2021 LABOR 3
L
ABOR Il lavoro nel diritto
issn 2531-4688
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maggio-giugno 2021
Rivista bimestrale
D IRETTA DA Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
IN EVIDENZA Jus variandi e formazione nel rapporto di lavoro Elena Gramano
Sulla codificazione delle disposizioni in materia di mobbing, straining e molestie sul lavoro Harald Ege, Domenico Tabasco
Vigilanza amministrativa e contratti di lavoro Stefano Margiotta
Giurisprudenza commentata Gionata Cavallini, Claudio Serra, Antonio Alessandro Scelsi
Pacini
Indici
Saggi Elena Gramano, Jus variandi e formazione nel rapporto di lavoro subordinato.................................p. 259 Harald Ege, Domenico Tambasco, Il processo di codificazione delle disposizioni in materia di mobbing, straining e molestie sul lavoro: breve viaggio tra dogmi, intuizioni del singolare e nuovi orizzonti internazionali.......................................................................................................................... » 277 Stefano Margiotta, Vigilanza amministrativa e contratti di lavoro...................................................... » 301
Giurisprudenza commentata Gionata Cavallini, L’equivocabile «esclusività» del motivo illecito determinante il licenziamento........ » 319 Claudio Serra, Sulla repressione della condotta antisindacale oltre il perimetro istituzionale della subordinazione........................................................................................................................................ » 331 Antonio Alessandro Scelsi, Una nuova onomastica digitale per i poteri del datore di lavoro............. » 343
Indice analitico delle sentenze Lavoro (rapporto di) Lavoro su piattaforma – Qualificazione – Continuità – Potere disciplinare – Potere direttivo – Etero-organizzazione – Subordinazione – Licenziamento orale – Reintegrazione (Trib. Palermo, 24 novembre 2020, con nota di Scelsi) Licenziamenti – motivo illecito – esclusività – motivo lecito – concorrenza (Cass., 25 gennaio 2021, n. 1514, con nota di Cavallini) Repressione della condotta antisindacale – Collaborazioni eterorganizzate – Legittimazione processuale – Esclusione (Trib. Firenze, 9 febbraio 2021, con nota di Serra)
Indice cronologico delle sentenze Giorno
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Autorità 2020 Novembre Trib. Palermo 2021 Gennaio Cass., n. 1514 Febbraio Trib. Firenze
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Notizie sugli autori
Gionata Cavallini – dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Milano Harald Ege – psicologo e professore a contratto Elena Gramano – ricercatrice nell’Università commerciale L. Bocconi Stefano Margiotta – avvocato nel foro di Roma Antonio Alessandro Scelsi – dottorando nell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” Claudio Serra – dottorando nell’Università Cattolica del Sacro Cuore Domenico Tambasco – avvocato nel foro di Milano
Saggi
ELena Gramano
Jus variandi e formazione nel rapporto di lavoro subordinato Sommario : 1. Introduzione. – 2. La formazione nel rapporto di lavoro subordinato: premesse. 3. Formazione e professionalità, ieri. – 4. Formazione e professionalità, oggi. – 5. Formazione e obbligo di repêchage. – 6. Conclusioni.
Sinossi. Il saggio affronta il tema dell’obbligo di formazione, come introdotto dall’art. 2103, comma 3, c.c., nella sua ultima formulazione. In particolare, la corretta collocazione sistematica della piú recente normativa e il rilievo dei problemi interpretativi ed applicativi di quella precedente costituiscono le premesse necessarie per l’esegesi della nuova disposizione, al fine ultimo di comprenderne il significato e di chiarire la natura delle posizioni giuridiche soggettive di datore e prestatore di lavoro con riferimento alla formazione. Abstract. The essay deals with the subject of the training obligation, as introduced by art. 2103, third paragraph, of the Italian Civil Code, in its latest formulation. In particular, the correct systematic interpretation of the most recent legislation and the importance of the interpretative and applicative problems of the previous one constitute the necessary premises for the exegesis of the new provision, with the ultimate aim of understanding its meaning and clarifying the nature of the subjective legal positions of employer and employee with reference to the obligation to train. Parole chiave: Mansioni – Jus variandi – Formazione – Flessibilitá funzionale – Obbligo di repechage – Lavoro (rapporto)
1. Introduzione. Il tema della formazione del lavoratore può essere considerato essenzialmente da due prospettive: una prospettiva esterna al rapporto di lavoro, dalla quale si guarda alla formazione come strumento di mobilità del lavoratore nel mercato del lavoro; una prospettiva
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interna, dalla quale si guarda alla formazione nel rapporto obbligatorio tra le parti del contratto di lavoro1. Entrambe le prospettive sono essenziali per inquadrare il tema anche da un punto di vista giuridico. È, tuttavia, sul secondo profilo che il presente contributo intende concentrarsi, con particolare riferimento al tema della formazione nell’ambito dell’esercizio dello jus variandi datoriale. Lo jus variandi consiste nel potere unilaterale del datore di lavoro, creditore della prestazione lavorativa, di mutare l’oggetto dell’obbligazione del lavoratore, stabilita – rectius concordata – nel contratto di lavoro, senza necessità del consenso della parte obbligata2. La disposizione chiave in materia è l’art. 2103 c.c., la cui evoluzione nel tempo ben evidenzia le difficoltà che il legislatore ha incontrato nell’individuare una disciplina dello jus variandi che ragionevolmente contemperi le esigenze delle parti del rapporto di lavoro, a fronte di un potere unilaterale del datore che si connota per la sua incisività3. Da ultimo, in ordine di tempo, con l’art. 1, comma 7, lett. e), della l. 10 dicembre 2014, n. 183, il Parlamento ha delegato al Governo di operare una revisione della disciplina delle mansioni. A tale delega, il Governo ha dato attuazione con il d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81, il cui art. 3 ha integralmente sostituito la precedente disciplina, risalente allo Statuto dei lavoratori (art. 13, l. 20 maggio 1970, n. 300). Nel 2015, per la prima volta dopo quarantacinque anni, il legislatore ha ritenuto di ripensare e ridisciplinare lo jus variandi. Non solo: per la prima volta – seppure, come si vedrá, in modo particolarmente ermetico4 – il legislatore ha nominato espressamente l’obbligo di formazione come componente del processo di mutamento delle mansioni. La presente ricerca ha ad oggetto l’obbligo di formazione, come introdotto dall’art. 2103 c.c., nella sua ultima formulazione. In particolare, la corretta collocazione sistematica della piú recente normativa e il rilievo dei problemi interpretativi ed applicativi di quella precedente costituiranno le premesse necessarie per l’esegesi della nuova disposizione, al
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Napoli, Disciplina del mercato del lavoro e esigenze formative, in RGL, 1997, I, 266, «la formazione è una materia a cavallo tra la disciplina del rapporto di lavoro e la disciplina del mercato del lavoro». Si vedano anche le riflessioni sul tema del rapporto tra formazione ed occupabilità di Occhino, Diritto alla formazione e ricadute occupazionali in una prospettiva comparata, in RIDL, 2007, III, 91. Per un’analisi sul valore della formazione nel lavoro, in termini economici e sociali per le imprese e per la comunità civile, si veda Cappetta, Del Conte, Per la formazione servono buone politiche, in E&M, 2019, III, 65. Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Jovene, 1963, 229; Ghezzi, Romagnoli, Il rapporto di lavoro, Zanichelli, 1987, 192; Marazza, I poteri del datore di lavoro, in Vallebona (a cura di), I contratti di lavoro, in Gabrielli, Rescigno, (diretto da), Trattato dei contratti, Utet, 2009, 689; Riva Sanseverino, Il lavoro nell’impresa, in Vassalli (diretto da), Trattato di diritto civile italiano, Unione Tipografica Torino, 1973, XI, I, 319; Liso, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Franco Angeli, 1982, 9 (di cui si veda l’interessante rilettura offerta da Gaeta, Contratto e rapporto, organizzazione e istituzione. Rileggendo Franco Liso, in DLRI, 2014, 661); Brollo, Vendramin, Le mansioni del lavoratore: inquadramento e jus variandi, in Martone (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, in Persiani, Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Cedam, 2012, IV, I, 518. Nogler, La subordinazione nel d. lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’«autorità del punto di vista giuridico», in WP D’Antona, It., 2015, 267, 26. Secondo Brollo, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in ADL, 2015, VI, 1169, la regolazione dell’obbligo formativo «appare approssimativa e foriera di incertezze che ne rendono difficoltosa l’interpretazione e probabilmente ne metteranno a rischio l’effettiva applicazione». Critica anche Avondola, La riforma dell’art. 2103 c.c. dopo il Jobs Act, in RIDL, 2016, III, 369, secondo la quale la norma «rappresenterebbe poco più che un “indirizzo” da parte del legislatore».
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fine ultimo di comprenderne il significato e di chiarire la natura delle posizioni giuridiche soggettive di datore e prestatore di lavoro proprio con riferimento alla formazione.
2. La formazione nel rapporto di lavoro subordinato: premesse.
Alla luce della complessa riforma dello jus variandi datoriale del 20155, occorre riflettere sulle conseguenze che il nuovo art. 2103 c.c. comporta sulla definizione dei confini delle obbligazioni gravanti sulle parti del contratto di lavoro. Muovendo, infatti, sul piano dell’adempimento dell’obbligazione del lavoratore, il nuovo art. 2103 c.c. comporta un allargamento delle mansioni esigibili da parte del datore di lavoro6, il quale ha la facoltà di assegnare al lavoratore tutte le mansioni riconducibili al medesimo livello di inquadramento del contratto collettivo rispetto a quelle concordate nel contratto di lavoro o da ultimo svolte. A fronte del legittimo esercizio dello jus variandi, entro i limiti disegnati dal contratto collettivo, il lavoratore non puó rifiutarsi di svolgere le nuove mansioni, pena l’inadempimento dell’obbligazione di lavoro. Certo, però, in assenza di condizioni imposte dalla legge alle parti sociali nella definizione degli inquadramenti, all’interno del medesimo livello possono ben essere ricomprese mansioni anche radicalmente diverse, che possono rappresentare sbocchi di percorsi professionali e formativi distanti l’uno dall’altro e richiedere, pertanto, competenze e capacità non possedute dal prestatore di lavoro in ragione della pregressa maturata esperienza. Come si concilia questa possibilità, resa legittima dal silenzio dell’art. 2103 c.c. circa possibili limiti sostanziali all’esercizio dello jus variandi, con l’interesse, patrimoniale e non patrimoniale, del prestatore di lavoro ad adempiere esattamente alla propria obbligazione? Qual è la rilevanza della professionalità (individuale) del lavoratore, costantemente
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Nell’economia del presente lavoro, non è possibile analizzare compiutamente il contenuto della riforma dell’art. 2103 c.c. introdotta dall’art. 3, d. lgs. n. 81/2015. Si rinvia, dunque, ai contributi già offerti sul tema dalla dottrina. Si vedano, tra gli altri, Brollo, Tecnologie digitali e nuove professionalità, in DRI, 2019, II, 468; Brollo, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, cit., 1156; Brollo, Il mutamento di mansioni dopo il Jobs Act, in Persiani (a cura di) Il diritto del lavoro all’epoca delle nuove flessibilità, in GI, 2016, III, 737; Pisani, Dall’equivalenza all’inquadramento: i nuovi limiti ai mutamenti “orizzontali” di mansioni, in DLRI, 2016, I, 149; Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli, 2015; Pisani, Lo jus variandi, la scomparsa dell’equivalenza, il ruolo dell’autonomia collettiva e la centralità della formazione nel nuovo art. 2103, in ADL, 2016, VI, 1114; Cester, La modifica in pejus delle mansioni nel nuovo art. 2103 c.c., in DLRI, 2016, I, 167; Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, in WP D’Antona, It., 2015, 257; Romei, La modifica unilaterale delle mansioni, in RIDL, 2018, II, 233; Caruso, Strategie di flessibilità funzionale e di tutela dopo il Jobs Act: fordismo, post-fordismo e industria 4.0, in DLRI, 2018, I, 81; Gargiulo, Lo jus variandi nel “nuovo” art. 2103 cod. civ., in WP D’Antona, It., 2015, 268; Avondola, La riforma dell’art. 2103 c.c. dopo il Jobs Act, cit., 369; Garilli, La nuova disciplina delle mansioni tra flessibilità organizzativa e tutela del prestatore di lavoro, in DLRI, 2016, I, 129; Lazzari, La tutela della dignità professionale del lavoratore, in DLRI, 2017, IV, 663; Amendola, La disciplina delle mansioni nel d.lgs. n. 81 del 2015, in WP D’Antona, It., 2016, 291; sia consentito anche il rinvio al volume Zilio Grandi, Gramano (a cura di), La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act. Quadro legale e profili problematici, Giuffrè, 2016. Fontana, Inderogabilità, derogabilità e crisi dell’uguaglianza, in WP D’Antona, It., 2015, 276, 31.
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riconosciuta alla luce della precedente disposizione quale bene oggetto della tutela fornita proprio dalla disciplina dello jus variandi?7 Nel vigore del vecchio art. 2103 c.c., giurisprudenza e dottrina si erano interrogate sul significato complessivo della disposizione8, sulla sua ratio e, in particolare, sull’individuazione del bene giuridico da essa presidiato9. Si era trattato di un compito non facile, eppure risolto pressoché unanimemente dagli interpreti nel senso di ritenere l’art. 13 dello Statuto norma posta a tutela della professionalità del prestatore di lavoro – quale proiezione della sua personalità10 –, da intendersi quale species del più ampio, e costituzionalmente tutelato11, bene della dignità del lavoratore12. Alcuni Autori avevano rinvenuto nella collocazione sistematica della norma la chiave di lettura che consentiva di individuare nella professionalità il bene tutelato13. Partendo dall’assunto per cui il legislatore del 1970 avrebbe voluto restringere l’alveo delle mansio-
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Sul tema, essenziale la lettura di Lazzari, La tutela della dignità professionale del lavoratore, op. cit., 663. Si rinvia anche a Marazza, Quale professionalità risarcire nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c.?, in GC.com, 19 ottobre 2015. 8 Berruti, Ius variandi e tutela della qualifica nella giurisprudenza della Cassazione, in RIDL, 1983, I, 371. 9 Secondo Liso, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, cit., 66, «nella rinnovata disciplina del contratto di lavoro si riflette esplicitamente una nuova consapevolezza dell’impresa e, in particolare, […] della realtà della dimensione organizzativa»; Rodotà, Funzione politica del diritto dell’economia e valutazione degli interessi realizzati dall’intervento pubblico, in Barcellona (a cura di), L’uso alternativo del diritto, Laterza, 1973, I, 249: «Leggi come lo statuto dei lavoratori, investendo direttamente l’organizzazione industriale avviano un processo di revisione interno all’impresa che non era stato possibile fino a che questa era stata considerata solo come un luogo di produzione». 10 Cass., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572 in RIDL, 2006, II, 687, con nota di Scognamiglio, Le sezioni unite sull’allegazione e la prova dei danni cagionati da demansionamento o dequalificazione; Cass., 13 aprile 2004, n. 7043 in RFI voce Danni civili, 2004, 149; Cass., 26 maggio 2004, n. 10157 in RFI voce Lavoro e previdenza (controversie), 2004, 195; Santoro Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, 1960, 11; Rescigno, Personalità (diritti della), in EGT, 1990, XXIII, 3; Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, 1976, II, 1201; Avio, I diritti inviolabili nel rapporto di lavoro, Giuffrè, 2001; Persiani, Prime osservazioni sulla nuova disciplina delle mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori, in DL, 1971, I, 12; Barbera, Commento all’art. 2 Cost., in Branca (a cura di) Commentario alla Costituzione, Zanichelli/Società editrice del Foro Italiano, 1975, I, 50; Magnani, Diritti della persona e contratto di lavoro. L’esperienza italiana, in QDLRI, 1994, XV, 47; Casillo, La dignità nel rapporto di lavoro, in RDC, 2008, V, 10593; Martone, Contratto di lavoro e “beni immateriali”, Cedam, 2002. 11 L’art. 41 della Costituzione recita: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (commi 1 e 2). 12 Tale riflessione si è sviluppata in linea con l’approdo interpretativo e sistematico secondo cui si è riconosciuta l’autonomia del contratto di lavoro, proprio in quanto figura contrattuale che si caratterizza per il coinvolgimento diretto della persona del lavoratore nell’esecuzione del contratto; Mengoni, Il contratto di lavoro nel diritto italiano, in Aa.Vv., Il contratto di lavoro nei paesi membri della C.E.C.A., Giuffrè, 1965, 418; Mengoni, I poteri dell’imprenditore, in Aa.Vv. Problemi giuridici dell’impresa. Atti dei convegni dei Lincei, 1976; Riva Sanseverino, Disciplina delle attività professionali. Impresa in generale, Sub art. 2103 c.c., in Scialoja, Branca (a cura di), Commentario del codice civile, Zanichelli/ Società editrice del Foro Italiano, 1986, VI, 406. 13 Brollo, La mobilità interna del lavoratore: mutamento di mansioni e trasferimento. Art. 2103, in Schlesinger (diretto da), Il Codice Civile. Commentario, Giuffrè, 1997, 137; Maresca, La promozione automatica del prestatore di lavoro secondo l’art. 13 dello statuto dei lavoratori, in RGL, 1978, I, 413; Liso, Alcune osservazioni sul problema del mutamento delle mansioni, in RTDPC, 1974, 1157.
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ni esigibili14, rispetto alla precedente formulazione della norma15 e, soprattutto, rispetto all’applicazione giurisprudenziale che ne era stata data16, e partendo altresì dalla considerazione che l’art. 13 dello Statuto si colloca, non casualmente, nel Titolo I della legge n. 300 del 197017, rubricato «Della libertà e dignità del lavoratore», si era tratta la conseguenza che proprio la dignità del prestatore di lavoro costituisse il bene che la nuova disciplina dello jus variandi intendeva tutelare, in conformitá alle norme di rango costituzionale che la riconoscono e la preservano18. Ciò in ossequio all’argomento secondo cui proprio l’inserimento della persona del lavoratore nell’organizzazione produttiva comporta che la tutela del prestatore di lavoro non possa limitarsi ai soli profili della retribuzione, ma debba necessariamente estendersi al complesso della sua persona, costituendo il lavoro un fondamentale momento di affermazione ed estrinsecazione della personalità di ciascuno19. Di qui, il passaggio al riconoscimento della professionalità quale bene di cui il potere di organizzazione del datore di lavoro non poteva non tenere conto.
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Così Santoro Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, 1960, 103; Scognamiglio, Mansioni e qualifiche dei lavoratori. Evoluzione e crisi dei criteri tradizionali, in RGL, 1973, I, 149; Persiani, Prime osservazioni sulla nuova disciplina delle mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori, op. cit., 12; Grasselli, La nuova disciplina legale dello “ius variandi”, in DL, 1971, I, 84; Assanti, Sub art. 13, in Assanti, Pera, Commento allo Statuto dei lavoratori, Cedam, 1972, 141; Romagnoli, Art. 13, in Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, Art. 1-13, in Scialoja, Branca (a cura di), Commentario del codice civile, V, I-II, Zanichelli/Società editrice del Foro Italiano, 1979, 222; Ichino, Il lavoro subordinato: definizione e inquadramento (artt. 2094 e 2095 cod. civ.), Giuffrè, 1992, 287: «dal confronto tra il vecchio e il nuovo testo si trae essenzialmente l’intendimento di rendere la limitazione dello ius variandi più precisa e oggettiva: prima doveva essere equivalente la posizione del lavoratore, ora devono essere equivalenti le mansioni». Contrario a ritenere il principio dell’equivalenza maggiormente restrittivo alla precedente disciplina, Suppiej, Il rapporto di lavoro, Cedam, 1982, 320. 15 A parere di chi scrive, si può certamente condividere l’assunto per cui, a fronte della sostanziale disapplicazione dell’art. 2103 c.c., nella sua prima formulazione, il legislatore del 1970 avesse all’epoca voluto rafforzare i limiti dell’esercizio del jus variandi, in primo luogo sancendo espressamente il divieto dei patti contrari, come tali radicalmente nulli. Ben diverso, e ulteriore, è il passaggio secondo cui la norma abbia voluto restringere l’alveo delle mansioni esigibili da parte del datore di lavoro nel legittimo esercizio del jus variandi. Il limite dell’equivalenza, infatti, non necessariamente comportava un restringimento delle mansioni esigibili, soprattutto se si considera che, a seguito della novella statutaria, il mutamento, determinato unilateralmente, non doveva più essere temporaneo, né doveva essere giustificato dalla sussistenza di oggettive esigenze aziendali. 16 Il riferimento è a quella giurisprudenza che, al fine di ritenere sussistente il consenso del lavoratore al mutamento delle mansioni, riteneva sufficiente il comportamento concludente del prestatore di lavoro, che non rifiutava formalmente l’adibizione alle nuove mansioni. Detto orientamento svuotava di fatto di significato i limiti sostanziali posti dalla disposizione del 1942, così determinando il venir meno della ragione d’essere della disciplina del jus variandi, a fronte della libertà di accordi tra le parti, che potevano concludersi anche per le vie di fatto. 17 Secondo Liso, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, cit., 926: «lo statuto realizza il passaggio dalla tutela del lavoratore come contraente debole alla tutela del lavoratore come persona». 18 Dell’Olio, Diritto del lavoro e garanzie costituzionali, in Lanfranchi (a cura di) Garanzie costituzionali e diritti fondamentali, Treccani, 1997, 347; Romagnoli, Commento dell’art. 3, co. 2, della Costituzione, in Branca (a cura di) Commentario alla Costituzione, cit., 162; Scognamiglio, Il lavoro nella Costituzione italiana, in Scognamiglio (a cura di) Il lavoro subordinato nella giurisprudenza costituzionale, Franco Angeli, 1978, 41; Piccinini, Sulla dignità del lavoratore, in ADL, 2005, III, 733. 19 Mengoni, I poteri dell’imprenditore, cit., 53: «il dato peculiare dell’implicazione della persona del lavoratore nel rapporto, che finora era la ratio di limiti imposti all’autonomia negoziale del datore in ordine alla formazione delle condizioni di scambio sul mercato del lavoro e all’esercizio del potere di recesso, assume una ulteriore e più penetrante rilevanza giuridica quale criterio di attrazione nell’area degli interessi protetti dal contratto anche di interessi non patrimoniali del debitore del lavoro, sottratti in tutto o in parte alla disponibilità del creditore»; si vedano anche Liso, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, cit., 35; Bettini, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Giappichelli, 2014, 3.
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La professionalità20 veniva così individuata come quel particolare profilo della dignità del lavoratore21, intesa quale suo bagaglio di competenze, esperienze e capacità professionali22. Ció aveva consentito di ripensare all’equivalenza quale criterio di controllo degli atti di esercizio dello jus variandi, da considerarsi legittimi solo in quanto non lesivi della professionalità del prestatore di lavoro. A fronte della riconosciuta vaghezza del concetto stesso di equivalenza, era stato per il tramite della nozione di professionalità che si era costruito il percorso logico-giuridico per vagliare la legittimità degli atti di esercizio dello jus variandi. Intanto, le mansioni di destinazione e quelle di partenza potevano dirsi equivalenti solo se le prime consentivano al lavoratore l’utilizzo della sua professionalità e non ne costituivano, di contro, una fonte di lesione. Il potere del datore di lavoro doveva arrestarsi ai confini della professionalità del lavoratore, al di fuori dei quali ogni atto di variazione, anche concordato, non poteva che cadere sotto la scure della nullità prevista dal secondo comma dell’art. 2103 c.c., nella versione di cui all’art. 13 dello Statuto. Il nuovo art. 2103 c.c. parrebbe, ad una prima lettura, imporre un cambiamento nell’individuazione del bene giuridico tutelato. La norma, infatti, elimina completamente il riferimento all’equivalenza delle mansioni e, anzi, omette di fornire direttamente qualsiasi indicazione circa i limiti all’esercizio dello jus variandi, rimettendo completamente alla contrattazione collettiva l’articolazione dei livelli di inquadramento e, quindi, l’individuazione dei confini delle mansioni esigibili in via ordinaria dal prestatore di lavoro. Una parte della disposizione, tuttavia, va presa più attentamente in considerazione. Il nuovo art. 2103 c.c. afferma al comma 3 che il «mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni». È quindi lo stesso legislatore a contemplare l’esigenza di formare il lavoratore adibito a nuove mansioni, ove necessario. La norma non brilla per chiarezza23 e impone agli interpreti una attenta esegesi di ogni suo termine. Il legislatore, infatti, qualifica quello formativo come un obbligo che sorge in capo al datore di lavoro quando egli esercita lo jus variandi, ma solo ove necessario.
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Da intendersi, naturalmente, in senso oggettivo come professionalità «atta ad identificare sul piano contenutistico e qualitativo le caratteristiche tipiche di una mansione o posizione lavorativa», così Ciucciovino, Apprendimento e tutela del lavoro, Giappichelli, 2013, 158. 21 Secondo Pisani, La modificazione delle mansioni, Franco Angeli, 1996, 127, la tutela della professionalità costituisce il «nucleo garantistico imprescindibile contenuto nel precetto». In generale sul tema – ma vedi meglio infra – Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, Giuffrè, 2004; Napoli (a cura di), La professionalità, Vita e Pensiero, 2004; Carabelli, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post-taylorismo, in DLRI, 2004, I, 20; Magnani, Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del lavoro, in DLRI, 2004, I, 165. 22 Secondo chi sostiene questa ricostruzione, rileverebbe, sul piano sistematico, lo stesso articolo 8 dello Statuto dei lavoratori, che, legittimando – o meglio, non vietando – le indagini del datore di lavoro «rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore», confermerebbe la centralità del bene della professionalità, così Brollo, La mobilità interna del lavoratore: mutamento di mansioni e trasferimento. Art. 2103, cit., 138. 23 Sui problemi interpretativi della disposizione, Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, cit., 13.
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Al fine di stabilire in quali casi la formazione sia necessaria, possono individuarsi due ipotesi. La prima – e piú semplice – è quella in cui è lo stesso contratto collettivo ad imporre al datore di lavoro l’assolvimento di determinati obblighi formativi a fronte di mutamenti delle mansioni che richiedano nuove competenze e conoscenze24. In questo caso, correttamente si può qualificare quello formativo come un obbligo, avente fonte contrattuale, il cui inadempimento, se pure non comporta, per espressa previsione di legge, la nullità dell’atto di esercizio dello jus variandi, potrà in ogni caso comportare conseguenze sul piano del risarcimento del danno patito dal lavoratore25, coerentemente con la giurisprudenza che ha riconosciuto in capo al prestatore, oltre a un interesse patrimoniale all’esecuzione della prestazione al fine di ricevere in cambio la retribuzione, anche un interesse di natura non patrimoniale, in conformità del principio di dignità della persona. Non solo: la qualificazione della formazione in termini di obbligo, in quanto espressamente previsto dal contratto collettivo, potrebbe fondare la facoltà per il lavoratore di opporre l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.)26 a fronte dell’adibizione a mansioni per le quali egli non ha ricevuto la necessaria formazione. Una simile impostazione si giustificherebbe soprattutto alla luce della consolidata ricostruzione del sinallagma contrattuale che postula la natura complessa dell’obbligazione datoriale, la quale non si esaurisce certo nella sola corresponsione della retribuzione. Ci si può ora domandare se analoghe considerazioni possano valere anche nell’ipotesi, ben più comune, di silenzio del contratto collettivo.
3. Formazione e professionalità, ieri. Prima della riforma del 2015, il dibattito dottrinale in tema di formazione si era tradizionalmente assestato su due poli opposti. Se pure la dottrina prevalente aveva ritenuto che non potesse rintracciarsi un vero e proprio obbligo del datore di lavoro di curare la formazione del lavoratore affinché questi fosse posto in grado di eseguire la prestazione dovuta27, già nel vigore della disciplina
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Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, cit., 13. Sui più recenti sviluppi della contrattazione collettiva proprio in materia di professionalità e jus variandi, si rinvia a Tomassetti, Dalle mansioni alla professionalità? Una mappatura della contrattazione collettiva in materia di classificazione e inquadramento del personale, in DRI, 2019, IV, 1149. 25 De Angelis, Note sulla nuova disciplina delle mansioni ed i suoi (difficilissimi) rapporti con la delega, in WP D’Antona, It., 2015, 263, 7; secondo Gargiulo, Lo jus variandi nel “nuovo” art. 2103 cod. civ., cit., 10, «la carenza di sanzione annulla di fatto l’efficacia della parte precettiva della disposizione». 26 Con riferimento alla precedente disciplina Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, cit., 138; contra, Pisani, Mansioni del lavoratore, in Cagnasso, Vallebona (a cura di), Artt. 2099-2117, in Gabrielli (diretto da), Commentario del codice civile, Dell’impresa e del lavoro, Utet, 2013, 188. In generale sul tema, Ferrante, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato: eccezione di inadempimento, rifiuto di obbedienza, azione diretta individuale, Giappichelli, 2004. 27 Ciucciovino, Apprendimento e tutela del lavoro, cit., 173; Pisani, Formazione professionale «continua», equivalenza delle mansioni, giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in MGL, 2004, V, 396; Varesi, I contratti di lavoro con finalità formative, Franco Angeli, 2001,181; Zoppoli, Il lavoro di Aracne. Formazione e politiche attive dell’impiego nelle recenti dinamiche istituzionali, in Realfonzo, Zoppoli (a cura di), Formazione e lavoro: l’efficacia dei nuovi strumenti giuridici e istituzionali. Atti del Convegno di Benevento
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statutaria era stata avanzata l’idea secondo cui la professionalità fosse un bene che le parti del rapporto di lavoro dovevano mantenere costantemente aggiornato28. In particolare, era stata da alcuni formulata la tesi secondo cui il datore di lavoro fosse destinatario di un vero e proprio obbligo di elevazione professionale del lavoratore, in forza dell’art. 35, comma secondo, della Costituzione29, che, letto in relazione agli artt. 2094 e 2103 c.c., sarebbe stato «veicolo normativo per la traducibilità nel rapporto di lavoro del diritto alla formazione»30. Ciò a fronte dell’importanza del bene della professionalità quale esplicazione della persona del lavoratore, ma anche a fronte del rilievo assunto, nelle organizzazioni produttive post-fordiste, dall’adattabilità del lavoratore – e quindi dalla sua formazione – alle mutevoli esigenze aziendali31. Una dottrina aveva ritenuto di qualificare come un diritto quello del lavoratore alla formazione «come effetto legale del contratto»32. La tesi si inseriva in una più ampia riflessione secondo cui la professionalità non andrebbe vista semplicemente quale bene oggetto della tutela apprestata dalla disciplina legale delle mansioni, ma costituirebbe, invece, lo stesso oggetto del contratto di lavoro subordinato33: «non si capisce perché la professionalità dovrebbe essere utilizzata come criterio delimitativo dei poteri imprenditoriali e non contrassegnare ab origine l’oggetto del contratto»34. Lo scambio, in considerazione del quale il lavoratore percepisce la retribuzione, non avrebbe ad oggetto le mansioni convenute nel contratto, bensì la professionalità del lavoratore tout court35. E, infatti, se mediante
18 giugno 2002, Franco Angeli, 2003, 13; Roccella, Formazione, occupabilità, occupazione nell’Europa comunitaria, in Aa.Vv., Formazione e mercato del lavoro in Italia e in Europa, Atti del XV Congresso nazionale di diritto del lavoro, S. Margherita di Pula, 1-3 giugno 2006, Giuffrè, 51; Magnani, Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del lavoro, cit., 165; Carabelli, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post-taylorismo, cit., 20; Liso, L’incidenza delle trasformazioni produttive, in QDLRI, 1987, I, 56. Per un’ampia ricognizione delle posizioni, Corti, L’edificazione del sistema italiano di formazione continua dei lavoratori, in RGL, 2007, I, 178. 28 Per la quale Romagnoli, Art. 13, cit., 222; Mariucci, Le due facce del rapporto tra innovazione tecnologica e diritto del lavoro, in L80, 1985, 372; Bianchi D’Urso, La mobilità orizzontale e l’equivalenza delle mansioni, in Aa.Vv. L’inquadramento dei lavoratori, in QDLRI, 1987, I, 117. 29 Napoli, Commento all’art. 35, comma II, in Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Zanichelli/Società editrice del Foro Italiano, 1979, I, 19; Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, cit., 7 e 81; Loy, Formazione e rapporto di lavoro, Franco Angeli, 1988, 20; Loffredo, Considerazioni sul diritto alla formazione e contratto di lavoro, in Rusciano (a cura di), Problemi giuridici del mercato del lavoro, Jovene, 2004, 136: «anche per l’obbligo formativo, non differentemente da quanto accade ad esempio per l’obbligo di sicurezza, il datore di lavoro svolge un ruolo sostitutivo di quello dello Stato nella garanzia di un diritto fondamentale del cittadino – il diritto alla salute o il diritto alla formazione – quando quest’ultimo entra in azienda, non essendo pensabile che in quel momento si perda lo status di cittadino e tutti i diritti ad esso collegati» e 175. Si vedano le critiche a questa tesi espresse da Carabelli, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post-taylorismo, cit., 28, e Ciucciovino, Apprendimento e tutela del lavoro, cit., 159. 30 Napoli, Disciplina del mercato del lavoro e esigenze formative, cit., 270. 31 Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, cit., 86. 32 Napoli, Disciplina del mercato del lavoro e esigenze formative, cit., 270; così anche Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, cit., 12; Loy, Formazione e rapporto di lavoro, cit., 776. 33 Napoli, Disciplina del mercato del lavoro e esigenze formative, cit., 269; alla tesi hanno aderito Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, cit., 81; Galantino, Lavoro atipico, formazione professionale e tutela dinamica della professionalità del lavoratore, in DRI, 1998, VIII, 317; Guarriello, Trasformazioni organizzative e contratto di lavoro, Jovene, 2000, 191. 34 Napoli, Contratto e rapporti di lavoro oggi, in Aa.Vv., Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, Giuffrè, 1995, II, 1122. 35 Vi è stato chi, sviluppando ulteriormente questa prospettiva, è giunto a ripensare alla stessa causa del contratto di lavoro, alla definizione della quale, secondo questa prospettiva, concorrerebbe la formazione: Galantino, Lavoro atipico, formazione professionale e tutela dinamica della professionalità del lavoratore, cit., 319: «si può ritenere che la formazione continua sia ormai entrata a far parte della struttura causale del contratto di lavoro subordinato»; così anche Guarriello, Trasformazioni organizzative e contratto di lavoro, cit., 232.
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il contratto di lavoro il datore persegue il soddisfacimento del proprio interesse, esso si rivolge non genericamente alla ricerca di lavoratori che si mettano a disposizione, bensì alla ricerca di specifiche «attitudini professionali che possono essere esplicate in relazione a determinate attività designate dalle mansioni esigibili»36. In quest’ottica, le mansioni rappresenterebbero la sintesi descrittiva della professionalità37, utili a definire i confini del debito contrattuale del lavoratore, all’interno di un sinallagma dove oggetto dello scambio è la professionalità medesima38. Da altri Autori, quello alla riqualificazione era stato inteso quale «presupposto che rende non svantaggioso il mutamento di mansioni e, quindi, legittimo il relativo provvedimento di adibizione»39, quasi a volere intendere l’assolvimento di un percorso formativo, su iniziativa del datore di lavoro, quale presupposto di legittimità dell’atto di esercizio dello jus variandi. Vi era, peraltro, chi valorizzava l’onere di cooperazione all’adempimento in capo al creditore della prestazione, ai sensi dell’art. 1206 c.c.40, considerando l’attività di formazione come la misura minima affinché il debitore della prestazione lavorativa sia messo nella condizione di adempiere. Altre impostazioni dottrinali riconducevano la formazione all’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c.41, che dovrebbe ricomprendere la tutela della dignità e della personalità del lavoratore, anche nel suo profilo professionale42. Altri, ancora, ricorrevano alle clausole generali ex artt. 1175 e 1375 c.c. quale «referente teorico e … medio tecnico atto a consentire di delineare con maggiore sicurezza, definendone anche i confini, un obbligo di adattamento del prestatore di lavoro quale obbligo di manutenzione della sua professionalità»43.
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Napoli, Contratto e rapporti di lavoro oggi, cit., 1121. Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, cit., 85. 38 Questa posizione è stata oggetto di critica da parte di chi ha ritenuto che muoversi al di fuori dei binari dello «scambio secco tra retribuzione e attività lavorativa» comporterebbe un’inaccettabile dilatazione della prestazione e, in ultimo, del debito del lavoratore: Carabelli, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post-taylorismo, cit., 17; Balandi, Formazione e contratto di lavoro, in Aa.Vv., Formazione e mercato del lavoro in Italia e in Europa, Atti del XV Congresso nazionale di diritto del lavoro, S. Margherita di Pula, 1-3 giugno 2006, cit., 385. La tesi della professionalità quale oggetto del contratto è stata oggetto di critiche, ma sotto diverso profilo, anche da parte di Loy, La professionalità, in RGL, 2003, I, 771, secondo il quale qualificare la professionalità quale oggetto del contratto di lavoro «anziché suggerire un’attenuazione della soggezione personale del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, finirebbe per esaltarla»; sul tema Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, cit., 81. 39 Pisani, Mansioni del lavoratore, cit., 145; Pisani, Formazione professionale «continua», equivalenza delle mansioni, giustificato motivo oggettivo di licenziamento, cit., 397; Dell’Olio, Nuove forme di lavoro dipendente, in MGL, 1984, 676. 40 Galantino, Le politiche formative e la qualità del lavoro, in Aa.Vv., Diritto del lavoro. I nuovi problemi. L’omaggio dell’Accademia a Mattia Persiani, Cedam, 2005, 997; Cester, La diligenza del lavoratore, in Cester, Mattarolo, Diligenza e obbedienza del prestatore di lavoro. Art. 2104, in Busnelli (diretto da), Il Codice Civile. Commentario, Giuffrè, 2007, 152. 41 Con riferimento al quale di fondamentale importanza è lo studio di Montuschi, Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, Franco Angeli, 1986, e, in particolare 75-76, nel collocare l’obbligo di sicurezza nei confini dell’oggetto del contratto. 42 Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, op. cit., 124; Corti, L’edificazione del sistema italiano di formazione continua dei lavoratori, op. cit., 240-241; Corti, Dalla tutela della professionalità e del posto di lavoro alla formazione continua e ai servizi per l’impiego. I 40 anni degli artt. 13 e 18 St. Lav., in RDL, 2011, I, 125: «ponendo ad oggetto del contratto di lavoro la collaborazione professionale del dipendente, risulterebbe agevole derivare dall’obbligo di tutelare la personalità morale del lavoratore, sancito dall’art. 2087 c.c., anche una direttrice di protezione della professionalità». 43 Magnani, Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del lavoro, cit., 183, che tuttavia non riconosce, per converso, un obbligo di fornire la formazione in capo al datore di lavoro. 37
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La giurisprudenza, dal canto suo, pur negando la configurabilità di un vero e proprio obbligo di formazione in capo al datore di lavoro, aveva talvolta ammesso, da un lato, che la necessità di aggiornamento professionale non fosse ostativa alla legittimità dell’esercizio dello jus variandi44, dall’altro, seppure sporadicamente, che un obbligo formativo potesse dirsi esistente, in applicazione dei principi di correttezza e buona fede, in presenza di «innovazioni organizzative e produttive occasionate da scelte imprenditoriali in settori soggetti a rapida evoluzione tecnologica»45. Tutte le descritte tesi costituivano certamente indice di un processo di crescente rilevanza giuridica dell’interesse (o, secondo alcuni, del diritto) del lavoratore alla formazione46.
4. Formazione e professionalità, oggi. Il dibattito in materia di formazione si è riacceso con la riforma dell’art. 2103 c.c., che, come detto, menziona oggi espressamente l’obbligo di formazione al comma terzo. Sono diversi i profili di criticità della norma evidenziati dalla dottrina, la quale ha tuttavia tentato di offrirne un’interpretazione coerente con il sistema. Un primo problema è legato alla collocazione sistematica della disposizione. L’obbligo formativo, infatti, collocato al comma terzo, segue i primi due commi dell’art. 2103 c.c. che disciplinano rispettivamente le condizioni di legittimità dello jus variandi ordinario, o, se vogliamo, in senso orizzontale (comma 1), e una delle ipotesi di esercizio dello jus variandi straordinario, o, se vogliamo, in senso verticale (comma 2). Ci si è domandati, dunque, se l’obbligo formativo sia da ritenersi riferibile alle sole ipotesi di esercizio dello jus variandi, sia esso ordinario o straordinario, ovvero anche alle ipotesi in cui il mutamento di mansioni sia oggetto di un accordo tra le parti, come da successivo comma sesto (il c.d. patto di demansionamento)47. Nella prima ipotesi, poi, ci si è chiesti se l’obbligo formativo sia riferibile alle sole ipotesi di spostamento a mansioni appartenenti al medesimo livello di inquadramento, oppure anche alle ipotesi di demansionamento. Certamente la collocazione dell’obbligo formativo nel comma terzo lascia perplessi. E, tuttavia, da una lettura complessiva dell’intero articolo sembrerebbe che il legislatore abbia voluto riferire l’obbligo formativo alle sole ipotesi di modifica unilaterale delle mansioni: l’obbligo (o, vedremo a breve, l’onere) sorge laddove il datore di lavoro muti di sua
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Cass., 31 agosto 2011, n. 17849, in LPO, 2012, 217; Cass., 1 settembre 2000, n. 11457, in NGL, 2001, 38. Cass., 7 maggio 2008, n. 11142, in RIDL, 2008, II, 81. Per ulteriori riferimenti, si rinvia a Villa, Fondamento e limiti del repêchage nel licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, in DRI, 2020, I, 116, nota 54 a piè di pagina. 46 Del Punta, Diritti della persona e contratto di lavoro, in DLRI, 2006, 195; Scarpelli, Professionalità e nuovi modelli di organizzazione del lavoro: le mansioni, in DRI, 1994, II, 56; Castelvetri, Qualità totale e prerogative manageriali: spunti per una riflessione, in DRI, 1994, II, 3. 47 Nel senso della riferibilità dell’obbligo formativo sia alle ipotesi di esercizio dello jus variandi, sia alle ipotesi di accordo: Brollo, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, cit., 1156; Cester, La modifica in pejus delle mansioni nel nuovo art. 2103 c.c., cit., 178; Lazzari, La tutela della dignità professionale del lavoratore, op. cit., 694; secondo Caruso, Strategie di flessibilità funzionale e di tutela dopo il Jobs Act: fordismo, post-fordismo e industria 4.0, cit., 110, l’obbligo formativo andrebbe, invece, riferito alle sole ipotesi di modifica in pejus delle mansioni proprio in virtù della collocazione sistematica del comma 3. 45
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iniziativa le mansioni cui il prestatore è adibito, senza che questi possegga le competenze necessarie per lo svolgimento delle nuove attività. Naturalmente, nulla impedisce alle parti di addivenire a un accordo sulle mansioni, ai sensi del comma sesto, che ricomprenda anche un percorso formativo del lavoratore. Dubito, tuttavia, che si possa parlare di un obbligo per le parti di prevedere un percorso formativo in questo caso, posto che i limiti all’autonomia individuale sono già esplicitati dal comma sesto, che per il resto affida alle parti stesse il compito di autoregolare la modifica delle mansioni. Al di là dei dubbi sopra rappresentati, la nuova disposizione è stata – condivisibilmente – accolta in modo positivo da una parte della dottrina48. L’espressa previsione di un obbligo formativo, infatti, responsabilizza il datore di lavoro nella fase di mutamento delle mansioni. Tale previsione accoglie ed esplicita una nozione di professionalità dinamica e mutevole nel tempo, che consente al lavoratore di mantenere aggiornate le proprie competenze e di svolgere diverse esperienze professionali, senza compromettere la stabilità del rapporto di lavoro e la protezione del lavoratore. Peraltro, come pure è stato ampiamente evidenziato, la norma solleva non poche questioni interpretative. A parere di chi scrive, al fine di comprendere il significato del riferimento alla formazione operato dalla norma occorre chiarire con precisione quali sono le posizioni giuridiche soggettive in capo alle parti del contratto di lavoro49. In primo luogo, è fuori di dubbio che sul creditore della prestazione di lavoro grava l’onere di consentire al lavoratore di adempiere alla propria obbligazione50. Tornano di viva attualità, su questo punto, le riflessioni elaborate dalla dottrina circa la mora del creditore nel rapporto di lavoro e, in particolare, circa la necessità di distinguere, nelle obbligazioni di fare, tra il soggetto sul quale grava l’obbligo di fare e «quella porzione del mondo esterno, cui l’attività stessa deve riferirsi», la quale «può identificarsi in qualsiasi elemento di natura, inerte o animato che sia (ad es. la stessa persona del creditore)», ravvisabile anche «nello stesso spazio o ambiente entro il quale è destinata ad attualizzarsi la promessa attività»51. Ebbene: oggi come ieri, ricade sul datore di lavoro l’onere non solo di consentire la prestazione e di non rifiutarla, ma anche di assicurare che la stessa possa effettivamente
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Pisani, Dall’equivalenza all’inquadramento: i nuovi limiti ai mutamenti “orizzontali” di mansioni, cit., 156; Pisani, Lo jus variandi, la scomparsa dell’equivalenza, il ruolo dell’autonomia collettiva e la centralità della formazione nel nuovo art. 2103, cit., 1114; Romei, La modifica unilaterale delle mansioni, cit., 239. 49 Appare funzionale al proseguio della trattazione la tradizionale distinzione tra le due situazioni soggettive dell’obbligo e dell’onere, secondo cui, mentre la prima esprime una posizione passiva cui è sotteso un interesse altrui (del creditore, ossia del titolare della corrispondente posizione attiva), la seconda esprime una posizione passiva alla quale è però sotteso un interesse proprio del titolare (ad es. l’onere della prova). 50 Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Franco Angeli, 1979, 205. 51 Ghezzi, La mora del creditore nel rapporto di lavoro, Giuffrè, 1965, 54. Più in particolare, Ghezzi, op. ult. cit., 56: «quando l’obbligazione di facere consiste nella prestazione di lavoro subordinato, è però per noi evidente che il fornire quel substrato oggettivo non rientra in linea di principio, nell’oggetto dedotto in obbligazione e non incombe perciò al debitore»; se, infatti, «l’adempimento [del lavoratore] consiste, in definitiva, nella riuscita combinazione dei due fattori (prestazione e suo substrato), è ancora al creditore che spetta, nell’attuazione dell’obbligazione di lavoro, far sì che prestazione e substrato del rapporto entrino in rapporto; è nell’ambito dell’attività economica organizzata da lui predisposta, se si tratta d’impresa, ed è comunque nella sfera della sua individua organizzazione, che la prestazione di lavoro deve svolgersi».
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essere resa nell’ambito dell’organizzazione produttiva52. E, tuttavia, a fronte di una potenzialmente illimitata estensione delle mansioni esigibili dal lavoratore, a fronte di un debito oggi esteso a tutte le mansioni riconducibili al medesimo livello di inquadramento e alla stessa categoria legale, oggi più di ieri si amplia la portata dell’onere datoriale di cooperazione all’adempimento. Proprio in considerazione della larghezza dello spettro delle mansioni astrattamente esigibili e del venir meno del parametro dell’equivalenza professionale53, a parere di chi scrive, si può sostenere che l’onere datoriale di cooperazione si concretizzi oggi proprio nell’onere di formazione del lavoratore, a fronte di mutamenti delle mansioni che possono incidere anche radicalmente sul contenuto professionale della prestazione54. Alla luce di ciò, sebbene nel silenzio del contratto collettivo non sembri potersi qualificare quello formativo come un vero e proprio obbligo del datore di lavoro, si potrà, tuttavia, ritenere sussistente un onere di formazione55, ogniqualvolta il mutamento della mansione – disposto unilateralmente dal datore di lavoro, che pertanto se ne assume la piena responsabilità – sia tale da richiedere una nuova professionalità. Il parametro della professionalità, lungi dall’essere scomparso con la riforma del 201556, vale a individuare le ipotesi in cui il mutamento di mansioni si risolve nella richiesta di prestazioni per le quali il lavoratore non dispone del necessario bagaglio di competenze57; vale, conseguentemente, a individuare i casi in cui concretamente sussiste un onere di formazione in capo al datore di lavoro, il quale non può limitarsi a variare le mansioni
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Ichino, Il contratto di lavoro, Giuffrè, 2000, I, 317; diversa la posizione di Persiani, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 1966, 143, secondo il quale «i lavoratori, in quanto prestano la loro attività per un interesse e alle dipendenze di altri sono tenuti a partecipare alla realizzazione del risultato che il datore persegue, sia pure nella misura in cui questo dipende dal loro comportamento. Il lavoratore, certo, non è né può essere individualmente responsabile della produzione nel suo complesso considerata, ma la realizzazione di questa non è nemmeno irrilevante nei suoi confronti, in quanto egli sarà inadempiente se non avrà fatto tutto quanto doveva affinchè il datore di lavoro consegua tale risultato, ed anche eseguito le disposizioni per la esecuzione e la disciplina del lavoro»; sul punto si veda la critica di Smuraglia, La persona del prestatore nel rapporto di lavoro, Giuffrè, 1967, 296; Liso, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, cit., 50; si legga anche Marazza, Saggio sull’organizzazione del lavoro, Cedam, 2002. 53 Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, cit., 12: «il richiamo della formazione costituisce un naturale portato della scelta di dilatare lo spettro dei compiti esigibili staccandosi dalla vecchia prospettiva incentrata sui compiti lavorativi e sulla professionalità richiesta per il loro svolgimento intesa come limite al potere direttivo del datore di lavoro». 54 La tesi è già stata sostenuta con riferimento all’art. 2103 c.c. nella sua precedente formulazione da Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, cit., passim; Galantino, Lavoro atipico, formazione professionale e tutela dinamica della professionalità del lavoratore, cit., 319; Loy, Formazione e rapporto di lavoro, cit., 21; già Romagnoli, Art. 13, cit., 235, riteneva sussistente un obbligo in capo al datore di lavoro di «mobilitare tutte le risorse esistenti nel campo della formazione e riqualificazione affinchè l’altra faccia della competitività della sua azienda non sia necessariamente il degrado della professionalità operaia». 55 Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, cit., 13; Cester, La modifica in pejus delle mansioni nel nuovo art. 2103 c.c., cit., 178. 56 Secondo Nogler, La subordinazione nel d.lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’«autorità del punto di vista giuridico», cit., 27, lo «spostamento d’accento nella direzione della professionalità può anzi dirsi ora rafforzato dal riconoscimento, da parte del d.lgs. n. 81 del 2015, dell’obbligo, da parte del datore di lavoro, di formare il lavoratore in caso di mutamento – sia orizzontale che in pejus – delle sue mansioni (art. 3, comma 3)». 57 Brollo, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, op. cit., 1169; Lazzari, La tutela della dignità professionale del lavoratore, cit., 694; Romei, La modifica unilaterale delle mansioni, cit., 239.
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senza attivarsi a sua volta per rendere possibile la prestazione58. L’onere di cooperazione, infatti, non può dirsi “incondizionato”, ma trova nella professionalità «al tempo stesso il suo oggetto e il suo limite»59. Non andrebbe così perduta la ricca elaborazione dottrinale e giurisprudenziale circa la nozione di professionalità, ora non più da intendersi quale limite interno all’esercizio dello jus variandi, la cui legittimità è ancorata esclusivamente agli inquadramenti collettivi, bensì quale parametro di verifica della sussistenza, prima, e dell’assolvimento, poi, di quell’onere di cooperazione gravante sul datore di lavoro e avente ad oggetto la formazione del lavoratore a fronte dell’adibizione di questo a mansioni che esulano completamente dalla professionalità da lui precedentemente acquisita. Si potrebbero, cosí, superare le critiche mosse in passato a quella dottrina che già sosteneva l’esistenza di un obbligo di formazione in capo al datore di lavoro; critiche per lo più ancorate all’assenza di un dato normativo e al rischio di un’indebita dilatazione della posizione debitoria del prestatore60. Il legislatore, infatti, seppure in una disposizione non priva di ambiguità, menziona espressamente l’obbligo formativo, il cui assolvimento è imposto laddove necessario. Esiste, quindi, un esatto parametro normativo che fonda l’obbligo di formazione, che impone agli interpreti un ripensamento delle categorie del rapporto di lavoro (in merito all’oggetto del contratto di lavoro, in primis) e che rende di straordinaria attualità le già citate parole di Mario Napoli circa professionalità e formazione. Certo, se l’esito negativo dell’assolvimento di tale onere non comporta la nullità della modifica61, come espressamente prevede l’art. 2103 c.c., esso resterà rilevante sul piano della mora accipiendi del datore di lavoro ai sensi degli artt. 1206 e 1217 c.c. e, quindi, della liberazione del lavoratore dalla responsabilità per il proprio inadempimento.
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Si potrebbe anche sostenere la tesi che configura quello di formazione in termini di obbligo, pure nel silenzio del contratto collettivo. Ciò non solo in considerazione del dato letterale dell’art. 2103 c.c., ma soprattutto, recuperando la giurisprudenza e le opinioni dottrinali che hanno qualificato quella della formazione come un’obbligazione accessoria all’interno del rapporto contrattuale di lavoro. Taluni hanno sostenuto, infatti, che la formazione faccia parte della causa stessa del contratto di lavoro, non soltanto nei contratti c.d. formativi (ad es. il contratto di apprendistato), ma anche nel contratto di lavoro subordinato standard. Sul punto Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, cit., 141; Guarriello, Trasformazioni organizzative e contratto di lavoro, cit., 222. 59 Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, cit., 141. 60 Carabelli, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post-taylorismo, cit., 17; Balandi, Formazione e contratto di lavoro, cit., 387. 61 Diversa sembra l’opinione di Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, cit., 13, secondo cui «in mancanza di assolvimento dell’onere, il provvedimento di adibizione alle nuove mansioni non è valido». Così anche, Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., 147. Contrario Cester, La modifica in pejus delle mansioni nel nuovo art. 2103 c.c., cit., 179, che evidenzia che «non ci capisce come il mancato adempimento dell’obbligo [formativo] da parte del lavoratore possa incidere sulla legittimità o meno dell’atto di assegnazione, che è precedente e che ne sarebbe, in questa prospettiva, il presupposto» e per questo definisce quello formativo un «onere ad effetto ridotto». Secondo Caruso, Strategie di flessibilità funzionale e di tutela dopo il Jobs Act: fordismo, post-fordismo e industria 4.0, op cit., 109, l’art. 2013, comma 6, sarebbe una norma «incompleta», proprio per il fatto di prevedere un obbligo senza sanzione di nullità dell’atto. Critici nei confronti della norma anche Gargiulo, Lo jus variandi nel “nuovo” art. 2103 cod. civ., cit., 10; Avondola, La riforma dell’art. 2103 c.c. dopo il Jobs Act, cit., 369; Garilli, La nuova disciplina delle mansioni tra flessibilità organizzativa e tutela del prestatore di lavoro, cit., 136; Lazzari, La tutela della dignità professionale del lavoratore, cit., 695. Diversa – a parere di chi scrive – maggiormente condivisibile – la posizione di Romei, La modifica unilaterale delle mansioni, cit., 240, secondo il quale la questione della mancata comminazione di nullità dell’atto di assegnazione delle mansioni nell’ipotesi di inadempimento dell’obbligo formativo è mal posta: e, infatti, il parametro normativo di riferimento ai fini della verifica della legittimità dello jus variandi è il comma 1 dell’art. 2103 c.c., e non il comma terzo.
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Ne consegue che non potrà, ad esempio, dirsi legittimo il licenziamento intimato per notevole inadempimento, o non saranno legittime le sanzioni disciplinari irrogate a fronte di un asserito inadempimento del prestatore, tutte le volte in cui, a fronte della mancata formazione, il lavoratore abbia usato la diligenza richiesta ai sensi dell’art. 2104 c.c. (dalla natura della prestazione dovuta, che certo non puo implicare che il lavoratore debba assolvere da sé all’onere di formazione, ma al piu che debba cooperare a sua volta, fruendo attivamente della formazione), pur entro i limiti delle competenze possedute, nell’espletamento di mansioni che richiedono una professionalità nuova62. La messa in mora del datore che manchi di fornire la necessaria formazione, libererà il prestatore dalla responsabilità per il proprio inadempimento.
5. Formazione e obbligo di repêchage. Le riflessioni finora svolte rilevano anche ai fini dell’apprezzamento dell’estensione dell’obbligo di repêchage da parte del datore63. Occorre partire da due premesse. In primo luogo, se, come sostenuto, esiste un onere di formazione in capo al datore di lavoro ogniqualvolta la modifica delle mansioni sia tale da richiedere al lavoratore una professionalità nuova, quest’onere dovrà ritenersi sussistente anche nelle ipotesi di adibizione a mansioni di livello inferiore, le quali possono nondimeno richiedere capacità e competenze che non rientrano nel patrimonio professionale del lavoratore64. In secondo luogo, l’onere di formazione sopra delineato sussiste a prescindere dalle ragioni sottese all’atto unilaterale di mutamento delle mansioni: sia che esso dipenda da
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Tesi già sostenuta da Brollo, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, cit., 1169; Romei, La modifica unilaterale delle mansioni, cit., 240; Gargiulo, Lo jus variandi nel “nuovo” art. 2103 cod. civ., cit., 10; Pisani, Lo jus variandi, la scomparsa dell’equivalenza, il ruolo dell’autonomia collettiva e la centralità della formazione nel nuovo art. 2103, cit., 1120. Nello stesso senso anche Garilli, La nuova disciplina delle mansioni tra flessibilità organizzativa e tutela del prestatore di lavoro, cit., 136, secondo il quale il mancato adempimento dell’obbligo formativo può soltanto «escludere la responsabilità del lavoratore per colposa imperizia nell’esecuzione della prestazione». 63 Sul punto, Pisani, L’ambito del repêchage alla luce del nuovo art. 2103 Cod. Civ., in ADL, 2016, III, 537, ha ritenuto che l’utilizzo della generica locuzione «modifiche degli assetti organizzativi» di cui all’art. 2103, comma 2, c.c., quale condizione di legittimazione del demansionamento unilaterale, comporterebbe l’inverarsi di una dicotomia tra l’area delle mansioni astrattamente esigibili da parte del datore di lavoro e l’area delle mansioni cui il lavoratore deve essere adibito al fine di evitarne il licenziamento. La prima ricomprende tutte le mansioni del medesimo livello di inquadramento, ma anche le mansioni collocate nel livello di inquadramento inferiore laddove ricorrano le condizioni richieste dal comma 2, o le diverse ipotesi previste dal contratto collettivo, ai sensi del comma 4. Il potere, in capo al datore di lavoro, di esigere l’espletamento di tali mansioni prescinderebbe del tutto dalla professionalità acquisita dal lavoratore, a fronte della considerazione per cui sarà il datore di lavoro a dover fornire l’opportuna formazione al dipendente al fine di porlo nelle condizioni di svolgere quelle mansioni che il datore stesso esige. Diversamente, la seconda area di mansioni, cui deve estendersi l’obbligo di repêchage, continuerebbe a ricomprendere unicamente quelle attività che il lavoratore è già in grado di svolgere alla luce delle competenze e del percorso professionale pregresso, senza che possa accollarsi al datore di lavoro l’onere di formare o riqualificare il dipendente al fine di evitarne il licenziamento. Secondo l’Autore, tra le conseguenze della riforma della disciplina delle mansioni vi sarebbe, pertanto, il venire meno della coincidenza tra «l’area di esigibilità delle mansioni e quella del repêchage», venendo così meno la premessa cui erano partite le Sezioni Unite del 1998 per giustificare giuridicamente l’esistenza del repêchage medesimo. 64 Così anche Cester, La modifica in pejus delle mansioni nel nuovo art. 2103 c.c., cit., 178.
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una scelta discrezionale del datore di lavoro di riorganizzazione delle mansioni del personale, in conformità all’art. 2103, commi 1, 2 o 4, c.c., sia che sia dettato dalla necessità di assolvere all’obbligo di repêchage, al fine di evitare il licenziamento del dipendente per giustificato motivo oggettivo. In altre parole, a fronte di un atto di modifica unilaterale delle mansioni, a nulla rileva sul piano giuridico il motivo sotteso alla volontà datoriale che si estrinseca nell’atto unilaterale. Ad esempio, la sussistenza dell’obbligo di repêchage precede e fonda l’atto di modifica delle mansioni, che a sua volta precede e fonda, in modo del tutto indipendente, l’onere di formazione, laddove necessario. Ebbene, proprio l’obbligo di repêchage, per consolidata interpretazione giurisprudenziale, e oggi con il conforto del nuovo testo dell’art. 2103 c.c., si estende all’intera area dell’obbligazione del lavoratore, includendo mansioni di pari o inferiore livello. Oggi, le mansioni esigibili dal datore di lavoro sono tutte quelle riconducibili al medesimo livello di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva, ma anche quelle riconducibili al livello di inquadramento immediatamente inferiore a fronte di “modifiche degli assetti organizzativi” o altre condizioni previste dal contratto collettivo. L’area del debito del prestatore prescinde, dunque, dalla sua professionalità, sia essa acquisita o potenziale. La professionalità non è più limite all’esercizio dello jus variandi, per il tramite del paramentro dell’equivalenza. Perché, dunque, la professionalità dovrebbe rappresentare, oggi, un limite alle mansioni assegnabili al lavoratore al fine di evitarne il licenziamento? Affinché possa dirsi sussistente un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, la ragione organizzativa addotta deve causalmente determinare la soppressione della posizione del lavoratore e l’assoluta inutilizzabilità della prestazione del lavoratore. La verifica di tale inutilizzabilità impone la determinazione preliminare dell’area delle prestazioni esigibili dal lavoratore in forza del contratto. Tale determinazione va operata, a sua volta, per il tramite dell’art. 2103 c.c., sicché può dirsi che tutte le mansioni astrattamente e legittimamente esigibili ai sensi dell’art. 2103 c.c. segnano il perimetro della posizione del lavoratore di cui è necessario accertare la soppressione. Ne consegue che il datore di lavoro, ove intenda procedere a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non potrà opporre, per sostenere l’avvenuto adempimento del repêchage, l’assenza di professionalità in capo al prestatore di lavoro rispetto a mansioni di medesimo o inferiore livello65. Il datore di lavoro, anche in considerazione dell’interesse del debitore alla prestazione (reso ancor più rilevante a fronte della prospettiva di perdita dell’occupazione), avrà sempre l’obbligo di formare il lavoratore, o di offrirgli un percorso formativo idoneo, onde consentirgli lo svolgimento di qualsivoglia mansione66, di pari o
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Già nel vigore della precedente formulazione dell’art. 2103 c.c. si era ritenuto che «la formazione costituirebbe un fattore che, da un lato, allargherebbe a favore del datore di lavoro l’ambito della mobilità consentita; ma, dall’altro, gli si ritorcerebbe contro restringendo l’area della giustificazione obiettiva del licenziamento, questa volta a vantaggio del dipendente», così Pisani, Mansioni del lavoratore, cit., 146. 66 Sembra questa la posizione anche di Villa, Fondamento e limiti del repêchage nel licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, cit., 116, la quale ritiene, tuttavia, che l’attività formativa debba essere «compatibile in termini economici e di tempo con la ragione del licenziamento».
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inferiore inquadramento, che sia disponibile all’interno dell’organizzazione produttiva67. Il datore dovrà pertanto sopportare il costo della formazione e anche il costo del maggior livello di retribuzione che dovrà mantenere in capo al lavoratore per espressa previsione dell’art. 2103 c.c.; non potrà addurre alcun giustificato motivo oggettivo di licenziamento, laddove l’adibizione a mansioni inferiori non sia stata possibile per lacune nella professionalità del lavoratore, ove colmabili mediante un adeguato percorso formazione. Il ragionamento trova la sua conferma nell’impossibilità di distinguere e separare concettualmente, da un lato, le mansioni che rientrano tra quelle esigibili ai sensi dell’art. 2103 c.c. e, dall’altro lato, le mansioni assegnabili ai fini dell’adempimento dell’obbligo datoriale di repêchage. Anzi, la stessa ratio dell’obbligo di repêchage – come noto non espressamente previsto dalla legge, ma la cui esistenza è stata ampiamente e puntualmente giustificata dalla giurisprudenza68 – si fonda sulla specularità tra l’area del debito del prestatore e l’area del repêchage. Il parametro della professionalità, e il connesso onere di formazione, potrà pertanto ricoprire un ruolo molto rilevante anche con riferimento alla disciplina del demansionamento e del licenziamento per ragioni oggettive, costituendo un criterio necessario di verifica dell’assolvimento dell’obbligo di repêchage.
6. Conclusioni. Il diritto del lavoro degli ultimi vent’anni è stato interessato da numerose riforme, in occasione delle quali il legislatore si è di volta in volta concentrato su distinti profili del rapporto, senza mai modificare la disciplina delle mansioni. Solo nel 2015 il legislatore ha affrontato il tema della flessibilità interna al rapporto di lavoro e, più in particolare, quello delle mansioni del lavoratore. Proprio questo profilo della disciplina del rapporto di lavoro rappresenta uno degli strumenti potenzialmente più incisivi nel processo di adattamento al rinnovato contesto produttivo, in quanto costituisce un formidabile mezzo per rendere efficiente l’organizzazione datoriale e rendere stabile, dall’altro lato, il rapporto di lavoro. Spostando la riflessione sul piano delle conseguenze che il nuovo art. 2103 c.c. comporta sui confini delle obbligazioni gravanti sulle parti del rapporto, il presente lavoro ha preso le mosse dalla considerazione per cui, sul piano dell’adempimento dell’obbligazione, la nuova disposizione comporta un allargamento delle mansioni esigibili dal prestatore di lavoro, in quanto, in assenza di limiti imposti dalla legge, il contratto collettivo è oggi legittimato a collocare all’interno del medesimo inquadramento mansioni anche
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Una conferma – seppure nel vigore del vecchio art. 2103 c.c. – sembrerebbe essere offerta da Cass., 14 novembre 2011, n. 23870, in ADL, 2012, IV-V, 1019, con nota di Bonacci, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo ed obbligo di riqualificazione del lavoratore. 68 Sia concesso il rinvio a Gramano, Natura e limiti dell’obbligo di repêchage: lo stato dell’arte alla luce delle più recenti pronunce giurisprudenziali, in ADL, 2016, V-VI, 1310 e dottrina ivi citata. Si veda anche il più recente saggio di Villa, Fondamento e limiti del repêchage nel licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, cit., 116.
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radicalmente diverse per contenuto professionale. Ci si è pertanto interrogati sui possibili strumenti interpretativi di conciliazione di tale novità con il riconoscimento della professionalità, quale bene avente rilevanza costituzionale, oggetto della tutela fornita proprio dalla disciplina del 1970. Muovendo da riflessioni già elaborate in dottrina, è possibile sostenere che sul creditore della prestazione di lavoro gravi l’onere di inserire il prestatore all’interno di un’organizzazione produttiva tale da consentirgli l’esatto adempimento della propria obbligazione. Ciò premesso, in considerazione dell’estensione delle mansioni esigibili dal lavoratore, non puó che estendersi anche la rilevanza dell’onere di cooperazione del datore di lavoro, che si concretizza, a parere di chi scrive, nell’onere di formazione del lavoratore, sussistente ogniqualvolta il mutamento delle mansioni sia tale da richiedere una nuova professionalità. Da tale prospettazione si sono fatte discendere due fondamentali conseguenze. In primo luogo, nonostante il mancato assolvimento di tale onere non comporti la nullità della modifica, esso resterà rilevante sul piano della mora accipiendi del datore di lavoro e, quindi, della liberazione del lavoratore dalla responsabilità per il proprio inadempimento. In secondo luogo, il datore di lavoro, che intenda procedere a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non potrà opporre, per sostenere l’avvenuto adempimento del repêchage, l’assenza di professionalità in capo al prestatore di lavoro rispetto a mansioni ricomprese nel medesimo o inferiore livello di inquadramento e vacanti al momento del recesso. Egli avrà sempre, invece, l’obbligo di formare il lavoratore onde consentirgli lo svolgimento di qualsivoglia mansione, di pari o immediatamente inferiore inquadramento, che sia disponibile all’interno dell’organizzazione produttiva. Ne esce di molto ampliata la tutela della stabilità del posto di lavoro. A fronte del riconoscimento di un potere di modifica delle mansioni certo non illimitato, ma libero entro i confini determinati dalla contrattazione collettiva, grava sul datore di lavoro un duplice ordine di oneri: quello di procedere al mutamento della mansione o al demansionamento (e di sostenerne i costi, sia in termini di retribuzione – che non può essere ridotta – sia in termini di formazione), laddove possibile, in alternativa alla necessità del licenziamento, con notevole ampliamento dell’area di verifica dell’obbligo di repêchage; ma anche quello di formare il lavoratore, laddove le nuove mansioni (di pari o inferiore livello) richiedano nuove competenze rispetto a quelle già acquisite. Certo, spetta alla contrattazione collettiva compiere una profonda, e anzi radicale, revisione degli inquadramenti al fine di rispondere anche alla nuova logica del 2103 c.c. Ad oggi, le parti sociali hanno solo parzialmente risposto all’invito del legislatore di farsi parti protagoniste della disciplina dello jus variandi. Ma ciò esula dall’interpretazione della disposizione e dalla sua collocazione sistematica. Anzi, la “difficoltà” di licenziare per ragioni oggettive ben si bilancia nel quadro della riforma dello jus variandi, in una logica di contemperamento degli interessi che, da un lato, incontra le esigenze di flessibilità datoriale e, dall’altra, le esigenze di stabilità del prestatore di lavoro.
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Il processo di codificazione delle disposizioni in materia di mobbing, straining e molestie sul lavoro: breve viaggio tra dogmi, intuizioni del singolare e nuovi orizzonti internazionali Sommario : 1. Eppur si muove. – 2. Panmobbismo e dogmi giurisprudenziali – 3.
Carenze. – 4. Evoluzione del concetto di mobbing e di straining: della natura discriminatoria e dell’uso della categoria della molestia. – 5. Una conferma a livello internazionale: la Convenzione OIL n. 190 e la Raccomandazione OIL n. 206 approvate il 21 giugno 2019 – 6. Le proposte di legge attualmente in campo. – 6.1. La proposta di legge C.1741 De Lorenzo e il rasoio di Ockham. – 6.2. Il disegno di legge S.1339 Conzatti: entia non sunt multiplicata – 6.3. Il disegno di legge S.1350 Castiello: in medio non stat virtus. – 7. Nuovi orizzonti.
Sinossi. Gli autori partendo dall’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza formatasi in materia di mobbing, straining e molestie sul lavoro, analizzano le recenti proposte di legge presentate in Parlamento nel corso della XVIII legislatura, anche alla luce dell’approvazione della Convenzione n. 190/2019 OIL e della Raccomandazione n. 206/2019 OIL, che costituiranno un necessario e vincolante punto di riferimento per il legislatore. Il saggio si conclude con alcune concrete proposte normative degli autori, fondate sulla innovativa concezione di violenza e di molestia sul lavoro emersa a livello internazionale. Abstract. The authors, starting from the evolution of the doctrine and jurisprudence formed in the field of mobbing, straining and harassment at work, analyze the recent legislative proposals presented in Parliament during the 18th legislature, also in light of the approval of Convention No. 190/2019 ILO and Recommendation No. 206/2019 ILO, which will constitute a necessary and binding point of reference for the legislator. The essay concludes with some concrete legislative proposals
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of the authors, based on the innovative conception of violence and harassment at work that has emerged at international level. Parole chiave: Mobbing – Straining – Violenza – Molestia – Vessazioni – Discriminazione – Danno punitivo – Onere della prova – Proposta di legge – Disegno di legge – Camera dei Deputati – Senato – OIL – Datore di Lavoro – Lavoratore – Inversione onere della prova – Risarcimento del danno – Fattispecie – Disciplina antidiscriminatoria
1. Eppur si muove. Nonostante il profluvio normativo esploso per gestire l’inedita emergenza pandemica, la XVIII legislatura si caratterizza anche per un rinnovato attivismo sul fronte della prevenzione e del contrasto delle violenze e delle molestie morali e fisiche sul posto di lavoro, manifestato negli ultimi due anni dalla presentazione di molteplici disegni di legge sia alla Camera dei Deputati1 sia in Senato2. Si è aperto dunque da tempo, complici anche le audizioni informali svolte nell’ambito dei lavori preparatori delle Commissioni competenti3, un intenso dibattito dottrinale che ha tratto linfa e sviluppo proprio dai disegni di legge oggetto di discussione (alcuni di essi, lo anticipiamo sin d’ora, davvero innovativi e rivoluzionari per il nostro sistema giuridico) fino ad arrivare a quella che riteniamo essere un’evoluzione teorica foriera di fertili sviluppi, se non legislativi, certamente giurisprudenziali. Vogliamo infatti evidenziare, con questo contributo, come recentemente si sia avviata una scuola di pensiero la quale, lungi dal reiterare le pluridecennali e stantie formule della più consolidata scienza giuridica, intende condurre l’ordinamento ad uno sviluppo adeguato ai rinnovati tempi e, soprattutto, alle impreteribili esigenze di tutela delle vittime delle condotte vessatorie sul posto di lavoro4. Questa evoluzione, come vedremo, trae spunto dalla normativa antidiscriminatoria di derivazione euro-unitaria e da alcune recenti pronunce della giurisprudenza italiana di merito e di legittimità, trovando soprattutto in un recente disegno di legge presentato in Senato e nella ratifica ed esecuzione di un importante trattato internazionale una sua possibile ed immediata concretizzazione.
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Si tratta delle proposte di legge C. 1722 Rossini ed altri, C. 1741 De Lorenzo ed altri, C. 2311 Serracchiani ed altri, C.2207 Boldrini. Il riferimento è ai disegni di legge S. 1339 Conzatti ed altri, S. 1350 Castiello ed altri. In particolare, si fa riferimento alle audizioni svolte presso la XI Commissione - Lavoro Pubblico e Privato della Camera dei Deputati, svolte in data 4 febbraio 2020, in data 18 febbraio 2020 e in data 24 febbraio 2020 sui disegni di legge C. 1722 Rossini, C. 1741 De Lorenzo e C. 2311 Serracchiani. Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining, Giuffrè-Francis Lefebvre, 2019; Tambasco, Considerazioni tecnicogiuridiche in tema di danno da mobbing e da straining, in Ege, La valutazione peritale del danno, cit., 200 ss.
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Prima di esaminare lo stato dell’arte nella fucina del legislatore – con particolare riguardo alle misure giudiziali di contrasto in materia civile5, angolo visuale adottato dalla presente analisi – è tuttavia opportuno fare un passo indietro.
2. Panmobbismo e dogmi giurisprudenziali. Il dibattito nella materia delle violenze, delle vessazioni e delle molestie sul posto di lavoro è stato dominato, per molti (forse troppi) anni, dalla “scoperta” del fenomeno del mobbing ovverosia di una categoria esplicativa propria delle scienze etologiche che è stata trasposta, con gli opportuni adattamenti, alle comunità lavorative umane6. Si è trattato – non lo vogliamo mettere in dubbio né ripudiare oggi – di un’acquisizione indubitabilmente importante per la psicologia del lavoro e per la scienza giuridica; acquisizione che ha certamente fruttificato, tanto sul terreno epistemico (un tempo oggetto soltanto di riso amaro, se si pensa al personaggio cinematografico di Fantozzi, mobbizzato ante litteram7), quanto sul terreno più concreto della tutela (con la sanzione di atti datoriali apparentemente leciti, ma inquadrati in una cornice persecutoria8). Non dimentichiamo, inoltre, come sul tronco del mobbing9 si sia articolato il ramo dello straining10, funzionale
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Rigettiamo, infatti, l’approccio penalistico alla materia facendo nostre le considerazioni contenute nella relazione introduttiva al disegno di legge S. 1350 Castiello, presentato in Senato il 20 giugno 2019: «apparendo inopportuno incrementare il sistema di panpenalismo tanto dannoso all’effettivo funzionamento della giustizia, anche perché è evidente che se il comportamento mobbizzante viene posto in essere attraverso atti che già di per sé costituiscono reato (ad esempio, ingiurie) oppure provoca conseguenze rilevanti sul piano penale (ad esempio lesioni personali, volontarie o colpose) tali condotte sono direttamente sanzionate in sede penale». 6 Si fa riferimento, in particolare, alle ricerche e teorizzazioni di Heinz Leymann, universalmente riconosciuto come il “padre del mobbing”. Si veda, in particolare, Leymann, Mobbing. Psychoterror am Arbeitsplatz und wie man sich dagegen wehren kann, Reinbek, Rowohlt, 1993; Leymann, The Content and Development of Mobbing at Work, in European Journal of Work and Organizational Psychology, 1996, vol. 5, n. 263; Leymann, Guastafsson, Mobbing at Work and the Development of Post-traumatic Stress Disorders, in European Journal of Work and Organizational Psychology, 1996, vol. 5, n. 2 7 Il riferimento è alla famosa sentenza del Trib. La Spezia, sez. lav., 1° luglio 2005, n. 294 in Ege, La valutazione peritale del, cit., 47: «Per far comprendere anche all’uomo qualunque cos’è il mobbing, basta ricordare la figura del ragionier Fantozzi, relegato in un sottoscala dal tirannico capoufficio. Si tratta sicuramente del più famoso “mobbizzato” d’Italia che tuttavia non ha mai saputo di esserlo perché negli anni in cui la trasposizione cinematografica delle sue avventure divertiva gli spettatori, il mobbing non era ancora studiato come fenomeno sociale in grado di causare gravi danni alla salute dei lavoratori». 8 Si rimanda, ex plurimis, alla nozione esposta nella sentenza del Trib. Torino, sez. lav., 18 dicembre 2002, in GC, 2003, 2463, secondo cui: «Se dunque mobbing è un processo, o forse meglio un progresso, di violenza da una parte e di sofferenza dall’altra, bisognerà saper leggere tutta la vicenda nel suo insieme, ed in essa collocare anche comportamenti formalmente legittimi, da un punto di vista oggettivo, i quali però assumono un significato diverso perché “tappe” di una strategia prefigurata. Il mobbing può realizzarsi, come sottolinea la dottrina, anche attraverso un provvedimento imprenditoriale formalmente giustificato, un atto di amministrazione del rapporto di lavoro conforme allo schema legislativo, un atteggiamento normalmente tollerato nelle relazioni interpersonali che potrebbero nondimeno essere collocati in un programma di persecuzione e di molestia psicologica… La figura del danno da mobbing costituisce invece una sicura ed innovativa acquisizione in termini di tutela quando non siano accertabili atti o provvedimenti del datore di lavoro provvisti di efficacia negoziale, che il giudice possa individuare o rimuovere». 9 Sulla nozione di mobbing e sui sette parametri di riconoscimento, si rimanda ad Ege, La valutazione peritale del danno, cit., 65 e ss. 10 Categoria creata dalla scienza psicologica, si veda Ege, Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Franco Angeli, 2005, e recepita per la prima volta dalla giurisprudenza nella nota sentenza del Trib. Bergamo, 20 giugno 2005, n. 286, che descrive in modo cristallino la differenza tra il mobbing e lo straining: «Il cosiddetto mobbing consiste in una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare
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a comprendere e a garantire situazioni – quali ad esempio le dequalificazioni professionali – che sebbene gravemente pregiudizievoli, non avevano “copertura” alcuna in ragione dell’assenza del requisito della frequenza, trattandosi di singole condotte non reiterate ma con effetti dannosi permanenti. Ne è nata tuttavia una prassi deteriore – soprattutto da parte degli operatori giuridici – che ha portato ad un vero e proprio “panmobbismo”, spesso promuovendo contenziosi giudiziali in cui si è invocato il mobbing a sproposito – se non addirittura temerariamente – in presenza di singoli provvedimenti datoriali o addirittura di semplici discussioni o incomprensioni lavorative. Di qui, il passo è breve, l’atteggiamento rigorista della giurisprudenza italiana la quale, pur attuando una meritoria opera di interpretazione “inventiva”11 dell’art. 2087 c.c., ha tuttavia costruito una fattispecie che, alla prova dei fatti, si è tradotta in un’impervia montagna da scalare per le numerose vittime delle vessazioni lavorative12. Questa, dunque, è la fotografia dei principi consolidati i quali, in assenza di uno specifico intervento legislativo nella materia delle vessazioni e delle condotte ostili sul lavoro, si sono cristallizzati per via giurisprudenziale nel corso degli anni, corroborati anche dalla dottrina dominante13: – Gli imprescindibili elementi costitutivi della fattispecie sono quattro: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi14;
alla vittima danni di vario tipo e gravità. Tale fenomeno si distingue dal cd straining che è costituito da una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo straining in persistente inferiorità. Pertanto mentre il mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso del demansionamento)». 11 Intesa come inventio, ovvero scoperta, recupero dell’esistente, secondo l’insegnamento di Grossi, L’invenzione del diritto, Laterza, 2017, X: «il diritto quale risultato di una invenzione, percepito cioè non come qualcosa che si crea da parte del potere politico ma come qualcosa che si deve cercare e trovare (secondo il significato dello invenire latino) nelle radici di una civiltà, nel profondo della sua storia, nella identità più gelosa di una coscienza collettiva; e ne debbono essere inventori, fuori della vulgata corrente, in primo luogo i legislatori, ma, poi, anche i giuristi teorici e pratici nella loro complessa funzione». 12 Sul rigetto di numerosi ricorsi giudiziali a causa soprattutto della mancata prova dell’elemento soggettivo, ovverosia dell’intento persecutorio, si veda Meucci, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, 2012, 103 e ss. e nota 60. Una rassegna delle più recenti sentenze emesse in materia di mobbing si può rinvenire in Colantonio, Storie di mobbing – 89 sentenze, Iemme edizioni, 2020. 13 Si citano, ex plurimis, Bona-Monateri-Oliva, Mobbing. Vessazioni sul luogo di lavoro, Giuffrè, 2000; Bona-Monateri-Oliva, La responsabilità civile nel mobbing, Ipsoa, 2007; Tronati, Mobbing e straining nel rapporto di lavoro, Ediesse, 2007; Tronati, Il disagio lavorativo - Mobbing, straining e stress lavoro correlato nel rapporto di lavoro, Ediesse, 2016; Tosi (a cura di), Il mobbing, Giappichelli, 2004; Del Punta, Il mobbing: l’illecito e il danno, in Scritti in onore di Giuseppe Suppiej, Cedam, 2005, 287-320; Del Punta, Diritto del lavoro, Giuffrè - Francis Lefevbre, 2020, 614 e ss.; Mazzamuto, Il mobbing, Giuffrè, 2004; Aa. Vv., Mobbing, Organizzazione, Malattia professionale, in QDLRI, 2006, n. 29. 14 Cass., 26 marzo 2010, n. 7382; Cass., 21 maggio 2011 n. 12048; Cass., 15 febbraio 2016 n. 2920; Cass., 20 novembre 2017, n. 27444;
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– Tutti gli elementi della fattispecie giurisprudenziale del mobbing devono essere allegati e provati dal lavoratore ex art. 2697 c.c., implicando per il giudice la «necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla»15; – Il mobbing non è riconducibile a mera colpa, occorrendo quindi la prova di un intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi16; – La responsabilità per danno da mobbing può essere invocata dal lavoratore sia a titolo contrattuale, ai sensi degli artt. 1375 c.c. e 2087 c.c., sia a titolo extracontrattuale, ai sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c.17; – Lo straining è una forma attenuata di mobbing, rientrante dunque anch’esso nel paradigma dell’art. 2087 c.c.18.
3. Carenze. Già in altre sedi abbiamo denunciato come il contrasto delle condotte vessatorie sul posto di lavoro sia stato da anni delegato ad un’opera di “supplenza giurisprudenziale”19. Un’opera certamente meritoria della magistratura italiana che ha tuttavia operato – ed opera tutt’oggi – con strumenti datati e non più adeguati alle moderne esigenze di protezione. Partiamo dalla stessa “sintassi” insita nell’applicazione dell’art. 2087 c.c., che ha attratto la questione nel baricentro contrattuale del rapporto creditore/debitore: si tratta di una prospettiva che, seppur corretta su un piano eminentemente teorico (ci troviamo indubitabilmente dinanzi alla violazione di obbligazioni contrattuali), non coglie però la vera essenza e l’effettiva drammaticità del fenomeno. Chiunque abbia infatti avuto un minimo di confidenza con le tematiche relative alle vessazioni sul posto di lavoro sa benissimo di cosa stiamo parlando: in primo piano non ci sono questioni patrimoniali o rapporti di credito/debito. Siamo, al contrario, dinanzi a situazioni di autentico terrore lavorativo20, che sono ben rappresentate dal termine “molestia”.
Cass., 23 giugno 2020, n. 12364. Cass., 26 marzo 2010, n. 7382; Trib. Roma, sez. lav., 10 giugno 2014. 16 Cass., 20 novembre 2017, n. 27444; Cass., 23 marzo 2020, n. 7487. 17 Trib. Forlì, sez. lav., 15 marzo 2001; Trib. La Spezia, sez. lav., 1° luglio 2005. 18 Cass., 19 febbraio 2018, n. 3977. 19 Si tratta delle note congiunte presentate dagli scriventi in sede di audizione informale dinanzi alla XI Commissione Lavoro Pubblico e privato della Camera dei Deputati, in data 18 febbraio 2020, reperibile on line sul sito www.camera.it. 20 Il riferimento al «terrore psicologico sul posto di lavoro» è presente nella definizione di mobbing data da Leymann nel 1996, in Mobbing. Psychoterror am Arbeitsplatz und wie man sich dagegen wehren kann, Reinbek, Rowohlt. Chi scrive, tuttavia, ritiene più pertinente l’immagine di “guerra sul lavoro” in cui, tramite violenza psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette ad esaudire la volontà di uno o più aggressori; si veda Ege, Mobbing: conoscerlo per vincerlo, Franco Angeli, 2001. 15
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Per cominciare, cambiamo dunque il lessico21: abbiamo di fronte a noi molestati e molestatori, non debitori e creditori. Si tratta di un’importante operazione non solo grammaticale, ma anche e soprattutto epistemica. Questa, dunque, è la prima necessaria premessa. Andiamo avanti, e poniamo mente alla prassi dei contenziosi trattati nelle aule di giustizia. Chi abbia dovuto fronteggiare i propri molestatori in sede giudiziale sa bene che si tratta di un autentico calvario: un onere della prova rigorosissimo, che la giurisprudenza ha dedotto dai principi generali in materia di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, da cui deriva per le vittime di molestia la necessità di scalare una montagna ripidissima, i cui passaggi sono la prova piena dei fatti (nella loro articolazione sistematica e reiterata), la prova dell’intento persecutorio del molestatore22, l’esistenza dei danni patrimoniali e non patrimoniali eventualmente patiti ed il nesso eziologico tra evento lesivo e condotte vessatorie. Si tratta, come dimostra l’altissimo numero dei ricorsi rigettati (basti sfogliare un qualsiasi repertorio di giurisprudenza di merito o di legittimità per averne contezza), di un onere molto arduo da assolvere: non solo per la strutturale complessità della fattispecie ma anche e soprattutto per il clima in cui frequentemente si colloca la vicenda. Un clima, è il caso di precisarlo, il più delle volte omertoso, in cui si assiste non di rado ad una tremebonda sfilata di statuine, tutte uguali ed ugualmente terrorizzate: è il muro di gomma dell’omertà lavorativa. Non è tutto. Quand’anche la vittima in cordata con il proprio difensore riuscisse a raggiungere la cima dopo questa durissima scalata, godendo la vista della cristallina prova delle vessazioni subite, rischierebbe tuttavia di precipitare nuovamente tra le rocce di un risarcimento tanto difficile da provare quanto irrisorio23, poiché orientato da un’ottica meramente compensativa. È peraltro opportuno sottolineare come l’ambito in questione sia peculiare rispetto alle situazioni standard della responsabilità civile: in questo campo infatti, il danno da mobbing e da straining ha una natura singolare e sui generis, producendosi un grave ed ulteriore pregiudizio rappresentato dall’impossibilità per la vittima – nella quasi totalità dei casi – di ricollocarsi sul mercato del lavoro24. Con tutte le ovvie e prevedibili conseguen-
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Irti, Riconoscersi nella parola, Il Mulino, 2020, 81 e ss., che sottolinea la centralità della lingua nel diritto, evidenziando la “linguisticicità del diritto”: «Tutto nel diritto è parola; nulla, nel diritto e per il diritto, può uscire fuori dalla parola… Il problema del diritto s’identifica appieno con il problema del linguaggio». 22 Una severa critica soprattutto sull’elemento soggettivo dell’intento persecutorio, che condiziona gravemente la possibilità di provare la condotta vessatoria e di conseguire la correlativa tutela è rinvenibile in Meucci, Danni da mobbing e loro risarcibilità, cit., 107-109. 23 Sulla esiguità dei risarcimenti è concorde anche Meucci, Danni da mobbing e loro risarcibilità, cit., 301, secondo cui «Quello che sorprende dallo spoglio ed esame delle fattispecie giudiziarie concernenti lesioni dei diritti della personalità, oggetto di risarcimento… è l’esiguità dell’indennizzo, in senso assoluto, e massimamente in senso comparativo, se come termini di raffronto si prendono similari fattispecie verificatesi nel contesto anglosassone o americano (al cui cospetto i nostri indennizzi si rivelano irrisori) ove più elevata è la cultura del rispetto dei diritti della personalità e dell’integrità psicofisica degli individui». 24 Ege, La valutazione peritale del danno, cit., 142-145.
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ze in ordine alla capacita reddituale futura ed alla residua qualità della vita del soggetto molestato. Questo, dunque, è il terreno su cui deve intervenire con forza ed efficacia l’opera del legislatore, utilizzando necessariamente strumenti nuovi e più incisivi rispetto a quelli tradizionali.
4. Evoluzione del concetto di mobbing e di straining: della natura discriminatoria e dell’uso della categoria della molestia.
La quotidiana esperienza clinico-forense degli ultimi vent’anni ha apportato allo studio dei fenomeni in esame nuovo materiale, che ha consentito a chi scrive di ridefinirne completamente i contorni25, mettendo in dubbio consolanti ma paralizzanti “verità”. Cercheremo, negli angusti limiti del presente contributo, di focalizzare alcuni aspetti fondamentali che permettono di affermare come oggi si sia giunti ad un nuovo importante e differente arresto. Soffermiamoci, dunque, su un punto nodale: la prassi concreta insegna che in tutti i casi di condotte vessatorie mobbizzanti (o strainizzanti) è sempre in atto una dinamica discriminatoria rivolta verso uno specifico soggetto o gruppo di soggetti26. Il discrimen, ovverosia il differenziare una o più persone in ragione delle proprie qualità personali (intuitu personae) per sottoporle ad un trattamento lavorativo deteriore, è proprio l’essenza del mobbing (e dello straining)27. L’intento persecutorio, infatti, è sempre intuitu personae, avendo necessariamente un effetto discriminatorio soggettivo: la vittima di condotte mobbizzanti o strainizzanti è “nel mirino” del mobber sempre per ragioni personali (ovverosia, le «condizioni personali e sociali» di cui all’art. 3 Cost.), spesso le più disparate: mi è antipatico, è il più bravo, è iscritto al sindacato, è straniero, è in una condizione personale di opposizione alle politiche aziendali perché, ad esempio, ha denunciato l’ultima gara di affidamento dei servizi in appalto et cetera. Con un semplice sillogismo possiamo dunque arrivare alla nostra conclusione: se per il mobbing (e lo straining) è sempre necessario un intento persecutorio e se l’intento persecutorio ha in ogni caso un effetto discriminatorio soggettivo, allora tutti i casi di mobbing
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Ege, La valutazione peritale del danno, cit. Già nel 2005, allorquando si coniò la nozione di straining, era stato evidenziato come il quid pluris della fattispecie fosse l’intento discriminatorio del soggetto agente; trattando del caso di Emma, si rilevò come peculiare la discriminazione di cui lei, e soltanto lei, era stata vittima, attraverso un trattamento iniquo ed umiliante, unica a dover occupare un ufficio malmesso in via di smantellamento, unica privata della connessione ad Internet, unica a non aver ricevuto alcuna proposta di buonuscita, Ege, Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità, cit., 61 ss. 27 Ege, La valutazione peritale del danno, cit., 91 ss. 26
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e di straining si traducono sempre in discriminazioni soggettive (ovvero in discriminazioni per fattori soggettivi vietati). Quali sono le discriminazioni giuridicamente rilevanti? È presto detto: si tratta di tutte quelle disparità di trattamento, dirette o anche solo indirette, dovute ai cosiddetti fattori normativamente vietati: la religione, il sesso, la nazionalità, la razza, l’etnia, gli handicap, l’età, l’orientamento sessuale, le convinzioni personali, le opinioni politiche e sindacali, le caratteristiche genetiche, le condizioni personali e sociali. Tali fattori si desumono dall’art. 3 della Costituzione, nonché dalla normativa antidiscriminatoria italiana (art. 15 st. lav., d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215, d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198), comunitaria (art. 21 Carta dei Diritti Fondamentali UE) ed internazionale (art. 14 Cedu). Del resto, i suddetti fattori di discriminazione proprio alla luce della formula aperta dell’art. 3 Cost. che fa riferimento all’ampio novero delle «condizioni personali e sociali» e dell’art. 14 Cedu che apre «ad ogni altra condizione» non costituiscono un numero chiuso tassativo, come peraltro confermato anche da una parte della giurisprudenza italiana, sia di legittimità che di merito28. Ecco dunque evidenziato l’intimo ed ontologico nesso tra mobbing/straining e discriminazione; ecco chiarito perché riteniamo come, anche sul piano giuridico, la disciplina applicabile ai casi di vessazioni sul posto di lavoro sia quella antidiscriminatoria, con tutte le conseguenze che vedremo nel seguito in termini di costruzione della fattispecie, di oneri probatori e di compendi risarcitori. Dunque, lo scopo di questo “mutamento di paradigma”, l’effetto di questa evoluzione del modello originario è lo spostamento dalla mera trasposizione nel mondo del diritto del modello scientifico creato dalla psicologia del lavoro, al filtraggio della realtà fenomenica attraverso l’occhiale giuridico29, al fine di selezionare i beni giuridici da tutelare e le tecniche di tutela più adatte, sotto l’egida della stella polare, ovvero il principio di effettività. Seguendo il cammino dell’effettività arriveremo dunque al cospetto dei principi di dignità e di eguaglianza – quest’ultima intesa come parità di trattamento e divieto di discriminazione – ed i cui strumenti di tutela, in questa nuova visione, sono proprio le norme della disciplina antidiscriminatoria di derivazione comunitaria. Il mobbing e lo straining, termini scientifici propri della psicologia del lavoro, si trasformano così nel mondo del diritto – attraverso il filtro antidiscriminatorio – in “molestie”, ovvero in «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all’articolo 1, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima
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Cass., 5 novembre 2012, n. 18927; Trib. Milano, sez. lav., 22 agosto 2014; Trib. Civitavecchia, sez. lav., 1° marzo 2018; contra App. Brescia, 3 luglio 2019, n. 294, in De Jure; Corte Giust. 18 dicembre 2014, C-354/13, FOA; Corte Giust. 18 marzo 2014, C-363/12, Z.; In dottrina, per la natura non tassativa dei fattori di discriminazione, si veda Lassandari, La nuova disciplina dei licenziamenti e il divieto di discriminazioni, in Aa.Vv., Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto derogabile, Ediesse, 2017, 206-210; Barbera, Il cavallo e l’asino. Ovvero dalla tecnica della norma inderogabile alla tecnica antidiscriminatoria, in Aa.Vv., Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto derogabile, cit., 29. Contra, sulla tassatività dei fattori di discriminazione, Novella, La prova della discriminazione nel rapporto di lavoro, in Aa.Vv., Le prove nel processo del lavoro, Giuffrè - Francis Lefevbre, 2021, 529532; Ballestrero, Tra discriminazione e motivo illecito: il percorso accidentato della reintegrazione, in GDLRI, 2016, 242. 29 Icastica immagine ispirata da Irti, Diritto senza verità, Laterza, 2011, 53 e 57.
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intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo» (art. 2 comma 3 d.lgs. 216/2003), cui sono equiparati anche gli «ordini di discriminare» di cui al successivo comma 430. A rafforzare tale conclusione soccorre anche lo studio giuridico comparativo che evidenzia come nei paesi in cui una disciplina specifica è stata approntata, si è parlato proprio di molestie, ovvero di “harcélement moral” o di “harassment act” (si veda ad esempio in Francia la Legge 2002 n. 73 del 17 gennaio 2002 e nel Regno Unito il Protection from Harassment Act, approvato in data 21 marzo 1997). Sintassi giuridica mutuata dalla nota definizione data al fenomeno del mobbing da Marie France Hirigoyen, la quale ha coniato il concetto di “molestia sul lavoro”, intesa come «qualunque condotta impropria che si manifesti, in particolare, attraverso comportamenti, parole, atti, gesti, scritti capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica o psichica di una persona, di metterne in pericolo l’impiego o di degradare il clima lavorativo»31. Lo strumento giuridico della molestia, così come delineato dal citato art. 2 comma 3 d.lgs. 216/2003 (o dall’art. 26 d.lgs. 198/2006 nel caso di specifica connotazione sessuale o dall’art. 2 comma 3 d.lgs. 215/2003 nell’ipotesi di specifica connotazione etnico-razziale), si apre ad ogni tipo di discriminazione, anche atipica rispetto al novero dei fattori disegnati dall’art. 1, mercé – come abbiamo poc’anzi visto – la doverosa integrazione ermeneutica delle «condizioni personali e sociali» dell’art. 3 Cost. e di «ogni altra condizione» di cui all’art. 14 Cedu. Il mobbing, lo straining e le “altre condotte vessatorie” individuate dalla giurisprudenza vengono così colate nell’unitario stampo della molestia, idoneo a conferire loro una tutela effettiva ed una regolamentazione speciale e rafforzata. Il “mutamento di paradigma” di cui abbiamo parlato prima con riferimento all’evoluzione del modello originario, produce ora un “effetto domino” su molteplici piani: analizziamoli. La fattispecie, che nel mondo naturalistico consta di un elemento oggettivo (pluralità di condotte vessatorie reiterate nel tempo quanto al mobbing o unica condotta con effetti permanenti quanto allo straining) e di un elemento soggettivo (l’intento persecutorio), nel mondo giuridico perde il profilo soggettivo dell’agente, atteso che il diritto antidiscriminatorio «opera obbiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro» (Cass., 5 aprile 2016, n. 6575). Ne consegue che la prova dell’intento persecutorio è del tutto estranea alla disciplina antidiscriminatoria, non dovendo la vittima di molestie provare la sussistenza di tale intento. Si alleggerisce notevolmente l’onere probatorio per la vittima, attraverso una prova attenuata sufficiente a fornire «elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai
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In senso analogo, si veda anche Meucci, Danni da mobbing e loro risarcibilità, cit., 57-58. Hirigoyen, Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro, Einaudi, 2000, 53.
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trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori» (art. 40 d.lgs. 198/2006 in materia di molestie di genere; in modo analogo anche l’art. 28 comma 4 d.lgs. 150/2011, richiamato dalle molestie di cui ai d.lgs. 215 e 216 del 2003). In questi casi, spetterà al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della molestia (art. 40 d.lgs. 198/2006; art. 28 comma 4 d.lgs. 150/2011)32. Si apre l’ordinamento giuridico al danno punitivo, ovverosia al risarcimento del danno non solo effettivo ma anche dissuasivo, mercé il collegamento della normativa nazionale antidiscriminatoria al referente eurocomunitario, di cui la disciplina interna ne è l’attuazione. Facciamo riferimento, in particolare, all’articolo 17 della direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 200033, che stabilisce come le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme antidiscriminatorie debbano essere effettive, proporzionate e dissuasive. La natura punitivo/dissuasiva del risarcimento in materia, confermata direttamente anche dalla giurisprudenza di merito intervenuta sul tema34, ha il suo fondamento nell’importante principio affermato dalle Sezioni Unite35, le quali accanto alla funzione reintegratorio-compensativa del sistema italiano di risarcimento del danno, rappresentata appunto dai due poli opposti del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale, hanno affiancato la funzione sanzionatorio-punitiva: è la cosiddetta natura “polifunzionale” del sistema risarcitorio. Questi, dunque, i rilevanti effetti giuridici della nuova impostazione teorica che potrebbero già essere recepiti a livello giurisprudenziale, senza necessità alcuna di intervento legislativo e soltanto attraverso un’operazione ermeneutica costituzionalmente conforme, ispirata al principio di effettività36: il cerchio della piena tutela è chiuso.
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Secondo Maniaci, Onere della prova e strategie difensive, Giuffrè - Francis Lefevre, 2020, 91-92, più che un’inversione dell’onere della prova rappresenterebbe una modificazione o un alleggerimento del carico probatorio quasi a livello di semiplena probatio. 33 Così recita testualmente l’art. 17 Dir. 2000/78/Ce: «Le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni, devono essere proporzionate, effettive e dissuasive». 34 Trib. Pistoia, 8 settembre 2012; si vedano anche le tabelle del Tribunale di Milano 2018, che ammettono l’aumento del danno non patrimoniale in ragione della peculiare gravità del fatto. Da ultimo una recente pronuncia del Trib. di Ferrara, 31.03.2021, est. Bighetti, nell’accogliere l’azione ex art. 37 comma 4 dlgs. 198/2006 promossa dalla Consigliera per la Parità della Regione Emilia-Romagna per l’accertamento della discriminatorietà di genere del regolamento di una cooperativa di pescatori, ha liquidato a titolo “dissuasivo” un risarcimento del danno per l’ammontare di € 20.000,00 a favore dell’ufficio della consigliera. 35 Cass., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601. 36 Sul ruolo nodale del principio di effettività anche e soprattutto nella fase di interpretazione della norma, quale verifica dell’adeguatezza del mezzo di tutela rispetto alla situazione lesa ed al contempo strumento di integrazione delle carenze dell’ordinamento giuridico, attraverso il ricorso ad una pluralità di fonti, anche comunitarie ed internazionali, in uno spazio necessariamente “reticolare” e “multilivello”, si rimanda alla stimolante opera di Vettori, Effettività fra legge e diritto, Giuffrè - Francis Lefebvre, 2020. Sull’interpretazione adeguatrice conforme ai valori costituzionali nella giurisprudenza del lavoro, si rimanda al recente saggio di Roselli, Il declino del formalismo giuridico e la giurisprudenza del lavoro, Giuffrè - Francis Lefebvre, 2021, 93 ss. In giurisprudenza, una recente e dotta pronuncia di merito che ha fatto concreta applicazione del principio di effettività, enunciandone i presupposti costitutivi, è la sentenza del Trib. Milano, sez. lav., 14 ottobre 2020.
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5. Una conferma a livello internazionale: la Convenzione
OIL n. 190 e la Raccomandazione OIL n. 206 approvate il 21 giugno 2019. Un importante e concorde segnale della correttezza dell’approccio teorico-giuridico testé enunciato proviene dalla recente elaborazione normativa adottata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) in occasione del proprio centenario, attraverso l’approvazione della Convenzione n. 190 sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro e della relativa Raccomandazione n. 20637, entrambe promulgate il 21 giugno 2019 nel corso della centottesima sessione38. L’impostazione dello strumento normativo è netta: attraverso un’azione sviluppata a livello internazionale (la natura della Convenzione e della Raccomandazione è infatti quella del Trattato Internazionale) l’OIL si prefigge di realizzare un «mondo del lavoro libero da violenza e molestie» per mezzo di «un quadro normativo chiaro e comune», fornendo «strumenti normativi che resisteranno alla prova del tempo»39. L’approccio, dunque, è quello della «tolleranza zero», considerando tuttavia che «questi fenomeni si manifestano in diverse forme e contesti», privando «le persone della loro dignità», in quanto «incompatibili con il lavoro dignitoso e con la giustizia sociale»40. Uniformando tutti gli ordinamenti giuridici nazionali al fine rendere effettivo il diritto di ogni lavoratore a vivere in un mondo del lavoro libero da violenza e molestie, la Convenzione 190/2019 OIL e la relativa Raccomandazione 206/2019 OIL – che ribadiamo avere il rango di trattati internazionali – si basano su un concetto unico di violenza e molestie, inteso come «un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere» (art. 1 comma 1 lett. a Convenzione 190/2019 OIL). Si tratta di una nozione “a maglie larghe”, tale da ricomprendere ogni tipo di condotta lavorativa lesiva della dignità personale, sia singola sia reiterata nel tempo, sia tentata sia compiuta effettivamente. È una nozione, soprattutto, che prescinde dalla ricerca di un qualsivoglia intento vessatorio soggettivo ma che al contrario si concentra, pragmaticamente, sugli oggettivi effetti lesivi della condotta. Viene dunque totalmente recepita l’impostazione che abbiamo visto poc’anzi essere comune a diversi Paesi, i quali lungi dal codificare una specifica fattispecie di violenza sul posto di lavoro (cristallizzandola nel mobbing piuttosto che nello straining, nel bossing
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In particolare, le disposizioni della Raccomandazione 206/2019 OIL integrano quelle della Convenzione 190/2019 OIL e devono essere considerate congiuntamente, a norma dell’art. 1 Raccomandazione 206/2019 OIL. Per un primo commento, si rimanda a Scarponi, La convenzione n. 190/2019 OIL su violenza e molestie nel lavoro e i riflessi nel diritto interno, in RGL, 2021, n. 1, I. 38 L’entrata in vigore della Convezione 190/2019 e della Raccomandazione 206/2019 è prevista per il 25 giugno 2021; ad oggi è stata ratificata dalla Namibia, dall’Uruguay, dalle Fiji e da ultimo dall’Italia. 39 Facciamo riferimento alla prefazione di Guy Ryder contenuta nella pubblicazione della Convenzione 190/2019 e della Raccomandazione 206/2019 a cura dell’OIL, Eliminare la violenza e le molestie nel mondo del lavoro, 2019, 7. 40 Ryder, in Eliminare la violenza e le molestie nel mondo del lavoro, OIL, 2019, 7.
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piuttosto che nello stalking) o definire analiticamente una lista più o meno ampia di singole e concrete azioni vessatorie, hanno optato per l’utilizzo dell’ampia ed unitaria nozione di “harcélement moral” o di “harassment act”. Del resto, che questa tecnica normativa fondata su clausole generali sia più adatta a coprire ogni possibile forma di violenza lavorativa resistendo così all’usura del tempo è dimostrato espressamente, mutatis mutandis, proprio dal successo operativo che ha avuto l’art. 2087 c.c. nel sistema italiano di protezione della sicurezza sul lavoro, la cui fattispecie ha un’analoga strutturazione. È altresì opportuno sottolineare come l’allegata Raccomandazione 206/2019 OIL, nell’ambito dei principi generali, obblighi i Paesi membri a trattare la violenza e le molestie nel mondo del lavoro nel corpo della legislazione relativa anche «all’eguaglianza e alla non discriminazione» (art. 1, comma 2, Raccomandazione 206/2019 OIL), stabilendo in questo modo un esplicito legame tra violenza sul lavoro e discriminazione, che abbiamo visto in precedenza essere proprio l’elemento discretivo di tali condotte. Andiamo avanti. Al di là dell’esteso raggio normativo adottato, volto a coprire ogni tipologia di rapporto lavorativo ed ogni occasione anche esterna ai luoghi di lavoro41, ciò che risalta nella prospettiva applicata al presente studio è la previsione di misure di contrasto e di protezione atte a garantire «meccanismi di ricorso e di risarcimento adeguati ed efficaci», nonché «meccanismi e procedimenti di denuncia e di risoluzione delle controversie nei casi di violenza e di molestie nel mondo del lavoro che siano sicuri, equi ed efficaci»42. Si tratta di un’importante petizione di principio, che ribadisce la centralità del principio di effettività quale nucleo ed al contempo criterio cardine della politica di “tolleranza zero” nei confronti della violenza e delle molestie sul lavoro. Principio da cui gemmano, a guisa di corollari naturali, concrete ed utili indicazioni di contrasto e di protezione giudiziale, quali la tutela contro le ritorsioni nei confronti dei querelanti, delle vittime, dei testimoni e degli informatori43, l’utilizzo dello strumento dell’inversione dell’onere della prova44, l’invito a prevedere risarcimenti dei danni adeguati45 nonché l’istituzione di misure sanzionatorie46, il diritto alle dimissioni con indennità47, il trattamento tempestivo ed efficace dei
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La tutela si estende infatti a tutti i datori di lavoro e a tutti i lavoratori del settore sia pubblico che privato, indipendentemente dallo “status contrattuale” (dunque indifferentemente subordinati, autonomi, parasubordinati, o “in nero”), fino a ricomprendere anche le persone alla ricerca di un impiego o candidate a un lavoro, nonché i tirocinanti, gli apprendisti e i volontari (art. 2 Conv. 190/2019 OIL). Sul piano oggettivo, la disciplina si applica a tutte le molestie e le violenze che si verifichino non solo nel posto di lavoro, ma anche in luoghi diversi come quelli in cui riceve la retribuzione, trascorre la pausa o la pausa pranzo, quelli igienico-sanitari e gli spogliatoi, quelle subite nel corso di spostamenti, viaggi di lavoro, formazione, eventi e attività sociali correlate al lavoro (si pensi alle cene o alle convention aziendali, ad esempio), quelle subite a distanza (ovverosia in smart-working) o in alloggi messi a disposizione del datore di lavoro (art. 3 Conv. 190/2019 OIL). 42 Art. 10, lett. b) Conv. 190/2019 OIL. 43 Art. 10, lett. b), IV, Conv. 190/2019 OIL. 44 Art. 16 lett. e) Racc. 206/2019 OIL. 45 Art. 14, lett. c), Racc. 206/2019 OIL. 46 Art. 4, comma 2, lett. f) Conv. 190/2019 OIL. 47 Art. 14, lett. a) Racc. 206/2019 OIL.
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casi in sede giudiziale48 attraverso Tribunali che «posseggano esperienza di casi di violenza e molestie di genere»49. Interessante in un’ottica non solo di responsabilizzazione, ma anche di recupero e di rieducazione del soggetto che venga giudizialmente riconosciuto quale molestatore, è la previsione secondo cui «gli autori di atti di violenza e molestie nel mondo del lavoro dovrebbero essere considerati responsabili delle loro azioni» nonché l’invito ad istituire «servizi di orientamento» ed «altre misure, a seconda dei casi, al fine di prevenire il ripetersi delle violenze e delle molestie e di agevolare il reintegro al lavoro, a seconda dei casi»50. Traspare, in questo passaggio, un approccio non meramente punitivo, ma anche e soprattutto costruttivo, attraverso la duplice previsione della possibile esclusione dal posto di lavoro del molestatore e, al contempo, dell’eventuale reintegro a seguito di un reale e completo percorso riabilitativo. All’effetto dissuasivo dell’adeguata ed effettiva condanna giudiziale al risarcimento dei danni deve dunque sempre accompagnarsi una rieducazione personale del molestatore le cui condotte, spesso, hanno radici talmente profonde che l’esborso patrimoniale della sentenza risarcitoria di condanna, anche se consistente, non intacca minimamente. Questo dunque – in estrema sintesi e focalizzando l’attenzione sui punti di interesse per la presente analisi – il contenuto della disciplina internazionale recentemente approvata, in via di ratifica e di esecuzione anche nel nostro ordinamento giuridico attraverso la proposta di legge d’iniziativa della deputata Boldrini approvata sia dalla Camera dei Deputati51 che dal Senato52. Disciplina, lo ribadiamo, che non solo testimonia la correttezza dell’impostazione teorica che abbiamo da tempo adottato sul tema ma che, soprattutto, costituirà un doveroso riferimento – anche e soprattutto alla luce degli obblighi costituzionali prescritti dall’art. 117, primo comma, Cost.53 – per il legislatore italiano che dovrà regolamentare in futuro la materia.
48
Art. 16, lett. b) Racc. 206/2019 OIL. Art. 16, lett. a) Rac. 206/2019 OIL. 50 Art. 19, Racc. 206/2019 OIL. 51 La proposta di legge n. 2207 presentata alla Camera dei Deputati in data 23 ottobre 2019, d’iniziativa della deputata Boldrini, è stata approvata dalla Camera nella seduta del 23 settembre 2020. 52 Il Senato ha approvato definitivamente il disegno di legge di ratifica ed esecuzione della Convezione OIL 190/2019 nella seduta del 12 gennaio 2021, ora L. 15 gennaio 2021, n. 4, pubblicata in G.U. n. 20 del 26.01.2021 ed entrata in vigore in data 27.01.2021. 53 Ricordiamo che i trattati internazionali (se ratificati ed eseguiti nell’ordinamento giuridico nazionale) a seguito delle note sentenze della Corte Costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007, pur avendo rango sub-costituzionale, sono norme interposte tra la Costituzione e le leggi ordinarie. Nell’interpretazione della legge ordinaria, dunque, la conformità al dettato dell’art. 117, primo comma, Cost. è verificata con riferimento all’aderenza della legge ordinaria alla norma internazionale interposta. Sulla centralità dell’art. 117, primo comma, Cost, nel delineare un sistema multilivello ed una pluralità di fonti che permettono all’interprete di “inventare” (nel senso latino di invenire) la norma del caso concreto, id est la tutela meglio rispondente alle esigenze di effettività del caso singolo, si rimanda a Vettori, Effettività fra legge e diritto, cit., 39-40; 41 ss. 49
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6. Le proposte di legge attualmente in campo. Vediamo ora cosa sta accadendo tra i corridoi di Montecitorio e di Palazzo Madama54. Un primo sguardo d’insieme permette di cogliere un certo fervore, un’intensa attività che si è concretizzata in cinque disegni di legge di iniziativa parlamentare (oltre alla proposta di legge di ratifica della Convenzione OIL poc’anzi analizzata). In un tentativo alquanto sommario di sintesi, è quindi possibile riunire le cinque proposte di legge presentate nel corso della XVIII legislatura55 in tre distinti gruppi: – progetti di legge improntati ad un approccio “tradizionale”: si tratta dei disegni di legge C.1741 prima firmataria On. De Lorenzo presentato alla Camera dei Deputati il 4 aprile 2019, C.1722 primo firmatario On. Rossini presentato alla Camera dei Deputati il 1° aprile 2019 e C.2311 prima firmataria On. Serracchiani presentato alla Camera dei Deputati il 19 dicembre 201956; – progetti di legge dall’impianto “innovativo”: è certamente tale la proposta di legge S.1339 prima firmataria Sen. Conzatti, presentato in Senato il 12 giugno 2019; – progetti di legge “misti”, che si collocano a metà strada tra le due tendenze: si tratta del disegno di legge S.1350 primo firmatario Sen. Castiello, presentato in Senato il 20 giugno 2019. Precisiamo sin d’ora come il criterio discretivo che abbiamo utilizzato si fondi principalmente sull’analisi della definizione data da ciascun disegno di legge alla fattispecie base, ovverosia sulla struttura della norma che individua le condotte vessatorie giuridicamente rilevanti, facendone discendere tutti i relativi effetti. Del resto, è proprio nella costruzione della fattispecie che il legislatore opera una precisa “scelta di campo”, prevedendo classi tipiche di azioni destinate a ripetersi nel tempo, dovendo allontanarsi il più possibile dalla pedissequa riproduzione del reale e, al contempo, trovandosi nella necessità di strutturare in modo generale ed astratto un tipo di fatti
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I testi di tutte le proposte di legge esaminati nel presente saggio sono integralmente reperibili negli atti della Camera dei Deputati e del Senato, essendo pubblicati on line sui relativi siti web con l’indicazione completa ed aggiornata dell’iter parlamentare. 55 Per una disamina dei disegni di legge in materia di mobbing, straining e molestie sul lavoro presentati nelle precedenti legislature si rimanda a Meucci, Danni da mobbing e loro risarcibilità, cit., 45 e ss. 56 I tre testi, tutti finalizzati alla prevenzione e al contrasto delle violenze e delle molestie sul posto di lavoro, hanno struttura ed impianto analogo, salvo alcune distinzioni di dettaglio, soprattutto in materia di definizione della fattispecie penale e nella definizione delle misure di prevenzione e informazione. È opportuno precisare come il disegno di legge C.1741 De Lorenzo nel corso della seduta del 14 ottobre 2020 sia stato adottato quale testo base per la prosecuzione dell’iter presso l’XI Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera dei Deputati. Su questi tre disegni di legge, si segnalano i commenti di Pascucci, Le proposte di legge sul mobbing in discussione alla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, in DSL, 1/2019, 32 e ss. e di Brollo, Ancora sulle proposte di legge sul mobbing in discussione alla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, in DSL, 2/2019, 1 e ss. In particolare, riteniamo molto rilevante sia il richiamo di Pascucci all’esplicita introduzione nel corpo dell’art. 28 del d.lgs. n. 81/2007 dell’obbligo datoriale di valutazione dei rischi relativi alle condotte violente e moleste (Pascucci, Le proposte di legge sul mobbing in discussione alla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, cit., 59-60) sia la proposta della Brollo di introdurre l’istituto dell’ammonimento amministrativo da parte del Questore, che potrebbe rappresentare un efficace ed immediato strumento di tutela inibitoria, senza la necessità di passare per le “forche caudine” giudiziali (Brollo, Ancora sulle proposte di legge sul mobbing in discussione alla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, cit., 19-20).
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(appunto, una species facti) che sia tuttavia di per sé idoneo a ricomprendere – e dunque disciplinare – la maggior parte dei possibili futuri fatti concreti, affinché possa governare il divenire futuro e raccoglierlo nell’unità della forma: «I testi normativi sono come vocabolari, cataloghi, i quali, descrivendo fatti possibili, assegnano nomi e provvedono alla loro disciplina... Descrizioni e previsioni di fatti possibili servono a dettare regole… Essi non sono qualcosa di aggiuntivo, che si ponga accanto ad una realtà data, già provvista di significato giuridico, ma svolgono una funzione costitutiva, imprimono il volto del diritto, e traggono cose ed eventi sul terreno delle norme... Così l’uomo esperisce il tentativo di governare il divenire, di raccogliere nell’unità della forma gli eventi futuri»57. La costruzione della fattispecie58, dunque, è il fulcro dell’attività legislativa, è il momento in cui la materia viva viene colata nei nomodotti: dall’efficacia di tale operazione e, in definitiva, dalla buona fusione del calco normativo deriverà, dunque, la qualità dell’intero opus legislativo.
6.1. La proposta di legge C.1741 De Lorenzo e il rasoio di Ockham. Passiamo dunque all’analisi delle differenti tecniche normative utilizzate, partendo proprio da quelli definiti di impianto “tradizionale”: tra tutti esamineremo il disegno di legge C.1741 De Lorenzo, sviluppato in nove articoli ed adottato come testo base nella seduta del 14 ottobre 2020 presso l’XI Commissione permanente Lavoro pubblico e privato della Camera dei Deputati. In particolare l’art. 2 comma 1 della proposta in esame, rubricato “Definizioni”, statuisce quanto segue: «Ai fini di cui all’articolo 1, comma 1, si intendono per mobbing nel posto di lavoro le molestie morali e le violenze psicologiche di carattere persecutorio, esercitate esplicitamente o implicitamente, nonché direttamente o indirettamente, con intento vessatorio, iterativo e sistematico, che determinano eventi lesivi dell’integrità psicofisica o della dignità sociale e lavorativa della vittima, configurabili nel modo seguente: a) rimozione da incarichi; b) esclusione dalla comunicazione e dall’informazione aziendali; c) svalutazione sistematica dei risultati, attraverso il sabotaggio del lavoro, svuotato dei contenuti o privato degli strumenti necessari al suo svolgimento; d) sovraccarico di lavoro o attribuzione di compiti impropri o inattuabili in concreto, che acuiscono il senso di impotenza e di frustrazione; e) attribuzione di compiti inadeguati rispetto alla qualifica e alla preparazione professionale o alle condizioni fisiche e di salute;
57 58
Irti, Riconoscersi nella parola, cit., 59-61. Sulla tecnica giuridica della fattispecie, pregnanti considerazioni – applicabili anche al legislatore – sono svolte da Maniaci, Onere della prova e strategie difensive, cit., 13-15: «Significativamente, i giuristi non si interessano di fatti… bensì di fattispecie, consegnate come tali a un giudizio di rilevanza, che non consente di vedere che una figura, o un aspetto, o meglio uno “spicchio” della realtà (species facti): ed è solo questo che formerà oggetto della decisione, in funzione – appunto – di una qualificazione».
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f) abuso del potere disciplinare, attraverso l’esercizio da parte del datore di lavoro o dei dirigenti di azioni sanzionatorie, quali reiterate visite fiscali o di idoneità, contestazioni o trasferimenti in sedi lontane, rifiuto di permessi, di ferie o di trasferimenti, finalizzate all’estromissione del soggetto dal posto di lavoro; g) atti persecutori e di grave maltrattamento di fronte a terzi; h) molestie sessuali; i) squalificazione dell’immagine personale e professionale; l) offese alla dignità personale, attuate da superiori, da pari grado o da subordinati ovvero dal datore di lavoro». Già ad una prima lettura è chiara la duplice strutturazione della norma: ad una prima parte generale, costruita sulla definizione giuridicamente rilevante di mobbing, si giustappone una seconda costituita da un vero e proprio “catalogo” di condotte configurabili secondo il legislatore come mobbizzanti. In particolare, la fattispecie generale può considerarsi una trasposizione giuridica piuttosto fedele del modello di mobbing coniato dalla psicologia giuridica59, considerato che consta dell’elemento oggettivo della condotta vessatoria seppur genericamente definito («le molestie morali e le violenze psicologiche di carattere persecutorio, esercitate esplicitamente o implicitamente»), dell’elemento temporale della frequenza («iterativo») e della durata («sistematico»), dell’intento persecutorio («con intento vessatorio») e dell’andamento secondo fasi successive dovendo essere giunto almeno alla seconda fase, ovverosia alla presa di coscienza della lesione della propria dignità lavorativa («che determinano eventi lesivi dell’integrità psico-fisica o della dignità sociale e lavorativa della vittima»). Questo modus procedendi, se da un lato comporta la pressoché fedele cristallizzazione nel mondo giuridico della definizione di mobbing forgiata dalle scienze psicologiche, tuttavia comporta un evidente vuoto di tutela: la fattispecie generale, infatti, escluderebbe dal suo raggio operativo tanto lo straining60 (trattandosi di singole condotte vessatorie con effetti lesivi permanenti e dunque fuoriuscendo dal requisito della frequenza, ovverosia della iteratività legislativamente codificato) quanto le singole molestie e violenze (quali le aggressioni verbali, la violenza fisica, le minacce morali et cetera), anch’esse diffuse sui luoghi di lavoro e tuttavia prive della sistematicità e della ripetitività prescritta dalla norma in questione. Il catalogo delle concrete condotte mobbizzanti legislativamente tipizzate nella seconda parte dell’art. 2 – che per la maggior parte costituiscono tipologie di azioni ricomprese nel “LIPT EGE”61 – non è per nulla esplicativo ma, se possibile, complica ulteriormente le cose.
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Per un’ampia ed approfondita descrizione del modello “a sette parametri” di individuazione del mobbing e dello straining, si veda Ege, La valutazione peritale del danno, cit., 65 ss. 60 Si veda Brollo, Ancora sulle proposte di legge sul mobbing in discussione alla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, cit., 20-21. 61 Si tratta del questionario utilizzato da Leymann per la rilevazione e l’accertamento dei casi di mobbing (LIPT è infatti l’acronimo di Leymann Inventory of Psychological Terrorization), successivamente modificato ed ampliato nella versione italiana da Harald Ege – da cui il nome di LIPT EGE –, ora in Ege, La valutazione peritale del danno, cit., 241-246.
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Infatti, non è chiaro se tale elencazione costituisca una “presunzione legale” di esistenza della condotta mobbizzante o invece sia una semplice esemplificazione definitoria delle “molestie morali” e delle «violenze psicologiche di carattere persecutorio» di cui alla prima parte della norma: gli effetti sarebbero comunque deleteri. Nel primo caso, infatti, la presunzione legale darebbe luogo ad uno stridente contrasto rispetto alla fattispecie generale definitoria considerato che, ad esempio, il demansionamento – codificato nel catalogo normativo sia come «rimozione da incarichi» sia come «attribuzione di compiti inadeguati rispetto alla qualifica e alla preparazione professionale o alle condizioni fisiche e di salute» – è una condotta singola non iterativa né sistematica e, dunque, astrattamente non sussumibile nel paradigma della fattispecie definitoria. Laddove, invece, la lista dei fatti mobbizzanti fosse considerata solo un’esemplificazione dell’elemento oggettivo della fattispecie definitoria, in questo caso sorgerebbe un interrogativo che la norma lascia irrisolto: per l’integrazione del mobbing legislativamente definito è necessario e sufficiente che la condotta sia ascrivibile anche soltanto ad uno solo dei tipi catalogati nella norma o, in conformità al metodo unanimemente recepito dalla dottrina e dalla giurisprudenza, le azioni realizzate devono necessariamente appartenere ad almeno due delle categorie del “LIPT EGE”62? Osservazioni che ci riportano ad un antico adagio occamiano, applicabile anche alla dimensione giuridica: entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem; ovvero, nel mondo del diritto, così come nel mondo delle idee, è opportuno limitare le definizioni all’essenziale, evitando il più possibile sterili ed infeconde moltiplicazioni. Un altro rilievo è il caso di svolgere riguardo alla previsione, nella costruzione legislativa, anche del requisito dell’intento vessatorio: si tratta di un elemento, come abbiamo accennato, di sicuro pertinente alla nozione scientifica di mobbing ma che tuttavia rischia di rivelarsi, soprattutto sul piano probatorio e dell’effettiva tutela giudiziaria, un ostacolo difficilmente superabile dalla vittima di siffatte condotte. Abbiamo parlato dell’effettività della tutela giudiziaria; ebbene, essa si sviluppa sul piano precipuamente penalistico, con la previsione di una specifica fattispecie di reato (introducendo nel codice penale l’art. 612 ter rubricato «atti vessatori in ambito lavorativo»)63 e nell’ambito civilistico prevedendo il rito accelerato sul modello dell’art. 702 bis c.p.c. (peraltro limitato soltanto ad alcune tipologie di azioni mobbizzanti)64, l’onere probatorio attenuato analogamente all’art. 28 comma 4 d.lgs. 150/201165, la pubblicità della sentenza di condanna o di rigetto66, la nullità degli atti e dei comportamenti mobbizzanti nonché delle dimissioni rassegnate in conseguenza di mobbing67.
62
Sulla necessità che la condotta mobbizzante si sostanti in una pluralità di azioni rientranti almeno in due delle cinque categorie del LIPT EGE, si rimanda ad Ege, La valutazione peritale del danno, cit., 77-79. 63 Art. 7 comma 2, C. 1741 De Lorenzo. 64 Art. 4 comma 1, C. 1741 De Lorenzo. 65 Art. 4 comma 2, C. 1741 De Lorenzo. 66 Art. 5, C. 1741 De Lorenzo. 67 Art. 6, C. 1741 De Lorenzo.
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Se nulla di nuovo si rinviene sul piano delle misure di contrasto, al contrario sul fronte delle misure di prevenzione e di vigilanza sui luoghi di lavoro il disegno di legge manifesta un approccio proattivo prevedendo in particolare l’istituzione, presso ciascuna azienda sanitaria locale, di un centro di riferimento per il benessere organizzativo nei luoghi di lavoro costituito da specialisti di salute mentale68.
6.2. Il Disegno di legge S.1339 Conzatti: entia non sunt multiplicata. Diametralmente opposta è l’impostazione del disegno di legge S.1339 a prima firmataria la senatrice Conzatti, presentato in Senato il 12 giugno 2019, che limita all’essenziale le definizioni e gli istituti giuridici utilizzati. Si tratta, infatti, di una proposta di legge di soli quattro articoli, che opera direttamente sull’impianto del d.lgs. 216/2003, ampliando la categoria giuridica delle molestie delineata dall’art. 2 comma 3 a tutte le discriminazioni attuate sul posto di lavoro, estendendole anche alle «condizioni personali e sociali» e a «qualsiasi altra condizione», in conformità al principio di eguaglianza (di cui la parità di trattamento ed il divieto di discriminazione sono i diretti corollari) enunciato sia a livello nazionale dall’art. 3, comma 1 della Costituzione sia a livello internazionale dall’articolo 14 della Cedu, dall’articolo 2 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dall’articolo 2 del Patto Internazionale sui diritti civili. La fattispecie definitoria coniata dal legislatore è dunque la seguente: «Sono altresì considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere a causa della religione, degli handicap, dell’età, dell’orientamento sessuale, delle convinzioni personali, delle condizioni personali e sociali e di ogni altra condizione, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona o di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo»69. Facciamo un passo indietro e soffermiamoci sulla relazione introduttiva al disegno di legge, che esplica chiaramente la filosofia alla base di questa originale impostazione. Dunque, secondo i proponenti «il mobbing, lo straining e le molestie morali sul lavoro in genere sono, infatti, principalmente fenomeni di discriminazione sul posto di lavoro in cui la vittima è oggetto di un trattamento deteriore (da parte del superiore e/o dei propri colleghi) in ragione delle proprie condizioni personali e/o sociali che possono essere le più disparate, anche al di là ed oltre gli specifici fattori di discriminazione enunciati nella normativa antidiscriminatoria attualmente vigente. L’esperienza concreta della psicologia del lavoro insegna infatti che, in tutti i casi di condotte vessatorie riconducibili a mobbing o straining è sempre in atto una dinamica discriminatoria rivolta verso un preciso soggetto o gruppo di soggetti»70.
68
Art. 8, C. 1741 De Lorenzo. Risultato del combinato disposto dell’art. 2 comma 3 d.lgs. 216/2003 e dell’art. 1 comma 2, lett. d) del disegno di legge S. 1339 Conzatti. 70 Relazione introduttiva, in AS 1339 Conzatti, 2. Nel corpo della relazione si precisa altresì che, al fine di scongiurare il rischio che tale ampliamento possa comportare per converso gravi ostacoli all’organizzazione imprenditoriale dell’attività lavorativa, sono fatte salve – attraverso l’art. 1 comma 3 – tutte le differenze di trattamento le quali, per la natura dell’attività lavorativa o del contesto in cui viene svolta, siano caratteristiche essenziali e determinanti dell’attività medesima. 69
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Ne deriva, conseguentemente, che «il discrimen, ovverosia il differenziare una o più persone in ragione delle proprie qualità personali (intuitu personae) per sottoporle ad un trattamento lavorativo deteriore, è dunque l’essenza del mobbing e dello straining. Di qui, pertanto, l’esigenza di applicare al fenomeno in oggetto la normativa antidiscriminatoria, operando l’ampliamento della categoria giuridica delle “molestie” delineata dall’articolo 2, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216… a tutte le discriminazioni attuate sul posto di lavoro... la modifica … dunque, permette di utilizzare la categoria giuridica della “molestia” al fine di contrastare e reprimere, in via civilistica, i fenomeni del mobbing, dello straining e delle molestie morali in genere sul posto di lavoro»71. Nulla di più chiaro. Si tratta, dunque, di un’impostazione identica a quella adottata dagli scriventi, fondata su una concreta analisi dei fenomeni di violenza e di molestia sul posto di lavoro e su un approccio “multilivello”, che trae linfa anche dalle indicazioni della normativa comunitaria (la direttiva 2000/78/Ce e la risoluzione 2001/2339 del Parlamento Europeo), della normativa internazionale (l’art. 14 Cedu, l’art. 2 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dall’articolo 2 del Patto Internazionale sui diritti civili) e di altri ordinamenti giuridici nazionali europei (con l’esplicito richiamo alla categoria dell’harcelement moral della legge francese n. 73 del 17 gennaio 2002 e al britannico harrassment act del Protection from Harrassment act del 21 marzo 1997). Non vi è dunque nessun catalogo di azioni concretamente codificate dal legislatore ma viene invece delineata, sulla scorta del modello proposto dalla Convenzione OIL n. 190 del 21 giugno 2019, una fattispecie ampia e a “maglie larghe”, oggettivamente definita e priva di riferimenti soggettivi all’intento vessatorio, capace di ricomprendere e disciplinare tutte le possibili forme di violenza e di molestia realizzabili sul posto di lavoro, senza stringenti “camicie di forza” classificatorie. Gli effetti di questa innovativa concezione sono ancor più rilevanti. Vengono in primo luogo in rilievo, dunque, le positive conseguenze probatorie a favore delle vittime le quali non solo dovranno limitarsi a provare unicamente le condotte moleste ed i loro effetti oggettivi grazie all’esonero dall’ardua dimostrazione dell’esistenza di un intento persecutorio soggettivo ma, di più ed oltre, potranno avvalersi dell’onere probatorio attenuato72, essendo sufficienti semplici indizi ed essendo al contrario richiesta a carico del presunto molestatore la piena prova dell’inesistenza delle condotte moleste: la montagna giudiziale da scalare diventa dunque meno ripida. Il riferimento alla disciplina comunitaria ed in particolare all’art. 17 della Dir. 2000/78/ Ce che stabilisce come i risarcimenti da riconoscere in caso di violazione delle norme antidiscriminatorie debbano essere anche dissuasivi oltre che effettivi e proporzionati, ha condotto il legislatore a creare una rivoluzionaria disposizione73 in cui, oltre al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in ottica compensativa, è previsto nei confronti
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Relazione introduttiva, in AS 1339 Conzatti, 2. Il riferimento è all’art. 4 comma 2 d.lgs. 216/2003 e, indirettamente, al richiamato art. 28 comma 4 d.lgs. 150/2011, applicabile attraverso la proposta in oggetto. 73 Art. 2 comma 1, S. 1339 Conzatti. 72
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di ciascun soggetto convenuto e condannato per molestie lavorative il pagamento di una sanzione, a favore della vittima, commisurata alla retribuzione lorda annua della vittima stessa, in misura che il giudice dovrà liquidare discrezionalmente da un minimo del 50 per cento ad un massimo del 300 per cento. Detta sanzione, rivolta a ciascuno dei soggetti eventualmente condannati, dovrà essere discrezionalmente liquidata dal giudice entro specifici parametri, costituiti dalla gravità del fatto, dalla condotta stragiudiziale e processuale del molestatore e dalle condizioni (economiche, sociali e personali) delle parti, in modo da adeguare il più possibile la sanzione al caso concreto, al fine di renderla «proporzionata, effettiva e dissuasiva» come prescritto proprio dalla disposizione comunitaria. La liquidazione di tale somma di natura sanzionatoria – aspetto fondamentale – è indipendente dall’accertamento del danno patrimoniale e non patrimoniale, ma dovrà essere liquidata dal giudice anche in caso di mancata prova da parte della vittima di uno specifico pregiudizio di tipo patrimoniale o non patrimoniale: siamo dinanzi, chiaramente, all’espressa introduzione nel nostro ordinamento del danno punitivo, secondo il perimetro definito e delimitato dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite. L’effettività della tutela, almeno sul piano risarcitorio, è pienamente garantita. Ma non è tutto. Il carattere davvero inedito ed innovativo della disciplina proposta – sebbene limitata al solo piano del contrasto delle condotte – si percepisce anche dalla lettura delle misure di protezione previste a favore dei soggetti denuncianti e degli stessi testimoni74, riprodotte sul modello dell’art. 26 comma 3 bis del d.lgs. 198/2006 (norma relativa alle molestie ed a quelle sessuali in particolar modo)75, che prevedono la presunzione di nullità di tutti i provvedimenti datoriali pregiudizievoli successivi alla denuncia o alla testimonianza, salvo prova del contrario da parte del datore. Anche in questo caso, il legislatore manifesta una piena conoscenza del problema, intervenendo con il bisturi proprio nel punctum dolens: si garantisce la genuinità dell’accertamento giurisdizionale tutelando il principale mezzo di conoscenza processuale, ovverosia il testimone, che si cerca di mantenere il più possibile immune da pressioni e da sollecitazioni indebite, molto frequenti nella realtà concreta. Per evitare indebite strumentalizzazioni tali da trasformare paradossalmente questo mezzo di tutela in un improprio strumento di molestia76, la proposta di legge prevede due norme77 volte a reprimere le false e ritorsive denunce di condotte moleste, attraverso rispettivamente la previsione del risarcimento del danno da lite temeraria a favore dei soggetti ingiustamente convenuti in giudizio e la previsione della giusta causa di licenziamento nei confronti del dipendente che accusi infondatamente il proprio datore di lavoro, nei
74
Art. 2 comma 1, S. 1339 Conzatti. Analogie si rinvengono anche con le disposizioni di tutela dei segnalanti previste dalla legge sul whistleblowing, ovvero la l. 30 novembre 2017, n. 179 (in particolare l’art. 1 comma 1 e l’art. 2 comma 1). Il disegno di legge in oggetto, inoltre, all’art. 3 prevede espressamente l’estensione delle tutele anche ai soggetti segnalanti (ovverosia al whistleblower) ai sensi della citata l. 179/2017. 76 La norma si rifà chiaramente alla Risoluzione del Parlamento Europeo 2001/2339, che al considerando lettera f, punto 5, «richiama l’attenzione sul fatto che false accuse di mobbing possono trasformarsi a loro volta in un temibile strumento di mobbing»; in dottrina ha sottolineato la necessità di distinguere tra fatti e fattoidi (ovverosia avvenimenti che non sono fatti ma ne hanno solo l’apparenza) anche nell’ambito del mobbing, Gulotta, Il vero e il falso mobbing, Giuffrè, 2007. 77 Art. 2 comma 1, S. 1339 Conzatti. 75
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casi di dolo e colpa grave, oltre all’inoperatività delle norme di protezione dei denuncianti e dei testimoni testé esaminate. E anche in questo caso, il legislatore dà prova di aver appreso la lezione derivante dal “panmobbismo”: se tutto è mobbing, nulla è mobbing. Infine, «considerata la specialità della materia che necessita di plurime e trasversali competenze, le quali afferiscono non solo al campo della medicina del lavoro ma anche e soprattutto all’ambito della psicologia del lavoro»78, la disciplina in oggetto si articola in una norma79 che richiede al giudice, nella fase di accertamento e liquidazione del danno patrimoniale e non patrimoniale, di delegare l’accertamento tecnico d’ufficio sia ad uno specialista in psicologia del lavoro sia ad uno specialista in medicina legale. La consulenza tecnica, inoltre, avrà anche la funzione di orientare il giudice nella determinazione di uno dei tre parametri di liquidazione del danno punitivo a carico dei soggetti responsabili di molestie. È chiaro anche ad una lettura superficiale come la disciplina prevista dal disegno di legge Conzatti, sul piano delle disposizioni di contrasto, si ponga in linea di continuità sia con la Convenzione 190/2019 OIL sia con la Raccomandazione 206/2019 OIL. Rilievo non secondario considerato che, essendo state ratificate nell’ordinamento giuridico interno, sia la Convenzione che la Raccomandazione costituiranno per il legislatore che dovrà intervenire in materia veri e propri obblighi internazionali vincolanti ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.
6.3. Il disegno di legge S.1350 Castiello: in medio non stat virtus. Per concludere l’esame dei disegni di legge presentati nel corso della corrente legislatura, è opportuno un breve cenno alla proposta S.1350 avente quale primo firmatario il Sen. Castiello, rubricato «Disposizioni per il contrasto al fenomeno del mobbing». La logica che ispira il disegno di legge, ed in particolare la costruzione della fattispecie definitoria, è chiaramente enunciata nella relazione introduttiva: «Poiché i comportamenti suscettibili di risolversi in forme dì violenza o persecuzione psicologica non sono facilmente definibili a priori ed assumono caratteristiche diverse, anche in dipendenza del contesto lavorativo in cui la vittima è inserita, si è preferito evitare di redigere un elenco che avrebbe necessariamente valore esemplificativo e non decisivo»80. Il rigetto per una normazione tassonomica e l’adesione ad una legislazione per clausole generali avvicina, almeno nelle intenzioni, questa proposta al disegno di legge S.1339 Conzatti. Il risultato pratico, tuttavia, è completamente diverso: «Ai fini della presente legge costituisce mobbing in danno del dipendente la continuazione di atti di molestia, vessazione o persecuzione, che ha lo scopo di incidere sui diritti o sulla dignità del lavoratore, o alterarne la salute fisica o mentale, o mettere in pericolo il suo futuro professionale»81.
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Relazione preliminare, AS. 1339, Conzatti, 4. Art. 2 comma 1, S. 1339 Conzatti. 80 Relazione introduttiva, AS n. 1350 Castiello, 4. 81 Art. 1 comma 1, S. 1350 Castiello. 79
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Pur recuperando la nozione di molestia (affiancata a quella di vessazione e di persecuzione), la norma tuttavia non guadagna in chiarezza con l’aggiunta del riferimento alla “continuazione”, che pare oscillare a metà strada tra il requisito della frequenza e quello della durata proprio del modello da tempo definito dalla scienza psicologica. Anche l’esclusivo riferimento allo scopo e non all’effetto della condotta sembra comportare una torsione diretta ad un marcato soggettivismo, in cui più che le conseguenze oggettive interessano, in sede di accertamento, gli intenti soggettivi: con tutte le difficoltà probatorie derivanti. Difficoltà probatorie che peraltro paiono lievemente attenuate dalla specifica previsione normativa in termini di oneri, laddove mentre sul ricorrente incombe la prova – peraltro piena, e non meramente indiziaria – dei fatti oggettivi molesti o persecutori, sul resistente invece ricade il peso di provare l’inesistenza non solo della vessazione, ma anche dell’intento persecutorio. Al di là della presenza anche in questo disegno di legge di una specifica norma di protezione non solo del denunciante, ma anche dei testimoni82, le disposizioni in materia di tutela giurisdizionale non presentano nessuna particolare novità né in termini risarcitori83, né in termini processuali84, preferendo piuttosto un approccio preventivo e formativo85.
7. Nuovi orizzonti. Una prima conclusione scaturisce immediata: il legislatore dovrà celermente attuare un necessario coordinamento tra le disposizioni della Convenzione e della Raccomandazione OIL recentemente approvate e i lavori parlamentari di redazione delle norme in materia di violenza e vessazione sul posto di lavoro, ancora alle battute iniziali. Ciò al fine di evitare – come abbiamo visto – che la legislazione interna, ignorando i vincolanti principi di matrice internazionale, possa nascere già con lo stigma della possibile illegittimità costituzionale. Chi scrive, dunque, ritiene fondamentale che l’emananda legge sia il più possibile aderente all’impostazione della Convenzione OIL: il disegno di legge S.1339 Conzatti, da questo punto di vista, pare essere il più idoneo a tal fine. Senza alcuna pretesa di sostituzione del legislatore, ci siamo permessi di proporre alcune soluzioni tecniche per gli snodi più importanti; proposte che abbiamo tratto – perfezionandole – dalle note presentate in sede di audizione informale presso la Camera dei Deputati per la discussione dei disegni di legge C. 1741 De Lorenzo, C. 2311 Serracchiani e C. 1722 Rossini: lasciamo il giudizio alla benevolenza del lettore. Siamo ora giunti al termine del nostro breve viaggio. Un tragitto, quello che abbiamo percorso, che ha preso avvio dall’approdo apparentemente sicuro del dogma, dell’inscalfibile e pluridecennale verità giurisprudenziale.
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Art. 1 comma 2, S. 1350 Castiello. Art. 4, S. 1350 Castiello. 84 Art. 2 e art. 3, S. 1350 Castiello. 85 Art. 8, S. 1350 Castiello. 83
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Il processo di codificazione delle disposizioni in materia di mobbing, straining e molestie sul lavoro
L’ombra del dubbio è sorta nel momento stesso in cui ci ha colpito la verifobia86, ovvero il terrore di rimanere in eterno intrappolati in una visione cristallizzata della realtà, la paura di vivere in un grigio “museo delle cere”. Ed abbiamo posato il nostro sguardo nuovamente sulla realtà, nuovamente sul “singolare”87, animato da sofferenze autentiche e squassato da beffarde ingiustizie, ed abbiamo trovato cose nuove: e le abbiamo chiamate discriminazioni e molestie. Superati gli angusti confini nazionali, abbiamo scoperto che molti altri vedevano queste stesse cose in modo diverso dal dogma imperante: e le hanno chiamate anch’essi discriminazioni e molestie. Siamo dunque tornati all’interno dei confini domestici ed abbiamo assistito alla fervente opera del legislatore italiano che, chiamato ad una nuova costruzione, sta progettando un opus che può essere tanto avveniristico quanto decrepito, tanto resistente all’usura del tempo quanto nato già morto. Sta dunque a noi ed al nostro sforzo intellettivo dare una precisa direzione a quest’opera che può diventare storica, seguendo la stella polare dell’effettività, unica e vera guida per il raggiungimento del diritto di ognuno ad un mondo del lavoro libero, una volta per tutte, dalla violenza e dalle molestie.
Appendice PROPOSTE NORMATIVE «Definizione. Ai fini della presente legge si intendono per molestia e violenza nell’ambito del posto di lavoro le pratiche, le azioni, gli atti o i comportamenti indesiderati, o la minaccia di porli in essere, che in un’unica occasione o reiteratamente, abbiano lo scopo o l’effetto o possano causare un danno patrimoniale o non patrimoniale o la violazione della dignità di una persona o la creazione di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo». *** «Onere probatorio. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di una molestia o di una violenza, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della molestia o della violenza denunciata».
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Sulla verifobia, rimandiamo alla costruttiva discussione tra il compianto Prof. Michele Taruffo ed il Prof. Bruno Cavallone (Taruffo, Contro la veriphobia. Osservazioni sparse in risposta a Bruno Cavallone, in RDP, 2010, 995 ss.; Cavallone, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), ibidem, 1 ss.). 87 Vogliamo fare nostre le parole di Guglielmo da Baskerville, protagonista del capolavoro di Umberto Eco, che in uno dei suoi monologhi manifesta il proprio “statuto epistemico”: «E quella sarà la conoscenza piena, l’intuizione del singolare», Eco, Il nome della rosa, Bompiani, ed. 2019, 48. Riteniamo dunque che solo lo studio della realtà fenomenica, soltanto l’analisi della realtà dei casi concreti possa illuminare e fornire la conoscenza necessaria a soddisfare i bisogni di tutela, ispirando in questo modo anche l’attività legislativa.
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*** «Protezione del denunciante. Sono nulli il licenziamento, il mutamento di mansioni ai sensi dell’art. 2103 c.c., le sanzioni disciplinari, i mutamenti del luogo di lavoro e ogni altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro dei lavoratori o collaboratori che abbiano denunciato o promosso un’azione giudiziaria per l’accertamento delle molestie o delle violenze di cui alla presente legge. È onere del datore di lavoro, in caso di controversie legate all’irrogazione di sanzioni disciplinari, o a demansionamenti, licenziamenti, mutamenti del luogo di lavoro o sottoposizione del lavoratore o collaboratore ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, successivi alla denuncia o all’azione giudiziaria, dimostrare che tali misure sono fondate su ragioni estranee alla denuncia o all’azione giudiziaria stessa. Le tutele di cui al presente comma non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del lavoratore o del collaboratore per il reato di calunnia o diffamazione ovvero l’infondatezza nel merito della denuncia o dell’azione giudiziaria promossa». *** «Protezione dei testimoni. Sono nulli il licenziamento, il mutamento di mansioni ai sensi dell’art. 2103 c.c., le sanzioni disciplinari, i mutamenti del luogo di lavoro e ogni altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro dei lavoratori o collaboratori che abbiano testimoniato a favore del collega molestato nei procedimenti per l’accertamento delle molestie o delle violenze di cui alla presente legge. È onere del datore di lavoro, in caso di controversie legate all’irrogazione di sanzioni disciplinari, o a demansionamenti, licenziamenti, mutamenti del luogo di lavoro o sottoposizione del lavoratore o collaboratore ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, successivi alla testimonianza, dimostrare che tali misure sono fondate su ragioni estranee alla testimonianza stessa. Le tutele di cui al presente comma non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del testimone per il reato di falsa testimonianza ovvero l’infondatezza nel merito della denuncia o dell’azione giudiziaria per cui si è resa la sua testimonianza». *** «Sanzioni. Nel caso di accertamento della molestia o della violenza come definita nella presente legge, il giudice nella sentenza con cui liquida il danno riconosce a favore della vittima anche una somma ulteriore a titolo di sanzione nei confronti di ciascun soggetto convenuto in giudizio ed accertato quale responsabile della suddetta condotta, somma da liquidarsi in misura ricompresa tra euro 20.000,00 ed euro 200.000,00. L’importo della sanzione è determinato dal giudice avuto riguardo alla gravità del fatto accertato, alla condotta stragiudiziale e processuale del soggetto convenuto in giudizio ed accertato responsabile e alle condizioni delle parti. Detta somma deve essere liquidata dal Giudice indipendentemente dall’accertamento del danno patrimoniale e non patrimoniale».
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Stefano Margiotta
Vigilanza amministrativa e contratti di lavoro Sommario : 1.
Vigilanza amministrativa, interesse pubblico, osservanza dei contratti collettivi. – 2. Vigilanza sui contratti collettivi e fonti del diritto. – 3. Vigilanza sull’applicazione, ai fini contributivi, delle clausole dei contratti collettivi sul trattamento economico. – 4. Diffida accertativa, disposizione amministrativa e funzioni pubbliche connesse all’applicazione di contratti collettivi e di patti individuali. – 5. Note conclusive.
Sinossi. L’articolo dimostra come l’osservanza dei contratti collettivi, salvo i casi in cui ad essi non rinviino norme di legge inderogabili non costituisce oggetto diretto delle attività di vigilanza amministrativa. Tuttavia sono tali e tanti gli aspetti di rilievo pubblicistico che passano attraverso l’applicazione dei contratti collettivi che questi finiscono con l’entrare nell’orbita degli accertamenti che il personale di vigilanza in materia di lavoro è chiamato a svolgere. Abstract. The article demonstrates how the observance of collective labour agreements, except in cases where mandatory legal provisions refer to them, is not a direct object of public supervisory activities. However, there are so many aspects of publicistic significance that pass through the application of collective agreements, that these end up entering them in the orbit of the investigations that the public inspectors are called to carry out. Parole chiave: Ispezione – Lavoro – Vigilanza amministrativa – Contratti collettivi – Contribuzione
1. Vigilanza amministrativa, interesse pubblico, osservanza dei contratti collettivi.
L’art. 7, lettera b), del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124 (combinato con l’articolo 6 dello stesso decreto) stabilisce che la vigilanza amministrativa in materia di legislazione sociale riguarda, tra l’altro, “la corretta applicazione dei contratti e accordi collettivi di lavoro”. Questa disposizione non può essere interpretata letteralmente: significherebbe riconoscere alla Pubblica Amministrazione in chiara violazione della libertà d’azione sindacale
Stefano Margiotta
costituzionalmente garantita (art. 39, Cost.), il potere di vigilare anche sull’applicazione delle parti dei contratti collettivi (c.d. “obbligatorie”) che regolano i rapporti tra associazioni sindacali. Quella libertà infatti implica che i sindacati devono essere liberi non solo di stipulare o meno il contratto e concordare o meno certe sue clausole, ma anche di deciderne l’effettività, scegliendo senza particolari condizionamenti se far emergere o meno sul piano dell’ordinamento statale l’inadempimento degli obblighi che essi hanno contratto con la controparte sindacale (ad esempio promuovendo un’azione giudiziaria per inadempimento) o se invece lasciare che il tutto si risolva nella dialettica sindacale. Quella disposizione, d’altro canto, benché rifletta disposizioni analoghe entrate in vigore decenni fa1, suscita curiosità ed interrogativi sia sul piano sistematico che sul piano applicativo. Curiosità ed interrogativi che derivano anzitutto dalla considerazione che l’approntamento di attività amministrative presuppone l’esistenza di un interesse pubblico che le giustifichi e al quale le stesse siano rivolte. Si tratta, nel caso dell’attività di vigilanza amministrativa, generalmente di interessi pubblici attinenti a compiti di polizia amministrativa, i quali, a loro volta, hanno normalmente riguardo all’osservanza di norme inderogabili di ordine pubblico (per la violazione delle quali sono previste sanzioni amministrative o penali) o a situazioni che implicano l’intervento della pubblica autorità a tutela di interessi di carattere generale (incolumità delle persone ed integrità delle cose, salute pubblica, salvaguardia dell’ambiente e di beni d’interesse culturale, e così via). Senonché queste situazioni non si realizzano con riguardo all’osservanza o meno della contrattazione collettiva di diritto comune2 e, di conseguenza, sfuggendo l’interesse pubblico cui l’attività di vigilanza amministrativa sull’applicazione dei contratti collettivi di diritto comune sarebbe rivolta, sfuggono anche le ragioni che la giustificano. A ciò si deve aggiungere che la legittimità costituzionale del potere più significativo connesso alle funzioni di vigilanza amministrativa, vale a dire quello di accedere, se necessario con l’ausilio della forza pubblica, nei luoghi privati di lavoro (art. 8 d.p.r. 19 marzo 1955, n. 520; art. 13 d.lgs. 23 aprile 2004, n. 124) in deroga al principio costituzionale dell’inviolabilità del domicilio, si fonda sulla necessità di perseguire particolari interessi pubblici («interessi pubblici rilevanti per la comunità sociale e direttamente riconducibili a valori costituzionali»3). Infatti l’art. 14 Cost., che appunto sancisce l’inviolabilità del domicilio (primo comma), ammette tuttavia “accertamenti” e “ispezioni” di carattere amministrativo «per motivi di sanità e di incolumità pubblica o ai fini economici e fiscali» (terzo comma), e, tra questi “motivi”, come la Corte Costituzionale e la dottrina hanno evidenziato, è compreso quello dell’attuazione della legislazione del lavoro e della previdenza sociale, mentre non è compreso quello dell’applicazione generalizzata dei contratti collettivi di diritto comune, se non altro, come si è visto, per la necessaria salvaguardia della libertà d’azione sindacale costituzionalmente garantita (art. 39 Cost.).
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L’art. 4 della l. 22 luglio 1962, n. 628 stabiliva che uno dei compiti dell’Ispettorato del lavoro fosse «vigilare sull’esecuzione dei contratti collettivi di lavoro». Diverso è il caso della vigilanza sull’osservanza della contrattazione collettiva per il pubblico impiego. Vedi Nota 5. Così Tenore, L’ispezione amministrativa e il suo procedimento, Giuffrè, 1995, 36. Vedi anche C. cost., 29 gennaio-2 febbraio 1971, n. 10, in GCost., 1971, I, 56.
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Vigilanza amministrativa e contratti di lavoro
In altri termini le norme che prevedono l’esercizio del potere di accesso degli ispettori per vigilare sull’applicazione dei contratti collettivi superano i dubbi di legittimità costituzionale che altrimenti, molto probabilmente, le travolgerebbero, sole se si riconosce che questa vigilanza è preordinata a perseguire uno degli interessi pubblici indicati nell’art. 14, comma 2, Cost., analogamente a quanto avviene quando si tratta di vigilare sull’osservanza delle norme inderogabili della legislazione sociale. L’art. 7, lett. b), ripercorre, in effetti, l’art. 4, lett. b), l. 11 luglio 1961, n. 6284 ma la situazione attuale è assai diversa rispetto a quella degli anni Sessanta perché, all’epoca, l’interesse pubblico alla base della vigilanza amministrativa sull’applicazione dei contratti collettivi era facilmente riscontrabile: in quegli anni la contrattazione collettiva consisteva infatti, in gran parte, in clausole la cui violazione comportava (e tutt’ora comporta, anche se ormai molto raramente) l’irrogazione di sanzioni pubbliche (ora amministrative, prima penali). Consisteva cioè, in buona parte, in clausole dei contratti collettivi che stabilivano i livelli minimi inderogabili di trattamento economico e normativo divenuti obbligatori per tutti gli appartenenti alle varie categorie professionali per effetto di appositi decreti emanati dal Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 1 l. 14 luglio 1959, n. 741 – la violazione dei quali era punita dall’art. 8 della predetta legge con un’ammenda – e in contratti collettivi corporativi – la violazione dei quali era punita dall’art. 509 c.p. con una multa. Oggi, invece, il contenuto dei contratti collettivi estesi a tutti gli appartenenti alle categorie professionali ai sensi della l. n. 741/1959 e dei contratti collettivi corporativi è stato quasi completamente superato dalla contrattazione collettiva di diritto comune. La vigilanza pubblica sull’applicazione dei contratti collettivi si spiega nel pubblico impiego “privatizzato”5. Esistono inoltre tutt’ora norme che prevedono sanzioni (amministrative) in caso di inosservanza di clausole di contratti collettivi di diritto comune6; si tratta però di un gruppo
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Novella, Contratto di lavoro e ispezione, Aracne, 2018, 76, assegna tuttavia una certa rilevanza alla circostanza che l’art. 4 l. n. 628/1961 si riferisce all’“esecuzione” mentre l’art. 7 d.lgs. n. 124/2004 si riferisce alla “corretta applicazione” dei contratti collettivi. «L’art. 2, comma 3, D.lgs. n. 165/2001, che rimette al contratto collettivo la disciplina dei rapporti individuali di lavoro, è una norma sulla produzione giuridica, contenente un “rinvio mobile” alle norme collettive, presenti e future, poste in essere da soggetti a tanto abilitati dalla legge e con i procedimenti da essa previsti. Le clausole contrattuali, dunque, non forniscono contenuto normativo ad una disposizione “in bianco” – da cui sorgono corrispondenti norme di diritto oggettivo (come nel caso della L. 14.7.1959, n. 741) – ma compongono esse stesse l’ordinamento, perché la norma rinviante, quale norma sulle fonti, attribuisce forza normativa alle clausole medesime» (così, per tutti, Rusciano, Contrattazione collettiva nel pubblico impiego, in www.treccani.it). Sul contratto collettivo nel settore del pubblico impiego e il sistema delle fonti: Corpaci, Regime giuridico e fonti di disciplina dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Riv. giur. lav., 2010, I, 447; D’Auria, Il nuovo sistema delle fonti: legge e contratto collettivo, stato e autonomie territoriali, in Giornale dir. amm., 2010, 5; Fiorillo, Il sistema delle fonti: il primato della legge e il ruolo subalterno della contrattazione collettiva, in lavoro nelle p. a., 2012, 31; Garilli, Contrattazione e partecipazione nel nuovo assetto delle fonti di disciplina del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: quali prospettive dopo la terza riforma (e in attesa della quarta), in LPA, 2015, 397; Lovo, Il rapporto tra fonti unilaterali e contrattazione collettiva nell’iter di riforma del lavoro pubblico, in DRI, 2009, 451; Lucca, Privatizzazioni delle fonti normative nel rapporto di pubblico impiego, in Ragiusan, 2002, fasc. 222, 421; Riccardi , I rapporti tra fonti contrattuali e fonti pubblicistiche nel sistema del lavoro pubblico: norme di «transizione» e norme di «manutenzione», in Risorse umane nella p. a., 2007, fasc. 6, 31; Rucco, Fonti negoziali e relazioni sindacali nel lavoro pubblico dopo la legge-delega 7 agosto 2015 n. 124 sulle semplificazioni amministrative e normative, in Diritti lavori mercati, 2016, 693; Rusciano, Le fonti: negoziatore pubblico e contratti collettivi di diritto privato, in LPA, 2007, 333; Terenzio, Il difficile equilibrio tra le fonti regolative del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione dopo la riforma Brunetta, in RGL, 2012, II, 590. Si tratta di casi non numerosi: sanzioni amministrative o penali a carico del datore di lavoro che non avesse pagato secondo quanto
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di situazioni troppo esiguo per rappresentare compiutamente la fenomenologia giuridica dell’istituto in esame con riguardo alla contrattazione collettiva di diritto comune7.
2. Vigilanza sui contratti collettivi e fonti del diritto. La ricerca della ragione che giustifica e, insieme, legittima, l’attività di vigilanza amministrativa sull’applicazione dei contratti collettivi di diritto comune8 evoca anzitutto la possibilità – riconosciuta da alcuni autorevoli autori e, tuttavia, respinta da altri – che anche tali contratti collettivi possano essere considerati fonti del diritto obiettivo, sia pure extra ordinem. È noto come la dottrina ammetta che accanto al novero delle fonti previsto dalle leggi esistano fonti extra ordinem, vale a dire regole cui le persone riconoscono, di fatto e abitualmente, i caratteri essenziali propri delle fonti del diritto (si tratta soprattutto di regole convenzionali che vengono in concreto rispettate nel tempo tanto da essere comunemente ritenute obbligatorie), e alle quali va, di conseguenza, riconosciuta la capacità di produrre gli effetti propri delle fonti del diritto. Tutto ciò tenendo bene presente che la stessa identificazione di certi atti come normativi o meno è piuttosto complessa e dipende dall’applicazione di una serie di criteri che la dottrina ha elaborato – alcuni criteri di carattere formale (la denominazione dell’atto, il procedimento che ha condotto alla sua adozione, la circostanza che l’atto sia soggetto al trattamento che l’ordinamento riserva generalmente agli atti normativi9), altri di carattere sostanziale (la sussistenza di potere normativo e la competenza dell’Autorità, il contenuto dell’atto che ne manifesta la natura intrinsecamente normativa10), altri frutto della combinazione di alcuni dei criteri suddetti (atti da ritenersi normativi secondo la forma o secondo la sostanza)11. Pur nella cennata difficoltà del tema non si può nascondere – senza con ciò pretendere di affrontare funditus un così complesso tema in uno scritto, come questo, incentrato sul tema della vigilanza amministrativa – che alcuni “indici” del carattere normativo dei con-
previsto dai contratti collettivi le maggiorazioni per lavoro straordinario (art. 5 d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66), il lavoro festivo (artt. 5, comma 4, e 6 l. 27 maggio 1949, n. 260), il lavoro a domicilio (art. 13, comma 3, l. 18 dicembre 1973, n. 877). 7 Si deve anzitutto rilevare che il compito di vigilanza sull’applicazione dei contratti di lavoro non implica, se considerato a sé stante, l’esercizio del potere di accesso, se necessario d’autorità, nell’altrui domicilio, potere come si è visto coessenziale all’ispezione. Ed infatti, da un lato manca un’espressa norma di legge che legittimi l’esercizio di tali poteri per vigilare sui contratti (l’art. 8, comma 2, d.p.r. n. 520/1955 collega il potere di accesso alle “violazioni di legge” e gli artt. 14 e 23 Cost. impongono che il principio dell’inviolabilità del domicilio sia sacrificato solo in casi previsti dalla legge); dall’altro lato, l’osservanza dei contratti di lavoro non pare essere espressione di posizioni giuridiche soggettive pari o prevalenti rispetto a quelle, costituzionalmente garantite, sacrificate dall’esercizio dei poteri ispettivi. Questa considerazione è sembrata necessaria, anche se è destinata a rimanere quasi esclusivamente confinata sul piano teorico visto che il personale ispettivo espleta la vigilanza sull’applicazione dei contratti collettivi quando ormai gli ispettori si trovano in azienda per aver esercitato il potere d’accesso finalizzato a svolgere i compiti di vigilanza sull’esecuzione delle leggi. 8 Per i contratti collettivi stipulati per disciplinare il rapporto di pubblico impiego il discorso è diverso. Vedi Nota 5. 9 Cioè atti “normativi secondo la forma e secondo il trattamento” (per tutti G.U. Rescigno, L’atto normativo, Zanichelli, 1998, 21). 10 Cioè atti «normativi secondo il concetto» (G.U. Rescigno, L’atto, cit., 22). 11 G.U. Rescigno, L’atto, cit., 28.
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tratti collettivi, effettivamente esistono: la riforma del codice di procedura civile del 200812 ha previsto che il ricorso per cassazione può essere proposto non solo «per violazione o falsa applicazione di norme di diritto» ma anche per «violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro» (art. 360, n. 3, c.p.c.) e che contro la sentenza che decide in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale può essere esperito ricorso immediato per cassazione (art. 420-bis c.p.c.)13; è del resto difficilmente discutibile che il contratto abbia origine negoziale ma “vive” per esercitare una funzione normativa come del resto dimostra la tecnica di redazione delle clausole che lo compongono formate quasi esclusivamente da proposizioni di carattere ipotetico, generale e astratto (salvo che per la parte obbligatoria che, appunto, funzione normativa non ha). Tuttavia a queste considerazioni è sempre possibile obiettare che di contratti collettivi, anche di livello nazionale, ve ne sono vari, in concorrenza tra loro, che l’adesione a qualcuno di essi o a nessuno di essi è facoltativa, che alle associazioni sindacali non è riconosciuta potestà normativa, specie se al di fuori dello schema di cui all’art. 39, comma 2 e ss., Cost. e, soprattutto, che, nonostante la larga diffusione della contrattazione collettiva potrebbe non dirsi dimostrato, in punto di fatto, che essi anche alla luce di quanto appena detto, siano sempre intesi ed applicati come “norme”. Tutte considerazioni allontanano la figura del contratto collettivo da quella dell’atto normativo. La tesi della natura normativa extra ordinem dei contratti collettivi parrebbe allora poter essere meglio accolta solo se a tale locuzione si attribuisce un significato così ampio da resistere alle obiezioni di cui sopra così da comprendervi fonti che non sono né vincolanti né considerate tali da tutti gli operatori ancorché generatrici di regole di fatto comunemente applicate. In altri termini, se è indubitabile che i contratti collettivi hanno una funzione normativa non è altrettanto facile sostenere che essi abbiano anche la natura propria delle fonti di diritto obiettivo a meno che non si riducano i requisiti normalmente ritenuti necessari per qualificare un atto o un fatto come produttivo di diritto sia pure extra ordinem – così da comprendere atti e situazioni che altrimenti non ne sarebbero comprese. Il tema sembra pertanto assumere quasi più le fattezze di una questione inerente al “concetto” di fonte del diritto (extra ordinem), piuttosto che alla natura del contratto collettivo. Discorso a parte va fatto, oltre che per i contratti collettivi stipulati per disciplinare il pubblico impiego (vedi sopra)14 e per i contratti collettivi “delegati” da leggi speciali a svolgere «funzioni di produzione normativa con efficacia generale… come fonte del diritto extra ordinem», destinati a soddisfare esigenze ordinamentali che avrebbero dovuto essere adempiute dalla contrattazione collettiva prevista dall’inattuato art. 39, quarto comma,
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Art. 2 d.lgs. 2 febbraio 2008, n. 40. Con ciò il sistema processuale assimila, per questo profilo, il contratto collettivo alla legge. Inoltre i software dei programmi-paghe, sono tutti impostati sulla scelta da parte dell’operatore di una contrattazione collettiva di riferimento che il programma informatico prende a base per l’elaborazione elettronica di paghe e contributi previdenziali e ciò ha reso un fatto quasi automatico “caricare” nel programma, insieme ai dati dell’assunzione, il riferimento ad un contratto collettivo. Il carattere meramente fattuale di questa osservazione non ne esclude la rilevanza ove si consideri che l’attribuzione della qualità di fonte extra ordinem di un determinato atto dipende – in una certa misura – della circostanza che esso, di fatto, sia comunemente percepito ed applicato come normativo. 14 Vedi Nota 5. 13
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della Costituzione, modello, questo, «giustificato quando si tratta di materie del rapporto di lavoro che esigono uniformità di disciplina in funzione degli interessi generali connessi al mercato del lavoro, come il lavoro a tempo parziale, i contratti di solidarietà, la definizione di nuove ipotesi di assunzione a termine, ecc.»15. Il pensiero corre alla disciplina della maggiorazione per lavoro straordinario e dell’orario di lavoro, delle festività, del rapporto di lavoro a termine, alla disciplina sulla riforma del mercato del lavoro dove molti istituti sono regolati da norme di legge che chiedono di essere integrate dalla contrattazione collettiva, al cui intervento è talvolta subordinata l’applicabilità di parte della stessa legge (si pensi al – ora abolito – contratto di inserimento, al contratto di lavoro a chiamata, ai contratti di somministrazione, al – ora abolito – contratto di lavoro a progetto), alla determinazione dei contributi da pagare che sono determinati, nel minimo, su quanto il lavoratore ha diritto a percepire sulla base (tra l’altro) dei contratti collettivi (art. 1 d.l. n. 338/1989 convertito nella l. n. 389/1989). Più recentemente, nei job acts, ricorre spessissimo la formula della legge primaria che richiama la contrattazione collettiva per essere attuata o integrata: anche a limitarsi alla considerazione del solo d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, questo decreto rinvia alla contrattazione collettiva per la definizione di ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore (art. 3), per l’orario di lavoro – in genere e a tempo parziale (art. 6) – per il periodo di prova (nel contratto a part time – vedi art. 7), per le esigenze a fronte delle quali concludere contratto di lavoro intermittente e per l’indennità di disponibilità (artt. 13 e 16), per i contratti a termine (art. 19) anche con riguardo al loro numero massimo ammesso (artt.
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C. Cost., 18 ottobre 1996, n. 344. Nel senso della chiara esclusione dei contratti collettivi di diritto comune dal novero delle fonti del diritto, Persiani, Il contratto collettivo di diritto comune nel sistema delle fonti del diritto del lavoro, in ADL, 2004, 1 e ss., e Persiani, Contratti collettivi normativi e contratti collettivi gestionali, in ADL, 1999, 3 e ss.; Pessi, Contratto collettivo e fonti del diritto del lavoro, in ADL, 1998, 757. Per la tesi del contratto collettivo come fonte del diritto extra ordinem, Modugno, Le fonti normative nel Diritto del Lavoro, in Cataldo, Serrano (a cura di), Atti del Convegno nazionale Nuovi assetti delle fonti del Diritto del Lavoro, 2011, 120; Napoli, Le fonti del diritto del lavoro e il principio di sussidiarietà, in Atti delle Giornate di studio su “Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro”, Giuffrè, 2002, 483. Sul tema dell’attribuzione o no della natura di “fonte del diritto” al contratto collettivo, oltre agli scritti predetti, vedi Nicolini, Fonti extra legislative del diritto del lavoro, Giuffrè, 1982; Ferraro, Ordinamento e ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, Cedam, 1981, 281; Mengoni, Legge e autonomia collettiva, in MGL, 1980, 692; Zoli, Contratto collettivo come fonte e contrattazione collettiva come sistema di produzione di regole, in Persiani (a cura di), Le fonti del diritto del lavoro, Cedam, 2010, 487; Proia, Questioni sulla contrattazione collettiva. Legittimazione, efficacia, dissenso, Giuffrè, 1994, 192 ss. (l’Autore dopo avere riconosciuto la funzione normativa del contratto collettivo, ammette che la legge riconosce la disciplina collettiva quale “fonte di regole aventi solo tendenzialmente efficacia generale … in quanto è comunque fatto salvo il diritto dei singoli di dissentire da quella fonte”); Tullini, Legge e legislazione lavoristica, in Persiani (a cura di), Le fonti, cit., 476; Zoppoli, Il contratto collettivo come fonte: teorie e applicazioni, in Santucci, Zoppoli (a cura di), Contratto collettivo e disciplina dei rapporti di lavoro, Giappichelli, 2004; Santoro Passarelli, Sulla natura giuridica del contatto collettivo di diritto comune, in RISG, 2010, 137; Ghera, Il contratto collettivo tra natura negoziale e di fonte normativa, in RIDL, 2012, I, 195; Rotondi, Il contratto collettivo nel sistema delle fonti del diritto del lavoro, DPL, 2008, 1381. Della tesi della equiparazione del contratto collettivo alla legge parla – pur non aderendovi – Lunardon, Il contratto collettivo e le altre fonti (leggi usi, regolamenti), in Il sistema delle fonti, cit., 103. Per la funzione paralegislativa del contratto collettivo G. Santoro Passarelli, Funzione paralegislativa, collegamento negoziale, dimensione territoriale, spunti per l’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, in AA.VV. L’interpretazione dei contatti collettivi, Bancaria Editrice, 1999, 136. Certamente anacronistico è del resto l’elenco di cui all’art. 1 preleggi (cfr. Rescigno, Il contratto collettivo tra autonomia e legge, in Aa.Vv., Il sistema, cit.; 13, che dà atto come tra l’altro non sia più solo statale la produzione del diritto).
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23, 28 e 29), per la formazione degli assunti a termine e l’apprendistato (artt. 26, 43 e 47), per la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato e determinato (artt. 31 e 35)16. In questi casi la norma di diritto obiettivo si completa con disposizioni di origine negoziale che finiscono con l’integrarsi con quella. Qui la vigilanza sull’applicazione dei contratti collettivi prevista dall’art. 7, lett. b), d.lgs. n. 124/2004 può essere facilmente accomunata alla tradizionale vigilanza sull’osservanza di leggi e regolamenti – chiaramente rivolta all’interesse pubblico dell’osservanza di norme, spesso inderogabili, di diritto obiettivo (ancorché quest’ultimo risulti, in questo caso, frutto della combinazione di fonti legali e negoziali, in funzione di norme delegate nei sensi di cui sopra).
3. Vigilanza sull’applicazione, ai fini contributivi, delle
clausole dei contratti collettivi sul trattamento economico. L’art. 1 d.l. n. 338/1989, convertito nella l. n. 389/1989 definisce (salva la nozione di retribuzione da assoggettare a contribuzione previdenziale che è stabilita da altre disposizioni17) l’importo minimo sul quale determinare i contributi previdenziali. Esso è fissato nella retribuzione stabilita per contratto e in particolare nell’«importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti o contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo». Le ragioni che hanno condotto all’entrata in vigore di questa norma stanno nell’intento – che risulta anche dalle ragioni di necessità e urgenza che legittimavano l’emanazione del d.l. n. 338/1989 – di ridurre l’evasione contributiva. Essa si realizzava frequentemente – e, per la parte eccedente gli importi di retribuzione previsti dai contratti collettivi, potrebbe tuttora realizzarsi – simulando di corrispondere una retribuzione inferiore a quella effettiva. Per realizzare tale risultato il legislatore – stanti le difficoltà di accertare e provare la corresponsione di tali emolumenti – ha realizzato un sistema che fa dipendere l’ammontare minimo della retribuzione da assoggettare a contribuzione da quanto il lavoratore ha diritto di percepire prescindendo da quanto egli percepisce in concreto. La vigilanza sull’osservanza dell’art. 1 d.l. n. 338/1989 ha un fine e un oggetto diverso dall’attività di vigilanza sull’applicazione dei contratti collettivi. Infatti l’attività di vigilanza sull’osservanza di “minimali contributivi”, sia pure da determinarsi in base al contenuto di contratti collettivi (e individuali), riguarda solo indirettamente l’osservanza di clausole contrattuali essendo, in questo caso, oggetto dell’attività di vigilanza il rispetto delle norme
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Sul tema, Falsone, I rinvii legali ai contratti collettivi e il jobs act: problemi e sfide della contrattazione aziendale, Univ. Cà Foscari, 2016. 17 Art. 6 d.lgs. 2 settembre 1997, n. 314; art. 12 l. 30 aprile 1969, n. 153; artt. 49 e 51 (46 e 48 fino al d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 334); d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 (vedi anche artt. 1 e 2 del d.l. 1 agosto 1945, n. 692; artt. 27 e 28 d.p.r. 30 maggio 1955, n. 797; art. 29 d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124).
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sulla contribuzione previdenziale dal quale dipende, in buona parte, l’equilibrio finanziario degli enti chiamati a realizzare la sicurezza sociale. Tuttavia l’accertamento del rispetto di quei minimali, proprio perché determinato in base a quanto stabilito da contratti collettivi impone al personale di vigilanza di prenderli in esame e ciò non può avvenire se non partendo dalla constatazione che le clausole dei contatti collettivi che rilevano per accertare il rispetto o meno dei “minimali contributivi” in questione non sono tutte quelle che compongono il contratto collettivo ma solo quelle che stabiliscono l’“importo di retribuzione”18. Si pongono di conseguenza due ordini di problemi: quello di individuare quali siano le clausole del contratto collettivo che rilevano sull’“importo della retribuzione” e quello di accertare se la nozione di retribuzione cui fa riferimento il testo dell’art. 1 d.l. n. 338/1989 è quella stabilita dai contratti collettivi o quella di retribuzione assoggettabile a contribuzione ai fini previdenziali19. Il primo ordine di problemi sorge perché le clausole del contratto che regolano aspetti non retributivi influiscono frequentemente – più o meno direttamente – sull’importo della retribuzione (vedi infra)20. Il secondo sorge perché i contratti collettivi non stabiliscono, per retribuzione, «il reddito che deriva dal rapporto di lavoro» né «ciò che il lavoratore percepisce in relazione al rapporto di lavoro» (art. 12 cit., nel testo sostituito dall’art. 6 d.lgs. n. 314/1999, in combinato disposto con gli artt. 49 e 51 del d.p.r. n. 917/1986) ma il corrispettivo del lavoro svolto. E così, ad esempio, spesso i contratti collettivi non qualificano come “retribuzione” alcune voci che, secondo la più diffusa interpretazione, sono assoggettabili a contribuzione (ad esempio, l’indennità sostitutiva delle ferie) mentre alcune voci che l’art. 12 esclude dall’assoggettamento a contribuzione potrebbero avere natura retributiva (ad esempio, il trattamento di fine rapporto)21.
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Infatti (Cass., 27 agosto 2014, n. 18413) «la disposizione di cui si discute non può essere interpretata come comportante la automatica ed indiscriminata inclusione nel “minimale” di tutte le voci retributive previste dal contratto collettivo leader, ma anzi essa è limitata a determinare convenzionalmente la retribuzione contributiva indicando come riferimento il contratto collettivo leader, ma non ne ha reso obbligatoria la parte c.d. “normativa”. Il richiamo della legge è infatti circoscritto esclusivamente all’aspetto retributivo, per cui non valgono a influire sulla misura del minimale quegli istituti contrattuali che disciplinano le regole del rapporto, ancorché aventi, indirettamente, riflessi sul versante retributivo. Sarebbe pertanto incongruo fare riferimento, per la determinazione del minimale, al sistema di inquadramento, o al regime dei permessi, o alla durata delle ferie previsto dal contratto leader in quanto più favorevole sul piano retributivo rispetto a quello legittimamente applicato dal datore di lavoro. La regola posta dal contratto leader vale per quanto riguarda le voci retributive vere e proprie, come ad esempio le mensilità aggiuntive e gli scatti di anzianità, che incidono direttamente ed esclusivamente sulla controprestazione spettante al lavoratore assicurato – per cui è necessario che la retribuzione su cui commisurare ì contributi non sia inferiore “nel suo complesso” alla retribuzione complessiva determinata dal contratto leader, a prescindere dalla articolazione nelle singole voci che il medesimo contratto può prevedere – ma non vale in relazione agli aspetti concernenti la disciplina del rapporto di lavoro intercorrente tra le parti» (in termini: Cass., 5 maggio 2003, n. 6817; conforme: Cass., 20 gennaio 2012, n. 801). Carchio, Milocco, La vigilanza in materia di lavoro, Buffetti, 1989, 113, afferma che l’ispettore deve limitarsi al controllo del rispetto delle clausole del contratto che costituiscono condizione per la sussistenza delle agevolazioni contributive. Il testo dell’art. 7 d.lgs. n. 124/2004 prevede invece la vigilanza sull’applicazione dei contratti collettivi di lavoro in genere, senza differenziare le clausole degli stessi secondo il loro oggetto. 19 Vedi le disposizioni indicate nella Nota 17. 20 L’I.N.P.S. ha riconosciuto con la circolare n. 70 del 1990 che ai fini degli artt. 1 e 6 l. n. 389/1989 rileva la «retribuzione derivante da tutti gli istituti contrattuali incidenti sulla misura della retribuzione stessa». Sulla natura retributiva o no dell’indennità di mensa cfr. art. 6, commi 3 e 4, d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito con la l. 8 agosto 1992, n. 359. 21 La giurisprudenza tende a riconoscere l’assoggettamento a contribuzione previdenziale di somme che pur dipendenti solo indirettamente od occasionalmente dalla prestazione lavorativa sono connesse con la posizione soggettiva di lavoratore subordinato.
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Stabilire quando una clausola contrattuale collettiva influisca sull’obbligazione contributiva e in base a quale normativa (quella contrattuale collettiva o quella che stabilisce la nozione di retribuzione assoggettabile a contribuzione) e stabilire se determinate “voci” del trattamento economico concorrono o no a costituire l’“importo” di retribuzione minima da assoggettare a contribuzione non è dunque sempre una faccenda di facile soluzione. Con riguardo ai problemi di cui sopra va anzitutto osservato come sia esclusa qualsiasi attività di vigilanza pubblica sulla parte c.d. “obbligatoria” (vale a dire quella che detta obblighi tra i sindacati stipulanti e – secondo l’interpretazione preferibile – tra le parti del rapporto di lavoro e i sindacati cui essi aderiscono) non solo perché si risolverebbe in attività contrastante con l’art. 39 Cost. (vedi par. 1) ma anche perché le clausole che appartengono a quella parte del contratto collettivo non riguardano “l’importo della retribuzione”. L’”importo della retribuzione” può invece derivare dall’applicazione della parte c.d. “normativa” del contratto collettivo (clausole che dettano le “norme” alle quali si devono uniformare le parti del rapporto individuale di lavoro che applicano il contratto collettivo) vale a dire delle clausole che dettano il “trattamento normativo”: influiscono infatti sugli “importi” di retribuzione l’applicazione di clausole sul diritto o meno del datore di lavoro di rifiutare determinate prestazioni lavorative, sull’inquadramento dei lavoratori in riferimento alle mansioni loro assegnate, sull’esercizio dei poteri datoriali in materia di assegnazione o meno delle ferie e di determinate mansioni con riguardo all’insorgere del diritto a percepire le relative indennità). Si tratta, del resto, di soluzione che trova ordinariamente accoglimento da parte della giurisprudenza, talvolta anche in modo “estremo” , come quando la Suprema Corte afferma che la «regola del c.d. minimale contributivo, che deriva dal principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto alle vicende dell’obbligazione retributiva, opera anche con riferimento all’orario di lavoro, che va parametrato a quello previsto dalla contrattazione collettiva, o dal contratto individuale, e superiore» così che la contribuzione sarebbe dovuta anche in caso di assenze o di sospensione concordata della prestazione che non trovino giustificazione nella legge o nel contratto collettivo, bensì in un accordo tra le parti che derivi da una libera scelta del datore di lavoro22. La soluzione del secondo dei problemi suesposti potrebbe per un verso valorizzare le circostanze che l’art. 1 d.l. n. 338/1989 fa riferimento alla legge oltre che ai contratti collettivi, che l’importo della retribuzione indicato è quello che sarà poi assoggettato a contribuzione (e, di conseguenza con, almeno a questo punto, l’applicazione delle regole proprie per stabilire il contenuto dell’obbligazione contributiva) e concludere che qualsiasi clausola del contratto collettivo che preveda “trattamenti economici” debba poi essere vagliata, per il riconoscimento o meno della sua natura retributiva ai fini contributivi di quei “trattamenti”, esclusivamente in base alle disposizioni che regolano il rapporto contributivo (escludendo perciò rilevanza alle clausole dei contratti collettivi che escludano questa o quella voce dal concetto di retribuzione ai fini contrattuali). Per altro verso si
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Così Cass., 3 giugno 2019, n. 15120 che si presta tuttavia ad essere discussa perché in questo caso i giudici di legittimità hanno applicato la regola del mimale di retribuzione ai fini contributivi a casi e a periodi di tempo, in cui, almeno in linea di principio, neppure sussisteva un diritto del lavoratore a percepire la retribuzione.
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potrebbe, al contrario, mettere in evidenza che l’integrazione dell’obbligo contributivo risultante dall’applicazione dell’art. 1 d.l. n. 338/1989 presuppone l’obbligazione di carattere privatistico dal momento che è sul contenuto di questa che è determinato dall’art. 1 d.l. n. 338/1989 il contenuto dell’obbligazione contributiva: infatti l’impianto (e la ratio) dell’art. 1 d.l. n. 338/1989 è quello di far dipendere l’ammontare minimo della retribuzione da assoggettare a contribuzione da quanto il lavoratore ha diritto di percepire per contratto prescindendo da quanto egli percepisce in concreto. Del resto la disposizione si rifà alla retribuzione stabilita contrattualmente senza alcun riferimento alla nozione di retribuzione da assoggettare a contribuzione mentre la ratio anti-evasione dell’art. 1 d.l. n. 338/1989 non implica finalità di allargamento della retribuzione imponibile ai fini contributivi che animavano il legislatore quando ha stabilito la nozione (molto ampia) di retribuzione da assoggettare a contribuzione previdenziale. è in effetti quest’ultima soluzione, prospettata all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 1 d.l. n. 338/1989, che ha avuto sostanziale conferma nella normativa successiva – di valore tuttavia non retroattivo23 –: l’art. 3 d.l. 14 giugno 1996, n. 318, convertito dalla l. 29 luglio 1996, n. 402, con particolare riguardo (vedi la rubrica dell’articolo) alla «determinazione contrattuale di elementi della retribuzione da considerarsi agli effetti previdenziali», ha disposto che «la retribuzione dovuta in base agli accordi collettivi di qualsiasi livello non può essere individuata in difformità dalle obbligazioni, modalità e tempi di adempimento come definiti negli accordi stessi dalle parti stipulanti, in riferimento alle clausole sulla non computabilità nella base di calcolo di istituti contrattuali e di emolumenti erogati a vario titolo, diversi da quelli di legge, ovvero sulla quantificazione di tali emolumenti comprensiva dell’incidenza sugli istituti retributivi diretti o indiretti» e che «allo stesso fine valgono le clausole per la limitazione di tale incidenza relativamente ad istituti retributivi introdotti da accordi integrativi aziendali in aggiunta a quelli previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Le predette disposizioni operano anche agli effetti delle prestazioni previdenziali»24. A seguito di questa disposizione appare difficile poter ancora sostenere l’applicabilità di criteri diversi da quelli indicati dalle parti collettive per individuare non solo “l’importo” ma anche la nozione di “retribuzione” ai fini della determinazione dell’imponibile contributivo minimo, salva la considerazione che, come si è accennato, l’art. 3 d.l. n. 318/1996 non ha efficacia retroattiva come riconosciuto dalla Corte di Cassazione25. Le norme appena indicate e le finalità pubblicistiche di carattere generale della disciplina del minimale di retribuzione ai fini contributivi rendono rilevanti erga omnes (ai fini, s’intende, della determinazione della retribuzione minima per calcolare i contributi)
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Cass., 15 maggio 2018, n. 11847. Peraltro il comma 2 dello stesso articolo 3 precisa che ai fini dell’applicazione di quanto predetto “i contratti e gli accordi collettivi contenenti clausole o disposizioni di cui” sopra “sono depositati a cura delle parti stipulanti presso l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione e presso la competente sede degli enti previdenziali interessati competenti territorialmente … entro trenta giorni dalla loro stipulazione”. 25 Cass., 15 maggio 2018, n. 11847. Per l’applicazione dell’art. 3 d.l. n. 318/1996 al fine di escludere determinate voci retributive dalle prestazioni temporali per i lavoratori dell’agricoltura vedi Cass., 20 maggio 2011, n. 11152 e Cass., 5 gennaio 2011, n. 200. 24
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i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale26 (ovvero, ai sensi dell’art. 2, comma 25, l. n. 549/1995, a fronte di una pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, di quelle comparativamente più rappresentative27), senza soffrire delle limitazioni derivanti dall’applicazione della disciplina del contratto di diritto comune e della libertà sindacale. Ciò ha inoltre conseguenze “di fatto” sul recepimento dei contratti collettivi stipulati dai predetti sindacati nei rapporti di lavoro individuali: infatti le difficoltà pratiche derivanti dall’applicazione di due distinti contratti collettivi – uno per disciplinare il rapporto col lavoratore, l’altro per determinare il minimo di contributi – induce spesso a scegliere quello, dei due, che non si può non applicare, vale a dire quello in base al quale per legge si devono calcolare i contributi minimi. Né può esservi in questo violazione dell’art. 39 Cost. dal momento che il contratto collettivo assume rilievo erga omnes – limitatamente alla sua parte economica – solo in funzione di parametro per calcolare un minimale contributivo comune, idoneo a realizzare le finalità del sistema previdenziale ed a garantire una sostanziale parità dei datori di lavoro nel finanziamento del sistema stesso (cfr. la sentenza della C. cost., 20 luglio 1992, n. 342)28.
4. Diffida accertativa, disposizione amministrativa e
funzioni pubbliche connesse all’applicazione di contratti collettivi e di patti individuali. L’istituto della diffida accertativa secondo il quale se nell’àmbito dell’attività di vigilanza emergono inosservanze alla disciplina contrattuale da cui scaturiscono «crediti patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro», il personale ispettivo diffida il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti (art. 12 d.lgs. 23 aprile 2004, n. 124) potrebbe fare pensare ad un’azione di vigilanza sui contratti, sia collettivi che individuali, di lavoro29. Senonché il legislatore non ha contemplato le clausole del contratto individuale di lavoro tra quelle oggetto della vigilanza pubblica ai sensi dell’art. 7 d.lgs. n. 124/2004 (della vigilanza sui contratti collettivi si è detto) e si interessa dell’inosservanza della disciplina contrattuale solo una volta che nel corso dell’attività di vigilanza sulle norme di legge – ov-
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Secondo un orientamento giurisprudenziale la sussistenza del requisito della maggior rappresentatività dei sindacati stipulanti andrebbe provata dall’istituto previdenziale che chiedesse l’applicazione dell’importo della retribuzione fissato dal contratto collettivo dalle stesse stipulato ai fini contributivi (cfr. Cass., 2 aprile 1999, n. 3912). 27 Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con sentenza 15 maggio 2018, n. 11650. 28 Cass., 2 agosto 2017, n. 19284; vedi anche Cass., 5 gennaio 2012, n. 16; Cass., 21 maggio 2004, n. 9761; Cass., 8 febbraio 2006, n. 2758; Cass., 6 maggio 2004, n. 8646; Cass., 24 febbraio 2004, n. 3675; Cass., 7 novembre 2003, n. 16762; Cass., 19 maggio 2003, n. 7842; Cass., 7 marzo 2003, n. 3494; Cass., 14 gennaio 2003, n. 456. 29 I «crediti patrimoniali» possono sorgere anche da patti, appunto, individuali.
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vero su segnalazione degli interessati – se ne imbatta: solo allora sorge il potere-dovere di intimare la diffida predetta. In altri termini l’accertamento delle inosservanze del contratto individuale di lavoro è un accertamento incidentale che può sì emergere dall’ordinaria vigilanza ma che non ne costituisce l’oggetto principale. La diversa opinione secondo la quale il d.lgs. n. 124/2004 imporrebbe un’attività di vigilanza ordinaria sul rispetto di clausole che nascono da patti individuali condurrebbe alla sovversione dell’assetto tradizionale della funzione pubblica di vigilanza. Avrebbe cioè fatta propria una concezione della vigilanza pubblica sull’osservanza di patti tra privati che per molte ragioni non la spiegano e non la soffrono: per un verso la vigilanza pubblica è, come si visto, il riflesso dell’attività di polizia amministrativa di assicurare l’ordine pubblico, e quindi l’effettività delle norme e degli atti dell’autorità che ne sono interpreti (oltre che di evitare danni all’incolumità delle persone o violazioni della proprietà). Essa dunque non si spiega su atti che derivano dall’autonomia negoziale individuale privata e che possono in qualsiasi tempo essere dalla stessa modificati o disapplicati30. Per altro verso il nostro ordinamento, se demanda esclusivamente ai privati la disciplina di determinati rapporti, non ha interesse a vigilare sull’effettività (sull’”osservanza”) di questa disciplina. Né la vigilanza sull’applicazione di patti individuali di lavoro si spiega con la funzione di favorire le conciliazioni per limitare il numero delle controversie di lavoro (vedi, per la conciliazione monocratica promossa dal personale ispettivo l’art. 11 d.lgs. n. 124/2004): un controllo pubblico sull’adempimento dei contratti individuali prima di ogni controversia mai sollevata o rilevata dalle parti avrebbe l’effetto di evidenziare loro la possibilità di contenzioso alle quali esse potrebbero non aver mai pensato piuttosto che scongiurarne l’insorgenza. Diverso è il caso in cui al personale di vigilanza sia stato chiesto di intervenire o in cui egli si sia imbattuto in violazioni contrattuali durante l’ordinaria vigilanza: in questo caso la norma che prevede l’esercizio di poteri pubblici esegue i criteri direttivi della legge delega attuata con il d.lgs. n. 124/2004 di definire un «quadro regolatorio finalizzato alla prevenzione delle controversie individuali di lavoro in sede conciliativa, ispirato a criteri di equità ed efficienza» e di semplificare «la procedura per la soddisfazione dei crediti di lavoro correlata alla promozione di soluzioni conciliative in sede pubblica» (art. 8, lett. b) ed e), della l. n. 30/2003). Tuttavia, pur non essendo richiesta una vigilanza pubblica direttamente incentrata sulla corretta applicazione della parte economica e normativa dei contratti collettivi di lavoro, e pur non essendo prevista una funzione di vigilanza sui contratti individuali di lavoro, la previsione del potere-dovere di diffidare l’adempimento dei crediti di lavoro scaturenti dall’inosservanza della disciplina contrattuale (art. 12 d.lgs. n. 124/2004) finisce, di fatto, con l’inserire quei contratti nel campo degli oggetti degli accertamenti che il personale di vigilanza può essere chiamato a svolgere. Con riguardo ai contratti collettivi la diffida accertativa non opera peraltro per allargare i confini dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune. Essa infatti pre-
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È noto che le parti private del rapporto di lavoro possono senza incorrere nei limiti di cui all’art. 2113 c.c. rinunciare o transigere liberamente su quanto disposto in sede di contrattazione individuale.
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suppone la sussistenza di crediti patrimoniali maturati dal lavoratore, eventualmente per effetto di contratti collettivi, la cui applicazione è dunque un presupposto e il fondamento del credito patrimoniale non l’effetto dello stesso. In altri termini la vigilanza sull’osservanza dei contratti collettivi e il potere-dovere di diffida accertativa non alterano il campo di applicazione della contrattazione collettiva31 né, di conseguenza, influiscono sull’efficacia soggettiva dei contratti collettivi, derivante dalle norme comuni e dall’art. 39 Cost. L’istituto della diffida accertativa finisce semmai col favorire l’effettività del principio di inderogabilità del contratto collettivo sancita dall’art. 2077 c.c. per i contratti collettivi di diritto corporativo e, com’è noto, normalmente applicato dalla giurisprudenza32 anche ai contratti collettivi di diritto comune. Sarebbe inoltre interessante studiare – ma è un tema che esula dalla presente trattazione – la possibilità che in sede ispettiva, dove manchi l’applicazione di qualsiasi contratto collettivo e la retribuzione erogata sia inequivocabilmente inferiore a quella minima desumibile da contratti collettivi presi a parametro, l’ispettore possa accertare crediti retributivi (una sorta di salario minimo accertato in sede ispettiva prima che la controversia fornisca occasione di farlo in sede giudiziaria) in relazione all’art. 36 Cost. impiegando come parametro i contratti collettivi esistenti. Infatti la contrattazione collettiva costituisce notoriamente il parametro in base al quale attuare alcuni irrinunciabili precetti costituzionali quale, anzitutto, quello del diritto del lavoratore ad una “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (articolo 36 Cost.)33. La vigilanza sulle «leggi in materia di livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» e la circostanza che il riferimento all’articolo 36 della Costituzione sia suscettibile di determinare crediti a favore di lavoratori che percepissero una retribuzione in violazione di quella «proporzionata e sufficiente» prevista dal precetto costituzionale apre la prospettiva di esercitare, in questi casi, il potere di diffida: sussisterebbe in altri termini, almeno in linea di principio, il potere-dovere dell’ispettore di diffidare il pagamento delle differenze retributive derivanti dall’applicazione del predetto principio costituzionale, in rapporti di lavoro regolati esclusivamente dalla legge e da fonti contrattuali individuali. Ammettere il potere-dovere del personale di vigilanza di diffidare il datore di lavoro di adempiere i propri debiti retributivi derivanti dal contratto costituirebbe in effetti un potente strumento di promozione dell’effettività del principio di cui all’art. 36 Cost., anche se percorrere questa prospettiva non è tuttavia scontato (una forse non insuperabile obiezione consiste in ciò che il meccanismo in base al quale la giurisprudenza utilizza il contratto collettivo per determinare il contenuto dell’obbligo di pagare la retribuzione proporzionata e sufficiente corrispondente al principio di cui all’art. 36 Cost., implica il coinvolgimento
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Cfr. la circolare del Ministero del lavoro 24 giugno 2004, n. 24. Per tutte, Cass., 3 marzo 2016, n. 423. 33 Tuttavia un’attività di vigilanza specificamente indirizzata ai contratti collettivi non è giustificata dalla diffida prevista dall’art. 12 d.lgs. n. 124/2004. Essa infatti non può essere la causa né lo scopo dell’attività di vigilanza ma ne è solo una conseguenza prevista per attuare il criterio direttivo di cui all’art. 8, lett. e), l. n. 30/2003, «di semplificazione della procedura per la soddisfazione dei crediti di lavoro correlata alla promozione di soluzioni conciliative in sede pubblica». 32
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Stefano Margiotta
dell’art. 2099 c.c. il quale tuttavia si riferisce alla determinazione della retribuzione da parte del giudice, non di autorità amministrative)34. In alternativa potrebbe esplorarsi se la modifica all’art. 14 d.lgs. n. 124/2004, dettata dall’art. 12-bis, comma 3, lett. b), d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, secondo il quale la disposizione amministrativa può adottarsi «in tutti i casi in cui le irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative», renda questo istituto applicabile al caso della retribuzione erogata illegittimamente dal datore in importo inequivocabilmente inferiore a quello desumibile dai contratti collettivi da prendere a parametro per determinarne, ai sensi del predetto art. 36, l’ammontare minimo.
5. Note conclusive. Quanto esposto qui e nei precedenti paragrafi evidenzia come il contratto collettivo, quand’anche non abbia natura di fonte del diritto obiettivo, tuttavia in parte lo integra ed attua, e, per altra parte, ne è accerchiato o ne è presupposto. Inoltre per accertare l’osservanza di norme inderogabili di legge di rilievo pubblicistico (la cui violazione determina spesso l’irrogazione di sanzioni “pubbliche”) occorre talvolta tenere in considerazione quanto i contratti collettivi stabiliscono (ad esempio quando il loro contenuto concorre a determinare l’obbligazione contributiva).
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L’adozione della diffida accertativa, secondo il Ministero del lavoro (circolare n. 1/2013) può tuttavia essere adottata solo quando sia individuabile un contratto collettivo applicato dal datore di lavoro. Il Ministero e parte della dottrina (Bolego, La diffida accertativa per crediti di lavoro pecuniari, in NLCC, 2005, 962) affermano che in mancanza di contratto collettivo il personale ispettivo non potrebbe determinare la retribuzione cui ha diritto il lavoratore in applicazione dell’art. 36 Cost. in quanto si tratterebbe di determinazione che presupporrebbe, secondo questa tesi, accertamenti di carattere giudiziale. Senonché la circostanza che le decisioni dei giudici al riguardo hanno carattere di accertamento, non cioè costitutivo, di diritti, potrebbe condurre ad ammettere, almeno sul piano teorico, la possibilità di procedere a diffidare all’adempimento anche di crediti retributivi che trovano la loro fonte solo nell’art. 36 (non di rado, d’altro canto, il personale ispettivo è chiamato a delicate valutazioni di carattere tecnico-giuridico quando, ad esempio, deve valutare se l’esecuzione di determinati contratti di lavoro di carattere formalmente autonomo sia o meno organizzata dal committente ai sensi dell’art. 2 d.lgs. n. 81/2015). Vero semmai è che in questi casi il personale ispettivo sarebbe chiamato a valutazioni dagli esiti molto incerti e spesso discutibili, e che ciò rende il suo intervento, nel caso considerato nella presente Nota, in concreto, problematico. Sulla diffida accertativa vedi: Barraco, Dopo il contratto, anche il titolo esecutivo a favore di terzo? - Ricostruzione e dubbi sulla diffida accertativa per crediti patrimoniali, in LG, 2006, 629; 637; Casale, Efficacia del diritto del lavoro e ruolo dell’ispezione del lavoro, in RIDL, 2013, I, 301; Caruso., La diffida accertativa per crediti patrimoniali: limiti e potenzialità, in LG, 2011, 1211; Cinelli, Ispezioni e diritti: a proposito degli artt. 11 e 12 d.lgs. n. 124 del 2004, in Riv. dir. sicurezza sociale, 2005, 309; Cioffi, Diffida accertativa per crediti patrimoniali: nuove regole per la validazione, in DPL, 2018, 697; Cioffi, Ispezioni in materia di lavoro: diffida accertativa per crediti patrimoniali, in DPL, 2018, 496; De Nardo, Apposizione della formula esecutiva sulla diffida accertativa (Nota a T. Frosinone, 2 agosto 2017), in LPO, 2018, 56; Marazza, Diffida accertativa e soddisfazione dei crediti di lavoro, in ADL, 2005, 237; Mastropietro, Strumenti di tutela dei crediti patrimoniali del lavoratore: la diffida accertativa, in LG, 2014, 545; Mondelli, Diffida accertativa: una lettura costituzionalmente orientata, in DPL, 2006, 481; Proto Pisani, Per un nuovo titolo esecutivo di formazione stragiudiziale, in FI, 2003, V, 117; Rausei, La diffida accertativa per crediti pecuniari, in DPL, 2006, inserto n. 4; Rausei, Potere di diffida accertativa, in DPL, 2013, 1409; Rausei, Il potere di diffida accertativa, in DRI, 2013, 536; Vallebona, Un nuovo titolo esecutivo stragiudiziale: la «diffida accertativa dei crediti patrimoniali» dei prestatori di lavoro, in Riv. esecuzione forzata, 2004.
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Vigilanza amministrativa e contratti di lavoro
La previsione di legge (art. 7, lett. b), d.lgs. n. 124/2004) della vigilanza amministrativa sulla corretta applicazione dei contratti collettivi si spiega, perciò, non tanto perché essi siano direttamente oggetto di un generalizzato controllo amministrativo ma perché sono tali e tanti gli aspetti di rilievo pubblicistico che passano attraverso l’applicazione dei contratti collettivi che, inevitabilmente, questi finiscono con l’entrare nell’orbita degli accertamenti che il personale di vigilanza in materia è chiamato a svolgere. L’art. 7, lett. b), d.lgs. n. 124/2004 non va perciò inteso come norma che impone una generalizzata attività di vigilanza su ogni parte dei contratti collettivi di diritto comune, ma come espressione sintetica dei molti i casi, la maggior parte dei quali esposta in questo scritto, in cui l’accertamento dell’applicazione o la considerazione del contratto collettivo di diritto comune, risulta determinante in occasione dell’accertamento dell’adempimento di doveri di carattere (anche) pubblicistico e per la tutela di valori di rango costituzionale.
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza Corte di Cassazione, sentenza 25 gennaio 2021, n. 1514; Pres. Raimondi – Est. Boghetich – P.M. Sanlorenzo (concl. diff.) – M.P. (avv. Pallini) c. C. (avv. Dore, Piseddu, Dore). Conferma App. Cagliari sent. n. 106/2018. Licenziamenti – Motivo illecito – Esclusività – Motivo lecito – Concorrenza.
In tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 cod. civ. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini dell’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 1, St. lav., novellato, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento. Il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.
Omissis Svolgimento del processo. 1. Con sentenza n. 106 del 4.5.2018 la Corte d’appello di Cagliari, in sede di rinvio a seguito di ordinanza n. 14871 del 2017 di questa Corte, ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo il 16.4.2009 dalla C. a M.P. in considerazione dell’andamento economico negativo delle strutture gestite dalla Congregazione che aveva imposto la riduzione dei costi e la rimodulazione dell’organizzazione di lavoro, con conseguente soppressione del posto di lavoro della dipendente che comportava, per il datore di lavoro, il costo più elevato ed attribuzione delle mansioni alla religiosa Suor A.F. (che prestava la sua opera senza corresponsione di retribuzione). 2. La P. ha proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a tre motivi illustrati da memoria. La Congregazione ha depositato controricorso. Motivi della decisione. 1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, nonché dell’art. 2697 cod. civ. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, invertito, nella sua disamina, il rapporto di necessaria causalità tra soppressione della posizione del lavoratore e riassegnazione delle sue mansioni ad altro personale, ritenendo erroneamente che quest’ultima possa essere causa della prima e non già il contrario. 2. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distret-
tuale, valutato la sussistenza del giustificato motivo di recesso con riguardo ad un motivo diverso da quello addotto nella lettera di licenziamento (trascritta solo in parte) ossia con riguardo alla crisi economica della Congregazione nel suo complesso in luogo dell’andamento economico della specifica residenza sanitaria diretta dalla P., nonostante sin dal ricorso introduttivo del giudizio era stato sottolineato che il bilancio della Rsa cui era adibita la P. era assolutamente positivo fin dal 2015 e la situazione di crisi era da imputare ad altre strutture gestite dalla Congregazione. 3. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, nonché degli artt. 1345, 2697, 2909 cod.civ. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato di utilizzare - quale elemento presuntivo della inesistenza del nesso causale tra l’asserita riorganizzazione aziendale e l’intimato licenziamento – la circostanza (non contestata e su cui si è formato giudicato) dell’esistenza di contrasti interni tra il personale religioso e la P. 4. Il primo motivo è infondato. Questa Corte ha già affermato, con ampia argomentazione che il collegio intende in questa sede ribadire, che la ragione inerente all’attività produttiva (art. 3 legge n. 604 del 1966) è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali (cfr. Cass. n. 25201 del 2016, Cass. n. 10699 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017). La modifica della struttura organizzativa che legittima l’irrogazione di un licenziamen-
Giurisprudenza
to per giustificato motivo oggettivo può essere colta sia nella esternalizzazione a terzi dell’attività a cui è addetto il lavoratore licenziato, sia nella soppressione della funzione cui il lavoratore è adibito sia nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze (Cass. n. 21121 del 2004, Cass. n. 13015 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017) sia nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto, sia nel perseguimento della migliore efficienza gestionale o produttiva o dell’incremento della redditività, fermo restando, da una parte, la non sindacabilità dei profili di congruità ed opportunità delle scelte datoriali (come previsto dall’art. 30, comma 1, della legge n. 183 del 2010, nonché, con lo stesso fine, dagli artt. 27, comma 3, e 69, comma 3, del decreto legislativo n. 276 del 2003 e dall’art. 1, comma 43, della legge n. 92 del 2012) ma, dall’altra, il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso nonché sul nesso causale tra l’accertata ragione e l’intimato licenziamento. È stato anche precisato (cfr. Cass. n. 25201 del 2016 e da ultimo Cass. n. 3819 del 2020) che l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa; ove, però, il recesso sia motivato dall’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese di carattere straordinario, ed in giudizio se ne accerti in concreto, l’inesistenza, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità e la pretestuosità della causale addotta; inoltre è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità (cfr. Cass. n. 10699 del 2017). Nel caso di specie, la Corte territoriale ha accertato la ricorrenza di una ristrutturazione organizzativa determinata dall’esigenza di ridurre i costi delle attività gestite dalla Congregazione (vista “l’esistenza a partire dal 2006 di un passivo di bilancio di diverse centinaia di migliaia di euro” che “nell’anno 2008 aveva superato il milione di euro”) e tale da integrare legittimamente il presupposto dettato dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966. Il riscontro di effettività ha correttamente ri-
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guardato la scelta aziendale di sopprimere il posto di lavoro occupato dalla lavoratrice (Responsabile della struttura) e la verifica del nesso causale tra soppressione del posto e le ragioni dell’organizzazione aziendale addotte a sostegno del recesso (adibizione di una religiosa appartenente alla Comunità con conseguente soppressione di costi del lavoro e consistenti risparmi annuali al fine di ripianare una situazione economica compromessa). 5. Il secondo motivo è inammissibile. Ove il ricorrente abbia voluto evocare la violazione del principio di immutabilità della contestazione, trattasi di questione che non risulta affatto affrontata nella sentenza impugnata e la ricorrente non indica in quale atto difensivo e in quale momento processuale la questione sarebbe stata introdotta, le ragioni del suo rigetto ed i motivi con i quali è stata riproposta al giudice del gravame, con ciò violando gli oneri di autosufficienza del ricorso per cassazione (Cass., n. 23675 del 2013; Cass. n. 23073 del 2015). Omissis 6. Il terzo motivo non è fondato. Questa Corte ha affermato che, in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 cod.civ. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 1, St. lav. novellato, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento (Cass. n. 9468 del 2019; cfr. altresì Cass. n. 23583 del 2019 che ha confermato la sentenza impugnata che, solamente dopo avere escluso la sussistenza in concreto del giustificato motivo, aveva posto in relazione tra loro gli elementi indiziari acquisiti al giudizio per valutare il carattere ritorsivo del licenziamento). Il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. L’esclusività sta a significare che il motivo illecito può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest’ultimo sia stato formalmente addotto, ma non sussistente nel riscontro giudiziale. Il giudice, una volta riscontrato che il datore di lavoro non abbia assolto gli oneri su di lui gravanti e riguardanti la dimostrazione del giustificato motivo oggettivo, procede alla verifica delle allegazioni poste a fondamento della domanda del lavoratore di accertamento della nullità per motivo ritorsivo, il cui positivo riscontro giudiziale dà luogo all’applicazione della più ampia e massima tutela prevista dal primo comma dell’art. 18 I. n. 300/70.
Gionata Cavallini
Nel caso in esame, la Corte distrettuale si è conformata ai principi di diritto espressi da questa Corte e, una volta accertata la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di recesso, ha correttamente ritenuto superfluo indagarne il carattere ritorsivo in quanto
mancante il requisito determinante dell’efficacia determinativa esclusiva. 7. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità sono compensate in considerazione della novità della questione trattata. Omissis
L’equivocabile «esclusività» del motivo illecito determinante il licenziamento Sommario :
1. Premessa. – 2. Il caso di specie e il principio di diritto affermato. – 3. La nozione di «motivo illecito»… – 4. …e le tappe del relativo iter di accertamento, con i connessi oneri probatori. – 5. L’equivocabile «esclusività» del motivo illecito e la possibile concorrenza di un motivo lecito (purché «non determinante» del recesso).
Sinossi. Dopo avere dato conto dell’attuale rilevanza della fattispecie del licenziamento ritorsivo, il commento si sofferma sulla nozione di licenziamento ritorsivo e sui suoi elementi costitutivi, rilevando come la necessaria «esclusività» del motivo illecito debba essere valutata non tanto in termini di radicale insussistenza di un concorrente motivo lecito, quanto di (in) sussistenza di un adeguato nesso causale tra il motivo lecito formalmente addotto e il licenziamento. Abstract. After having briefly highlighted the relevance of the figure of the illicit dismissal, the commentary focuses on the judicial figure of the “retaliation dismissal”, sustaining that the «exclusivity» of the illicit cause of dismissal should by appreciated not simply as the lack of any justified reason of dismissal, but mostly as the inexistence of an adequate relationship of causality between the justified reason presented by the employer and the dismissal.
1. Premessa. La decisione in commento costituisce un ulteriore tassello dell’evoluzione giurisprudenziale in materia di licenziamento “ritorsivo” o “per rappresaglia”, particolare fattispecie di recesso viziato – sub specie di radicale nullità – dalla sussistenza di un motivo illecito «esclusivo e determinante», sulla scorta di quanto previsto dall’art. 1345 c.c., norma dettata
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Giurisprudenza
per i contratti ma applicabile anche agli atti negoziali unilaterali in forza della clausola di rinvio di cui all’art. 1322 c.c.1. La figura del licenziamento ritorsivo ha assunto negli ultimi anni una particolare rilevanza e ricevuto maggiori attenzioni da parte degli interpreti, pratici e studiosi2, per almeno due distinti ordini di ragioni. Da un lato, gli interventi legislativi dell’ultimo decennio, che come noto hanno significativamente compresso l’area di operatività della tutela reintegratoria, divenuta sempre meno “regola” e sempre più “eccezione”3, comportano nella pratica la necessità, per il lavoratore interessato ad accedere alla tutela reale, di contestare il licenziamento non solo sotto il profilo del difetto di giustificazione (cui consegue, di regola, una tutela di tipo indennitario, salvo particolari ipotesi, pure recentemente ampliate dalla giurisprudenza costituzionale4), ma anche e soprattutto, almeno in via principale, sotto il profilo della radicale illiceità del recesso, prezioso “grimaldello”5 per conseguire il diritto alla reintegrazione in servizio, a prescindere peraltro dalle dimensioni dell’impresa e dalla categoria legale di appartenenza del lavoratore6. Non a caso, in questa prospettiva, è significativo che una buona parte della giurisprudenza di merito in materia di licenziamento ritorsivo riguardi lavoratori appartenenti alla categoria dei dirigenti7. Sotto diverso profilo, l’attenzione dedicata dagli interpreti alla fattispecie del licenziamento ritorsivo si è sviluppata contestualmente all’evoluzione e allo sviluppo (se non all’elevazione ad autonomo corpus normativo) del diritto antidiscriminatorio, che ha comportato la necessità di effettuare una precisa actio finium regundorum tra due figure8 – il licenziamento ritorsivo e il licenziamento discriminatorio – certamente limitrofe ma diversissime dal punto di vista teorico, che pure sino ad una nota sentenza di legittimità del 20169 venivano spesso fatte oggetto di una tendenziale e non troppo meditata assimila-
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Lo evidenzia Carinci, Il licenziamento discriminatorio o «per motivo illecito determinante» alla luce dei princìpi civilistici: la causa del licenziamento quale atto unilaterale fra vivi a contenuto patrimoniale, in RGL, 2012, n. 4, I, spec. 644, nell’ambito di un ampio e articolato ragionamento inerente i profili causali dell’atto unilaterale di recesso. Limitandosi agli studi monografici, v. Marinelli, Il licenziamento discriminatorio e per motivo illecito, Giuffrè, 2017; Biasi, Saggio sul licenziamento per motivo illecito, Cedam, 2017. Carinci, Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di legge o in forma orale, in Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2016, 27 ss. C. cost., 1 aprile 2021, n. 59, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 18, comma 4, St. lav., nella parte in cui prevede che il giudice “possa” (e non “debba”) applicare la tutela reale in caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Secondo l’efficace formula di Biasi, Il licenziamento nullo: grimaldello o chiavistello del sistema “a tutele crescenti”?, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario Breve alla Riforma “Jobs Act”, Cedam, 2016, 147 ss. Lo rileva anche Bandelloni, Osservazioni sul licenziamento per motivo illecito, unico e determinante, in RIDL, 2020, 4, II, 641, secondo cui «si registra infatti un aumento dei tentativi di accedere all’area residuale di applicazione della tutela reale piena» attraverso appunto il “grimaldello” del motivo illecito. V. ad es. Trib. Milano, 10 aprile 2018, in RGL, 2018, n. 3, II, 385 ss., con nota di Cavallini; Trib. Bari, 16 giugno 2020, in GC.com, 9 settembre 2020, con nota di Varva; Trib. Milano, 16 novembre 2019; Trib. Milano, 11 settembre 2020, n. 22238; App. Milano, 9 ottobre 2020, n. 664. Ballestrero, Tra discriminazione e motivo illecito: il percorso accidentato della reintegrazione, in DLRI, 2016, 231. Cass., 5 aprile 2016, n. 6575, in RIDL, 2016, n. 3, II, 714, con note di M.T. Carinci, Gottardi e Tarquini.
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zione10, la quale finiva per mettere in discussione il carattere squisitamente oggettivo della discriminazione vietata e la tendenziale irrilevanza dell’animus11. La convergenza di tali due processi, l’uno (vale a dire l’incremento del contenzioso) di carattere eminentemente pratico, ma bisognoso di più solide basi concettuali, l’altro (l’emancipazione dagli schemi di un diritto antidiscriminatorio ormai maturo12) viceversa di carattere teorico ma foriero di importanti conseguenze applicative, ha indotto la giurisprudenza ad un approccio più meditato in relazione alla figura del licenziamento ritorsivo, e in particolare ai suoi elementi costitutivi e all’iter del loro accertamento in giudizio, che si è tradotto nell’ultimo decennio nell’elaborazione di una serie di regole e principi, in parte sintetizzati nella decisione in commento.
2. Il caso di specie e il principio di diritto affermato. La sentenza in commento ha definito una intricata vicenda processuale scaturente da un licenziamento intimato nel 2009 a una lavoratrice dipendente di una congregazione religiosa, responsabile della gestione di una residenza sanitaria assistita, per giustificato motivo oggettivo consistente nella soppressione del posto di lavoro e nell’affidamento delle relative mansioni ad una religiosa già operante nella struttura, che avrebbe prestato la sua attività senza corresponsione di retribuzione. All’esito del procedimento di merito, la Corte d’Appello di Cagliari aveva dichiarato il licenziamento illegittimo, sotto il profilo del difetto di giustificazione (comportante, secondo la normativa vigente ratione temporis, la reintegrazione in servizio, senza necessità quindi di ulteriori approfondimenti in merito al carattere ritorsivo del recesso), ma la Corte di cassazione13 aveva poi, in accoglimento del ricorso promosso dalla congregazione, cassato la sentenza d’appello, sulla scorta dell’orientamento, nel frattempo consolidatosi, per cui nella nozione di giustificato motivo oggettivo può essere poi ricondotta anche l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione14, e per cui non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite
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Sul punto, spec. Biasi, Saggio sul licenziamento per motivo illecito, cit., 162 ss., e Marinelli, op. cit., 141 ss. In giurisprudenza, v. ad es. Cass., 16 luglio 2015, n. 14928, secondo cui «il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta [è] assimilabile a quello discriminatorio». 11 Molto esplicitamente Cass., 5 aprile 2016, n. 6575, cit., secondo cui «la discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente – ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta – ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro». 12 Di «emancipazione del licenziamento discriminatorio dal paradigma dell’unicità del motivo illecito» parla Cannati, Itinerari giurisprudenziali sui licenziamenti «ritorsivi-discriminatori» e novità normative, in RGL, 2017, n. 4, II, 525. 13 Cass., 15 giugno 2017, n. 14871. 14 Così la nota Cass., 7 dicembre 2016, n. 25201, in FI, 2017, I, 134, con nota di G. Santoro-Passarelli (nonché, in precedenza, Cass., 18 novembre 2015, n. 23620, e Cass., 20 novembre 2015, n. 23791, in MGL, 2016, 461, con nota di Pizzuti), che ha superato il precedente orientamento pure ribadito da Cass., 12 giugno 2015, n. 12242 e Cass., 16 marzo 2015, n. 5173, entrambe in RGL, 2015, II, 574, con nota di Salvagni.
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al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite15. In sede di rinvio a seguito di questa (prima) pronuncia di cassazione, il procedimento veniva riassunto avanti la Corte d’Appello di Cagliari, che stavolta accertava – sulla scorta dei principi di diritto affermato all’esito del (primo) procedimento di legittimità – la legittimità del licenziamento. La lavoratrice promuoveva quindi un (secondo) procedimento di cassazione, lamentando in particolare che la Corte d’Appello avesse invertito il rapporto di causalità tra soppressione della posizione del lavoratore e riassegnazione delle sue mansioni (che avrebbe quindi costituito non la causa, bensì l’effetto della soppressione) e che il giudice di merito avesse trascurato di considerare la circostanza, non contestata, relativa all’esistenza di contrasti interni tra la lavoratrice e il personale religioso addetto alla congregazione. La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, ha ritenuto entrambi i motivi infondati, ribadendo, quanto alla sussistenza del giustificato motivo oggettivo, i principi già affermati nella propria precedente ordinanza del 2017 e rilevando, in buona sostanza, come l’accertata sussistenza di una valida ragione organizzativa rendesse superflua qualsiasi ulteriore approfondimento in merito all’eventuale sussistenza di un intento ritorsivo. In particolare, richiamando recenti decisioni di legittimità16, la pronuncia riafferma il principio per cui «il motivo illecito addotto ex art. 1345 cod. civ. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo» il che richiede che «il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale», con la conseguenza che l’accertamento dell’eventuale motivo illecito «richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento».
3. La nozione di «motivo illecito»… I principi di diritto enunciati dalla Cassazione riguardano, a ben vedere, due profili distinti – sebbene strettamente connessi – inerenti da un lato l’identificazione degli elementi costitutivi del licenziamento ritorsivo (e, in particolare, il necessario carattere «esclusivo e determinante» del motivo illecito, nel suo rapporto con il diverso motivo astrattamente lecito formalmente addotto dal datore di lavoro) e dall’altro l’iter di accertamento dell’eventuale nullità del licenziamento che trovi la sua ragione unica e determinante in un illecito motivo di “rappresaglia”. Vale la pena di ricordare che, al netto dei tentennamenti in merito alla riconducibilità o meno della figura all’area del diritto antidiscriminatorio cui si è fatto cenno, la giurisprudenza è ormai consolidata nell’affermare che il licenziamento ritorsivo «costituisce l’ingiu-
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Principio che era stato riaffermato e precisato, tra l’altro, da Cass., 28 settembre 2016, n. 19185, in Labor, 2017, n. 2, 183 ss., con nota di Cavallini. 16 Cass., 4 aprile 2019, n. 9468; Cass., 23 settembre 2019, n. 23583.
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sta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni»17. La più recente giurisprudenza di merito ha avuto modo di precisare efficacemente che si è in presenza di un licenziamento ritorsivo «allorquando l’atto di recesso costituisce un mero pretesto per perseguire con il licenziamento un altro e diverso scopo: quello di procedere all’espulsione dal tessuto aziendale dei lavoratori scomodi o peggio sgraditi per ragioni del tutto svariate»18. Tra le ragioni “del tutto svariate” che possono essere alla base di quella situazione di conflittualità entro la quale si inserisce l’illecita rappresaglia datoriale, nella casistica giurisprudenziale si ritrovano tipicamente la precedente rivendicazione, da parte del lavoratore, di diritti inerenti il rapporto di lavoro19, ovvero episodi di legittima e prolungata assenza dello stesso per ragioni di salute o personali20, ovvero – specie quando si tratta di lavoratori apicali – tensioni con i vertici proprietari o comunque contrasti in merito alle strategie aziendali21. Elementi costitutivi del licenziamento ritorsivo sono dunque, da un lato, la sussistenza di un motivo illecito determinante il recesso, nei termini anzidetti, dall’altro la sua natura esclusiva, la quale richiede l’insussistenza di un concorrente motivo lecito (oggettivo o soggettivo).
4. …e le tappe del relativo iter di accertamento, con i connessi oneri probatori.
Quanto alla distribuzione degli oneri probatori e alle tappe dell’iter di accertamento della natura ritorsiva del recesso, è noto che, fermo restando che l’onere della prova del motivo lecito formalmente addotto incombe sul datore di lavoro (art. 5, l. 604/1966)22, l’onere di provare il carattere ritorsivo/discriminatorio del recesso grava sul lavoratore, il quale tuttavia, trattandosi di prova non agevole, ai limiti della probatio diabolica – stante
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Ex multis, Cass., 3 dicembre 2015, n. 24648; Cass., 16 luglio 2015, n. 14928; Cass., 18 marzo 2011 n. 6282. Trib. Terni, 12 luglio 2019, n. 311; Trib. Latina, 31 gennaio 2019, n. 135; Trib. Benevento, 15 marzo 2018, Trib. S. Maria Capua Vetere, 10 febbraio 2015, n. 598. 19 Trib. Parma, 1 febbraio 2018, n. 21, per un caso in cui il licenziamento era conseguito alla rivendicazione di differenze retributive. Nel senso che il licenziamento ritorsivo costituisce reazione a «comportamenti legittimi risultati sgraditi al datore di lavoro [...] tra i quali classicamente rientra la rivendicazione dei propri ritenuti diritti», Trib. Bari, 16 giugno 2020, cit. 20 Trib. Milano, 10 dicembre 2020, la quale ha ritenuto che «il recesso datoriale non trovi altra plausibile spiegazione se non nella ritorsione dovuta alla lunga assenza della lavoratrice». 21 Trib. Milano, 10 aprile 2018, per un caso di licenziamento intimato a un dirigente in ragione della sua vicinanza ad altro dirigente di vertice rimosso dal consiglio di amministrazione a seguito di contrasti con i vertici proprietari. 22 Infatti, «l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso» (così Cass., 14 marzo 2013, n. 6501, in RIDL, 2013, n. 4, II, 888, con nota di Ratti, frequentemente richiamata dalla giurisprudenza di merito: ex plurimis Trib. Roma, 2 agosto 2017, n. 7160; Trib. Ragusa, 31 marzo 2017, n. 246; Trib. Milano, 15 novembre 2016, n. 3037). 18
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anche l’inapplicabilità della regola di parziale inversione dell’onere probatorio prevista in materia di discriminazioni (art. 28, d.lgs. 150/2011), a meno che la ritorsione non possa essere ricondotta ai fattori specificamente previsti dal diritto antidiscriminatorio23 – potrà avvalersi di presunzioni24. Nell’ambito di tale accertamento presuntivo, un indice che da sempre assume particolare rilievo ai fini dell’accertamento della ritorsività del licenziamento è quello relativo alla stretta contiguità temporale tra la condotta (o le condotte) del lavoratore che ha determinato l’illecita reazione datoriale e il successivo recesso datoriale, come emergente dal dato cronologico25. Più di recente la giurisprudenza, anche di legittimità, ha riconosciuto che tra gli indici presuntivi «presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole»26, arrivando ad affermare che la «palese insussistenza del giustificato motivo, non è di per sé sufficiente, ma di fatto, rappresenta la spia – e al tempo stesso, la condicio sine qua non – della nullità del licenziamento per motivo illecito determinante, rappresentando la premessa ed il presupposto per l’applicazione della tutela piena»27, secondo una linea interpretativa ormai avallata anche dalla giurisprudenza di legittimità28. Tale ricostruzione presenta delle importanti ricadute anche quanto all’iter di accertamento della ritorsività del licenziamento, suggerendo di anteporre la verifica della sussistenza del motivo lecito formalmente addotto a quella del motivo illecito allegato dal lavoratore. In questo senso, la sentenza in commento infatti precisa che «la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini dell’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 1, St.lav., novellato, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento», con la conseguenza che l’accertamento dell’eventuale situazione di conflittualità o contrasto, astrattamente idonea a integrare gli estremi del motivo illecito, potrà essere assorbita dall’accertata sussistenza del giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) formalmente addotto dal datore di lavoro, sulla scorta dell’orientamento secondo cui la giustificazione addotta dal datore di lavoro, «rappresentando un prius logico
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Ricorda Marinelli, op. cit., 144, che le differenze tra la fattispecie del licenziamento discriminatorio e quella del licenziamento per motivo illecito «rendono ragionevole l’applicazione di un diverso regime probatorio», il che non esclude la possibilità che, di fatto, si verifichino ipotesi in cui si realizza una sovrapposizione tra le due figure. 24 V. ad esempio, nella giurisprudenza commentata, Cass., 3 novembre 2016, n. 22323, in ADL, 2017, n. 1, 229, con nota di Matarese; Cass., 8 agosto 2011, n. 17087, in RGL, 2012, n. 2, II, 326, con nota di Cannati. 25 Da ultimo, valorizza il dato cronologico anche Trib. Palermo, 24 novembre 2020, n. 3570, relativa al noto filone dei rider. In precedenza, Trib. Milano, 16 novembre 2019, n. 2043; Trib. Milano, 10 aprile 2018, n. 9519; Trib. Milano, 11 settembre 2020, n. 22238. 26 In termini: Cass., 8 agosto 2011, n. 17087, cit.; Trib. Parma, 1 febbraio 2018, n. 21. Sul punto, se vuoi, Cavallini, L’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo come «indice presuntivo» della ritorsività del licenziamento, in RGL, 2018, n. 3, II, 385 ss. 27 Così, condivisibilmente, Trib. Benevento, 15 marzo 2018. 28 Nel senso che il Giudice deve valutare «tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso» v. da ultimo Cass., 4 aprile 2019, n. 9468; Cass., 23 settembre 2019, n. 23583.
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rispetto al motivo illecito, se provata, renderebbe superfluo l’ulteriore accertamento della ritorsività del licenziamento»29, orientamento pure non univoco30.
5. L’equivocabile «esclusività» del motivo illecito e la
possibile concorrenza di un motivo lecito (purché «non determinante» del recesso). Fino a questo punto la sentenza – in punto di necessaria esclusività del motivo illecito con i connessi risvolti quanto al relativo iter di accertamento – potrebbe apparire meramente affermativa di orientamenti già sufficientemente consolidati, quale quello per cui il motivo ritorsivo deve essere non solo determinante, ma anche «esclusivo». Per la verità, all’indomani della riscrittura dell’art. 18, primo comma, St. lav. ad opera della riforma Fornero, non era mancato chi aveva avanzato tesi alternative. Valorizzando la circostanza che la disposizione non fa menzione dell’esclusività del motivo illecito, ma solo del suo carattere determinante («perché determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 del codice civile»), una parte della dottrina aveva ipotizzato che nel regime sanzionatorio dell’art. 18 St. lav. post Fornero il licenziamento ritorsivo non dovesse più essere sorretto da un motivo illecito in via esclusiva, potendosi accertare la nullità del recesso anche in presenza di un’altra ragione giustificatrice, di natura soggettiva o organizzativa31. Tale ipotesi ricostruttiva, tuttavia, è stata avversata in dottrina32 e non ha riscosso fortuna in giurisprudenza, la quale ha mantenuto ferma la propria posizione per cui la concorrente sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo esclude in radice la possibilità di pervenire all’accertamento della nullità del recesso ai sensi dell’art. 1345 c.c.
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Così Gramano, Sull’accertamento della ritorsività del licenziamento, in ADL, 2015, n. 4-5, 983. Sul punto anche Bandelloni, op. cit., 643 s. In tal senso, in giurisprudenza spec. Cass., 14 marzo 2013, n. 6501, cit., secondo cui «l’eventuale mancanza di prova del carattere ritorsivo del recesso in tanto rileva in quanto risulti, invece, dimostrata la giusta causa o il giustificato motivo».. 30 In senso contrario, infatti, v. Cass., 26 maggio 2015, n. 10834, in ADL, 2015, n. 4-5, 966, con nota di Gramano, secondo cui l’accertamento della natura ritorsiva «va logicamente anteposto alla verifica della sussistenza della giusta causa così come affermata dal datore di lavoro», nonché Trib. Napoli, 2 dicembre 2015, secondo cui «nell’iter processuale di accertamento della natura discriminatoria o ritorsiva del recesso, si deve procedere, innanzitutto, alla ricerca della prova della natura persecutoria-vendicativa-discriminatoria della condotta imputata al datore di lavoro». 31 In tal senso Aiello, Il licenziamento nullo (per discriminazione, per motivo ilecito, per ragioni tipiche o per «altre ipotesi di nullità») e il licenziamento orale, in Giorgi (coordinato da), La riforma del mercato del lavoro. Aspetti sostanziali e processuali, Jovene, 2013, 154 ss., secondo cui il legislatore del 2012 avrebbe inteso, mettendo l’accento sul carattere determinante del recesso, obliterare il requisito della esclusività di cui all’art. 1345 c.c. Carinci, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e flexicurity “all’italiana” a confronto, in DLRI, n. 4, 556, ove ulteriori richiami alla dottrina precedente alla riforma Fornero. In senso dubitativo, Marazza, L’art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, in ADL, 2012, n. 3, 616. 32 Barbera, Il licenziamento alla luce del diritto antidiscriminatorio, in RGL, 2013, n. 1, I, spec. 161, e Marinelli, op. cit., 77, secondo cui «l’ipotesi di licenziamento per motivo illecito delineata dalla Riforma Fornero ricalca quella tradizionalmente estrapolata dall’ordinamento» (e cioè dall’art. 1345 c.c.).
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In questo contesto, tuttavia, la sentenza in commento svolge una precisazione ulteriore, e cioè quella che «il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato»33. Tale precisazione, ad avviso di chi scrive, è suscettibile di aprire una breccia nell’orientamento per cui non può aversi un licenziamento ritorsivo laddove emerga la sussistenza del motivo lecito formalmente addotto dal datore di lavoro, consentendo di ricondurre correttamente il requisito della esclusività del motivo illecito al suo carattere determinante del recesso sul piano causale. Infatti, la precisazione della Cassazione rappresenta, a ben vedere, un’affermazione di una teoria di causalità: il licenziamento è ritorsivo se esso non sarebbe stato intimato se non vi fosse stato il motivo illecito (e quindi se non vi fosse stato il comportamento legittimo del lavoratore rispetto al quale il licenziamento costituisce una «ingiusta e arbitraria reazione»). Ma se così è, non è sufficiente l’astratta configurabilità di un motivo lecito (soggettivo o oggettivo) per escludere la natura determinante (e, in questo senso, esclusiva) del motivo illecito, posto che in tal caso il motivo lecito, pur astrattamente sussistente, non ha alcun peso determinante, ma assume solo valenza di mero pretesto, di “scudo” per giustificare un licenziamento dettato in realtà (esclusivamente) da altre e inconfessabili ragioni. Pensiamo al caso in cui una pluralità di lavoratori abbiano posto in essere un’identica condotta disciplinarmente rilevante che possa astrattamente integrare gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ma la sanzione del licenziamento venga destinata solo al lavoratore di quel gruppo che avesse poco tempo prima avanzato delle rivendicazioni nei confronti del datore di lavoro, mentre agli altri venga riservata una sanzione conservativa. Applicando acriticamente l’orientamento prevalente, dovremmo concludere che il licenziamento è legittimo, stante la sussistenza degli estremi del motivo lecito, senza neppure la necessità di indagini ulteriori circa il motivo illecito (a meno che non emerga la riconducibilità dello stesso a un fattore di protezione previsto dal diritto antidiscriminatorio34). Eppure, in un caso come questo – al netto evidentemente dei problemi inerenti alla dimensione probatoria – è evidente che quel licenziamento, «se non ci fosse stato il motivo illecito» (parafrasando la sentenza in commento) non sarebbe stato intimato, risultando così il motivo illecito determinante e «esclusivo», pur in presenza di una concorrente ragione lecita. Un esempio analogo potrebbe essere svolto facendo riferimento a un’ipotesi di licenziamento formalmente intimato per giustificato motivo oggettivo, consistente nella soppressione della posizione con contestuale redistribuzione delle mansioni, intimato nei confronti di un lavoratore che avesse, poco tempo prima, avanzato rivendicazioni di sorta o
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Precisazione già emersa in tempi recenti in alcune pronunce di legittimità: Cass., 4 aprile 2019, n. 9468; Cass., 23 settembre 2019, n. 23583. 34 Posto che la ragione discriminatoria è idonea a prevalere anche sull’eventuale sussistenza di una ragione lecita concorrente, salvo che sia integrata una vera e propria causa di giustificazione, o “esimente”, ai sensi del diritto antidiscriminatorio: sul punto Tarquini, Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale, Giuffrè, 2015, 21 ss.; La Tegola, Oltre la discriminazione: legittima differenziazione e divieti di discriminazione, in DLRI, 2009, n. 3, 471 ss.
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fosse stato vittima di una qualche conflittualità con il datore di lavoro. Anche qui, potrebbe anche darsi che la redistribuzione delle mansioni risulti poi, a valle, effettiva, ma resterebbe comunque che la “vera ragione” del licenziamento non sia da rinvenire in tale riorganizzazione, bensì nell’intenzione del datore di lavoro di disfarsi di un lavoratore sgradito. In questo senso, del resto, occorre ricordare che la giurisprudenza in materia di licenziamento organizzativo ha tenuto a precisare, evidenziando la necessità di un’attenta verifica del nesso causale, che «non basta tuttavia che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all’origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta»35, e la dottrina ha avuto modo di precisare che l’insussistenza di un’altra motivazione debba essere intesa in senso “giuridico” e non “materiale”36, con la conseguenza che se pure il fatto addotto sussiste nella sua materialità, ma è ritenuto dal giudice non sufficiente a legittimare il licenziamento, esso deve considerarsi come non sussistente ai fini dell’esclusività del motivo illecito37. Solo una particolare attenzione al carattere “determinante” (più che “esclusivo”) del motivo illecito (o, se si preferisce, alla (in)sussistenza del nesso causale con il motivo lecito formalmente addotto) può sventare, come chi scrive ebbe già a sostenere, il rischio che la ripartizione delle mansioni possa diventare una sorta di “lasciapassare” idoneo a giustificare qualsiasi licenziamento, anche quello di rappresaglia, posto che a ogni licenziamento consegue inevitabilmente un qualche effetto riorganizzativo. La sopravvalutazione del fatto storico della ridistribuzione delle mansioni, in altri termini, si traduce in un argomento fallace (se effettiva ripartizione vi è stata, allora il licenziamento è legittimo) che finirebbe per impedire qualsiasi controllo effettivo sulle scelte effettuate dall’imprenditore38 e sulla loro effettiva genesi39. Si tratta quindi, in casi come questi, di valorizzare la precisazione svolta dalla sentenza in commento e verificare se la ragione lecita (oggettiva o soggettiva) formalmente addotta, quand’anche astrattamente sussistente, abbia davvero assunto rilevanza determinante del licenziamento sul piano causale, o se questo non trovi piuttosto la propria vera ragione nel motivo illecito, che dovrà in questo caso intendersi determinante ed esclusivo. Un’operazione ermeneutica di questo tipo pare potersi rinvenire in una recente pronuncia della Corte d’Appello di Milano, che ha avuto modo di precisare che «il riscontro di effettività non attiene alla sola scelta aziendale di sopprimere il posto di lavoro occupato dal lavoratore o di ridurre il personale, non potendo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo trovare la sua ontologica giustificazione nella scelta operata (ad libitum)
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Cass., 28 settembre 2016, n. 19185, cit.; Cass., 21 luglio 2016, n. 15082, in D&G, 2016, 33, 78, con nota di Leverone, e Cass., 1 luglio 2016, n. 13516. 36 Biasi, Il licenziamento nullo, cit., 169, riprendendo la nota querelle sorta in relazione al “fatto contestato” nel regime dell’art. 18, comma 4, St. lav. 37 Pasqualetto, Sfumature di motivo illecito nel licenziamento: da quello ritorsivo a quello persecutorio, in ADL, 2020, 177. 38 Così Muggia, Brevi osservazioni sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in D&L, 1996, 497. 39 Sia consentito il rinvio a Cavallini, La redistribuzione delle mansioni giustifica il licenziamento, purché ne costituisca la causa e non l’effetto, in Labor, 2017, n. 2, 183 ss.
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dall’imprenditore (…), ma attiene alla verifica del nesso causale tra la soppressione del posto di lavoro e le ragioni della organizzazione aziendale addotte a sostegno del recesso»40. Insomma il motivo lecito (in questo caso una riorganizzazione, pure effettivamente realizzata), isolatamente considerato, significa ben poco, dovendo esso essere valutato nella prospettiva del rapporto di causalità che la lega (o meno) al recesso, in quanto – continua la Corte d’Appello di Milano – «ove il nesso causale manchi, anche al fine di individuare il lavoratore colpito dal recesso, si disvela l’uso distorto del potere datoriale, emergendo una dissonanza che smentisce l’effettività della ragione addotta a fondamento del licenziamento», rimanendo a questo punto – esclusivamente – un motivo illecito “determinante”. Gionata Cavallini
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App. Milano, 9 ottobre 2020, n. 664, in Boll. Adapt.
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Giurisprudenza Tribunale di F irenze, decreto 9 febbraio 2021; Consani – Nidil CGIL Firenze, Filt CGIL Firenze e Filcams CGIL Firenze c. Deliveroo Italy s.r.l. Repressione della condotta antisindacale – Collaborazioni eterorganizzate – Legittimazione processuale – Esclusione.
Gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali non sono legittimati ad attivare il procedimento ex art. 28 L. 300/1970 in relazione a conflitti che si sviluppano nell’ambito di collaborazioni organizzate dal committente.
Omissis Pare opportuno premettere, da un lato, come, alla stregua della migliore elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale, l’art. 28 l. n. 300/70 abbia natura sostanziale soltanto nella parte in cui definisce la condotta antisindacale, mentre per il resto configuri una disposizione di carattere esclusivamente processuale che agisce sul piano della legittimazione processuale estendendo la legittimazione attiva anche a soggetti che ne sarebbero stati privi; dall’altro, come il riferimento espresso al soggetto attivo della condotta antisindacale che il legislatore identifica specificamente nel datore di lavoro, restringa il perimetro di azione del procedimento per la repressione della condotta antisindacale ai soli conflitti che si sviluppano all’interno dei rapporti di natura subordinata e che vedono come controparte, appunto, il datore di lavoro, non rientrando, invece, nel campo di applicazione della norma statutaria de qua i conflitti che coinvolgono eventuali diritti di libertà, attività sindacale o astensione dal lavoro di lavoratori autonomi (Corte Cost. n. 75/241) o parasubordinati. In altri termini, secondo la costante giurisprudenza la legittimazione ad attivare il procedimento per la repressione della condotta antisindacale previsto dall’art. 28, l. n. 300/1970, quale garanzia tipica del rapporto di lavoro subordinato, non può essere estesa alle organizzazioni sindacali di soggetti, quali i liberi professionisti o lavoratori parasubordinati, che non hanno un tale vincolo di soggezione, restando in tal caso esperibili gli ordinari strumenti processuali. Ciò premesso, ritiene il Tribunale che non sia compatibile con la natura della cognizione e la funzione proprie della presente fase del rito speciale prescelto dalle OO.SS. ricorrenti, l’assunzione di prove costituende finalizzate all’accertamento incidentale (strumentale alla preliminare verifica della legittimazione attiva) della natura subordinata dei rapporti individuali di lavoro de quibus. In base alle risultanze degli atti e documenti di causa, quindi, reputa il giudicante, appunto nei limiti della sommarietà A parere del giudicante, risulta, infatti, decisivo osservare come neppure dalle allegazioni
in fatto delle OO.SS. ricorrenti (per giunta relative al periodo precedente all’abolizione dal 2.11.20 del sistema di prenotazione degli slot «SSB» – Self-Service Booking – con introduzione di un sistema di free log-in che prescinde dai punteggi statistici), emerga (oltre che l’esclusività) l’obbligatorietà della prestazione dei riders, evincendosi, viceversa, che nel periodo dedotto in giudizio i riders fossero liberi di dare o meno la propria disponibilità per i vari turni (slot) offerti dall’azienda, e, quindi, di decidere se e quando lavorare, senza dovere giustificare la loro decisione e senza dover reperire un sostituto. E, come già osservato dalla Corte di Appello di Torino nella sentenza n. 26/2019, «Non solo le modalità di svolgimento della prestazione ma anche l’obbligo di lavorare sono requisiti di fattispecie nell’art. 2094 cc. Il contenuto dell’obbligazione gravante sul dipendente è testualmente definito dall’art. 2094 c.c. come prestazione del proprio lavoro, sicché il predetto obbligo entra a far parte del contratto». Del resto, anche la Suprema Corte di Cassazione non ha mancato di evidenziare, ai fini della distinzione fra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo, come assuma comunque valore determinante – anche a voler accedere ad una nozione più ampia della subordinazione – l’accertamento della avvenuta assunzione, da parte del lavoratore, dell’obbligo contrattuale di porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative e di impiegarle con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro e in funzione dei programmi cui è destinata la produzione, per il perseguimento dei fini propri dell’impresa datrice di lavoro (v., fra le altre, Cass. n. 2842/2002). Ai fini che ci occupano in questa fase, dunque, appare dirimente constatare come, anche aderendo, per ipotesi, alla prospettazione dei fatti offerta dalle OO.SS. ricorrenti, possa ritenersi provato che l’azienda poteva disporre della prestazione lavorativa dei riders solo se questi decidevano di candidarsi a svolgere l’attività di consegna negli slot prestabiliti dalla società stessa, senza che tale ultima circostanza risulti decisiva ai fini della qua-
Giurisprudenza
lificazione dei rapporti, tenuto conto che, appunto, la resistente non poteva comunque imporre ai riders, né, di lavorare in tali turni, né, di non revocare la disponibilità data. Né a differenti conclusioni circa la sussistenza o meno in capo alle OO.SS. ricorrenti della legittimazione ad attivare il procedimento de quo, parrebbe potersi pervenire quand’anche, per ipotesi, i rapporti individuali di lavoro dei riders venissero giuridicamente qualificati in termini di collaborazioni organizzate dal committente (o eterorganizzate). Come è noto, l’art. 2 d.lgs. n. 81/2015 statuisce che: «1. A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali». Orbene, ad avviso del giudicante, pare doversi escludere, sia, sulla base di una piana lettura del dettato normativo, sia, alla luce della ratio della norma, che dall’applicazione a siffatta tipologia di collaborazioni della «disciplina del rapporto di lavoro subordinato» derivi l’attribuzione agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali della legittimazione ad attivare lo speciale procedimento ex art. 28 l. n. 300/70 in relazione a conflitti che si sviluppano nell’ambito di collaborazioni organizzate dal committente. Nel senso dell’opzione interpretativa in questa sede accolta, pare, infatti, deporre, in primo luogo, la stessa formulazione letterale della norma, nella parte in cui, stabilendo al comma 2, che la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento, tra l’altro, «a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore», pare indurre univocamente a ritenere che l’estensione di cui al comma 1 concerna solo la disciplina sostanziale relativa al trattamento economico e normativo dei rapporti individuali di lavoro subordinato. Diversamente opinando, infatti, non si comprenderebbe la ragione per la quale il fatto che in un certo settore le collaborazioni abbiano un determinato assetto economico e normativo loro conferito da un accordo stipulato da associazioni sindacali rappresen-
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tative, farebbe venire meno l’esigenza di applicare a esse la disciplina del lavoro subordinato. In secondo luogo, pare assumere rilievo il fatto che la disposizione in esame, nel prevedere che alle collaborazioni siffatte si applichi soltanto la disciplina del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c., confermi, di conseguenza come esse, a livello di fattispecie, continuino ad appartenere alla categoria del lavoro autonomo. Ancora, pare doversi considerare come la disposizione normativa in esame, avendo quale finalità quella di assicurare, quanto al trattamento economico e normativo, a coloro che prestano il proprio lavoro all’interno di collaborazioni eterorganizzate, quel livello di protezione che è accordato dalla disciplina del lavoro subordinato, abbia quali destinatari i singoli prestatori di lavoro titolari di rapporti di collaborazione organizzata dal committente, e non le organizzazioni sindacali portatrici di interessi collettivi. In conclusione, allo stato, pare corretto escludere che il richiamo della disciplina (sostanziale) del rapporto di lavoro subordinato implichi ex se l’applicabilità alla fattispecie della collaborazione eterorganizzata di una disposizione di carattere esclusivamente processuale quale è, nei termini anzidetti, l’art. 28 l. n. 300/70. A maggior ragione, a parere del giudicante, deve ritenersi che la legittimazione delle OO.SS. ricorrenti ad attivare lo speciale procedimento in questione non possa rinvenire il proprio fondamento nell’art. 47-quinquies d.lgs. n. 81/08, che, come è noto, ha quali destinatari i lavoratori impiegati in attività di consegna tramite piattaforme digitali, e stabilisce che «Ai lavoratori di cui all’articolo 47-bis [i.e. lavoratori autonomi e/o occasionali, n.d.r. ] si applicano la disciplina antidiscriminatoria e quella a tutela della libertà e dignità’ del lavoratore previste per i lavoratori subordinati, ivi compreso l’accesso alla piattaforma», dal momento che, se la disciplina a tutela della libertà e dignità del lavoratore può ragionevolmente intendersi come richiamante il Titolo I dello Statuto dei Lavoratori («Della Libertà e Dignità dei Lavoratori»), la medesima non pare, invece, altrettanto idonea a sorreggere l’estensione ai rapporti di lavoro autonomo e/o occasionale dei riders l’operatività del Titolo IV dello Statuto dei Lavoratori («Disposizioni varie e generali»), di cui appunto fa parte l’art. 28. Ai fini che ci occupano, appaiono, infine, irrilevanti i richiami di parte ricorrente alla disciplina antidiscriminatoria, avendo le summenzionate OO.SS. agito in questa sede ex art. 28 l. n. 300/70 e non ex art. 5, co. 2 d.lgs. n. 216/2003. Omissis
Claudio Serra
Sulla repressione della condotta antisindacale oltre il perimetro istituzionale della subordinazione Sommario :
1. La domanda azionata e lo svolgimento del processo. – 2. I motivi di rigetto della domanda. – 3. Sul perimetro di applicabilità dell’art. 28. – 4. Sull’accertamento incidentale della subordinazione. – 5. Repressione della condotta antisindacale nei rapporti di collaborazione organizzata dal committente. – 6. Art. 28 e disciplina antidiscriminatoria nei rapporti di lavoro autonomo. – 7. Osservazioni conclusive.
Sinossi. L’A. esamina il decreto ex art. 28 St. lav. emesso il 9 febbraio 2021 dal Tribunale di Firenze, che ha escluso, per le oo.ss. portatrici degli interessi collettivi dei collaboratori eterorganizzati, la legittimazione ad attivare il procedimento per la repressione della condotta antisindacale. L’A. ricostruisce i passaggi argomentativi della decisione e ne evidenzia le criticità, analizzando in particolare i profili di contrasto con l’orientamento che si sta consolidando nella giurisprudenza di legittimità e di merito, teso ad estendere la tutela dei collaboratori. Abstract. The Author examines the case-law issued by the Court of Florence, which stated that trade unions representing platform workers cannot sue against anti-trade unionist conduct. The Author reconstructs the argumentative steps of the ruling and highlights the critical issues. Markedly, he focuses on the conflict with the leading case-law on the topic in Italian Courts, aimed at extending the protection of collaborators.
1. La domanda azionata e lo svolgimento del processo. I ricorrenti, organismi locali di associazioni sindacali nazionali di settore, hanno convenuto in giudizio una nota società operante nel settore del food delivery, sostenendo che quest’ultima, con una comunicazione inoltrata a tutti i propri riders nell’ottobre 2020, avesse loro imposto l’accettazione del CCNL Assodelivery/UGL Rider come condizione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, tramite un licenziamento seguito da immediata riassunzione, e che ciò fosse avvenuto «all’improvviso e senza alcun coinvolgimento dei soggetti rappresentativi» con lesione «del diritto alla consultazione informata […] da ritenersi sussistente anche con riguardo al rapporto di lavoro etero-organizzato ex art. 2 del d.lgs. n. 81/15». Le OO.SS. ricorrenti hanno, quindi, chiesto al Tribunale di Firenze di dichiarare l’inefficacia delle risoluzioni contrattuali, di disapplicare il contratto Assodelivery/UGL Rider e di attivare «efficaci ed effettive procedure informative e di consultazione».
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La società resistente si è costituita in giudizio eccependo in particolare – oltre ovviamente all’insussistenza nel merito delle condotte antisindacali imputate dalle OO.SS. ricorrenti – l’incompetenza territoriale del Tribunale adito in favore del Tribunale di Milano e l’inammissibilità del ricorso per l’inapplicabilità dell’art 28 l. n. 300/1970 ai conflitti che si sviluppano al di fuori dei rapporti di lavoro subordinato. Il Tribunale di Firenze ha ravvisato la propria competenza territoriale, sulla base della circostanza che, nei procedimenti ex art. 28, deve pronunciarsi il giudice del luogo in cui il comportamento denunciato è stato commesso: poichè tale comportamento va individuato nel recesso comunicato ai riders e nella successiva proposta di riassunzione – entrambi atti unilaterali recettizi – la condotta asseritamente antisindacale deve ritenersi commessa «in ogni luogo nel quale i riders […] hanno ricevuto in modalità telematica le predette comunicazioni, e, quindi, anche in Firenze». Il Giudice ha invece accolto l’eccezione di carenza di legittimazione processuale in capo alle OO.SS. ricorrenti e la domanda è stata pertanto rigettata.
2. I motivi di rigetto della domanda. Il Tribunale ha ritenuto che l’art. 28, individuando espressamente il soggetto attivo della condotta antisindacale nel «datore di lavoro», restringa il perimetro di azionabilità del procedimento per la repressione della condotta antisindacale ai soli conflitti che si sviluppano nel rapporto di lavoro subordinato; la natura subordinata del rapporto di lavoro fra i riders e la convenuta, peraltro, non potrebbe essere accertata incidentalmente con l’assunzione di prove costituende, ad avviso del Giudice non compatibile con la prima fase del rito ex art. 28 prescelto dalle ricorrenti. La legittimazione delle OO.SS., prosegue il Tribunale, non potrebbe essere ravvisata neppure qualificando i rapporti di lavoro dei riders come collaborazioni organizzate dal committente ai sensi dell’art. 2, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81; né varrebbero infine a legittimare le ricorrenti gli artt. 47-bis e 47-quinquies del d.lgs. n. 81/2015, che – nel prevedere l’estensione ai lavoratori autonomi operanti anche attraverso piattaforme digitali della disciplina antidiscriminatoria e di quella «a tutela della libertà e dignità del lavoratore» prevista per i rapporti di lavoro subordinato – richiamerebbero secondo il l Giudice il solo Titolo I dello Statuto dei Lavoratori (rubricato appunto «Della libertà e dignità del lavoratore»), e non anche il Titolo IV di cui fa invece parte l’art. 28.
3. Sul perimetro di applicabilità dell’art. 28. Che il «datore di lavoro» menzionato nell’art. 28 sia solo quello di un rapporto di lavoro subordinato, è un’affermazione di principio la quale evoca il dibattito dottrinale che ha accompagnato l’evoluzione qualificatoria dei soci-lavoratori in campo cooperativistico, finalizzato – per quel che qui rileva – anche a comprendere, appunto, se il procedimento
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di repressione della condotta antisindacale potesse essere instaurato dalle associazioni sindacali dei soci-lavoratori. In sintesi, infatti, si era a lungo affermato che le prestazioni lavorative del socio di una cooperativa, conformi alle previsioni del patto sociale, non fossero da ricondurre allo schema del rapporto di lavoro subordinato1, rappresentando, piuttosto, l’adempimento del contratto di società per l’esercizio in comune dell’impresa societaria2; secondo altro orientamento, la qualificazione dell’attività in termini di lavoro associato o subordinato doveva invece essere rimessa caso per caso alla prudente valutazione del giudice3. La l. 3 aprile 2001, n. 142, come modificata dalla l. 14 febbraio 2003, n. 30, ha definitivamente reso possibile anche dal punto di vista formale, per le cooperative, instaurare rapporti di lavoro subordinato con i propri soci4. Per ciò che concerne l’applicabilità dell’art. 28 in ambito cooperativistico, si è dunque osservato che «la difformità di tutela delle associazioni sindacali dei soci di cooperativa, che resta possibile per il mezzo degli ordinari strumenti processuali, è giustificata dalla diversità del rapporto sociale rispetto a quello di lavoro. Qualora però [...] la società cooperativa instauri con i propri soci anche rapporti di lavoro subordinato» deve essere ritenuta «pacifica l’utilizzabilità del procedimento di repressione della condotta antisindacale»5. Il Tribunale, nel provvedimento in esame, appare aver seguito lo stesso schema di ragionamento, perché ha condiviso la premessa che l’art. 28 si applichi solo nel campo del lavoro subordinato e, di conseguenza, si è domandato se il rapporto di lavoro dei riders possa essere qualificato come tale. Prima di esaminare, però, la correttezza della premessa e dell’approdo nel merito cui il Giudice è pervenuto, è necessario aprire una breve parentesi sull’accertamento istruttorio condotto dal Tribunale.
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Anche se il legislatore aveva comunque esteso al socio di cooperativa numerosi profili di disciplina del rapporto di lavoro subordinato (ad esempio in materia di orario di lavoro, riposi, tutela della maternità, sicurezza e salute sul luogo di lavoro). V. ex pluribus Cass., 21 marzo 1997, n. 2557, in Soc., 1997, 1029, con nota di Cupido, nonché C. cost., 20 luglio 1995, n. 334, in LG, 1996, 233 con nota di Pizzoferrato. Così ad es. Cass., 3 marzo 1998, n. 2315, in RIDL, 1998, III, 486 con nota di Nogler. Per ulteriori riferimenti v. Garofalo-Miscione (a cura di), La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, 2002; Occhino, Ammissibilità del ricorso ex art. 28 l. n. 300/1970 contro la condotta antisindacale della cooperativa di lavoro (nota a App. Milano, 30 marzo 2001) in RIDL, 2002, IV, 724 e De Angelis, Il lavoro nelle cooperative dopo la l. n. 142/2001: riflessioni a caldo su alcuni aspetti processuali, in LG, 2001, 813. Così Chiaromonte, Legittimazione passiva della cooperativa di lavoro nel procedimento ex art. 28 St. lav., antisindacalità dell’induzione al recesso da un’organizzazione sindacale e contenuto dell’ordine giudiziale di rimozione degli effetti di tale condotta (nota a Trib. Roma, 3 marzo 2008), in RIDL, 2008, III, 516; v. anche, in giurisprudenza, Cass., 27 settembre 2002, n. 14040, in FI, 2003, I, 149; Cass., 27 agosto 2002, n. 12584, in RIDL, 2003, III, 482, con nota di Vincieri e Cass., 18 luglio 2001, n. 9722, in FI, 2001, I, 3093.
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4. Sull’accertamento incidentale della subordinazione. Il Giudice ha escluso che la natura subordinata del rapporto possa essere accertata incidentalmente con l’assunzione di prove costituende, ritenuta incompatibile con la prima fase del procedimento ex art. 28. La scelta non appare, di per sé, particolarmente persuasiva, se solo si considera, ad esempio, che l’accertamento incidentale della subordinazione è consentito anche nel “rito Fornero”, che con il procedimento ex art. 28 condivide la struttura bifasica – a cognizione sommaria e, in caso di opposizione, a cognizione piena – così come la preordinazione a una pronuncia celere. Resta fermo, in ogni caso, che la scelta di non dare corso ad accertamenti istruttori incidentali può ritenersi giustificata dal tenore letterale della norma, la quale si riferisce appunto al potere-dovere del Giudice di decidere sul ricorso dopo aver assunto “sommarie informazioni”. In secondo luogo, per dar corso ad un accertamento incidentale sulla natura subordinata del rapporto il Giudice deve peraltro mantenersi nel perimetro della domanda azionata, mentre dal testo del provvedimento in esame non si rinvengono elementi per ritenere che le OO.SS. ricorrenti abbiano formulato una specifica domanda di accertamento, né che essa possa comunque desumersi dall’assetto complessivo del ricorso. Il Giudice, infatti, osserva come «neppure dalle allegazioni in fatto delle OO.SS. ricorrenti [...] emerga (oltre che l’esclusività) l’obbligatorietà della prestazione dei riders», ovvero uno dei requisiti tradizionalmente ricondotti alla fattispecie di cui all’art. 2094 c.c.
5. Repressione della condotta antisindacale nei rapporti di collaborazione organizzata dal committente.
Il terzo dei motivi di rigetto del ricorso è senz’altro il più interessante. Il Tribunale osserva innanzitutto che l’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 prevede al comma 1, come noto, l’applicabilità della disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche alle collaborazioni prevalentemente personali, continuative e organizzate dal committente, salvo poi aggiungere, al comma 2, che tale disciplina non si estende però «alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo». La conclusione che ne trae è che l’estensione di cui al comma 1 concerna solo la disciplina sostanziale relativa al trattamento economico e normativo del rapporto, posto che, in caso contrario, «non si comprenderebbe la ragione per la quale il fatto che in un certo settore le collaborazioni abbiano un determinato assetto economico e normativo loro conferito da un accordo stipulato da associazioni sindacali rappresentative, farebbe venire meno l’esigenza di applicare a esse la disciplina del lavoro subordinato». La circostanza che l’art. 2 preveda testualmente che alle collaborazioni eterorganizzate si applichi «la disciplina» del lavoro subordinato, prosegue la pronuncia in esame, varrebbe
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a confermare che esse, a livello di fattispecie, devono invece continuare ad essere qualificate come attività di lavoro autonomo. Infine, l’art. 2 ad avviso del Tribunale non legittimerebbe attivamente le organizzazioni sindacali perché avrebbe ad oggetto la tutela dei singoli collaboratori eterorganizzati, e non dei soggetti portatori di interessi collettivi. L’analisi di questo capo del provvedimento non può che prendere le mosse dalla considerazione che l’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 «nonostante lo sforzo interpretativo […] è rimasto una norma enigmatica»6; deve peraltro tener conto del percorso ermeneutico culminato nella recente ma ormai celebre sentenza della Suprema Corte (Cass., 24 gennaio 2020, n. 1663)7, così come nelle successive pronunce della giurisprudenza di merito. L’assunto del Tribunale di Firenze, secondo cui l’art. 2 sarebbe norma di disciplina ma non di fattispecie e, pertanto, le collaborazioni eterorganizzate rimarrebbero in sé rapporti di lavoro autonomo, si pone in linea con quanto affermato dai giudici di legittimità nell’arresto poc’anzi menzionato8. Tuttavia, non può preliminarmente trascurarsi la circostanza che la stessa sentenza n. 1663, nel tentativo di delineare il concetto di eterorganizzazione, ha suscitato varie perplessità negli interpreti che hanno commentato la pronuncia. È stato osservato, infatti, che «non si comprende in che modo la nozione di lavoro etero-organizzato appaia distinta rispetto a quella di lavoro etero-diretto», poiché «una differenza siffatta si può ammettere esclusivamente a condizione di accettare che sia subordinato solo il lavoro nel quale il datore di lavoro impartisce continuativamente le istruzioni per l’esecuzione della prestazione»9. Se vengono a mancare i tratti che differenziano l’eterorganizzazione dalla subordinazione, già preliminarmente a qualsiasi altro ragionamento sarebbe dunque sostenibile che la disciplina del lavoro subordinato si possa applicare alle collaborazioni eterorganizzate integralmente e senza eccezioni10. La sentenza n. 1663 della Suprema Corte, sul punto, ha osservato che «in passato, quando il legislatore ha voluto assimilare o equiparare situazioni diverse al lavoro subordinato, ha precisato quali parti della disciplina della subordinazione dovevano trovare applicazio-
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Così Magnani, Subordinazione, eterorganizzazione e autonomia tra ambiguità normative e operazioni creative della dottrina, in DRI, 2020, I, 107. 7 Pubblicata su tutte le maggiori riviste. 8 In questo senso, peraltro, si esprime anche il CCNL Assodelivery/UGL, che definisce in più punti i riders come lavoratori autonomi. Per ulteriori riflessioni sul punto, v. F. Carinci, Il CCNL rider del 15 settembre 2020 alla luce della Nota dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro spedita a Assodelivery e UGL, firmatari del contratto, in LDE, 2021, I. 9 Ferrante, Alienità dell’organizzazione produttiva e lavoro subordinato. A margine della questione dei ciclo-fattorini, in MGL, num. straord. 2020, 81; nello stesso senso, Magnani, op. cit., 111 ss., che ravvisa «la difficoltà, se non l’impossibilità, di distinguere un lavoro eterodiretto e un lavoro eterorganizzato» concludendone che «tutte le costruzioni che si basano sulla nozione di lavoro eterorganizzato nascono, per così dire, con un vizio di origine» e che l’eterorganizzazione altro non è che «la nozione di subordinazione aggiornata»; v. anche Tosi, L’art. 2, comma 1, d. Lgs. n. 81/2015: una norma apparente?, in ADL, 2015, 1127, secondo cui «nel diritto vivente non è configurabile eterodirezione senza eterorganizzazione e neppure eterorganizzazione senza eterodirezione» e ancora Magnani, Al di là dei ciclofattorini. Commento a Corte di Cassazione n. 1663/2020, in LDE, 2020, I, la quale ritiene che «le puntualizzazioni operate dalla Corte, essenzialmente incentrate sulla differenziazione tra eterorganizzazione e coordinamento, non siano affatto decisive». 10 De iure condendo, nell’ipotesi che l’orientamento teso ad equiparare eterorganizzazione e subordinazione “piena” si consolidi, se ne renderebbe peraltro auspicabile, a quel punto, la trasposizione sul piano normativo.
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ne», e che la disciplina applicabile alle collaborazioni eterorganizzate non può in ogni caso «essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici»11; ha affermato, inoltre, che «quando l’etero-organizzazione […] è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato»12. La giurisprudenza di merito successiva alla sentenza n. 1663 ha iniziato ad affermare che la disciplina della subordinazione, nei casi previsti dal primo comma dell’art. 2, deve essere applicata «tutta intera, senza che si possa distinguere tra normativa applicabile e normativa non applicabile»13. L’assunto del Tribunale, per cui l’estensione della disciplina della subordinazione di cui all’art. 2, comma 1, si limiterebbe «al trattamento economico e normativo dei rapporti», appare dunque contrario ai recenti approdi cui la giurisprudenza di merito è pervenuta per ovviare alle residue lacune del ragionamento effettuato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 1663. Deve comunque osservarsi che, quand’anche l’iter argomentativo del provvedimento in esame fosse ritenuto coerente con il dettato testuale e con la ratio della norma, esso non apparirebbe comunque di per sé dirimente ai fini della decisione: resterebbe infatti da stabilire, più a monte, quali disposizioni dell’ordinamento lavoristico rientrino nel concetto di «trattamento economico e normativo», e quali no. Non vi è ragione di ritenere, di per sé, che l’art. 28 debba essere escluso dalle disposizioni che costituiscono il «trattamento normativo» del rapporto, anche se sul versante processuale e dall’angolazione delle relazioni collettive14. Nel provvedimento in esame si legge che l’art. 2 avrebbe ad oggetto la tutela dei singoli collaboratori e non delle loro rappresentanze: si tratta però di un’affermazione non solo priva di compiuta motivazione, ma che si potrebbe sostenere sia anche contraria al principio di libertà dell’organizzazione sindacale ex art. 39 Cost. e al diritto di associazione «garantito a tutti i lavoratori» dall’art. 14 st. lav.15.
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Si tratta di un’osservazione condivisibile, anche se la stessa Corte poco oltre appare contraddirsi affermando che «non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 c.c.»; tale rilievo è stato commentato criticamente, ex pluribus, da Magnani, Al di là dei ciclofattorini, cit., che ha osservato come «se l’affermazione [...] avesse seguito, potrebbe aprire la strada ad un soggettivismo interpretativo incontrollabile». 12 Con più specifico riferimento invece, al tessuto delle relazioni industriali, Novella, Il rider non è lavoratore subordinato, ma è tutelato come se lo fosse, in LLI, 2019, V, 1, 97 e ss., sottolinea la «necessità di evitare che le possibili deroghe all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato rimesse agli accordi collettivi di cui all’art. 2, comma 2, realizzino, ove la fattispecie dovesse essere considerata di lavoro subordinato, un vulnus ai principi dettati dalle note pronunce della Corte cost. n. 121/1993 e 115/1994 relative alla necessità di riconoscere l’applicazione delle discipline del lavoro subordinato a fattispecie che per natura abbiano le caratteristiche della subordinazione». 13 Così ad es. Trib. Palermo, 24 novembre 2020, n. 3570, in LDE, 2021, I, con nota di Fava. 14 A conferma di questa impostazione v. anche Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, in Labor, 2020, I, 23, il quale lascia intendere che, a fronte della “tutela selettiva” prevista per i riders autonomi dal capo V-bis del d.lgs. n. 81/2015, l’art. 2 preveda per i collaboratori eterorganizzati «l’applicazione dell’intero diritto del lavoro», riferendosi ovviamente al lavoro subordinato. Nel senso che l’art. 28 debba considerarsi una disposizione dal contenuto anche sostanziale, v. Pacchiana Parravicini, La repressione della condotta antisindacale: significato e apporto di una norma (apparentemente) processuale, in LDE, 2020, II. 15 Per quanto qui rilevi, si osservi che «l’esercizio del diritto di associazione sindacale costituzionalmente garantito» è previsto e disciplinato anche dallo stesso CCNL Assodelivery/UGL (art. 29).
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Se tutti i lavoratori hanno la facoltà di aderire a un’organizzazione sindacale al fine di tutelare le proprie libertà fondamentali nell’esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, qualsiasi condotta datoriale che ostacoli l’esercizio dei diritti sindacali incide inevitabilmente sulla sfera giuridica non solo delle organizzazioni, ma anche dei singoli aderenti, e viceversa16: che la disciplina del rapporto di lavoro subordinato si applichi solo ai lavoratori e non ai soggetti collettivi è dunque un rilievo, se non tautologico, quantomeno privo di ricadute concrete ai fini della decisione. All’esito di un esame più ragionato delle interazioni e del grave squilibrio che connota i rapporti di lavoro coinvolti, infatti, si può ritenere che la tutela normativa dell’art. 2 – di per sé non puntualmente delimitata nel suo dato letterale – qualora non ne sia riconosciuta la possibilità di esercizio in capo alle rappresentanze dei lavoratori si riduca a una tutela fortemente ridimensionata, in contrasto con quelle che paiono invece essere le linee evolutive in materia. La possibilità di estendere alle collaborazioni la disciplina non solo sostanziale, ma anche processuale del rapporto di lavoro subordinato inizia ad essere riconosciuta, del resto, anche dalle ultime pronunce di altri Tribunali italiani. Ad esempio, un recentissimo decreto ex art. 28 del Tribunale di Milano17, muovendo da una lettura in chiave evolutiva della norma, ha affermato che il procedimento d’urgenza ex art. 28 è azionabile anche dalle organizzazioni sindacali che rappresentino collaboratori e prestatori d’opera occasionale, poiché l’estensione prevista dal d.lgs. n. 81/2015 «non può che riguardare ogni profilo, sia di carattere sostanziale che processuale» e, appunto, «riduttivo sarebbe […] se il legislatore avesse riconosciuto ai collaboratori un diritto privo della possibilità di tutela»18.
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V. sul punto Tosi, Riders, il Tribunale di Firenze nega ai sindacati l’azionabilità dell’art. 28 St. Lav., in GLav, 2021, IX, 26 ss., che – pur ritenendo che la decisione in esame sia sorretta da “robusti argomenti” – riconosce come l’art. 28 sia «eventualmente azionabile per garantire la tutela di diritti individuali (essendo pacifica la cd. plurioffensività della lesione di tali diritti)»; Ballestrero, Diritto sindacale, Giappichelli, 2014, 211, osserva che «non significa che vi sia lesione di un interesse collettivo solo quando la condotta del datore di lavoro leda diritti e prerogative del sindacato. Ogni atto o comportamento idoneo a colpire o impedire o limitare la libertà e l’attività sindacale lede l’interesse collettivo di cui è portatore il sindacato, anche quando si concretizza nella lesione diretta e immediata di un interesse individuale del singolo lavoratore». Per l’orientamento contrario, secondo cui «il procedimento ex art. 28 S.L. è riservato ai casi in cui venga in questione la tutela dell’interesse collettivo del sindacato al libero esercizio delle sue prerogative, interesse che è distinto ed autonomo rispetto a quello dei singoli lavoratori», v. invece – fra le pronunce più recenti – Cass., 2 gennaio 2020, n. 1, in GI, 2020, 634, con nota di Ciarcià. 17 Trib. Milano, 28 marzo 2021. A conferma della circostanza che si tratta di una materia in continua evoluzione, v. anche il recentissimo “Protocollo quadro sperimentale per la legalità contro il caporalato, l’intermediazione illecita e lo sfruttamento lavorativo del settore del food delivery” – sottoscritto il 24 marzo 2021 dal Ministro del Lavoro, Assodelivery, Cgil, Cisl e Uil – e l’accordo del 29 marzo 2021 sottoscritto da una società del Gruppo Just Eat con Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uil Trasporti, Nidil-Cgil, Felsa-Cisl e Uiltemp, con il quale la società si è impegnata ad assumere i propri riders con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. 18 Contra v. Raimondi, Interesse collettivo, diritti individuali omogenei e la nuova azione di classe, in Razzolini, Varva, Vitaletti (a cura di), Sindacato e processo (a cinquant’anni dallo Statuto dei Lavoratori), Giuffrè, 2020, 63 ss., che ha rimarcato come nel nostro ordinamento il legislatore abbia previsto due modelli di tutela dei diritti riconducibili ad una pluralità di soggetti: «nel caso della rappresentanza processuale, infatti, il legislatore ha autorizzato un soggetto collettivo a far valere diritti altrui, sulla base di una espressa delega dei soggetti lesi» (è il caso ad esempio della tutela antidiscriminatoria ai sensi del d.lgs. 216/2003), mentre «vi sono casi in cui, invece, la legge attribuisce ad un soggetto collettivo individuato la legittimazione ad agire iure proprio», come appunto nelle ipotesi di ricorso ex art. 28. Per ulteriori approfondimenti, v. Petrillo, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, Aracne, 2005, Gambaro, Interessi diffusi, interessi collettivi e gli incerti confini tra diritto pubblico e diritto privato, in RTDPC, 2019, 779 e ss., Di Stasi, L’interesse collettivo e la vis espansiva della legittimazione processuale, in Studi in memoria di Mario Giovanni Garofalo, Cacucci, 2015.
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Un’ultima considerazione. Come noto, negli anni più recenti si sta affermando la tendenza all’utilizzo dell’art. 28 anche come rivendicazione del pluralismo sindacale, nei confronti non tanto del datore di lavoro quanto delle altre organizzazioni19. L’art. 2, comma 2, del d.lgs. 81/2015 prevede espressamente che la stipulazione di accordi collettivi nazionali escluda l’applicabilità del comma 1 alle collaborazioni: se è così, il ricorso ex art. 28 potrebbe essere considerato, dunque, anche come un rimedio a tutela delle organizzazioni sindacali pretermesse per evitare che la sottoscrizione di contratti collettivi “di comodo” consenta ai datori di lavoro di eludere l’applicazione dell’art. 2 comma 1 e delle garanzie che tale disposizione prevede a favore dei collaboratori. Nella vicenda in esame, le oo.ss. ricorrenti hanno censurato, preliminarmente, proprio la sottoscrizione dell’accordo Assodelivery/UGL mentre era ancora in corso la trattativa promossa dal Ministero del Lavoro con le organizzazioni comparativamente più rappresentative. Il Giudicante, tuttavia, nella propria decisione non ha mai dato prova di aver preso in considerazione tale ulteriore profilo.
6. Art. 28 e disciplina antidiscriminatoria nei rapporti di lavoro autonomo.
Dubbio appare anche il rilievo del Tribunale secondo cui l’art. 47-quinquies del d.lgs. n. 81/2015, che estende ai lavoratori autonomi operanti su piattaforma la disciplina «a tutela della libertà e dignità del lavoratore» subordinato, richiamerebbe solo il Titolo I dello Statuto dei Lavoratori e non anche il Titolo IV, di cui fa invece parte l’art. 28. Da un lato, depone in questo senso il dato letterale: il Titolo I dello Statuto, infatti, è rubricato testualmente «Della libertà e dignità del lavoratore». Si potrebbe sostenere, però, che dalle “libertà” menzionate non vi sia ragione di escludere la libertà sindacale, riconosciuta dallo Statuto nel successivo Titolo II. Se così fosse, ne discenderebbe l’applicabilità anche dell’art. 28, da azionare proprio contro quei comportamenti datoriali che siano «diretti ad impedire o limitare l’esercizio» di tale libertà. È per contro condivisibile, infine, il rilievo dell’inconferenza, nella vicenda in esame, della disciplina antidiscriminatoria, posto che l’art. 28 e l’art. 5 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 hanno in comune solo la legittimazione ad agire in capo alle organizzazioni sindacali, ma si fondano su presupposti diversi già a partire dal piano della prospettazione fattuale20.
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Sul punto, v. anche Martone, Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, in Dell’Olio, Piccinini, Ferrari (a cura di), La tutela dei diritti nel processo del lavoro, Giappichelli, 2008, nonché Pacchiana Parravicini, op. cit.; in giurisprudenza, Cass., 9 febbraio 2015, n. 2375, in www.iusexplorer.it. 20 In ogni caso, per l’applicabilità ai riders della tutela antidiscriminatoria ex art. 5 d.lgs. n. 216/2003, con la relativa legittimazione attiva in capo alle organizzazioni sindacali, v. di recente Trib. Bologna, 31 dicembre 2020, in LDE, 2021, I, con nota di Fava. V. anche TosiPuccetti, Rider, la valenza discriminatoria del ranking oltre l’affiliazione sindacale, in GLav, 2021, II, 115 ss.
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7. Osservazioni conclusive L’assetto complessivo del decreto esaminato induce a ritenere, alla luce delle considerazioni che precedono, che il Giudice fiorentino si sia attenuto a un’impostazione interpretativa ormai in corso di superamento. In un contesto come quello attuale, in cui la giurisprudenza e le parti sociali stanno iniziando ad estendere progressivamente l’ambito della tutela da riconoscere ai collaboratori eterorganizzati – così come, più in generale, a tutti i lavoratori non formalmente inquadrati come dipendenti – la scelta di negare il rimedio processuale d’urgenza alle organizzazioni portatrici degli interessi collettivi di tali lavoratori presenta, dunque, qualche profilo critico già quantomeno sul piano dell’evoluzione ermeneutica. Anziché persistere nell’attribuzione all’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 di un’efficacia limitata che in realtà la norma non pare avere, può essere auspicabile che si consolidi invece l’orientamento che si sta sviluppando in senso opposto, più favorevole a fasce di lavoratori tradizionalmente fragili e anche più coerente con quello che pare essere lo spirito delle recenti riforme con cui queste tutele sono state introdotte nel nostro ordinamento. Claudio Serra
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Giurisprudenza Tribunale di P alermo, sentenza 24 novembre 2020; Pres. Paola Marino – Est. Paola Marino – M.T. (avv. C. De Marchis, M. Bidetti, S. Vacirca, G. Lomonaco) c. Foodinho srl (avv. F. Pagani, F. Tanca, G. Castronovo). Lavoro (rapporto) – Lavoro su piattaforma – Qualificazione – Continuità – Potere disciplinare – Potere direttivo – Etero-organizzazione – Subordinazione – Licenziamento orale – Reintegrazione.
L’attività di consegna di pasti a domicilio svolta da un fattorino, per il tramite di una piattaforma digitale che ne diriga in ogni passaggio le prestazioni, è riconducibile alla fattispecie del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c., e non già alla disciplina delle collaborazioni eteroorganizzate ex art. 2, comma 1, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81. Depone in tal senso anche la circostanza – quando riscontrata nel caso di specie – che l’applicativo della piattaforma, nel condizionare la prenotazione dei turni di lavoro al c.d. punteggio di eccellenza conseguito dal rider, renda totalmente ineffettiva la sua autonomia in ordine alla scelta dell’‘an’ e del ‘quando’ della prestazione, costringendolo materialmente a lavorare per non subire penalizzazioni (ivi inclusa la sanzione espulsiva della c.d. disconnessione) nell’accesso alle successive prenotazioni. Tale meccanismo denoterebbe, infatti, l’esistenza di un vero e proprio potere disciplinare ‘occulto’, tanto da configurare, unitamente all’ulteriore elemento del costante controllo sull’attività svolto dall’algoritmo tramite la geo-localizzazione del fattorino, una condotta tipica della subordinazione. Su queste premesse deve concludersi che la piattaforma operi non già quale mero intermediario, bensì nelle vesti di «impresa di trasporto di persone o di distribuzione di cibo e bevande a domicilio». Omissis Fatto e diritto Con ricorso depositato il 29/07/2020, il ricorrente, premesso di avere svolto attività di ciclofattorino (id est “rider”) in favore della Foodinho s.r.l., sin dal 28 settembre 2018, dedusse di avere prestato attività lavorativa in forma continuativa sino al 3.03.2020, quando venne disconnesso dalla piattaforma e mai più riconnesso alla medesima, nonostante le sue ripetute fondate richieste, e impugnò la condotta datoriale quale licenziamento orale, discriminatorio e ritorsivo, in relazione alle legittime richieste poco prima avanzate nei confronti della società, di fornitura dei DPI e di applicazione di condizioni di lavoro più trasparenti e favorevoli, minacciando azione giudiziaria; rivendicò la natura subordinata del rapporto di lavoro, in ragione delle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa nella fase di esecuzione degli ordini ricevuti. Descritto il modello organizzativo imposto dalla società convenuta, il ricorrente dedusse, infatti, che Foodihno s.r.l. non consente alcuna autonomia in sede di ritiro e consegna dei prodotti e nella determinazione del corrispettivo, dando luogo ad una subordinazione in fase di attuazione del rapporto, e che tutta l’attività del ciclofattorino è caratterizzata dall’assenza di auto-
nomia, da un puntuale e dettagliato coordinamento da parte della convenuta e da sanzioni e penalizzazioni atipiche in caso di scostamenti dal modello organizzativo. Chiese, quindi, in principalità di qualificare il rapporto di lavoro come subordinato ed in subordine quale collaborazione etero-organizzata, ex art. 2 del d.lgs. 81/15, che impone, in ragione della equiparazione normativa (Cassazione, 24 gennaio 2020 n. 1663), l’applicazione ed il rispetto della disciplina del lavoro subordinato. Chiese, quindi, oltre che l’applicazione della normativa sui licenziamenti nulli, altresì l’applicazione, anche per via equitativa, della disciplina di settore prevista dal CCNL (Trasporti e Logistica o in subordine Commercio e Terziario), nonché il riconoscimento come tempo di lavoro delle frazioni temporali nelle quali è stato “a disposizione della società” in attesa di ricevere un ordine ovvero è stato impegnato in attività ausiliarie, proponendo domanda di condanna al pagamento di differenze retributive. Da ultimo il ricorrente richiese l’applicazione della speciale sanzione prevista dall’art. 47-ter d.lgs 81/15, per il comportamento omissivo della convenuta rispetto alle informazioni essenziali per la tutela dei propri diritti che egli aveva sollecitato.
Giurisprudenza
In particolare, il ricorrente espose in punto di fatto l’organizzazione datoriale, le caratteristiche della piattaforma, le modalità di esecuzione della prestazione da parte dei riders e quelle di svolgimento del proprio rapporto di lavoro, delle quali documentò in allegato al ricorso gli elementi pregnanti. Dedusse ed allegò al riguardo: «1. Foodinho s.r.l. è una azienda multinazionale spagnola operante con il marchio “Glovo” in Italia dal 2016 che opera nel settore delle consegne per conto di partner convenzionati o non convenzionati (doc. 01) attraverso i ciclofattorini. 2. L’attività è effettuata attraverso il coordinamento di una rete di rider la cui prestazione è costantemente gestita e diretta dalla piattaforma digitale dalla fase iniziale di accettazione dell’ordine, al suo ritiro (la c.d. “presa consegna”), sino al recapito e alla rimessa del denaro. 3. Il ciclo produttivo della società si realizza, infatti, attraverso un algoritmo che sulla base di previsioni statistiche calcola il fabbisogno di manodopera necessario per soddisfare la domanda dell’utenza di una determinata area e in una determinata fascia oraria. La convenuta, quindi, individuata un’area nella quale effettuare il servizio (id est Roma, Milano, Firenze, Palermo, ecc.), stabilisce nell’arco della settimana, per ciascun giorno e fascia oraria (id est “slot” o turni di lavoro), il numero ottimale di rider che intende avere a sua disposizione per garantire l’effettuazione delle consegne. 4. La distribuzione del lavoro tra i rider avviene solo attraverso la piattaforma digitale il cui algoritmo provvede a gestire il complesso sistema di pianificazione, distribuzione e gestione dei flussi di lavoro tra i rider. 5. Tutti i rider della convenuta al fine di svolgere la propria attività, devono infatti, previa registrazione nella piattaforma, installare sul proprio smartphone un software (id est una c.d. “app”) (doc. 02) fornito dalla società (la c.d. “app Glover”) che genera un profilo personalizzato tramite il quale accedono alla piattaforma digitale 6. L’applicativo che il rider deve installare è particolarmente invasivo in quanto controlla a distanza la sua geolocalizzazione e persino il livello di carica della batteria dello smartphone inibendo l’accesso alla sessione di lavoro in caso di carica inferiore al 20% ovvero di geolocalizzazione del lavoratore al di fuori dell’area di lavoro (doc. 03). 7. I rider sono tenuti ad adeguare la propria prestazione alle indicazioni che ricevono tramite l’applicativo che è anche l’unica modalità con la quale possono interagire con la convenuta. 8. L’applicativo della società costringe i rider a seguire le istruzioni del software per tutta la durata della prestazione in quanto non è possibile svolgere l’attività lavorativa senza essere connessi e senza seguire pedis-
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sequamente le tempistiche e le fasi imposte dal programma (doc. 04). 9. La convenuta nelle sue istruzioni indica ai rider per ogni città i c.d. “punti caldi” (identificati nelle zone vicine ai locali di catene di fast food) ovvero i luoghi dove si “consiglia” di recarsi per ricevere il maggior numero di ordini. 10. I rider utilizzati dalla società stipulano contratti di lavoro autonomo, sono soggetti a basso reddito e rendono una prestazione ripetitiva e dai contenuti meramente esecutivi. 11. I rider sono tenuti a monitorare lo smartphone collocato sul manubrio della bicicletta al fine di visualizzare in tempo reale l’arrivo di un ordine (doc. 05), i tempi di consegna (cfr. infra doc. 4) e il percorso in base al quale verrà calcolata la remunerazione della prestazione (doc. 06). 12. La società, pertanto, fornisce al rider in occasione della costituzione del rapporto un porta smartphone da collocare sul manubrio le cui caratteristiche tecniche consentono di averlo “sempre in vista” e di poterlo utilizzare “senza doverlo estrarre” come consigliato dalla stessa società (cfr. doc 5). In caso di richiesta di sostituzione per smarrimento, furto o deterioramento il rider è tenuto ad utilizzare moduli predisposti dalla convenuta (cfr. infra doc. 5). 13. La società, inoltre, in occasione dell’avvio del rapporto contrattuale, consegna una borsa termica con il logo dell’azienda, un power bank (ovverosia una batteria esterna di ricarica del cellulare) (cfr. doc. 5) e un manuale comportamentale che indica le istruzioni da seguire puntualmente per ogni fase dell’esecuzione della prestazione (doc. 07). 14. La convenuta predispone nel proprio sito una serie di dettagliate informazioni rivolte ai rider al fine di indicare puntualmente le modalità di svolgimento della prestazione richiesta. 15. Il raggiungimento del numero di rider predeterminato dall’algoritmo per ogni sessione di lavoro, viene ottenuto attraverso uno scaglionamento nel tempo della facoltà di prenotare i turni di lavoro; i rider, a seconda del giudizio di produttività loro riconosciuto, accedono a distinte fasce orarie di prenotazione e man mano saturano i turni lavorativi rendendoli indisponibili agli altri rider che il sistema considera meno produttivi. 16. L’accesso prioritario del rider alle prenotazioni delle sessioni di lavoro si basa su un modello che penalizza il rider che non si conforma alle regole della società convenuta; il rider, infatti, viene costantemente profilato dall’algoritmo che, nell’attribuire un punteggio (il c.d. “parametro di eccellenza”), ne determina l’accesso prioritario nella prenotazione delle sessioni di lavoro. 17. Il sistema di prenotazione delle sessioni di lavoro attribuisce, infatti, una priorità ai rider con maggior punteggio di “eccellenza” (doc. 08); il rider, per-
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tanto, è periodicamente valutato tramite “statistiche” delle sue prestazioni 18. Le istruzioni fornite dalla pagina dedicata ai rider di Glovo precisano che le sessioni saranno disponibili prima per i lavoratori con maggior punteggio di eccellenza. Omissis (doc. 09). 19. I rider, tuttavia, non sono liberi di prenotare tutte le sessioni disponibili che desiderano in quanto la convenuta impone un tetto (50 sessioni) e richiede, al fine di non applicare penalizzazioni (cfr. infra doc. 12), che la prestazione lavorativa avvenga in determinati turni ritenuti di alta domanda (nei fine settimana). 20. Tutti i rider iscritti nella piattaforma ricevono, quindi, una comunicazione sul proprio smartphone che li informa, in ragione del punteggio di eccellenza posseduto, l’orario a partire dal quale potranno nelle due sole giornate del lunedì e del giovedì prenotare le sessioni di lavoro per la settimana successiva (doc. 10). 21. Il rider per accedere agli slot disponibili, dopo aver ricevuto la notifica dell’orario a partire dal quale può prenotare, deve aprire la sezione “Programma” dell’applicazione, dove si trova il calendario con l’articolazione dei giorni della settimana suddivisa per sessioni orarie di lavoro distinte dai diversi colori: sessioni di lavoro di colore bianco sono quelle disponibili, mentre quelle grigie sono quelle già complete di prenotazioni. Il rider può accedere solo alle sessioni bianche che diventano di colore verde una volta prenotate (doc. 11). 22. I turni messi a disposizione dal sistema vengono pertanto prioritariamente scelti dai lavoratori che hanno un “Punteggio di Eccellenza” maggiore, mentre i ciclofattorini con “Punteggio di Eccellenza” minore accedono alle prenotazioni in un orario successivo che consente la prenotazione solo dei turni residui ovvero di quelli non saturi ed hanno, quindi, una minore possibilità di scelta e conseguentemente minori possibilità di lavoro venendo man mano estromessi. 23. Ai fini del punteggio di eccellenza, calcolato in 100/100, il sistema prevede i seguenti parametri: - Attività in c.d. “alta domanda” del partner convenzionato che incide nella misura del 35% (doc. 12) - Efficienza che incide nella misura del 35% (doc. 13) - Il feedback dell’utente che incide nella misura del 15% (doc. 14) - Esperienza che incide nella misura del 10% (doc.15) - Il feedback dei partner che incide nella misura del 5% (doc 16). ... 24. La convenuta esercita un potere sanzionatorio in quanto “punisce” i rider che non rispettano il modello lavorativo loro imposto ovvero pongono in essere condotte non conformi. La convenuta, infatti, in tali casi opera una diminuzione del punteggio cui consegue la retrocessione nella priorità della prenotazione delle
sessioni di lavoro. La convenuta precisa, infatti, che “il punteggio diminuisce quando: - Il numero degli ordini ad alta domanda effettuati negli ultimi 28 giorni diminuisce - Ricevi una valutazione negativa (riguardo un comportamento non professionale o un ordine trasportato in maniera errata) da un partner/cliente - Quando non effettui il check-in o lo fai in ritardo - Quando sei al di fuori della mappa della tua città o la connessione del tuo telefono non funziona correttamente” (doc. 17). 25. Il rider che cancella la prenotazione della sessione di lavoro senza il rispetto del preavviso imposto dalla convenuta (tre ore) subisce una penalizzazione nel punteggio di eccellenza; inoltre, l’eventuale richiesta di riassegnazione dell’ordine ricevuto da parte del corriere, incide negativamente sul punteggio di eccellenza che subisce una notevole diminuzione (doc. 18) 26. L‘assegnazione del nuovo ordine al rider viene effettuata automaticamente sullo smartphone solo allorquando la precedente consegna è stata ultimata. 27. La convenuta ha procedimentalizzato ogni fase della prestazione del rider imponendogli predeterminati comportamenti per ogni tipo di evento durante le fasi di ritiro/tragitto/consegna (cfr. infra doc. 04 e doc. 19). 28. Il giorno e all’ora prenotata (id est “la sessione di lavoro”) il rider deve: - Recarsi nella zona di lavoro - effettuare il c.d. check-in (id est il collegamento alla piattaforma 15 minuti prima dell’inizio della sessione) rendendosi in tal modo geolocalizzabile nell’area di lavoro. In caso di mancato check-in il sistema sollecita il rider con una notifica sullo smartphone che lo avvisa dell’approssimarsi dell’inizio della sessione e, perdurando l’inerzia, lo sanziona con la perdita di punteggio. 29. Il rider è tenuto a rispettare la sessione di lavoro nella quale si è reso disponibile non potendo decidere di non recarsi nell’area di lavoro se non cancellando con preavviso di tre ore la sessione prenotata (doc 20). 30. Ogni ordine arriva in automatico al rider che, avendo effettuato il check-in, sia presente nell’area di lavoro e fino alla sua esecuzione non consente la ricezione un nuovo ordine. 31. Il software organizza il lavoro del rider indicandogli il percorso ritenuto ottimale o comunque unilateralmente utilizzato dalla convenuta per il calcolo della tariffa kilometrica (cfr. infra doc. 6): in caso di ordini raggruppati (id est quelli ritirati in un unico punto ma destinati a diversi clienti) la convenuta non tollera alcuna autonoma determinazione del rider in quanto: - Non consente senza autorizzazione di procedere alla consegna di uno solo degli ordini raggruppati anche in presenza di notevoli ritardi nel punto di ritiro;
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- Non consente l’accettazione separata degli ordini raggruppati; - Impone la sequenza delle consegne (doc. 22) 32. Il programma impone al rider di effettuare gli adempimenti connessi con il ritiro della merce, obbligandolo a fotografare ed inserire a sistema lo scontrino e a fare sottoscrivere la consegna della merce sullo schermo dello smartphone (cfr. infra doc. 4 e doc. 19) 33. La convenuta impone un codice di condotta cui attenersi per qualsiasi problema insorga con il cliente in sede di consegna (doc. 23). 34. Omissis 35. La società convenuta impone ai rider il tipo di contratto e le condizioni economiche e non prevede nessuna forma di trattativa diretta né di interazione. 36. Tutti i rider percepiscono un compenso a cottimo predeterminato dalla piattaforma che varia da città a città, integrato su base chilometrica e da un forfait per i tempi di attesa, senza alcuna possibilità di negoziazione (doc. 25), (doc. 26) (doc. 27). 37. Omissis 38. I rider percepiscono il compenso ogni due settimane tramite accrediti bancari ovvero tramite compensazioni sui pagamenti in contanti da loro incassati presso il cliente (doc. 31). 39. La convenuta, inoltre, nonostante sia il soggetto debitore del corrispettivo, predispone la fattura di ciascun rider. Il sistema, infatti, invia in automatico il documento elaborato sull’account di ciascun rider (doc. 32). 40. Omissis 41. Omissis 42. Il denaro incassato in contanti costituisce il c.d. “saldo di cassa” (doc. 35) che il rider deve conferire alla società tramite bonifico. Il sistema impone una procedura di versamento del contante articolata su due settimane scandite da periodici avvisi effettuati (tre sms massimo) con i quali si sollecita il rider al versamento. L’ultimo avviso perviene il lunedì della seconda settimana decorso il quale l’account del rider viene disconnesso (doc. 36). Si legge, infatti, nelle istruzioni della convenuta che “ti consigliamo di effettuare il deposito il prima possibile, in questo modo non avrai problemi potrai collaborare senza interruzioni”. 43. La convenuta impone una dettagliata procedura per la rimessa dei contanti nella disponibilità del rider che stabilisce una serie di adempimenti che “guidano” il rider in “7 passaggi semplicissimi” dalla richiesta al tabaccaio di effettuare il bonifico alla compilazione di un questionario predefinito cui allegare la foto del bonifico effettuato (doc. 36-bis) 44. La convenuta consente tuttavia al rider di trattenere degli importi dal “saldo di cassa” in due casi. - Per effettuare gli eventuali pagamenti presso l’esercente all’atto del ritiro della merce per conto dei clienti della piattaforma che pagano alla consegna.
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- Per percepire anticipi sui compensi. Omissis (cfr. infra doc. 35). 45. Ogni rider, quindi, riceve nella propria email l’importo dei soldi che può trattenere, determinato unilateralmente dal sistema. Omissis (cfr. infra doc. 36). 46. L’ammontare dei contanti percepiti dal rider viene costantemente monitorato dal sistema che predetermina l’importo massimo che può essere trattenuto. 47. Il Sig. M.T. ha svolto la propria attività lavorativa in favore della società convenuta continuativamente dal 5 ottobre 2018 al 4 marzo 2020 con mansioni di rider addetto allo svolgimento delle consegne nella città di Palermo; l’attività del ricorrente si è svolta osservando le procedure standard sopra dedotte. 48. Omissis 49. Il ricorrente ha prestato la propria attività sulla base di due contratti formalmente qualificati di “prestazione d’opera”; il primo sottoscritto in data 28 settembre 2018 e il secondo, in data 7 ottobre 2019 (doc. 37) previa richiesta da parte della società resistente di apertura della p.iva. 50. Il ricorrente ha sempre svolto la propria attività di rider prenotando le sessioni di lavoro che il sistema gli rendeva disponibili sulla base del giudizio di affidabilità posseduto ed ha assicurato la propria prestazione per il numero dei giorni e delle ore di seguito indicate:...». In sintesi lo schema descritto in ricorso relativo ai giorni settimanali prenotati e lavorati e all’orario settimanale e mensile di fatto osservato dal ricorrente: Periodo Giorni settimanali lavorati Orario settimanale. Omissis 51.Omissis 52. Il ricorrente, il 30 gennaio 2020 si è recato (Omissis) presso i locali, (Omissis), che la convenuta adibisce periodicamente a luogo di incontro in presenza (Omissis) con i responsabili della società (i c.d. “Glovo Specialist”) al fine di discutere alcuni aspetti del suo rapporto di lavoro. 53. Nel corso dell’incontro con la con la “Glovo Specialist”, Sig.ra P.P., il ricorrente lamentava il blocco ingiustificato del suo account per i giorni dal 23 al 26 gennaio 2020 che gli aveva impedito di prenotarsi e di svolgere il lavoro e richiedeva il pagamento di un risarcimento; il Sig. M.T. evidenziava che tale episodio non era isolato, in quanto dal 29 aprile al 13 maggio era rimasto privo di ordini per due settimane consecutive. Nel corso della riunione il ricorrente lamentava inoltre la mancata consegna di dispositivi di protezione individuale la cui mancanza era stata in precedenza oggetto di comunicati stampa da parte del segretario del Nidil di Palermo (doc. 39). 54. All’esito dell’incontro, la responsabile assicurava che avrebbe effettuato delle verifiche rispetto alle richieste del ricorrente.
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55. Il ricorrente in data 11 febbraio 2020, unitamente al Segretario Generale Nidil - Cgil e al Direttore Regionale dell’Inail della Sicilia, partecipava alla trasmissione televisiva “Cronache Siciliane”, trasmessa dall’emittente del Giornale di Sicilia, dedicata alle condizioni di lavoro dei rider di Palermo. In detta occasione il ricorrente presente con il suo portavivande in studio denunciava, sia la mancata consegna da parte della convenuta dei DPI che le precarie condizioni di lavoro nelle quali i rider sono costretti a operare (doc. 40). 56. Il 24 febbraio 2020 il ricorrente, non avendo avuto alcun riscontro alle sue richieste, incontrava nuovamente, la Sig.ra P.P. sempre alla presenza del Segretario Generale Nidil Cgil di Palermo (doc. 41). In tale occasione il responsabile della società spiegava che il blocco dell’account era da attribuire esclusivamente a inadempienze del ricorrente e che, pertanto, la società non riconosceva alcun risarcimento. 57. Tale spiegazione determinava una accesa discussione che si concludeva con la manifestata volontà del ricorrente di agire in giudizio. 58. Il ricorrente, domenica 1 marzo 2020, effettuava, nel corso della giornata, numerose consegne accumulando un saldo cassa per un totale € 215,00. Verso le ore 19:00, la società convenuta comunicava a tutti i rider di Palermo che riduceva a € 20,00 il saldo di cassa ingenerando nel ricorrente la convinzione di potere “trattenere” l’eccedenza del saldo di cassa come anticipo sui compensi futuri conformemente con quanto descritto nel cap. 44 e 45. 59. Alle ore 21.30 circa della domenica, la convenuta modificava la disposizione precedente e il ricorrente poco dopo alle 3,31 del mattino del lunedì 2 marzo 2020 riceveva un messaggio con cui gli veniva comunicato che aveva “un valore troppo alto di saldo alla mano” e lo invitava ad effettuare un bonifico per motivi di sicurezza, entro le 24 ore dal ricevimento del messaggio, di € 170,00, onde evitare che il suo account venisse bloccato (doc. 42). 60. Il martedì 3 marzo 2020 alle ore 6,03 del mattino il ricorrente riceveva, l’ultimo sms con il quale veniva informato di essere stato sospeso e di essere quindi disconnesso (doc. 43). 61. Il ricorrente provvedeva successivamente a bonificare alla convenuta il contante residuo, con due bonifici e segnatamente il primo bonifico in data 3 marzo 2020 di euro 100,00, il secondo il giorno successivo di euro 200,00 (doc. 44). 62. Nonostante il pagamento, la convenuta non riattivava l’account sospeso e il ricorrente rimaneva scollegato senza potere quindi svolgere la propria prestazione lavorativa (doc 45). 63. La società riattiva l’account a tutti i rider che provvedono a versare anche il saldo dei contanti dopo la disconessione (doc 46). 64. A fronte dei numerosi solleciti inviati a mezzo di posta elettronica all’indirizzo omissis – usualmente
utilizzato per comunicare con gli operatori messi a disposizione della piattaforma Glovo per l’assistenza ai corrieri - il ricorrente riceveva esclusivamente risposte automatiche nelle quali veniva informato che sarebbe stato ricontattato al più presto (cfr. doc 47), (doc. 48), (doc. 49). 65. L’account non è stato più riattivato, il ricorrente che non è stato più ricontattato ed ha tempestivamente impugnato la cessazione del rapporto con comunicazione del 28 aprile 2020 (doc. 50). 66. Il ricorrente, inoltre, ha richiesto ai sensi del Regolamento UE 679/2016 di acquisire informazioni essenziali per la tutela dei propri diritti e in particolare di conoscere l’esistenza di un trattamento di dati che ha determinato la decisione di disconnettere il suo account e di non riconnetterlo dopo la richiesta (doc. 51). Tale istanza è stata riscontrata dalla convenuta con una comunicazione del tutto generica nella quale si omettevano le indicazioni necessarie per la tutela dei diritti rivendicati nel presente giudizio (cfr. infra doc. 38). Il ricorrente ha, quindi, proposto reclamo innanzi all’Autorità Garante per il Trattamento dei Dati personali. 67. La società convenuta occupa in Italia oltre 1500 rider che prestano attività con le medesime modalità descritte nel presente ricorso e oltre 60 lavoratori, assunti con contratto di lavoro subordinato con applicazione del CCNL Terziario, Distribuzione e Servizi (doc. 52 CCNL commercio); 68. Omissis 69. Il ricorrente ha percepito i compensi calcolati sulla base dei parametri descritti nel paragrafo “Condizioni economiche imposte dalla convenuta ai rider” unilateralmente decise dalla convenuta che ha rilasciato le fatture prodotte sub doc. supra 55; 70. Omissis 71. Il ricorrente non ha percepito alcun compenso durante le prestazioni ausiliarie di attesa al ristorante ovvero di rimessa dei pagamenti in contanti. Omissis Chiedeva conclusivamente il ricorrente: «In via principale, accertare e dichiarare la natura subordinata o, in subordine, etero – organizzata ex art. 2 del d.lgs 81/2015, del rapporto di lavoro, ovvero dei rapporti di lavoro intercorsi, tra il ricorrente e la società convenuta nel periodo dal 5 ottobre 2018 al 4 marzo 2020 o altre date di giustizia; e per l’effetto, ritenuta l’insufficienza del compenso percepito dal ricorrente e la retribuibilità del tempo nel quale il ricorrente era a disposizione per svolgere attività in favore della convenuta, accertare e dichiarare il diritto dello stesso all’inquadramento nel 5 livello del CCNL logistica e trasporti, ovvero, in subordine, al 6 livello del CCNL Terziario, Distribuzione e Servizi, ed in ogni caso, anche ai sensi dell’art. 36 Cost., art. 2099 c.c. ed ex art. 432 c.p.c., condannare per i titoli e le ragioni di cui al ricorso la società convenuta al pagamento in
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favore del Sig. M.T. della somma di € 14.996,32 ovvero, in subordine, di € 13.313,41. Nonché, equiparata la ingiustificata disconnessione e/o il rifiuto di riconnessione ad una misura di effetto analogo al licenziamento ordinare alla società convenuta, per i motivi di cui al ricorso, la reintegra, ovvero il ripristino, del rapporto di lavoro del ricorrente, e comunque di riattivare la connessione e consentire allo stesso l’accesso alle prenotazioni delle sessioni di lavoro ed in ogni caso condannare, anche per mora accipiendi, la convenuta al pagamento in favore del Sig. M.T. al risarcimento ovvero al pagamento di un indennizzo ai sensi del d.lgs. 23/15 parametrato sulla retribuzione, ovvero compenso, spettante di € 1.447,68 mensili in caso di applicazione del CCNL logistica ovvero di € 1.407,94 o diversa misura, maggiore o minore somma di giustizia da determinarsi anche in via equitativo. Se del caso, ritenuta applicabile la tutela avverso le risoluzioni illegittime anche ai rapporti di lavoro eteroorganizzati ed equiparata la ingiustificata disconnessione e/o il rifiuto di riconnessione ad una misura di effetto analogo al licenziamento, ordinare alla società convenuta, per i motivi di cui al ricorso, e comunque per mora accipiendi, la reintegra, ovvero il ripristino, del rapporto di lavoro del ricorrente, e comunque di riattivare la connessione e consentire allo stesso l’accesso alle prenotazioni delle sessioni di lavoro ed in ogni caso condannare la convenuta al pagamento in favore del Sig. M.T. di un risarcimento ovvero di un indennizzo parametrato sul compenso, spettante di € 1.447,68 mensili in caso di applicazione del CCNL logistica ovvero di € 1.407,94 in caso di applicazione del CCNL Terziario distribuzione e servizi o nella maggiore o minore somma di giustizia. In via di estremo subordine ritenuta l’illegittimità della disconnessione e/o del rifiuto di riconnessione e la conseguente perdita di chances lavorative condannare la convenuta al pagamento di un risarcimento in favore del ricorrente da determinarsi anche ex art. 432 c.p.c. nella misura del compenso percepito in precedenza nell’anno (€ 12.000,00) fino alla riconnessione. In ogni caso, ritenuta l’illegittimità della mancata informativa rispetto alle ragioni della disconnessione e del rifiuto di connessione nonché rispetto alle altre informazioni sollecitate dal ricorrente condannare la convenuta al pagamento in favore del ricorrente dell’indennizzo nella misura di € 12.000,00 oppure o nella diversa misura di giustizia da determinarsi ex art. 432 c.p.c.» Omissis Ritualmente instaurato il contraddittorio, si costituiva in giudizio parte convenuta, chiedendo il rigetto del ricorso, variamente argomentando e preliminarmente eccependo la decadenza del ricorrente dall’impugnativa di licenziamento.
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In punto di fatto, la ricostruzione del sistema di funzionamento della piattaforma Glovo della convenuta è sostanzialmente conforme a quella fatta dal ricorrente, così come sono quelli prodotti dalla convenuta i dati delle ore lavorate dal ricorrente, che questi espressamente non ha contestato, in relazione alle ore relative alle mere consegne effettuate (cui in effetti il prospetto è relativo). Parte convenuta ha contestato in punto di fatto che non vi sarebbero penalizzazioni legate al rifiuto di uno slot in qualsiasi momento anche successivo al termine assegnato dalla società e che il ricorrente ha continuato a lavorare “tranquillamente” anche dopo aver rifiutato ordini, ciò che tuttavia risulta accaduto di fatto, sulla scorta della memoria di costituzione, solo in poche occasioni (indicate da pag. 323 a pag. 325 del doc. 14, che ha 325 pagine), al pari del mancato check-in di slot prenotati (indicati da pag. 84 a 87 del doc. 14), a fronte di ordini accettati e regolarmente portati a termine (indicati da pag. 2 a pag. 83 del doc. n. 14). Parte convenuta ha poi precisato che solo in 36 giorni l’orario relativo alle consegne effettuate dal ricorrente superava le otto ore giornaliere, ma dallo schema prodotto risulta che nel 2019 il ricorrente ha svolto un orario in media vicino a otto ore giornaliere o 40 settimanali. Omissis Parte convenuta dedusse che il contratto aveva natura autonoma, come si legge nel medesimo, che il ricorrente sceglieva gli orari in cui prenotarsi per le consegne, che l’ordine della prenotazione degli slot dipende da un algoritmo che si fonda sul punteggio del singolo rider, ma che vi è una parte degli slot che si aprono a prescindere dal punteggio, per consentire di lavorare anche a coloro che hanno appena iniziato a collaborare e ancora non hanno punteggio e che il punteggio è premiale e non penalizzante. Chiese quindi il rigetto delle domande relative alla qualificazione del rapporto come subordinato e come collaborazione ex art. 2 d.lgs. 81/2015, eccependo che peraltro parte ricorrente non aveva dedotto la natura del rapporto come collaborazione coordinata e continuativa. Eccepì che quindi alcun licenziamento era stato intimato, poiché la disconnessione venne effettuata per motivi di sicurezza relativi all’importo eccessivo del saldo alla mano del ricorrente e che poi non venne riconnesso per mero errore sino al 12.06.2020, data a partire dalla quale il ricorrente avrebbe potuto lavorare. Eccepì in ogni caso che parte ricorrente confondeva il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo quanto alle allegazioni e domande e che il licenziamento non era orale, essendo pervenuto al ricorrente pacificamente il messaggio di disconnessione ove non fosse stato effettuato tempestivamente il bonifico del contante superiore al limite stabilito per il saldo alla mano.
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Eccepì la decadenza dall’impugnativa del licenziamento (dal 3.03.2020 data del distacco) perché l’impugnativa pervenuta a mezzo pec era priva della sottoscrizione autografa del ricorrente e non erano state rispettate le forme previste per la trasmissione telematica del documento analogico. Eccepì che in ogni caso solo due dipendenti della convenuta, tra cui la signora P.P., erano venuti a conoscenza della trasmissione televisiva Cronache Siciliane e che non ne portavano a conoscenza i vertici aziendali e che non vi era prova della ritorsione attesa la progressione temporale dei fatti dedotti a tal proposito in ricorso, che avevano preceduto la disconnessione del ricorrente del 3.03.2020, peraltro contrattualmente prevista, per motivi inerenti il saldo alla mano non tempestivamente bonificato alla società dal ricorrente. Eccepì, infine, l’inapplicabilità dei CCNL richiamati dal ricorrente in ricorso ed infine l’inapplicabilità al rapporto subordinato o etero-organizzato della norma dell’art. 47-ter d.lgs. 81/2015. Al fine di affrontare e risolvere il problema della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro oggetto di causa, appare opportuno soffermarsi in linea generale e preliminarmente sulle caratteristiche e la natura giuridica delle piattaforme digitali, quale quella della convenuta, attraverso la quale il ricorrente svolgeva la propria prestazione lavorativa, sulla scorta dei contratti in atti, poiché questa ha inevitabili conseguenze sulla qualificazione dei rapporti di lavoro che si realizzano mediante il suo utilizzo. Preliminarmente, quindi, va analizzato e identificato l’obiettivo di tali piattaforme, ed in particolare se esso sia quello di mettere in contatto l’utenza, svolgendo una attività di mera intermediazione, ovvero se la loro sia una attività di impresa di trasporto di persone o di distribuzione di cibo e bevande a domicilio. Nella specie, infatti, la convenuta ha dichiarato come oggetto sociale “lo sviluppo di una piattaforma software online e di applicazioni mobile per smartphone che interagiscono tra loro per mettere in relazione tra loro esercizi commerciali, i potenziali clienti ed i fornitori di trasporti a domicilio; la fornitura di servizi per il tramite della piattaforma a favore di esercizi commerciali e dei fornitori di trasporto, finalizzati a metterli in relazione con i potenziali clienti, che per il tramite della piattaforma possono inviare ordini direttamente agli esercizi commerciali ed ai fornitori di servizi di trasporto; la fornitura mediante utilizzo della piattaforma software realizzata di campagne di marketing, pubblicitarie, anche non convenzionali, in prevalenza a beneficio degli esercizi commerciali e dei fornitori di trasporti di cibo a domicilio»”, e in entrambi i contratti stipulati con il ricorrente ha premesso che “a) la società ha come attività principale la gestione di un sito WEB che metta in relazione utenti (consumatori) ed esercizi locali (per lo più ristoratori) al fine di consentire ai consumatori di acquistare pasti / beni presso
i ristoratori / esercizi locali convenzionati per il tramite della piattaforma, e di ricevere al proprio domicilio i pasti / beni acquisiti; b) che la società come attività accessoria alla principale si occupa anche dell’attività di consegna ai consumatori”. Orbene, in relazione alle piattaforme digitali, utilizzate per organizzare il trasporto di passeggeri o la distribuzione di cibi e bevande a domicilio, la giurisprudenza internazionale e quella della Corte di Giustizia si sono orientate nel senso di ritenere che il principale oggetto e scopo delle medesime consiste in attività di impresa di trasporto di persone o di consegna a domicilio di cibo e bevande. La pronuncia più significativa per la qualificazione come attività di impresa delle piattaforme «avent(i) ad oggetto la messa in contatto mediante un’applicazione per smartphone, dietro retribuzione, di conducenti non professionisti, che utilizzano il proprio veicolo, con persone che desiderano effettuare uno spostamento nell’area urbana», si deve alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 20 dicembre 2017, C-434/15), nel caso che aveva coinvolto la società di Uber System Spain (società che si occupa anche della consegna a domicilio di cibo e bevande), citata in giudizio da Elite Taxi per concorrenza sleale. In questa occasione la Corte europea affermò che un servizio di intermediazione avente tale oggetto «deve essere considerato indissolubilmente legato ad un servizio di trasporto e rientrante, pertanto, nella qualificazione di servizi nel settore dei trasporti, ai sensi dell’art. 58, paragrafo 1, TFUE». La decisione della giurisprudenza europea si inseriva in verità nell’orientamento già in tal senso espresso dalla giurisprudenza degli ordinamenti interni. In particolare, vanno menzionate le sentenze del Tribunale di Milano (Trib. Milano, sez. spec. impresa, 25 maggio 2015, in Adapt, 15 giugno 2015, n. 23) e di Torino (Trib. Torino, sez. spec. impresa, 1 marzo 2017, n. 1553), ed è interessante rilevare che la Corte d’appello di Parigi (Cour D’Appel de Paris, 10 gennaio 2019, n. 18/08357), ha chiarito che: omissis «[l’autista...] ha così integrato un servizio di trasporto ideato ed interamente organizzato dalla società Uber BV, che esiste solo grazie a questa piattaforma, servizio di trasporto per il cui utilizzo non costituisce alcuna clientela propria, non fissa liberamente i propri prezzi o le condizioni per l’esercizio del proprio servizio di trasporto, che sono completamente regolati da Uber BV». Sul punto, la sentenza della Cour de cassation, Chambre sociale, 4 marzo 2020, n. 374, evidenzia che il prestatore di lavoro non è un partner commerciale; al contrario, nel momento della stipulazione del contratto, egli aderisce ad un servizio di trasporto interamente organizzato da Uber attraverso la piattaforma digitale e i sistemi di elaborazione algoritmici che ne determinano il funzionamento. L’autista che ricorre all’in-
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frastruttura tecnologica non ha la possibilità di crearsi una propria clientela né di determinare liberamente le tariffe da applicare e, in tal modo, colloca la propria attività lavorativa entro un quadro di regole determinato dall’esterno. L’argomento principale su cui si fondano le decisioni della giurisprudenza riguarda il fatto che Uber – ad esempio – organizza l’attività, in particolare stabilendo unilateralmente il costo del servizio e le condizioni contrattuali e assumendosi la responsabilità civile, in caso di danno alla clientela (in Brasile, per esempio, Uber è stata condannata a risarcire un cliente che aveva perso l’aereo a causa del ritardo commesso dall’autista che effettuava il trasporto verso l’aereoporto: 8° Juizado Especial Civel, 7 novembre 2016, 0801635-32.2016.8.10.0013). Anche nel recente decreto che ha disposto l’amministrazione giudiziaria di Uber Italy srl (T. Milano, Sez. Misure di Prevenzione, 27 maggio 2020, n. 9), è stato ravvisato l’accentramento dell’organizzazione del lavoro in capo a Uber – nell’articolazione operante nel food delivery – nonostante la presenza di altri soggetti imprenditoriali che gestivano i contatti con i riders. La individuazione della natura giuridica delle piattaforme digitali nel senso che esse svolgono attività di impresa di trasporto o distribuzione determina un effetto assai importante anche sotto il profilo della qualificazione del rapporto di lavoro: se le piattaforme possono considerarsi imprese, si apre, de facto, la possibilità che i suoi collaboratori lavorino per conto (e non semplicemente in nome) della piattaforma stessa e che, dunque, siano inseriti in una organizzazione imprenditoriale, di mezzi materiali e immateriali, di proprietà e nella disponibilità della piattaforma stessa e così del suo proprietario o utilizzatore. Se invece l’attività delle piattaforme in questione è considerata un’attività di mera intermediazione tra l’utenza, ovvero tra chi esegue il servizio di trasporto/ consegna e chi lo acquista, residuerebbe la possibilità che i prestatori lavorino tramite una organizzazione ad essi imputabile. Ritiene il giudicante di dover aderire all’impostazione sul punto abbracciata dalla Corte di Giustizia e sopra richiamata, certamente riferibile anche al trasporto di beni, oltre che al trasporto di persone, nel senso che l’attività della piattaforma anche della società convenuta costituisce in linea principale impresa di trasporto e distribuzione. Chiarito, quindi, il passaggio prodromico, tuttavia essenziale, della qualificazione dell’attività della piattaforma, si possono analizzare le altre questioni, inerenti l’attività dei lavoratori delle piattaforme digitali ed in particolare quella resa dal ricorrente nel corso del rapporto di lavoro. Molte sono state le pronunce che, all’estero, nei sistemi di civil law, hanno qualificato il rapporto di lavoro dei drivers (tra le altre 33a Vara do Trabalho de Belo Horizonte, 14 febbraio
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2017, n. 0011359- 34.2016.5.03.0112 RIDL, 2017, II) e dei riders (tra le altre Juzgado de lo Social de Valencia, 1 giugno 2018, n. 244 e la recentissima Sala de lo Social PLENO Sentencia núm. 805/2020 Fecha de sentencia: 25/09/2020, emessa in sede nomofilattica, in atti) nei termini della subordinazione, ovvero nei termini dell’autonomia (numerose le pronunce cinesi, tra cui Sun Yongling v Beijing Yixin Yixing Automotive Technology Development Services Ltd Labour Dispute Beijing First Intermediate People’s Court, Civil Judgment (2015) Yi Zhong Min zhong Zi di No 176, alcune pronunce dei giudici spagnoli prima della citata sentenza emessa in sede di nomofilachia della Sala de Social, in particolare citate e prodotte dalla convenuta: Juzgado de lo Social n. 39 Refuerzo Madrid n. 284/2018; Tribunal Superior de Justicia de Madrid n. 715/2019); il nodo che la giurisprudenza si è trovata a districare, per stabilire se i lavoratori delle principali piattaforme digitali con cui si è confrontata fossero lavoratori autonomi o subordinati, ha riguardato il nesso tra la predeterminazione oraria per l’esercizio della loro attività e la sussistenza o meno di un vincolo di subordinazione. In altri termini, la questione fondamentale è verificare se il grado di autonomia dei lavoratori nello stabilire non solo l’an della prestazione, ma anche il quando, sia determinante, ai fini qualificatori, a tal punto da escludere che essi siano subordinati. È, infatti, noto che l’azienda stabilisce delle fasce orarie (slot nel gergo maggiormente ricorrente tra le piattaforme di consegna di pasti e bevande) all’interno delle quali si inseriscono i riders e i drivers in base a meccanismi di auto assegnazione, influenzati tuttavia (almeno nel caso di specie) anche da scelte dell’impresa, mediante l’applicazione di algoritmi. La giurisprudenza di merito italiana finora pronunciatasi sul caso della qualificazione del rapporto dei fattorini (Trib. Torino, 7 maggio 2018, n. 778; Trib. Milano, 10 settembre 2018, n. 1853), ha escluso che possa trattarsi di lavoratori subordinati proprio in ragione del fatto che possono scegliere se e quando lavorare. L’opzione interpretativa, peraltro, aveva portato le due sentenze di primo grado citate ad escludere non solo l’applicazione dell’art. 2094 c.c., ma perfino dell’art. 2, d.lgs. n. 81/2015, ammessa, invece, dall’ultima pronuncia della Corte di Appello di Torino (Corte d’Appello di Torino, sentenza 4 febbraio 2019, n. 26), sul punto confermata dalla Corte di Cassazione, con la notissima sentenza della Sezione Lavoro n. 1663/2020. Per i Tribunali di primo grado la libertà dei fattorini digitali di decidere se e quando lavorare compromette, ab origine, l’esercizio da parte dell’azienda del potere direttivo e disciplinare, giacché l’ipotesi di accertare il vincolo di subordinazione tra le parti verrebbe completamente svuotato di contenuto a monte, ossia semplicemente guardando alla fase genetica del rapporto. Operando tale valutazione, tuttavia, i citati Tribunali hanno valutato solo un segmento del rapporto di
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lavoro con la piattaforma, quello iniziale, omettendo di addentrarsi nella valutazione anche dell’altro segmento, la fase esecutiva della prestazione. In grado di appello, la Corte Torinese, invece, affrontava l’analisi della fase esecutiva del rapporto, rilevando la sussistenza dell’etero-organizzazione, in quanto i ricorrenti erano integrati funzionalmente nell’organizzazione determinata in via unilaterale dalla committente. La Corte ha ritenuto applicabile la disciplina di cui al primo comma dell’art. 2, d.lgs. 81/2015, pur chiarendo che ciò non comporta, comunque, la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, in quanto il fattorino «resta, tecnicamente, autonomo» nell’esercizio della prestazione di lavoro. La costruzione della Corte di Torino, nell’affermare che l’art. 2 cit. comporta l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c., ma resta un terzo genere e, in quanto tale, distinto anche dalle collaborazioni di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., non è stata condivisa dalla Corte di Cassazione, che nella citata sentenza (pur confermando la sentenza in mancanza di ricorso da parte dei lavoratori in relazione alle domande relative ai licenziamenti), ha ritenuto che “In una prospettiva così delimitata non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perché ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina”, ... “Una volta ricondotta la etero- organizzazione ad elemento di un rapporto di collaborazione funzionale con l’organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione unilateralmente disposta dal primo, opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa, si mette in evidenza (nell’ipotesi dell’art. 2 d.lgs. n. 81 del 2015) la differenza rispetto ad un coordinamento stabilito di comune accordo dalle parti che, invece, nella norma in esame, è imposto dall’esterno, appunto etero-organizzato. Tali differenze illustrano un regime di autonomia ben diverso, significativamente ridotto nella fattispecie dell’art. 2 d.lgs. n. 81 del 2015: integro nella fase genetica dell’accordo (per la rilevata facoltà del lavoratore ad obbligarsi o meno alla prestazione), ma non nella fase funzionale, di esecuzione del rapporto, relativamente alle modalità di prestazione, determinate in modo sostanziale da una piattaforma multimediale e da un applicativo per smartphone.”, e che “possa essere ravvisata eteroorganizzazione rilevante ai fini dell’applicazione della disciplina della subordinazione anche quando il committente si limiti a determinare unilateralmente il quando e il dove della prestazione personale e continuativa”, concludendo nel senso che
“al verificarsi delle caratteristiche delle collaborazioni individuate dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015, la legge ricollega imperativamente l’applicazione della disciplina della subordinazione”, tutta intera, senza che si possa distinguere tra normativa applicabile e normativa non applicabile. La Suprema Corte, nella medesima pronuncia, ha altresì affermato che “non può neanche escludersi che, a fronte di specifica domanda della parte interessata fondata sul parametro normativo dell’art. 2094 cod. civ., il giudice accerti in concreto la sussistenza di una vera e propria subordinazione (nella specie esclusa da entrambi i gradi di merito con statuizione non impugnata dai lavoratori), rispetto alla quale non si porrebbe neanche un problema di disciplina incompatibile; è noto quanto le controversie qualificatorie siano influenzate in modo decisivo dalle modalità effettive di svolgimento del rapporto, da come le stesse siano introdotte in giudizio, dai risultati dell’istruttoria espletata, dall’apprezzamento di tale materiale effettuato dai giudici del merito, dal convincimento ingenerato in questi circa la sufficienza degli elementi sintomatici riscontrati, tali da ritenere provata la subordinazione; il tutto con esiti talvolta difformi anche rispetto a prestazioni lavorative tipologicamente assimilabili, senza che su tali accertamenti di fatto possa estendersi il sindacato di legittimità”. La libertà di decidere se e quando lavorare, che sarebbe attribuita ai fattorini di Glovo secondo la convenuta, ove effettiva, d’altra parte, secondo la Corte di Giustizia, osta al riconoscimento della natura subordinata del rapporto. La Corte di Giustizia, invero, da ultimo nella ordinanza del 22.04.2020, C- 692/19, ha stabilito: “La direttiva 2003/88 / CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro deve essere interpretata nel senso che preclude una persona assunta dal suo presunto datore di lavoro in virtù di un accordo di servizi che stabilisce che egli è un appaltatore indipendente occupato dall’essere classificato come ‘lavoratore’ ai fini di tale direttiva, se a tale persona è concesso il potere discrezionale: - utilizzare subappaltatori o sostituti per eseguire il servizio che si è impegnato a fornire; - accettare o non accettare i vari compiti offerti dal suo presunto datore di lavoro, o fissare unilateralmente il numero massimo di tali compiti; - fornire i propri servizi a terzi, inclusi concorrenti diretti del presunto datore di lavoro, e - fissare le proprie ore di ‘lavoro’ entro determinati parametri e adattare il suo tempo alle proprie comodità personali piuttosto che esclusivamente agli interessi del presunto datore di lavoro, a condizione che, in primo luogo, l’indipendenza di tale persona non risulti fittizia e, in secondo luogo, non sia possibile stabilire l’esistenza di un rapporto di subordinazione tra tale per-
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sona e il suo presunto datore di lavoro. Tuttavia, spetta al giudice del rinvio, tenuto conto di tutti gli elementi rilevanti relativi a tale persona e all’attività economica da essa svolta, qualificare lo status professionale di tale persona ai sensi della direttiva 2003/88”. Sulla scorta di tale pronuncia, la Corte Suprema Spagnola (Tribunal Supremo, Sala de lo Socilal, Pleno), nella sentenza prima citata, n. 805/2020, pronunciata in sede nomofilattica, ha ritenuto di non essere tenuta, in quanto organo giurisdizionale di ultima istanza, a rimettere la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia, che si era pronunciata su identica questione, avendo del resto accertato nel merito che l’indipendenza del prestatore di lavoro era solo apparente, anche con riferimento alla scelta del come e del quando lavorare, per essere egli assoggettato alla piattaforma nell’organizzazione del proprio lavoro, in relazione al funzionamento dell’algoritmo di assegnazione degli slot, funzionale al migliore servizio per il datore di lavoro, e al sistema premiale (punitivo) delle valutazioni. Osserva il giudicante che tale impostazione della Suprema Corte spagnola (in atti, allegata al ricorso e la cui motivazione si richiama ampiamente in relazione alle considerazioni svolte in ordine ai fatti, comuni alla presente controversia) non può che condividersi, poiché non vi è dubbio che la Corte di Giustizia lasci alla valutazione del giudice nazionale di stabilire l’effettività della libera determinazione del lavoratore in relazione ai tempi di lavoro, che precluderebbe la subordinazione, ed anche di stabilire aliunde la natura subordinata del rapporto («Omissis» ha affermato la Suprema Corte spagnola, così tradotto per comodità di lettura “Di conseguenza, se si perviene alla conclusione che l’indipendenza dell’attore era meramente apparente ed era di fatto esistita una subordinazione del ricorrente [rispetto] a Glovo, detta ordinanza della CGUE non impedirà la qualificazione del rapporto di lavoro a tali fini”). Tenuti, quindi, in considerazione i principi espressi dalla Corte di Giustizia e dalla giurisprudenza (anche straniera, in relazione alla natura internazionale delle piattaforme e del lavoro svolto mediante le stesse), deve valutarsi la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, sulla scorta del concreto atteggiarsi del medesimo e non della sua formale qualificazione, come del resto da tempo affermato dalla Corte di Cassazione in ordine alla valutazione che il giudice deve fare della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro. Il ricorrente ha chiesto in principalità che il suo rapporto di lavoro venga qualificato come subordinato, ex art. 2094 c.c., accertamento che non è affatto precluso al giudice dalla formale qualificazione giuridica del contratto come contratto d’opera (secondo contratto) o come prestazione occasionale di lavoro autonomo (primo contratto), come ribadito anche dalla sopra ricordata sentenza della Cassazione n. 1663/2020
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(sul caso Foodora), la quale ha rimarcato – come detto sopra – che siffatto accertamento sia influenzato “in modo decisivo dalle modalità effettive di svolgimento del rapporto, da come le stesse siano introdotte in giudizio, dai risultati dell’istruttoria espletata, dall’apprezzamento di tale materiale effettuato dai giudici del merito, dal convincimento ingenerato in questi circa la sufficienza degli elementi sintomatici riscontrati, tali da ritenere provata la subordinazione; il tutto con esiti talvolta difformi anche rispetto a prestazioni lavorative tipologicamente assimilabili, senza che su tali accertamenti di fatto possa estendersi il sindacato di legittimità”. Sulla scorta di quanto sin qui esposto in relazione al lavoro su piattaforma e al fine di determinare la natura subordinata o autonoma del lavoro svolto dal ricorrente, si deve tenere a mente che l’art. 2094 c.c. venne scritto per la prima Rivoluzione Industriale, in cui il modello di lavoro subordinato era quello dell’operaio della fabbrica e del fordismo; esso deve necessariamente essere interpretato in modo evolutivo per applicarlo o escluderne l’applicazione al lavoro su piattaforma digitale, che, in sé, ben può essere subordinato, se solo si tenga presente in contenuto dell’ultima direttiva europea in tema di lavoro, che contempla anche il lavoro su piattaforma ed è destinata a trovare applicazione nell’ambito dei rapporti di lavoro subordinato (Direttiva 2019/1152 relativa alle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili in Ue, che dovrà essere recepita dall’Italia entro il 1° agosto 2022). La possibilità di qualificare detto rapporto come subordinato, del resto, è stata riconosciuta dalla citata sentenza n. 1663/2020, sopra citata, e viene altresì ribadito nella recentissima circolare emanata dall’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro ieri 19.11.2020. Sul punto, vanno altresì condivise le osservazioni in linea generale contenute nella più volte citata ultima sentenza della Sala de Social spagnola (in atti di parte ricorrente), che sono in modo evidente comuni anche al nostro ordinamento: Omissis […] “Nella società postindustriale il concetto di dipendenza è diventato più flessibile. Le innovazioni tecnologiche hanno favorito la nascita di sistemi di controllo digitalizzati per la prestazione dei servizi. L’esistenza di una nuova realtà produttiva obbliga ad adattare i concetti di dipendenza e alienità alla realtà sociale del tempo in cui le norme devono essere applicate.”. Da tempo la Suprema Corte ha enucleato una eterodirezione attenuata, per adattare la eterodirezione prevista dall’art. 2094 c.c. a forme di lavoro diverse da quella tradizionale sopra ricordata, ma indubbiamente di carattere subordinato (ad esempio per le ipotesi di esercenti professioni subordinati quali medici o giuristi d’impresa), oppure per qualificare attività meramente esecutive svolte in assenza di autonomia nell’ambito dell’organizzazione datoriale (vedi sul punto le recentissima ordinanza della Sezione Lavoro della Corte di
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Cassazione n. 23768/2020, con cui la Corte ha ritenuto che non potesse configurarsi un rapporto di lavoro a progetto in relazione ad attività di consegna di pizze a domicilio, confermando la sentenza di appello, che aveva ritenuto che il rapporto tra le parti si era caratterizzato per l’assoluta assenza di autonomia dei collaboratori, dovendosi qualificare i rapporti come di lavoro subordinato). Già in passato, poi, proprio nell’ambito dell’opera di adeguamento della normativa alla mutata realtà, la sentenza della Corte Costituzionale n. 30 del 5 febbraio 1996 ha ritenuto che la “subordinazione in senso stretto” è un concetto più pregnante e insieme qualitativamente diverso dalla subordinazione riscontrabile in altri contratti, come quelli associativi, pur coinvolgenti la capacità di lavoro di una delle parti. La differenza è determinata, a detta dei giudici costituzionali, dal concorso di due condizioni che negli altri casi non si trovano mai congiunte: la prima è costituita dall’alienità – nel senso di destinazione esclusiva ad altri – del risultato per il cui conseguimento la prestazione di lavoro è utilizzata; mentre la seconda è rappresentata dall’alienità dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce (c.d. etero-organizzazione). La conclusione testuale della Consulta è la seguente: «Quando è integrata da queste due condizioni, la subordinazione non è semplicemente un modo di essere della prestazione dedotta in contratto, ma è una qualificazione della prestazione derivante dal tipo di regolamento di interessi prescelto dalle parti con la stipulazione di un contratto di lavoro, comportante l’incorporazione della prestazione di lavoro in una organizzazione produttiva sulla quale il lavoratore non ha alcun potere di controllo, essendo costituita per uno scopo in ordine al quale egli non ha alcun interesse (individuale) giuridicamente tutelato». Quindi, assume rilievo non tanto lo svolgimento di fatto di un’attività di lavoro connotata da elementi di subordinazione, quanto il tipo di interessi cui l’attività è funzionalizzata e il corrispondente assetto di situazioni giuridiche in cui è inserita. In quest’ambito, l’individuazione del regolamento di interessi delle parti costituisce operazione ermeneutica rigorosamente oggettiva, e prescinde dalle eventuali dichiarazioni contrattuali con detto regolamento eventualmente contrastanti. La tesi del giudice delle leggi risulta espressamente ripresa da un unico precedente di legittimità, la sentenza n. 820/2007 della Corte di Cassazione e, più di recente, dalla Corte d’Appello di Genova (sentenza del 30.09.2013), la quale sembra voler riprendere più in generale le tesi argomentative - in cui si collocano Cass. 9 ottobre 2006, n. 21646 e Cass. 6 settembre 2007, n. 18692 – tendenti a depotenziare, nell’identificazione della fattispecie del lavoro subordinato, il ruolo dell’eterodeterminazione in favore del criterio dell’etero-organizzazione ed addirittura di quello della dipendenza socio-economica del prestatore.
Fatte queste doverose premesse, va esaminato il rapporto controverso. Nella specie, sulla scorta della sopra esposta ricostruzione del rapporto e delle sue modalità di svolgimento, documentali e sulle quali peraltro le parti in larga parte concordano, risulta provato che il ricorrente nell’anno 2019 ha lavorato sostanzialmente tutti i giorni (salvi periodi di distacco o di mancata assegnazione di ordini che egli aveva lamentato e che parte convenuta attribuisce a non meglio precisata responsabilità del lavoratore) per un numero di ore (esclusivamente di consegna e ad esclusione dei tempi di attesa) mai inferiore a quattro, spesso vicino a otto ore e in alcune giornate (36 calcola la convenuta) superiore a otto ore, mentre nel 2018, nei primi mesi del rapporto, aveva lavorato pure in modo continuativo, quasi tutti i giorni, con orario inferiore a quattro ore al giorno (come connaturato al sistema che seleziona di norma per ultimi i collaboratori senza anzianità per la prenotazione degli slot). Osserva, quindi, il giudicante che, tenuto conto della qualità sopra ritenuta di imprenditore del settore trasporti, logistica e distribuzione della convenuta in relazione alla piattaforma mediante la quale il lavoro del ricorrente era prestato ed organizzato, peraltro unicamente dalla società nell’interesse esclusivamente proprio, detta modalità di prestazione quantitativa e prolungata nel tempo, dal 5.10.2018 al 3 marzo 2020, non può che condurre a ritenere che si tratti di una collaborazione di natura continuativa, non invece occasionale né costituita dall’insieme di singoli innumerevoli contratti, come dedotto dalla società convenuta. Pacificamente, poi, il lavoro del ricorrente veniva gestito e organizzato dalla piattaforma (come detto organizzata unicamente da parte datoriale e nel proprio esclusivo interesse), nel senso che solo accedendo alla medesima e sottostando alle sue regole il ricorrente poteva svolgere le prestazioni di lavoro, così come è pacifico che egli non ha più né avrebbe in alcun modo più potuto svolgere nessuna prestazione lavorativa dalla data del distacco subito dalla piattaforma stessa il 3.03.2020 e sino al giudizio (o almeno sino al 12.06.2020, quando la piattaforma venne per lui riattivata dalla convenuta, senza tuttavia riceverne alcuna comunicazione). Omissis Risulta, altresì documentale e pacifico, che l’assegnazione della consegna ai rider in genere e al ricorrente in particolare avveniva e avviene da parte della piattaforma sulla scorta di un algoritmo, che valuta la posizione del rider rispetto al ristorante e/o al luogo di consegna, al fine di rendere il più veloce ed efficiente possibile il servizio di consegna. D’altra parte, in fase di prenotazione degli slot (turni di consegna), il rider pure viene selezionato dall’algoritmo, sulla scorta del punteggio posseduto, in guisa che egli di fatto può prenotare il turno che preferisce sulla scorta delle
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proprie esigenze (personali, di famiglia, di maggiore redditività della consegna ecc.) solo ove possegga un punteggio più elevato di quello degli altri rider della medesima città, poiché la finestra di prenotazione si apre per lui due volte a settimana (lunedì e giovedì) solo dopo che esso è stato aperto per i rider che hanno un punteggio superiore al suo: tanto più basso è il punteggio del rider e tanto più è probabile che egli, al momento dell’apertura sul suo profilo della piattaforma delle prenotazioni degli slot, trovi i turni migliori o a lui più graditi già tutti prenotati dai colleghi che hanno un punteggio più alto dei suo, sul cui profilo i medesimi vengono aperti prima e quindi da loro prenotati. Osserva il giudicante che questo fatto accertato comporta, da un lato, che la prestazione dei rider e del ricorrente in particolare risulta completamente organizzata dall’esterno (etero-organizzata), e, d’altra parte, che la libertà del rider, segnatamente del ricorrente, di scegliere se e quando lavorare, su cui si fonda la natura autonoma della prestazione (anche sulla scorta della citata decisione della Corte di Giustizia), non è reale, ma solo apparente e fittizia, poiché, a tutto concedere, il lavoratore può scegliere di prenotarsi per i turni che la piattaforma (e quindi il datore di lavoro che ne è titolare o ne ha il controllo) mette a sua disposizione in ragione del suo punteggio. Egli, inoltre, per poter realmente svolgere la prestazione, deve essere loggato nel periodo di tempo che precede l’assegnazione della consegna, avere il cellulare carico in misura almeno pari al 20% e trovarsi nelle vicinanze del locale presso cui la merce dev’essere ritirata, poiché altrimenti l’algoritmo non lo selezionerà, benché egli avesse prenotato e non disdetto lo slot, con la conseguenza che, in verità, non è lui che sceglie quando lavorare o meno, poiché le consegne vengono assegnate dalla piattaforma tramite l’algoritmo, sulla scorta di criteri del tutto estranei alle preferenze e allo stesso generale interesse dal lavoratore (nel medesimo senso ha ritenuto la già citata sentenza della Suprema Corte spagnola, agli atti di parte ricorrente). La circostanza sopra evidenziata e pure documentale che i turni di prenotazione (slot) si aprono sull’app e possono essere prenotati dai lavoratori in ordine di punteggio dai medesimi posseduto e che il punteggio viene assegnato con i criteri sopra precisati e subisce riduzioni in ragione di condotte fra cui annoverare la “libera scelta” del lavoratore di rifiutare un turno prenotato (tanto più se in ritardo rispetto al termine di tre ore prima del suo inizio in cui il rifiuto può essere effettuato sull’app) – come emerge dai documenti in atti benché oggetto di contestazione meramente labiale da parte della società – porta, altresì, a ritenere che il rider, ed in particolare il ricorrente, sia in realtà sottoposto al potere disciplinare del datore di lavoro, oltre che al suo potere organizzativo e direttivo in relazione alla cennata serie ordinata di attività che egli è tenu-
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to a svolgere sulla piattaforma per riuscire a svolgere l’attività lavorativa. Ed invero, la circostanza che il punteggio del rider aumenti in modo premiale – in relazione cioè allo svolgimento di attività in c.d. “alta domanda” del partner convenzionato (35% doc. 12 del ricorrente), all’ efficienza del lavoratore (35% doc. 13 del ricorrente), al feedback dell’ utente (15% doc. 14 del ricorrente), all’esperienza del lavoratore (10% doc.15 del ricorrente) e al feedback dei partner (5% doc 16 del ricorrente) – non toglie affatto che il suo mancato aumento o la sua riduzione (a causa di condotte che in sostanza corrispondono a una negativa valutazione nei predetti parametri) costituiscano delle vere e proprie sanzioni disciplinari atipiche, sanzionando in sostanza un rendimento del lavoratore inferiore alle sue potenzialità con una retrocessione nel punteggio e quindi nella possibilità di lavorare a condizioni migliori o più vantaggiose. Le modalità, poi, di assegnazione degli incarichi di consegna da parte dell’algoritmo (e quindi del datore di lavoro) costringono il lavoratore a essere a disposizione del datore di lavoro nel periodo di tempo antecedente l’assegnazione dello stesso, mediante la connessione all’app con il cellulare carico e la presenza fisica in luogo vicino quanto più possibile ai locali partner di parte datoriale, realizzando così una condotta tipica della subordinazione. In sostanza, quindi, al di là dell’apparente e dichiarata (in contratto) libertà del rider, e del ricorrente in particolare, di scegliere i tempi di lavoro e se rendere o meno la prestazione, l’organizzazione del lavoro operata in modo esclusivo dalla parte convenuta sulla piattaforma digitale nella propria disponibilità si traduce, oltre che nell’integrazione del presupposto della etero-organizzazione, anche nella messa a disposizione del datore di lavoro da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative per consistenti periodi temporali (peraltro non retribuiti) e nell’esercizio da parte della convenuta di poteri di direzione e controllo, oltre che di natura latamente disciplinare, che costituiscono elementi costitutivi della fattispecie del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c.. Né può obiettarsi che dette modalità sono connaturate alla piattaforma e che pertanto non modificano la natura autonoma del rapporto lavorativo pattuita in contratto, perché la piattaforma non è un terzo, dovendosi con essa identificare il datore di lavoro che ne ha la disponibilità e che programma gli algoritmi – peraltro non esibiti in giudizio – che regolano l’organizzazione del lavoro con le modalità predette e di fatto sovrastano il lavoratore con il subdolo esercizio di un potere di totale controllo sul medesimo, ai fini dell’esecuzione della prestazione lavorativa. Pertanto, lo svolgimento della prestazione con le modalità suddette è connotata dalla subordinazione, sia ove considerata come doppia alienità – come defi-
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nita la subordinazione dalla Consulta con la sentenza sopra citata –, sia ove considerata sulla scorta del paradigma della eterodirezione che l’art. 2094 c.c. aveva coniato per i rapporti di lavoro tipici della prima Rivoluzione Industriale, nei quali la natura subordinata del rapporto così definita appare ben più immediatamente ed evidentemente percepibile, anche sulla scorta degli indici rivelatori studiati per detta tipologia di lavorazioni. Osserva il giudicante che, inoltre, nel corso del rapporto di lavoro del ricorrente, si sono verificati alcuni accadimenti che confermano la natura subordinata del suo rapporto di lavoro. Anzitutto, come accennato, il carattere continuativo con cui è stata di fatto resa la prestazione con un orario nell’ultimo anno in media analogo a quello ordinario di un rapporto subordinato con il CCNL Commercio Terziario, applicato dalla convenuta (come pacifico e riconosciuto all’odierna udienza, in cui veniva dalla stessa formulata proposta transattiva di assunzione con detto CCNL, applicato in azienda ad altri lavoratori addetti a diverse mansioni), di otto ore al giorno e 40 ore settimanali. In secondo luogo, le modalità con cui la prestazione è stata svolta, senza margini di autonomia rispetto alla piattaforma, che spesso creava al ricorrente problematiche che non era possibile risolvere neppure contattando la società con l’apposita chat dedicata (vedi anche il doc. n. 16 di parte convenuta), a mezzo della quale l’operatore in turno spesso non rispondeva ripetutamente alle domande del ricorrente, dicendogli che il proprio compito non era risolvere i suoi dubbi sul funzionamento del sistema, perché ciò non sarebbe stato funzionale al suo lavoro. Dai messaggi contenuti nel citato documento 16 di parte convenuta emerge che l’operatore in turno sulla chat evidenziava altresì che “il sistema fa tutto in automatico” e che assegna gli ordini pure in automatico, sicché in assenza di ordini nello slot prenotato dal ricorrente, egli poteva solo “cambiare zona e muoversi nell’area di servizio”. Omissis Le modalità di funzionamento della piattaforma – rimaste ignote al ricorrente nel corso del rapporto e anche nella presente causa, in cui non sono stati prodotti gli algoritmi che ne regolano aspetti essenziali, quali lo sblocco degli slot e l’assegnazione degli ordini – appaiono aver privato del tutto il ricorrente di qualsiasi possibilità di scegliere se e quando lavorare: egli, infatti, pur avendo prenotato i relativi slot ed essendosi posizionato fisicamente in una zona nella quale insistono esercizi commerciali partner della convenuta, non riceveva ordini per molti giorni consecutivi, rimanendo tuttavia nelle giornate e orari dei predetti slot a disposizione della convenuta ed in attesa. Per alcune giornate, poi, il ricorrente subiva il distacco dell’account della piattaforma, ciò di cui chiedeva spiegazioni alla signora P.P. in occasione della sua
presenza a Palermo, richiedendo di essere risarcito per il lavoro perso; la P.P., in occasione della successiva visita a Palermo, il 24.02.2020 rispondeva al ricorrente che i distacchi erano addebitabili a una sua non meglio precisata condotta, provocando nel M.T. uno scoppio d’ira e la minaccia di agire in giudizio. Nella specie, in ogni caso, secondo la stessa convenuta, il ricorrente era stato temporaneamente disconnesso in ragione di una sua condotta, subendo così una sanzione disciplinare atipica che comportava la sospensione dal lavoro, senza ricevere né una previa contestazione disciplinare e neppure una esauriente spiegazione postuma. Deve, quindi, concludersi che nella fattispecie il lavoratore è stato soggetto al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro. Ulteriore conferma della sottoposizione del ricorrente al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro si ottiene dalle circostanze del distacco del ricorrente dalla piattaforma, che egli ha impugnato quale licenziamento orale e comunque nullo, in quanto discriminatorio e ritorsivo. Risulta, infatti, provato e pacifico in causa che il ricorrente: - il 30 gennaio 2020, con l’assistenza del Sig. A.G., Segretario Generale dell’organizzazione sindacale Nidil Cgil di Palermo, incontrava la “Glovo Specialist”, Sig. ra P.P., alla quale lamentava i danni subiti in conseguenza delle disfunzioni del sistema cui si è più sopra accennato: il blocco ingiustificato del suo account per i giorni dal 23 al 26 gennaio 2020 - che gli aveva impedito di prenotarsi e di svolgere il lavoro - il fatto dal 29 aprile al 13 maggio 2019 era rimasto privo di ordini per due settimane consecutive; condotte per le quali richiedeva un risarcimento. Lamentava inoltre la mancata consegna di dispositivi di protezione individuale la cui mancanza era stata in precedenza oggetto di comunicati stampa da parte del segretario del Nidil di Palermo (doc. 39). Al termine dell’incontro la sig.ra P.P. assicurava che avrebbe effettuato delle verifiche rispetto alle richieste del ricorrente; - in data 11 febbraio 2020, unitamente al Segretario Generale Nidil – Cgil e al Direttore Regionale dell’Inail della Sicilia, partecipava alla trasmissione televisiva “Cronache Siciliane”, trasmessa dall’emittente del Giornale di Sicilia, dedicata alle condizioni di lavoro dei rider di Palermo, ivi, presente con il suo portavivande in studio, denunciava sia la mancata consegna da parte della convenuta dei DPI che le precarie condizioni di lavoro nelle quali i rider sono costretti a operare (doc. 40); - in data 24 febbraio 2020 sempre alla presenza del Segretario Generale Nidil Cgil di Palermo (doc. 41), incontrava nuovamente, la Sig.ra P.P. – che gli riferiva che il blocco dell’account era da attribuire esclusivamente a sue inadempienze e che, pertanto, la società
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non riconosceva alcun risarcimento – e discuteva animatamente con la citata rappresentante della società, manifestando la propria volontà di agire in giudizio; - domenica 1 marzo 2020, effettuava, nel corso della giornata, numerose consegne accumulando un saldo cassa per un totale € 215,00, ritenendo di non dover versate l’eccedenza del saldo di cassa, in conseguenza di messaggio inviato dalla società a tutti i rider di Palermo, che veniva poi modificato dalla convenuta alle ore 21:30 della stessa domenica; - alle ore 3,31 del mattino del lunedì 2 marzo 2020 riceveva un messaggio della società convenuta con cui gli veniva comunicato che aveva “un valore troppo alto di saldo alla mano” e lo invitava ad effettuare un bonifico per motivi di sicurezza, entro le 24 ore dal ricevimento del messaggio, di € 170,00, onde evitare che il suo account venisse bloccato (doc. 42); - martedì 3 marzo 2020 alle ore 6,03 del mattino il ricorrente riceveva l’ultimo sms dalla società convenuta, con il quale veniva informato di essere stato sospeso per motivi di sicurezza, non avendo operato il versamento, e di essere quindi disconnesso (doc. 43); - in data 3 marzo 2020 faceva alla società un bonifico di euro 100,00, e il 4 marzo 2020 un secondo bonifico di euro 200,00 (doc. 44); - poiché il suo account non veniva riattivato dopo i bonifici, come previsto dalle regole della piattaforma (doc. 46), sollecitava più volte la riattivazione dell’account scrivendo all’indirizzo di posta elettronica omissis – usualmente utilizzato per comunicare con gli operatori messi a disposizione della piattaforma Glovo per l’assistenza ai corrieri – ma riceveva esclusivamente risposte automatiche nelle quali veniva informato che sarebbe stato ricontattato al più presto (cfr. doc 47, 48, 49 allegati al ricorso); - impugnava quindi la cessazione del rapporto con comunicazione del 28 aprile 2020 in allegato a pec del difensore del 30.04.2020 (doc. 50); – il 13.05.2020 chiedeva alla società, ai sensi del Regolamento UE 679/2016, di acquisire informazioni essenziali per la tutela dei propri diritti e in particolare di conoscere l’esistenza di un trattamento di dati che ha determinato la decisione di disconnettere il suo account e di non riconnetterlo dopo la richiesta (doc. 51); – in data 13 giugno 2020 riceveva riscontro a detta istanza dalla società, che tuttavia non forniva risposta alle domande relative al distacco dell’account ritenendo che fossero estranee al trattamento di dati personali (doc. 38), sì da determinarlo a proporre reclamo innanzi all’Autorità Garante per il Trattamento dei Dati personali; - in data 29.07.2020 depositava il presente ricorso per impugnativa di licenziamento e pagamento di differenze retributive; - in data 12.08.2020 il suo procuratore avv. G. L.M. – cui aveva dato mandato ai fini dell’impugnativa di licenziamento e delle altre richieste inviate alla società con la nota del 28.04.2020 (pec 30.04.2020) –
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riceveva pec dall’avv. F.T., con allegata missiva datata 31.07.2020, con cui, in nome e per conto della società, veniva dato come di seguito riscontro alla predetta impugnativa: Omissis Osserva il giudicante che la esposta ricostruzione dei fatti non è oggetto di contestazione tra le parti e che la società convenuta ha attribuito il prolungamento del distacco dell’account a un non meglio precisato errore del sistema, chiedendo di dimostrare che la signora P.P. e il suo collega non avevano riferito ai vertici societari della partecipazione del ricorrente alla trasmissione televisiva Cronache Siciliane, in cui rivendicava maggiori garanzie per il lavoro dei rider. Orbene, la ricostruzione della società, oltre che priva di riscontro probatorio (la prova richiesta con la sig. P.P. e altro dipendente sociale non è stata ammessa, non potendosi con essa dimostrare che in presenza degli attuali mezzi tecnologici la società non fosse venuta comunque a conoscenza del contenuto di una trasmissione televisiva sui riders), appare inverosimile. Ed invero, risulta provato che il ricorrente avesse trasmesso, con le modalità richieste dalla convenuta e regolamentate sulla piattaforma Glovo, i bonifici delle somme richieste, relative al saldo di cassa, senza che il suo account venisse riattivato, come invece previsto dalle regole della piattaforma medesima, ma anche che il ricorrente avesse inviato diverse e-mail (4, 7 e 9 marzo 2020) rappresentando di non essere stato riconnesso, senza ricevere alcuna risposta, nonché, successivamente, lettera di impugnativa del licenziamento, ricevuta dalla società pacificamente in allegato a pec dell’avv. L.M. del 30.04.2020 (riscontrata con pec dall’avv. F.T. solo il 12.08.2020) e richiesta di informazioni sul trattamento dei dati personali del 13.05.2020, ricevendo risposta il 13.06.2020 senza alcuna indicazione in merito al distacco dell’account. Ove, infatti, si fosse trattato di un mero errore, la società avrebbe avuto modo di avvedersene immediatamente e avrebbe subito riattivato l’account del ricorrente, invece risulta che l’account sia stato riattivato dalla società solo il 12.06.2020, dopo quasi un mese e mezzo dalla ricezione dell’impugnativa di licenziamento e dopo tre mesi da quella delle citate e-mail, giusto il giorno precedente all’ultimo utile per fornire risposta in relazione alla richiesta sul trattamento dei dati personali, senza peraltro darne alcuna comunicazione al ricorrente se non dopo il ricorso introduttivo del presente giudizio, con il laconico “il sig. M.T. risulta riattivato” (omissis). Poiché è stato accertato in modo pacifico che quella indicata è la ricostruzione dei fatti come accaduti, non può pertanto ritenersi verosimile la deduzione della società in merito ad un non meglio precisato né documentato errore tecnico relativo alla mancata riattivazione dell’account del ricorrente, dovendosi di conseguenza ritenere al contrario verosimile che, se non il distacco, certamente la mancata riattivazione
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dell’account del M.T. sia riconducibile alla volontà della società di reagire in tal modo alle provate rivendicazioni di natura sindacale operate dal ricorrente, accompagnato dal proprio rappresentante sindacale, sia in due occasioni di incontro con il Glover Specialist, che mediante la partecipazione a una trasmissione televisiva (Omissis). La sequenza temporale dei fatti – contrariamente a quanto asserito dalla convenuta – è tanto diretta ed immediata da portare a ritenere assai verosimile l’intento punitivo datoriale. Il convincimento del giudice sul punto, del resto, non può che essere rafforzato dalle deduzioni della società in merito a una condotta offensiva posta in essere dal ricorrente, sia tramite le comunicazioni via chat all’indirizzo della società (doc. n. 16), che a voce all’indirizzo della dipendente societaria signora P.P. nell’ultima della occasioni appena citate (24.02.2020): questa, infatti, avrebbe forse potuto giustificare una contestazione disciplinare da parte della società, che tuttavia non vi è stata e che avrebbe obbligato la convenuta a dar prova della giusta causa di licenziamento (non fornita), essendosi al contrario la convenuta limitata a impedire al ricorrente qualsiasi possibilità di svolgimento della prestazione lavorativa, mediante la disconnessione e l’omessa riconnessione del suo account. Infatti, in mancanza di prova della causale dedotta dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento, deve ritenersi provata l’unicità del motivo di ritorsione dedotto e provato dal lavoratore, come nel caso di specie. Per tutte le argomentazioni sopra esposte, deve, quindi, anzitutto dichiararsi che tra le parti intercorre un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, con mansioni di ciclofattorino di cui al VI livello del CCNL Terziario, Distribuzione e servizi pacificamente applicato dalla convenuta ai propri dipendenti, dal 5.10.2018, come in parte dispositiva. Qualificato, così, il rapporto di lavoro come rapporto di lavoro subordinato, per tutte le ragioni sopra evidenziate, ivi compresa quella consistente nell’esercizio del potere latamente disciplinare esercitato dal datore di lavoro mediante ripetuti distacchi dalla piattaforma, omissione di ordini per periodi prolungati negli orari degli slot prenotati e definitivo distacco dell’account, quest’ultima condotta non può che qualificarsi come licenziamento, attesa la pacifica impossibilità per il ricorrente di rendere la prestazione lavorativa al di fuori della piattaforma. Detto licenziamento, del resto, pur dovendosi verosimilmente addebitare esclusivamente a motivo ritorsivo, come detto, è stato intimato in forma orale, inidonea a produrre la risoluzione del rapporto. Ed invero, nessuna comunicazione in alcuna forma è mai pervenuta al ricorrente dell’intenzione della società di procedere al distacco del suo account,
sicché appare ozioso interrogarsi se la comunicazione pervenuta al ricorrente a mezzo della chat del 3.03.2020 alle ore 6:03 A.M. “Il tuo account Glovo è stato messo in pausa per motivi di sicurezza perché non hai effettuato un deposito per ridurre il saldo alla mano”, sia o meno una comunicazione caratterizzata dalla necessaria forma scritta, poiché in ogni caso da essa non si desume in alcun modo la volontà datoriale di recedere dal rapporto di lavoro con il ricorrente, ma solo di sospenderlo in modo temporaneo, soprattutto se essa viene messa in relazione con la precedente comunicazione del 2.03.2020 alle ore 3:31 AM, del seguente contenuto: “Hai un valore troppo alto di Saldo alla mano. Per sicurezza deposita 170.00 euro entro 24 ore, altrimenti dovremo mettere in pausa il tuo account Glovo (omissis)”. Tanto chiarito, nella specie, il licenziamento del ricorrente è stato intimato per fatti concludenti, consistenti nella mancata riattivazione del suo account non appena egli comunicò nelle forme richieste i bonifici effettuati sull’IBAN della società sopra indicato, secondo le regole contrattuali indicate dalla piattaforma in generale e al ricorrente in particolare con la citata chat del 2.03.2020. Pertanto esso non può che qualificarsi come licenziamento orale, avverso il quale non vi era alcun onere di impugnativa: esso risulta infatti paragonabile a quello, indubbiamente orale, che venisse intimato a un lavoratore subordinato che fosse stato sospeso dal servizio o fosse in aspettativa per qualsivoglia ragione e a cui venga al rientro in servizio fisicamente impedito l’ingresso sul luogo di lavoro (ad esempio cambiando la serratura del suo ingresso, le cui chiavi erano in possesso del lavoratore),senza l’invio di una comunicazione di licenziamento in forma scritta. Del resto, ove così non fosse, l’eccezione di tardività dell’impugnativa di licenziamento appare infondata. Omissis Acclarato che il ricorrente è stato licenziato oralmente dal rapporto di lavoro subordinato intrattenuto di fatto con la convenuta e ritenuto che siffatto licenziamento è inefficace, non essendo idoneo a risolvere il rapporto di lavoro, e che il rapporto non era stato ricostituito di fatto, in assenza di alcuna comunicazione di riconnessione, in particolare quale rapporto di lavoro subordinato come accertato con la presente sentenza, ne consegue l’applicazione in favore del ricorrente della tutela reintegratoria prevista dal d.lgs. 23/2015 con richiamo all’art. 18, commi dal primo al terzo, St. Lav. nel testo modificato dalla l. n. 92/2012. La società dovrà, quindi, essere condannata alla reintegrazione del lavoratore nel proprio posto di lavoro, oltre che al pagamento di un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione mensile che avrebbe percepito per il rapporto di lavoro accertato come sopra, a tempo pieno e indeterminato, con mansioni di ciclofattorino di cui al VI livello del CCNL Terziario, Distribuzione
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e servizi pacificamente applicato dalla convenuta ai propri dipendenti, come quantificata in parte dispositiva, dal momento del licenziamento, del 4.03.2020 – data in cui l’account avrebbe dovuto essere riattivato – sino alla reintegrazione effettiva, oltre contributi previdenziali e assistenziali. Venendo alla domanda di differenze retributive formulata dal ricorrente, deve rilavarsi che non vi è contestazione sulla quantità di ore lavorate dal ricorrente per effettuare le consegne e che, parimenti, non vi è contestazione specifica da parte del datore di lavoro in merito al numero delle ore in cui, al di fuori della consegne e al fine di operare le medesime, il lavoratore fu a disposizione del datore di lavoro, ore che nel rapporto di lavoro subordinato vanno retribuite con la retribuzione fissata dal CCNL. L’accertamento sin dall’inizio della natura subordinata del rapporto e del suo svolgimento a tempo pieno comporta l’applicazione all’intero rapporto della retribuzione prevista dall’inquadramento del VI livello del CCNL Terziario applicato, laddove è pacifico che il ricorrente ha ricevuto una retribuzione inferiore. Va rilevato, altresì, che non vi è contestazione specifica da parte della società, che avrebbe dovuto formularla in modo preciso nella comparsa di costituzione ex art. 416 c.p.c., dei conteggi operati dal ricorrente in, sulla scorta del CCNL applicato dalla società ai suoi dipendenti. La contestazione della convenuta in memoria di costituzione si limita alla debenza delle somme relative agli istituti puramente contrattuali, quali la 14° mensilità. Osserva il giudicante che l’eccezione di parte convenuta sul punto appare infondata, poiché l’accertamento del rapporto di lavoro subordinato da inquadrare sulla scorta di un contratto collettivo già applicato dalla società non può che condurre alla liquidazione
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della retribuzione dovuta sulla scorta del CCNL applicato dal datore di lavoro, senza decurtazioni. La convenuta va quindi condannata al pagamento delle differenze retributive come quantificate in ricorso, di cui in parte dispositiva. Da ultimo, va esaminata la domanda di indennizzo proposta dal ricorrente ex art. 47-ter d.lgs. n. 81/2015. Omissis P.Q.M. Il Giudice, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda ed eccezione reietta, dichiara che tra il ricorrente M.T. e la Omissis intercorre un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, dal 5.10.2018, con lo svolgimento da parte del ricorrente di mansioni di ciclofattorino addetto alla consegna di merci, cibi e bevande, a domicilio, da inquadrare nel VI livello del C.C.N.L. Terziario Distribuzione e Servizi. Dichiara inefficace il licenziamento oralmente intimato al ricorrente dalla società convenuta mediante il suo perdurante distacco dalla piattaforma Glovo dal 3.03.2020 in poi e sino al 12.06.2020 e condanna la Omissis in persona del suo legale rappresentante protempore, a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro, con l’inquadramento e le mansioni sopra indicati, nonché al pagamento in suo favore di un’indennità risarcitoria pari all’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del T.F.R. che avrebbe dovuto percepire, pari a € 1.407,94 mensili, dal 4.03.2020 sino all’effettiva reintegrazione, oltre contributi previdenziali e assistenziali. Condanna la società convenuta Omissis, in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, al pagamento in favore del ricorrente, a titolo di differenze retributive per il periodo dal 5.10.2018 al 4.03.2020, della somma complessiva di € 13.313,41. Omissis
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Una nuova onomastica digitale per i poteri del datore di lavoro Sommario : 1. Introduzione. – 2. Oltre la retorica del marketplace: la piattaforma
opera quale impresa organizzatrice del servizio. – 3. Dell’unicità della vicenda contrattuale, della sua continuità in senso giuridico. – 4. Fra libertà apparente del fattorino e potere direttivo della piattaforma. – 5. Una chiosa finale.
Sinossi. Dopo aver brevemente ripercorso la vicenda fattuale, ricostruendo la sequenza di eventi che ha condotto alla cessazione del rapporto di lavoro di un ciclo-fattorino, l’autore analizza nel dettaglio il lungo percorso argomentativo seguito dall’autorità giudicante, cogliendovi l’opportunità per inserire alcune digressioni in ordine ai riscontrati indici della fattispecie concretamente emersa in giudizio. Abstract. After briefly reviewing the facts of the case, by reconstructing the sequence of events that led to the termination of the rider’s employment, the author analyzes in detail the long argumentative path followed by the judging authority, taking the opportunity to insert some digressions in order to the found indicators of the existence of an employment relationship actually emerged in court.
1. Introduzione. Con la pronuncia richiamata in epigrafe, il Tribunale di Palermo ha segnato un deciso avanzamento nell’animato e, a tratti, ipertrofico dibattito sulla qualificazione del rapporto di lavoro dei ciclo-fattorini della gig economy. In particolare, il giudice parrebbe essere riuscito nella delicata opera di riportare a unità logica l’ingente mole di ipotesi ricostruttive diffusamente avanzate in dottrina negli ultimi anni, nel corpo di una lunga e articolata riflessione interamente protesa a dar conto di ciò che a molti è sempre apparso evidente: i riders sono lavoratori subordinati. Recte: non vi sarebbe alcuna ontologica incompatibilità fra il lavoro prestato tramite piattaforma digitale e l’inquadramento del rapporto nello schema negoziale tipico ex art. 2094 c.c., come, del resto, già affermato dalla S.C. nel suo recente arresto sul tema1.
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In questo senso, la S.C. ha, infatti, sostenuto che non si possa escludere che «a fronte di specifica domanda della parte interessata fondata sul parametro normativo dell’art. 2094 c.c., il giudice accerti in concreto la sussistenza di una vera e propria subordinazione»; Cass., 4 gennaio 2020, n. 1663, in LG, 2020, III, 213; cfr. Santoro-Passarelli, L’interpretazione dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015
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Rectius: in attesa che un (auspicabile) intervento legislativo dipani una volta per tutte la matassa della collocazione sistematica del requisito dell’etero-organizzazione, al centro di una difficile contesa fra l’art. 2, comma 1, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, e i pur attuali arresti giurisprudenziali in materia di subordinazione “attenuata”, pare in ogni caso potersi affermare che, rebus sic stantibus, i riders non siano lavoratori genuinamente autonomi2. La vicenda in commento trae origine dal mancato ripristino dell’account del fattorino3 – protratto sine die e rimasto sostanzialmente ingiustificato – in seguito al blocco disposto dalla piattaforma «per motivi di sicurezza», a causa del mancato versamento delle eccedenze sul saldo di cassa sul conto corrente della società entro il termine di ventiquattr’ore, da questa all’uopo indicato tramite app. L’account, infatti, non veniva riattivato neanche a seguito della rifusione, seppur tardiva, di tali somme, come normalmente previsto dal regolamento di servizio per ipotesi di questo tipo. Tale anomalia determinava, allora, il lavoratore a impugnare la cessazione del rapporto con tempestiva comunicazione scritta all’indirizzo della società e, in seguito, ad adire l’autorità giudiziaria. A ben vedere, come puntualmente ricostruito nella narrativa del ricorso depositato, nelle settimane precedenti ai riferiti episodi, in occasione della partecipazione a un programma televisivo andato in onda su un’emittente locale, il lavoratore aveva denunciato la mancata consegna dei DPI da parte della società e rappresentato le condizioni di sistematico sfruttamento della propria categoria. Nelle difese svolte in sede giudiziale, la società avrebbe successivamente attribuito il denunciato prolungamento del distacco a un non meglio precisato errore di sistema, senza fornire, tuttavia, alcun apprezzabile riscontro probatorio. La ricostruzione dei fatti emersa al termine della fase istruttoria ha indotto, allora, il Giudice a concludere che «la mancata riattivazione dell’account [...] sia riconducibile alla volontà della società di reagire in tal modo alle provate rivendicazioni di natura sindacale operate dal ricorrente» e che «la sequenza temporale dei fatti è tanto diretta ed immediata da portare a ritenere assai verosimile l’intento punitivo datoriale», il quale sarebbe culminato, prima ancora dell’impugnato «licenziamento per fatti concludenti», nell’adozione di una serie di sanzioni disciplinari atipiche, peraltro in assenza di qualsivoglia garanzia di
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e i riders nella sentenza della Cassazione n. 1663/2020, in DRI, 2020, II, 512 ss.; Spinelli, I riders secondo la Cassazione: collaboratori etero-organizzati regolati dalle norme sul lavoro subordinato, in DLM, 2020, I, 171; Zoppoli, I riders tra fattispecie e disciplina: dopo la sentenza della Cassazione n. 1663/2020, in MGL, 2020, fasc. straord., 265; cfr. anche Voza, Il lavoro e le piattaforme digitali: the same old story?, in WP D’Antona, It., 2017, 336, 9. In quest’ottica sembrerebbe, dunque, potersi affermare che l’apparato di tutele apprestato dalla l. 2 novembre 2019, n. 128, presenti un carattere meramente residuale. A dispetto delle apparenze, infatti, il legislatore, lungi dall’attribuire ai fattorini una qualificazione tipologica, si sarebbe limitato a stabilire dei minimi di trattamento per coloro che, solitamente inquadrati in contratti di lavoro autonomo, non abbiano ancora intentato alcuna azione giudiziaria al fine di vedersi riconoscere le tutele della subordinazione (se del caso, anche solo con domanda proposta ai sensi del precitato art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015). In dottrina, del resto, ci si è opportunamente domandato quale interesse potrebbe avere un qualunque committente a stipulare un contratto di collaborazione etero-organizzata (Cfr. Recchia, La Cassazione consegna ai riders la collaborazione etero-organizzata, in LG, 2020, III, 250). Questi aveva prestato la propria attività per la piattaforma dall’ottobre 2018 al marzo 2020, dapprima in regime di lavoro autonomo occasionale, dunque in forza di un contratto d’opera.
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carattere sostanziale e procedurale. Di tale aspetto, ad ogni modo, si dirà più approfonditamente nel prosieguo. Nel copioso ricorso depositato, il lavoratore, all’esito di una meticolosa scomposizione in fattori primi delle concrete modalità di svolgimento della prestazione, domandava poi al giudice di dichiarare la natura subordinata del rapporto dedotto in giudizio, a tal fine offrendo in comunicazione una vastissima mole di allegati. La dettagliata versione dei fatti prodotta dal ricorrente – sostanzialmente rimasta incontestata da parte della convenuta – ha fornito all’autorità giudicante gli elementi per farsi strada nei meandri del modello organizzativo adottato dalla società, tanto da portarla a identificare, al riparo di uno slang manageriale invero decisamente fuorviante4, taluni elementi fortemente denotativi dell’esistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro dipendente.
2. Oltre la retorica del marketplace: la piattaforma opera quale impresa organizzatrice del servizio.
In via preliminare, richiamandosi a nota giurisprudenza (nazionale5 ed europea6) maturata attorno alla vicenda degli autisti di Uber, l’autorità giudicante ha sgombrato il campo dall’equivoco di fondo che vorrebbe, in conformità con l’auto-narrazione comunemente portata avanti dai players del settore, le piattaforme digitali operanti nel settore food delivery quali mere intermediarie fra domanda e offerta di servizi, e non già quali vere e proprie organizzatrici del servizio erogato (e, men che mai, quali datrici di lavoro investite di un potere di ingerenza). Nel caso di specie, il Tribunale ha avuto gioco facile nell’evidenziare l’anomalia secondo la quale la società, nell’oggetto sociale dichiarato, affermi di occuparsi, fra l’altro, della «fornitura di servizi per il tramite della piattaforma a favore di esercizi commerciali e dei fornitori di trasporto, finalizzati a metterli in relazione con i potenziali clienti, che per il tramite della piattaforma possono inviare ordini direttamente agli esercizi commerciali ed ai fornitori di servizi di trasporto» mentre, in entrambi i contratti stipulati con il ricorrente, precisi che «come attività accessoria alla principale si occupa anche dell’attività di consegna ai consumatori». Tale “curiosa” antinomia, unitamente alle modalità organizzative del servizio concretamente osservate, hanno determinato il giudice a concludere che la piattaforma operi, a tutti gli effetti, nelle vesti di «impresa di trasporto di persone o di distribuzione di cibo e bevande a domicilio».
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Appare evidente, infatti, che questo sia consapevolmente funzionale a consolidare nell’immaginario collettivo l’ideale di un «rapporto in improbabile contiguità con il volontariato e il dilettantismo» (Aloisi, De Stefano, Il tuo capo è un algoritmo, Laterza, 2020, 108). Trib. Milano, sez. spec. imprese, 25 maggio 2015, in CG, 2016, III, 356; Trib. Torino, sez. spec. imprese, 22 marzo 2017, in Il Diritto Industriale, 2018, I, 16; Trib. Milano, sez. misure di prevenzione, 27 maggio 2020, n. 9, in Pluris. C. giust., Grande Sez., 20 dicembre 2017, causa C-434/15, in http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=19804 7&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=8621592.
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Del resto, come opportunamente già rilevato dalla giurisprudenza francese7 richiamata dal medesimo giudice a proposito degli autisti di Uber, le prestazioni erogate (in questo caso dai ciclo-fattorini) accederebbero a un servizio ideato e interamente organizzato dalla società, il quale esiste solo grazie alla relativa piattaforma e per il cui utilizzo non è dato al prestatore rivolgersi ad alcuna propria clientela, né fissare liberamente i prezzi o le condizioni per lo svolgimento dell’attività di consegna, che sono completamente eterodeterminati dalla piattaforma. Tale conclusione rivelerebbe, in definitiva, «la possibilità che i suoi collaboratori lavorino per conto (e non semplicemente in nome) della piattaforma stessa e che, dunque, siano inseriti in una organizzazione imprenditoriale, di mezzi materiali e immateriali, di proprietà e nella disponibilità della piattaforma stessa e così del suo proprietario o utilizzatore».
3. Dell’unicità della vicenda contrattuale, della sua continuità in senso giuridico.
Il giudice è poi passato a indagare le conseguenze che deriverebbero, in punto di effettività dell’autodeterminazione del fattorino rispetto al se e al quando della prestazione lavorativa, dall’adozione, da parte della società, di un «modello di turnazione a slot vincolato»8, ma non prima di essersi pronunciato su alcuni tratti che connoterebbero la dimensione temporale del rapporto. A parere di chi scrive, fra tali aspetti correrebbe un’intima connessione. In particolare, la circostanza che l’algoritmo implementato dalla piattaforma operi, nel susseguirsi delle settimane di lavoro successive all’avvio del rapporto, una selezione “a imbuto”, in ragione del punteggio di eccellenza totalizzato, dei collaboratori ai quali concedere l’accesso in via prioritaria alla prenotazione dei turni a più alta densità di consegne, permetterebbe, anzitutto, di avvalorare la tesi della natura eminentemente continuativa (in senso giuridico e non già solamente materiale9) del rapporto da questi intrattenuto con la medesima. Non vi sarebbe, infatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della società, una moltitudine di contratti di lavoro autonomo, di volta in volta stipulati in occasione dell’accettazione delle singole proposte di consegna10, bensì un unico contratto normativo concluso nella (sola) fase genetica del rapporto e «destinato a disciplinare le successive esecuzioni, se ed in quanto attivate»11, nell’arco della vigenza del quale il fattorino, sotto-
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Cour D’Appel de Paris, 10 gennaio 2019, n. 18/08357, in Bulletin Joly Travail, 2019, 2, 8 ss.; Cour de cassation, Chambre sociale, 4 marzo 2020, n. 374, in https://www.courdecassation.fr/jurisprudence_2/chambre_sociale_576/374_4_44522.html. 8 Cavallini, Libertà apparente del rider vs. poteri datoriali della piattaforma: il Tribunale di Palermo riapre l’opzione subordinazione, in GC, 2020, XII, 5. 9 Bavaro, Sul concetto giuridico di «tempo del lavoro» (a proposito di ciclo-fattorini), in Labor, 2020, VI, 681. 10 In tal senso, cfr. Ichino, Le conseguenze dell’innovazione tecnologica sul diritto del lavoro, in RIDL, 2017, I, 525. 11 F. Carinci, L’ultima parola sui rider: sono lavoratori subordinati (Commento a Tribunale Palermo 24/11/2020), in LDE, 2021, I, 3.
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posto al pervasivo “soft” power esercitato dalla piattaforma attraverso l’anzidetto sistema “premiale”, sarebbe invero materialmente costretto a prenotarsi alle sessioni di lavoro da questa rese disponibili. Tanto, al fine di sottrarsi al declassamento “reputazionale” dell’algoritmo, alla diminuzione delle opportunità di lavoro che tipicamente ne deriva e, in ultima istanza, al rischio di veder disconnesso il proprio account. A pedalare per mantenere l’andatura e, in definitiva, non cadere. La combinazione di tali fattori potrebbe, così, consentire la parziale riconducibilità della fattispecie concretamente emergente allo schema contrattuale del lavoro intermittente12, dal quale questa si differenzierebbe per la libertà riconosciuta al fattorino (sebbene, a conti fatti, in via puramente formale) di scegliere se e quando rendersi disponibile allo svolgimento della prestazione lavorativa. Sennonché, l’assenza di qualsiasi effettivo margine di autonomia in tal proposito, suggerirebbe la configurazione di un “obbligo di rispondere alla chiamata” sotto mentite spoglie, di per sé astrattamente idoneo a fondare la natura continuativa del rapporto13. Si potrebbe, del resto, pervenire alle medesime conclusioni ove sol si osservasse che il descritto meccanismo sembrerebbe dar conto di un indiscutibile «interesse produttivo continuativo»14 del creditore, tale da consentire di ritenere le singole prestazioni di consegna astrette a un unico contratto di durata, e non già a una congerie di contratti ad esecuzione istantanea, talché l’elemento della continuatività ne permeerebbe la sostanza, accedendo al sinallagma contrattuale. Come opportunamente argomentato in dottrina, infatti, «è preferibile ritenere che la serie dei risultati adempimenti istantanei consenta in effetti di dare rilievo al rapporto come unico e continuativo in senso stretto, ma solamente se sussista un effettivo collegamento tra i risultati stessi che si apprezzi sia dal punto di vista temporale sia dal punto di vista strutturale»15. Orbene, la connaturata identità e ripetitività delle prestazioni richieste, l’utilizzo di un “indicatore di fedeltà” quale il punteggio di eccellenza, la valorizzazione al fine della sua quantificazione dell’esperienza (id est, anzianità lavorativa) accumulata dal fattorino e la corresponsione dei compensi maturati secondo cadenze bisettimanali, nel postulare la necessaria permanenza nel tempo del vincolo che lega le parti contraenti in funzione del progressivo determinarsi delle rispettive «utilità contrapposte»16, sembrano deporre in questo senso. Sotto tale profilo, altra dottrina ha, peraltro, osservato che, in una analoga vicenda sottoposta al vaglio della Corte Federale del lavoro tedesca17 e riguardante le prestazioni rese
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In proposito, cfr. Voza, Il contratto di lavoro intermittente, in Vallebona (a cura di), I contratti di lavoro, Utet, 2009, 1255 ss. Così Cass., 3 ottobre 2017, n. 23056, in FI, 2017, XI, 3300. 14 Bavaro, op. cit., ibidem. 15 Ferraro, Continuità e lavoro autonomo, in Labor, 2020, V, 587. 16 App. Firenze, 16 novembre 2011, in Pluris; cfr. Ghera, Il lavoro autonomo nella riforma del diritto del lavoro, in RIDL, 2014, I, 501 ss. 17 Bundesarbeitsgericht, 1 dicembre 2020, 9 AZR 102/20, in https://juris.bundesarbeitsgericht.de/cgi-bin/rechtsprechung/document. py?Gericht=bag&Art=pm&pm_nummer=0043/20. 13
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tramite piattaforma online da alcuni crowdworkers, l’autorità giudiziaria, «lungi dal farsi paralizzare dalla clausola contrattuale che non obbliga il lavoratore della piattaforma ad accettare i singoli incarichi proposti, conferisce maggior rilevanza al fatto che la piattaforma stessa manifesti, al contempo, sebbene tacitamente, la volontà di favorire rapporti di durata»18. Sebbene non compiutamente argomentata in questi termini nel corpo della pronuncia in commento, tale ricostruzione sembrerebbe collimare con la decisione del giudice di considerare il rapporto intercorso fra le parti a tempo pieno (e indeterminato), con implicita riconduzione dei tempi di attesa e disponibilità al lavoro del prestatore19, fra una consegna e l’altra, alla nozione di orario di lavoro assunta ai fini del computo delle differenze retributive dovute dalla piattaforma. È il caso di precisare, ad ogni buon conto, che il giudice, nel determinarsi in questo senso, parrebbe essersi limitato ad equiparare «lo svolgimento effettivo della prestazione e il turno di disponibilità per concludere che si fosse trattato di un rapporto a tempo pieno»20.
4. Fra libertà «apparente» del fattorino e potere direttivo della piattaforma.
Al dato della permanenza nel tempo dell’interesse produttivo del datore di lavoro si aggiungerebbe, poi, il sopraccennato esercizio di un potere disciplinare “occulto” da parte della piattaforma. Secondo la puntuale ricostruzione svolta dal giudice, infatti, l’algoritmo utilizzato dalla società convenuta sarebbe programmato per condurre, attraverso l’irrogazione di vere e proprie sanzioni disciplinari atipiche21 più o meno esplicite22, alla graduale estromissione dalla flotta dei fattorini che non raggiungano gli standard di rendimento ed efficienza23 richiesti per l’ottimale erogazione del servizio o che non rispettino scrupolosamente le puntuali istruzioni comunicate loro via app. Pur frequentemente proposte dalla piattaforma in forma di mero suggerimento (non senza una certa dose di ironia), queste ultime finirebbero, pertanto, per presentare, a valle dell’operatività dei suesposti meccanismi sanzionatori, un contenuto rigidamente prescrittivo.
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Nogler, La Corte federale del lavoro tedesca risolve il rompicapo della qualificazione dei lavoratori delle piattaforme, in DLRI, 2020, IV, 837. 19 Cfr. Leccese, Se il lavoro iperconnesso diventa occasione per scaricare sull’uomo il rischio di impresa, Relazione al Convegno nazionale AGI 2019, in GLav., 2019, XXXIX, 9 ss. 20 Barbieri, Il luminoso futuro della subordinazione, in LLI, 2020, VI, 17. 21 Sul punto cfr. Martelloni, Il ragazzo del secolo scorso, in Questione Giustizia del 24.12.2020, 11. 22 È il caso del declassamento nel ranking reputazionale, del blocco temporaneo e del definitivo distacco dell’account del fattorino. 23 Secondo la ricostruzione operata dal giudice, l’attribuzione del punteggio di eccellenza sarebbe determinata dalla combinazione di cinque parametri: lo svolgimento delle prestazioni di consegna nelle fasce di c.d. “alta domanda” (35%), l’efficienza del lavoratore (35%), il feedback dell’utente (15%), l’anzianità lavorativa maturata dal lavoratore (10%) e il feedback dei partner (5%).
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Tanto ha condotto l’autorità giudicante a ritenere che l’autonomia nella fase genetica del rapporto, ossia la pretesa libertà del fattorino di autodeterminarsi in ordine all’an e al quando della prestazione, presenti vistosi tratti di ineffettività, sì da risultare del tutto «effimera» e «apparente». Sulla scorta di queste premesse, il giudice palermitano ha allora concluso che: «a tutto concedere, il lavoratore può scegliere di prenotarsi per i turni che la piattaforma (e quindi il datore di lavoro che ne è titolare o ne ha il controllo) mette a sua disposizione in ragione del suo punteggio» e che «in verità, non è lui che sceglie quando lavorare o meno, poiché le consegne vengono assegnate dalla piattaforma tramite l’algoritmo, sulla scorta di criteri del tutto estranei alle preferenze e allo stesso generale interesse dal lavoratore». La prime sentenze di merito intervenute sul tema24, come noto, avevano fatto perno sulla autonomia del prestatore nel momento genetico del rapporto, pur riscontrata nel caso di specie, per escluderne la natura non già eterodiretta, ma anche solo etero-organizzata25 ex art. 2 comma 1, d.lgs. n. 81/2015, muovendo dal discutibile assunto secondo il quale: «è evidente che se il datore di lavoro non può pretendere dal lavoratore lo svolgimento della prestazione lavorativa non può neppure esercitare il potere direttivo e organizzativo». Tale orientamento, ormai superato, faceva proprio – verrebbe da dire, senza beneficio d’inventario – l’impianto argomentativo adoperato dalla giurisprudenza maturata attorno alla vicenda dei pony express26 sul finire degli anni ’80, ritenendo che questo potesse perfettamente richiamarsi anche in riferimento ai rapporti dedotti in giudizio. La recente pronuncia della Suprema Corte27 a queste seguita, pur ritenendo integra l’autonomia nella fase genetica del rapporto dei riders di Foodora «per la rilevata facoltà del lavoratore di obbligarsi o meno alla prestazione», aveva invece condiviso l’orientamento espresso dalla corte territoriale torinese a mente del quale tale elemento difettasse nella sua fase esecutiva, per via dell’inserimento del lavoratore in un assetto organizzativo unilateralmente predisposto dalla committente, di per sé sufficiente a condizionarne le prestazioni senza che vi fosse alcun bisogno di esercitare costantemente e regolarmente un vero e proprio potere conformativo28. Del resto, per prendere in prestito le parole del sociologo francese Pierre Bourdieu, «di tutte le forme di persuasione occulta, la più implacabile è quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose»29.
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Trib. Torino, 5 luglio 2018, in RGL, 2018, III, 371 ss., con nota di Spinelli; Trib. Milano, 10 settembre 2018, in RGL, 2019, II, 82 ss., con nota di Spinelli. 25 Il Tribunale di Torino, nell’abbracciare la tesi della «norma apparente», aveva ritenuto che il legislatore si fosse limitato a positivizzare alcuni degli indici sussidiari elaborati dalla giurisprudenza significativi dell’esistenza di un vincolo di subordinazione, tanto da dare forma a una norma «senza precetto», dal momento che etero-organizzazione e etero-direzione finirebbero per considerarsi sinonimi. Sul punto, cfr. Tosi, L’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015: una norma apparente?, in ADL, 2015, VI, 1127; cfr. Pisani, Le collaborazioni coordinate e continuative a rischio estinzione, in RIDL, 2018, I, 49; Sulla natura non precettiva della norma, pur muovendo da posizioni parzialmente differenti, anche Albi, Il lavoro mediante piattaforme digitali tra autonomia e subordinazione, in Labor, 2019, II, 128. 26 Cass., 10 luglio 1991, n. 7608, in RIDL, 1992, II, 103 ss.; Cass., 25 gennaio 1993, n. 811, in OGL, 1993, II, 877 ss. 27 Cass., 24 gennaio 2020, n. 1663, cit. 28 F. Carinci, op. cit., ibidem. 29 «De toutes les formes de “persuasion clandestine”, la plus implacable est celle qui est exercée tout simplement par l’ordre des choses». Bourdieu, Wacquant, Réponses, Seuil, 1992, 143.
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Giurisprudenza
I giudici di legittimità, nell’aderire all’inquadramento della fattispecie, avanzato dalla Corte d’Appello30, entro lo schema rimediale dell’art. 2, comma 1 (pur proponendo qualche correttivo31), mostravano di concordare, in particolare, sul rilievo dirimente spiegato dalla affermata autonomia nella fase genetica, disattendendo così le conclusioni alle quali altra giurisprudenza di legittimità era pervenuta, anche in tempi recenti, a proposito delle prestazioni di alcuni lavoratori addetti alla ricezione di scommesse nel settore delle agenzie ippiche32. Questo filone interpretativo, infatti, aveva negato che in presenza di taluni altri indici fortemente sintomatici dell’esistenza di un vincolo di subordinazione, la libertà di presentarsi al lavoro potesse svolgere un ruolo decisivo al fine della qualificazione del rapporto33, dal momento che tale elemento «non attiene a questo contenuto, bensì è esterno, sul piano non solo logico bensì temporale (in quanto precede lo svolgimento)», sicché non inciderebbe «sulla forma e sul contenuto della prestazione (e pertanto sulla natura del rapporto)». Il giudice palermitano ha, ciononostante, ritenuto preferibile intessere i fili del proprio ragionamento a partire dalle conclusioni tratte dalla S.C. all’esito del giudizio di legittimità, riproponendo l’anzidetta scomposizione per fasi (genetica ed esecutiva). Ad ogni buon conto, la circostanza che la prestazione dei riders possa ormai, de plano (e fino a prova contraria), generalmente considerarsi quanto meno etero-organizzata34, ha finito per restringere l’effettivo ambito di indagine alla reale sussistenza (o meno) del requisito in discorso. Dall’esito in un senso o nell’altro di tale esame sarebbero derivati, infatti, l’assoggettamento del rapporto alla norma di disciplina (l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015) ovvero la sua integrale riqualificazione ai sensi dell’art. 2094 c.c., sia pure, se del caso, in presenza di una subordinazione “attenuata”. Così, la riscontrata presenza di «meccanismi contrattuali di incentivo/penalizzazione che, nei fatti, inducono il lavoratore a rendersi disponibile quanto più possibile»35, nel conferire al rapporto dedotto in giudizio il connotato della dipendenza (da intendersi
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App. Torino, 4 febbraio 2019, in GI, 2019, VII, 1589 ss.; Cfr. De Luca Tamajo, La sentenza della Corte d’Appello Torino sul caso Foodora. Ai confini tra autonomia e subordinazione, in LDE, 2019, I, 7 ss; Per un commento più recente, cfr. anche Perulli, Oltre la subordinazione, Giappichelli, 2021, 195 ss. 31 La S.C. riteneva, infatti, che l’applicazione della norma comportasse l’estensione, quod effectum, dell’intero corredo di diritti della subordinazione e non solo di quelli compatibili con le caratteristiche del rapporto sottostante. 32 Cass., 13 febbraio 2018, n. 3457; Cass., 11 ottobre 2017, n. 23846; Cass., 10 luglio 2017, n. 17009; Cass., 5 maggio 2005, n. 9343; Cass., 1 luglio 1999, n. 6761; Cass., 1 giugno 1999, n. 5340; Cass. 24 maggio 1999, n. 5045, tutte in Pluris; Cass., 15 aprile 1999, n. 3779, in OGL, 1999, I, 375; Cass., 1 marzo 1984, n. 1457, in FI, 1985, I, 1846. 33 Cfr. Barbieri, Della subordinazione dei ciclofattorini, in LLI, V, 2019, 21. 34 In relazione al dato, solitamente comune ai vari modelli organizzativi adottati dalle società di food delivery, che le modalità della prestazione siano «determinate in modo sostanziale da una piattaforma multimediale e da un applicativo per smartphone». Così Cass., 4 gennaio 2020, n. 1663, cit. Sul punto, cfr. Carabelli, Anche il lavoro dei ciclofattorini ha un’essenza subordinata, in RGL Giurisprudenza Online, 2021, I, 4. 35 Razzolini, I confini tra subordinazione, collaborazioni etero-organizzate e lavoro autonomo coordinato: una rilettura, in DRI, 2020, II, 345 ss.; Donini, Il lavoro attraverso le piattaforme digitali, Bononia University Press, 2019, 125 ss.
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quale «disponibilità nel tempo del prestatore di lavoro»36), ne ha determinato l’inevitabile trasmigrazione dal dominio della “disciplina” a quello della “fattispecie”. Come prontamente rilevato in dottrina37, tuttavia, la presupposta decisività di tale aspetto sembrerebbe farsi più cedevole nel passaggio della sentenza in commento in cui, condividendo il tenore della pronuncia resa dalla Suprema Corte spagnola38 in sede nomofilattica in relazione ad altra pronuncia, parimenti richiamata, della Corte di Giustizia39, il giudice afferma che «non vi è dubbio che la Corte di Giustizia lasci alla valutazione del giudice nazionale di stabilire l’effettività della libera determinazione del lavoratore in relazione ai tempi di lavoro» nonché, se del caso, «di stabilire aliunde la natura subordinata del rapporto». In quest’ottica, l’anzidetta “libertà apparente” parrebbe entrare in considerazione «tutt’al più quale effetto e non come causa della subordinazione»40. Tale osservazione, a ben vedere, risulta assai pertinente, ove solo si noti che il giudice prosegue nel discorso affermando la necessità di promuovere un’interpretazione evolutiva del dettato normativo finalizzata ad «adattare i concetti di dipendenza e alienità alla realtà sociale del tempo in cui le norme devono essere applicate»41, a tal riguardo giovandosi del richiamo alle tesi sulla “doppia alienità” (dei mezzi e del risultato) sviluppate dalla Corte Costituzionale42, nonché della giurisprudenza in materia di subordinazione “attenuata”43. Al netto di tale (pur marginale) profilo di contraddizione, l’autorità giudicante parrebbe aver seguito il descritto iter argomentativo al precipuo intento di dar conto, per un verso, della perdurante capacità adattiva degli indici discretivi della fattispecie enucleati all’art. 2094 c.c., in grado di intercettare i variegati mutamenti della subordinazione nel suo concreto atteggiarsi in seno alla realtà produttiva, e, per l’altro, di dimostrare la compatibilità del rapporto dedotto in giudizio con ciascuna delle nozioni di subordinazione passate in rassegna, dalla più espansiva alla più restrittiva44. Detta argomentazione non è stata, tuttavia, esente da critiche. In particolare, in dottrina non è mancato chi ha rilevato che, nell’agganciare l’evidenziata necessità di ammodernare gli indici della subordinazione anche al portato degli arresti giurisprudenziali nei quali si era fatto perno sul requisito dell’etero-organizzazione per configurare, in alcuni casi, una subordinazione “attenuata”, il giudice palermitano non avrebbe valutato «che nell’attuale
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Bavaro, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato. Critica alla de-oggettivazione del tempo lavoro, Cacucci, 2008, 168 ss.; Razzolini, op. cit., 345 ss. 37 Barbieri, Il luminoso futuro, cit., 76. 38 Tribunal Supremo, Sala de lo Social Pleno, 25 settembre 2020, n. 805, in https://www.poderjudicial.es/search/AN/openDocument/05 986cd385feff03/20201001. 39 C. Giust., 22 aprile 2020, causa C-692/19, in http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=225922&pageIndex=0 &doclang. 40 Iervolino, Non è tanto chi sei, quanto quello che fai che ti qualifica, in LDE, 2021, I, 10. 41 Tribunal Supremo, Sala de lo Social Pleno, 25 settembre 2020, n. 805, cit. 42 C. cost., 12 febbraio 1996, n. 30, in D&L, 1996, II, 615. 43 Ex multis v. Cass., 3 novembre 2020, n. 24391, in Pluris; Cass., 10 settembre 2019, n. 22634, in FI, 2019, XII, 3912; Cass., 5 febbraio 2019, n. 3314 in Pluris; Cass., 4 dicembre 2013, n. 27138, in CED Cass.; Trib. Firenze, 5 maggio 2020; Trib. Frosinone, 5 dicembre 2019; App. Milano, 17 gennaio 2019, tutte inedite a quanto consta. 44 Cfr. Cavallini, op. cit., 11.
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Giurisprudenza
panorama normativo detto requisito caratterizza una autonoma e diversa fattispecie», sicché lo si dovrebbe ritenere definitivamente acquisito alla sola disciplina delle collaborazioni etero-organizzate45. Tale considerazione, nell’appalesarsi tanto tranchant, sembrerebbe non tener conto della viva attualità di tale indirizzo interpretativo nella più recente giurisprudenza di merito e di legittimità46 e, più nel dettaglio, non cogliere appieno il senso del ragionamento del giudice. Quest’ultimo, infatti, vi si sarebbe richiamato nell’ambito di un più ampio climax volto a dar conto delle diverse modulazioni assunte dai criteri-spia della subordinazione nel diritto vivente, onde dimostrarne la duttilità. Ne è prova la circostanza che, all’esito dell’esame delle concrete modalità di svolgimento della prestazione, egli abbia riscontrato una subordinazione piena, e non solamente attenuata. La nitida radiografia del momento esecutivo del rapporto proposta dal giudice ha rivelato, infatti, l’avvenuto esercizio da parte della piattaforma di un potere non già meramente organizzativo, bensì propriamente conformativo e gerarchico, a mente della ferma eterodeterminazione, attraverso istruzioni47 di volta in volta comunicate via app, della condotta che il fattorino era tenuto a osservare durante le varie fasi in cui si articola l’attività di consegna. A ciò si aggiunga che, oltre al tempo materialmente occorrente per l’espletamento dei singoli incarichi, il lavoratore sarebbe stato costretto a mettere a disposizione della piattaforma le proprie energie lavorative per il compimento di attività ausiliarie, «peraltro non retribuite, quali, ex multis, il raggiungimento dell’area di servizio assegnatagli, l’effettuazione del login nell’applicativo della piattaforma, l’attesa al ristorante e la rimessa dei pagamenti in contanti». La fattispecie concretamente emergente si connoterebbe, dunque, per l’assenza di qualsivoglia apprezzabile margine di autonomia in ambedue le richiamate fasi del rapporto, sì che al giudice non sarebbe rimasta altra scelta che quella di disporne la conversione. Coerentemente con le conclusioni svolte, questi ha, pertanto: ritenuto sussistente fra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, con attribuzione, anche al fine del calcolo delle differenze retributive, del VI livello di inquadramento professionale di cui al CCNL Terziario Distribuzione e Servizi; dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato oralmente e «per fatti concludenti» e, per l’effetto, condannato la società convenuta a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro, nonché a corrispondergli un’indennità risarcitoria, con riguardo alle mensilità intercorse dalla data del licenziamento sino all’effettiva reintegrazione.
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Puccetti, La subordinazione dei riders. Il canto del cigno del Tribunale di Palermo, in LDE, 2021, I, 11. A tal proposito, ci si riporta alla nota n. 43. 47 Tale affermazione trova riscontro lampante, ad esempio, nell’ipotesi in cui il fattorino raggruppi più ordini. In tal caso, infatti, la piattaforma «non tollera alcuna autonoma determinazione del rider», imponendo unilateralmente la sequenza da osservare nell’effettuazione delle consegne. 46
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5. Una chiosa finale. Volgendo in retrospettiva lo sguardo al percorso seguito dalla sentenza, è possibile cogliere una disamina completa, ponderata e convincente dei più rilevanti nodi problematici tipicamente connessi al rapporto di lavoro dei fattorini digitali del XXI secolo. Il complicato sforzo ricostruttivo profuso dal giudice – certamente agevolato dalle ingenti allegazioni di parte ricorrente e dall’innegabile raggiungimento di un certo stadio di maturazione in seno alla riflessione scientifica e giurisprudenziale (nazionale e sovranazionale) – ha garantito un solido appiglio alle argomentazioni da questi condotte in punto di diritto, consentendogli, all’esito di una meticolosa opera di decrittazione della sfuggente grammatica degli algoritmi, di riportare le variegate estrinsecazioni del nuovo management digitale48 sotto le più tradizionali insegne dell’onomastica del potere datoriale. Nella lunga marcia dei ciclo-fattorini verso le tutele del lavoro dipendente, ad ogni modo, qualcosa sembra muoversi anche fuori dalle aule di giustizia. Dopo la controversa pagina del CCNL riders49, siglato a sorpresa nel settembre 2020 da Assodelivery e UGL-riders, vi è stata la pronta risposta50 delle oo.ss. stipulanti il CCNL logistica, trasporto merci e spedizioni, attraverso la sottoscrizione di un protocollo integrativo rivolto ad individuare, quale referente per la determinazione del compenso dei riders ex art. 47-quater, d.lgs. n. 81/2015, le tabelle retributive allegate all’anzidetto contratto. In tempi più recenti, poi, la piattaforma Just Eat (fra le più attive a livello nazionale nel settore food delivery), facendo seguito a un precedente comunicato51 con il quale aveva dichiarato di voler intraprendere un percorso mirato all’assunzione dei propri fattorini, in attuazione di un modello organizzativo – già adottato in altri paesi europei – denominato Scoober, è addivenuta alla stipula di un accordo integrativo aziendale con le oo.ss. di categoria dei settori dei trasporti e dei lavoratori atipici facenti capo alle tre confederazioni52. Il testo del nuovo accordo richiama l’applicazione del sopraccitato CCNL logistica, trasporto merci e spedizioni ed è «finalizzato all’inserimento dei riders nel contesto normativo e organizzativo del lavoro subordinato», tanto da attribuire a coloro che abbiano già collaborato con la piattaforma uno specifico diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato, con assegnazione di un monte ore settimanale «corrispondente alla media oraria svolta durante il periodo pregresso».
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Gaudio, Algorithmic management, poteri datoriali e oneri della prova, in LLI, 2020, VI, 22. Tale contratto, come noto, ha previsto una disciplina sostanzialmente appiattita sui minimi di trattamento apprestati dalla L. n. 128/2019, sfruttando il rinvio derogatorio all’autonomia collettiva di cui all’art. 47-quater per scongiurare l’applicazione del regime suppletivo apprestato dalla norma e impedire, in definitiva, che le clausole retributive contenute nel solo contratto collettivo concorrente, ossia il CCNL logistica – trasporto merci e spedizioni sottoscritto da CGIL, CISL e UIL nel dicembre 2017, potessero assurgere a parametro per la determinazione del compenso minimo orario dei riders. A tal proposito, si rinvia a Bavaro, Il ccnl assodelivery-ugl: quattro problemi fra diritto e ideologia, in Diario del Lavoro del 24.09.2020. 50 Protocollo attuativo dell’art. 47-bis ss. d.lgs. n. 81/2015 del 2.11.2020. 51 “Just Eat: da marzo le prime assunzioni con contratto di lavoro dipendente per i rider del food delivery”, comunicato del 4.02.2021. 52 Accordo integrativo aziendale del 29.03.2021, siglato da Takeaway.com Express Italy e FILT CGIL, FIT CISL e UIL Trasporti, nonché, «ai fini dell’assistenza dei lavoratori che transitano dal lavoro autonomo al lavoro subordinato», da NIDIL CGIL, FELSA CISL e UILTEMP. 49
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Giurisprudenza
In conformità con la dichiarata volontà di preservare, pur nel pieno riconoscimento delle tutele lavoristiche, i tratti di flessibilità oraria tipici del settore, le parti, inoltre, hanno stabilito che il part-time costituisce la «forma comune di lavoro in azienda», individuando tre regimi orari applicabili (rispettivamente di 10, 20 o 30 ore settimanali) e stabilendo che la pianificazione settimanale dei turni di lavoro debba essere «concordata di volta in volta con la Società», che provvederà alla sua pianificazione «tenendo conto delle eventuali proposte del lavoratore». Un altro elemento peculiare del contratto in discorso è quello relativo alla retribuzione. Oltre alla previsione di un salario orario, le parti hanno previsto, infatti, un premio di valorizzazione commisurato al numero di consegne effettuate, con la precisazione che, «al fine di ridurre al minimo il rischio per la salute e la sicurezza dei riders […] non verranno prese in considerazione più di quattro consegne nell’arco di un’ora». A tanto devono aggiungersi il rimborso chilometrico forfettario a copertura dei costi sostenuti dal fattorino per l’utilizzo e la manutenzione del veicolo, nonché ulteriori specifiche disposizioni in materia di assicurazione per responsabilità civile verso terzi e sulla vita; pause, ferie, permessi e riposi settimanali; dotazioni di sicurezza gratuite. Al netto di tutte le migliorie che potranno rivendicarsi in futuro, c’è da sperare, insomma, che tale modello di regolazione faccia scuola e segni la via maestra per la diffusa iscrizione della categoria nell’area delle tutele del lavoro subordinato, rompendo il giogo dell’ormai stanca e obsoleta retorica del “lavoretto”. Che siano colmate, in definitiva, le più rilevanti «buche sulla strada dei diritti dei riders»53. Antonio Alessandro Scelsi
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Martelloni, CCNL Assodelivery – UGL: una buca sulla strada dei diritti dei rider, in Questione Giustizia del 22.10.2020.
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