. Se, invece, le mansioni sono diverse al punto da far presumere che le varie assunzioni rispondano ad esigenze temporanee successive, il contrasto non mi sembra sussistere121. La non conformità all’accordo quadro è stata affermata, in secondo luogo, per il fatto che il periodo dei 36 mesi entro i quali possono essere ripetuti i contratti a termine può essere modificato, anche estendendolo, dai contratti collettivi, che potrebbero anche eliminarlo, dando luogo ad una situazione in cui i rinnovi non sarebbero limitati né per la presenza di una ragione oggettiva che giustifichi la stipula di ciascun contratto, né quanto al loro numero, né quanto al periodo entro il quale possono avvenire122. La tesi mi sembra del tutto fondata, ma ci vorrebbe che prima un contratto collettivo eliminasse ogni limite temporale o estendesse in modo eccessivo e ingiustificato quello esistente123: evenienza che mi sembra poco probabile.
10. Conclusioni. Le critiche dei giuslavoristi nei confronti della riforma della disciplina del lavoro a termine sono state profonde e diffuse. L’eliminazione del requisito delle causali, sostituito da un limite percentuale derogabile dalla contrattazione collettiva e sanzionato in modo prevedibilmente inefficace, ha fatto ritenere che oggi siano più facili gli abusi, che si sia ancor più aggravato il precedente squilibrio nei rapporti di forza tra le parti del contratto di lavoro, che si sia tornati decenni addietro quanto a soggezione del lavoratore ed a remore ad esercitare diritti fondamentali, per perseguire una maggior occupazione, caratterizzata da salari bassi e da prestazioni di qualità scadente124.
120
Si veda Ballestrero, op. cit., 48; Panci, op.cit., 34; Aimo, La nuova disciplina su lavoro a termine e somministrazione a confronto con le direttive europee: assolto il dovere di conformità?, in DLRI, 2015, 4, 644 ss. 121 In senso analogo si veda Romei, op. cit., 680. 122 Sul punto si veda amplius Aimo, op. ult. cit., lc. cit.; Leccese, La compatibilità della nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato con la Direttiva n. 99/70, in RGL, 2014, n. 4, I, 722 ss.; Lozito, Tendenze della contrattazione nazionale in materia di contratto a termine, part-time e apprendistato professionalizzante, ivi, 572 ss. 123 Si veda ancora Leccese, op. cit., 723. 124 Per queste critiche rinvio a Menghini, Il lavoro a tempo determinato (artt. 1, 19-29, 51 e 55) cit., 163 ss., cui adde Speziale, Lavoro a termine, Enc. Dir., Annali, IX, Giuffrè, 2016, 509; L. Zoppoli, La disciplina post-vincolistica del lavoro a termine in Italia, in Saracini, L. Zoppoli, Riforme del lavoro e contratto a termine, Editoriale scientifica, 2017, 30.
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Luigi Menghini
Simili critiche sono state rivolte anche alla riforma dei licenziamenti attuata nell’ambito del Jobs Act, atto II, che avrebbe fatto ritornare il lavoro una merce, con pregiudizio dei diritti fondamentali, compresi i diritti sindacali e quelli legati alla libertà di manifestare le proprie opinioni, oltre ad indebolire comunque in modo serio la posizione del lavoratore all’interno del rapporto di lavoro. È indubbio che la somma dell’atto I con l’atto II del Jobs Act ha disorientato e messo in crisi molti di noi. La complessiva maggior precarietà e minor stabilità rischia di rendere non effettivo tutto il diritto del lavoro facendolo tornare a decenni ormai lontani. Come ho già detto per la nuova disciplina del licenziamento, anche per quella del lavoro a tempo determinato, proprio perché “non siamo nel 1965”, spero che l’effetto non sia quello di una lesione dei diritti fondamentali, ma sono consapevole che, se non si utilizzeranno bene i contrappesi rimasti in vita, l’aumento della precarietà e insicurezza potrà portare a diffuse situazioni di delusione e sfiducia, di reazione disperata a favore di istanze populiste o, all’opposto, di accettazione passiva di ogni cosa, di scarsa qualità del lavoro e di emarginazione sociale anche di chi, magari, ogni tanto, lavora. Non condivido, tuttavia, lo slogan di chi vuole eliminare il Jobs Act (e la riforma delle pensioni) o l’auspicio di un ritorno all’epoca d’oro del diritto del lavoro italiano quanto a tutele del lavoratore. È vero che l’attuale diritto del lavoro è subordinato all’economia. Ma lo è sempre stato. In certe epoche, nel mondo occidentale, i rapporti di forza sono riusciti ad attenuare tale subordinazione, conquistando tutele e poi frenando la loro erosione. Oggi i rapporti di forza producono scarsi risultati su questo terreno, perché il potere delle multinazionali, l’economia globalizzata, l’innovazione tecnologica, la disgregazione sociale, ecc. hanno conquistato un potere enorme, inaudito rispetto a quello con cui dovevano misurarsi le forze del lavoro nei decenni trascorsi. O si vince il moderno capitalismo o ci si deve accontentare di una più equa distribuzione dei redditi e dei diritti, prendendo atto che il nostro piccolo Stato, di fronte a questi poteri, è un pigmeo. Per queste ragioni avrei condiviso l’ipotesi, prospettata in Parlamento alla fine del 2017, di aumentare l’indennità dovuta in caso di licenziamento ingiustificato e di restringere le possibilità di avvalersi di contratti a termine con lo stesso lavoratore o con diversi lavoratori che ruotano su uno stesso posto125. Anzi, visto il caos normativo attuale, eliminerei la reintegra anche per l’ingiustificatezza soggettiva e lascerei al giudice di graduare l’indennità, comunque elevata, in proporzione al grado di ingiustificatezza. Si recupererebbe, in tal modo, quel profilo indispensabile di proporzionalità, oggi volutamente eliminato dal legislatore dalla seconda fase del giudizio sul licenziamento, quella concernente la scelta delle conseguenze da far derivare dall’inadempimento. Il giudizio in questione, invece, dovrebbe poter utilizzare il criterio di proporzionalità in entrambe le fasi, perché il fenomeno sanzionatorio è inscindibilmente unitario. Impedire l’utilizzo del criterio di proporzionalità nella seconda fase del giudizio contrasta, a mio avviso, con il principio di ragionevolezza e porta a vari aspetti di incostituzionalità. Sarebbe, questa, una piccola razionalizzazione, ma forse subito attingibile, in attesa di ciò che potranno fare i futuri, in parte impensabili, sviluppi politici.
125
Per interessanti ipotesi in tal senso v. ora L. Zoppoli, op. ult. cit., 37 ss.
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Contratto di lavoro a termine e contratto a tempo indeterminato: attualità di una alternativa
Altre questioni sono più complesse, come quella, acutamente evidenziata, della “trappola della precarietà” in cui sono caduti e sono destinati a cadere molti lavoratori, specie giovani, che passano da un contratto a termine all’altro, di per sé legittimi, alle dipendenze di varie imprese, senza conseguire alcuna crescita di professionalità e, in sostanza, senza alcuna speranza di migliorare la propria posizione personale, familiare, di consumatori, di futuri anziani126. E del resto oggi è noto il fenomeno della povertà anche di chi lavora. I problemi, dunque, non sono stati risolti nemmeno con la prosecuzione della “stretta” contro il falso lavoro autonomo, o presunto tale, rinvenibile in varie parti del Jobs Act127 e con i successivi recenti interventi volti a circoscrivere l’eccessiva ampiezza di altre fattispecie negoziali ultra precarie128.
126
V. ancora L. Zoppoli, op. ult. cit., 29. Mi riferisco all’estensione delle regole del lavoro subordinato alla (per me) diversa fattispecie delle collaborazioni organizzate dal committente (art. 2, d. lgs. n. 81/2015), all’eliminazione del lavoro a progetto (con tentativo di stabilizzazione dei relativi addetti) e dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro (artt. 52- 54 dello stesso decreto). 128 Mi riferisco alla limitazione dell’utilizzabilità del lavoro accessorio (od occasionale o a voucher) effettuata da d.l. 17 marzo 2017, n. 25, convertito in l. 20 aprile 2017, n. 49, che ha abrogato gli artt. 48-50 del d. lgs. n. 81/2015, nell’imminenza di un referendum (per una chiara sintesi della vicenda v. Ballestrero, De Simone, Diritto del lavoro, Giappichelli, 2017, 145 ss. 127
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Francesco Perrone
La tutela della privacy sul luogo di lavoro: il rinnovato dialogo tra Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e giurisdizione nazionale dopo la sentenza Bărbulescu 2 S ommario : 1. Il caso López Ribalda dinanzi alla giurisdizione nazionale. – 2. Profili di incompatibilità con l’art. 8 Cedu: il principio di proporzione nel giudizio di bilanciamento. – 3. La tutela della privacy del lavoratore in luogo pubblico. – 4. Il giudizio di bilanciamento dell’art. 8, par. 2 Cedu e l’adempimento da parte dello Stato dell’obbligo conformativo: spunti comparatistici. – 5. La sentenza Libert c. Francia: il margine di apprezzamento in un caso di accesso a files “personali”. In particolare, il ruolo della policy aziendale. – 6. L’adempimento dell’obbligo conformativo da parte dello Stato italiano: l’art. 4, comma 3, st. lav. – 7. Profili di incompatibilità con l’art. 6 Cedu: l’utilizzazione in giudizio dei dati personali.
Sinossi. Il contributo prende in esame gli sviluppi giurisprudenziali elaborati dalla Corte Edu a seguito della sentenza-cardine Bărbulescu 2, in particolare considerando in che modo le più recenti pronunce, tra cui Lopez Ribalda c. Spagna e Libert c. Francia, hanno arricchito il quadro regolativo tracciato dalla Gande Camera in tema di tutela della privacy sul luogo di lavoro. Lo scritto mette in luce i sempre nuovi profili di complessità che emergono nell’adempimento del obbligo conformativo gravante sugli Stati assoggettati alla giurisdizione della Corte Edu, nonché il ruolo sempre più centrale, e per certi aspetti innovativo, che il giudice nazionale è chiamato a svolgere nel processo bilanciamento degli interessi convenzionalmente sensibili. Un particolare esame è riservato alla rilettura dell’art. 4 dello Statuo dei Lavoratori che il giudice nazionale è chiamato ad effettuare alla luce dei principi elaborati dalla Corte Edu, nonché alla conseguente portata espansiva che, in tale contesto, viene a rivestire un ampio novero di fonti paranormative, ritenute tradizionalmente estranee alla categoria tipologica delle fonti del diritto: prime tra tutte, i provvedimenti del Garante della privacy.
Francesco Perrone
Abstract. This essay analyses the ways in which the most recent decisions delivered by the ECtHR, such as Lopez Ribalda v. Spain and Libert v. Francia, have enriched the regulative framework outlined by the fundamental Grand Chamber judgment Barbulescu 2 in the matter of privacy protection at the workplace. The paper highlights the increasing complexity that Council of Europe’s member States are called to face in the fulfilment of their obligation to implement the principles provided by the European Convention of Human Rights such as interpreted by the ECtHR case-law. The paper also focuses on innovative key role played by the national judge as authority called to strike a fair balance of the interests protected by the provisions of the Convention. In the light of the European framework, it is emerging an increasing influence that certain soft-law measures, not included in the traditional list of the sources of law, seem to be capable to perform on the interpretation and application of art. 4 of the law no. 300/1970 (so-called “Statuto dei Lavoratori”): first of all, the measures and decisions taken by the Italian data protection authority. Parole chiave: Privacy sul luogo di lavoro – Protezione dei dati personali – Controlli tecnologici – obbligo conformativo degli Stati – Giudizio di bilanciamento della Corte Edu – Sentenze Corte Edu Lopez Ribalda c. Spagna e Libert c. Francia.
1. Il caso López Ribalda dinanzi alla giurisdizione nazionale. A quattro mesi dalla decisione del caso Bărbulescu c. Romania1 della Grande Camera2, la Corte di Strasburgo torna a pronunciarsi sul tema della protezione del diritto alla privacy nel contesto dei controlli a distanza sul lavoratore (c.d. tecnologici), nonché sull’utilizzabilità in giudizio dei dati raccolti per mezzo di essi: prima con la sentenza López Ribalda c. Spagna del 9 gennaio 20183, poi con la sentenza Libert c. Francia del 22 febbraio 20184. I fatti di causa rilevanti nel caso López Ribalda possono essere così sintetizzati: il datore di lavoro, gestore di un supermercato, riscontrava una serie di discrepanze tra il livello delle scorte di magazzino e gli incassi di fine giornata. Sospettando che ciò dipendesse da illecite condotte appropriative di beni e/o denaro aziendale poste in essere da uno o più dipendenti, provvedeva ad installare all’interno del negozio dei dispositivi di videoripresa. Ne collocava alcuni, in posizione ben visibile, a sorveglianza dei varchi d’uscita. Ne occultava altri, all’insaputa dei lavoratori, in posizione utile alla sorveglianza generalizzata
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V. Corte EDU, 5 settembre 2017. Sitzia, I limiti del controllo della posta elettronica del lavoratore: una chiara presa di posizione della Grande Camera della Corte eur. dir. uomo, in NGCC, 2017, 12, 1651 ss.; Carta, Corte europea dei diritti dell’uomo: la Grande camera torna sul (e difende il) diritto alla privacy del lavoratore, in Labor, 2017, http://www.rivistalabor.it/wp-content/uploads/2017/09/Barbulescu.pdf; Buffa, Il controllo datoriale delle comunicazioni elettroniche del lavoratore dopo la sentenza Barbulescu 2 della Cedu, in Questione Giustizia, 2017, http://www.questionegiustizia.it/articolo/il-controllo-datoriale-delle-comunicazioni-elettro_18-10-2017.php; Dallacasa, La sentenza Barbulescu e la regola aurea del bilanciamento di interessi in materia di controlli sull’uso degli strumenti informatici da parte dei dipendenti, in corso di pubblicazione in LG, 2018, n. 5. 3 Corte EDU, 9 gennaio 2018, López Ribalda c. Spagna, ric. n. 1874/2013. 4 Corte EDU, 22 febbraio 2018, Libert c. Francia, ric. n. 588/2013. 2
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ed indistinta di tutto il personale di volta in volta addetto al bancone di cassa (covert video surveillance). Ciò avveniva nonostante il codice per la protezione dei dati personali spagnolo imponesse, senza apparenti deroghe, l’obbligo di farne comunicazione ai lavoratori in modo chiaro ed esauriente, nonché l’obbligo di compiuta informazione circa le modalità di trattamento dei dati personali acquisiti con tale mezzo. Grazie ai filmati così ottenuti, venivano individuati e licenziati i responsabili delle accertate sottrazioni. Costoro adivano le corti nazionali lamentando la lesione del proprio diritto alla privacy (profilo rilevante in relazione all’art. 8 Cedu) nonché, sotto il profilo processuale, la violazione del diritto di difesa asseritamente cagionato dall’utilizzazione in giudizio dei dati occultamente carpiti quali prova a loro carico (rilevante in relazione all’art. 6 Cedu). Le corti nazionali rigettavano ogni domanda ritenendo che la condotta datoriale denunziata, considerate le circostanze del caso, fosse da reputarsi lecita e proporzionata all’entità dei fatti posti a giustificazione dei licenziamenti: sia in quanto imposta dalla necessità di assicurare adeguata protezione ai diritti patrimoniali del datore di lavoro, sia in quanto l’unica in grado di preservare l’interesse alla conservazione del patrimonio aziendale comportando al contempo il minor sacrificio possibile dei diritti dei lavoratori destinatari dell’attività di sorveglianza5. L’approccio seguito dai giudici spagnoli ricorda, per certi versi, il percorso giurisprudenziale che in Italia ha condotto all’elaborazione della teoria dei c.d. controlli difensivi. Tale categoria tipologica comprende, come noto, quelle attività di sorveglianza a distanza, quali ad esempio il monitoraggio degli accessi alla rete Internet o del sistema di posta elettronica aziendale, poste in essere per mezzo di strumenti tecnologici non allo scopo di verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni contrattuali da parte dei lavoratori – in quanto tale tradizionalmente vietato dalla formulazione letterale dell’art. 4 st. lav.6 – bensì al fine di accertare la commissione di condotte illecite lesive del patrimonio aziendale ovvero pericolose per la sicurezza del luogo di lavoro. Sono emblematiche, a tale riguardo, la storica sentenza della Corte di Cassazione n. 4746 del 20027 pronunciata in un caso di controllo sull’utilizzo extraprofessionale della rete telefonica aziendale, ritenuto lecito in quanto strumentale alla tutela del patrimonio aziendale, nonché la sentenza della Corte di Cassazione n. 10955 del 20158 riguardante un caso di accesso all’account personale Facebook di un dipendente, ritenuto lecito in quanto strumentale alla tutela della sicurezza dello stabilimento messa a repentaglio dall’inceppamento di un macchinario verificatosi durante l’allontanamento ingiustificato del lavoratore9. Si tratta di fattispecie in cui la giurisprudenza ha elaborato in via pretoria – sostanzialmente praeter legem – un’area immune ai vincoli di legittimità imposti dall’art. 4 st. lav. Analogamente, nel caso López Ribalda i giudici nazionali giudicavano la condotta datoriale legittima nonostante la legge spagnola non prevedesse alcun esplicito esonero
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Sitzia, Videosorveglianza occulta, privacy e diritto di proprietà : la Corte Edu torna sul criterio di bilanciamento, in ADL, 2018, 2, 506 ss. Articolo recentemente sostituito dall’art. 23, comma 1, d.lgs. 24 settembre 2016, n. 185. 7 Cass., 3 aprile 2002, n. 4746, in Dejure. 8 Cass., 27 maggio 2015, n. 10955, in Dejure. 9 V. altresì, ex multis, Cass., 3 aprile 2002, n. 7476; Cass., 23 febbraio 2010, n. 4375; Cass., 23 febbraio 2012, n. 2722; Cass., 1 ottobre 2012, n. 16622. 6
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dall’adempimento dell’obbligo di offrire ai lavoratori sottoposti a controllo una compiuta informazione preventiva.
2. Profili di incompatibilità con l’art. 8 Cedu: il principio di proporzione nel giudizio di bilanciamento.
Come noto, l’art. 8 Cedu, così come gli altri diritti convenzionali c.d. “non assoluti” – quali, ad esempio, l’art. 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione), l’art. 10 (libertà di espressione) l’art. 11 (libertà di riunione e di associazione), ovvero l’art. 2 del Protocollo n. 4 (libertà di circolazione) – presenta una struttura bipartita. Esso è costituito da un primo paragrafo enunciante il contenuto del diritto tutelato (“ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”), e da un secondo paragrafo che enuclea i tre presupposti in presenza dei quali ogni Stato membro è legittimato a sottoporre a restrizioni (interferences) l’esercizio del diritto definito dal primo paragrafo: a) che la restrizione trovi fondamento nella legge (in accordance with the law); b) che la restrizione sia giustificata dalla necessità di perseguire almeno una delle finalità legittime tassativamente elencate dalla norma (a legitimate aim); c) che la restrizione sia necessaria in una società democratica (necessary in a democratic society). Nel caso López Ribalda i ricorrenti non hanno sollevato specifica questione né in merito all’effettiva esistenza di una base normativa di diritto interno giustificativa della restrizione, evidentemente data – forse un po’ troppo – per scontata, né in merito all’esistenza di un fine legittimo a giustificazione della restrizione, essendo quest’ultimo effettivamente individuabile, senza eccessive difficoltà, nella necessità di assicurare “protezione dei diritti […] altrui”, identificabili negli interessi patrimoniali dell’imprenditore. La ratio decidendi della sentenza concentra piuttosto il proprio fulcro sull’ultimo dei tre presupposti contemplati dall’art. 8, par. 2 Cedu, il cui nucleo sostanziale è rappresentato dal principio di proporzione che deve intercorrere tra una determinata restrizione del diritto autorizzata dallo Stato e il fine (legittimo) concretamente perseguito. La Corte Edu ha rilevato che, nel caso di specie, l’attività di “sorveglianza occulta” si è risolta in una misura di controllo diretta a colpire indistintamente l’intero staff impiegato presso il punto vendita, in quanto tale sproporzionata rispetto al fine (in sé legittimo) di tutelare l’interesse organizzativo-patrimoniale del datore di lavoro. Ha pertanto ritenuto che lo Stato convenuto, omettendo di sanzionare tale sproporzione, abbia fallito il giudizio di bilanciamento imposto dall’art. 8, par. 2 Cedu. La valutazione di sproporzione operata dalla Corte è ulteriormente fondata sul rilievo che la legge spagnola espressamente disciplina un articolato bagaglio di strumenti normativi a protezione della privacy sul luogo di lavoro, idoneo a fondare un ragionevole affidamento di tutela da parte dei ricorrenti. Tale particolare spunto motivazionale dimostra come, nella prospettiva convenzionale, l’esistenza nell’ordinamento domestico di una compiuta disciplina legislativa rilevi non solo quale base legale su cui fondare una determinata limitazione di un diritto fondamentale (in accordance with the law), ma anche
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quale elemento costitutivo dell’affidamento dei destinatari della garanzia convenzionale, in quanto tale rilevante alla stregua di autonoma struttura di bilanciamento del giudizio di necessità in una società democratica. È utile ricordare a tale proposito che la Corte, nella sentenza Bărbulescu 2, ha individuato l’elenco delle garanzie che l’ordinamento nazionale deve necessariamente assicurare nella protezione del diritto alla privacy sul luogo di lavoro, pena la violazione degli standards di tutela stabiliti dall’art. 8 della Convenzione, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Edu. Si impone pertanto la verifica: «(i).se il dipendente sia stato preventivamente informato della possibilità che il datore di lavoro controlli la corrispondenza e altre comunicazioni e dell’attuazione di tali misure; (ii).quale sia l’estensione del controllo da parte del datore di lavoro e il grado di intrusione nella privacy del dipendente, distinguendo in proposito tra il monitoraggio del flusso delle comunicazioni e del loro contenuto, nonché il carattere totale o parziale dei dati monitorati, la durata nel tempo del monitoraggio, il numero di persone che hanno avuto accesso ai risultati, l’esistenza o l’assenza di limiti spaziali del monitoraggio; (iii).se il datore di lavoro abbia fornito motivazioni legittime per giustificare il monitoraggio delle comunicazioni e l’accesso ai loro contenuti effettivi, posto che il monitoraggio del contenuto delle comunicazioni è per natura un metodo chiaramente più invasivo, richiede una giustificazione più ampia; (iv).se fosse stato possibile istituire un sistema di monitoraggio basato su metodi e misure meno intrusivi che non accedere direttamente al contenuto delle comunicazioni del dipendente, e se dunque l’obiettivo perseguito dal datore di lavoro avesse potuto essere raggiunto senza accedere direttamente all’intero contenuto delle comunicazioni del dipendente; (v).quali siano le conseguenze del monitoraggio per il lavoratore subordinato e quale l’uso da parte del datore di lavoro dei risultati dell’operazione di monitoraggio, in particolare se tale uso sia conforme con lo scopo perseguito e dichiarato, e se sia necessario in relazione allo stesso; (vi).se siano state predisposte adeguate misure di salvaguardia in favore del lavoratore, in particolare quando le attività di controllo del datore di lavoro siano di natura intrusiva, prevedendosi ad esempio che il datore di lavoro non possa accedere al contenuto effettivo delle comunicazioni, a meno che il lavoratore non sia stato avvisato in anticipo di tale eventualità».
3. La tutela della privacy del lavoratore in luogo pubblico. Con la sentenza López Ribalda la Corte ha ulteriormente chiarito i confini del perimetro applicativo dell’art. 8 Cedu, precisando che il concetto di vita privata ben può includere anche attività di natura professionale che abbiano svolgimento sul luogo di lavoro (vedi, sempre in materia di controlli a distanza e c.d. “tecnologici”, Halford c. Regno Unito, n. 20605/92; Copland c. Regno Unito, n. 62617/00; Köpke c. Germania, n. 420/07; Bărbulescu c. Romania (Grande Camera), n. 61496/08). Ciò vale a sgomberare per l’ennesima volta il campo dall’idea, non di rado sottesa alle impostazioni difensive dei datori di lavoro costi-
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tuiti in giudizio, che il lavoratore, per il solo fatto di trovarsi all’interno dei locali aziendali o impegnato nell’utilizzazione di beni strumentali aziendali (ad esempio l’e-mail o un laptop aziendale), non possa avanzare alcuna pretesa di protezione del proprio diritto alla vita privata. Sulla stessa scia, nella recentissima sentenza del 22 febbraio 2018 pronunciata nel caso Libert c. Francia la Corte Edu ha affermato il principio secondo cui, ricorrendo circostanze particolarmente qualificanti, anche dati di natura extraprofessionale, qualora chiaramente contrassegnati come “privati”, possono conservare una correlazione giuridicamente rilevante con l’ambito concettuale della “vita privata” tutelata dall’art. 8 Cedu seppur inseriti all’interno di un computer aziendale. La stessa Corte di Cassazione italiana10, nel decidere un caso strutturalmente analogo a Bărbulescu, ha avuto modo di precisare che anche nell’ambito del sistema informatico pubblico la casella di posta elettronica del dipendente, purché protetta da una password personalizzata ed identificata da un account registrato presso il provider del servizio, rappresenta un “domicilio informatico” assistito da ius excludendi omnes alios, sicché deve reputarsi illecito l’accesso alla stessa da parte di chiunque, ivi compreso il superiore gerarchico. La sentenza López Ribalda segue, a stretto giro, la sentenza Antović e Mirković c. Montenegro del 18 novembre 201711. Due professori universitari lamentavano che costituisse un’indebita violazione del loro diritto alla privacy la decisione assunta dall’Università del Montenegro di installare videocamere di sorveglianza nelle aule d’insegnamento all’asserito scopo di proteggere l’incolumità delle persone e il patrimonio dell’Università. Le corti domestiche rigettavano ogni domanda risarcitoria affermando il principio che non può porsi un problema di tutela della vita privata in relazione a condotte poste in essere in luogo pubblico. La Corte Edu, pronunciandosi sul ricorso, ha voluto demarcare i limiti dell’ambito applicativo dell’art. 8 Cedu: a giudizio dalla Corte, la mera circostanza che la prestazione lavorativa (l’insegnamento) abbia svolgimento in luogo pubblico non vale ad escludere la propria competenza ratione materiae. Altrimenti detto, anche quando il luogo di lavoro è pubblico (o anche aperto al pubblico, secondo la nostra terminologia giuridica nazionale) l’aspettativa di protezione del diritto alla privacy del lavoratore non svanisce per ciò solo (v., in tema di videosorveglianza in luogo pubblico, la decisiva sentenza del 28 gennaio 2003 Peck c. Regno Unito12). Se diversamente fosse, il mero fatto di trovarsi in luogo pubblico determinerebbe de plano una declaratoria di inammissibilità del ricorso per incompatibilità ratione materiae con la Convenzione ai sensi dell’art. 35, par. 3, lett. a) Cedu. La decisione Antović e Mirković presenta un ulteriore profilo di interesse: la Corte, pur non escludendo che gli scopi perseguiti dal datore di lavoro montenegrino fossero in sé legittimi, ha ritenuto che le dichiarate finalità protettive dell’incolumità pubblica e del patrimonio dell’ente non fossero di rilevanza tale da poter efficacemente bilanciare le misure restrittive adottate dall’Università datrice di lavoro, in quanto quest’ultima avrebbe ben
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Con la sentenza Cass., 28 ottobre 2015, n. 13057. Corte EDU, 18 novembre 2017, Antović e Mirković c. Montenegro, ric. n. 7838/2013. 12 Corte EDU, 28 gennaio 2003, Peck c. Regno Unito, ric. n. 44647/98. 11
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potuto impiegare differenti mezzi a sua disposizione, meno invasivi ma ugualmente idonei ad assicurare il perseguimento di detti scopi. Non è valso a bilanciare tale giudizio di sproporzione il rilievo che l’attività di videosorveglianza, a differenza di quanto avvenuto in López Ribalda, fosse stata effettuata in modo palese a seguito di una compiuta informazione dei lavoratori.
4. Il giudizio di bilanciamento dell’art. 8, par. 2 Cedu e l’adempimento da parte dello Stato dell’obbligo conformativo: spunti comparatistici.
È altresì utile puntualizzare la rilevante differenza che intercorre tra il caso López Ribalda e il caso, per certi versi simile, Köpke c. Germania (ricorso n. 420/07). Analogamente a quanto avvenuto in López Ribalda, a fronte di una serie ammanchi verificatisi all’interno del deposito bevande di un supermercato il datore di lavoro decideva di porre sotto videosorveglianza, all’insaputa dei dipendenti, il locale adibito a deposito bevande e la postazione di cassa. Tuttavia nel caso tedesco i sospetti e le conseguenti attività di controllo si concentravano su due particolari lavoratori, anziché indirizzarsi indistintamente alla generalità dell’organico aziendale. La Corte ha ritenuto che le corti tedesche, riconoscendo che lo scopo legittimo di tutela del patrimonio aziendale fosse stato in concreto perseguito – contrariamente a quanto avvenuto in López Ribalda – facendo uso di misure restrittive le meno invasive tra quelle disponibili, avessero effettuato un corretto bilanciamento degli interessi in gioco13. Se ne deduce che, nella prospettiva convenzionale, assume una notevolissima rilevanza discretiva la circostanza che l’atto di controllo sia circoscritto ad un novero di destinatari determinati, piuttosto che indiscriminatamente esteso ad un gruppo indistinto di lavoratori. La sentenza Köpke offre un utile spunto di riflessione anche in merito all’esame delle modalità conformative prescelte dagli Stati membri nell’adempimento degli obblighi di protezione imposti dalla Convenzione. Come noto, sullo Stato grava non solo l’obbligazione negativa di impedire ogni arbitraria intromissione nella vita privata da parte della pubblica autorità, bensì anche l’obbligazione positiva di adottare ogni misura necessaria a garantire il rispetto della vita privata nelle relazioni intersoggettive orizzontali (vedi, ex multis, Von Hannover c. Germania (no. 2) [GC], nn. 40660/08 e 60641/08). In questa prospettiva l’art. 8 Cedu impone allo Stato l’obbligazione positiva di adottare le misure legislative necessarie a munire di una valida base legale le restrizioni del diritto alla privacy che lo Stato ritenesse di autorizzare. Tuttavia si osserva che, nella prospettiva convenzionale, una certa restrizione del diritto alla privacy può e deve essere considerata in accordance
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V., nello stesso senso, la dissenting opinion espressa alla sentenza López Ribalda dal giudice Dedov, il quale ha espressamente invocato il precedente Köpke a sostegno della tesi che anche le misure di sorveglianza disposte in López Ribalda fossero le uniche disponibili e comunque proporzionate alla gravità del fatto.
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with the law non solo in presenza di un fondamento legale certo ed esaustivo, bensì anche in presenza di orientamenti interpretativi giurisprudenziali consolidati i quali, così come avvenuto in Köpke, permettano di colmare l’eventuale deficit di accessibilità e/o prevedibilità del dato legislativo formale. Nel caso López Ribalda la Corte è invece pervenuta a conclusioni opposte, evidentemente ritenendo che la decisione finale assunta dalla giurisdizione spagnola non fosse adeguatamente fondata su alcuna prassi interpretativa giurisprudenziale consolidata, e forse anzi tale da cogliere per così dire “di sorpresa” il soggetto passivo della violazione. Tale approccio interpretativo, che valorizza fortemente la valenza regolativa propria della fonte giurisprudenziale, non è affatto scontato per un giurista di civil law, nella cui tradizione giuridica il valore precettivo della norma scritta riveste un peso assolutamente preponderante rispetto al ruolo meramente interpretativo riconosciuto all’elaborazione giurisprudenziale. Emblematica, a questo riguardo, la sentenza della Corte Costituzionale n. 230 del 201214 la quale, pronunciandosi in merito all’impatto della pronuncia Del Rio Prada c. Spagna15 (Grande Camera) sull’istituto della revoca della sentenza penale di condanna in caso di overulling giurisprudenziale sopravvenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ha riaffermato con forza che negli ordinamenti di civil law il principio di legalità è fondato sulla forza percettiva della norma scritta, giammai sulla valenza puramente dichiarativa, per quanto autorevole, del precedente giurisprudenziale16. Nella prospettiva convenzionale, possono costituire valido veicolo conformativo strumenti di implementazione appartenenti tanto alla sfera del diritto positivo di livello costituzionale e legislativo primario (quali le clausole costituzionali che tutelano il diritto alla privacy nella vita personale e familiare, il diritto all’onore e alla reputazione, il diritto al segreto delle comunicazioni, nonché i codici legislativi sulla privacy e le relative norme protettive di natura civile, penale, amministrativa, lavoristica), tanto alla sfera regolativa propria delle autorità amministrative preposte alla protezione di particolari diritti convenzionali (prime tra tutte, le autorità garanti della privacy) ovvero dell’autoregolamentazione privatistica (contratti collettivi, accordi sindacali, linee guida, codici di buone pratiche, codici etici adottati dalle associazioni di categoria, prassi consolidate sancite da codici di autoregolazione aziendale), tanto all’azione regolativa promanante dal bagaglio giurisprudenziale consolidato nella giurisdizione nazionale. Nel quadro comparatistico degli Stati membri della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è rinvenibile un’ampia gamma tipologica di misure conformative dell’obbligo di bilanciamento cui l’art. 8, comma 2 Cedu rinvia. Taluni ordinamenti impongono il compimento di adempimenti procedimentali preventivi rispetto all’avvio dell’attività di sorveglianza, controllo ovvero monitoraggio sul luogo
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C. cost., 12 ottobre 2012, n. 230. Corte EDU, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, ric. n. 42750/2009. 16 V. Napoleoni, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in Diritto Penale Contemporaneo, https://www. penalecontemporaneo.it/d/1767-mutamento-di-giurisprudenza-in-bonam-partem-e-revoca-del-giudicato-di-condanna-altola-dellaconsult. 15
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di lavoro, quali l’obbligo di comunicazione preventiva di una particolare policy aziendale concernente l’uso a fini extraprofessionali della rete Internet o del sistema e-mail (ad esempio in Estonia), l’obbligo di preventivo avviso del compimento di atti di ispezione (ad esempio in Austria, Norvegia, Polonia), l’obbligo di notifica preventiva agli organi nazionali di protezione dei dati personali del compimento di attività di trattamento o raccolta di dati (ad esempio in Lussemburgo), l’obbligo di preventivo avviso dei lavoratori interessati ovvero delle loro associazioni rappresentative di un sopravveniente atto di monitoraggio dei dati (Norvegia). Altri ordinamenti impongono l’adozione determinate misure di garanzia destinate a disciplinare lo svolgimento del procedimento di controllo, ad esempio circoscrivendone l’oggetto e/o le finalità ovvero limitandone la durata. Quanto alle misure contenitive delle finalità del controllo, le legislazioni nazionali sovente distinguono tra sorveglianza “automatica” (automatic monitoring) e controlli individualizzati (spot checks). Di regola, esse prescrivono per le forme di sorveglianza automatica e/o generalizzata presupposti legittimanti più stringenti – sino a prevederne l’interdizione assoluta – rispetto a quelli stabiliti per gli spot checks. Come noto, in Italia (ma anche in Liechtenstein) l’automatic monitoring finalizzato al controllo delle modalità esecutive della prestazione contrattuale da parte dei lavoratori è radicalmente vietato, mentre è consentito qualora diretto al perseguimento di specifici scopi stabiliti dalla legge (esigenze organizzative e produttive, sicurezza del lavoro, tutela del patrimonio aziendale) ed assistito da particolari garanzie procedimentali di concertazione sindacale ovvero di autorizzazione amministrativa (art. 4, comma 1, st. lav.). In Lussemburgo vale il principio della c.d. “sorveglianza graduale”, tale per cui l’intensificazione dell’attività di controllo sugli strumenti di lavoro tecnologici è ammessa solo in presenza di sospetti ragionevoli e circostanziati della commissione di condotte illecite. Quanto alle misure limitative dell’oggetto del controllo, le legislazioni nazionali spesso distinguono tra comunicazioni private e comunicazioni professionali. In taluni ordinamenti il datore di lavoro ha il diritto di accesso, ma non di lettura, delle e-mail espressamente contrassegnate come “private” o “personali”, talvolta anche nel caso in cui ne sia stata espressamente vietata l’utilizzazione a fini personali (ad esempio in Portogallo, Francia, Germania). In altri ordinamenti è consentito al datore di lavoro l’accesso alle e-mail “private” dei dipendenti solo se giustificato dalla necessità di accertare la commissione di un reato (ad esempio in Svezia). Vi sono poi ordinamenti in cui il potere di accesso è limitato alla cronologia del browser Internet, senza possibilità di visualizzazione della web page visitata dall’utente (Danimarca). Vi sono infine ordinamenti che prevedono misure limitative peculiari, quali la presenza obbligatoria di un testimone ovvero dell’amministratore di sistema che assista alle operazioni di controllo, l’obbligo di redazione di un report che dia conto delle operazioni di controllo svolte, l’obbligo di coinvolgere i rappresentanti dei lavoratori nelle procedure di verifica, l’obbligo di applicazione del principio del “last intrusive means” (Austria).
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5. La sentenza Libert c. Francia: il margine di
apprezzamento in un caso di accesso a files “personali”. In particolare, il ruolo della policy aziendale. La recente sentenza Libert c. Francia offre un’ulteriore interessante occasione per verificare le concrete modalità con cui tali strutture di bilanciamento, così come variamente tratteggiate nel quadro comparatistico europeo, sono in grado di operare nell’ambito del giudizio di compatibilità rispetto all’art. 8 Cedu. Datore di lavoro è la società che gestisce i trasporti ferroviari francesi (SNCF), ente di diritto pubblico sottoposto alla vigilanza dello Stato ed operante in regime di monopolio nell’erogazione di un pubblico servizio. Allo Stato francese è anche riservato il potere di nomina del direttore generale dell’ente. La società datrice di lavoro, per mezzo di un’ispezione mirata sul computer aziendale del lavoratore effettuata all’insaputa di quest’ultimo, ha avuto accesso a files fotografici e video di carattere asseritamente pornografico collocati dal lavoratore all’interno di una cartella in condivisione, contrassegnata dal nome di default “D:/données” (“dati”) ed abitualmente utilizzata per la conservazione di documenti di lavoro dall’intero staff aziendale. Anteriormente al compimento dell’atto di controllo il lavoratore aveva provveduto a ridenominare sul proprio computer personale tale cartella attribuendole il nuovo titolo “D:/données personnelles” (“dati personali”). La legge francese in vigore all’epoca dei fatti stabiliva che il datore di lavoro fosse autorizzato dal aprire qualsivoglia file presente all’interno del computer aziendale, eccetto il caso che il file fosse chiaramente identificato come “privato”. L’accesso a files “privati” era ammesso nel solo caso di “grave rischio ovvero in circostanze eccezionali”, e a condizione che il lavoratore fosse presente all’apertura ovvero fosse stato debitamente informato. La policy aziendale di SNCF, nella sostanza allineandosi ai principi di legge regolatori della materia, prevedeva che i lavoratori potessero occasionalmente utilizzare gli strumenti informatici aziendali per scopi privati, nel rispetto di alcune particolari regole interne, e comunque con la prescrizione che le informazioni a carattere privato dovessero essere chiaramente identificate come tali per mezzo dell’opzione “privato” presente tra gli strumenti di Outlook. Le corti francesi hanno ritenuto che nel caso di specie la condotta tenuta dal datore di lavoro fosse giustificata in quanto la mera apposizione sulla cartella della dicitura “personale” non è idonea ad identificare in modo sufficientemente chiaro ed univoco la natura privata dei files ivi contenuti, né tale da impedire l’equivoco, in cui poi la società ha asserito di essere incorsa, che si trattasse piuttosto di files sì “personali”, ma pur sempre afferenti attività lavorativa di interesse aziendale, e quindi non “privati”. Innanzi tutto, emerge una differenza macroscopica rispetto al caso Bărbulescu, ove il datore di lavoro era un soggetto di diritto privato: nel caso Libert la Corte ha ritenuto che SNCF, in ragione del suo stretto collegamento strutturale con lo Stato francese, dovesse essere qualificata alla stregua di pubblica autorità. Pertanto, la Corte ha proceduto all’analisi delle ragioni di doglianza sollevate dal ricorrente sotto l’angolo non dell’obbligazione positiva di adottare ogni misura necessaria a garantire il rispetto della vita privata nelle relazioni intersoggettive orizzontali, bensì dell’adempimento dell’obbligazione negativa di impedire ogni diretta arbitraria intromissione da parte della pubblica autorità.
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Quanto al merito della lamentata violazione dell’art. 8 Cedu la Corte ha ritenuto che, considerate tutte le circostanze del caso, le autorità nazionali abbiano individuato un corretto punto di bilanciamento degli interessi in gioco, senza eccedere i limiti del margine di apprezzamento loro riservato. Nell’ambito del giudizio di bilanciamento, il concetto di necessità dell’ingerenza in una società democratica implica che l’interferenza posta in essere dallo Stato, o comunque da questi autorizzata, sia fondata su un bisogno socio-politico imperativo e sia proporzionata rispetto al fine legittimo perseguito. Come noto, la Corte non impone agli Stati membri un parametro di proporzione mezzi-fini predefinito in modo rigido, bensì riconosce un margine di apprezzamento più o meno ampio nell’individuazione dello standard interno di proporzione, purché compatibile con i limiti stabiliti dalla Convenzione. L’ampiezza del margine di apprezzamento assume una geometria variabile la quale tendenzialmente rispecchia – seppur non in misura esattamente matematica – l’ampiezza dell’eventuale consenso esistente tra gli Stati membri in merito al significato di un determinato elemento costitutivo della fattispecie convenzionale. Esistono anche ambiti convenzionali alla radice sottratti a qualsivoglia margine di apprezzamento da parte degli Stati. Si consideri ad esempio la decisione di cosa costituisca “tortura”. La valenza semantica del termine “tortura”, così come definita per la prima volta dalla sentenza Irlanda c. Regno Unito del 18 gennaio 1978, è sottratta alla disponibilità definitoria degli Stati sull’assunto del carattere assoluto del diritto a non subire trattamenti disumani e degradanti previsto dall’art. 3 Cedu17. Diversamente, nella ricostruzione dell’ambito applicativo dell’art. 8 Cedu, in virtù della natura relativa del diritto da esso previsto, la giurisprudenza della Corte ha tradizionalmente riconosciuto agli Stati un certo margine di apprezzamento dell’individuazione della valenza semantica e sostanziale dei concetti di “vita privata” (art. 8, par. 1), “sicurezza nazionale”, “pubblica sicurezza”, “benessere economico del paese”, “difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati”, “protezione della salute o della morale”, “protezione dei diritti e delle libertà altrui” (art. 8, par. 2), le cui definizioni non sono quindi rigidamente indisponibili. A questo proposito la sentenza Libert offre uno spunto di particolare interesse sistematico. Il giudizio di bilanciamento formulato dalla Corte, lungi dal atteggiarsi alla stregua di astratta verifica di compatibilità della norma domestica rispetto al parametro convenzionale, si mostra fortemente radicato sulla valutazione in concreto dell’insieme degli elementi fattuali rilevanti, i quali vengono indifferentemente assunti in ponderazione comparativa pur essendo tra loro eterogenei. La Corte infatti, nel verificare se i motivi allegati a propria difesa dallo Stato francese siano “pertinenti e sufficienti” a giustificare una tale ingerenza nella privacy del ricorrente, orienta il fuoco del proprio sindacato sia sul contenuto sostanziale del diritto positivo nazionale (le leggi in materia di privacy sul luogo di lavoro), sia sulla struttura dei parametri di proporzione concretamente applicati dalla giurisdizione
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A questo proposito sarà interessante analizzare i prossimi sviluppi giurisprudenziali al fine di verificare se e in che limiti la nozione di tortura delineata dall’art. 613 bis c.p., introdotto dalla l. 14 luglio 2017, n. 110, sia rispettosa del nucleo definitorio indisponibile stabilito dalla Corte Edu.
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domestica, sia su elementi di puro fatto che nulla hanno a che vedere col diritto di fonte statuale (normativo e giurisprudenziale che sia), quali le regole previste dalla policy aziendale della società datrice di lavoro. Tanto che quest’ultime, nella parte in cui prescrivono l’etichettatura dei files “privati” quale misura di garanzia a fronte di accessi arbitrari a documenti personali, hanno svolto un decisivo ruolo di bilanciamento nell’economia del complessivo giudizio di proporzione operato dalla Corte (v. Libert c. Francia, § 52). La metodologia giuridica espressa da un tale approccio può risultare tutt’altro che familiare agli occhi di un giurista di civil law. Sotto il profilo comparatistico, nel quadro europeo sono presenti numerosi Stati i quali non si limitano a disciplinare i presupposti e le modalità di trattamento dei dati personali del lavoratore, bensì impongono particolari requisiti e/o limitazioni per il possibile contenuto delle policies aziendali in materia di utilizzazione di Internet e tutela della privacy. Taluni ordinamenti prevedono infatti che le policies non possano essere adottate se non con il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori (quali ad esempio gli organismi sindacali aziendali): in alcuni casi le legislazioni nazionali subordinando la possibilità di legittima sorveglianza dei lavoratori all’acquisizione del consenso da parte dei loro organizzazioni rappresentative (Austria, Belgio e Finlandia), in altri casi esse impongono che qualsivoglia policy aziendale in materia di utilizzazione di Internet e tutela della privacy non possa essere adottata se non per mezzo di un accordo collettivo (Croazia). Altri ordinamenti, in senso opposto, prevedono quale misura di garanzia una sorta di principio di “decontrattualizzazione” della tutela. La Corte costituzionale della Repubblica Ceca, ad esempio, ha escluso che le tutele previste dal codice del lavoro nazionale a protezione del lavoratore possano essere derogate per mezzo di accordi contrattuali individuali o collettivi. Analogamente, il codice del lavoro del Lussemburgo esclude che il consenso eventualmente prestato dal lavoratore possa costituire un criterio valido ai fini dell’autorizzazione dell’attività di sorveglianza.
6. L’adempimento dell’obbligo conformativo da parte dello Stato italiano: l’art. 4, comma 3, st. lav.
Nell’ambito del quadro normativo italiano, l’art. 4, comma 3, st. lav., così come novellato dall’art. 23, comma 1 del decreto legislativo n. 151/2015 (c.d. Jobs Act), consente l’utilizzabilità “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro” sia delle informazioni raccolte per mezzo di strumenti di sorveglianza “dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” (fermo il rispetto delle garanzie procedurali stabilite dal comma 1), sia dei dati rilevati per mezzo di strumenti di lavoro tecnologici e di strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze (comma 2). Tale facoltà è subordinata a una duplice condizione: che sia fornita al lavoratore “adeguata informazione delle modalità
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d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli” e che ciò avvenga “nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”18. Per mezzo di tale rinvio al codice della privacy viene veicolato nell’ambito del giudizio ordinario del lavoro l’articolato sistema delle fonti regolative promananti dall’Autorità Garante della privacy (quali linee guida, deliberazioni, prescrizioni, provvedimenti di tutela paragiurisdizionale emessi all’esito della procedura di ricorso ex artt.145 ss. del codice privacy). Come noto, si tratta molto spesso di atti amministrativi di natura provvedimentale o generale, ma privi di efficacia normativa tecnicamente intesa, i quali prescrivono ovvero raccomandano l’adozione delle più svariate misure di protezione della privacy sul luogo di lavoro. Si considerino, ad esempio, il provvedimento del Garante della privacy del 2 aprile 2008, il quale stabilisce che anche il solo trattamento dei nominativi dei mittenti e/o dei destinatari delle e-mail concreta trattamento dei dati personali, nonché le Linee guida del Garante, le quali ad esempio stabiliscono che la mancanza di una specifica policy che disciplini l’utilizzo della posta elettronica aziendale “può determinare una legittima aspettativa del lavoratore, o di terzi, di confidenzialità rispetto ad alcune forme di comunicazione”. Si tratta di provvedimenti i quali, in ragione del loro contenuto dispositivo, ben possono rilevare alla stregua di strutture di bilanciamento ai sensi dell’art. 8, comma 2 Cedu, così rivestendo un rilevantissimo ruolo nella complessiva dinamica conformativa dello Stato rispetto a tale particolare obbligo convenzionale. Si pone allora una questione cruciale: se e in che limiti i provvedimenti del Garante della privacy sono vincolanti, o comunque utilizzabili, nell’ambito del giudizio instaurato dinanzi al giudice del lavoro? Secondo i tradizionali principi della teoria generale, tali atti sono formalmente e sostanzialmente amministrativi privi di valore tecnicamente normativo, in quanto tali esorbitanti dal novero delle fonti del diritto. A stretto rigore, a tali provvedimenti potrebbe essere tutt’al più riconosciuta una generica attitudine ad orientare l’interpretazione giudiziale delle disposizioni sostanzialmente normative, in primis quelle di legge, ma non un valore tecnicamente vincolante per il giudice. Insomma, nell’ambito del giudizio di bilanciamento i provvedimenti del Garante della privacy giocherebbero un ruolo del tutto secondario, comunque non tale da competere con l’efficacia vincolante propria delle norme di legge. È evidente che la portata conformativa del giudizio di bilanciamento effettuato dal giudice ne risulterebbe fortemente ridimensionata. Nemmeno deve darsi per scontato che il giudice sia istituzionalmente tenuto ad effettuare tale specifico giudizio di bilanciamento, come fosse un compito ineluttabile della giurisdizione. Le condizioni di adesione dello Stato alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo fanno gravare l’obbligo conformativo sullo Stato del suo complesso, non necessariamente sulla sua articolazione giurisdizionale, spettando semmai alla discrezionalità di ciascuno Stato la scelta degli strumenti – legislativi, amministrativi, giurisdizionali – di implementazione del diritto della Convenzione. In questa prospettiva, deve essere valorizzato come tutt’altro che pleonastico il rinvio fatto dall’art. 4, comma 3, st. lav. al codice della privacy il quale, anche in virtù di una do-
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Barraco, Sitzia, Poteri di controllo e privacy, Ipsoa, 2016, 111 ss.
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verosa lettura costituzionalmente (tramite l’art. 117 Cost.) e convenzionalmente orientata, fornisce una chiara base legale per l’ingresso a pieno titolo nel processo del lavoro dei provvedimenti del Garante, riconoscendone un ruolo primario nel processo conformativo rispetto all’art. 8 Cedu. In secondo luogo, tale rinvio al codice della privacy nella sua integralità attribuisce un nuovo valore sistematico alla norma cardine prevista dall’art. 11 cod. priv., in particolare nella parte in cui al comma 2 prevede la sanzione dell’inutilizzabilità dei dati personali trattati in violazione delle norme del codice, la cui applicabilità nel giudizio del lavoro è stata tradizionalmente esclusa in conseguenza dell’autosufficiente circolo interpretativoapplicativo di cui agli artt. 4 st. lav. e 114 cod. priv.. In tale prospettiva, si consideri l’impatto giurisdizionale che il recente provvedimento adottato dal Garante per la protezione dei dati personali n. 139 dell’8 marzo 2018 è suscettibile di determinare. Con tale decisione il Garante ha ritenuto che il software aziendale di gestione clienti CRM (Customer Relationship Management) non debba essere annoverato tra gli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione”, quindi impiegabile senza obbligo di procedura autorizzativa ai sensi dell’art. 4 st. lav., bensì tra gli strumenti “dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”. Tale software consente lo sviluppo di elaborazioni di dati personali riferibili all’attività dei singoli operatori, tra cui l’estrazione di report giornalieri relativi alla durata delle chiamate, al numero di telefonate ricevute e alla causale della chiamata. È evidente l’impatto che tale decisione è suscettibile di produrre sia sulle prassi aziendali (si pensi alla diffusa utilizzazione di software comparabili a CRM, quali Super Scout e Blue’s), sia sul contenzioso giurisdizionale che potrebbe scaturirne. È illuminato da nuova luce anche il provvedimento n. 53 dell’1 febbraio 2018 con il quale il Garante della privacy, in tema di proporzionalità del trattamento dei dati, ha enunciato il principio secondo cui il trattamento, quando effettuato per finalità di tutela dei propri diritti in giudizio, deve riferirsi a contenziosi in atto o a situazioni precontenziose, non ad astratte e indeterminate ipotesi di possibile difesa o tutela dei diritti19. Suscita infine particolare interesse la disposizione introdotta in ambito eurounitario dall’art. 6, par. 1, lett. f) del Regolamento (UE) 2016/679 del 27 aprile 2016 sul trattamento dei dati personali (c.d. codice europeo della privacy), il quale stabilisce quale condizione di liceità del trattamento che quest’ultimo sia “necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l’interessato è un minore”. Il legislatore dell’Unione europea ha voluto espressamente introdurre nell’ordinamento con norma self-executive, e quindi immediatamente vincolante per gli Stati membri in ogni loro articolazione (legislativa, amministrativa, giurisdizionale), il principio di bilanciamento dell’interesse – sempreché legittimo – cui è funzionalmente connessa l’attività di trattamento con il concorrente interesse alla protezione delle libertà fondamentali del titolare dei dati trattati. Sembra
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Vedi anche i provvedimenti del 19 marzo 2015, del 20 febbraio 2014 e del 4 giugno 2009.
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pertanto aprirsi, quanto meno nelle materie comprese nella sfera di competenza del diritto dell’Unione, un ampio margine di immediata sindacabilità giurisdizionale nell’ambito del quale il giudice dispone di un diretto potere di bilanciamento.
7. Profili di incompatibilità con l’art. 6 Cedu: l’utilizzazione
in giudizio dei dati personali.
La sentenza López Ribalda prende posizione anche in merito alla prospettata violazione dell’art. 6, comma 1 Cedu (diritto a un equo processo). Secondo la prospettazione dei ricorrenti, l’utilizzazione come prova in giudizio a loro carico dei filmati ottenuti grazie all’attività di videosorveglianza occulta ha comportato la privazione a loro danno della facoltà di esercitare i diritti di accesso, rettificazione, cancellazione e contestazione garantiti dall’art. 5 del codice per la protezione dei dati personali spagnolo. Come noto, l’art. 6 Cedu riconosce il diritto ad una fair hearing20 quale attributo imprescindibile del “giusto processo”, ma non prescrive specifiche regole di ammissibilità ovvero criteri di valutazione delle prove, la cui disciplina è demandata alla normativa domestica e alla prassi applicativa delle corti nazionali. Compito della Corte Edu è invece quello di verificare se le modalità di svolgimento del giudizio dinanzi all’autorità nazionale siano state tali da determinare l’iniquità del procedimento complessivamente considerato (as a whole unfair). In tale prospettiva, in López Ribalda la Corte Edu ha rilevato come i ricorrenti abbiano avuto comunque modo di contestare in giudizio l’autenticità delle registrazioni prodotte come prova a loro carico, e come tali filmati non siano stati la sola prova sulla quale ha trovato fondamento la decisione domestica sfavorevole ai ricorrenti, avendo quest’ultima tenuto debitamente conto anche delle dichiarazioni rese da testimoni regolarmente assunti in contraddittorio. Nella sostanza, la Corte ammette che nel processo del lavoro ben possono concorrere rimedi compensatori in grado di porre rimedio al vulnus provocato dalla violazione di una particolare garanzia processuale. È utile ricordare che il contenzioso italiano dinanzi alla Corte Edu già conosce una nutrita serie di precedenti giurisprudenziali riguardanti la valutazione di equità complessiva del processo, seppur principalmente riguardanti il processo penale. Nella sentenza Ben Moumen c. Italia del 23 giugno 2016, pronunciata in un caso di condanna fondata sulla lettura delle dichiarazioni rese da un testimone poi divenuto irreperibile, la Corte Edu ha ritenuto che il diritto di difesa dovesse essere bilanciato con l’interesse pubblico e l’interesse delle vittime al perseguimento dei reati. Pertanto, l’applicazione da parte della giurisdizione nazionale di adeguati rimedi compensatori, quali l’assunzione a fondamento della condanna di ulteriori elementi probatori (ad esempio dati medico-legali) e la pru-
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Il testo italiano della Convenzione traduce fair hearing in “diritto a che la sua causa sia esaminata equamente”.
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Francesco Perrone
dente valutazione di attendibilità del dichiarante fatta dal giudice, è in grado di bilanciare l’omessa osservanza di una determinata garanzia processuale. Diversamente, nel caso Cafagna c. Italia, sentenza 12 ottobre 2017, la Corte Edu ritenuto violato l’art. 6 della Convenzione proprio in quanto l’utilizzazione delle dichiarazioni rese dal denunciante, poi resosi irreperibile, quale prova decisiva a carico dell’imputato definitivamente condannato non è stata bilanciata da alcun rimedio compensatorio sufficiente ad escludere che il giudizio risultasse nel suo complesso iniquo21.
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V, altresì, Lorefice c. Italia, sent. 29 giugno 2017, in un caso di omesso riesame in appello del teste determinante ai fini del giudizio di condanna e Fornataro c. Italia, sent. 19 ottobre 2017, in un caso di omessa assunzione della psicologa minorile in giudizio celebrato con rito abbreviato e prevalente consenso dell’imputato nella scelta di un rito di natura premiale.
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Incarichi di lavoro autonomo nelle P.A. e normative recenti Sommario: 1. Premessa. - 2. Le collaborazioni organizzate dal committente. – 3. Il lavoro autonomo nelle P.A. a seguito della riforma Madia. – 4. Brevi considerazioni.
Sinossi. L’autore si sofferma sulle disposizioni della “riforma Madia” in tema di incarichi di lavoro autonomo nelle pubbliche amministrazioni, in particolare sul divieto di attivare “collaborazioni organizzate”. L’opinione dell’autore, però, è che nulla sia cambiato rispetto alla normativa precedente. Abstract. The author focuses on provisions of the “Madia reform” concerning external collaborations with italian public administrations. Special attention is devoted to the prohibition to initiate the so-called “collaborazioni organizzate”. The author conclusions are that almost nothing changed compared to the previous regolation. Parole chiave: Lavoro autonomo – Collaborazioni organizzate – Amministrazioni pubbliche
1. Premessa. Il lavoro pubblico ha conosciuto altalenanti vicende dal 1992 a oggi, passando attraverso quattro riforme, vale a dire la “prima privatizzazione” del biennio 1992-1993, la “seconda privatizzazione” del biennio 1997-1998, la cd. “riforma Brunetta” del 2009 e la cd. “riforma Madia” del triennio 2015-2017. La legge delega 7 agosto 2015, n. 1241 ha dato l’avvio a quest’ultima, prevedendo l’emanazione di uno o più decreti legislativi finalizzati alla revisione di molteplici istituti del pubblico impiego privatizzato, tra cui le forme di lavoro flessibile.
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Cfr. l’ampia analisi della legge sul n. 3/2015 di RGL, con i contributi di Barbieri, Bellavista, D’Auria, Realfonzo, Viscione, L. Zoppoli,
Luca Busico
Il d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, emanato in attuazione della citata l. n. 124/2015, ha apportato varie modifiche alla disciplina degli incarichi di lavoro autonomo conferiti dalle amministrazioni pubbliche. Ma per trattare tali modifiche è indispensabile fare un passo indietro, precisamente alla riforma del mercato del lavoro del 2015 (cd. “Jobs act”).
2. Le collaborazioni organizzate dal committente. L’art. 1, comma 7 della l. 10 dicembre 2014, n. 183 ha delegato il Governo ad adottare un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, con lo scopo di rendere i contratti vigenti più coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo, oltre che di rendere più efficiente l’attività ispettiva2. L’attuazione è avvenuta coll’emanazione del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 813, composto da 57 articoli e quasi 200 corposi commi, i quali, per complessità e persistente frammentazione del dettato normativo, non si avvicinano all’idea di un codice semplificato del lavoro, che pure era uno degli obiettivi della legge delega4. L’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 81/2015 introduce nell’ordinamento lavoristico le collaborazioni organizzate dal committente, definite come «rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro»5, disponendo che alle stesse si applica dall’1 gennaio 2016 la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La finalità della norma è duplice: 1) allargare l’ambito applicativo della disciplina del lavoro subordinato, includendovi le collaborazioni autonome organizzate dal committente; 2) distinguere le collaborazioni autonome genuine da quelle false attraverso un filtro selettivo costituto da due elementi: il carattere esclusivamente personale della prestazione e l’eterorganizzazione6.
Borgogelli, Garilli, Vettor e D’Onghia, nonché sul n. 5/2015 di GDA, con i contributi di Mattarella, Carotti, Vesperini, Macchia, Fiorentino, Battini, Bonura-Foderico e Auriemma. 2 Cfr. De luca, Legge delega sui tipi di contratto di lavoro: interpretazione costituzionalmente orientata in favore delle leggi delegate, in LG, 2015, 349; Treu, In tema di Jobs act. Il riordino dei tipi contrattuali, in DLRI, 2015, 155. 3 Cfr.: Tiraboschi, Prima lettura del d.lgs. n. 81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro, in www.adapt.it, n. 45/2015; Rausei, Il codice dei contratti, in DPL, 2015, 1657; Miscione, Il Jobs act sulle tipologie contrattuali con certezze e qualche ambiguità (d.lgs. n. 81 del 2015), in LG, 2015, 1085. 4 Il condivisibile giudizio è di Tiraboschi, op. cit. 5 Tra i numerosissimi contributi apparsi cfr.: Nogler, La subordinazione del 2015: alla ricerca dell’“autorità dal punto di vista giuridico”, in WP D’Antona, It., n. 267/2015; Tiraboschi, Il lavoro etero-organizzato, in DRI, 2015, 978; Tosi, L’art. 2, comma 1, D.lgs. n. 81/2015: una norma apparente?, in ADL, 2015, 1117; Marazza, Jobs act e prestazione d’opera organizzata, in GC, 2016, 215; Ciucciovino, Le “collaborazioni organizzate dal committente” tra autonomia e subordinazione, in RIDL, 2016, I, 327; G. Santoro Passarelli, Lavoro etero diretto, etero organizzato, coordinato ex art. 409, n. 3, c.p.c., in RGL, 2016, 91; Ficari, Le collaborazioni organizzate dal committente, in MGL, 2016, 90; Diamanti, Il lavoro etero-organizzato e le collaborazioni coordinate e continuative, in DRI, 2018, 145. Altri contributi saranno citati nelle successive note. 6 Cfr. Razzolini, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente, in WP D’Antona, It., n. 266/2015.
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Incarichi di lavoro autonomo nelle P.A. e normative recenti
In termini sintetici si può dire che la prestazione può essere considerata eterorganizzata non quando le modalità di esecuzione sono concordate di volta in volta, o predeterminate nel contratto, ma solo in presenza di un potere di ingerenza unilaterale penetrante e qualificato del committente, che investe, oltre i tempi e i luoghi, anche il contenuto della prestazione medesima7. Solo tale potere di ingerenza unilaterale rende le collaborazioni morfologicamente contigue al lavoro subordinato ai fini dell’applicazione della relativa disciplina. Non essendo questa la sede per gli approfondimenti sull’istituto (per i quali si rimanda alla sterminata produzione dottrinale), è da ritenersi del tutto condivisibile l’opinione di autorevole dottrina, secondo la quale intorno all’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 si è scatenata una battaglia interpretativa senza precedenti, inversamente proporzionale alla pochezza ed insignificanza della riforma8. Ad avviso di chi scrive la norma ha solo trasformato in diritto positivo alcuni tra gli indici di qualificazione del rapporto di lavoro subordinato elaborati dalla giurisprudenza9.
3. Il lavoro autonomo nelle P.A. a seguito della riforma
Madia.
Il comma 4 del citato art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, nella formulazione originaria10, conteneva una duplice previsione relativa alle amministrazioni pubbliche: 1) la non applicazione della disposizione di cui al comma 1 fino al completo riordino della disciplina dell’utilizzazione dei contratti di lavoro flessibile; 2) il divieto di stipulare contratti di collaborazione con le caratteristiche di cui al comma 1 a partire dall’1 gennaio 201711, termine posticipato all’1 gennaio 2018 dal d.l. 30 dicembre 2016, n. 244. La disposizione rinviava, pertanto, ai decreti attuativi della l. n. 124/2015 la revisione della disciplina dei contratti di collaborazione conferiti dalle amministrazioni pubbliche12. La revisione è avvenuta a opera del d.lgs. n. 75/201713, che ha inserito nell’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001 il comma 5-bis, il quale, riproducendo le previsioni dell’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 81/2015, vieta alle amministrazioni pubbliche l’attivazione di rapporti di
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Cfr.: Mezzacapo, La nuova figura delle “collaborazioni organizzate dal committente”. Prime osservazioni, in Questione giustizia, n. 3/2015; Nuzzo, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, in WP D’Antona, It., n. 280/2015. 8 Cfr. Mazzotta, Lo strano caso delle “collaborazioni organizzate dal committente”, in Labor, 2016, 7. Anche secondo Magnani, Il contratto di lavoro subordinato, in WP D’Antona, It., n. 360/2018, alla norma è stata attribuita una valenza sistematica eccessiva, dal momento che è evidente che il legislatore si è mosso, come nella legge Fornero, in un’ottica esclusivamente antielusiva. 9 Cfr. G. Santoro Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., in WP D’Antona, It., n. 278/2015. 10 Il testo vigente della norma è il seguente «la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni». 11 Cfr. C. conti, sez. contr. Piemonte, 23 giugno 2016, n. 75, in www.corteconti.it. 12 Cfr. Fontana, I co.co.co. nella pubblica amministrazione scompariranno davvero ?, in LPA, 2015, 413. 13 Cfr. Magri, Il lavoro pubblico tra sviluppo ed eclissi della “privatizzazione”, in GDA, 2017, 581.
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Luca Busico
collaborazioni aventi i caratteri dell’esclusiva personalità, della continuità e dell’eterorganizzazione. Sorge più di un dubbio circa la necessità della suddetta previsione alla luce della previgente disciplina in tema di incarichi di lavoro autonomo dettata dall’art. 7, comma 6 del d.lgs. n. 165/2001 (oggetto di poderosa attività ermeneutica da parte della Corte dei Conti14), che individuava nell’incarico esterno un rimedio eccezionale per far fronte a esigenze peculiari e temporanee, per le quali e amministrazioni necessitano dell’apporto di specifiche competenze professionali non rinvenibili al loro interno15. Inoltre, il terzo periodo del citato art. 7, comma 6 vietava alle pubbliche amministrazioni il ricorso a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie e l’utilizzazione dei collaboratori come lavoratori subordinati, pena la responsabilità erariale in capo al dirigente che ha stipulato i contratti16. Dal descritto quadro normativo e giurisprudenziale emerge che nelle pubbliche amministrazioni le collaborazioni personali, ripetitive e organizzate in tutto e per tutto dal committente sono vietate da almeno un decennio17. Il d.lgs. n. 75/2017 ha apportato anche delle modifiche all’art. 7, comma 6 del d.lgs. n. 165/2001, in particolare: 1) è stato eliminato il riferimento al carattere occasionale, o coordinato e continuativo, delle prestazioni, mantenendo la più generale dizione di contratti di lavoro autonomo18; 2) la lettera d) non indica più il luogo di espletamento della prestazione tra gli elementi del contratto da determinare preventivamente. All’indomani dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 75/2017 numerosi organi di stampa, anche specializzata, hanno dato la seguente lettura dei commi 5-bis e 6 del d.lgs. n. 165/2001: la riforma Madia ha detto la parola fine all’utilizzazione delle collaborazioni coordinate e continuative nel settore pubblico. Tale lettura non trova, però, alcuna rispondenza nella vigente normativa in materia. L’art. 52 del d.lgs. n. 81/2015 al comma 1 abroga le disposizioni di cui agli articoli da 61 a 69-bis del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (che disciplinavano il lavoro a progetto), al comma 2 prevede espressamente la salvezza di quanto disposto dall’art. 409 c.p.c. (che al n. 3 contempla le collaborazioni continuative e coordinate). Nonostante talune indicazioni contenute nella legge delega n. 183/2014 (art. 1, comma 2, lett. b, n. 3; art. 1, comma 7, lett. g) circa il superamento delle collaborazioni
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Sia consentito rinviare a Busico, Le principali questioni affrontate dalla giurisprudenza in tema di incarichi di lavoro autonomo nelle amministrazioni pubbliche, in Lexitalia.it, n. 4/2015. 15 Cfr.: C. conti, sez. centr. contr., 13 gennaio 2012, n. 1; C. conti, sez. contr. Lombardia, 17 giugno 2013, n. 243; C. conti, sez. contr. Basilicata, 24 settembre 2014, n. 99; C. conti, sez. giur. Lazio, 24 febbraio 2015, n. 124; C. conti, sez. centr. contr., 21 aprile 2015, n. 8; C. conti, sez. I app., 14 luglio 2015, n. 438; C. conti, sez. centr. contr., 25 agosto 2016, n. 11, tutte reperibili in www.corteconti.it. 16 Cfr. Pasqualetto, I molteplici profili di responsabilità del dirigente pubblico nelle ipotesi di illegittimo utilizzo dei contratti non standard, in LPA, 2014, 41. 17 Cfr. Zilli, Il lavoro flessibile nelle PP.AA. dopo il Jobs act, in LPA, 2015, 471. 18 L’incipit dell’art. 7, comma 6, nella precedente versione era il seguente «Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria». Quello vigente è il seguente «Fermo restando quanto previsto dal comma 5-bis, per specifiche esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire esclusivamente incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria».
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Incarichi di lavoro autonomo nelle P.A. e normative recenti
coordinate e continuative, in sede attuativa ciò non è accaduto: esse non vengono affatto eliminate dall’ordinamento, anzi vengono totalmente rilegittimate19. Inoltre, l’art. 409, n. 3, c.p.c. è stato integrato a opera della legge 22 maggio 2107, n. 81 (cd. “Jobs act del lavoro autonomo”) con una (o un tentativo di) definizione del concetto di coordinamento20. Ne consegue che il divieto di cui all’art. 7, comma 5-bis del d.lgs. n. 165/2001 riguarda solo le collaborazioni eterorganizzate e non può essere esteso a qualsiasi tipologia di collaborazione coordinata e continuativa. Quest’ultima è pur sempre un sottotipo del lavoro autonomo e in seno alle tipologie di questo deve essere ricondotta21.
4. Brevi considerazioni. La riforma Madia ha mantenuto la possibilità per le amministrazioni pubbliche di ricorrere a risorse esterne mediante il conferimento di incarichi di lavoro autonomo. Le figure di lavoro autonomo previste dalla normativa in materia rimangono la prestazione professionale, la prestazione occasionale e la collaborazione coordinata e continuativa. Anche in tal caso, come per l’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, si è di fronte a innovazioni dalla portata limitata, se non insignificante.
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Cfr.: Perulli, Il “falso” superamento dei cococo nel Jobs act, in www.nelmerito.com, 6 marzo 2015; A. Zoppoli, La collaborazione eterorganizzata: fattispecie e disciplina, in WP D’Antona, It., n. 296/2016. 20 Cfr.: Perulli, Il Jobs act autonomi: nuove (e vecchie) tutele per il lavoro autonomo non imprenditoriale, in RIDL, 2017, I, 194; GheidoCasotti, Jobs act autonomi, in DPA, 2017, 1607; Borghesi, La L. n. 81/2017 inserisce nell’art.409 c.p.c. una norma omeopatica, in LG, 2017, 737. 21 Cfr. Pallini, Il lavoro parasubordinato e autonomo, in Esposito, Luciani, A. Zoppoli, L. Zoppoli, (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Giappichelli, 2018, 134.
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza Corte di G iustizia UE, sentenza 6 febbraio 2018, causa C-359/2016; Pres. Lenaerts – Rel. Regan – Avv. Gen. Saugmandsgaaar Øe – Ömer Altun + altri (Avv.ti Van Bavel, Demuynck, Matthys, Alkis, Renette, Wytinck, Baeyens) c. Governo belga (Avv. Paepe). Distacco transnazionale – Regolarità contributiva – Condotta fraudolenta – Certificato E 101 – Vincolatività – Insussistenza.
Alla luce della disciplina di cui ai regg. U.E. nn. 1408/71 e 574/72, come successivamente modificati, in materia di distacco transnazionale, qualora l’istituzione dello Stato membro nel quale i lavoratori sono distaccati presenti all’istituzione che ha emesso i certificati E 101 una domanda di riesame e di revoca degli stessi e l’istituzione emittente non abbia tenuto conto delle evidenze segnalate ai fini del riesame della correttezza del rilascio di tali documenti, il giudice nazionale può ignorarli e sottrarsi alla loro vincolatività se, sulla base degli elementi raccolti nell’inchiesta giudiziaria e in osservanza delle garanzie inerenti al diritto ad un equo processo, constati la sussistenza di una condotta fraudolenta.
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 14, punto 1, lettera a), del regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, nella versione modificata e aggiornata dal regolamento (CE) n. 118/97 del Consiglio, del 2 dicembre 1996 (GU 1997, L 28, pag. 1), come modificato dal regolamento (CE) n. 631/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004 (GU 2004, L 100, pag. 1) (in prosieguo: il «regolamento n. 1408/71»), nonché dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera a), del regolamento (CEE) n. 574/72 del Consiglio, del 21 marzo 1972, che stabilisce le modalità di applicazione del regolamento n. 1408/71, nella versione modificata e aggiornata dal regolamento n. 118/97 (in prosieguo: il «regolamento n. 574/72»). 2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento penale avviato a carico dei sigg. Ömer Altun, Abubekir Altun, Sedrettin Maksutogullari e Yunus Altun nonché della Absa NV, della M. Sedat BVBA e della Alnur BVBA in ordine al distacco di lavoratori bulgari in Belgio. Contesto Normativo Regolamento n. 1408/71 − Omissis. 4. L’articolo 13 di tale regolamento così recitava: «1. Le persone per cui è applicabile il presente regolamento sono soggette alla legislazione di un solo Stato membro, fatti salvi gli articoli 14 quater e 14 septies. Tale legislazione è determinata in base alle disposizioni del presente titolo. 2. Con riserva degli articoli da 14 a 17:
a) la persona che esercita un’attività subordinata nel territorio di uno Stato membro è soggetta alla legislazione di tale Stato anche se risiede nel territorio di un altro Stato membro o se l’impresa o il datore di lavoro da cui dipende ha la propria sede o il proprio domicilio nel territorio di un altro Stato membro; (…)». 5. L’articolo 14 del regolamento in parola, intitolato «Norme particolari applicabili alle persone, diverse dai marittimi, che esercitano un’attività subordinata», così disponeva: «La norma enunciata all’articolo 13, paragrafo 2, lettera a) è applicata tenuto conto delle seguenti eccezioni e particolarità: 1) a) La persona che esercita un’attività subordinata nel territorio di uno Stato membro presso un’impresa dalla quale dipende normalmente ed è distaccata da questa impresa nel territorio di un altro Stato membro per svolgervi un lavoro per conto della medesima (…) rimane soggetta alla legislazione del primo Stato membro, a condizione che la durata prevedibile di tale lavoro non superi i dodici mesi e che essa non sia inviata in sostituzione di un’altra persona giunta al termine del suo periodo di distacco; (…)» − Omissis. 7. Ai sensi dell’articolo 81, lettera a), del regolamento n. 1408/71, la commissione amministrativa era incaricata di trattare, in particolare, ogni questione amministrativa o d’interpretazione derivante dalle disposizioni di tale regolamento. 8. Il successivo articolo 84 bis, paragrafo 3, prevedeva quanto segue: «In caso di difficoltà d’interpretazione o di applicazione del presente regolamento tali da incidere sui diritti di una persona cui esso si applica, l’istituzione
Giurisprudenza
dello Stato competente o dello Stato di residenza della persona interessata deve contattare l’istituzione o le istituzioni dello Stato o degli Stati membri interessati. In assenza di una soluzione entro un termine ragionevole, le autorità interessate possono adire la commissione amministrativa» − Omissis. Regolamento n. 574/72 12. Il titolo III del regolamento n. 574/72, intitolato «Applicazione delle disposizioni del regolamento relative alla determinazione della legislazione applicabile», fissava, segnatamente, le modalità di applicazione degli articoli 13 e 14 del regolamento n. 1408/71. 13. In particolare, l’articolo 11 del regolamento n. 574/72, riguardante le formalità in caso di distacco di un lavoratore subordinato, prevedeva, al paragrafo 1, lettera a), che, nei casi di cui, in particolare, all’articolo 14, punto 1, del regolamento n. 1408/71, l’istituzione designata dall’autorità competente dello Stato membro la cui legislazione rimane applicabile fosse tenuta a rilasciare un certificato, denominato «certificato E 101», nel quale si attestava che il lavoratore subordinato rimaneva soggetto a tale legislazione e fino a quale data. 14. Il regolamento n. 574/72 è stato abrogato e sostituito, con effetto a decorrere dal 1o maggio 2010, dal regolamento (CE) n. 987/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009, che stabilisce le modalità di applicazione del regolamento n. 883/2004 (GU 2009, L 284, pag. 1). 15 Ai sensi dell’articolo 5 del regolamento n. 987/2009: «1. I documenti rilasciati dall’istituzione di uno Stato membro che attestano la situazione di una persona ai fini dell’applicazione del regolamento di base e del regolamento di applicazione, nonché le certificazioni su cui si è basato il rilascio dei documenti, sono accettati dalle istituzioni degli altri Stati membri fintantoché essi non siano ritirati o dichiarati non validi dallo Stato membro in cui sono stati rilasciati. 2. In caso di dubbio sulla validità del documento o sull’esattezza dei fatti su cui si basano le indicazioni che vi figurano, l’istituzione dello Stato membro che riceve il documento chiede all’istituzione emittente i chiarimenti necessari e, se del caso, il ritiro del documento. L’istituzione emittente riesamina i motivi che hanno determinato l’emissione del documento e, se necessario, procede al suo ritiro. 3. A norma del paragrafo 2, in caso di dubbio sulle informazioni fornite dalla persona interessata, sulla validità del documento o sulle certificazioni o sull’esattezza dei fatti su cui si basano le indicazioni che vi figurano, l’istituzione del luogo di dimora o di residenza procede, qualora le sia possibile, su richiesta dell’istituzione competente, alle verifiche necessarie di dette informazioni o detto documento. 4. In mancanza di accordo tra le istituzioni interessate, la questione può essere sottoposta alla commissione amministrativa, per il tramite delle autorità
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competenti, non prima che sia trascorso un mese dalla data in cui l’istituzione che ha ricevuto il documento ha sottoposto la sua richiesta. La commissione amministrativa cerca una conciliazione dei punti di vista entro i sei mesi successivi alla data in cui la questione le è stata sottoposta». 16. L’articolo 19, paragrafo 2, del regolamento n. 987/2009, che ha, in sostanza, sostituito l’articolo 11, paragrafo 1, del regolamento n. 574/72, dispone che, «[s]u richiesta della persona interessata o del datore di lavoro, l’istituzione competente dello Stato membro la cui legislazione è applicabile a norma del titolo II del regolamento [n. 883/2004] fornisce un attestato del fatto che tale legislazione è applicabile e indica, se del caso, fino a quale data e a quali condizioni». Tale attestazione è fornita mediante un certificato denominato «certificato A 1». Procedimento principale e questione pregiudiziale 17. La Sociale Inspectie (ispettorato sociale, Belgio) ha svolto un’inchiesta sull’impiego del personale della Absa, società di diritto belga attiva nel settore edilizio in Belgio. 18. Da tale inchiesta è emerso che, a partire dal 2008, la Absa era praticamente sprovvista di personale e affidava tutti suoi cantieri in subappalto a imprese bulgare che distaccavano lavoratori in Belgio. È stato altresì rilevato che l’impiego di tali lavoratori distaccati non era denunciato all’ente incaricato, in Belgio, della riscossione dei contributi previdenziali, in quanto i medesimi erano in possesso di certificati E 101 o A 1 rilasciati dall’istituzione designata dall’autorità bulgara competente ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 1, del regolamento n. 574/72. 19. Un’inchiesta giudiziaria promossa in Bulgaria nell’ambito di una rogatoria disposta da un giudice istruttore belga ha accertato che tali imprese bulgare non esercitavano alcuna attività significativa in Bulgaria. 20. Sulla base dei risultati di tale inchiesta, il 12 novembre 2012 l’ispettorato sociale belga ha presentato all’istituzione designata dall’autorità bulgara competente una domanda motivata di riesame o di revoca dei certificati E 101 o A 1 rilasciati ai lavoratori distaccati di cui al procedimento principale. 21. Dalle osservazioni del governo belga risulta che, il 9 aprile 2013, in seguito a una lettera di sollecito inviata dall’ispettorato sociale belga, l’istituzione bulgara competente ha risposto a tale domanda trasmettendo un riepilogo dei certificati E 101 o A 1 rilasciati, con indicazione del loro periodo di validità e con la precisazione che le diverse imprese bulgare in questione, al momento del rilascio dei suddetti certificati, soddisfacevano i requisiti del distacco dal punto di vista amministrativo. In tale risposta non si teneva conto, invece, dei fatti constatati e accertati da parte delle autorità belghe. 22. Le autorità belghe hanno convenuto in giudizio gli imputati nel procedimento principale, nella loro qualità di datore di lavoro, incaricato o mandatario,
Silvia Ortis
in primo luogo, per aver fatto svolgere o consentito lo svolgimento di attività lavorativa a cittadini stranieri non ammessi o autorizzati a soggiornare nel territorio belga per più di tre mesi o a ivi stabilirsi senza permesso di lavoro; in secondo luogo, per aver omesso, al momento dell’assunzione di tali lavoratori, di presentare la denuncia richiesta dalla legge presso l’ente incaricato della riscossione dei contributi previdenziali, e, in terzo luogo, per aver omesso di iscrivere i suddetti lavoratori al Rijksdienst voor Sociale Zekerheid (Ufficio nazionale per la previdenza sociale, Belgio). 23. Con sentenza del 27 giugno 2014, il correctionele rechtbank Limburg, afdeling Hasselt (Tribunale penale del Limburgo, circondario di Hasselt, Belgio), ha assolto gli imputati dai capi d’imputazione formulati contro i medesimi dall’Openbaar Ministerie (pubblico ministero, Belgio), adducendo la motivazione che «l’impiego dei lavoratori bulgari era completamente coperto dai moduli E 101/A1, rilasciati regolarmente e legalmente a tale data». 24. Il pubblico ministero ha interposto appello avverso tale sentenza. 25. Con sentenza del 10 settembre 2015, lo hof van beroep te Antwerpen (Corte d’appello di Anversa, Belgio) ha condannato gli imputati nel procedimento principale. Tale giudice, pur avendo constatato che un certificato E 101 o A 1 era stato effettivamente rilasciato a ciascuno dei lavoratori distaccati di cui trattasi e che le autorità belghe non avevano esaurito la procedura prevista in caso di contestazione della validità dei certificati, ha tuttavia ritenuto di non essere vincolato da tali circostanze, in quanto i suddetti certificati erano stati ottenuti in modo fraudolento. 26. Il 10 settembre 2015, gli imputati nel procedimento principale hanno presentato ricorso per cassazione avverso tale sentenza. 27. Nutrendo dubbi sull’interpretazione dell’articolo 11, paragrafo 1, del regolamento n. 574/72, lo Hof van Cassatie (Corte di cassazione, Belgio) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale – Omissis. Sulla questione pregiudiziale 28. Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 14, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1408/71 e l’articolo 11, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 574/72 debbano essere interpretati nel senso che, quando un dipendente di un’impresa stabilita nel territorio di uno Stato membro è distaccato nel territorio di un altro Stato membro, un giudice di quest’ultimo Stato membro può ignorare un certificato E 101 rilasciato in forza della seconda disposizione citata, laddove dai fatti sottoposti al suo giudizio emerga che il suddetto certificato è stato ottenuto o invocato in modo fraudolento. 29. A tale riguardo, occorre ricordare che le disposizioni del titolo II del regolamento n. 1408/71, delle quali fa parte l’articolo 14 del medesimo, costituisco-
no, secondo una giurisprudenza costante della Corte, un sistema completo e uniforme di norme di conflitto volto a far sì che i lavoratori che si spostano all’interno dell’Unione europea siano soggetti al regime previdenziale di un solo Stato membro, in modo da evitare l’applicazione cumulativa di normative nazionali e le complicazioni che possono derivarne (sentenze del 10 febbraio 2000, FTS, C‑202/97, EU:C:2000:75, punto 20 e giurisprudenza ivi citata, e del 4 ottobre 2012, Format Urządzenia i Montaże Przemysłowe, C‑115/11, EU:C:2012:606, punto 29 e giurisprudenza ivi citata). 30. A tal fine, l’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), del regolamento n. 1408/71 fissa il principio secondo cui un lavoratore subordinato è soggetto, in materia di previdenza sociale, alla normativa dello Stato membro in cui lavora − Omissis. 31. Tale principio è tuttavia formulato «[c]on riserva degli articoli da 14 a 17» del regolamento n. 1408/71. Infatti, in alcune situazioni particolari, l’applicazione pura e semplice della regola generale di cui all’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), di tale regolamento rischierebbe non già di evitare, bensì, al contrario, di creare, tanto per il lavoratore quanto per il datore di lavoro e gli enti previdenziali, complicazioni amministrative che potrebbero ostacolare l’esercizio della libera circolazione delle persone rientranti nell’ambito di applicazione del suddetto regolamento − Omissis. 32. L’articolo 14, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1408/71 ha segnatamente lo scopo di favorire la libera prestazione dei servizi a vantaggio delle imprese che di tale libertà si avvalgono inviando lavoratori in Stati membri diversi da quello in cui sono stabilite. Tale disposizione mira, infatti, a superare gli ostacoli che possano impedire la libera circolazione dei lavoratori e a favorire l’integrazione economica, evitando le complicazioni amministrative, in particolare per i lavoratori e le imprese − Omissis. 33. Per evitare che un’impresa con sede nel territorio di uno Stato membro sia costretta a iscrivere i suoi dipendenti, normalmente soggetti alla normativa previdenziale di tale Stato membro, al regime previdenziale di un altro Stato membro nel quale siano inviati per svolgere lavori di durata limitata nel tempo, l’articolo 14, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1408/71 consente all’impresa di mantenere i propri dipendenti iscritti al regime previdenziale del primo Stato membro − Omissis. 34. L’applicazione di tale disposizione è tuttavia subordinata al rispetto di due condizioni. La prima condizione, che concerne il vincolo necessario tra l’impresa che procede al distacco del lavoratore in uno Stato membro diverso da quello in cui la stessa è stabilita e il lavoratore distaccato, richiede il mantenimento di un legame organico tra tale impresa e tale lavoratore per tutta la durata del distacco di quest’ultimo. La seconda condizione, che riguarda il rapporto esistente tra la suddetta impresa e lo Stato membro nel quale essa
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è stabilita, richiede che quest’ultima eserciti abitualmente attività significative nel territorio di tale Stato membro − Omissis. 35. In tale contesto, il certificato E 101 mira, al pari della disciplina di diritto sostanziale prevista dall’articolo 14, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1408/71, ad agevolare la libera circolazione dei lavoratori e la libera prestazione dei servizi − Omissis. 36. In detto certificato, l’istituzione competente dello Stato membro in cui ha sede l’impresa nella quale sono impiegati i lavoratori interessati dichiara che questi restano soggetti al proprio regime previdenziale. In tal modo, per via del principio secondo cui i lavoratori devono essere iscritti a un unico regime previdenziale, tale certificato implica necessariamente che il regime dell’altro Stato membro non può trovare applicazione − Omissis. 37. Al riguardo, il principio di leale collaborazione, enunciato all’articolo 4, paragrafo 3, TUE, impone all’istituzione emittente di procedere a una corretta valutazione dei fatti pertinenti per l’applicazione delle norme relative alla determinazione della normativa applicabile in materia previdenziale e, pertanto, di garantire l’esattezza delle indicazioni figuranti nel certificato E 101 (sentenza del 27 aprile 2017, A-Rosa Flussschiff, C‑620/15, EU:C:2017:309, punto 39 e giurisprudenza ivi citata). 38. Per quanto concerne l’istituzione competente dello Stato membro nel quale il lavoro viene svolto, dagli obblighi di collaborazione che discendono dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE si evince altresì che gli stessi non verrebbero rispettati – e gli obiettivi dell’articolo 14, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1408/71 e dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 574/72 verrebbero disattesi – qualora l’istituzione di detto Stato membro si ritenesse non vincolata dalle indicazioni contenute nel certificato E 101 e assoggettasse ugualmente tali lavoratori al regime previdenziale di tale Stato membro − Omissis. 39. Di conseguenza, il certificato E 101, creando una presunzione di regolarità dell’iscrizione del lavoratore interessato al regime previdenziale dello Stato membro in cui ha sede l’impresa presso cui questi lavora, è vincolante, in linea di principio, per l’istituzione competente dello Stato membro in cui tale lavoratore svolge l’attività lavorativa − Omissis. − 40. Il principio di leale collaborazione, infatti, presuppone anche quello di fiducia reciproca. 41. Pertanto, fintantoché il certificato E 101 non venga revocato o invalidato, l’istituzione competente dello Stato membro nel quale il lavoratore svolga attività lavorativa deve tener conto del fatto che quest’ultimo è già soggetto alla normativa previdenziale dello Stato membro in cui ha sede l’impresa presso cui questi lavora e tale istituzione non può, di conseguenza, assoggettare il lavoratore di cui trattasi al proprio regime previdenziale − Omissis.
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42. Occorre tuttavia ricordare che dal principio di leale collaborazione deriva che qualsiasi istituzione di uno Stato membro deve procedere a una corretta valutazione dell’applicazione del proprio regime previdenziale. Da tale principio risulta altresì che le istituzioni degli altri Stati membri hanno il diritto di attendersi che l’istituzione dello Stato membro interessato si conformi a tale obbligo − Omissis. 43. Di conseguenza, all’istituzione competente dello Stato membro che ha rilasciato il certificato E 101 incombe l’obbligo di riconsiderare la correttezza di tale rilascio e, eventualmente, di revocare il certificato stesso qualora l’istituzione competente dello Stato membro nel quale il lavoratore svolga un’attività lavorativa manifesti riserve in ordine all’esattezza dei fatti che sono alla base di detto certificato − Omissis. 44. Omissis. − nell’eventualità in cui le istituzioni interessate non pervengano a un accordo − Omissis. − esse hanno facoltà di investire della questione la commissione amministrativa − Omissis. 45. Ove quest’ultima non riesca a conciliare le diverse posizioni delle istituzioni competenti in merito alla legislazione applicabile al caso di specie, lo Stato membro nel cui territorio il lavoratore interessato svolge un’attività lavorativa ha quanto meno facoltà, senza pregiudizio degli eventuali rimedi giurisdizionali esistenti nello Stato membro a cui appartiene l’istituzione emittente, di promuovere un procedimento per inadempimento, ai sensi dell’articolo 259 TFUE, al fine di consentire alla Corte di esaminare, nell’ambito di un tale ricorso, la questione della normativa applicabile a detto lavoratore e, di conseguenza, l’esattezza delle indicazioni figuranti nel certificato E 101 − Omissis. 47. Il regolamento n. 987/2009, attualmente in vigore, ha codificato la giurisprudenza della Corte, riconoscendo il carattere vincolante del certificato E − Omissis. 48. Conformemente a una giurisprudenza costante della Corte, simili considerazioni non devono tuttavia consentire ai soggetti dell’ordinamento di avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme dell’Unione (v., in tal senso, sentenze del 2 maggio 1996, Paletta, C‑206/94, EU:C:1996:182, punto 24; del 21 febbraio 2006, Halifax e a., C‑255/02, EU:C:2006:121, punto 68; del 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, C‑196/04, EU:C:2006:544, punto 35, nonché del 28 luglio 2016, Kratzer, C‑423/15, EU:C:2016:604, punto 37). 49. Il principio di divieto della frode e dell’abuso di diritto, espresso da tale giurisprudenza, costituisce un principio generale del diritto dell’Unione che i soggetti dell’ordinamento sono tenuti a rispettare. L’applicazione della normativa dell’Unione non può, infatti, essere estesa sino a comprendere le operazioni effettuate allo scopo di beneficiare fraudolentemente o abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenze del 5 luglio 2007, Kofoed, C‑321/05,
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EU:C:2007:408, punto 38, e del 22 novembre 2017, Cussens e a., C‑251/16, EU:C:2017:881, punto 27). 50. In particolare, la constatazione di una frode si basa su un insieme di indizi concordanti da cui risulti la sussistenza sia di un elemento oggettivo sia di un elemento soggettivo. 51. In tal senso, da un lato, l’elemento oggettivo consiste nel fatto che le condizioni richieste per ottenere e invocare un certificato E 101, previste al titolo II del regolamento n. 1408/71 e ricordate al punto 34della presente sentenza, non siano soddisfatte. 52. Dall’altro, l’elemento soggettivo corrisponde all’intenzione degli interessati di aggirare o eludere le condizioni di rilascio del certificato in parola, per ottenerne il relativo vantaggio. 53. L’acquisizione fraudolenta di un certificato E 101 può quindi derivare da un’azione volontaria, quale la presentazione fallace della situazione reale del lavoratore distaccato o dell’impresa che distacca tale lavoratore, oppure da un’omissione volontaria, quale la dissimulazione dell’esistenza di un’informazione rilevante, con l’intento di eludere le condizioni di applicazione dell’articolo 14, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1408/71. 54. Premesso ciò, qualora, nell’ambito del dialogo previsto all’articolo 84 bis, paragrafo 3, del regolamento n. 1408/71, l’istituzione dello Stato membro nel quale alcuni lavoratori sono stati distaccati comunichi all’istituzione che ha emesso i certificati E 101 elementi concreti che suggeriscono che tali certificati siano stati ottenuti in modo fraudolento, spetta alla seconda istituzione, in forza del principio di leale cooperazione, riesaminare, sulla scorta di tali elementi, la correttezza del rilascio dei suddetti certificati e, eventualmente, revocarli − Omissis. 55. Se quest’ultima istituzione non procede a un simile riesame entro un termine ragionevole, i suddetti elementi devono poter essere invocati nell’ambito di un procedimento giudiziario, affinché il giudice dello Stato membro nel quale i lavoratori sono stati distaccati ignori i certificati di cui trattasi. 56. Le persone cui si addebita, nell’ambito di un tale procedimento, di aver fatto ricorso a lavoratori distaccati servendosi di certificati ottenuti in modo fraudolento devono tuttavia essere messe in condizione di confutare gli elementi sui quali si fonda tale procedimento, in osservanza delle garanzie derivanti dal diritto a un equo processo, prima che il giudice nazionale decida, se del caso, di ignorare tali certificati e si pronunci sulla responsabilità di dette persone in forza del diritto nazionale applicabile.
57. Nel caso di specie, dagli elementi forniti dal giudice del rinvio si evince che dall’inchiesta svolta dall’ispettorato sociale belga in Bulgaria è emerso che le imprese bulgare che hanno distaccato i lavoratori di cui al procedimento principale non esercitavano alcuna attività significativa in Bulgaria. 58. Dalle indicazioni fornite dal giudice del rinvio emerge altresì che i certificati di cui trattasi nel procedimento principale sono stati ottenuti in modo fraudolento, attraverso una presentazione dei fatti non corrispondente alla realtà, allo scopo di eludere le condizioni alle quali la normativa dell’Unione subordina il distacco dei lavoratori. 59. Inoltre, − Omissis. dalle osservazioni del governo belga risulta che l’istituzione bulgara competente, investita di una domanda di riesame e di revoca dei certificati in esame nel procedimento principale – Omissis. non ha tenuto conto di questi ultimi ai fini di un riesame della correttezza del rilascio di tali certificati, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare sulla scorta dei fatti constatati nell’ambito del procedimento giudiziario. 60. In un caso come quello di cui al procedimento principale, il giudice nazionale può ignorare i certificati E 101 in questione e spetta al medesimo accertare se le persone sospettate di aver fatto ricorso a lavoratori distaccati servendosi di certificati ottenuti in modo fraudolento possano essere considerate responsabili in base al diritto nazionale applicabile. 61. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alla questione posta dichiarando che l’articolo 14, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1408/71 e l’articolo 11, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 574/72 devono essere interpretati nel senso che, qualora l’istituzione dello Stato membro nel quale i lavoratori sono stati distaccati abbia investito l’istituzione che ha emesso certificati E 101 di una domanda di riesame e di revoca degli stessi sulla scorta di elementi raccolti nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria dalla quale è emerso che tali certificati sono stati ottenuti o invocati in modo fraudolento e l’istituzione emittente non abbia tenuto conto di tali elementi ai fini del riesame della correttezza del rilascio dei suddetti certificati, il giudice nazionale può, nell’ambito di un procedimento promosso contro persone sospettate di aver fatto ricorso a lavoratori distaccati servendosi di tali certificati, ignorare questi ultimi se, sulla base di detti elementi e in osservanza delle garanzie inerenti al diritto a un equo processo che devono essere accordate a tali persone, constati l’esistenza di una tale frode» – Omissis.
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Frode alla legge e deroga alla vincolatività del certificato “E 101” nel distacco transnazionale di lavoratori Sommario : 1. Il caso. – 2. La normativa sovrannazionale in materia di distacco. – 3. La regolamentazione europea dei profili di previdenza sociale nelle ipotesi di distacco transnazionale. - 4. La decisione della Corte di Giustizia.
Sinossi. Il commento ha ad oggetto la recente sentenza della Corte di Giustizia in materia di previdenza sociale nel distacco transnazionale. Le conclusioni a cui la Corte giunge sono opportunamente condivisibili in un’ottica di effettiva tutela dei lavoratori in distacco ed in ossequio al principio di leale collaborazione e reciproca fiducia fra Stati. In particolare, la sentenza in commento è meritevole per l’attenzione e la complessità dell’analisi svolta, allargando la visione da aspetti prettamente giuslavoristici per abbracciare profili di carattere generale inerenti al divieto di frode alla legge e alle dinamiche di concorrenza leale che devono informare i comportamenti dei soggetti giuridici ed economici nell’ambito del sistema europeo.
1. Il caso. Con la pronuncia in commento la Corte di Giustizia è di recente intervenuta ponendo un freno alle condotte fraudolente di distacchi transnazionali illeciti finalizzati eminentemente alla fruizione di regimi previdenziali più convenienti ex latere datoriale. In particolare, il rinvio pregiudiziale di cui è stata investita ha preso le mosse nell’ambito di un’inchiesta avviata dai servizi dell’ispettorato sociale belga avente ad oggetto l’impiego del personale da parte di un’impresa belga che opera nel settore dell’edilizia. Dall’istruttoria condotta, era emerso che la suddetta Azienda, ancorché attiva nel territorio nazionale, aveva alle proprie dipendenze un numero di risorse lavorative di per sé non sufficiente per far proficuamente fronte alle commesse e che soddisfaceva le proprie esigenze di manodopera subappaltando tutti i suoi cantieri a delle imprese bulgare, le quali, a propria volta, distaccavano in Belgio il proprio personale dipendente. In aggiunta, era stata altresì rilevata la mancata effettuazione della denuncia dell’impiego dei lavoratori bulgari distaccati in Belgio all’ente incaricato di riscuotere i contributi previdenziali in quest’ultimo Stato membro, in quanto gli stessi risultavano muniti del certificato E 101 (o dell’attuale certificato A1) rilasciati dall’istituzione bulgara competente, i quali, nella disciplina del distacco transnazionale, hanno la funzione di attestare la regolare iscrizione dei prestatori al regime previdenziale dello Stato d’origine, nel caso di
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specie quello bulgaro, e il permanente loro assoggettamento a tale regime, derogando alla regola generale di soggezione alla legislazione previdenziale dello Stato nel cui territorio sono effettivamente occupati. A fronte di tale indagine, era stata dunque disposta una rogatoria internazionale da parte del giudice belga incaricato dell’inchiesta giudiziaria, il quale aveva accertato che le imprese bulgare distaccanti il personale in Belgio in realtà non esercitavano alcuna attività rilevante e significativa in Bulgaria. Contestualmente, l’ispettorato sociale belga, attore principale dell’intera vicenda, aveva presentato all’istituzione bulgara che aveva provveduto al rilascio di tali certificati una formale e motivata domanda di riesame o di revoca degli stessi, denunciando gli elementi di irregolarità già rilevati. Tuttavia, nonostante la richiesta motivata e i successivi solleciti, l’istituzione bulgara si era limitata a trasmettere alle autorità belghe un mero riepilogo dei certificati rilasciati, senza procedere affatto ad un riesame ovvero ad una revoca degli stessi, né ad un vaglio sommario delle violazioni denunciate. In ragione della sostanziale «non risposta» opposta dall’istituzione bulgara, le autorità belghe avevano convenuto in sede penale i responsabili dell’impresa belga, in qualità di datori di lavoro, contestando, in primo luogo, l’aver consentito lo svolgimento della prestazione lavorativa o il soggiorno in territorio belga da parte di cittadini stranieri per più di tre mesi ovvero il loro stabilimento senza alcun prodromico permesso e, secondariamente, l’aver omesso di denunciare l’impiego di tali lavoratori all’ente nazionale incaricato della riscossione dei contributi previdenziali. La Corte d’Appello d’Anversa, investita della vicenda giudiziaria, riformava integralmente la sentenza di prime cure, la quale, con atteggiamento formalistico, aveva assolto gli imputati rilevando che l’impiego in Belgio dei lavoratori bulgari risultava comunque conforme alla normativa europea, in quanto i certificati E 101 e A 1 erano stati rilasciati regolarmente da parte dell’istituzione bulgara competente. La Corte d’Appello, diversamente, pur avendo accertato che ciascuno dei lavoratori distaccati era munito di regolare certificato E 101 o A 1 e che le autorità belghe non avevano espletato la procedura prevista per la contestazione della validità ovvero veridicità di detti certificati, condannava gli imputati reputando che tali certificati fossero stati emessi in frode alla legge e, come tali, non costituissero dei documenti vincolanti a cui necessariamente doveva conformarsi o dare per pacifici. A fronte del gravame presentato avverso la sentenza d’appello, la Corte di Cassazione belga ha proposto dunque rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia onde verificare se il Giudice dello Stato membro presso cui il dipendente distaccato svolge la propria attività lavorativa possa ignorare il certificato E 101 e quanto ivi attestato nell’ipotesi in cui, nell’ambito della vicenda giudiziaria di cui è investito, emergano elementi tali da ritenere che il suddetto certificato sia stato ottenuto in frode alla prescrizioni normative. A ben vedere, dunque, anche alla luce dell’iter logico-argomentativo seguito dalla Corte di Giustizia, la pronuncia in commento costituisce uno spunto di riflessione non tanto per questioni squisitamente giuslavoristiche, bensì quale occasione per rimeditare ed evidenziare il sistema degli equilibri fra gli Stati membri all’interno del quadro di integrazione e cooperazione europea e, in particolare, il sistema di prerogative e facoltà che le istituzioni di ciascuno Stato possono esercitare nel rispetto dei poteri e delle attribuzioni delle Autorità di altra nazionalità. Come si vedrà infra, la soluzione a cui è giunta nel caso di specie
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la Corte di Giustizia costituisce il riflesso dei principi generali sovrannazionali con i quali sono regolati i rapporti fra i diversi Stati membri e, ancor più nello specifico, le ripartizioni di competenza degli stessi. Le coordinate giuridiche alla luce delle quali deve essere letta e risolta la vicenda oggetto della pronuncia in commento non debbono essere individuate nella disciplina europea del distacco transnazionale, bensì nel principio di leale collaborazione, da un lato, e nei divieti di frode alla legge ed abuso del diritto dall’altro.
2. La normativa sovrannazionale in materia di distacco. La disciplina del distacco transnazionale è stata di recente integrata in ambito europeo dalla Direttiva 2014/67/UE, la quale è intervenuta al fine di colmare le lacune ed incertezze che avevano accompagnato l’attuazione della Direttiva 96/71 CE nei diversi Stati membri. La Direttiva 2014/67/UE, in particolare, si prefigge l’obiettivo di garantire la parità di trattamento e di condizioni di lavoro in caso di distacco di lavoratori nel territorio di altro Stato membro, ma al contempo di facilitare l’esercizio della libertà di prestazione di servizi e creare le condizioni di concorrenza leale fra gli operatori del mercato. Ha fatto seguito poi, quale atto di recepimento interno nazionale, l’emanazione del d.lgs. n. 136/2016, entrato in vigore il 1° gennaio 2017. V’è da sottolineare preliminarmente che, se già la fattispecie del distacco nazionale presenta delle intrinseche criticità dettate dall’eventuale abuso che le imprese possono farne attraverso un impiego non genuino dello stesso, tali profili aumentano e si moltiplicano ove il distacco assuma la dimensione transnazionale, con la conseguenza che il lavoratore viene inviato a svolgere la propria prestazione in uno Stato membro differente da quello ove è ubicata la sede dell’impresa datrice di lavoro. Il moltiplicarsi delle criticità è strettamente connesso all’inevitabile intreccio di sistemi normativi differenti dal punto di vista giuslavoristico, previdenziale, fiscale ed assicurativo, potendo dar luogo a non infrequenti fenomeni di dumping sociale derivanti dalla volontà imprenditoriale di massimizzare l’utilità aziendale riducendo il costo del lavoro e degli apparati previdenziali a tutela del personale dipendente. D’altro canto, la dimensione sempre più globalizzata del mercato produttivo e non da ultimo anche il sempre più massiccio ricorso alle nuove tecnologie, rendono quanto più evidente l’attuale esigenza di flessibilità, al fine di consentire alle imprese di disporre di un apparato di risorse in grado di rispondere alle contingenti richieste del mercato. Flessibilità e competitività costituiscono infatti il leit motiv delle dinamiche di gestione del personale a cui i legislatori nazionali ed il legislatore europeo devono rispondere. Con specifico riferimento al distacco transnazionale, il primo intervento a livello europeo è stata la Direttiva 96/71 CE, con la quale si era cercato di dare un quadro normativo di riferimento rispetto al quale gli Stati membri dovessero conformarsi ad armonizzarsi onde assicurare l’applicazione delle medesime condizioni di lavoro e di occupazione ai la-
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voratori distaccati che si trovassero a svolgere la propria prestazione in uno Stato membro differente da quello di provenienza1. Nei casi di distacco transnazionale, inoltre, si pongono problemi anche di diritto internazionale essendo necessario individuare la legge applicabile, alla luce della quale regolamentare i rapporti giuridici e di fatto che si instaurano fra il dipendente distaccato e l’impresa utilizzatrice. A tal proposito, quanto alle condizioni di lavoro, vige il principio di territorialità in virtù del quale si applica la legge del luogo ove il lavoratore svolge la propria prestazione (lex loci laboris). A tal principio si oppone in materia previdenziale, assistenziale e contributiva il principio di personalità in virtù del quale il lavoratore distaccato conserva che il regime previsto dallo Stato di provenienza, il quale risponde all’esigenza di assicurare l’unicità della legislazione applicabile.
3. La regolamentazione europea dei profili di previdenza
sociale nelle ipotesi di distacco transnazionale.
Con specifico riferimento alla disciplina sovrannazionale relativa ai profili previdenziali che vengono in rilievo in caso di distacco transnazionale è necessario prendere in esame le disposizioni del reg. U.E. n. 1408/71 (c.d. “regolamento base”) e del reg. U.E. n. 574/1972, ambedue complessivamente sostituiti, con decorrenza dal 1° maggio 2010, dal sistema di coordinamento dettato dal reg. U.E. n. 883/2004 come sostituito dal reg. U.E. n. 988/2009, e dal reg. U.E. (d’applicazione) n. 987/2009. Tali atti costituiscono i parametri normativi di riferimento alla luce dei quali la Corte di Giustizia si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale. A ben vedere, tuttavia, la cornice normativa entro cui la vicenda deve essere collocata è ancor più ampia in quanto, sin dalla loro introduzione, le norme comunitarie volte al ravvicinamento delle legislazioni nazionali in materia di sicurezza sociale si inserivano nel quadro della libera circolazione dei lavoratori cittadini degli Stati membri ed erano preposte al miglioramento del loro tenore di vita e delle loro condizioni di lavoro, garantendo sia la parità di trattamento di fronte alle diverse normative nazionali sia il beneficio delle prestazioni di sicurezza sociale, qualunque fosse il luogo di occupazione e di residenza. Previa enunciazione del principio di unicità della legislazione applicabile all’art. 13, para-
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Le ipotesi in occasione delle quali, ai sensi dell’art. 1 della suddetta direttiva, si realizza un distacco sono in realtà diverse ed alternative fra loro, prevedendo l’integrazione di tale fattispecie tutte le volte in cui le imprese: a) distacchino un lavoratore, per conto proprio e sotto la loro direzione, nel territorio di uno Stato membro, nell’ambito di un contratto concluso tra l’impresa che lo invia e il destinatario della prestazione di servizi che opera in tale Stato membro, purché durante il periodo di distacco esista un rapporto di lavoro tra il lavoratore e l’impresa che lo invia; o b ) distacchino un lavoratore nel territorio di uno Stato membro, in uno stabilimento o in un’impresa appartenente al gruppo, purché durante il periodo di distacco esista un rapporto di lavoro tra il lavoratore e l’impresa che lo invia; o c ) distacchino, in quanto imprese di lavoro temporaneo o in quanto imprese che effettuano la cessione temporanea di lavoratori, un lavoratore presso un’impresa utilizzatrice avente la sede o un centro di attività nel territorio di uno Stato membro, purché durante il periodo di distacco esista un rapporto di lavoro fra il lavoratore e l’impresa di lavoro temporaneo o l’impresa che lo cede temporaneamente.
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grafi 1 e 2, del reg. U.E. n. 1408/71 oggetto del rinvio pregiudiziale, il successivo art. 14 cristallizza una delle eccezioni al principio della lex loci laboris, stabilendo che il lavoratore distaccato nel territorio di uno Stato membro diverso rispetto a quello presso cui è incardinata l’impresa dalla quale dipende normalmente rimane soggetto alla legislazione del secondo Stato, a condizione che la durata prevedibile del lavoro non superi i dodici mesi, elevati poi a 24 a fronte delle modifiche normative intervenute sul punto, e non sia inviato in sostituzione di un altro lavoratore precedentemente distaccato e la cui missione sia giunta al termine. Alla luce del combinato disposto dei successivi artt. 84 e 84 bis, sulle autorità competenti degli Stati membri grava un obbligo reciproco di cooperazione ed informazione per garantire la corretta applicazione del Regolamento, dovendo prestare l’un l’altra assistenza vicendevolmente come se si trattasse dell’applicazione della propria legislazione nazionale, collaborando anche dal punto di vista amministrativo. In particolare, proprio in virtù del principio di buona amministrazione, le istituzioni hanno l’onere di rispondere a tutte le domande che le istituzioni competenti degli altri Stati membri gli dovessero rivolgere e di adempiere a tale obbligo di comunicazione entro un termine ragionevole, onde evitare comportamenti ostruzionistici o volutamente dilatori. Tuttavia, tale norma mostra un’intrinseca debolezza, posto che il legislatore sovrannazionale non si è premurato di individuare, nemmeno nelle sue linee essenziali, cosa debba intendersi per “termine ragionevole”, con il rischio di rimettere al relativismo delle prassi nazionali l’identificazione di tale onere procedurale il cui rispetto diventa un indice anche della condotta dello Stato nelle relazioni transnazionali. A corredo, vi è poi la previsione di una speciale procedura che le istituzioni statali devono espletare in ipotesi di difficoltà interpretative o applicative del Regolamento in un’ottica di dialogo fattivo ed effettivo, la cui mancata definizione in termini positivi, ancora una volta entro un termine ragionevole, comporta la facoltà di adire la Commissione amministrativa, la quale, alla luce degli artt. 80 e 81 del reg. U.E. n. 1408/1971, è istituita presso la Commissione Europea in composizione capitaria (un rappresentante governativo per ciascuno degli Stati membri) ed ha compiti eterogenei di armonizzazione e composizione, fra cui la trattazione di ogni questione ermeneutica o amministrativa del suddetto Regolamento. A ben vedere, già da tale enunciazione si evincono i riflessi del generale principio di leale cooperazione di cui all’ art. 4, par. 3, TUE, che impone in capo all’Unione ed agli Stati membri un obbligo di reciproca assistenza nell’adempimento dei compiti e dei loro rispettivi obblighi derivanti dai trattati, quale obiettivo comune nella duplice veste di comportamento attivo e fattivo, da un lato e, dall’altro, quale obbligo di astensione dall’adottare qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione. L’attuazione di quanto previsto dall’art. 14 reg. U.E. n. 1408/1971, inoltre, vede il proprio precipitato normativo nell’art. 11 reg. U.E. n. 574/1972, il quale dispone che l’istituzione competente dello Stato membro la cui legislazione è applicabile, indi per cui lo Stato ove ha sede la Società distaccante, su richiesta del lavoratore ovvero del datore di lavoro, provvede al rilascio di un certificato (c.d. certificato E101, sostituito poi dal certificato A1
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con decorrenza dal 1° maggio 20102) che attesti l’assoggettamento del lavoratore distaccato al regime previdenziale dello Stato di provenienza, ferma restando la previa verifica dell’integrazione di tutte le condizioni normative previste. In chiave evolutiva rispetto alla disciplina di cui al reg. U.E. n. 572/1972 devono esser poi lette le disposizioni di cui al reg. U.E. n. 987/2009 con il quale il primo è stato sostituito ed il quale detta le modalità applicative del reg. U.E. n. 883/2004, sostituito poi dal reg. U.E. n. 988/2009. Tuttavia, gli aspetti giuridici sostanziali sottesi alla vicenda non sono mutati, con conseguente applicabilità dei principi di diritto enunciati dalla Corte di Giustizia anche pro futuro, con riferimento ad ipotesi disciplinate ratione temporis dai successivi regolamenti intervenuti in materia. In particolare, ai fini che rilevano relativamente alla vicenda oggetto della pronuncia della Corte di Giustizia, v’è da citare l’art. 14 reg. U.E. n. 883/2004, il quale ha la funzione di definire ciascuno dei concetti ovvero delle condizioni normative indicate dal precedente art. 12 in materia di distacco transnazionale. In primo luogo, la norma chiarisce che tale fattispecie può ritenersi integrata anche qualora il lavoratore venga assunto ed immediatamente distaccato nel territorio di un altro Stato membro, a condizione, tuttavia, che prima dell’inizio del rapporto di lavoro il dipendente fosse già soggetto alla legislazione dello Stato membro in cui il suo datore di lavoro è stabilito. Si comprende, dunque, come non costituisca un indice di un distacco irregolare la mancata prestazione di attività lavorativa nei confronti del datore di lavoro all’interno dello Stato in cui la Società ha sede, posto che in tali casi l’inizio del distacco coincide con la data di assunzione. Ciò che rileva è unicamente il fatto che tale soggetto sia regolarmente iscritto al regime previdenziale dello Stato d’origine da almeno un mese. Tale circostanza può infatti apparire singolare in quanto in tal modo il legislatore europeo consente la stipulazione di rapporti di lavoro anche con l’esclusivo fine di realizzare il distacco del lavoratore neo-assunto, denunciando una commistione con un’ipotesi di interposizione illecita di manodopera ovvero se non altro il rischio di un impiego distorto di tale istituto. Onde scongiurare, tuttavia, fattispecie di distacco transnazionale non genuine, la norma prosegue prevedendo che il soggetto distaccato debba essere assunto da un datore di lavoro che esercita «abitualmente» le sue attività imprenditoriali nello Stato membro in cui è stabilito, nel senso che vi svolge normalmente attività di carattere sostanziale, anche se non necessariamente l’attività principale e prevalente, e non già attività di mera gestione interna o di amministrazione del personale. Tale requisito, che si sostanzia nello svolgimento di attività di adeguata rilevanza, è finalizzato ad evitare che l’impresa datrice di lavoro sia fittizia (c.d. società di comodo o letter box companies) ovvero, sebbene operativa sul mercato, si limiti alla mera fornitura non autorizzata di lavoratori, in quanto una tale evenienza potrebbe anche sottendere finalità elusive e di godimento di un minor costo del lavoro. Tuttavia, la valutazione del soddisfacimento di tale condizione risulta non sempre agevole, in quanto deve essere condotta tenendo conto di tutti i criteri che caratterizzano l’attività della singola impresa.
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Cfr. in tal senso la circolare INPS n. 99/2010, con la quale sono state dettate le linee guida in materia di trasmissione del nuovo formulario A1, denominato “documento portatile A1”.
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A tal proposito, sono stati individuati dalla giurisprudenza taluni parametri esemplificativi da prendere in considerazione ai fini della valutazione della sussistenza del suddetto requisito, ripresi, poi, dal punto di vista del diritto interno, dalla circolare INPS n. 83/2010, nonché dall’art. 3, comma 3, d.lgs. n. 136/2016 di recepimento della dir. 2014/67/UE e dalla più recente circolare n. 1/2017 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. In particolare, dovranno essere presi in considerazione per un periodo di almeno due mesi: - il luogo in cui l’impresa ha la sua sede legale e la sede amministrativa; - l’organico del personale amministrativo che lavora nello Stato membro di stabilimento e nello Stato in cui il lavoratore viene distaccato; - il luogo di assunzione dei lavoratori distaccati e il luogo dai quali vengono distaccati; - il luogo in cui viene conclusa la maggior parte dei contratti fra l’Azienda ed i clienti; - la disciplina applicabile ai contratti conclusi con i clienti e con i lavoratori; - il numero di contratti eseguito o il fatturato realizzato durante un periodo sufficiente definito in ambedue gli Stati interessati dalla fattispecie del distacco transnazionale, suggerendo a tal proposito la Direttiva 2014/67/UE che in tale valutazione si tenga conto anche del diverso potere d’acquisto delle valute (cfr. considerando n. 9)3 4. Inoltre, il lavoratore distaccato deve comunque mantenere per tutto il tempo di attività nello Stato di destinazione un legame diretto ed organico con il datore5 distaccante, in
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Cfr. ex multis C. giust, 10 febbraio 2000, causa C-202/97, Fitzwilliam Executive Search Ltd, punto 43. Vi sono poi delle ipotesi in cui l’INPS con la circolare n. 83/2010 ha escluso a priori l’applicabilità delle norme sul distacco in quanto «l’intreccio delle situazioni che si vengono a creare non consente di verificare agevolmente la permanenza del legame diretto tra l’impresa distaccante e il lavoratore distaccato. Inoltre, tali fattispecie contrastano con lo spirito delle norme sul distacco che sono state previste soprattutto per evitare complicazioni amministrative e disagi derivanti da una frammentazione della carriera assicurativa del lavoratore». Trattasi, in particolare, delle ipotesi in cui: - «l’impresa presso cui il lavoratore è distaccato mette il lavoratore a disposizione di un’altra impresa nello Stato membro in cui essa è situata (es. l’impresa A, con sede in Italia, distacca il lavoratore presso l’impresa B, con sede in Francia, l’impresa B mette il lavoratore a disposizione dell’impresa C che ha sede in Francia); - l’impresa presso cui il lavoratore è distaccato mette il lavoratore a disposizione di un’altra impresa situata in un altro Stato membro (es. l’impresa A, con sede in Italia, distacca il lavoratore presso l’impresa B, con sede in Francia, l’impresa B mette il lavoratore a disposizione dell’impresa C che ha sede in Belgio); - il lavoratore viene assunto in uno Stato membro da un’impresa che ha sede in un secondo Stato membro per essere inviato presso un’impresa che ha sede in un terzo Stato membro (es. lavoratore assunto in Italia da un’impresa che ha sede in Francia per essere distaccato presso un’impresa che ha sede in Germania); - il lavoratore assunto in uno Stato membro da un’impresa situata in un secondo Stato membro viene distaccato per andare a svolgere un’attività nel primo Stato membro (es. lavoratore assunto in Italia da una impresa che ha sede in Francia per essere distaccato in Italia)». 5 Sul punto la circolare n. 1/2017 dell’Ispettorato Nazionale di Lavoro, riprendendo il Vademecum sul distacco ad uso degli ispettori del lavoro dal 2010, prevede che tale legame organico debba essere inteso quale potere da parte del datore di determinare la natura del lavoro svolto dal dipendente: “la prestazione lavorativa, necessariamente di durata limitata, deve essere pertanto espletata nell’interesse e per conto dell’impresa distaccante, sulla quale continuano a gravare i tipici obblighi del datore di lavoro, ossia la responsabilità in materia di assunzione, la gestione del rapporto, i connessi adempimenti retributivi e previdenziali, nonché il potere disciplinare e di licenziamento”. 4
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capo al quale, a tal fine, deve rimanere la responsabilità in materia di assunzione, svolgimento del rapporto di lavoro e risoluzione dello stesso6. Il mantenimento del collegamento fra il lavoratore distaccato ed il regime di sicurezza sociale dove opera l’impresa datrice di lavoro consente di esonerare quest’ultima dal pagamento dei contributi previdenziali nello Stato di occupazione, mantenendo invece l’operatività del regime nazionale dello Stato membro in cui l’impresa ha sede e a cui il lavoratore risulta iscritto prima dell’inizio del distacco. Tuttavia, se tale circostanza è stata prevista al fine di evitare duplicazioni amministrative tali da ostacolare la libera circolazione delle persone ovvero la libera prestazione dei servizi, non può costituire ragione ed occasione per un impiego fraudolento del quadro normativo europeo. Operativamente, stando alle indicazioni fornite dall’INPS con la circolare n. 99/2010, il datore di lavoro deve informare l’istituzione competente dello Stato membro di origine, la quale, non appena possibile, comunica a sua volta tutte le informazioni necessarie concernenti la legislazione applicabile all’istituzione designata come competente nello Stato di destinazione ed altresì al lavoratore interessato, a cui verrà rilasciato il certificato (E 101 o A 1). Se del caso, l’istituzione competente dello Stato ove il lavoratore viene distaccato può anche rilasciare un proprio parere in merito alla legislazione applicabile e, in caso di contrasto sulla validità del documento o sulla legislazione applicabile, è necessario dar corso alle procedure di dialogo e conciliazione previste dalla Decisione A1 della Commissione Amministrativa per il Coordinamento dei Sistemi di Sicurezza Sociale di data 12.6.2009 da esperirsi in via preliminare rispetto al ricorso alla Commissione Amministrativa istituita presso la Commissione Europea7. La volontà è infatti quella di promuovere in ogni fase,
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L’art. 3, comma 3, d.lgs. n. 136/2016 contempla una serie di elementi utili, da valutare complessivamente ed in aggiunta agli ulteriori già indicati, per accertare la genuinità del distacco, quali: a) il contenuto, la natura e le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa e la retribuzione del lavoratore; b) la circostanza che il lavoratore eserciti abitualmente, ai sensi del regolamento (CE) n. 593/2008 (Roma I), la c) propria attività nello Stato membro da cui è stato distaccato; d) la temporaneità dell’attività lavorativa svolta in Italia; e) la data di inizio del distacco; f) la circostanza che il lavoratore sia tornato o si preveda che torni a prestare la sua attività nello Stato g) membro da cui è stato distaccato; h) la circostanza che il datore di lavoro che distacca il lavoratore provveda alle spese di viaggio, vitto o alloggio e le modalità di pagamento o rimborso; i) eventuali periodi precedenti in cui la medesima attività è stata svolta dallo stesso o da un altro lavoratore j) distaccato; k) l’esistenza del certificato relativo alla legislazione di sicurezza sociale applicabile; l) ogni altro elemento utile alla valutazione complessiva. 7 In virtù della suddetta decisione, è stato definito che nei casi in cui «esistano dubbi sulla validità di un documento o sulla correttezza di una certificazione attestante la situazione di una persona ai fini dell’applicazione del regolamento (CE) n. 883/2004 o del regolamento (CE) n. 987/2009» ovvero nei «casi in cui emerga una divergenza di punti di vista tra Stati membri sulla determinazione della legislazione applicabile» l’istituzione competente di tale Stato ha facoltà di contattare l’istituzione competente che ha rilasciato il certificato per chiedere motivatamente i necessari chiarimenti sulla decisione adottata e, se del caso, ritirare o dichiarare non valido il documento in questione, oppure riesaminare o annullare la sua decisione. L’istituzione destinataria della richiesta, previa conferma del ricevimento di quest’ultima, dovrà condurre un’istruttoria, da concludersi entro 3 mesi salvo una proroga per comprovati motivi, all’esito della quale deve dichiarare se conferma o annulla la decisione originaria e/o se ritira o dichiara invalido il documento. In caso di mancato accordo nella predetta prima fase, le autorità competenti degli Stati membri interessati, previa redazione di una propria relazione sull’attività compiuta, possono decidere di adire direttamente la Commissione Amministrativa ovvero avviare la
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anche stragiudiziale, la cooperazione fra le istituzioni dei diversi stati membri coinvolti, onde garantire il corretto svilupparsi dei flussi informativi e contributivi, assicurando un’adeguata tutela sociale in favore dei lavoratori, senza tuttavia frustrare le esigenze economiche aziendali delle imprese, pur sempre nel rispetto della normativa europea.
4. La decisione della Corte di Giustizia. Delineato il quadro normativo di riferimento e le prassi sviluppatesi sul punto, venendo alla fattispecie concreta rispetto a cui la Corte di Giustizia si è pronunciata, vale rilevare come nel caso di specie abbiano prevalso maggiormente gli aspetti sostanziali piuttosto che l’osservanza di un rigido formalismo a cui per ipotesi avrebbe potuto aderire la Corte sposando la postura adottata dal giudice di prime cure. La Corte, infatti, pur rilevando che sul piano formale le prescrizioni normative dettate in materia di legislazione applicabile e di rilascio dei certificati E 101 fossero state rispettate da parte dell’Azienda bulgara coinvolta nella vicenda ed, anzi, che l’istituzione belga competente non avesse osservato la procedura preventiva di dialogo e conciliazione, ha comunque conferito, nella decisione finale, un maggior peso alle risultanze sostanziali che, quanto meno in via indiziaria, si scontravano con il dato formale ed inducevano a ritenere che nell’ottenimento ovvero nell’impiego di tali certificati vi fosse stata un’elusione del dato normativo, onde assicurarsi la possibilità di un minor onere contributivo, sfruttando il regime previdenziale bulgaro che risultava maggiormente conveniente per la Società datrice di lavoro rispetto a quello dello Stato belga ove i lavoratori svolgevano la loro attività in regime di distacco. L’efficacia persuasiva della sentenza qui in commento, come sopra anticipato, va in particolare rilevata nel costrutto argomentativo, il quale poggia le sue radici nei principi generali del diritto sovrannazionale, imponendosi dunque con una forza ed una portata applicativa che va ben al di là del singolo istituto del distacco di lavoratori ivi trattato. Con ordine, infatti, ed in via preliminare, la Corte di Giustizia ha ricostruito il perimetro normativo entro cui la vicenda giudiziale doveva essere inserita, ricordando la valenza di norme di conflitto, come tali implicanti profili di diritto internazionale privato, riconosciuta dalla consolidata giurisprudenza europea, e prima ancora comunitaria, al complesso di norme di cui al titolo II del reg. U.E. n. 1408/71, in quanto volto ad assicurare che i lavoratori che si spostano all’interno dell’Unione Europea, in virtù della libera circolazione delle persone e dei lavoratori, non subiscano, sul piano del regime previdenziale, delle lesioni o un’ablazione dei loro diritti individuali e delle tutele agli stessi spettanti a causa dell’applicazione cumulativa di diverse normative nazionali8. Proprio per tali ragioni, risul-
seconda fase, che consiste in un dialogo diretto fra due preposti appositamente nominati; dialogo che deve concludersi entro 6 settimane, decorse le quali, in mancanza di un accordo, gli Stati potranno rivolgersi alla Commissione Amministrativa. 8 Cfr. sul punto le seguenti sentenze rese dalla Corte di Giustizia: C. giust., 3 maggio 1990, causa C-2/89, Kits van Heijningen, punto 12; C. giust., 16 febbraio 1995, causa C-425/93, Calle Grenzshop Andresen, punto 9; C. giust., 13 marzo 1997, causa C-131/95, Huijbrechts, punto 17; C. giust., 11 giugno 1998, causa C-275/96, Kuusijärvi, punto 28; C. giust., 23 settembre 1982, Kuijpers, causa
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ta giustificata l’eccezione dettata dall’art. 14, paragrafo 1, lett. a) del reg. U.E. n. 1408/71 che consente all’impresa datrice di lavoro, che al contempo riveste la qualifica di soggetto distaccante, di mantenere i propri dipendenti iscritti al regime previdenziale dello Stato di stabilimento, ove appunto l’Azienda ha la propria sede e purché vengano rispettati i requisiti sopra esposti, ancorché i lavoratori distaccati svolgano la propria attività nel territorio di un altro Stato membro ed in favore di un soggetto diverso dal proprio datore di lavoro. A ben vedere, tale disposizione derogatoria al principio lex loci laboris costituisce il crocevia ed il punto di equilibrio fra libertà di natura eminentemente economica e le tutele sociali e previdenziali che devono essere apprestate in favore dei lavoratori subordinati. In qualche modo, si può sostenere che costituisce, in nuce, l’espressione dell’essenza stessa del diritto dell’Unione Europea, il quale nella sua evoluzione ha dismesso i tratti di un apparato normativo economico centrico, per assumere anche il ruolo di promotore e garante dei diritti sociali dei cittadini degli Stati membri, intesi sia come tali sia come lavoratori. L’art. 14, paragrafo 1, lett. a) si propone infatti di favorire la libera prestazione di servizi e la libera circolazione delle persone, incentivando l’integrazione economica fra imprese di Stati membri differenti, ed evitando dunque complicazioni amministrative e burocratiche che potrebbero costituire un ostacolo a tal fine, tutelando tuttavia al contempo la posizione dei lavoratori distaccati, a condizione che gli stessi mantengano un legame organico con il proprio datore di lavoro. Portatore della medesima funzione di contemperamento è anche l’istituto del certificato E 101, come riconosciuto anche in altri arresti della Corte di Giustizia9, la cui adozione deve necessariamente essere improntata al rispetto del generale principio di leale collaborazione fra gli Stati membri, il quale impone in capo alle istituzioni competenti al rilascio un’attenta e ponderata valutazione dei dati raccolti e che dovranno essere poi attestati nel predetto documento. In particolare, seguendo il ragionamento svolto dalla Corte e suggerito ancora prima dalle conclusioni dell’Avvocato Generale che sono state integralmente sposate in sede di definizione del rinvio pregiudiziale, il principio di leale collaborazione sottende, a sua volta, il principio della reciproca fiducia fra gli Stati membri, dal cui combinato disposto debbono trarsi reciproci diritti, rectius legittime aspettative, e doveri, declinati nel reg. U.E. n. 883/2004, come ora modificato dal reg. U.E. n. 988/2009, come doveri di cooperazione ed informazione reciproca10. Se in capo all’istituzione rilasciante sussiste l’obbligo di veridicità dei fatti attestati, specularmente in capo all’istituzione competente dello Stato membro di destinazione è ragionevole che sussista una legittima aspettativa di regolarità e validità del certificato rilasciato. In altri termini, in virtù della presunzione di regolarità del certificato E 101, quale conseguenza dell’applicazione pratica del principio
C-276/81, punto 10; C. giust., 10 febbraio 2000, FTS, causa C-202/97, punto 20 e giurisprudenza ivi citata; C. giust., 9 novembre 2000, Plum, causa C-404/98, punto 18; C. giust., 4 ottobre 2012, Format Urządzenia i Montaże Przemysłowe, causa C‑115/11, punto 29 e giurisprudenza ivi citata. 9 Cfr. sentenze C. giust., 26 gennaio 2006, causa C‑2/05, Herbosch Kiere, punti 20-21 e C. giust., 27 aprile 2017, causa C‑620/15, A-Rosa Flussschiff, punti 37-38. 10 La Direttiva 2014/67/UE promuove addirittura un sistema di informazione del mercato interno (c.d. SMI) e sottolinea l’opportunità di istituire un’unica fonte web nazionale per ogni Stato membro onde facilitare l’accessibilità delle informazioni.
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di leale collaborazione e di reciproca fiducia, discende il carattere vincolante dell’anzidetto documento, che imporrebbe, a rigore, l’impossibilità che l’istituzione ovvero le Autorità dello Stato membro ove il lavoratore viene distaccato, ivi comprese le Autorità giudiziarie, possano disattendere quanto attestato ufficialmente, quanto meno sino a quando il certificato non sia stato revocato ovvero invalidato dall’istituzione che lo ha rilasciato. Tuttavia, se è pur vero che la giurisprudenza della Corte di Giustizia tradizionalmente conferisce efficacia vincolante al certificato E 10111, è altrettanto vero che, in virtù del principio della leale collaborazione12 e della reciproca fiducia fra Stati, non può essere avallato un impiego fraudolento degli strumenti che il diritto dell’Unione attribuisce, men che meno con il bene placido delle istituzioni o delle autorità nazionali. In particolare, in virtù del principio di leale cooperazione discendono due obblighi. In primo luogo, nella procedura di rilascio di tale documento, l’obbligo di procedere ad una corretta valutazione dell’applicazione del regime nazionale previdenziale al quale corrisponde, specularmente, un legittimo affidamento da parte delle istituzioni degli Stati membri. Secondariamente, l’obbligo di rivedere poi le proprie determinazioni, eventualmente revocando se del caso il certificato già rilasciato, qualora le istituzioni degli altri Stati membri nel cui territorio detto certificato ha esplicato una qualche rilevanza, nel caso di specie per lo svolgimento della prestazione lavorativa in regime di distacco, manifestino dei dubbi ovvero delle riserve in ordine alla validità di detto documento ovvero alla veridicità dei dati ivi certificati che potrebbero integrare gli estremi di un’ipotesi di frode alla legge. La Corte, infatti, ha evidenziato come nell’ambito del distacco transnazionale di lavoratori e nel coordinamento dei regimi di previdenza sociale possano venire in rilievo ipotesi di abuso del diritto europeo da parte dell’imprese datrici di lavoro, dando luogo
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In ambito nazionale la vincolatività del certificato A1, già certificato E 101, è riconosciuta anche dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Si veda, sul punto, la circolare n. 1/2017, in commento della disciplina di recepimento della recedente direttiva del 2014, ove è stato previsto che «per quanto attiene al profilo previdenziale gli effetti attribuiti al certificato risultano comunque vincolanti, nei confronti delle istituzioni e delle autorità competenti ad effettuare attività di vigilanza, anche qualora queste ultime abbiano riscontrato eventuali ipotesi di frode, abuso o elusione della normativa in materia di distacco, sino al loro eventuale ritiro ad opera dello Stato che li ha rilasciati ovvero sino alla decisione della Commissione amministrativa dell’Unione appositamente interessata dallo Stato ospitante. Ciò quanto il certificato A1 costituisce una importante garanzia per il lavoratore che può continuare a mantenere la propria posizione previdenziale presso un’unica gestione, evitando, di conseguenza, la frammentazione delle erogazioni pensionistiche in Istituti previdenziali di diversi Paesi». 12 Per un approfondimento del valore del principio di leale cooperazione nella materia della previdenza sociale alla luce della lettura della giurisprudenza della Corte di Giustizia, si rinvia ex multis, alla sentenza del 3 marzo 2016, C-12/14 ove la Commissione europea, con un ricorso giurisdizionale per inadempimento, ha chiesto alla Corte di dichiarare che, deducendo dalle pensioni di vecchiaia maltesi l’importo delle pensioni corrisposte dal regime pensionistico della funzione pubblica di altri Stati membri, la Repubblica di Malta fosse venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 46 ter del reg. U.E. n. 1408/71 nella sua versione modificata e aggiornata dal reg. U.E. n. 118/97, come modificato dal reg. U.E. n. 592/2008, nonché dell’art. 54 del reg. U.E. n. 883/2004, come modificato dal reg. U.E. n. 465/2012. In tal caso il principio di leale collaborazione veniva in rilievo quale fonte dell’obbligo sussistenza in capo ad ogni Stato membro di procedere ad una corretta valutazione dei propri regimi di sicurezza sociale, onde ottemperare alle dichiarazioni di cui agli artt. 5 reg. U.E. n. 1408/71 e 9, par 1 reg. U.E. n. 883/2004 in ordine alla riconducibilità di detti regime nell’ambito di applicazione di tali regolamenti. In virtù del principio di leale collaborazione, parimenti alla vicenda oggetto della sentenza qui in commento, dette dichiarazioni creano una presunzione di regolarità della valutazione svolta dagli Stati, tale per cui «fino a quando le dichiarazioni di uno Stato membro non vengano modificate o revocate, gli altri Stati membri devono tenerne conto. Spetta allo Stato membro che ha reso la dichiarazione riconsiderare il merito della stessa e, se del caso, modificarla quando un altro Stato membro esprima dubbi quanto all’esattezza di tali dichiarazioni».
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a fenomeni di dumping sociale e di “shopping contributivo”, sfruttando i regimi previdenziali maggiormente convenienti. L’utilizzo fraudolento del certificato E 101 può infatti assumere sia le vesti di un comportamento attivo sia omissivo, rispettivamente nella forma della falsificazione dei dati o della dissimulazione dell’esistenza di un’informazione rilevante. In ambedue i casi, tuttavia, rileva la mancata integrazione delle condizioni richieste dalla legislazione europea per il corretto rilascio di tale attestazione e funge da minimo comune denominatore della condotta datoriale oggetto di censura l’elemento soggettivo psicologico, indice dell’intenzione elusiva del dato normativo per ottenerne un beneficio di carattere economico in termini di un minor carico contributivo. Particolarmente attenta è infatti la ricostruzione che la Corte svolge della fattispecie dell’abuso del diritto e della frode alla legge, di per sé figura giuridica di carattere generale, calandola nello specifico ambito della materia dei regimi di previdenza sociale. E pare altresì pienamente condivisibile il ragionamento seguito, in virtù del quale, dinnanzi all’aspetto meramente formalistico del rispetto della procedura per il rilascio del certificato E 101, la Corte ha correttamente sottolineato il carattere preminente dell’obiettivo della lotta alla frode ed abuso del diritto. Motivo per cui sarebbe miope ed aprioristico arrestarsi dinnanzi alla vincolatività di tale documento anche laddove nell’ambito di un contenzioso giudiziale siano emerse fondate ragioni in virtù delle quali reputare che lo stesso sia stato ottenuto ovvero invocato in frode al dato normativo europeo. Diversamente opinando e sposando acriticamente la valenza vincolante del certificato, come di fatto sostenuto dal giudice di prime cure, verrebbe legittimato non già solo lo scardinamento della disciplina giuridica in materia di distacco transnazionale, a detrimento delle tutele che l’ordinamento appresta in favore dei lavoratori, bensì anche la vanificazione della cooperazione fra Stati e dei principi cardine in materia di concorrenza leale. Nel caso di specie, addirittura, i profili di irregolarità dovevano essere imputati tanto all’impresa distaccante quanto all’impresa utilizzatrice. La prima, infatti, distaccava i propri dipendenti in altro Stato membro senza integrare il requisito previsto ex lege di svolgimento di un’attività sostanziale nello Stato di stabilimento, assumendo dunque i tratti di una società fittizia o di mero comodo. L’impresa belga utilizzatrice, dal canto suo, faceva sistematico ricorso a contratti di subappalto per poter portare a termine le commesse acquisite sfruttando integralmente la manodopera in forza presso l’impresa bulgara. L’intreccio di tali operazioni commerciali denotava il comune intento fraudolento delle imprese coinvolte. Onde evitare dunque che, in ossequio di uno stringente formalismo, vengano legittimate pratiche fraudolente come quelle poste in essere nella vicenda oggetto di vaglio della Corte, quest’ultima ha riconosciuto la possibilità, in capo all’Autorità Giudiziaria dello Stato di destinazione che accerti, nell’ambito di un’inchiesta giudiziale, l’esistenza di prove indiziarie di una condotta elusiva e/o abusiva nell’ottenimento del certificato E 101, di sottrarsi all’efficacia vincolante di tale attestazione purché concorrano delle condizioni di carattere procedurale, sostanziale ed altresì processuale. Sul piano procedurale, in caso di riserve in ordine alla validità o veridicità di quanto attestato nel certificato, l’istituzione competente dello Stato deve preventivamente rivolgere all’autorità che ha rilasciato tale documento una motivata domanda di riesame e revoca dello stesso a fronte degli elementi raccolti da cui emerge la condotta di abuso del diritto (requisito sostanziale). La Commissione e l’Autorità Giudiziale potranno dunque essere investite solo qualora la predetta do-
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manda, nonostante il decorso di un ragionevole termine di tempo, rimanga inevasa ovvero permangano le riserve iniziali. Sul piano processuale, invece, è necessario che le risultanze dell’inchiesta giudiziaria sulla base delle quali viene sollevato l’incidente di riesame vengano fatte valere in seno ad un procedimento giudiziario promosso nei confronti dei soggetti autori della condotta fraudolenta, consentendo loro un’adeguata difesa nel rispetto delle garanzie inerenti al diritto all’equo processo. Allargando la portata ed il respiro del principio di diritto enunciato nella sentenza oggetto di commento, si comprende come l’impiego fraudolento della disciplina sovrannazionale dettata in materia di previdenza sociale in caso di distacco di lavoratori all’interno dell’Unione Europea non solo avrebbe dei riflessi, che devono essere censurati ed scongiurati, nell’ambito della diritto del lavoro e previdenziale, bensì incrinerebbe anche le dinamiche della concorrenza leale fra imprese le quali, sin dall’avvio dell’integrazione comunitaria, hanno costituito uno dei principali fattori di aggregazione ed, al contempo, uno dei principali obiettivi comuni agli Stati membri. Addirittura, potrebbe costituire ragione di proliferazione di ipotesi di concorrenza sleale fra gli ordinamenti stessi. La soluzione della Corte di Giustizia non può che essere accolta con plauso, in quanto, spogliandosi delle rigidità a cui l’osservanza del precetto legale avrebbe potuto condurre, ha posto un evidente freno alle ipotesi di distacchi fraudolenti. Invero, antesignano del sentimento sovrannazionale di cui la Corte di Giustizia si è fatta in tal modo portavoce è quanto esposto nei considerando nn. 7 e 8 della dir. n. 2014/67, con i quali il legislatore europeo, prima ancora della pronuncia in commento, aveva esortato ad un miglioramento dell’applicazione e del monitoraggio dell’istituto del distacco onde prevenire e combattere la violazione e l’elusione delle norme applicabili. Non rimane dunque che attendere e verificare se i chiarimenti offerti dalla Corte di Giustizia costituiranno uno strumento efficace di deterrenza onde arginare le prassi illeciti finalizzate all’ottenimento di un fraudolento vantaggio dalla libertà di circolazione delle persone, ivi compresi i lavoratori, e dalla libertà di prestazione di servizi.
Silvia Ortis
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Giurisprudenza Corte di Cassazione, sez. un., sentenza 20 novembre 2017, n. 27435; Pres. Amoroso – Rel. Perrino – P.M. Matera (concl. diff.) – R. s.c. a r.l. (avv.ti Pagliari, Frus, Mangione) c. V.S. (avv.ti Criscuolo, Della Corte, Guadagni). Conferma App. Torino, sent. n. 726/2014. Licenziamenti – Socio lavoratore di cooperativa – Esclusione e licenziamento – Omessa impugnazione della delibera di esclusione – Interesse ad agire contro il licenziamento – Sussiste – Tutela reintegratoria – Esclusa – Tutela risarcitoria – Ammessa.
In tema di tutela del socio lavoratore di cooperativa, in caso d’impugnazione, da parte del socio, del recesso della cooperativa, la tutela risarcitoria non è inibita dall’omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni, afferenti al rapporto di lavoro, mentre resta esclusa la tutela restitutoria. Svolgimento del processo. – Emerge dalla sentenza impugnata della Corte d’appello di Torino che S.V., socio lavoratore della cooperativa di lavoro R., fu nel contempo escluso dalla cooperativa e da essa licenziato per giusta causa, in ragione della contestata aggressione ad un superiore gerarchico; ma non impugnò la deliberazione di esclusione, limitandosi ad impugnare il licenziamento. In primo grado il Tribunale di Torino, respinta, oltre all’eccezione d’incompetenza, quella di decadenza per l’omessa impugnazione della deliberazione di esclusione, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, aveva accordato al socio lavoratore la tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 l. n. 604/66 ed aveva altresì affermato l’applicabilità al rapporto, ai fini del trattamento retributivo, del c.c.n.l. Multiservizi. La Corte d’appello, nel rigettare l’appello principale della cooperativa e nell’accogliere quello incidentale della controparte, ha sostenuto che, al cospetto dei due contestuali atti estintivi, di esclusione dalla cooperativa e di licenziamento, potesse essere impugnato anche soltanto il secondo, senza necessità d’impugnare il primo; nel merito, ha escluso la sussistenza della giusta causa di recesso ed ha riconosciuto al lavoratore l’importo massimo di dieci mensilità.
La cooperativa R. ricorre per ottenere la cassazione di questa sentenza ed articola in sei motivi il ricorso, che illustra con memoria e che non ha sortito replica. La sezione lavoro di questa Corte, ravvisata la sussistenza di contrasti esistenti in materia anche nella giurisprudenza di legittimità ed evidenziata l’importanza della questione, che coinvolge la ricostruzione dei meccanismi estintivi del rapporto e delle tutele applicabili ai numerosissimi soci lavoratori di cooperative, ha sottoposto la questione al Primo Presidente ai fini dell’assegnazione alle sezioni unite. La controversia è stata quindi assegnata a queste sezioni unite; in prossimità della pubblica udienza la cooperativa ha depositato ulteriore memoria. Motivi della decisione. – Col primo motivo del ricorso, la cooperativa denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione degli artt. 1322 e 2533 c.c., nonché della L. 3 aprile 2001, n. 142, artt. 1, 2 e 5. Sostiene che, nel caso di esclusione dalla società cooperativa e di contestuale licenziamento del socio lavoratore, l’omessa impugnazione della delibera di esclusione precluda quella del licenziamento. La questione scaturisce dal fatto che in capo al socio lavoratore coesistono più
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rapporti contrattuali e che, quindi, il lavoro cooperativo è luogo di convergenza di più cause contrattuali. È sul piano degli effetti scaturenti dalla relazione tra i due rapporti, soprattutto nella loro fase estintiva, osservatorio privilegiato delle dinamiche negoziali, che si sono venute a determinare le incertezze, radicate nella giurisprudenza di merito, ma affioranti anche in quella di legittimità, delle quali il tema posto dal ricorso è manifestazione. Derivano, queste oscillazioni di giurisprudenza, dal differente peso che si assegna alla specialità che il rapporto cooperativo esprime rispetto allo schema della subordinazione o agli altri modelli di facere lavorativo che possono affiancare il rapporto sociale. Sicché, a seconda del peso, maggiore o minore, che si riconosca a ciascuno dei due rapporti, di lavoro e associativo, si giunge a conclusioni diverse in relazione alla giustiziabilità del licenziamento del socio lavoratore che si accompagni alla delibera della cooperativa che lo escluda, qualora questa non sia impugnata. 1.1. Quando ha affrontato il tema ex professo, questa Corte ha stabilito che, al cospetto di esclusione e licenziamento, il socio deve necessariamente opporsi alla delibera di esclusione; in mancanza, è inammissibile per difetto d’interesse l’azione proposta per contestare la legittimità del solo licenziamento (Cass., 26 febbraio 2016, n. 3836). 1.2. In altre occasioni (Cass., 1 aprile 2016, n. 6373; conf., 5 dicembre 2016, n. 24795) si è convenuto, sia pure in obiter, che la mancata tempestiva impugnazione in giudizio della delibera di esclusione preclude qualsiasi statuizione che riguardi il licenziamento; ma si è riconosciuta, pure a fronte dell’omessa impugnazione della prima, la tutela normale che discen-
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de dal giudizio sul secondo, in considerazione dell’inefficacia della delibera di esclusione, che in quel caso non era stata comunicata. Emergono, inoltre, dalle sentenze richiamate nell’ordinanza di rimessione ulteriori impostazioni di fondo destinate a condurre a soluzioni ancora diverse. La divergenza di principi è quindi certamente sintomo del fatto che ci si trova in presenza di una questione di massima e particolare importanza, appunto perché chiama in causa profili di principio. È dunque dalla ricostruzione dei principi che occorre partire. 2. Il cospicuo contenzioso alimentato dalla progressiva sottoprotezione cui si sono trovati esposti i soci lavoratori, e l’espansione del fenomeno della cooperativa spuria o fraudolenta hanno evidenziato l’insufficienza dell’impostazione tradizionale (che si trova espressa in Cass., sez. un., 28 dicembre 1989, n. 5813), secondo la quale in relazione alle prestazioni di un socio di società cooperativa di produzione e lavoro, in conformità delle previsioni del patto sociale ed in correlazione con le finalità istituzionali della società, non è configurabile non solo un rapporto di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, ma nemmeno un rapporto di collaborazione. Le prestazioni del socio lavoratore, si riteneva, integrano adempimento del contratto di società, per l’esercizio in comune dell’impresa societaria, di modo che non sono riconducibili a due distinti centri di interessi; lo scopo dei soci, i quali partecipano direttamente al rischio d’impresa, si specificava, è comune e trascende la mera collaborazione, proprio perché è connotato dall’associazione. 2.1. La tesi era avallata anche dalla Corte costituzionale, la quale – nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzio-
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nale dell’art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, nella parte in cui non prevede(va) la tutela del fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto anche in favore dei soci delle cooperative di produzione e lavoro, ai quali il diritto a tale trattamento sia attribuito dall’atto costitutivo della società o da una delibera successiva di modificazione del medesimo – aveva osservato che “a differenza del prestatore di lavoro definito dall’art. 2094 c.c., il socio lavoratore di una cooperativa di lavoro è vincolato da un contratto che, se da un lato lo obbliga a una prestazione continuativa di lavoro in stato di subordinazione rispetto alla società, dall’altro lo rende partecipe dello scopo dell’impresa collettiva e corrispondentemente gli attribuisce poteri e diritti di concorrere alla formazione della volontà della società, di controllo sulla gestione sociale e infine il diritto a una quota degli utili” (Corte cost. 12 febbraio 1996, n. 30; la sentenza è stata poi richiamata a sostegno della successiva ordinanza d’inammissibilità 28 dicembre 2006, n. 460, a sua volta ripresa dall’ordinanza 15 aprile 2014, n. 95). 3. Ne era, tuttavia, evidente l’inadeguatezza, in quanto l’egemonia della qualità sociale sacrificava la rilevanza della prestazione di lavoro, che, nella sostanza economica, è coessenziale al contratto sociale ed allo sviluppo del rapporto che ne deriva. La cooperazione è contrassegnata dall’utilità della prestazione lavorativa; e l’esigenza di protezione del socio lavoratore, contraente debole, ha innestato la tendenza espansiva del diritto del lavoro, che ha permeato il lavoro cooperativo di istituti e discipline propri di quello subordinato: e ciò perché anche colui che lavora per un profitto comune, come ogni prestatore di lavoro, è impegnato con la sua stessa persona nell’esecuzione dell’attività. La dimensione del lavoro ha dunque acquisito risalto e visibilità, di modo che, si
è stabilito (Cass., sez. un., 30 ottobre 1998, n. 10906), il rapporto tra socio lavoratore e cooperativa va sì qualificato come associativo, ma appartiene ad una “categoria contigua e interdipendente a quella del lavoro subordinato o parasubordinato”; sicché esso è equiparabile ai vari rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c. 3.1. Coerentemente il legislatore, nel costruire la riforma della cooperazione di lavoro, ha disegnato il lavoro cooperativo come combinazione del rapporto associativo con “un ulteriore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi rapporti di collaborazione coordinata non occasionale” (L. n. 142 del 2001, art. 1). 4. Il raggiungimento dello scopo sociale della cooperativa di lavoro si realizza, quindi, con una attività di impresa nel cui ambito si inscrivono, appunto, i rapporti di lavoro. 4.1. La combinazione dei due rapporti, associativo e di lavoro, assume la veste di collegamento necessario, perché è animata dallo scopo pratico unitario dell’operazione complessiva, al perseguimento del quale entrambi sono indirizzati: il legame dei due rapporti innerva per volontà del legislatore la funzione del lavoro cooperativo. 4.1.1. La categoria del collegamento negoziale si rivela più adeguata dello schema del contratto normativo, preferito da una parte della dottrina. Ciò in quanto la causa della cooperativa di lavoro tende alla realizzazione dello scopo mutualistico e non già alla stipulazione di contratti particolari, come avviene nel caso del contratto collettivo di lavoro (giusta gli artt. 2071 e 2077 c.c.) o anche in quello del contratto collettivo di consorzio (secondo gli artt. 2602 e 2603 c.c.). Opportunamente si è sottolineato che, tra gli altri, lo statuto della cooperativa rappresenta un contratto normativo apparente,
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perché esso, pur ponendo una serie di norme, è destinato a disciplinare non già futuri rapporti, sibbene rapporti che sono in atto. 5. L’equilibrio del peso dei due rapporti in seno alla combinazione è stato, tuttavia, intaccato dalla novella della L. n. 142 del 2001, dovuta alla L. 14 febbraio 2003, n. 30. La L. n. 30 del 2003, ha disposto l’eliminazione dalla L. n. 142 del 2001, art. 1, comma 3, dell’aggettivo “distinto”, lasciando, in riferimento al rapporto di lavoro, soltanto la qualificazione di “ulteriore”; ha aggiunto inoltre l’art. 5, comma 2, il quale prescrive che: “2. Il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli artt. 2526 e 2527 c.c. (oggi, con l’art. 2533 c.c.). Le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario”. 5.1. Il collegamento, quindi, nella fase estintiva dei rapporti, ha assunto caratteristica unidirezionale. La cessazione del rapporto di lavoro, non soltanto per recesso datoriale, ma anche per dimissioni del socio lavoratore, non implica necessariamente il venir meno di quello associativo. Ciò perché il rapporto associativo può essere alimentato dal socio mediante la partecipazione alla vita ed alle scelte dell’impresa, al rischio ed ai risultati economici della quale comunque egli partecipa, a norma della L. n. 142 del 2001, art. 1, comma 2. Né la figura del socio inerte, che emerge anche per mano del legislatore, con riguardo alla cooperativa a mutualità non prevalente, entra in frizione con le regole costituzionali, in quanto l’art. 45 Cost., riconosce funzione sociale alla cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata, alla quale il socio inerte non è estraneo.
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5.2. La cessazione del rapporto associativo, tuttavia, trascina con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro. Sicché il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore. Lo si legge nella L. n. 142 del 2001, art. 5, comma 2, il quale esclude che il rapporto di lavoro possa sopravvivere alla cessazione di quello associativo. Regola, questa, espressione di quella generale fissata in tema di esclusione del socio di cooperativa dall’art. 2533 c.c., in virtù della quale “qualora l’atto costitutivo non preveda diversamente, lo scioglimento del rapporto sociale determina anche la risoluzione dei rapporti mutualistici pendenti” (discorre di dipendenza dell’estinzione del rapporto di lavoro da quella del rapporto sociale, tra le ultime, Cass., ord. 18 maggio 2016, n. 10306). 6. Non può, quindi, essere condiviso l’orientamento (espresso da Cass. 23 gennaio 2015, n. 1259; 11 agosto 2014, n. 17868; 6 agosto 2012, n. 14143) secondo il quale qualora l’esclusione di un socio lavoratore di cooperativa si fondi esclusivamente sul suo licenziamento, non si configura l’ipotesi propria della L. n. 142 del 2001, art. 5, comma 20, che prevede, si è visto, l’automatica caducazione del rapporto di lavoro alla cessazione del rapporto associativo. In base a questa tesi quel che rileverebbe sarebbe la natura delle ragioni addotte a fondamento dell’espulsione del lavoratore. Sicché, in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento che ha costituito motivo determinante l’esclusione, anche quest’ultima risulterebbe illegittima. Verrebbe in tal caso a trovare attuazione l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, perché, nel caso di delibera di esclusione fondata sul licenziamento, non ricorrerebbero i presupposti di applicazione della L.
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n. 142 del 2001, art. 2, il quale prevede l’“esclusione dell’articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo”. 6.1. Quest’impostazione determina il capovolgimento della relazione di dipendenza prefigurata dal legislatore tra l’estinzione del rapporto associativo e quella del rapporto di lavoro, che deriva dal collegamento tra essi. È la caratteristica morfologica dell’unidirezionalità del collegamento fra i rapporti, difatti, a determinare la dipendenza delle loro vicende estintive, non già l’indagine, necessariamente casistica, sulle ragioni che sono poste a fondamento dell’espulsione del socio lavoratore. 7. Il nesso di collegamento tra rapporto associativo e rapporto di lavoro, tuttavia, per quanto unidirezionale, non riesce ad oscurare la rilevanza di quello di lavoro, anche nella fase estintiva. Basta l’aggettivo “ulteriore”, tuttora contenuto nel testo novellato della L. n. 142 del 2001, art. 1, ad evidenziarla ed a sottolinearne l’autonomia. 7.1. Non mostra di tener conto di tale autonoma rilevanza l’orientamento, di segno opposto al precedente, in base al quale, al cospetto di condotte che ledano nel contempo il rapporto associativo e quello di lavoro, sarebbe unico il procedimento volto all’estinzione di entrambi; di modo che, adottata la delibera di esclusione, risulterebbe ultroneo un distinto atto di recesso datoriale dal rapporto di lavoro (Cass. 13 maggio 2016, n. 9916; 12 febbraio 2015, n. 2802; 5 luglio 2011, n. 14741). Orientamento del quale rappresenta logico corollario quello, già richiamato, secondo il quale l’omessa impugnazione della delibera di esclusione preclude l’esame dell’impugnazione del licenziamento. 8. Alla duplicità di rapporti può corrispondere la duplicità degli atti estintivi, in
quanto ciascun atto colpisce, e quindi lede, un autonomo bene della vita, sia pure per le medesime ragioni: la delibera di esclusione lo status socii, il licenziamento il rapporto di lavoro. Coerentemente si è stabilito (Cass., ord. 29 luglio 2016, n. 15798; ordd. 6 ottobre 2015, nn. 19977, 19976, 19975 e 19974; ord. 21 novembre 2014, n. 24917, le quali evocano la pluralità di tutele) che, in tal caso, il concorso dell’impugnativa della delibera di esclusione e del provvedimento di licenziamento configura un’ipotesi di connessione di cause. Il punto concerne, ancora, l’interazione degli effetti rispettivamente scaturenti da ciascun atto, al fine della ricostruzione dell’apparato rimediale che si delinea al cospetto della soppressione del bene della vita costituito dal rapporto di lavoro. 8.1. In seno a questo apparato rimediale, l’effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall’esclusione dalla cooperativa a norma della L. n. 142 del 2001, art. 5, comma 2, impedisce senz’altro, in mancanza d’impugnazione della delibera che l’abbia prodotto, di conseguire il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore. È la tutela restitutoria ad essere preclusa dall’omessa impugnazione della delibera di esclusione (sull’applicabilità di tale tutela, in caso di accoglimento dell’impugnazione della delibera, vedi Cass. n. 9916/16, cit.; n. 2802/15, cit.; n. 11741/11, cit.). Tutela restitutoria, che consegue all’invalidazione della delibera, dalla quale deriva la ricostituzione sia del rapporto societario, sia dell’ulteriore rapporto di lavoro e che, quindi, ripete genesi e fisionomia dalla dinamica del rapporto sociale. Essa risulta quindi del tutto estranea ed autonoma rispetto alla tutela reale prevista dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori, di matrice, appunto, lavoristica (sulla quale invece punta, una volta “rimosso il prov-
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vedimento di esclusione”, Cass. 4 giugno 2015, n. 11548). L’omessa impugnazione della delibera ne garantisce per conseguenza l’efficacia, anche per il profilo estintivo del rapporto di lavoro. 8.2. L’effetto estintivo, tuttavia, di per sé non esclude l’illegittimità del licenziamento, come del resto non esclude l’illegittimità della stessa delibera di esclusione che sia fondata sui medesimi fatti; né elide l’interesse a far valere l’illegittimità del recesso. 8.3. Qualora s’impugni il solo licenziamento, difatti, non si prescinde dall’effetto estintivo del rapporto di lavoro prodotto dalla delibera di esclusione. Anzi: proprio perché la delibera di esclusione, essendo efficace, produce anche l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, destinato a restar fermo per mancanza d’impugnazione della fonte che l’ha determinato, viene a determinarsi un danno. Ed al danno si può porre rimedio con la tutela risarcitoria. 8.4. Questa ricostruzione si specchia nella previsione già richiamata della L. n. 142 del 2001, art. 2, a proposito dell’“esclusione dell’articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo”. La disposizione conferma che è la – sola – tutela restitutoria ad essere preclusa qualora, insieme col rapporto di lavoro, venga a cessare anche quello associativo: il proprium dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori del quale è esclusa l’applicazione, almeno all’epoca in cui la norma è stata confezionata, consisteva giustappunto nella tutela reale. Essa, però, lascia impregiudicata l’esperibilità di tutela diversa da questa, ossia di quella risarcitoria contemplata dalla L. 16 luglio 1966, n. 604, art. 8, sempre dovuta qualora il rapporto non si ripristini; laddove, rispetto al risarcimento, l’offerta datoriale di riassunzione contemplata dall’art. 8, corrisponde ad
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una proposta contrattuale di ricostituzione di un nuovo rapporto (Cass. 24 febbraio 2011, n. 4521; 26 febbraio 2002, n. 2846). 9. L’accoglimento della domanda risarcitoria non travolge gli effetti della delibera di esclusione; e non impedisce neppure che essa continui a produrre i propri effetti anche come regola del caso concreto: ciò perché la domanda ha per oggetto il diritto ad un ristoro per il fatto che la cessazione del rapporto di lavoro ha cagionato un danno e l’ha provocato illegittimamente. L’oggetto del giudizio è definito dalla pretesa fatta valere con la domanda; e qui la pretesa consiste soltanto nel diritto al risarcimento del danno, che deve avere la qualificazione di “ingiusto”, ma che innanzi tutto deve essere identificabile come tale. Rispetto a questa pretesa l’illegittimità del recesso e della delibera di esclusione dovuta ai medesimi fatti identifica l’ingiustizia del danno ed è per conseguenza oggetto di accertamento. 9.1. Pretendere che chi intenda chiedere soltanto la tutela risarcitoria derivante dal licenziamento illegittimo debba impugnare la delibera di esclusione equivarrebbe ad assoggettare la fruizione della prima ad un presupposto proprio della tutela restitutoria conseguente all’invalidazione dell’esclusione. Laddove, in virtù dell’art. 24 Cost., spetta al titolare della situazione protetta scegliere a quale tutela far ricorso per poter ottenere ristoro del pregiudizio subito. 9.2. Gli effetti derivanti dalla delibera di esclusione non s’identificano quindi con quelli scaturenti dal licenziamento. Anzi: sono proprio gli effetti della delibera di esclusione a dare consistenza agli effetti risarcitori derivanti dal licenziamento illegittimo. Il che sostanzia l’autonomia delle rispettive tutele (secondo un modello già applicato in altri settori come, in via d’esempio, è accaduto a proposito dell’ammissibilità
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della tutela risarcitoria degli interessi legittimi anche se non sia stata in precedenza richiesta e dichiarata in sede di annullamento l’illegittimità dell’atto: cfr., fra varie, Cass., sez. un., ord. 10 novembre 2010, n. 22809; 3 marzo 2010, n. 5025; 23 dicembre 2008, n. 30254; 15 giugno 2006, n. 13911, nonché 13 giugno 2006, nn. 13660 e 13659). 9.3. È, questa, l’opzione più coerente con le esigenze di tutela e garanzia, dinanzi sottolineate, del socio lavoratore, il quale pur sempre, nonostante partecipi alla realizzazione dello scopo mutualistico, permane l’anello debole della combinazione sintetizzata nel lavoro cooperativo.
10. Il primo motivo di ricorso va quindi rigettato, con l’affermazione del seguente principio di diritto: “In tema di tutela del socio lavoratore di cooperativa, in caso d’impugnazione, da parte del socio, del recesso della cooperativa, la tutela risarcitoria non è inibita dall’omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni, afferenti al rapporto di lavoro, mentre resta esclusa la tutela restitutoria”. 11. Gli atti vanno trasmessi alla sezione lavoro di questa Corte per l’esame dei restanti motivi e la regolazione delle spese. – (Omissis)».
L’esclusione e il licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: le sezioni unite fanno discutere ma non dirimono i contrasti Sommario : 1. Il caso del lavoratore che impugni solo il licenziamento. – 2. Il rapporto fra socio lavoratore e cooperativa: la tesi “monista” della dottrina e la scelta “dualista” del legislatore. – 3. Il collegamento negoziale unidirezionale fra rapporto di lavoro e rapporto mutualistico. L’esclusione del rimedio restitutorio. – 4. L’interesse ad accertare l’illegittimità del licenziamento per ottenere la tutela risarcitoria: i problemi della prospettiva “rimediale” accolta dalle sezioni unite. – 5. La giurisprudenza successiva.
Sinossi. Le sezioni unite tentano di risolvere un contrasto giurisprudenziale a proposito delle tutele cui può aspirare il socio lavoratore licenziato ed escluso dalla compagine sociale che non si sia tempestivamente opposto alla delibera societaria di esclusione. Il problema ha intrattenuto non poco anche la dottrina ma la decisione della Cassazione non sembra affatto destinata a chiudere il dibattito. L’occasione si rivela, dunque, utile per fare il punto su una serie di questioni di principio a proposito della natura dei rapporti fra socio lavoratore e cooperativa e per individuare, anche in prospettiva futura, i risvolti problematici della decisione assunta dal massimo organo della nomofilachia.
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1. Il caso del lavoratore che impugni solo il licenziamento. I fatti di causa sono semplici e risultano pacifici fra le parti. Un socio lavoratore di cooperativa veniva licenziato per giusta causa ed escluso dalla compagine sociale per aver aggredito un superiore gerarchico. A difesa dei propri diritti egli impugnava solo il recesso datoriale ma non la delibera di esclusione dalla società cooperativa fondata sulle medesime ragioni e domandava solo la tutela c.d. obbligatoria di cui all’art. 8 della l. 15 luglio 1966, n. 604. In giudizio veniva accertata nel merito l’insussistenza della giusta causa ma si controverteva, ab origine, a proposito della eventuale decadenza dal diritto del lavoratore di chiedere l’accertamento dell’illegittimità del recesso datoriale, derivante, secondo la tesi della cooperativa, dalla mancata impugnazione della delibera sociale di esclusione. Ottenuta la tutela obbligatoria sia in primo che in secondo grado, la sezione lavoro della Cassazione investita della questione, con ordinanza interlocutoria 24 maggio 2017, n. 13031, evidenziava un contrasto giurisprudenziale e rimetteva la decisione alle sezioni unite. Queste ultime, con la sentenza che qui si commenta, affermano la fondatezza della domanda risarcitoria dell’ex socio lavoratore e precisano che la mancata opposizione alla delibera societaria, per il cristallizzarsi dei suoi effetti, impedisce solo la tutela reintegratoria.
2. Il rapporto fra socio lavoratore e cooperativa: la
tesi “monista” della dottrina e l’opzione “dualista” del legislatore. Per venire a capo dell’intricata questione, le sezioni unite muovono i primi passi dalla «ricostruzione dei principi» su cui si radicano le diverse «impostazioni di fondo» che hanno dato origine al contrasto giurisprudenziale. La scelta argomentativa è condivisibile se si considera la convergenza di «logiche» contrattuali – di lavoro e societarie – fra loro molto diverse e rappresenta un’occasione per precisare meglio il quadro dei principi di riferimento1. Il lavoro prestato da un socio di cooperativa in favore della medesima società pone il problema di coordinare la dinamica dello scambio fra lavoro e retribuzione (o compenso) che caratterizza il lavoro subordinato (o autonomo) con la dinamica associativa e, in particolare, con quella mutualistica tipica della società cooperativa. Il lavoro, infatti, oltre ad essere oggetto di una delle obbligazioni principali del rapporto di lavoro può essere oggetto di conferimento in società e la sua prestazione può quindi essere considerata anche adempimento del contratto sociale. Quando poi il lavoro è prestato in favore di cooperative che fanno dell’opportunità
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Oltre alla dottrina citata infra cfr. anche Laforgia, La cooperazione e il socio-lavoratore, Giuffrè, 2009; Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la c.d. legge Biagi, in ADL, 2004, 1, 63; De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa, in FI, 2001, V, 233; Vincieri, Lavoro nelle cooperative, in DDP comm, XVIII, 2008, 494; Montuschi, Tullini (a cura di), Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, Giappichelli, 2002; Nogler, Tremolada, Zoli (a cura di), La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in NLCC, 2002, 339; Tremolada, Il lavoro nelle cooperative, in Aa. Vv., Fonti e tipologie dei contratti di lavoro, Giuffré, 2017, 471.
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lavorativa – e della sua qualità – il fine stesso dei propri obiettivi mutualistici (si parla in tal caso di “cooperative di produzione e lavoro”), si realizza di fatto un intreccio del tutto peculiare fra la causa di scambio (retribuzione versus lavoro) e la causa societaria e mutualistica. Tale intreccio ha indotto più volte il legislatore ad intervenire sul fenomeno e tali interventi hanno prodotto un intenso dibattito in dottrina e in giurisprudenza che non sembra destinato a concludersi con l’intervento delle sezioni unite in commento2, come vedremo. Riguardo alla natura e alla conseguente disciplina applicabile al lavoro del socio di cooperativa, in passato, si distinguevano due tesi. Quella “monista” – secondo cui il lavoro prestato in favore della cooperativa poteva essere o un adempimento, magari accessorio, del contratto sociale o, in alternativa, un adempimento di un contratto di lavoro subordinato “esterno” – e la teoria “dualista”, che ammetteva il cumulo fra rapporto societario e rapporto di lavoro3. Con la l. 3 aprile 2001, n. 142 il legislatore ha preferito dare fondamento normativo alla seconda impostazione. La scelta non era obbligata né unanimemente caldeggiata dalla dottrina. A prescindere dai denunciati rilievi di illegittimità costituzionale ex art. 45 Cost.4, essa era ed è foriera di numerosi problemi teorici e pratici, come anche la sentenza che si commenta dimostra. L’opzione “dualista”, infatti, presenta una natura compromissoria, nel senso che essa si è imposta per ragioni politiche contingenti, cioè per rispondere con tempestività ai fenomeni di “annacquamento” dello scopo mutualistico delle cooperative di produzione e lavoro e ai fenomeni patologici di vera e propria simulazione dello schema cooperativistico, come ha giustamente evidenziato l’estensore della decisione in commento. Questi fenomeni potevano essere combattuti lasciando intatta, anzi tutelando maggiormente, la forma tradizionale del conferimento del lavoro nella cooperativa e perseguendo più convintamente gli abusi: si sarebbe così tenuta ferma l’impostazione “monista” originariamente prevalente in dottrina perché più lineare sotto il profilo teorico. Il legislatore, invece, ha scelto di interpretare la realtà, a torto o a ragione, come se l’intero fenomeno cooperativistico fosse in qualche modo corrotto o, comunque, necessitasse di una (misurata) interferenza lavoristica. Come che sia, la fictio della coesistenza di due rapporti contrattuali diversi ha imposto all’interprete l’arduo compito di coordinare, nel migliore dei modi possibile, istituti e regole differenti nei contenuti e nelle rispettive rationes. Tale opera di coordinamento, ovviamente, è governata innanzitutto dalla l. n. 142/2001. Essa, in effetti, fissa una serie di regole per lanciare dei “ponti” fra le discipline applicabili ai due rapporti in questione; uno dei canali di collegamento più problematici si colloca proprio nell’ambito della disciplina estintiva dei rapporti su cui la decisione in oggetto si intrattiene e che l’estensore stesso considera giustamente un «osservatorio privilegiato delle dinamiche negoziali»5.
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Il legislatore ha prodotto «imputs normativi» eccessivi che hanno ostacolato il lavoro degli interpreti secondo Riverso, Il socio lavoratore di cooperativa ed il ritorno all’antico delle Sez. Unite n. 27436/2017, in LG, 1/2018, 25. 3 Per la tesi monista cfr. Romagnoli, La prestazione di lavoro nel contratto di società, Giuffré, 1967 e Cass., sez. un., 28 dicembre 1989, n. 5813 in GC, 1990, I, 1537, per quella dualista Biagi, Cooperative e rapporti di lavoro, Angeli, 1983 e Cass., sez. un., 30 ottobre 1998, n. 10906 in RGL, 1999, II, 349. 4 Cfr. Vallebona, L’incostituzionale stravolgimento del lavoro in cooperativa, in MGL, 8/9, 2001, 813 e Garofalo, Gli emendamenti alla disciplina del socio lavoratore di cooperativa contenuti nel d.d.l. 848 B, in LG, 2003, I, 5. 5 A parte i contributi segnalati infra e supra, in punto di recesso ed esclusione del socio lavoratore di cooperativa si segnala anche
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Giurisprudenza
3. Il collegamento negoziale unidirezionale fra rapporto
di lavoro e rapporto mutualistico. L’esclusione del rimedio restitutorio. Precisato il quadro di riferimento teorico, le sezioni unite prendono espressamente posizione a proposito della natura della relazione fra i due coesistenti rapporti contrattuali. Esse, infatti, alla tesi fondata sull’istituto del “contratto normativo”, secondo cui lo statuto della cooperativa sarebbe paragonabile ad un atto negoziale funzionale alla stipulazione di altri contratti particolari (nel caso, i contratti di lavoro), preferiscono la tesi del “collegamento negoziale necessario”, in base alla quale i due rapporti, associativo e di lavoro, sono animati da uno scopo pratico unitario per volontà del legislatore e devono essere trattati, nell’applicazione della disciplina rilevante, alla stregua di questa specificità. In verità, però, la ricostruzione del “rapporto fra i rapporti” contrattuali in termini di “collegamento negoziale” era un dato da lungo tempo acquisito al dibattito6 che non pone più particolari problemi esegetici. Piuttosto, le interpretazioni del fenomeno del lavoro del socio di cooperativa si divaricano in relazione alla natura del collegamento negoziale, ovvero all’equilibrio con cui si invera la combinazione fra i due rapporti di lavoro. Secondo alcuni, infatti, in relazione alle vicende estintive dei rapporti, il collegamento negoziale ha natura bilaterale (o bidirezionale), secondo altri ha natura unilaterale (o unidirezionale)7. La differenza non è di poco momento perché dall’opzione preferita scaturisce la possibilità di applicare più o meno estesamente la disciplina lavoristica sul licenziamento del lavoratore a scapito di quella di diritto societario sull’esclusione del socio. Per risolvere la questione sollevata, dunque, le sezioni unite hanno dovuto prendere posizione anche su questo altro aspetto “di principio”, trovandosi davanti un quadro di posizioni davvero variegato. La dottrina e la giurisprudenza che hanno accolto la prospettiva della natura unilaterale del collegamento negoziale – per riconoscere maggiore spazio di azione al diritto societario – danno rilievo ad alcuni dati di diritto positivo con cui il legislatore ha, per così dire, moderato l’“interferenza” della disciplina lavoristica su quella societaria. I dati adoperati per argomentare la tesi sono, il più delle volte: a) l’eliminazione, con la l. 14 febbraio 2003, n. 30, dell’aggettivo “distinto” originariamente riferito – insieme al termine “ulteriore” – al rapporto di lavoro rispetto a quello associativo (art. 1, comma 3, l. n. 142/2001), b) l’esclusione dell’applicazione dell’art. 18 st. lav. ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo (art. 2, comma 1, l. n. 142/2001), c) il fatto che dall’instaurazione dei
De Angelis, L’esclusione e il licenziamento del socio lavoratore tra diritto e processo, in LG, 7/2002, 60; Imberti, Primi interventi giurisprudenziali in tema di esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, in LG, 2004, 2, 157, Costantini, L’esclusione del socio lavoratore dalla cooperativa. Note a margine, in LD, 2012, 99; Laforgia, Esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: un punto fermo pur nelle incertezze argomentative, in ADL, 2014, 4-5, 1166; Imberti, Canti e controcanti nella giurisprudenza della Cassazione in materia di esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, in DRI, 2016, 3, 820. 6 Cfr. Zoli, Lavoro nelle cooperative, in Diritto on line – Treccani, 2014. 7 Cfr., per la tesi del collegamento bilaterale, Gragnoli, Collegamento negoziale e recesso intimato al socio-lavoratore, in LG, 2007, 5, 444 e, per la tesi del collegamento unilaterale, cfr. Imberti, Il socio lavoratore di cooperativa: disciplina giuridica ed evidenze empiriche, Giuffrè, 2012 o Ratti, Mutualità e scambio nella prestazione di lavoro del socio di cooperativa, in ADL, 2008, I, 734.
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rapporti associativi e di lavoro derivano tutti gli effetti giuridici rispettivamente previsti dalla l. n. 142/2001, nonché da altre leggi o da qualsiasi altra fonte, ma solo in quanto compatibili con la posizione del socio lavoratore (art. 2, comma 3, l. n. 142/2001), d) la previsione, aggiunta ancora una volta con la l. n. 30/2003, per cui il rapporto di lavoro si estingue ipso iure con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli artt. 2532 e 2533 c.c. (art. 5, comma 2, l. n. 142/2001)8. Secondo l’orientamento che propugna la tesi della natura bilaterale del collegamento negoziale – per estendere il raggio d’azione del diritto del lavoro – l’opzione dualista accolta dal legislatore, impone di combinare la logica societaria con quella lavoristica e implica, anche dopo la riforma operata con la l. n. 30/2003, l’autonomia giuridica dei due rapporti. Ciò, secondo questa prospettiva, comporta sempre l’applicazione della disciplina lavoristica, compresa quella (sostanziale, processuale e sanzionatoria) applicabile ai licenziamenti. In verità, però, nessuno arriva a sostenere una bilateralità pura del collegamento negoziale né, quindi, una autonomia perfetta delle due discipline rilevanti, perché a ciò ostano i dati di diritto positivo di cui sopra. Dunque, chi sposa questo approccio, in sostanza, tende ad aprire più ampi varchi applicativi in favore della disciplina lavoristica, interpretando con particolare rigore la disciplina speciale di cui alla l. n. 142/2001. Più nello specifico, la giurisprudenza che ha accolto l’approccio del collegamento bidirezionale, ha applicato la disciplina lavoristica del licenziamento facendo leva su due elementi (a volte compresenti): a) il rapporto temporale fra licenziamento ed esclusione, ma soprattutto b) le ragioni sostanziali che hanno condotto all’espulsione e al licenziamento. Sotto il primo profilo si afferma che quando la cooperativa formi due atti distinti – uno per il licenziamento e uno per l’esclusione – e l’atto di esclusione sia successivo all’atto di licenziamento, a quest’ultimo è possibile applicare l’art. 18 st. lav. perché a queste condizioni non rileva l’eccezione di cui all’art. 2 della l. n. 142/2001, il quale, semmai, si riferirebbe solo al caso della contestualità dei due atti o a quello della formazione della sola delibera di esclusione della società (Cass., 6 agosto 2012, n. 14143). Sotto il secondo profilo, la giurisprudenza ha più volte affermato che se la delibera di esclusione e il licenziamento si fondano sulle stesse (insussistenti) ragioni e se queste attengono al rapporto di lavoro, l’art. 18 st. lav. trova applicazione a prescindere, con ripristino sia del rapporto sociale che di quello lavorativo9. Ciò perché l’art. 2 della l. n. 142/2001 sarebbe applicabile solo quando la vicenda estintiva scaturisce da ragioni di rilievo societario. In definitiva, in questi casi e secondo la prospettiva del collegamento bidirezionale dei rapporti, è la vicenda relativa al rapporto di lavoro illegittimamente interrotto che influisce sul destino del rapporto societario, poiché la disciplina di diritto positivo valorizzata dal fronte esegetico opposto risulta superabile, sul piano interpretativo, attraverso una lettura restrittiva.
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Cfr., ad esempio, Cass., 13 maggio 2016, n. 9916 in De jure. Secondo Riverso Il socio lavoratore di cooperativa ed il ritorno all’antico delle Sez. Unite n. 27436/2017, cit., 26 l’aggiunta, nel 2003, dell’art. 5 comma 2 ha provocato l’implicita abrogazione dell’art. 2 comma 1 già citato nel testo. 9 Cass., 23 gennaio 2015, n. 1259 in GiustiziaCivile.com, 2016, 29 gennaio, Cass., 6 agosto 2012, n. 14143 in GC Mass, 2012, 9, 1077, Cass., 18 marzo 2014, n. 6224 in De jure, Cass., 11 agosto 2014, n. 17868 in De jure e Cass., 5 dicembre 2016, n. 24795 in De jure che applicano al caso di specie le tutele dell’art. 18 st. lav.
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Le sezioni unite sconfessano apertamente questo secondo orientamento e, in particolare, ritengono che non si possa dare rilievo alle ragioni sostanziali poste a fondamento dell’espulsione, perché ciò determinerebbe “un capovolgimento” della relazione fra i rapporti contrattuali voluta dal legislatore. Accolgono così, almeno sotto questo profilo (ma cfr. § 4), la tesi del collegamento negoziale unilaterale sottolineando icasticamente che «il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio, non può più essere lavoratore». Alla luce dell’approccio prescelto in questa fase dell’analisi, i Giudici di legittimità formulano, infine, la prima parte del principio di diritto di cui alla massima e affermano che, in caso di mancata impugnazione della delibera di esclusione, non è possibile metterne in discussione gli effetti, compreso l’effetto estintivo del rapporto di lavoro e ciò, anche se i motivi addotti dalla cooperativa hanno rilievo esclusivamente lavoristico e fondano sia il licenziamento che l’esclusione. Questo significa che nel caso in cui l’ex socio lavoratore sia interessato a riottenere il bene della vita del posto di lavoro, è indispensabile che impugni tempestivamente la delibera di esclusione da socio secondo la disciplina societaria che le è propria10, per ottenerne la dichiarazione di illegittimità e beneficiare della reintegrazione nella posizione giuridica precedente alla formazione della delibera viziata11.
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Come è noto il licenziamento può essere impugnato stragiudizialmente entro 60 giorni dalla sua comunicazione e giudizialmente entro i successivi 180 giorni (art. 6 l. n. 604/1966). Invece, la delibera di esclusione deve essere impugnata giudizialmente entro 60 giorni (ai sensi dell’art. 2533 c.c.). L’illegittimità della delibera può derivare dalla violazione della disciplina sulle ragioni che giustificano l’esclusione. Secondo il primo comma dell’art. 2533 c.c. «l’esclusione del socio (…) può aver luogo: 1) nei casi previsti dall’atto costitutivo; 2) per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico; 3) per mancanza o perdita dei requisiti previsti per la partecipazione alla società; 4) nei casi previsti dall’articolo 2286; 5) nei casi previsti dell’articolo 2288, primo comma». Risulta così individuabile un’area di intersezione parziale fra le ragioni che giustificano il recesso datoriale e le ragioni che giustificano l’esclusione, formata dai casi di notevole inadempimento e/o giusta causa (artt. 1 e 3 l. n. 604/1966) che possono coincidere con le «gravi inadempienze» di cui al comma 1, n. 2, dell’art. 2533 c.c. Invece, gli altri casi che giustificano rispettivamente il recesso datoriale o l’esclusione sociale – ad esempio, il giustificato motivo oggettivo, da un lato, e il mancato pagamento della quota sociale, dall’altro – non hanno necessariamente rilevanza sul destino di entrambi i rapporti negoziali. 11 Le Sezioni Unite, a proposito della tutela applicabile in caso di annullamento della delibera tempestivamente opposta, non hanno espresso un principio di diritto, perché esso non sarebbe stato applicabile al caso di specie. Nelle motivazioni, tuttavia, si legge chiaramente che in caso di illegittimità della delibera di esclusione tempestivamente impugnata spetta al socio lavoratore la tutela restitutoria di diritto comune, ovvero l’eliminazione di tutti gli effetti dell’atto illegittimo, e non la tutela reale di cui all’art. 18 st. lav.: il socio, quindi, vedrà ricostituito il rapporto societario e quello lavorativo e sarà risarcito per un importo pari alle retribuzioni non erogate medio tempore, senza però avere il diritto ad optare per le 15 mensilità e senza la sicurezza di ottenere un’indennità minima pari a 5 mensilità. Tale conclusione sembra coerente con la tesi del collegamento unidirezionale accolta dai giudici di legittimità, perché conferma la prevalenza della disciplina di diritto comune/societario a scapito di quella lavoristica (Cass., 5 luglio 2011, n. 14741, in RIDL, 2012, 4, II, 858 e Trib. Perugia, 27 maggio 2014, n. 212, in De jure; contra Cass., 4 giugno 2015, n. 11548, in D&G, 2015, 5 giugno e Trib. Milano, 28 maggio 2012, n. 2104, in De Jure, che applicano la tutela reale di cui all’art. 18 st. lav.
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4. L’interesse ad accertare l’illegittimità del licenziamento per ottenere la tutela risarcitoria: i problemi della prospettiva “rimediale” accolta dalle sezioni unite.
Accolta la prospettiva del collegamento negoziale unilaterale e dichiarato il principio della necessaria impugnazione della delibera per eliminare gli effetti dell’esclusione e del licenziamento, ci si aspettava dalle sezioni unite che rilevassero anche la mancanza di interesse ad impugnare il licenziamento in caso di omessa opposizione alla delibera di esclusione, o, addirittura, che formulassero il principio dell’inutilità di un distinto atto di recesso datoriale dal rapporto di lavoro, una volta che venga adottata la delibera di esclusione del socio. D’altronde, anche gli orientamenti in contrasto prospettati nell’ordinanza per il rinvio alle sezioni unite (Cass., 24 maggio 2017, n. 13031) descrivevano, sotto questo profilo, un’alternativa “secca”: come abbiamo visto, infatti, secondo alcune decisioni “quando l’esclusione risulti fondata su ragioni sostanziali di natura lavoristica, quello che conta è l’impugnazione del licenziamento (anche in mancanza di impugnazione di esclusione)” a cui può seguire l’applicazione dell’art. 18 st. lav.; secondo altre decisioni, invece, “risulta sempre necessario ai fini della tutela del socio rimuovere attraverso l’impugnazione la delibera di esclusione” poiché “la mancata impugnazione della delibera rende vana l’impugnativa del licenziamento”12. Invece i giudici di legittimità, dopo aver dichiarato che ai soli fini della ricostituzione del rapporto di lavoro, l’impugnazione tempestiva della delibera è un requisito imprescindibile, sostengono nondimeno che il collegamento unilaterale “non riesce ad oscurare la rilevanza” della disciplina lavoristica in materia di licenziamento. Si afferma, infatti, che “l’effetto estintivo [provocato dalla delibera non impugnata] di per sé non esclude l’illegittimità del licenziamento, come del resto non esclude l’illegittimità della stessa delibera di esclusione che sia fondata sui medesimi fatti; né elide l’interesse a far valere l’illegittimità del recesso” perché da tale illegittimità deriva un danno ingiusto e “al danno si può porre rimedio con la tutela risarcitoria”. Si tratta di una posizione nuova ed originale13 nel contesto dei precedenti giurisprudenziali noti, incoraggiata forse dall’esigenza di trovare un compromesso sul piano pratico, ma che non appare giuridicamente rigorosa, almeno stando alle sintetiche motivazioni addotte sul punto. Il profilo critico più eclatante è intuibile ed è stato già evidenziato. La decisione, infatti, appare contraddire se stessa perché, da un lato, riconosce gli effetti ipso iure della delibera di esclusione non opposta (compreso l’effetto della cessazione del rapporto di lavoro) e, dall’altro, individua nell’illegittimità sostanziale del licenziamento (e della delibera) il fondamento di un danno che viene qualificato come ingiusto (e quindi risarcibile), nonostante non sia più pienamente “riparabile” a causa della mancata opposizione alla delibera societaria, cioè a causa di un fatto addebitale solo al presunto danneggiato14.
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Cass., 26 febbraio 2016, n. 3836 in DRI, 2016, 3, 819, Cass., 6 luglio 2016, n. 13722 in De jure e Cass., 1 aprile 2016, n. 6373 in FI, 2016, 6, I, 1985. 13 Cfr. Imberti, Le Sezioni Unite provano a fare chiarezza in materia di esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, ma l’incertezza del diritto potrebbe perdurare, in DRI, 1/2018, 287. 14 Riverso, Il socio lavoratore di cooperativa ed il ritorno all’antico delle Sez. Unite n. 27436/2017, in LG, 2018, 30.
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Volendo individuare, anche pro futuro, altre implicazioni meno evidenti della decisione, possiamo svolgere almeno un’altra osservazione. Quando si guarda alle tutele risarcitorie in tema di licenziamento illegittimo si devono considerare, per la disciplina di diritto comune, a) gli artt. 1218 c.c. e ss. e, quanto alla disciplina di diritto speciale, non solo b) la tutela obbligatoria dell’art. 8 della l. n. 604/1966, ma anche c) la tutela indennitaria dell’art. 18, commi 5 e 6, st. lav. Ebbene, in riferimento al caso di specie, le sezioni unite – che, come abbiamo visto, ritengono applicabile la tutela restitutoria di diritto comune in caso di annullamento della delibera di esclusione tempestivamente opposta (cfr. supra nota 11) – applicano la tutela speciale c.d. obbligatoria (art. 8 l. n. 604/1966), ovvero la sola tutela richiesta in giudizio. I giudici sembrano escludere, invece, l’applicazione del diritto comune perché nella seconda parte del ragionamento sono tornati a dare rilievo, dopo averlo relegato in secondo piano, all’atto del licenziamento datoriale (e quindi alla relativa disciplina sostanziale e sanzionatoria), a scapito della delibera societaria15. Ciò detto, è opportuno chiedersi se l’approccio scelto dalle sezioni unite implichi o meno l’esclusione, in via di principio, anche dell’applicabilità delle altre tutele indennitarie dell’art. 18 st. lav. nei casi, diversi da quello di specie, in cui esse vengano richieste e ovviamente ove sussistano gli altri requisiti previsti dalla legge speciale, come quello della dimensione occupazionale della cooperativa. Si danno, a questo riguardo, due ipotesi astratte. Si può ritenere, con interpretazione letterale/formale, che l’applicazione dell’art. 18 st. lav., in ogni sua parte, sia da escludere in virtù del divieto espresso all’art. 2, comma 1, della l. n. 142/200116; oppure, tramite un’interpretazione evolutiva, si può ritenere che, in seguito alle modifiche all’art. 18 st. lav. intervenute con la l. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. Monti-Fornero), l’art. 2, comma 1, della l. n. 142/2001 debba essere interpretato come se il divieto di applicazione dell’art. 18 st. lav. sia riferibile, oggi, alle sole ipotesi residuali di tutela reale ivi ancora previste e non alle altre “nuove” tutele indennitarie contemplate ai commi 5 e 6: l’art. 18 st. lav., infatti, quando la regola che ne vieta l’applicazione veniva formulata, faceva effettivamente riferimento solo ad una tutela di natura restitutoria17. Entrambe le ipotesi sono state accolte in passato dalla giurisprudenza, anche se la seconda risulta ampiamente minoritaria18. Le sezioni unite – che, con l’obiter dictum di cui sopra, hanno chiarito quale sarebbe stato l’esito del giudizio in caso di fondata e tempestiva impugnazione (anche) della delibera – non offrono, invece, indicazioni univoche a questo proposito. È vero che, per un verso, esse affermano espressamente che l’esclusione dell’art. 18 st. lav., prevista dall’art. 2 l. n. 142/2001, “lascia impregiudicata” solo l’esperibili-
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Di diverso avviso Buoso, Le Sezioni unite su esclusione-licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: spiragli di luce su un tema dibattuto?, in Giur. comm. in corso di pubblicazione (§ 3), secondo cui «le Sezioni unite inizialmente sembrano identificare la tutela risarcitoria ammessa nella tutela contemplata dall’art. 8 della legge 604/1966» ma in verità «non eleggono l’una o l’altra delle soluzioni risarcitorie come preferibile ma si può cogliere la ammissibilità anche della tutela risarcitoria di diritto comune». 16 In tal caso potrà essere applicata, stando alla logica accolta dalle sezioni unite, la tutela di cui all’art. 8 l. n. 604/1966, poiché essa si applica laddove non lo sia l’art. 18 st. lav. Si ricordi infatti che l’art. 18 st. lav., osservato sotto il profilo diacronico, ha sottratto al più ampio raggio d’azione della previgente l. n. 604/1966 i licenziamenti illegittimi comminati da datori di lavoro che occupano un numero di dipendenti superiore alle soglie individuate all’art. 18 commi 8 e 9 st. lav. 17 Cfr. Tremolada, Lavoro nelle cooperative, in Enc dir, Annali VII, 2014, 642 ss. 18 Trib. Bologna, 22 marzo 2013, in http://www.bollettinoadapt.it/, e Trib. Bologna, 3 novembre 2015, in De jure.
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tà della tutela risarcitoria contemplata dall’art. 8 della l. n. 604/196619, però questa inferenza sembra riguardare il caso concreto – il lavoratore coinvolto, lo si ripete, ha domandato solo la tutela obbligatoria – ma non sembra inevitabilmente estensibile ai casi in cui venga impugnato solo il licenziamento e domandata l’applicazione dell’art. 18 st. lav., sempre stando alla (discutibile) logica su cui la Corte ha strutturato la decisione. I giudici di legittimità, infatti, affrontano l’intricata questione guardando al profilo rimediale delle discipline considerate20, più che alla loro formulazione letterale. In sostanza, cioè, essi interpretano la legge astrattamente applicabile alla luce della natura dei rimedi previsti dall’ordinamento in materia di licenziamento, per distinguere fra tutele compatibili e tutele incompatibili con la disciplina speciale sul lavoro nelle cooperative21. Ciò emerge letteralmente in due punti. Sia in sede di formulazione del principio di diritto, tutto incentrato sulla natura delle tutele e non sulle disposizioni di legge formalmente intese – non a caso viene esclusa “la tutela restitutoria”, non l’art. 18 st. lav. –, sia laddove si chiarisce il significato giuridico dell’esclusione della tutela reale prevista nella l. n. 142/2001: la Cassazione precisa, infatti, che l’art. 2 della l. n. 142/2001 «conferma che è la sola tutela restitutoria ad essere preclusa» poiché «il proprium dell’art. 18 st. lav. del quale è esclusa l’applicazione, almeno all’epoca in cui la norma è stata confezionata, consisteva giustappunto nella tutela reale». Più in generale, inoltre, è la scelta di fondo di guardare alla questione da due diversi punti di vista – prima quello societario e poi quello lavoristico – ad essere comprensibile e giustificabile solo applicando al ragionamento svolto la “variabile” della natura delle tutele offerte dall’ordinamento. Ora, se questa è effettivamente la filosofia accolta dalle sezioni unite, la sentenza in commento, per coerenza, avrebbe potuto apertamente ammettere in astratto l’applicazione delle tutele indennitarie dell’art. 18 st. lav. non domandate nel caso di specie e in questo senso la decisione potrebbe essere interpretata anche da quella giurisprudenza che si limiterà, legittimamente, ad applicare il principio di diritto strutturato sulla natura dei rimedi e non sul divieto di applicare l’art. 18 st. lav. In questo modo, però, l’interprete che voglia dare seguito alla decisione commentata continuerà a trovarsi nella scomoda posizione di dover faticosamente giustificare una conclusione formalmente contra legem22. Ciò, ad avviso di chi scrive, dimostra che la soluzione compromissoria individuata dalle sezioni unite
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Per ciò Riverso, Il socio lavoratore di cooperativa ed il ritorno all’antico delle Sez. Unite n. 27436/2017, cit., afferma che le sezioni unite escludono tout court l’applicazione dell’art. 18 st. lav. 20 Buoso, Le Sezioni unite su esclusione-licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: spiragli di luce su un tema dibattuto?, cit., secondo cui le Sezioni unite «proiettano l’assunto (…) nell’ambito dell’apparato rimediale». 21 A proposito del “sistema rimediale”, delle tutele e delle sanzioni nel diritto del lavoro, cfr. il fascicolo monografico curato da De Simone, Novella, Razzolini, Il tema. Rimedi e sanzioni nel diritto del lavoro in trasformazione, in LD, 3/4, 2017, 353 ss. 22 L’ostacolo posto dall’art. 2 della l. n. 142/2001, invece, non si porrebbe, in relazione ai soci lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, ai quali non si applica, in ogni caso, né l’art. 18 st. lav. né, tanto meno, l’art. 8 della l. n. 604/1966, ma solo il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, rispetto al quale non si rintracciano nel diritto positivo esclusioni ed eccezioni di sorta riferibili ai soci lavoratori. Pertanto, all’ex socio lavoratore cui si applica il regime delle c.d. tutele crescenti, nel caso in cui non abbia tempestivamente impugnato la delibera di esclusione, potrà essere applicata la nuova disciplina speciale in materia di licenziamenti illegittimi. Tuttavia, stando alla logica rimediale accolta dalle sezioni unite, non dovrebbero essere applicati i casi residuali di reintegrazione ancora ivi previsti (si pensi al caso dell’insussistenza del fatto materiale posto alla base del licenziamento disciplinare ex art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015). Sulla questione dell’applicazione del d.lgs. n. 23/2015 ai soci lavoratori di cooperativa, cfr. Tremolada, Il lavoro nelle cooperative, cit.; Ricchezza, Il decreto legislativo n. 23/2015: ambito di operatività e licenziamento per giusta causa, in DRI, 2015, 4, 1008, Fedele, Ambito di applicazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in il Giuslavorista, 12 maggio 2015.
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può rivelarsi, in altri casi, un vicolo cieco23 e che se la Corte avesse valutato le conseguenze della propria decisione anche al di là del caso concreto, avrebbe forse riconsiderato la correttezza delle premesse teoriche e, in particolare, dell’approccio “rimediale” assunto.
5. La giurisprudenza successiva. È ancora troppo presto per dare un giudizio sulla “tenuta” della decisione in commento che, per sua natura, dovrebbe svolgere, al massimo livello, una funzione nomofilattica. Al momento, infatti, non constano nuove decisioni della Cassazione, ma le reazioni della dottrina e di alcune recenti decisioni di merito lasciano supporre che, con tutta probabilità, le incertezze e i contrasti proseguiranno. Ciò non deve stupire più di tanto, la Corte ha infatti elaborato una interpretazione nuova che non trova radici nei filoni giurisprudenziali precedenti, né si inspira a particolari orientamenti della dottrina. Le sezioni unite, in sostanza, non hanno “consacrato” una delle diverse teorie faticosamente costruite dai giuslavoristi negli anni, ma ne ha confezionata un’altra che, come è normale, è ancora tutta da perfezionare e approfondire. La decisione in commento, pertanto, potrà tuttalpiù dare adito ad un nuovo filone interpretativo, ma difficilmente “scalzerà” gli orientamenti consolidati su cui giudici e dottrina specializzati, hanno da tempo fissato le loro eterogenee posizioni. Non a caso, due decisioni recenti di giudici di merito hanno affrontato le questioni poste dal caso concreto con un atteggiamento “distaccato” se non apertamente dissenziente rispetto alla decisione in commento. In particolare, nel primo caso, la delibera di esclusione era stata tempestivamente impugnata ma il giudice la dichiarava legittima nel merito e, di conseguenza, accertava anche l’estinzione del rapporto di lavoro. Tuttavia, avendo accertato l’illegittimità del licenziamento contestuale, ha applicato l’art. 18 comma 6 st. lav. per vizio formale (violazione dell’art. 7 st. lav.) e non la tutela obbligatoria di cui alla l. n. 604/1966. Nel secondo caso, invece, la delibera di esclusione, impugnata tempestivamente, è stata dichiarata illegittima, ma il giudice, invece di applicare la tutela restitutoria di diritto comune come proposto in un obiter dictum della decisione in commento, ha applicato la tutela reale di cui all’art. 18 st. lav.24. Maurizio Falsone
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Secondo Imberti, Le Sezioni Unite provano a fare chiarezza in materia di esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, ma l’incertezza del diritto potrebbe perdurare, cit., 289 le Sezioni Unite adottano una «soluzione di sostanziale compromesso che tuttavia inaugura un nuovo orientamento interpretativo, dando adito a dubbi in merito alla sua applicabilità in relazione a casi non perfettamente sovrapponibili a quello oggetto della sentenza n. 27436». 24 Cfr. Trib. Bergamo 22 dicembre 2017 e Trib. Bergamo 2 gennaio 2018 entrambe in Bollettino Adapt, 2018, n. 10 commentate da Imberti, Le Sezioni Unite provano a fare chiarezza in materia di esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, ma l’incertezza del diritto potrebbe perdurare, cit., 290 ss.
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Giurisprudenza Corte di C assazione, sentenza 30 ottobre 2017, n. 25762; Pres. Nobile – Est. Amendola – P.M. Celentano (concl. conf.) – D. B. C. (Avv.ti Pagnotta, Chiello, Pozzoli) c. Barclays Bank PLC (avv. Curtò). Conferma App. Milano sent. n. 555/2015. Licenziamenti – Giusta causa – Plurimi addebiti – Valutazione complessiva – Onere probatorio.
In caso di licenziamento per giusta causa conseguente l’addebito di plurime condotte, ciascun fatto contestato è di per sé idoneo a legittimare il recesso del datore di lavoro, salvo l’onere probatorio in capo al lavoratore, esclusivamente in sede di giudizio di merito, di dimostrare che il licenziamento si giustifichi esclusivamente alla luce della complessiva valutazione dei fatti a lui ascritti.
Svolgimento del processo. – 1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 3.7.2015, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto l’impugnativa del licenziamento disciplinare - intimato con nota datata 11.2.2011 - proposta da D.B.C. nei confronti di Barclays Bank PLC. La Corte territoriale ha ritenuto “dirimente”, al fine di integrare la giusta causa di licenziamento, la fondatezza degli addebiti “concernenti le irregolari modalità di apertura di 30 conti correnti in assenza di identificazione personale dei clienti e l’utilizzo del modello di delega presentato da GFOREX in luogo di quello stilato dalla banca” nonché la gravità dei medesimi “in ragione della posizione di elevata responsabilità all’epoca ricoperta dalla D.B. nella sua qualità di capo filiale”. 2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la D.B. con un unico articolato motivo. Ha resistito la società con controricorso, illustrato da memoria. 3. Il Collegio ha autorizzato, come da Decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la stesura della motivazione in forma semplificata. Motivi della decisione – 1. Con l’unico motivo si denuncia “violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, dell’art. 2119 c.c. e dei principi sanciti dalla S.C. in ordine ai criteri di valutazione della contestazione disciplinare ove costituita da una pluralità di addebiti”. Si deduce che la Corte territoriale avrebbe errato a limitare l’esame degli addebiti alle “irregolari modalità di apertura di 30 conti correnti” in quanto dalla contestazione disciplinare e dalla successiva lettera di licenziamento avrebbe dovuto evincere invece che la massima sanzione era stata comminata non per una pluralità di fatti distinti ma per un insieme di operazioni tra loro connesse e che avevano determinato l’addebito di omessa segnalazione all’ufficio preposto della banca per le sospette attività di riciclaggio. Si sostiene che tanto violerebbe il principio secondo cui “ove sia contestata una pluralità di fatti e la sanzione è, secondo la prospettiva e l’intenzione datoriale, l’esclusivo prodotto della connessione di tali fatti, ai fini della sua legittimità gli stessi devono essere necessariamente
oggetto di una valutazione globale e unitaria e devono risultare tutti fondati, ciò essendo condizione legittimante della sanzione e non essendo ciascuno dei fatti contestati, di per sé solo, idoneo a determinare la stessa”. 2. Il motivo è infondato in ragione del consolidato principio secondo cui “qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa, consistente non in un fatto singolo ma in una pluralità di fatti, ciascuno di essi autonomamente costituisce una base idonea per giustificare la sanzione, a meno che colui che ne abbia interesse non provi che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, essi sono tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro; ne consegue che, salvo questo specifico caso, ove nel giudizio di merito emerga l’infondatezza di uno o più degli addebiti contestati, gli addebiti residui conservano la loro astratta idoneità a giustificare il licenziamento” (Cass. n. 454 del 2003; Cass. n. 24574 del 2013; Cass. n. 12195 del 2014). Quanto all’assunto secondo il quale la volontà della banca espressa nella procedura disciplinare sarebbe stata quella di licenziare per il complesso delle condotte addebitate, e non per i soli fatti ritenuti poi sufficienti dalla Corte milanese, è appena il caso di ribadire che per pacifica giurisprudenza di legittimità l’interpretazione dei contenuti della contestazione disciplinare costituisce giudizio di fatto sottratto al sindacato di legittimità (da ultimo Cass. n. 10019 del 2016; v. pure Cass. n. 2465 del 2015; Cass. n. 23132 del 2015), tanto più se censurato con un motivo che invoca l’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.; nella specie la Corte territoriale ha congruamente ritenuto che gli addebiti di cui ha accertato la sussistenza fossero idonei a giustificare il licenziamento per giusta causa. 3. Pertanto il ricorso va respinto. «- Omissis.» Motivazione semplificata. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 giugno 2017. Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2017
Giurisprudenza
La valutazione disgiunta della pluralità di addebiti nel licenziamento per giusta causa: un problema di onere probatorio sottratto al giudizio di legittimità Sommario : 1. Il caso. – 2. La valutazione disgiunta dei singoli addebiti e l’onere probatorio in capo al lavoratore. – 3. Contestazione disciplinare e sua insindacabilità in sede di legittimità. – 4. Una breve nota conclusiva.
Sinossi. Il contributo, nell’offrire un commento ad una recente pronuncia della Corte di cassazione, affronta la questione circa la legittimità di un licenziamento, intimato per giusta causa in seguito all’addebito di una pluralità di fatti, alcuni dei quali risultati, successivamente, in giudizio, insussistenti. Attraverso la ricognizione dei precedenti sul punto, si è tentato di inquadrare l’ormai consolidato principio della Corte, altresì fornendo una sintetica analisi dei margini di sindacabilità concessi in sede di legittimità rispetto alla valutazione delle condotte addebitate. Infine, è parso opportuno indagare le possibili conseguenze, reali o risarcitorie, conseguenti l’ipotetica dichiarazione di illegittimità del licenziamento.
1. Il caso. La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, si è pronunciata in ordine alla legittimità di un licenziamento disciplinare, intimato per giusta causa in seguito alla contestazione di plurime condotte, cogliendo altresì l’occasione per meglio precisare il proprio – ormai consolidato – orientamento in materia. Il ricorso, proposto da un lavoratore dipendente nei confronti del proprio datore di lavoro, la Barclays Bank PLC, insisteva per la censura della sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Milano – depositata il 3 luglio 2015 – che confermava la decisione di primo grado, la quale aveva respinto l’impugnativa del licenziamento disciplinare promossa dal lavoratore. La banca, il giorno 11 febbraio 2011, aveva infatti provveduto ad inoltrare al dipendente una nota di contestazione in cui si significavano plurime condotte irregolari – da quest’ultimo tenute – concretizzatesi nell’apertura di trenta conti correnti, posti in essere in assenza di identificazione personale dei clienti, ovvero utilizzando formulari di delega non autorizzati. D.B.C., che al tempo dei fatti ricopriva il ruolo di capo filiale, impugnava siffatta sanzione, risultando però soccombente in entrambi i gradi di giudizio.
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Egli proponeva dunque ricorso per Cassazione e, con unico ed articolato motivo, sosteneva che la Corte d’appello di Milano avesse errato a limitare la propria valutazione circa l’indipendente rilevanza dei singoli motivi che hanno convinto il datore di lavoro a recedere dal contratto, posto che la massima sanzione disciplinare avrebbe trovato sua esclusiva ragione quale prodotto della connessione dei fatti addebitati, sicché, alla luce della mancata prova di uno di essi, allora la sanzione avrebbe perso la propria ragione giustificatrice, in quanto sarebbe venuto meno uno degli elementi costitutivi posto a proprio fondamento. A conclusioni opposte giungeva la banca, la quale chiedeva il rigetto del gravame e la conferma di quanto deciso in primo e secondo grado, dovendo – nel caso di specie – ben trovare applicazione il consolidato principio, fatto proprio dai giudici di legittimità, secondo cui nell’ipotesi in cui il licenziamento venga intimato per giusta causa, consistente non in un fatto singolo ma in una pluralità di fatti, ciascuno di essi, ove giudizialmente provato, costituisce autonoma ed idonea base giustificativa della sanzione disciplinare.
2. La valutazione disgiunta dei singoli addebiti e l’onere probatorio in capo al lavoratore.
Come poc’anzi anticipato, il presente provvedimento risulta conforme all’orientamento della Suprema Corte in materia. Preso atto della sintetica motivazione adottata, nonché dei richiami a passate pronunce, pare opportuno ripercorrere, brevemente, le sentenze più significative sull’argomento, partendo dal 1989, anno in cui – per la prima volta – è stato affermato1 un principio di diritto assimilabile a quello oggi applicato. Già in tale risalente arresto, veniva dunque osservato come, ai fini del giudizio di proporzionalità tra sanzione disciplinare e infrazione posta in essere dal lavoratore, risultava rilevante, in via preliminare, l’elemento qualitativo dell’infrazione medesima. La valutazione quantitativa – id est: il numero di fatti addebitati al dipendente – non poteva mai, infatti, essere disgiunta dalla valutazione circa la gravità delle condotte a lui ascritte. Da tale premessa, si derivava come “non sia escludibile che solo alcune delle infrazioni fra le altre parimenti contestate siano sufficienti a giustificare la sanzione irrogata”, così che, ove ulteriori fatti addebitati al lavoratore non dovessero risultare provati nel merito, allora ciò non sarebbe sufficiente per fondare un giudizio di illegittimità del licenziamento stesso. La giurisprudenza, ben presto chiamata ad esprimersi2 nuovamente, ha del resto avvertito l’opportunità di mitigare la portata del predetto principio, tentando di fornire un bilanciamento al criterio della disgiunta valutazione degli addebiti posti a fondamento del
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Cass., 29 settembre 1989, n. 3946. Cass., 16 luglio 1991, n. 7860.
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recesso datoriale. In particolare, si è affermato come il criterio dell’irrilevanza dell’effettiva consumazione di tutti gli addebiti, trovi un suo naturale limite nell’ipotesi di una specifica previsione contrattuale – tipicamente contenuta nella contrattazione collettiva – che configuri le diverse condotte come comportamenti essenziali ed inscindibili di un’unica figura complessa di illecito disciplinare. Sarà nel solco di tali risalenti pronunce che la Cassazione approderà, con l’importante sentenza n. 454 del 20033, ad affermare la rilevanza, oltreché delle previsioni negoziali, anche della manifestazione di volontà del datore di lavoro cristallizzata nella contestazione disciplinare. In tale decisione, i giudici di legittimità hanno infatti osservato come il nesso di causalità che deve necessariamente collegare la sanzione a quanto addebitato, non impone che il complesso di queste condotte costituisca il minimo necessario per giustificare la sanzione. Ed allora, anche nel caso in cui ognuno dei fatti, quale negazione dell’obbligazione contrattuale assunta dal datore di lavoro, conferisca il proprio potenziale contributo all’irrogazione della sanzione – contributo, quest’ultimo, vieppiù amplificato dalla stessa coesistenza degli altri fatti – ed anche se la sanzione è il prodotto di questa pluralità e coesistenza, ciò non toglie che, ognuna delle condotte – anche disgiuntamente valutata – “integri una base astrattamente idonea a giustificare la sanzione”. Una conclusione che, di per sé sola, sarebbe parsa probabilmente troppo netta, considerato infatti che, sempre secondo la Corte, il singolo addebito giudizialmente provato, sarebbe stato idoneo a giustificare la “sanzione prevista dal datore quale conseguenza della complessiva contestazione”. Come a dire che non rileverebbe in alcun modo che il datore di lavoro avesse inteso elevare la sanzione del licenziamento quale esclusivo prodotto delle condotte addebitate, poiché, ove fosse provata anche una sola di esse, allora si introdurrebbe una sorta di presunzione di proporzionalità tra l’unico fatto che ha ricevuto prova e la sanzione stessa, sì che il giudice dovrebbe concludere per la legittimità del licenziamento, senza valutare un possibile diverso esito della controversia. Ed ecco, allora, il tentativo di fornire un limite ulteriore – oltre a quello in precedenza analizzato, di natura contrattuale – costituito dalla volontà datoriale. In particolare, si osserva come l’astratta potenzialità del singolo fatto a fondare la sanzione, trovi un invalicabile confine nell’intenzione del datore di lavoro di ritenere, al contrario, che l’addebito disciplinare si giustifichi quale unico ed esclusivo prodotto della connessione della pluralità dei fatti – connessione che, a sua volta, ne costituisce condizione legittimante – così che ciascun addebito, ove fosse singolarmente preso, non sarebbe idoneo a determinare la sanzione. Si tenga conto, inoltre, come già nella pronuncia della Cassazione n. 454 del 2003, veniva avvertita la necessità di precisare che l’onere probatorio di tale complessiva valutazione seguisse le regole generali di cui all’art. 2697 c.c., e che fosse quindi onere di colui che “vi ha interesse” provare l’esistenza di questa connessione tra fatti e sanzione. 4
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Cass., 14 gennaio 2003, n. 454. Vedi, più recentemente, Cass., 28 luglio 2017, n. 18836.
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Se le decisioni sin qui analizzate paiono tutte orientate verso l’affermazione del medesimo principio, diverse sono state le strade percorse dalla Cassazione, in questi anni5, per giungere a tale scopo. Merita qui brevemente richiamare, non fosse altro per l’originale motivazione adottata, il ragionamento fatto proprio da taluna giurisprudenza6, la quale si è servita delle categorie generali del diritto civile, in materia di nullità del contratto. Ebbene, presupposto di tale percorso argomentativo è stata l’analisi del combinato disposto tra l’art. 1419 c.c. – in virtù del quale la nullità parziale di un contratto, comporta la nullità dell’interno contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto colpito, appunto, da nullità – e l’art. 1324, che estende le norme che regolano i contratti, anche agli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale. Trasferendo dunque il principio di cui all’art. 1419 c.c. all’atto giuridico, ne consegue che dalla nullità parziale dell’atto stesso, deriverebbe la nullità dell’intero atto, ove risultasse che l’agente non l’avrebbe altrimenti posto in essere. Precisando il ragionamento analogico della Corte, l’atto giuridico in parola si identificherebbe con la nota di contestazione disciplinare, mentre la nullità parziale coinciderebbe con la mancata prova di alcuni fatti addebitati. Di qui, la conclusione: posto che il principio della conservazione del negozio giuridico, nell’ipotesi di nullità parziale, costituisce la regola, mentre l’estensione della patologia all’intero contratto rappresenta l’eccezione, costituisce onere della parte interessata all’estensione della nullità la prova circa i motivi. Pertanto, per precisare, poiché l’insussistenza di uno dei fatti contestati integrerebbe una mera nullità parziale dell’atto con cui il datore di lavoro ha azionato il recesso dal contratto di lavoro, è onere del lavoratore provare che controparte non avrebbe posto – rectius: non avrebbe potuto porre – in essere siffatto negozio unilaterale ove fosse stata consapevole che uno dei fatti contestati era insussistente7. A riprova del rigoroso orientamento della Suprema Corte, si segnala come non siano risultate sufficienti, a scalfire la saldezza dei principi della valutazione disgiunta degli addebiti e dell’onere probatorio in capo “a chi vi ha interesse”, nemmeno le migliori argomentazioni avanzate dalle difese dei lavoratori subordinati. Il riferimento volge al tentativo di ridurre la questione a violazione del principio di immutabilità della contestazione, nel senso di ritenere che il giudice di merito, una volta che il datore di lavoro ha cristallizzato la pluralità di addebiti nella lettera ex art. 7 l. n. 300/1970, non potrebbe discostarsi da tale valutazione, pena, appunto, la lesione del diritto di difesa, per violazione del principio di intangibilità di quanto addebitato. La Cassazione mostra8 una ferma censura sul punto, sebbene, in via preliminare, ha comunque osservato come non sia concesso al datore di lavoro di motivare il licenziamen-
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Vedi, tra le decisioni più recenti aventi medesimo orientamento, Cass., 31 ottobre 2013, n. 24574 e Cass., 30 maggio 2014, n. 24574. Cass., 18 settembre 2007, n. 19343. 7 I giudici di legittimità concludono cassando la sentenza di appello che aveva dato ragione al lavoratore, ordinando al giudice del rinvio di riesaminare il fatto e determinare se il datore di lavoro avrebbe ugualmente disposto il licenziamento sulla base degli addebiti correttamente contestati e provati. 8 Cass., 2 febbraio 2009, n. 2579. 6
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to con riferimento ad addebiti del tutto diversi, posto che “i contorni della contestazione costituiscono il limite oltre il quale non può spingersi la motivazione”. Precisa, però, già al successivo capoverso, come lo statuto dei lavoratori non condizioni l’irrogazione del provvedimento espulsivo sul piano quantitativo, bensì lo fondi su di una mera valutazione di gravità – nonché proporzionalità – della sanzione medesima9, sganciata da un obbligo di complessiva analisi di quanto contenuto nell’atto con cui vengono addebitati i fatti. Alla luce di ciò, i giudici svolgono un’articolata distinzione tra i concetti di “pluralità di comportamenti” e “causa del licenziamento”. Se è infatti vero che nell’ipotesi in cui vengano contestati una diversità di fatti, ciascuno di essi deve essere analizzato, oltre che in chiave atomistica, anche nella propria concatenazione logica, non può del resto negarsi come ciò costituisca elemento diverso dalla ricerca della “causa”, intesa quale elemento necessario ma, soprattutto, sufficiente, a legittimare il licenziamento. La causa, così intesa, non può certo imporsi che venga necessariamente ravvisata nella manifestazione del complesso dei fatti ascritti, ben potendo anche uno solo di essi fondarla. Neppure l’asserita violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare è servita, pertanto, a convincere i giudici di legittimità in ordine all’opportunità di temperare ulteriormente il principio di autonoma rilevanza degli addebiti disciplinari10. In conclusione, pare utile, tornando all’analisi della sentenza n. 25762/2017, porre quest’ultima a confronto con un’ulteriore recente pronunzia11, chiamata anch’essa a decidere in ordine ad analoga fattispecie. Ebbene, la Suprema Corte ha, per la prima volta esplicitamente, osservato, come, in punto di onere probatorio, il soggetto “che vi ha interesse” si identifica – esclusivamente – con il lavoratore stesso. Ed infatti, dopo aver nuovamente ribadito il proprio consolidato orientamento, si è affermato come l’inversione dell’onere della prova – consistente nel dovere in capo al datore di lavoro di provare che le ragioni per cui aveva licenziato il lavoratore si giustificavano, esclusivamente, alla luce del complesso delle condotte addebitate – non possa essere ammesso in simili situazioni. Al contrario, precisa la Corte, “era la parte che ne aveva interesse, e cioè il lavoratore, a dover provare che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.”
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Analoghe considerazioni circa la distinzione tra quantità e qualità degli addebiti le ritroviamo nella già analizzata sentenza Cass., 29 settembre 1989, n. 3946. 10 Deve rilevarsi come il principio della Corte circa la portata del concetto di immutabilità della contestazione verrà confermato dalla successiva giurisprudenza sul punto, la quale ha precisato come “non si verifica una modifica della contestazione, ad esempio, nel caso in cui la condotta contestata resti invariata e mutino solo l’apprezzamento e la valutazione della stessa, poiché in tal caso, ove non vengano in rilievo nuove circostanze di fatto, il diritto di difesa non risulta in alcun modo compromesso”, così Cass., 22 marzo 2011, n. 6499 e Cass., 9 febbraio 2016, n. 11868. Ed ancora: “il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, il quale vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, non può ritenersi violato qualora, contestati atti idonei ad integrare un’astratta previsione legale, il datore di lavoro alleghi, nel corso del procedimento disciplinare, circostanze confermative o ulteriori prove, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre” così Cass., 12 marzo 2010, n. 6091. 11 Cass., 28 luglio 2017, n. 18836.
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Se, in definitiva, sembra potersi concludere – alla luce anche di quanto deciso nelle ultime richiamate sentenze – che la giurisprudenza si sia oramai arrestata su di un principio di generale rilevanza dei singoli fatti contestati, fatta salva la prova contraria del lavoratore, si rende ora opportuno analizzare sinteticamente quali margini di sindacabilità sussistano, in sede di legittimità, in ordine alla valutazione delle condotte contestate.
3. Contestazione disciplinare e sua insindacabilità in sede
di legittimità.
Nella seconda parte della sentenza in commento, viene affermato, in risposta all’assunto di parte ricorrente – secondo cui la volontà della banca espressa nella procedura disciplinare sarebbe stata quella di licenziare il lavoratore esclusivamente per il complesso delle condotte addebitate – come, una simile valutazione, si sottragga al sindacato di legittimità della Cassazione. Anche tale orientamento risulta conforme a quanto in passato deciso dalla Corte. Infatti, i giudici, allorquando sono stati chiamati a pronunciarsi in ordine alla concreta esistenza di una giusta causa di licenziamento, hanno rilevato12 come essa, affinché rivesta il carattere di grave negazione del rapporto fiduciario posto a fondamento del rapporto di lavoro, debba valutarsi alla luce dei fatti addebitati, della portata oggettiva e soggettiva degli stessi, nonché alle circostanze e all’intensità dell’elemento soggettivo. Considerato che simili valutazioni abbisognano di un’approfondita valutazione circa la loro materiale consistenza, allora, conclude la Corte, il giudizio di legittimità tra il fatto contestato e la sanzione adottata, “è riservato al giudice di merito, e la sua valutazione è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione logica ed adeguata.” La mancanza di logicità e congruità della motivazione costituirebbe, secondo la richiamata giurisprudenza13, l’unico spiraglio concesso per operare una valutazione in ordine al convincimento maturato dal giudice territoriale circa l’idoneità della contestazione disciplinare a fondare il recesso del datore di lavoro. Analogamente, è stato osservato14, in tema di legittimità di un licenziamento intimato con contestazione disciplinare formulata in termini alternativi/cumulativi, come il sindacato di legittimità non possa investire il risultato interpretativo in un atto in sé, che appartiene “all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito”, in quanto la Corte è chiamata unicamente alla verifica ed al rispetto dei canoni legali di ermeneutica – ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. – ovvero della motivazione adottata – secondo quanto disposto dal n. 5 del medesimo articolo – con conseguente “inammissibilità di ogni critica
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Cass., 1 giugno 2005, n. 11674, e già Cass., 27 ottobre 1997, n. 10568; Cass., 2 agosto 1996, n. 6984 e Cass., 10 maggio 1995, n. 5093. Vd. anche, di pari orientamento, Cass., 15 settembre 2017, n. 21506; Cass., 30 marzo 2006, n. 7546, e già Cass., 14 maggio 1998, n. 4881. 14 Cass., 16 maggio 2016, n. 10019. 13
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alla ricostruzione operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto.” Alla luce delle svolte considerazioni, si comprenderanno allora i motivi che hanno convinto i giudici, nel provvedimento qui annotato, ad affermare come l’osservazione di parte ricorrente – secondo cui fosse volontà della banca licenziare il proprio capo filiale non per i singoli fatti a lui addebitati, e ritenuti poi sufficienti dalla Corte d’appello di Milano, ma, invero, esclusivamente per il complesso delle condotte addebitate – fosse infondata, in quanto “l’interpretazione dei contenuti della contestazione disciplinare costituisce giudizio di fatto sottratto al sindacato di legittimità”. Poiché, dunque, la mancata prova nel giudizio di merito di una simile complessiva valutazione degli addebiti ha orientato il giudice di prime cure a concludere per la singola ed autonoma rilevanza degli stessi, allora il tentativo del lavoratore di chiedere una nuova ed ulteriore valutazione dei medesimi fatti in sede di legittimità risulta inammissibile, in quanto tesa ad ottenere un mero riesame di questioni di fatto già decise. Ma v’è di più. Indugiando sul punto, è appena il caso di rilevare come nella motivazione della Corte sia ravvisabile un obiter dictum certamente non trascurabile. Ed infatti, dopo aver ribadito il proprio indirizzo giurisprudenziale15 in ordine alla non sindacabilità della valutazione, si osserva come – tale insindacabilità – sia resa ancor più severa ove avvenga mediante una censura “adottata con un motivo che invoca l’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.”, rispetto a quando essa sia fatta valere con altri motivi di ricorso, come l’omesso esame circa un fatto decisivo.
4. Una breve nota conclusiva. Come sinteticamente illustrato nel primo paragrafo, la Cassazione ha ritenuto il ricorso presentato dal lavoratore non meritevole di accoglimento, ponendo definitivamente fine alla questione circa la legittimità del suo licenziamento. Per esercizio ipotetico, ma al fine concreto di fornire una più esaustiva trattazione della materia, pare stimolante tentare di supporre – anche alla luce della nuova disciplina contenuta nel d.lgs. n. 23/2015 – a quali conseguenze pratiche si sarebbe giunti nell’ipotesi in cui la Corte avesse concluso, al contrario, per la non legittimità del licenziamento. In altre parole, appare interessante interrogarsi in ordine agli esiti della controversia, nell’eventualità in cui un lavoratore, assunto in seguito alle riforme del 2012 e del 2015, riuscisse a dimostrare che la sanzione disciplinare inflittagli si fondi alla luce della sola connessione dei diversi fatti ascritti, di cui non tutti giudizialmente accertati: egli, in tal
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Da ritenersi ormai consolidato. Si vedano, tra le ultime, Cass., 16 maggio 2016, n. 10019; Cass., 12 novembre 2015, n. 23132 e Cass., 10 febbraio 2015, n. 2465.
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caso, potrebbe ottenere la tutela reale, consistente nel reintegro nel suo posto di lavoro, ovvero potrebbe ambire alla sola tutela risarcitoria? La risposta ad un simile interrogativo non può prescindere da un breve richiamo alla questione relativa alla qualificazione dell’insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento.16 Le criticità sul punto sono emerse, come noto, a partire dall’approvazione della legge Fornero, la quale, in riforma dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, ha favorito il passaggio da un sistema incentrato sulla tutela reintegratoria del lavoratore, ad un impianto in cui quest’ultima costituisce solo uno dei possibili esiti. La prima giurisprudenza di merito17, chiamata a pronunciarsi sulla portata del concetto di “insussistenza del fatto contestato”, ha inteso interpretarla nel senso di insussistenza giuridica della condotta, sì da ritenere necessario, affinché il lavoratore possa invocare la tutela reale, alternativamente, o che il fatto non si sia materialmente mai verificato, ovvero che esso, sebbene manifestatosi, non rivesta i caratteri dell’inadempimento contrattuale imputabile al dipendente. Per meglio precisare, l’orientamento preferibile, non ha fatto altro che equiparare al mancato verificarsi sul piano fenomenico del fatto contestato, il comportamento addebitato al lavoratore, comunque posto in essere, che sia però stato giudicato, in sede giurisdizionale, privo del carattere dell’illiceità. Simili pronunce hanno trovato autorevole conferma anche nella migliore giurisprudenza della Corte di cassazione18, la quale non ha mancato di rilevare come l’insussistenza del fatto contestato “comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità”19, concludendo che la completa irrilevanza giuridica del fatto, pur ove venga accertato, “equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell’art. 18, comma 4 dello Statuto del Lavoratori”. Tali conclusioni paiono condivisibili, non fosse altro, come correttamente osservato20, che qualora la norma venisse interpretata diversamente, ciò “urterebbe contro il buon sen-
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Vedi Amoroso, Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo: fatto contestato (art. 18, quarto comma, l. 20 maggio 1970, n. 300) “versus” fatto materiale contestato (art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015), in ADL, 2017, 890; Santini, L’elaborazione giurisprudenziale in materia di “insussistenza del fatto materiale” ex articolo 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015, in DRI, 2017, 545; Del Punta, Il “fatto materiale”: una riflessione interpretativa, in Labor, 2016, 343; Mazzotta, Fatti e misfatti nell’interpretazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in RIDL, 2016, 102; Barbieri, De Salvia, Di Meo, Il licenziamento individuale della legge n. 92/2012 nelle prime pronunce di legittimità (e in quelle di merito), in RGL, 2015, 195; Ferrante, La Cassazione si pronunzia per la prima volta sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori riformato: trovato il bandolo della matassa?, in DRI, 2015, 229; Pelusi, L’irrilevanza giuridica del fatto contestato equivale alla sua insussistenza materiale: un monito per il legislatore del “Jobs Act”?, in DRI, 2015, 1128; Pirone, La Corte di Cassazione e l’accertamento della “insussistenza del fatto” nel licenziamento disciplinare. Il “fatto materiale”, in DML, 2015, 424; De Luca, Fatto materiale e fatto giuridico nella riforma della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi note minime sulla prima sentenza in materia della Corte di Cassazione, in ADL, 2014, 1279; M. T. Carinci, Fatto “materiale” e “fatto “giuridico” nella nuova articolazione delle tutele ex art. 18 Statuto dei lavoratori, in RDP, 2013, 1326. 17 Vd., ex plurimis, Trib. di Milano, sentenza 15 novembre 2014, la quale ha concluso che l’assenza di una condotta disciplinarmente rilevante integri la fattispecie della manifesta insussistenza del fatto ex art. 18 comma 4, st. lav.; Trib. di Roma, sentenza 17 febbraio 2014, che ha stabilito come il fatto contestato, affinché consenta l’operatività della tutela reintegratoria, non è solo il fatto materiale o storico, ma il comportamento del lavoratore deve essere qualificabile come inadempimento imputabile. 18 Cass., 6 novembre 2014 n. 23669 e Cass., 13 ottobre 2015, nn. 20540 e 20545. 19 Cass., 20 settembre 2016, n. 18418. 20 Mazzotta, Diritto del lavoro, Giuffrè, 2016, 710.
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so, ancor prima che contro l’argomentazione giuridica”, in quanto se dalla contestazione di un fatto disciplinarmente irrilevante si derivasse l’esclusione della tutela reintegratoria, ciò esporrebbe la norma a “seri dubbi di costituzionalità sotto il profilo della ragionevolezza.” Del resto, il d.lgs. n. 23/2015, con l’esplicito inserimento dell’aggettivo “materiale”, non può dirsi abbia semplificato il quadro di riferimento. In attesa che la Suprema Corte si pronunci su casi regolati da siffatta novella, è parso infatti che entrambi gli orientamenti sul punto siano rimasti inalterati: da un lato, chi ha fino ad oggi sostenuto la tesi dell’esclusiva materialità del fatto, ha trovato conferma delle proprie ragioni dalla lettera della nuova norma; dall’altro lato, coloro i quali ne hanno offerto una visione costituzionalmente orientata, non hanno ritenuto sufficiente l’introduzione di un simile termine per legittimare la sola tutela indennitaria nei casi di conclamata mancanza di antigiuridicità della condotta addebitata. Imboccare l’una o l’altra strada porta a conseguenze differenti, anche nell’ipotesi di licenziamento disposto per una pluralità di fatti addebitati, oggetto del provvedimento in commento. Ed infatti, ove si propendesse per la tesi – preferibile – della necessaria valutazione giuridica del fatto, allora, nel caso in cui il dipendente riuscisse a provare come il proprio datore di lavoro abbia inteso irrogare la sanzione quale esclusivo prodotto della connessione dei singoli fatti a lui addebitati, ove uno di questi, sebbene materialmente manifestatosi, non sia riconducibile ad un inadempimento contrattuale, ovvero ad una condotta illecita, allora il lavoratore ben potrebbe invocare l’illegittimità del licenziamento e la reintegra nel proprio posto di lavoro. Viceversa, nel caso si concordasse con la tesi orientata a riconoscere l’esclusiva insussistenza materiale del fatto addebitato, si giungerebbe alla conclusione – probabilmente non condivisibile, nonostante la lettera della norma – di negare la tutela reale nel caso in cui, ferma comunque la prova della connessione di quanto ulteriormente addebitato, emerga in giudizio che una delle condotte ascritte, ancorché del tutto irrilevante21 in punto di antigiuridicità ovvero di imputabilità, si sia comunque materialmente manifestata. In conclusione – e nel tentativo di ridurre a sintesi quanto sin qui osservato – sembra dunque possibile rilevare come, nel caso di licenziamento intimato per giusta causa, conseguente la contestazione disciplinare di una pluralità di fatti, ciascuno di essi costituisce autonoma ragione in grado di giustificare il provvedimento espulsivo, fatto salvo il caso in cui il lavoratore colpito dalla sanzione provi che il proprio datore abbia voluto comminare la sanzione esclusivamente quale prodotto della somma delle singole condotte, prova – quest’ultima – che deve essere fornita nel giudizio di merito, posto che, in alternativa, la ricostruzione del giudice territoriale potrà, tuttalpiù, essere oggetto di sindacato di legittimità solo ove si risolva nell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.
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Si ripropone il paradossale esempio del lavoratore licenziato per aver indossato una cravatta rossa che contrasta con il gusto del proprio capo-ufficio. V. Mazzotta, Diritto del lavoro, cit., 711.
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Inoltre, per quanto attiene alla tutela cui il lavoratore può ambire, nell’eventualità di illegittimo licenziamento, si è tentato di avanzare alcune ipotesi, in considerazione anche dei recenti interventi legislativi. Ebbene, sotto tale ultimo aspetto, pare potersi concludersi come, una volta dichiarato non legittimo il licenziamento a causa dell’insussistenza di taluno dei fatti posti a fondamento della sanzione espulsiva, il lavoratore possa chiedere la reintegra, esclusivamente ove egli sia stato assunto precedentemente alle citate riforme, ovvero anche successivamente ad esse, ma solo nell’ipotesi in cui uno dei connessi fatti ascritti non si sia materialmente verificato oppure, sebbene manifestatosi, esso risulti irrilevante in punto di diritto. Andrea Bombelli
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Giurisprudenza Corte D’Appello di F irenze, sentenza 20 novembre 2017, n. 907; Pres. Bronzini – Est. Tarquini - Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. (avv. Mazzotta, Chiavetta, Nuti) c. G. M. (avv. Rovai). Licenziamenti – Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Accordo aziendale – Clausola contenente riduzione del preavviso – Natura gestionale – Efficacia nei confronti degli iscritti a sindacato dissenziente – Esclusione – Configurabilità di contrattazione di prossimità – Esclusione.
In un caso in cui, nell’ambito di un accordo aziendale sui criteri di scelta raggiunto a definizione di una procedura di licenziamento collettivo, sia stata prevista una clausola riduttiva della durata del preavviso rispetto a quella del CCNL (da 6 a 3 mesi), tale clausola, in quanto non avente natura “gestionale”, non può ritenersi efficace nei confronti di un lavoratore iscritto a una sigla sindacale (nel caso, la CGIL) non firmataria dell’accordo. La clausola in discorso deve altresì ritenersi illegittima in quanto contrastante con la regolamentazione del CCNL di settore (Credito), che non autorizza la conclusione di intese modificative in materia retributiva. Neppure è da ritenersi applicabile al caso di specie l’art. 8, legge n. 148/2011, in quanto l’accordo non conteneva alcuna menzione di tale norma né l’esplicitazione di finalità rapportabili a quelle da essa previste. Ragioni di fatto e di diritto della decisione G.M., odierno appellato è stato dipendente di Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. fino al 31.1.2013, quando è stato licenziato in esito a una procedura di licenziamento collettivo conclusasi con un accordo sindacale ex art. 4 e 24 L. 223/1991 (si tratta dell’accordo 28.12.2012 – Omissis. sottoscritto solo da alcune delle sigle firmatarie del CCNL di categoria), che prevedeva, oltre ai criteri di scelta dei licenziandi (sulla cui legittimità non vi è questione), il riconoscimento in loro favore (per quanto qui interessa) di tre mensilità a titolo di indennità sostitutiva del preavviso. La stessa previsione (quanto ai criteri di scelta degli esuberi e alla misura del preavviso da riconoscere loro) era già contenuta in un precedente accordo (del 19.12.2012, anch’esso separato – Omissis.), sottoscritto al termine della procedura (di consultazione preventiva all’avvio di quella di cui alla L. 223/1991) prevista dagli artt. 20 e 21 del CCNL del gennaio 2012. Risulta documentalmente come il contratto del 19.12.2012 abbia in effetti un contenuto ben più ampio della sola gestione degli esuberi e sia qualificato espressamente dai contraenti collettivi come “contrattazione di II livello”. Come si legge nell’accordo, infatti, le parti, muovendo dalla dichiarata impossibilità dell’azienda di rispettare la contrattazione aziendale in essere, hanno inteso “confrontarsi su un sistema di contrattazione di II livello, compatibile con i dichiarati obiettivi reddituali e gestionali e maggiormente sostenibili nel lungo termine”. Coerentemente con tale finalità il contatto contiene, oltre alle previsioni relative alla riduzione degli organici (attuata con diversi strumenti, tra i quali la procedura ex lege 223/1991, esitata, per quel che in-
teressa, nel licenziamento dell’appellante), la regolamentazione di una serie assai varia di istituti - Omissis. Premessi questi fatti, la questione di causa attiene alla misura dell’indennità sostitutiva del preavviso spettante all’appellato: nella specie infatti è pacifico che, data la sua anzianità aziendale, M. avrebbe avuto diritto, secondo il CCNL applicato al rapporto, non a tre, ma a sei mensilità quale indennità sostitutiva del preavviso. - Omissis. Il Tribunale Omissis. ha accolto la domanda, ritenendo la contrattazione decentrata non abilitata a modificare la disciplina contenuta nel CCNL quanto ai trattamenti economici e normativi, esclusa nella specie l’applicabilità dell’art. 8 del D.L. 138/2011, irriducibile la previsione impugnata all’oggetto tipico degli accordi previsti dalla L. 223/1991 e infine indimostrata l’approvazione della contrattazione aziendale da parte della maggioranza dei lavoratori nelle forme previste dal contratto nazionale. Banca Monte dei Paschi di Siena impugna la decisione de qua davanti a questa Corte e ne chiede l’integrale riforma, ribadendo tutti gli argomenti già svolti davanti al Tribunale e di cui sopra si è dato conto. Il lavoratore resiste all’impugnazione e ne chiede il rigetto. Così riassunta la presente vicenda processuale e le ragioni delle parti, nel merito l’appello non è fondato. 1. Della riconducibilità della pattuizione di cui è causa al contenuto degli accordi disciplinati dagli artt. 4, 5, e 24 della L. 223/1991. Esclusione. In primo luogo invero ritiene la Corte che alla previsione, contenuta nell’accordo del 28.12.2012, in base alla quale la misura dell’indennità sostitutiva del preavviso è stata ridotta rispetto a quanto previsto dal CCNL,
Giurisprudenza
non possa attribuirsi l’efficacia propria degli accordi gestionali di cui agli artt. 4, 5 e 24 della L. 223/1991. In proposito merita rammentare come con l’espressione accordi o contratti collettivi gestionali la giurisprudenza, anche costituzionale, abbia inteso riferirsi ad accordi (generalmente, ma non necessariamente aziendali, si pensi alla materia dello sciopero nei servizi pubblici essenziali) variamente disciplinati dalla legge, ma comunque diretti, non immediatamente a regolare i rapporti di lavoro, ma a procedimentalizzare poteri datoriali, così che l’efficacia regolativa delle pattuizioni collettive sui rapporti di lavoro avviene per il tramite dell’esercizio del potere. La nozione, come è noto, è stata elaborata dalla Corte Costituzionale proprio in relazione agli accordi previsti dagli artt. 4, 5 e 24 della L. 223/1991 (oltre che ai contratti o accordi collettivi in tema di individuazione di prestazioni indispensabili in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali). Nel primo caso, che qui interessa, con la decisione 268/1994, il Giudice delle leggi ha rilevato come la legge, rimettendo la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità ai “criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’articolo 4, comma 2… non preveda alcun potere sindacale di deroga a norme imperative di legge, bensì sostituisce alla determinazione unilaterale dei criteri di scelta, originariamente spettante all›imprenditore nell›esercizio del suo potere organizzativo, una determinazione concordata con i sindacati maggiormente rappresentativi”, così appunto procedimentalizzando l’esercizio di tale potere datoriale, mentre i criteri legali operano nello stesso modo solo in via sussidiaria. Ciò al fine evidente di favorire una gestione concordata della messa in mobilità dei lavoratori, in quanto maggiormente rispondente all’esigenza di adattare i criteri di individuazione del personale in soprannumero alle condizioni concrete dei processi di ristrutturazione aziendale. Ed è proprio operando questa ricostruzione degli accordi de quibus, che la Corte li ha esclusi dal novero dei contratti collettivi normativi, gli unici che ha ritenuti contemplati dall’art. 39 Cost., essi destinati a regolare i rapporti (individuali) di lavoro di una o più categorie professionali o di una o più singole imprese. Accordi come quelli previsti dall’art. 5 della L. 223/1991 invece, prosegue la Corte, hanno effetti diretti solo in confronto degli imprenditore o dell’imprenditore stipulante, costituendo limite all’esercizio dei suoi poteri così che il contratto collettivo, cui rinvia la norma di legge, “incide sul singolo prestatore di lavoro indirettamente, attraverso l’atto di esercizio del potere datoriale (nella specie di recesso) in quanto vincolato dalla legge al rispetto dei criteri di scelta concordati in sede sindacale”. Di qui appunto, secondo il Giudice delle leggi, l’astratta irriducibilità del meccanismo di operatività del contratto anche sui rapporti di lavoro di lavoratori non
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aderenti ai sindacali stipulanti alle ipotesi di efficacia erga omnes del contratto collettivo di cui all’art. 39 Cost. Da un simile percorso argomentativo deriva di necessità la conseguenza che tali accordi assumano la loro peculiare efficacia proprio in quanto, e nei limiti in cui, regolamentino il potere datoriale, mentre la stessa efficacia non potrebbe attribuirsi a pattuizioni, pure contenute in accordi raggiunti al termine della procedura ex lege 223/1991, ma che abbiano un diverso contenuto, e in specie quel contenuto immediatamente regolativo dei rapporti di lavoro che è proprio del contratto collettivo normativo, la cui efficacia erga omnes potrebbe perciò darsi solo alle condizioni previste dall’art. 39 Cost.1. L’opposta conclusione, e quindi l’affermazione che la sola formale collocazione in un accordo ex lege 223/1991 sia sufficiente ad attribuire a qualsiasi pattuizione efficacia erga omnes, condurrebbe infatti ad un’evidente violazione della norma costituzionale, attribuendosi effetti eccedenti quelli del contratto collettivo post corporativo ad accordi conclusi da soggetti diversi dalle associazioni “registrate” di cui dice l’ultimo comma dell’art. 39 Cost. E ciò detto, sembra al collegio di una certa evidenza che la clausola che qui rileva (e che, merita rammentare, prevede l’attribuzione ai licenziandi di tre mensilità a titolo di indennità sostitutiva del preavviso in deroga alla diversa e più favorevole disposizione del contratto nazionale) sia immediatamente regolativa dei rapporti di lavoro, e perciò estranea all’oggetto proprio degli accordi ex lege 223/1991, di cui quindi non può condividere la peculiare efficacia. Né certamente essa potrebbe dirsi, nella concreta fattispecie di causa, opponibile a M. per non avere egli impugnato il licenziamento intimato sulla base dei criteri previsti dall’accordo di cui ora si discute. Si tratta infatti di una circostanza senz’altro ininfluente ai fini di causa, per essere le pattuizioni dell’accordo relative ai criteri di scelta e alla misura dell’indennità di preavviso del tutto indipendenti, per cui,
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Non smentisce la conclusione ermeneutica qui raggiunta la disposizione del comma 11 dell’art. 4 della L. 223/1991, secondo cui “gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire, anche in deroga al secondo comma dell’articolo 2103 del codice civile, la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte”. In tal caso infatti è la legge a prevedere espressamente la derogabilità dell’art. 2103 c.c., seppure per il tramite degli accordi, così che è alla legge che deve riferirsi l’effetto regolativo dei rapporti di lavoro dei lavoratori interessati.
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come la disposizione relativa al preavviso non condiziona certamente la legittimità del recesso, così la definitiva cessazione del rapporto, per effetto della mancata impugnazione del provvedimento espulsivo, non può avere alcun effetto preclusivo del diritto del lavoratore di contestare la legittimità dell’accordo in punto di misura dell’indennità di preavviso. 2. Dell’applicabilità nella specie dell’art. 8 del D.L. 138/2011. Esclusione. Ma nella specie, ad avviso della Corte, neppure potrebbe darsi l’applicazione dell’art. 8 del D.L. 138/2011 sulla contrattazione di prossimità. In proposito merita ricordare come la disposizione de qua disponga che “i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all›adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all›avvio di nuove attività. 2. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento. 2-bis. Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al
comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”. Deve pure rilevarsi come la Corte Costituzionale, con sentenza 221/2012, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale proposte in via principale dalla Regione Toscana avverso la disposizione de qua, abbia affermato inequivocamente il “carattere tassativo” delle materie indicate nell’elenco di cui comma 2 dell’art. 8 e più generalmente la natura di “norma avente carattere chiaramente eccezionale” della disposizione di interesse, che perciò “non si applica oltre i casi e i tempi in essa considerati (art. 14 disposizioni sulla legge in generale)”. Una tale “eccezionalità” deve allora di necessità guidare l’analisi dell’interprete, tenuto a dare, non solo dell’elenco di cui al comma 2, ma all’intera disposizione una stretta interpretazione. Ne deriva che anche la previsione delle “specifiche intese” finalizzate a scopi predeterminati deve essere letta alla luce della natura eccezionale della norma e al fine di assicurarne l’applicazione solo nei casi espressamente previsti e non oltre. Ora sembra al collegio che un tale obiettivo (e quindi la stretta interpretazione della disposizione di interesse) sia assicurato in primo luogo dalla trasparenza e chiarezza delle deroghe e delle relative finalità come apprezzate dai contraenti collettivi legittimati. Una condizione che può darsi allora solo ove le parti esplicitino il fine che perseguono (così che sia possibile verificarne, anche in sede giudiziale, la corrispondenza con gli obiettivi indicati dalla legge), specifichino le norme legali e contrattuali che derogano e giustifichino la deroga in relazione alla finalità che assumono di perseguire, così che l’esistenza di un contratto ex art. 8 non potrebbe mai riconoscersi ex post, dovendo lo stesso essere invece concluso e qualificato dalle parti come tale. A ritenere diversamente infatti qualsiasi accordo aziendale, sottoscritto da soggetti di adeguata rappresentatività, potrebbe derogare, non solo al CCNL, ma anche alla legge purché richiami in una qualche sua parte una delle finalità (peraltro molto latamente) individuate dall’art. 8, un’interpretazione questa che vanificherebbe in effetto il carattere eccezionale della norma e porrebbe nel nulla la previsione, ivi contenuta, di “specifiche intese” aventi obiettivi predeterminati. Facendo applicazione di tali principi nella specie deve allora rilevarsi come, dei due contratti che qui interessano, uno (quello del 28.12.2012) sia un accordo espressamente diretto a concludere la procedura della L. 223/1991, ed abbia quindi un fine specifico e normativamente dato (quello di selezionare i licenziandi ed eventualmente di individuare misure sostitutive o mitigatrici delle conseguenze sociali della procedura di mobilità) del tutto estraneo alla previsione dell’art. 8,
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l’altro sia dichiaratamente un contratto aziendale, cioé un contratto di secondo livello volto a regolamentare vari aspetti del rapporto di lavoro dei dipendenti MPS, così che deve senz’altro escludersi che si tratti di una “specifica intesa” (come devono aver ritenuto anche le parti collettive che infatti non hanno fatto alcun richiamo alla disposizione dell’art. 8 al fine di legittimare la pattuizione relativa al preavviso). Deve perciò escludersi che la previsione, nei due contratti de quibus, di una misura diversa ed inferiore dell’indennità sostitutiva del preavviso rispetto a quanto disposto dal contratto nazionale trovi il suo legittimo fondamento nell’art. 8 del D.L. 138/2011. 3. Del rapporto tra contratti di diverso livello nella specie. La banca argomenta infine la legittimità della pattuizione dall’inesistenza di un rapporto di gerarchia tra le fonti collettive di diverso livello, così che eventuali contrasti, come quello che si dà nella specie, dovrebbero essere risolti sulla base del criterio cronologico e perciò, nel caso di cui è processo, privilegiando il più recente contratto aziendale. Si tratta di un tema di grande complessità e rispetto al quale si danno in giurisprudenza e in dottrina posizioni diverse. Peraltro nella specie le questioni poste dal contrasto tra contratti di diverso livello intrecciano quelle relative alla vincolatività delle pattuizioni dei contratti collettivi di diritto privato cd. separati in confronto di lavoratori non aderenti alle organizzazioni stipulanti. Ben consapevole di tale complessità questa Corte ritiene che, sul piano generale, inattuato allo stato l’art. 39 Cost., l’unico criterio adeguato alla peculiare natura del contratto postcorporativo e astrattamente idoneo a risolvere eventuali conflitti tra norme collettive risieda nel richiamo alla stessa autonomia collettiva, alla regolamentazione di quei conflitti che le parti sociali si siano date. E a questo proposito è un fatto che i contraenti collettivi, nelle loro istanze dotate di maggior rappresentatività nel settore cui appartiene l’appellante, abbiano sottoscritto un accordo, l’accordo quadro sugli assetti contrattuali del 28.10.2011, con la specifica finalità di risolvere anche queste questioni, per cui da tale accordo, e dall’assetto dei rapporti tra le fonti collettive che esso disegna, non può prescindersi, almeno quando si faccia questione (come pacificamente nella specie) di parti comunque tenute (secondo le ordinarie forme di vincolatività proprie del contratto collettivo di diritto privato) al rispetto dell’accordo quadro. Ora detto accordo (come prima l’accordo interconfederale del giugno 2011 e come sarà poi previsto dal CCNL del credito del gennaio 2012) attribuisce al contratto collettivo nazionale “la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale”, prevedendo inoltre un “secondo livello di contrattazione con il contratto aziendale o di gruppo, alle condizioni convenute tra le Parti, per le
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materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto collettivo o dalla legge, secondo le modalità e gli ambiti di applicazione definiti da detto CCNL”. E ancora, secondo l’accordo quadro, “i contratti collettivi aziendali o di gruppo, stipulati con gli organismi sindacali di cui all’accordo 7 luglio 2010, possono in particolare prevedere norme e/o articolazioni contrattuali volte ad assicurare l’adattabilità delle normative vigenti alle esigenze degli specifici contesti produttivi. I contratti collettivi aziendali o di gruppo possono pertanto definire, anche in via sperimentale e temporanea, al fine di favorire lo sviluppo economico e occupazionale, ovvero per contenere gli effetti economici e occupazionali derivanti da situazioni di crisi aziendale o di gruppo o da rilevanti ristrutturazioni e/o riorganizzazioni, specifiche intese modificative di regolamentazioni anche disciplinate dal CCNL di categoria, secondo le modalità e gli ambiti disciplinati dal CCNL stesso”. Tali contratti “esplicano efficacia nei confronti di tutto il personale dipendente dell’azienda/e interessata/e e vincolano tutte le Organizzazioni sindacali, ad ogni livello, presenti aziendalmente se gli Organismi sindacali - legittimati a trattare ai sensi delle norme vigenti - che li sottoscrivono rappresentano la maggioranza dei lavoratori ivi iscritti. La rappresentatività di ciascuna Organizzazione sindacale si determina considerando il numero dei lavoratori iscritti presso l’azienda/e interessata/e rilevati ai sensi dell’art. 4 dell’accordo 7 luglio 2010”. D’altro canto il CCNL del credito, cui compete secondo l’accordo quadro individuare le materie delegate alla contrattazione di secondo livello e “le modalità e gli ambiti di applicazione di tale contrattazione”, rimette al contratto decentrato la regolamentazione di: “a) premio aziendale, salvo quanto previsto all’art. 52; b) garanzie volte alla sicurezza del lavoro; c) tutela delle condizioni igienico sanitarie nell’ambiente di lavoro; d) assistenza sanitaria; e) previdenza complementare” (così l’art. 28 del CCNL del gennaio 2012). L’art. 6 consente poi alla contrattazione di secondo livello di “definire, anche in via sperimentale e temporanea, al fine di favorire lo sviluppo economico ed occupazionale, ovvero per contenere gli effetti economici e occupazionali derivanti da situazioni di crisi aziendale o di gruppo o da rilevanti ristrutturazioni e/o riorganizzazioni, specifiche intese modificative di regolamentazioni anche disciplinate dal c.c.n.l. di categoria, relativamente alle materie della prestazione lavorativa, degli orari e dell’organizzazione del lavoro”. Sembra alla Corte che una piana lettura delle norme pattizie appena esposte imponga di rilevare tre dati: 1) sia l’accordo quadro sia il CCNL riservano al contratto nazionale la fissazione dei livelli retributivi comuni e il CCNL disciplina specificamente la misura dell’indennità sostitutiva del preavviso per tutti lavoratori del credito; 2) secondo l’accordo quadro la contrattazione collettiva decentrata opera in materie dele-
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gate e può derogare alle disposizioni del CCNL anche “per contenere gli effetti economici e occupazionali derivanti da situazioni di crisi aziendale” “secondo le modalità e gli ambiti di applicazione definiti” dal CCNL stesso; 3) infine quest’ultimo espressamente consente il raggiungimento di “intese modificative di regolamentazioni” contenute nel contratto nazionale quanto agli aspetti della prestazione, dell’orario e dell’organizzazione, ma non della retribuzione che resta perciò l’ambito proprio della contrattazione nazionale, e ciò al fine evidente di evitare l’erosione dei minimi retributivi convenuti in una sede, come quella nazionale, ritenuta maggiormente garantita per i lavoratori. E assunti questi dati, se, come il collegio ritiene dovuto, l’interprete deve ricorrere, al fine di dirimere il conflitto tra norme collettive di diverso livello, alle regole che gli stessi contraenti collettivi si sono dati, è un fatto che nella specie l’accordo aziendale del 19.12.2012 sul punto di interesse deroghi alla disposizione dettata dal contratto nazionale in una materia (la retribuzione) non prevista come delegabile dal CCNL cui l’accordo quadro rimette l’individuazione dell’ambito applicativo della contrattazione di secondo livello. Ma se è così, ad avviso della Corte, non potrà riconoscersi alla pattuizione che interessa, indipendentemente dalla verifica della rappresentatività delle parti firmatarie, l’efficacia propria degli accordi aziendali disciplinati, e che perciò rispettino le condizioni di cui all’accordo quadro dell’ottobre 2011. Con la conseguenza, qui decisiva, che quella pattuizione non potrà essere opposta ex se (e quindi salva l’ipotesi di acquiescenza di cui infra) quanto meno ai lavoratori, come l’odierno appellato, iscritti ad organizzazioni firmatarie dell’accordo quadro e del CCNL, ma non degli accordi
di cui si fa questione. Tali lavoratori infatti, per effetto dell’affiliazione sindacale, sono vincolati, ma anche garantiti dalle previsioni dell’accordo quadro e del CCNL, che li obbligherebbero al rispetto di contratti di secondo livello pure non sottoscritti dall’associazione cui abbiano dato mandato, se – ma solo se – conclusi nelle materie delegate dal CCNL, da soggetti legittimati e con le formalità pure previste dal contratto nazionale. Quanto poi alla dedotta acquiescenza di M. alla pattuizione di cui si fa questione, deve ritenersi del tutto irrilevante, anche sotto il profilo che ora interessa, la circostanza che egli non abbia impugnato il licenziamento, giacché dall’acquiescenza all’estromissione non può in alcun modo farsi derivare ex se l’accettazione anche delle (diverse e indipendenti) disposizioni sul preavviso, per quanto già sopra detto, mentre neppure l’appellante allega che il lavoratore abbia altrimenti accettato una qualche diversa pattuizione dell’accordo aziendale (cosa del resto assai improbabile essendo egli stato licenziato poco più di un mese dopo la conclusione di detto accordo). Nessuno degli argomenti spesi da MPS a fondamento delle sue ragioni vale perciò a far ritenere la vincolatività della pattuizione impugnata in confronto dell’appellato, del quale deve quindi ritenersi il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso nella misura prevista dal CCNL, così come concluso dal primo giudice. L’impugnazione deve essere pertanto respinta. - Omissis. P.Q.M. La Corte, definitivamente decidendo, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, respinge l’appello Omissis.
Sull’efficacia degli accordi di gestione di crisi aziendali Sommario: 1. Il caso. – 2. La natura non “gestionale” della clausola riduttiva del preavviso. – 3. Critica del “contratto gestionale”. – 4. La questione dell’art. 8, l. n. 148/2011.
Sinossi. L’autore sottopone a esame l’affermazione della Corte di Appello di Firenze in merito alla non efficacia, nei confronti di un lavoratore iscritto a una sigla sindacale non firmataria, di una clausola, contenuta in un accordo sui criteri di scelta in un licenziamento collettivo, che aveva previsto una riduzione del preavviso rispetto alla misura fissata dal CCNL. La critica si focalizza sulla tesi della natura gestionale dell’accordo sui criteri di scelta, che la sentenza annotata ha
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assunto come premessa della propria conclusione. Secondo l’autore, di contro, gli accordi conclusi nell’ambito delle procedure di licenziamento collettivo sono nella loro interezza, in quanto integrativi di fattispecie legali complesse, tendenzialmente efficaci “erga omnes”, purché conclusi da soggetti rappresentativi del consenso maggioritario dei lavoratori. Nella seconda parte della nota, vengono altresì esaminati, sempre criticamente, gli argomenti impiegati dalla sentenza per escludere l’applicazione al caso di specie dell’art. 8, legge n. 148/2011.
1. Il caso. Con la sentenza che si annota, la Corte di Appello di Firenze ha affrontato un problema molto particolare (ma di ampie implicazioni) legato a una procedura di licenziamento collettivo attivata dal Monte dei Paschi di Siena, nel quadro della complessa ristrutturazione adottata dall’Istituto tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013. La procedura si era chiusa con un accordo collettivo prevedente, oltre ai criteri di scelta dei licenziandi, il riconoscimento agli stessi, per quanto interessa, di un’indennità sostitutiva di preavviso pari a 3 mensilità, a fronte delle 6 di cui al CCNL bancario. L’accordo in questione era stato preceduto, peraltro, da un accordo aziendale “di programma”, contenente la stessa previsione, ma nell’ambito della regolamentazione di un’ampia gamma di istituti. Entrambi gli accordi erano stati sottoscritti soltanto da alcune delle sigle firmatarie del CCNL, nel dissenso dell’associazione aderente alla CGIL. A quest’ultima era appunto affiliato il lavoratore che aveva promosso la causa, al fine di rivendicare la misura piena, ex CCNL, dell’indennità sostitutiva del preavviso, sulla base dell’illegittimità e comunque dell’inefficacia nei suoi confronti dell’accordo di chiusura della procedura, quanto meno nella parte concernente il preavviso. I giudici del merito (il Tribunale di Siena prima della Corte fiorentina) si sono dovuti confrontare, quindi, con i temi della legittimità e dell’efficacia di un classico accordo aziendale “separato”, o meglio di una clausola di esso, e si sono risolti entrambi per l’irrilevanza dell’accordo nei confronti del ricorrente e di conseguenza per la fondatezza della sua domanda. La Corte di Appello, in particolare, lo ha fatto sulla base di tre argomenti: la non configurabilità della clausola sul preavviso, per quanto contenuta in un accordo sui criteri di scelta, come di natura “gestionale”; la non applicabilità, all’accordo di specie, dell’art. 8, l. n. 148/2011; la non conformità della clausola alla regolamentazione contrattuale di settore in tema di rapporto tra i livelli contrattuali. Ciò premesso, è opinione dello scrivente che, per quanto sia scritta molto bene e con un apprezzabile grado di coerenza interna, la sentenza si presti, in una con le costruzioni teoriche cui si è appoggiata (in particolare quella dell’“accordo gestionale”), ad alcune osservazioni critiche, relativamente al primo e al secondo degli argomenti evidenziati (del terzo, che invece a mio avviso è corretto, si dirà nell’ambito della trattazione del secondo).
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2. La questione della natura non gestionale della clausola riduttiva del preavviso.
La Corte, anzitutto, ha disatteso la tesi della Banca, che aveva sostenuto l’efficacia della pattuizione relativa al preavviso anche nei confronti del lavoratore ricorrente, in quanto contenuta in un “accordo gestionale” concluso nel quadro degli artt. 4 e 24, l. n. 223/1991. Secondo la Corte, infatti, a tale pattuizione non può attribuirsi un carattere gestionale, in quanto tali sono, secondo l’insegnamento di C. cost. 30 giugno 1994, n. 2682 (che proprio sulla premessa di questa ricostruzione ritenne che l’attribuzione di efficacia erga omnes agli accordi sui criteri di scelta non confliggesse con l’art. 39, Cost.), soltanto le previsioni collettive che siano «dirette, non immediatamente a regolare i rapporti di lavoro, ma a procedimentalizzare poteri datoriali, così che l’efficacia regolativa delle (medesime) sui rapporti di lavoro avviene per il tramite dell’esercizio del potere». Pertanto, ha concluso la sentenza, alla clausola in questione, in quanto immediatamente regolativa dei rapporti di lavoro, è da attribuire un’efficacia “di diritto comune” (un’espressione non impiegata, peraltro, dalla Corte), per cui essa non può essere opposta a un lavoratore aderente a un sindacato non firmatario dell’accordo nel quale la clausola è contenuta, in quanto ciò si tradurrebbe nell’attribuire a un contratto collettivo un’efficacia erga omnes al di fuori delle condizioni dettate dall’art. 39, Cost. Va da sé che la sentenza smentisce per l’ennesima volta coloro che ritengano anche solo in parte superati i problemi dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo e dell’art. 39, Cost. Fa impressione, comunque, ma non perché il rilievo non sia esatto, leggere nella sentenza che un’efficacia generale potrebbe essere riconosciuta soltanto ad accordi conclusi da associazioni “registrate” ai sensi dell’art. 39. Ultimamente, peraltro, questi temi sono tornati a catturare attenzione anche all’interno delle associazioni (sindacali e datoriali) di prima fila, a causa dei fenomeni di crescente smottamento della rappresentanza datoriale, e in particolare delle fughe verso una contrattazione nazional-aziendale parallela, tendenzialmente al ribasso. Ciò, mentre le parti sociali, che ancora non sono riusciti ad attuare, per la parte relativa al CCNL, il TU sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, stanno esplorando nuove soluzioni (da ultimo sfociate nell’accordo interconfederale del 28 febbraio 2018). Tornando al caso che ci interessa, non c’è dubbio che la pattuizione riduttiva della misura del preavviso (e, conseguentemente, della relativa indennità sostitutiva) non rivesta una natura “gestionale” nel senso attribuito a tale espressione dalla Corte costituzionale3. In quella prospettiva, dunque, il ragionamento della Corte è pienamente corretto, ma non per questo, a mio giudizio, esaustivo. Resta, anzitutto, l’impressione di una qualche artificiosità per quel che concerne la separazione della clausola sul preavviso dal conte-
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C. cost. 30 giugno 1994, n. 268, in RIDL, 1995, II, 237. Negli stessi termini, con riferimento a un accordo separato nel quale un’impresa in crisi aveva concordato con alcuni sindacati il ritiro della procedura di mobilità in cambio del superamento degli accordi aziendali in essere, e della conseguente estinzione di vari premi e indennità, v. App. Brescia 7 marzo 2009, in FI, 2010, I, 623.
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sto negoziale che l’ha originata (e che, comunque, deve ritenersi quello dell’accordo di definizione della procedura di licenziamento collettivo, restando irrilevante che le stesse previsioni fossero state anticipate, a procedura in corso, da un precedente accordo aziendale). Pur senza conoscere i dettagli di quella negoziazione, è immaginabile, infatti, che la previsione riduttiva del preavviso sia stata una delle componenti necessarie dell’accordo “di gestione” della crisi aziendale in questione, le cui varie previsioni (inclusa quella sulla fissazione del numero dei licenziati) hanno fatto presumibilmente parte di un unico pacchetto (per quanto, va aggiunto, con la peculiarità che il sacrificio in questione ha qui interessato i medesimi lavoratori che hanno perduto il posto di lavoro, e non quelli rimasti in forza, magari anche grazie – ma sempre di congetture si tratta – a un’ipotetica riduzione del numero degli esuberi rispetto a quelli originariamente annunciati dalla Banca, resa possibile da risparmi come quello sul preavviso). È da ritenere, in altre parole, che dal punto di vista sindacale le varie previsioni dell’accordo dovessero essere considerate inscindibili, il che, del resto, è quel che accade nella normale esperienza della contrattazione. Che la Corte fiorentina non abbia tenuto conto della genesi della clausola, e l’abbia isolata dal contesto cui apparteneva, rientra negli incerti dei rapporti tra sistema intersindacale e ordinamento statuale, ma proietta un’ombra sulla conclusione raggiunta, per quanto essa sia stata ben supportata tramite la chiamata in causa della famosa pronuncia della Consulta, tra l’altro dovuta alla penna del Maestro Luigi Mengoni.
3. Critica del “contratto gestionale”. Ma il punto, per passare a un altro ordine di osservazioni, è proprio quello se sia corretta la premessa di partenza, cioè se tutta la costruzione dell’accordo gestionale abbia un senso, o se non si tratti soltanto – mi perdoni il Maestro – di un brillante escamotage per mettere una delle tante pezze a un sistema gravato dalla contraddizione tra una contrattazione collettiva ancora privatistica nel regime giuridico, ma nel contempo destinataria di deleghe normative comportanti sia l’integrazione di precetti legislativi che, sempre più spesso, la facoltà di deroga a quegli stessi precetti in nome della migliore tutela dell’interesse collettivo. Una contrattazione privatistica, insomma, ma cooptata nell’assolvimento di importanti funzioni tanto più pubblicistiche, in quanto regolative di situazioni di elevata delicatezza sociale. La previsione dell’art. 5, comma 1, l. n. 223/1991, rientra perfettamente in questo modello di rinvio da legge a contratto collettivo, anche se con la particolarità di prevedere una regola legale suppletiva nel caso in cui l’accordo sui criteri di scelta non intervenga. Il che, peraltro, non basta a differenziare questa norma, diversamente da quanto rilevato dalla Corte fiorentina, da quella di cui all’art. 11, comma 4, della stessa l. n. 223/1991: se è vero che in quel caso «è alla legge che deve riferirsi l’effetto regolativo dei rapporti di lavoro dei lavoratori interessati», ciò vale anche per gli accordi sui criteri di scelta, anche se la legge ha qui contemplato una soluzione di riserva. È vero che è stata la stessa Consulta ad affermare, nella ormai nota pronuncia del ‘94, che i contratti collettivi ex art. 5 non sono da annoverare tra gli accordi sindacali “in deroga”, in quanto i criteri legali sono soltanto eventuali e suppletivi. Ma, a parte che la diversità della tecnica utilizzata non basta a celare la sostanza, cioè che gli accordi sindacali sui
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criteri di scelta possono deviare da quelli legali, l’importante, ai fini dell’analisi, è che, con o senza deroga, l’art. 5, comma 1, è una norma di rinvio mirato alla contrattazione collettiva al pari dell’art. 11, comma 4, per cui, in entrambi i casi, la contrattazione è chiamata a integrare un precetto legislativo. Ciò detto, per quel che vale sono da tempo convinto, in disaccordo con molti (la Corte fiorentina è senz’altro in buona compagnia nell’impostazione che ha scelto), dell’artificiosità concettuale della tesi del contratto gestionale in quanto finalizzata all’erga omnes. Infatti, sostenere che una clausola “gestionale” (un termine che allude, tra l’altro, alla funzione dell’accordo, e non alla sua natura giuridica) è efficace erga omnes perché è limitativa di un potere altrimenti unilaterale del datore di lavoro, per cui non si esplica sui rapporti di lavoro bensì esclusivamente «nei confronti degli imprenditori stipulanti, o del singolo imprenditore nel caso di accordo aziendale», e che «il contratto collettivo, cui rinvia la norma in esame, incide sul singolo prestatore di lavoro indirettamente, attraverso l’atto di recesso del datore in quanto vincolato dalla legge al rispetto dei criteri di scelta concordati in sede sindacale»4, non mi sembra altro che un elegante paralogismo. A parte che, così ragionando, tutta o quasi la contrattazione collettiva finirebbe con l’essere “gestionale” (che forse le previsioni dei CCNL in tema di orario di lavoro non incidono sul potere unilaterale del datore di lavoro, che infatti torna a espandersi laddove, ad es. in tema di collocazione degli orari, non è disciplinato dal contratto?), il punto essenziale mi pare che affinché la clausola limitativa del potere sia invocabile dal lavoratore in giudizio occorre che essa conferisca allo stesso un diritto soggettivo, il che costituisce un tipico effetto normativo, il cui prodursi richiede che la clausola sia soggettivamente efficace nei confronti di quel lavoratore. Del resto, se si va a spigolare nella letteratura e nella giurisprudenza degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, quando la tesi in discorso ha cominciato a circolare, prima di essere autorevolmente recepita dalla Consulta nel 1994 (e, nella sostanza, anche nella successiva pronuncia 18 ottobre 1996, n. 344, relativa alla disciplina regolatrice dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, e sempre dovuta a Mengoni) e poi variamente dalla Corte di Cassazione5, si fanno scoperte interessanti. La mia impressione, in una parola, è che la tesi del “contratto gestionale” sia un sottoprodotto delle discussioni che, proprio in quei decenni, si sono cominciate a fare sugli accordi di “procedimentalizzazione” dei poteri imprenditoriali. Di questi accordi aveva scritto, tra i primi se non per primo, Franco Liso6, definendoli come volti a garantire che «nel formarsi di certe decisioni si tenga conto degli interessi antagonistici sui quali va ad incidere l’esercizio del potere. In questi casi il “collettivo” costituisce dimensione del controllo istituzionalizzato che si esercita su determinati poteri dell’imprenditore e che ha per obiettivo immediato non la tutela del lavoratore singolo, ma
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C. cost. n. 268/1994, cit. V., ad es., Cass., 22 giugno 2004, n. 11634, in GCM, 2004, 6; Cass., 15 gennaio 2003, n. 530, in GCM, 2003, 107; Cass., 9 settembre 2000, n. 11875, in GCM, 2000, 1911; per un precedente anteriore a C. cost. n. 268/1994, sempre in tema di criteri di scelta, v. Cass., 20 giugno 1991, n. 6953, in GCM, 1991, 6. 6 Liso, La mobilità dei lavoratori in azienda: il quadro legale, Franco Angeli, 1982, 113 ss. 5
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quella dell’interesse collettivo. Quel controllo, tuttavia, nella misura in cui costituisce forma obbligata dell’esercizio del potere, costituisce anche oggetto di un interesse finale e non strumentale del singolo lavoratore»7. L’aspetto che Liso badava a sottolineare, insomma, è che le clausole di procedimentalizzazione erano sì indirizzate alla tutela dell’interesse collettivo tramite la restrizione dell’ambito di esercizio del potere imprenditoriale, ma involgevano anche interessi dei singoli lavoratori, conseguendone la possibile azionabilità in giudizio delle relative previsioni. Ciò indica che la preoccupazione dominante era quella di stabilire la natura anche normativa, e non soltanto obbligatoria, di quelle clausole. Il che trova riscontri, in effetti, nella giurisprudenza di quegli anni, ad es. a proposito dell’efficacia giuridica degli accordi limitativi del potere di scegliere i lavoratori da collocare in CIG8. Ma qualche pur rara eco dell’equiparazione tra “gestionale” e “obbligatorio”, in contrapposizione a “normativo”, è rinvenibile anche nella giurisprudenza successiva: v., ad es., Cass., sez. lav., 15 gennaio 2003, n. 5309. Pertanto, a seguire quelle prime suggestioni, la configurazione di certi accordi come “di procedimentalizzazione” avrebbe dovuto condurre, semmai, ad attribuire agli stessi l’efficacia giuridica normalmente propria dei contratti collettivi, e non un’efficacia diversa per il sol fatto di essere, quegli accordi, limitativi del potere datoriale. Quello fatto proprio dalla Consulta è stato, dunque, un impiego più tardo (e non necessariamente implicito in quello originario) del concetto. Ciò per quanto, a onor del vero, lo stesso Liso, esprimendosi a ridosso dell’emanazione della l. n. 223/199110 avesse affermato che il problema di un’efficacia degli accordi sui criteri di scelta limitata ai soli lavoratori iscritti alle organizzazioni stipulanti non ha ragione di porsi, «sia in ragione del fatto che questi accordi … disciplinano direttamente poteri del datore di lavori (poteri che naturalmente si esercitano nei confronti di tutti i lavoratori, sia – quel che più conta – in ragione del fatto che si tratta di accordi esplicitamente contemplati dal legislatore: quest’ultimo mostra di associare le parti sociali, in via esplicita e diretta, all’esercizio della funzione regolatrice ad essa spettante. In altri termini, … le parti sociali sono chiamate a svolgere, su “delega” del legislatore e non in esercizio del proprio potere di rappresentanza, un compito di regolazione in aree predeterminate dallo stesso legislatore». Come si vede, quindi, Liso menzionava sì (eppure definendolo, in un precedente passaggio, “ellittico”) l’argomento che sarebbe stato poi ripreso dalla Corte costituzionale a proposito degli accordi sui criteri di scelta e sulle prestazioni indispensabili negli scioperi, ma, al fondo, propendeva per far risalire l’efficacia qualificata di questi accordi più al loro essere attuativi – nella prospettiva già evocata nel precedente paragrafo – di fattispecie legali complesse. Ciò corrispondeva alla crescente presa d’atto, sulla quale ebbe a scrivere grandi pagine Massimo D’Antona, della nuova e originale dimensione giuridica della contrattazione “di procedimentalizzazione” (così come di quella “autorizzativa” alla stipulazione di contratti
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Liso, ivi, 113-114. V., ad es., C. cost. 23 giugno 1988, n. 694, in DL, 1988, II, 312; Cass., 10 aprile 1990, n. 3024, in GCM, 1990, 4; Cass., 13 ottobre 1993, n. 10112, in CGM, 1993, 1467. 9 Cass., 15 gennaio 2003, n. 530, cit. 10 Liso, Mercato del lavoro: il ruolo dei poteri pubblici e privati nella legge n. 223/1991, in RGL, 1993, I, 3, qui 42 nt. 69. 8
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di lavoro atipici), cooptata dalla legge non già come forma di composizione volontaria dei conflitti, bensì «come istituzione sociale che, per la sua capacità di auto-regolazione, è in grado di cooperate con lo Stato»11. Il che peraltro, chiosava D’Antona, comportava dei prezzi, che dipendevano (e ahimè dipendono) dall’irresoluzione dei profili giuridici (selezione degli agenti negoziali, efficacia erga omnes) della stessa contrattazione: trattasi, appunto, di quella contraddizione tra natura privatistica e sovraccarico funzionale pubblicistico, della quale si diceva in precedenza. La prospettiva per cui, quando il contratto aziendale è autorizzato a completare una fattispecie legale, eventualmente anche in senso derogatorio, è efficace al di là della cerchia dei lavoratori iscritti ai sindacati stipulanti, è stata raccolta in diverse occasioni dalla giurisprudenza: v., ad es., Cass., sez. lav., 11 dicembre 2002, n. 17674, a proposito dell’art. 23, l. n. 56/1987, in tema di contratti a termine; Cass., sez. lav., 25 marzo 2002, n. 421812. Va detto, peraltro, che quando si è trovata – ed è accaduto di frequente – a risolvere problemi di efficacia soggettiva del contratto aziendale, la giurisprudenza ha dimostrato un’elevata attitudine pragmatica, che si è risolta nell’adozione di una pluralità di schemi argomentativi a seconda delle fattispecie. Nella maggioranza dei casi, questo eclettismo è stato adoperato13 per giustificare un’efficacia erga omnes degli accordi: per la funzione di integrazione legislativa attribuita alla contrattazione (v. le sentenze appena citate); per la tesi della natura gestionale (v. supra); per l’indivisibilità dell’interesse collettivo tutelato dal contratto14. Per una posizione compromissoria, che riconosce l’efficacia erga omnes ma la subordina alla presenza di condizioni non esclusivamente peggiorative, v. Cass., sez. lav., 5 febbraio 1993, n. 143815. Non sono mancate, tuttavia, prese di posizione a favore dell’efficacia soggettivamente circoscritta del contratto: v., ad es., Cass., sez. lav., 4 maggio 1994, n. 4295; Cass., sez. lav., 29 gennaio 1993, n. 110216, affermandosi sì la natura gestionale, ergo generalmente vincolante, dell’accordo contenente l’impegno dell’imprenditore a rinunciare ai progettati licenziamenti collettivi ed a ricollocare i lavoratori, previo licenziamento individuale, presso altra impresa, ma salvaguardandosi comunque, in nome della libertà sindacale, il diritto al dissenso, sotto forma di diritto a impugnare il licenziamento; Cass., sez. lav., 24 febbraio 1990, n. 140317. La sentenza della Corte di Appello di Firenze si è inserita di giustezza in questi indirizzi, con la peculiarità di non guardare all’accordo come a un tutto unico, ma di distinguere
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V. D’Antona, Contrattazione collettiva e autonomia individuale dei rapporti di lavoro atipici, in DLRI, 1990, 529, qui 545-546. Cass., 11 dicembre 2002, n. 17674, in MGL, 2003, 297; Cass., 25 marzo 2002, n. 4218, in GCM, 2002, 513. 13 Appoggiandosi anche a posizioni dottrinali che non ho qui modo di citare: per una disamina, v. Comandè, Dall’inderogabilità alla competenza. Contratti collettivi e ordinamento giuridico, Jovene, 2017, spec. 144 ss. 14 V. Cass., 2 maggio 1990, n. 3607, in GCM, 1990, 5; Cass., 5 luglio 2002, n. 9764, in GCM, 2002, 1168, per l’affermazione che «Ove un contratto collettivo aziendale stipulato dal sindacato per la tutela degli interessi collettivi dei lavoratori dell’azienda venga successivamente modificato o integrato da un nuovo accordo aziendale stipulato dallo stesso sindacato, tutti i lavoratori che abbiano fatto adesione all’originario accordo, ancorché non più iscritti al sindacato, sono vincolati dall’accordo successivo e non possono invocare soltanto l’applicazione del primo». 15 Cass., 5 febbraio 1993, n. 1438, in RIDL, 1994, II, 61. 16 Cass., 4 maggio 1994, n. 4295, in NGL, 1994, 285; Cass., 29 gennaio 1993, n. 1102, in GCM, 1993, 161. 17 Cass., 24 febbraio 1990, n. 1403, in RGL, 1991, 504. 12
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clausola da clausola, così da ravvisare nell’accordo tanto un’efficacia “gestionale” generalizzata (criteri di scelta) quanto una normativa circoscritta (preavviso). Rispetto a tutto questo, la mia conclusiva valutazione è la seguente. Non credendo, per le ragioni che ho spiegato, alla tesi del contratto gestionale, propendo a ritenere che non soltanto gli accordi aventi a oggetto l’indicazione dei criteri di scelta, ma più ampiamente gli accordi adottati nel quadro di procedure limitative dei poteri datoriali, gli accordi “di procedimentalizzazione” insomma, siano il prodotto di un’investitura assegnata dalla legge ai soggetti rappresentativi per tutelare al meglio l’interesse collettivo nelle contingenze (nel caso della l. n. 223/1991) di una crisi aziendale. Di conseguenza, a quegli accordi (inclusa la vessata clausola sul preavviso) deve riconoscersi, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte fiorentina, una tendenziale efficacia erga omnes (per appropriarmi dell’espressione che Massimo D’Antona utilizzò, in risposta a una mia domanda in termini, in una lontana quanto indimenticabile lezione che egli tenne a Firenze il 30 aprile 1999). Ciò, tuttavia, a una condizione, il cui rispetto è inevitabilmente affidato, sino a nuovo ordine delle parti sociali e/o del legislatore, alla valutazione caso per caso del magistrato in ordine all’effettiva rappresentatività dell’accordo nel contesto di riferimento. Per effettuare queste valutazioni, il giudice ha a disposizione, peraltro, un criterio importante, nonché, nell’ambito aziendale (a differenza che in quello nazionale o territoriale), relativamente facile da applicare: il principio di maggioranza, che il TU del 10 gennaio 2014 e altri accordi consimili (tra i quali l’Accordo quadro del Credito del 28 giugno 2011, tra l’altro richiamato dalla stessa sentenza annotata ma senza trarne implicazioni nel caso) consentono di applicare nel caso di contratti aziendali stipulati dalla RSU (che, essendo un organismo collegiale, delibera a maggioranza), dalla/e RSA (tramite il dato delle deleghe sindacali), e/o dalle associazioni sindacali esterne (ancora tramite le deleghe). Tra l’altro (ma il discorso dovrebbe essere ben altrimenti approfondito, sul filo di suggestioni che potrebbero correre da Giuseppe Pera all’ultimo D’Antona) la verifica sul rispetto di tale requisito è ampiamente idonea, a mio giudizio, a porre questa soluzione al riparo da ogni contrasto con l’art. 39, Cost., sì da evitare che il morto trascini il vivo. In aggiunta a questo, anche altri elementi (ad es. l’esito di un eventuale referendum tra i lavoratori) possono essere tenuti in debito conto. Non è detto che questo diverso approccio avrebbe condotto, nel caso MPS, a una conclusione diversa, per quanto da un passaggio della motivazione sembri possibile evincere che l’accordo aveva raccolto, a dispetto dell’importante dissenso della CGIL, un consenso maggioritario (e questo valga anche per l’argomentazione relativa all’art. 8, discussa nel paragrafo che segue). Ma, al di là della valutazione del singolo caso, che richiederebbe la conoscenza di tutti i dettagli dello stesso, il punto che mi preme sottolineare in sede di commento è che una soluzione meramente privatistica, come quella suggerita nell’occasione dalla Corte fiorentina, non mi sembra in linea con lo spirito di questa legislazione.
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4. La questione dell’art. 8, l. n. 148/2011. Nel giudizio, la Banca aveva tentato di difendere l’accordo anche invocando il discusso art. 8 della l. n. 148/2011. Tale norma, in effetti, poteva servire allo scopo, essendo potenzialmente idonea a fondare tanto l’efficacia erga omnes dell’accordo, bypassando i ragionamenti fatti in precedenza (v. il comma 1), quanto la legittimità della clausola peggiorativa del CCNL, in quanto riduttiva della misura del preavviso (v. il comma 2-bis). Per questo secondo aspetto, tra l’altro, l’applicazione dell’art. 8 avrebbe consentito di superare i limiti di derogabilità che la Corte di Appello fiorentina ha rilevato – esattamente – essere invece previsti, sulla scia dell’Accordo quadro del 2011, dal CCNL del Credito del 2012 (in base al quale “intese modificative” a livello aziendale sono previste soltanto se concernono la ”prestazione lavorativa”, gli “orari” e l’”organizzazione del lavoro”). La sentenza ha reso esplicito il proprio approccio interpretativo all’art. 8 facendo anzitutto leva sull’affermazione di Corte cost. 4 ottobre 2012, n. 22118, in merito al carattere “eccezionale” di tale disposizione. Al riguardo, e pur convenendosi sul carattere tassativo dell’elenco delle materie oggetto delle intese derogatorie, non è possibile non avvertire nell’affermazione della Consulta (peraltro di portata interpretativa) l’eco delle aspre critiche che sono state riversate sull’art. 8, un effetto collaterale delle quali è consistito nell’applicazione da parte sindacale, in svariate situazioni, del principio del “si fa ma non si dice”, con la conclusione di accordi che di fatto facevano applicazione dell’art. 8 ma a patto che il detestato articolo non venisse menzionato. Non che queste critiche, beninteso, fossero del tutto prive di giustificazioni, ad esempio per un elenco di materie inutilmente ampio, e in particolare per l’inclusione del tema del licenziamento, che non è certamente un tema da contratti aziendali. Salvo il fatto che dagli strali avrebbe dovuto essere comunque risparmiato, a mio avviso, il comma 1, che ha previsto un regime di efficacia erga omnes del tutto in linea con il principio democratico e con le pattuizioni sindacali già ricordate. Il fatto è, però, che tali critiche hanno sovente obliterato la cruciale circostanza che l’art. 8 non è stata la prima norma a dare spazio ad accordi aziendali derogatori, né è stata l’ultima, ove si pensi, per fare un esempio, alle numerose ipotesi di deroga contenute nel d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, oltretutto non condizionate (né sarebbe stata la sede idonea a farlo) al rispetto del principio maggioritario. Questo per dire che la tendenza all’incremento dei poteri normativi della contrattazione di secondo livello sembra essere, al momento, di carattere strutturale, ed a livello non soltanto italiano ma europeo. L’importante è che tale realtà sia inserita in un quadro regolativo che dia garanzie di rappresentatività e di democraticità. Ciò premesso a proposito dell’approccio dottrinale a tale norma, non mi sembra che gli argomenti impiegati dalla Corte fiorentina per negare l’applicazione dell’art. 8 all’accordo di specie, in uno spirito che sembra esemplificare quella “minuziosa azione delimitativa
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C. cost., 4 ottobre 2012, n. 221, in DRI, 2013, 1, 164.
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dell’interprete”, invocata da Vincenzo Bavaro come corretto approccio ermeneutico alla norma19, siano persuasivi. La sentenza ha dedotto dalla natura eccezionale della norma l’implicazione che essa può venire in gioco «solo ove le parti esplicitino il fine che perseguono (così che sia possibile verificarne, anche in sede giudiziale, la corrispondenza con gli obiettivi indicati dalla legge), specifichino le norme legali e contrattuali che derogano e giustifichino la deroga in relazione alle finalità che assumono di perseguire, così che l’esistenza di un contratto ex art. 8 non potrebbe mai riconoscersi ex post, dovendo lo stesso essere invece concluso e qualificato dalle parti come tale». A ritenere diversamente, prosegue la decisione, «qualsiasi accordo aziendale, sottoscritto da soggetti di adeguata rappresentatività, potrebbe derogare, non solo al CCNL, ma anche alla legge, purché richiami in una qualche sua parte una delle finalità (peraltro molto latamente) individuate dall’art. 8, un’interpretazione questa che vanificherebbe in effetti il carattere eccezionale della norma e porrebbe nel nulla la previsione, ivi contenuta di “specifiche intese” aventi obiettivi predeterminati». Al riguardo non convince, anzitutto, l’idea di fondo che le “intese modificative” ex art. 8 siano qualcosa di diverso da normali accordi collettivi aziendali, pur commentando, di passaggio, che questa posizione è un meritato boomerang per chi, dal versante opposto, ha enfatizzato l’espressione “accordi di prossimità” come se fossero l’alba di un nuovo avvenire. Tra l’altro la pudica espressione “intese modificative” è la medesima impiegata dai TU e dai CCNL di ultima generazione, incluso il CCNL del Credito. Per il resto, l’idea che queste intese siano tali soltanto se il fatto che esse siano state concluse in applicazione dell’art. 8 è stato esplicitamente dichiarato, con tanto di menzione della disposizione, mi sembra in contrasto con il senso comune giuridico. Quello di stabilire se un certo accordo rientri o no in quelli contemplati dall’art. 8 è un problema di qualificazione giuridica, che non può mai restare affidata alle dichiarazioni delle parti: il che implica che è sufficiente che le finalità risultino in qualche modo dall’accordo (o, al limite, dal contesto nel quale esso è stato stipulato) e siano riconducibili a quelle elencate dal 1° comma della norma. Peraltro, nel caso di specie, era scontato che le finalità per cui era stato stipulato l’accordo aziendale fossero rilevanti ex art. 8, trattandosi di un accordo di gestione di una crisi aziendale. Lo stesso dicasi (ma questo la Corte non sembra negarlo) per la materia disciplinata, essendo il preavviso un istituto tipicamente inerente alle “conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro” (v. art. 8, comma 2)20. Pertanto, per l’aspetto discusso in questo paragrafo, l’impressione finale è quella di un neo-formalismo argomentativo, che il richiamo alla natura eccezionale della norma non basta a giustificare.
Riccardo Del Punta
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Bavaro, Azienda, contratto e sindacato, Cacucci, 2012, 163; per una posizione più possibilista, anche se non acriticamente adesiva, v. Olivelli, La contrattazione collettiva aziendale dei lavoratori privati, Giuffrè, 2016, 189 ss. 20 Per un caso in cui un accordo prevedente l’esclusione del preavviso per i lavoratori adesivi a una proposta di esodo incentivato, fatta dall’azienda nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, è stato ritenuto legittimo in applicazione dell’art. 8, v. Cass., 9 novembre 2016, n. 22789, in www.cortedicassazione.it.
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Giurisprudenza Tribunale di Monza, sentenza 26 ottobre 2017, n. 452/2017; Giud. Stefanizzi – Omissis (avv. R. Scisca) c. Omissis (avv. G. Colla). Licenziamenti – Giusta causa – Insussistenza del fatto materiale – Inadempimento – Contratto a tutele crescenti – Imputabilità al lavoratore – Sussistenza.
È contrario ai principi generali dell’ordinamento che un soggetto possa essere chiamato a rispondere di un fatto che non possa essergli soggettivamente addebitato a titolo di colpa o dolo. L’assenza dal lavoro dovuta ad impedimento oggettivo configura un’ipotesi di insussistenza del fatto materiale, in quanto il verificarsi dell’evento resta estraneo alla volontà del lavoratore. Svolgimento del processo. – Con ricorso in data 21/09/2016 Omissis adiva il tribunale di Monza per chiedere di accertare l’illegittimità del licenziamento intimato gli con lettera del 09-05-2016 da Omissis e, conseguentemente, di ordinare a quest’ultima di reintegrarlo nel proprio posto di lavoro e nelle proprie mansioni condannandola altresì al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegra e comunque in misura non inferiore a 5 mensilità – Omissis. Omissis si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso. Omissis Motivi della decisione. – Omissis. Nel merito il ricorso merita accoglimento. Con telegramma in data 20.04.2016 al ricorrente è stata contestata l’assenza ingiustificata dal lavoro nei giorni 14 e 15 aprile 2016 (doc. 7 fascicolo ricorrente). Successivamente, a seguito delle giustificazioni rese per iscritto dal ricorrente, la società con lettera del 9.5.2016 ha intimato al lavoratore il licenziamento per giusta causa. Seppur nella lettera di licenziamento si fa riferimento ad elementi non riportati nella lettera di contestazione, – Omissis, è evidente che il fatto contestato al lavoratore resta cristallizzato nella lettera del 20 aprile 2016 due punti assenza ingiustificata nei giorni 14 e 15 aprile 2016. In particolare, non appare corretto addebitare al lavoratore fatti successivi al licenziamento, quali la reazione e la condotta da questi tenuta successivamente alla contestazione disciplinare, come pretende di fare la resistente nella memoria difensiva. I comportamenti tenuti dal lavoratore nella pendenza del procedimento disciplinare, peraltro genericamente dedotti dalla resistente, avrebbero dovuto Infatti eventualmente essere oggetto di diverso ed autonomo procedimento disciplinare. Tanto premesso, il Tribunale osserva quanto segue. – Omissis. Ad avviso del giudicante, quindi, la piena tutela reintegratoria è riconosciuta solo in ipotesi
di insussistenza del fatto materiale, per tale dovendo intendersi un inadempimento imputabile al lavoratore, essendo contrario ai principi generali dell’ordinamento che un soggetto possa essere chiamato a rispondere di un fatto che non possa essergli soggettivamente addebitato a titolo di dolo o colpa. Le ipotesi di responsabilità oggettive, bandite dal sistema giuridico penale, costituiscono un’eccezione anche nel sistema civilistico (peraltro genericamente interpretate come aggravamento dell’onere probatorio e non autentiche forme di responsabilità Senza colpa) e come tali devono essere interpretate in senso restrittivo. In base ai basilari principi giuridici sopra espressi, l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’ultima novella, non può che intendersi che nel senso che il fatto materiale debba pur sempre costituire una forma di inadempimento imputabile, ripugnante al nostro ordinamento che una sanzione grave qual è la perdita del posto di lavoro possa essere comminata per un fatto che non è riconducibile alla gente né a titolo di Dolo né a titolo di colpa. Nel caso di specie è pacifico che il ricorrente si sia assentato dal lavoro nei giorni del 14 e 15 aprile 2016. La contestazione è circoscritta all’assenza, non essendo stato contestato da parte resistente che ricorrente si sia premurato di avvisare i propri superiori come risulta dalle giustificazioni inoltrate all’azienda e comprovato dal teste escusso. Occorre evidenziare che il lavoratore ha provato che la propria assenza dal lavoro è dovuta a fatti non imputabili. Invero, il ricorrente ha chiarito di aver perso il proprio volo di ritorno in Italia dal Senegal, non per propria negligenza, ma perché la compagnia aerea Meridiana avrebbe chiuso il check-in e l’imbarco anticipatamente, lasciando a terra numerosi passeggeri. Tale circostanza è stata puntualmente confermata dal teste escusso, totalmente indifferente agli interessi in causa è perfettamente informato dei fatti in quanto si trovava in aeroporto avendo prenotato il medesimo volo.
Giurisprudenza
In conclusione, ricorre una ipotesi di insussistenza del fatto materiale in quanto il fatto materiale addebitato “assenza ingiustificata nei giorni 14 e 15 aprile 2016” non sussiste avendo il lavoratore dimostrato che non di assenza ingiustificata si sia trattato, ma di assenza dovuta di impedimento oggettivo del lavoratore dovuto a fattori non dipendenti dalla sua volontà. Di conseguenza, il licenziamento deve essere annullato ed il datore di lavoro deve essere condannato alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro precedentemente occupato nonché al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribu-
zione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, quantificato, dal giorno del licenziamento fino a quello dell’odierna pronuncia, nella misura di 12 mensilità. Naturalmente, Conseguenza della pronuncia di reintegra, è il diritto del lavoratore a conseguire le mensilità via via maturate fino all’effettiva reintegrazione, in caso di mancato ottemperamento del datore di lavoro alla pronuncia del giudice. Ulteriore Conseguenza della pronuncia di reintegra piena al versamento dei relativi contributi previdenziali e assistenziali. Devono altresì computarsi interessi e rivalutazione monetaria, stante la natura del credito, ai sensi dell’art. 429 c. p. c. – Omissis.
Sull’insussistenza del fatto materiale nella previsione dell’art. 3, comma 2, d.lgs. 23 del 2015 Sommario :
1. Premessa. – 2. Il superamento della querelle tra fatto materiale e fatto giuridico: il fatto disciplinarmente rilevante. – 3. Il “fatto materiale contestato” nell’ambito dell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015. – 4. La necessaria imputabilità al lavoratore del verificarsi del fatto contestato. – 5. L’ambito del giudizio di proporzionalità. – 6. Cenni conclusivi.
Sinossi. Il commento affronta il tema dell’insussistenza del fatto materiale contestato nella previsione dell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015; l’autore dopo aver definito la nozione di fatto materiale contestato quale condotta disciplinarmente rilevante si sofferma sulla necessaria imputabilità, soggettiva ed oggettiva, al lavoratore della condotta e sui limiti imposti dalla novella legislativa al giudizio di proporzionalità. In conclusione dell’analisi l’autore si sofferma sulle conseguenze della mancanza di un nesso di causalità tra il fatto contestato ed il licenziamento del lavoratore.
1. Premessa. La sentenza in commento affronta uno dei temi più dibattuti e controversi tra quelli affrontati dagli interpreti dopo la profonda riforma, in tema di licenziamento disciplinare, operata dal legislatore prima con la legge 28 giugno 2012, n. 92 e poi con l’introduzione del contratto a tutele crescenti attraverso il d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23, andando a definire l’insussistenza del fatto materiale quale inadempimento soggettivamente addebitabile a titolo di dolo o di colpa al lavoratore.
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Flavia Schiavetti
In via di premessa al ragionamento che ci si accinge a percorrere appare necessario accogliere un avvertimento rivolto da un’attenta dottrina, in merito all’opera dell’interprete1: nell’attività di ricostruzione della nozione di insussistenza del fatto materiale contestato bisogna sempre tenere conto della ratio legis che ha animato il legislatore riformista e che impone una ricostruzione coerente con la volontà espressa dalla norma, anche se lontana da canoni e principi che hanno caratterizzato per lungo tempo il nostro ordinamento, evitando di trasformare il lavoro di interpretazione in una ricerca dell’applicabilità della sanzione della reintegrazione superando, così, i criteri previsti dalla nuova disciplina. Il legislatore, quindi, è intervenuto a definire quali sono i criteri in base ai quali individuare la sanzione applicabile in caso illegittimità del licenziamento disciplinare ed ha inserito tra quelli punibili con la sanzione conservativa l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, lasciando una tutela meramente risarcitoria nel caso in cui si verifichi la sussistenza del fatto contestato.
2. Il superamento della querelle tra fatto materiale e fatto giuridico: il fatto disciplinarmente rilevante.
Dottrina e giurisprudenza si sono a lungo concentrate su quale sia il significato da attribuire a tale criterio ed a lungo ci si è soffermati sulla contrapposizione tra fatto materiale e fatto giuridico; tale è stato il dibattito in tal senso che anche il legislatore del 2015 è stato condizionato nell’inserimento nel secondo comma dell’articolo 3 del riferimento alla «insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». Sintetizzando in breve l’acceso dibattito che si è svolto su questo tema si possono contrapporre due tesi: una prima che riconduceva al fatto contestato posto alla base del licenziamento il fatto meramente materiale ovvero una qualsiasi condotta anche se priva del carattere dell’antigiuridicità nonché di un qualsivoglia rilievo disciplinare2; le critiche
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Ci si riferisce in particolare all’intervento del professor Arturo Maresca al convegno L’insussistenza del fatto nel licenziamento, svoltosi a Roma il 30 maggio 2017, presso l’Università Mercatorum, organizzato dal gruppo Frecciarossa nell’ambito del ciclo di seminari “Le riforme del lavoro e le idee dei Giuristi”, dove evidenzia come il grande dibattito in materia di licenziamento sia stato di molto accentuato dalla reazione della dottrina e della giurisprudenza alla modifica di una norma che, pur essendo criticata da alcuni ed apprezzata da altri, era comunque considerata da tutti una norma fondamentale nel nostro ordinamento. Nello stesso senso Persiani, Presentazione, in Caruso (a cura di), Il licenziamento disciplinare nel diritto vivente giurisprudenziale Dal fatto insussistente alla violazione delle regole procedimentali, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. Collective volumes – 7/2017, p. 5, secondo cui «Molte delle soluzioni prospettate, in dottrina e in giurisprudenza, denunciano una certa qual insofferenza alle radicali limitazioni della tutela reale introdotte dal legislatore. Ed infatti, come è stato osservato, più ampia è la nozione di “fatto contestato” e più si allarga l’area della tutela reale». Per un’analisi sull’impianto sistematico della riforma si veda Mazzotta, I molti nodi irrisolti nel nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in Cinelli, Ferraro, Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Giappichelli, 2013 dove è forte il richiamo a «porsi con razionalità di fronte alla riforma esaminandola come diritto posto e liberandosi dai giudizi precostituiti, nel tentativo di fornire una lettura che valorizzi – laddove possibile – la voluntas legis». 2 In questo senso Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art.18 Statuto dei Lavoratori, in RIDL, 2, 2012, 415 ss; Persiani, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, in ADL, 1, 2013; Pisani, L’ingiustificatezza qualificata del licenziamento: convincimento del giudice e onere della prova, in MGL, 2012, 741. Questa
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mosse a questa tesi sono state molteplici, soprattutto in riferimento all’irragionevolezza di un ordinamento in cui è sufficiente richiamare nella contestazione disciplinare un evento effettivamente realizzatosi nella realtà fenomenica, ma di scarsissimo valore o persino completamente privo di rilevanza disciplinare, per scongiurare l’applicabilità della tutela reale. Per porre un limite a tale distorsione è stato perciò ipotizzato di ricorrere alla previsione degli artt. 1344 e 1345 c.c., con la conseguente applicazione della generale tutela contro i vizi riguardanti il motivo illecito determinante e la frode alla legge. Un secondo indirizzo, ponendosi in contrapposizione a questa ricostruzione, ritiene che debbano essere valutati anche gli elementi soggettivi della condotta e, quindi, che il fatto vada inteso in senso giuridico3. A questo si deve aggiungere che, nelle ipotesi di applicabilità dell’art. 18 St. lav., nel caso in cui il concetto di insussistenza del fatto fosse ricondotto all’ipotesi di mera inesistenza storica, si verrebbe a creare una situazione di paradosso in cui al lavoratore illegittimamente licenziato per un fatto realmente accaduto ma completamente irrilevante disciplinarmente sarebbe in una situazione di minor tutela di un altro lavoratore licenziato, sempre illegittimamente, ma a fronte di un comportamento disciplinarmente rilevante, per il quale è prevista nei contratti collettivi una sanzione conservativa4. Ma oramai il dibattito su questo punto appare esaurito; per comprendere appieno in quali ipotesi si possa concretizzare l’insussistenza del fatto contestato si deve fare riferimento, come chiaramente espresso anche dalla Cassazione nella sentenza n. 10019 del 20165, non soltanto ai casi in cui il fatto non si è verificato nella sua materialità fenomenologica bensì a «tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare o quanto al profilo oggettivo ovvero quanto al profilo soggettivo, della imputabilità della condotta al dipendente». Secondo la Corte, infatti, l’utilizzo da parte del legislatore della locuzione “fatto contestato” dimostra il legame tra la materialità del fatto e la sua rilevanza disciplinare, legame da cui deriva la «assoluta sovrapponibilità, sotto il profilo disciplinare, dei casi di condotta materialmente inesistente a quelli di condotta che non costituisca inadempimento degli obblighi del lavoratore ovvero non sia imputabile al lavoratore stesso»6.
ricostruzione è stata sostenuta anche da una parte della giurisprudenza, Cass., 6 novembre 2014, n. 23669 con nota di Del Punta, Il primo intervento della Cassazione sul nuovo (eppur già vecchio) art. 18, in RIDL, 2, 2015, dove ha specificato che «occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione dovrebbe trovare ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/ insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, cosicché tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato». 3 G. Santoro-Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in ADL, 2, 2013, 232-234; Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in RIDL, 2012, 521; F. Carinci, L’articolo 18 dopo la Legge 92/2012. Ripensando il “nuovo” articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, in DRI, 2, 2013, 287; Mazzotta, I molti nodi irrisolti nel nuovo art. 18 St. Lav., cit. 248; Pelusi, L’irrilevanza giuridica del fatto contestato equivale alla sua insussistenza materiale: un monito per il legislatore del Jobs Act?, in DRI, 4, 2015,1128 ss; Perulli, La disciplina del licenziamento individuale nel contratto a tutele crescenti. Profili critici, in RIDL, 1, 2015, 413. 4 Mazzotta, Fatti e misfatti nell’interpretazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, in RIDL, 2016, II, 103. 5 Cass. 16 maggio 2016, n. 10019, in http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/, 5. Nello stesso senso Cass. 13 ottobre 2015, n. 20540, in RIDL, 2016, II, 102, con nota di Mazzotta. 6 Ibidem.
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3. Il “fatto materiale contestato” nell’ambito dell’art. 3,
comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015.
Dobbiamo quindi chiederci se quanto sin qui affermato possa essere considerato applicabile anche alla previsione dell’art. 3, comma 2, d.lgs. 23 del 2015, laddove il legislatore ha disposto che il licenziamento disciplinare illegittimo sia sanzionato con la tutela reintegratoria «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento»7. Una prima ragione di opportunità, potrebbe essere ritrovata nel fatto che entrambe le discipline non solo sono al contempo in vigore ma vengono applicate a fatti coevi a seconda del momento in cui è sorto il rapporto di lavoro, e che una interpretazione diversificata potrebbe comportare un’eccessiva disparità di trattamento tra lavoratori8. La lettura della norma porta però a riflettere sul ruolo che il legislatore abbia voluto devolvere alla tutela reale, riportando l’attenzione dell’interprete sull’esistenza del fatto nella sua materialità, senza dare alcuna valenza alla valutazione della proporzionalità tra il fatto e la sanzione9. Il fatto però non è collegato dal legislatore alla sola materialità, bensì anche alla contestazione disciplinare – la locuzione di riferimento infatti è “fatto materiale contestato” –, la nostra attenzione, quindi, deve essere riportata sull’oggetto della contestazione disciplinare e sulle caratteristiche che rendono quel fatto sussistente o meno: la condotta posta in essere dal lavoratore, l’imputabilità del verificarsi dell’evento alla condotta del dipendente e l’intenzionalità10. Una prima giurisprudenza di merito, nell’interpretazione dell’art. 3 del d.lgs. 23/2015, si è, infatti, mossa in tal senso ed ha ricondotto all’insussistenza del fatto materiale contestato l’ipotesi della nullità del patto di prova11.
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La nuova formulazione della norma con il riferimento alla materialità del fatto contestato ha dato nuova linfa al dibattito dottrinale sulla nozione di “fatto materiale contestato”, si vedano sul tema Nogler, I licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa nel d.lgs. n. 23 del 2015, in ADL, 2, 2015, 510; Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel jobs act, in ADL, 2, 2015 325. 8 Di Paolantonio, L’(in)sussistenza del fatto nel licenziamento, in Caruso (a cura di), Il licenziamento disciplinare nel diritto vivente giurisprudenziale Dal fatto insussistente alla violazione delle regole procedimentali, cit., 46 dove specifica che «la scelta del legislatore di ancorare il discrimine temporale alla data dell’assunzione piuttosto che a quella del licenziamento, comporta che la diversità di trattamento non possa essere giustificata con il richiamo al principio del fluire del tempo, quale valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche, perché il regime transitorio è incentrato sul momento genetico del rapporto e non su quello della valutazione del fatto». 9 Vianello, Dal “fatto” al “fatto materiale” nel licenziamento disciplinare post d.lgs. n. 23/2015: spunti interpretativi d”importazione”, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .IT – 361/2018, 47 ss. 10 Nogler, I licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, cit., 524, «senza la contestazione il fatto contestato neppure esiste. E tale ragionamento vale anche nell’ipotesi che la contestazione abbia avuto ad oggetto un fatto meno grave di quello evocato nella motivazione del licenziamento. Per intenderci: se è stato contestato un ammanco il lavoratore non può poi essere validamente licenziato per furto perché questo fatto-inadempimento non è mai stato, in realtà, contestato. Ma anche sul fatto che debba trattarsi di una contestazione idonea a prospettare un licenziamento disciplinare non avrei molti dubbi. Come fa il giudice altrimenti a decidere che si trova in un’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa?». 11 Trib. Torino, 16 settembre 2016, n. 1501, est. Mancinelli, e Trib. Milano, 3 novembre 2016, n. 2912, est. Scarzella, entrambe in www.
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Giurisprudenza
Com’è noto, secondo il dettato dell’art. 2096 c.c. nel contratto di lavoro stipulato è possibile prevedere l’inserimento di un patto di prova che consenta ad entrambe le parti di recedere dal contratto di lavoro “ad nutum”; affinché tale condizione sospensiva potestativa possa essere considerata valida, è richiesta la forma scritta della specifica indicazione delle mansioni da svolgersi, pena, anche in questa ipotesi, la nullità della clausola. Inoltre, anche se la norma codicistica non prevede nulla in tema di durata, interviene in via indiretta la disposizione dell’art. 10 l. 604/66 che estende la tutela contro i licenziamenti ai lavoratori in prova quando l’assunzione divenga definitiva e, in ogni caso, quando siano decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto. Il giudice di merito ha preso le mosse da un consolidato orientamento della Corte di Cassazione secondo la quale la «recedibilità, libera sia pure nei limiti indicati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, presuppone che il patto di prova sia stato validamente apposto, sicché ove difettino i requisiti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, la nullità della clausola, in quanto parziale, non estendendosi all’intero contratto, determina “la conversione (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario… e trova applicazione, ricorrendo gli altri requisiti, il regime ordinario del licenziamento individuale”»12. In altri termini il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova, in realtà già venuto a scadenza, non può ascriversi nell’eccezionale recesso ad nutum di cui all’articolo 2096 c.c., bensì, non trovando applicazione la L. n. 604 del 1966, articolo 10, «consiste in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o giustificato motivo»13. Di conseguenza la nullità del patto di prova per carenza di forma condurrebbe ad un licenziamento disciplinare, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, privo di motivazione espressa, in quanto originariamente formulato “ad nutum”, e da qui all’ipotesi dell’insussistenza del fatto materiale contestato14; in questo caso, infatti, secondo il Tribunale, l’insussistenza della fattispecie del licenziamento per motivi soggettivi deve essere considerata ontologica e direttamente dimostrata sulla base della considerazione secondo la quale i fatti materiali su cui è basato il recesso non sono neppure stati esplicitati nella lettera di licenziamento15. Ne consegue che in questi casi il fatto preso in considerazione dal Tribunale è quello oggetto della contestazione disciplinare o, per meglio dire, è la mancanza di un “fatto contestato”.
rivistalabor.it., con nota di Notaro. Cass. 12 settembre 2016, n. 17921, in www.rivistalabor.it, con nota di Mattei. 13 Cass. 12 settembre 2016, n. 17921 cit. 14 In particolare si veda Trib. Milano, 3 novembre 2016, n. 2912, cit. dov’è chiaramente spiegato che «l’indimostrata sussistenza di un valido patto di prova apposto per iscritto al contratto di lavoro in esame comporta l’ingiustificatezza del licenziamento impugnato, ex artt. 1 e ss. l. n. 104/1966, in quanto fondato su una ragione inesistente e, cioè, sull’asserito mancato superamento di un patto di prova in realtà non validamente stipulato per iscritto dalle parti e, quindi, nullo e inefficace ex art. 2096 c.c. […]. Dall’accertata ingiustificatezza del recesso intimato per insussistenza del fatto materiale contestato discende, ex art. 3 comma 2 D.Lgs. 23/2015, l’illegittimità e quindi l’annullamento del licenziamento impugnato con condanna della resistente a reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro». 15 Trib. Torino, 16 settembre 2016, n. 1501, cit. 12
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Un secondo orientamento della giurisprudenza di merito16, invece, riconduce la nullità della clausola che prevede un patto di prova alla previsione del primo comma dell’art. 3, e, nel farlo, specifica che il mancato superamento della prova di per sé non integra né presuppone necessariamente una condotta disciplinarmente rilevante ed è per sua natura privo di una motivazione; in questo caso, quindi, la nullità equivale alla carenza del presupposto necessario affinché il recesso ad nutum possa essere considerato valido, ai sensi dell’art. 10 l. n. 604/1966. Anche questo secondo orientamento, seppur giunge ad una conclusione diametralmente opposta al primo, conferma il dato necessario al ragionamento che qui si tenta di svolgere, quello relativo alla definizione del fatto rilevante ai fini della valutazione della sua insussistenza: il fatto contestato disciplinarmente rilevante.
4. La necessaria imputabilità al lavoratore del verificarsi del fatto contestato.
Nella sentenza che qui si commenta, il Tribunale di Monza accoglie, in riferimento al nuovo testo normativo, l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, formatosi riguardo l’art. 18, comma 4, St. lav., definendo l’insussistenza del fatto materiale quale inadempimento imputabile al lavoratore, argomentando tale decisione sull’assunto che “è contrario ai principi generali dell’ordinamento che un soggetto possa essere chiamato a rispondere di un fatto che non possa essergli soggettivamente addebitato a titolo di dolo o colpa”. Il Tribunale, inoltre, nel dare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, giunge a definire ripugnante per l’ordinamento la possibilità “che una sanzione grave quale la perdita del posto di lavoro possa essere comminata per un fatto che non è riconducibile all’agente né a titolo di dolo, né a titolo di colpa”. Nel caso di specie infatti il giudice afferma l’insussistenza del fatto materiale contestato sulla base della non imputabilità al lavoratore dell’evento verificatosi; in particolare è stato considerato che l’assenza dal lavoro del prestatore era stata causata da fattori non dipendenti dalla sua volontà e quindi non è stata considerata atta ad integrare la fattispecie astratta dell’assenza ingiustificata. Come affermato supra, la giurisprudenza è concorde nel precisare che nella nozione di insussistenza del fatto contestato devono essere ricompresi anche i casi di assenza dell’imputabilità del verificarsi del fatto al lavoratore. Tale valutazione deve essere ponderata sia nella sua dimensione soggettiva che in quella oggettiva e, quindi, deve riguardare sia la presenza dei requisiti di coscienza e volontà dell’azione nonché il contesto in relazione al quale la condotta è stata tenuta, sia l’assenza
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Trib. Firenze 13 giugno 2017, n. 376, est. Nuvoli, in www.rivistalabor.it, con nota di Agostini; Nello stesso senso Trib. Milano, 8 aprile 2017, n. 730, inedita a quanto consta.
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di cause di giustificazione, quali lo stato di necessità, la forza maggiore o l’esercizio di un diritto, che possano privare la condotta del carattere dell’antigiuridicità17.
5. L’ambito del giudizio di proporzionalità. Il legislatore, con la riforma del 2015, ha esplicitamente affermato che nella valutazione della sussistenza del fatto contestato, e quindi nella scelta della sanzione applicabile, debba restare estraneo al vaglio dell’interprete il giudizio sulla gravità e sulla proporzionalità della rilevanza disciplinare del fatto contestato. Se la valutazione sulla sussistenza del fatto porta ad un esito negativo, il licenziamento sarà dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto contestato e si dovrà applicare la sanzione della reintegrazione; qualora, invece, il giudizio sulla sussistenza desse esito positivo, scatterebbe la valutazione del fatto quanto alla sua proporzionalità così come previsto dall’articolo 2106 c.c. ed, in questo secondo caso l’unica sanzione possibile a fronte di un licenziamento illegittimo sarebbe la sanzione indennitaria18. L’ammissibilità della verifica di proporzionalità al fine di scegliere la sanzione applicabile è limitata caso in cui nella contestazione disciplinare venga contestato al lavoratore un grave nocumento materiale o immateriale o un grave comportamento nonché, esclusivamente per i lavoratori a cui si applica l’art. 18 St. Lav., in caso dell’esistenza della previsione di una sanzione conservativa da parte del CCNL, in tal caso la valutazione sulla gravità rientrerà nella valutazione della sussistenza del fatto oggetto di contestazione; al di fuori di queste due ipotesi la proporzionalità deve essere espunta dal vaglio relativo all’individuazione della sanzione. Infatti, mentre è pienamente condivisibile affermare che un fatto privo di un qualunque di rilievo disciplinare è insussistente, non si può arrivare a compiere una verifica della gravità del rilievo disciplinare; altrimenti si arriverebbe ad un effetto distorsivo del giudizio di proporzionalità.
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Mazzotta, Fatti e misfatti nell’interpretazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, cit., 105, secondo cui «si può anche dire che il fatto evocato dall’art. 18 include al suo interno anche la componente soggettiva e, insieme, il dato dell’antigiuridicità» e Id. I molti nodi irrisolti nel nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in Cinelli, Ferraro, Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro dalla riforma Fornero alla legge di stabilità, cit., 248, ove l’Autore afferma che la legge allude «alla esistenza di un inadempimento del lavoratore ed alla sua imputabilità al medesimo»; nello stesso senso Di Paolantonio, op cit. 49-50, dove distingue l’assenza dell’elemento soggettivo necessario ad integrare illecito disciplinare dalla «valutazione dell’intensità della colpa o dolo virgola che rileva ai fini del giudizio di proporzionalità, ma che costituisce un posterius rispetto all’accertamento della sussistenza del imputabilità dell’inadempimento medesimo»; nonché Passalacqua, Cerasi, I requisiti sostanziali. Il giustificato motivo soggettivo, in Pellacani (a cura di), I licenziamenti individuali e collettivi, Giappichelli, 2013, 139 ss. 18 Maresca, Relazione al convegno L’insussistenza del fatto nel licenziamento, svoltosi a Roma il 30 maggio 2017; De Luca Tamajo, (In) sussistenza del fatto e canone di proporzionalità del licenziamento disciplinare, in Caruso (a cura di), Il licenziamento disciplinare nel diritto vivente giurisprudenziale. Dal fatto insussistente alla violazione delle regole procedimentali, cit., 38 ss.
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In questo modo si scivolerebbe verso l’applicazione della sanzione reintegratoria a tutte quelle ipotesi di illegittimità del licenziamento per sproporzione della sanzione disciplinare rispetto al fatto contestato; ipotesi che sarebbe in evidente contrasto con la ratio delle riforme19.
6. Cenni conclusivi. Parte della dottrina ha spesso utilizzato l’esempio del licenziamento fondato su una condotta disciplinarmente rilevante ma di lievissima gravità per fondare le argomentazioni a favore di una ricostruzione che consenta un utilizzo del criterio di proporzionalità anche ai fini dell’individuazione della sanzione applicabile, invocando da una parte il precetto dell’art. 1455 c.c. e dall’altra sottolineando i paradossi e le situazioni di palese insufficienza di tutela che si potrebbero creare in tali casi. Non è però possibile utilizzare situazioni limite per gettare le fondamenta di una ricostruzione che torni all’utilizzo della reintegrazione quale sanzione principale a fronte di un licenziamento illegittimo, appare però necessario tentare di capire come è possibile evitare il verificarsi dell’effetto estintivo in un licenziamento illegittimo in cui il fatto materiale contestato, seppur sussistente, è talmente sproporzionato da poter essere considerato pretestuoso. Quando la contestazione disciplinare ha per oggetto un fatto di rilevanza talmente minimale che per quanto esistente si arrivi a dubitare dell’esistenza di un nesso di causalità tra il fatto stesso posto ad oggetto della contestazione disciplinare ed il licenziamento, la valutazione non concerne la proporzionalità del fatto oggetto della lettera di contestazione rispetto alla sanzione disciplinare del licenziamento, bensì l’esistenza stessa del nesso di causalità tra fatto e licenziamento20. Se si negasse tale collegamento oggetto del giudizio non sarebbe più il fatto oggetto della contestazione disciplinare bensì l’esistenza di un altro motivo che ha realmente portato al licenziamento del lavoratore. Il lavoratore, quindi, dovrebbe provare la mancanza di un nesso di causalità tra la motivazione addotta nella contestazione disciplinare ed il licenziamento nonché l’esistenza di un altro motivo; esclusivamente nel caso in cui il lavoratore provasse che questo secondo motivo è illecito, oppure discriminatorio o ritorsivo, allora si potrebbe tornare di nuovo all’applicazione della sanzione reintegratoria ma non sulla base dell’insussistenza del fatto contestato, bensì in ragione dell’illiceità del motivo unico e determinante del recesso, altrimenti si resterebbe nell’ambito della tutela risarcitoria.
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De Luca Tamajo, op. cit., 40. Maresca, Relazione al convegno L’insussistenza del fatto nel licenziamento, svoltosi a Roma il 30 maggio 2017.
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