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Pacini
vvocato cassazionista, specializzato nella materia ubblicato plurimi contributi sulla predetta materia di riviste quali fra l’altro ADL, Labor e Rivista e della previdenza sociale.
ISBN: 978-88-3379-023-7
9 788833 790237
2018
D irettore : Oronzo Mazzotta
Giovanni Mimmo Antonino Sgroi Il decreto dignità
magistrato ordinario in servizio presso il Tribunale nzioni di giudice del lavoro dal 2000. È autore di materia di diritto del lavoro e della previdenza à di docenza presso vari enti, tra i quali la Scuola agistratura, la Scuola Superiore dell’Economia e uola Nazionale dell’Amministrazione, la Luiss, ecc.
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LABOR 4
istantanee
Novità
n. 87/2018, convertito dalla legge n. 96/2018, mportanti novità in materia di contratto di e somministrazione; ha, inoltre, aumentato, massimo, la misura dell’indennizzo previsto ento illegittimo nell’ambito del contratto a previsto un esonero contributivo per favorire vanile e introdotto disposizioni in materia di onali e per il settore scolastico. o il commento degli artt. 1, 1 bis, 2, 2 bis, 3, ne una prima, ma approfondita, analisi delle ncidono sulla materia del diritto del lavoro e
ABOR Istantanee
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ABOR Il lavoro nel diritto
issn 2531-4688
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luglio-agosto 2018
Rivista bimestrale
Diretta da Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
Il decreto dignità Contratti a termine, somministrazione di lavoro, lavoro occasionale e indennità risarcitoria per il licenziamento illegittimo Commento agli articoli 1-3 e 4-4 bis d.l. 87/2018 convertito nella legge 9 agosto 2018 n. 96
IL DECRETO DIGNITÀ Mimmo – Sgroi pp. 152 euro 18
IN EVIDENZA Licenziamento disciplinare e decorso del tempo Oronzo Mazzotta
Ripensando alla immediatezza della contestazione Luigi De Angelis
Pacini
€ 18,00
Lavoro e vita privata nel lavoro digitale Giovanni Calvellini, Marco Tufo Il decreto legge n. 87/2018, convertito dalla legge n. 96/2018, ha introdotto importanti novità in materia di contratto di lavoro a termine e somministrazione; ha, inoltre, aumentato, nel minimo e nel massimo, la misura dell’indennizzo previsto per il licenziamento illegittimo nell’ambito del contratto a tutele crescenti, previsto un esonero contributivo per favorire l’occupazione giovanile e introdotto disposizioni in materia di prestazioni occasionali e per il settore scolastico.
I rapporti di lavoro del datore sovraindebitato Alessandro Ventura
Giurisprudenza commentata Giorgio Treglia, Marta Vendramin, Cinzia Carta, Giovanni Piglialarmi, Anna Rota
L’opera, propone una prima, ma approfondita, analisi delle disposizioni che incidono sulla materia del diritto del lavoro e della previdenza.
Pacini
Indici
Saggi Oronzo Mazzotta, Licenziamento disciplinare e decorso del tempo.................................................p. 381 Luigi De Angelis, Ripensando alla immediatezza della contestazione...............................................» 391 Giovanni Calvellini, Marco Tufo, Lavoro e vita privata nel lavoro digitale: il tempo come elemento distintivo............................................................................................................................................» 403 Alessandro Ventura, La gestione dei rapporti di lavoro del datore sovraindebitato............................» 417
Giurisprudenza commentata Giorgio Treglia, Interposizione di mano d’opera e conseguenze economiche in caso di mancato ripristino del rapporto di lavoro.........................................................................................................» 439 Marta Vendramin, La tutela della professionalità del dirigente (medico) durante lo svolgimento dell’incarico. Tra regole di giudizio, prospettive negoziali e ipotesi ermeneutiche..............................» 451 Cinzia Carta, Principio di libertà delle forme e disdetta orale: ancora sulla disciplina civilistica applicabile al contratto collettivo.......................................................................................................» 467 Giovanni Piglialarmi, L’onerosità nei contratti pubblici: trattasi di un’utilità economica anche immateriale purché idonea a far conseguire leciti vantaggi..............................................................» 479 Anna Rota, Sul divieto di conflitto e affiliazione sindacale: il «modello Ryanair» sotto la lente del diritto antidiscriminatorio.................................................................................................................» 497
Indice analitico delle sentenze Appalti pubblici – affidamento a titolo gratuito – corrispettivo non economico – legittimità – differente concetto di contratto a titolo oneroso – altra utilità economicamente apprezzabile – sussistenza (Consiglio di Stato, 3 ottobre 2017, n. 4614, con nota di Piglialarmi) Diritto sindacale – contratto collettivo – libertà delle forme – forma del recesso – prova della disdetta orale (Cass., 8 novembre 2017, n. 2600, con nota di Carta) – discriminazioni – divieto – convinzioni personali – convinzioni sindacali del lavoratore – clausola regolamentare/negoziale – divieto di affiliazione sindacale e azione collettiva – illegittimità - condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro – limitazione (Trib. Bergamo, 30 marzo 2018, con nota di Rota) Lavoro (rapporto di) – intermediazione ed interposizione di mano d’opera – appalto di servizi – ripristino del rapporto di lavoro – retribuzione – risarcimento del danno – qualificazione in termini risarcitori e retributivi – differenza – difetto di prestazione lavorativa – eccepibilità dell’aliunde perceptum (Cass., sez. un., 7 febbraio 2018, n. 2990, con nota di Treglia) – pubblico impiego privatizzato – dirigenti medici – svolgimento dell’incarico – Jus variandi – tutela della professionalità – criteri di giudizio applicabili (Cass., 2 marzo 2018, n. 4986, con nota di Vendramin) Indice cronologico delle sentenze Giorno
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Autorità 2017 Ottobre Consiglio di Stato, n. 4614 Novembre Cass., n. 2600 2018 Febbraio Cass., sez. un., n. 2990 Marzo Cass., n. 4986 Trib. Bergamo
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Notizie sugli autori
Giovanni Calvellini – dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Siena Cinzia Carta – assegnista di ricerca nell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Luigi De Angelis – già presidente di sezione della Corte d’Appello di Genova Oronzo Mazzotta – professore ordinario nell’Università di Pisa Giovanni Piglialarmi – dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Bergamo Anna Rota – assegnista di ricerca nell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Giorgio Treglia – avvocato nel foro di Milano Marco Tufo – dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Siena Marta Vendramin – dottoressa di ricerca nell’Università degli Studi di Udine Alessandro Ventura – dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”
Saggi
Oronzo Mazzotta
Licenziamento disciplinare e decorso del tempo Sommario : 1. Il tema. – 2. Immediatezza, doveri di protezione e comportamento delle parti. – 3. Le tecniche di valutazione. – 4. Il controllo in Cassazione.
Sinossi. Il saggio, che prende spunto dalla sentenza n. 30985/2017 delle Sezioni unite della Corte di cassazione, si occupa del problema della collocazione del principio di immediatezza nell’esercizio del potere di licenziamento disciplinare all’interno della dinamica del contratto di lavoro. Individuata la natura del vizio in una violazione, da parte del datore, dei doveri di protezione (segnatamente dei paradigmi della buona fede e correttezza), il saggio si preoccupa altresì di dar conto delle logiche conseguenze cui conduce tale inquadramento giuridico sia circa la nozione stessa di “immediatezza” sia in ordine al controllo in Cassazione del decisione di merito. Abstract. The essay, which is inspired by the judgement n. 30985/2017 from the joint sitting of the Supreme Court, deals with the problem of placing the principle of immediacy in the exercise of disciplinary dismissal power within the dynamics of the employment contract. Identified the nature of the violation in a violation, committed by the employer, of the protection duties (especially the paradigms of good faith and correctness), the essay is also concerned with giving an explanation of the logical consequences which this legal framework leads to, both about the notion of “immediacy” itself and with regard to the check on the first judicial decision. Parole chiave: Licenziamento disciplinare – Giusta causa – Buona fede e correttezza – Tutela reale – Controllo in Cassazione
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Il presente lavoro è destinato agli scritti in onore di Roberto Pessi.
Oronzo Mazzotta
1. Il tema. Il tempo costituisce una variabile di significativo rilievo rispetto all’esercizio del potere di licenziamento. Nelle più recenti novità legislative il tempo gioca un ruolo nella graduazione della sanzione economica nei confronti dei licenziamenti giudicati illegittimi. L’apparato sanzionatorio, secondo il d.lgs. n. 23/2015, è graduato in funzione dell’anzianità di servizio. In questo si sostanziano le “tutele crescenti” che la le legge intende assicurare al lavoratore. Ed è su questa relativa indifferenza dell’apparato sanzionatorio, a fronte dell’illecito datoriale, che si appunta una parte delle critiche in chiave di costituzionalità all’attuale assetto normativo1. Ma è rispetto all’esercizio del potere (di licenziamento) disciplinare che l’incidenza del tempo ha un ruolo ancor più significativo. Pensiamo anzitutto alla rilevanza del tempo in relazione all’istituto della c.d. recidiva: qui il tempo gioca o può giocare come amplificatore della responsabilità del lavoratore, che reitera, entro un arco di tempo predefinito, il comportamento inadempiente. Ma pensiamo, soprattutto – per quel che ci interessa nella presente sede – all’incidenza della variabile tempo rispetto al problema della cosiddetta “tempestività” e/o “immediatezza” nell’esercizio del potere datoriale di recedere per giusta causa o giustificato motivo soggettivo e più in generale del potere stesso di imporre pene private al lavoratore. La discussione sul tema è stata – è ben noto – rinfocolata a seguito della riforma montiana del 2012, che ha sventagliato le conseguenze del licenziamento invalido, proponendo un pendolo sanzionatorio che oscilla fra ben quattro alternative: una tutela ripristinatoria piena, appaiabile a quella di cui all’art. 18 St. lav. originario (art. 18, comma 1), una reintegrazione dimidiata (art. 18, comma 4) e due sanzioni economiche, una più blanda, che propone l’alternativa fra sei e dodici mensilità (art. 18, comma 6) ed una maggiormente consistente, fra dodici e ventiquattro mensilità (art. 18, comma 5). Ed è proprio questa differenziazione di regimi che rende problematica la questione dell’individuazione della sanzione applicabile al licenziamento intempestivo. Il tema è stato oggetto di una recente pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite2, che ha risolto, forse non in maniera definitiva, un contrasto giurisprudenziale fra le sezioni semplici e che deve quindi essere il punto di partenza della discussione. Prima di analizzare nel merito il percorso argomentativo della recente decisione giova ricordare che in un lontano precedente assai significativo sotto altro profilo3, la Cassazione
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V. l’ordinanza del Tribunale di Roma, 26 luglio 2017, in Labor, 2018, 225 ss., con nota di D’Ascola, Appunti sulla questione di costituzionalità del licenziamento a tutele crescenti. Sulla questione di costituzionalità potrebbero incidere le modifiche dell’apparato sanzionatorio contenute nel c.d. “decreto dignità” (d.l. 12 luglio 2018, n. 87), su cui v., per primissime osservazioni: Mazzotta, Il decreto dignità: profili giuslavoristici, nel Quotidiano giuridico del 17 luglio 2018. V. Cass., sez. un., 27 dicembre 2017, n. 30985, in www.rivistalabor.it, 15 gennaio 2018, con nota redazionale (Le S.U. parlano chiaro: al licenziamento disciplinare tardivo si applica la tutela indennitaria forte). V. Cass. 13 ottobre 2015, n. 20540, in RIDL, 2016, II, 102, con cui la Corte ha risolto il problema della collocazione, entro lo specchio dell’apparato sanzionatorio del nuovo art. 18 dello statuto, di fatti pur verificatisi, ma non dotati di rilievo disciplinare, considerati
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aveva già, se pure parenteticamente, preso posizione sulla questione della tardività della contestazione disciplinare riconducendola ad una «atipica perdita del potere di licenziare dovuta al trascorrere del tempo», che avrebbe, a rigore, dovuto condurre all’applicazione della sanzione massima della reintegrazione ante litteram. In quel caso però la Corte non era andata oltre, limitandosi alla mera qualificazione del vizio del licenziamento, ma rifiutandosi – perché fuori dello specchio processuale – di collegare ad esso una delle sanzioni prefigurate dal novellato art. 18, cioè di pronunciarsi sulle conseguenze di tale vizio. Nel commentare la decisione – il cortese lettore mi passerà l’autocitazione – osservavo che l’impostazione data al problema, quand’anche fosse stata astrattamente condivisibile, non avrebbe retto al vaglio della giurisprudenza successiva. Scrivevo infatti: «sono però abbastanza realista per ritenere che questa linea interpretativa non prevarrà. La prassi giurisprudenziale risolverà l’ennesimo conflitto fra diritto comune e diritto speciale, ancora una volta a favore di quest’ultimo. E lo farà, esattamente come ha fatto negli anni novanta a proposito del licenziamento disciplinare nullo nell’area della tutela obbligatoria, con l’invenzione della categoria della “sufficienza della tutela”: l’improvvido legislatore alimenterà così un nuovo capitolo del processo auto-poietico di matrice giurisprudenziale»4. La facile profezia si è avverata con la sentenza delle Sezioni Unite: proviamo a vedere come.
2. Immediatezza, doveri di protezione e comportamento delle parti.
Il caso su cui si sono pronunciate le sezioni unite riguardava una contestazione disciplinare posta in essere dal datore di lavoro a due anni dalla conoscenza dei fatti rilevanti. La decisione d’appello5 aveva dichiarato nullo il licenziamento, sulla base della considerazione secondo cui l’inerzia datoriale avrebbe dovuto appaiarsi ad una sorta di rinunzia all’esercizio del potere, con la conseguente estinzione del medesimo e l’applicazione del tutela reintegratoria “forte”. Tale presa di posizione va vagliata alla luce delle opinioni che si sono stratificate nel tempo sul problema (ed è questo del resto il metodo adottato anche della Cassazione nella recente decisione). Non sono poche le difficoltà che sorgono nel momento in cui ci si accinge a riflettere sulla questione.
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dalla Cassazione come “insussistenti”. V. Mazzotta, Fatti e misfatti nell’interpretazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in RIDL, 2016, II, 102 ss. Più in generale sugli usi ed abusi del metodo sistematico da parte della giurisprudenza di legittimità v.: Id., L’interpretazione nel diritto del lavoro: istruzioni per l’uso, in LD, 2014, nn. 3-4, 268 ss. V. App. Firenze, 2 luglio 2015, in Labor, 2016, 297 ss., con nota di Mantovani, La tardività della contestazione come vizio sostanziale del licenziamento e sua irriconducibilità al “nuovo” art. 18 st. lav.
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Il fatto è che il requisito dell’immediatezza nell’esercizio del potere disciplinare (anche rispetto alle cosiddetta sanzioni conservative) si muove di per sé nel vuoto istituzionale, non essendo rinvenibile alcuna esplicita previsione che ne imponga l’osservanza. La stessa disposizione-cardine che ha procedimentalizzato il potere disciplinare, l’art. 7 St. lav., tace sul requisito dell’immediatezza. Ed è inutile dire che si tratta di un silenzio abbastanza assordante. Di qui l’ampio margine di opinabilità che presentano le soluzioni fornite nel tempo dalla giurisprudenza, che ne è diventata la vera fonte istitutiva e regolativa. Tale ovvia osservazione giustifica ampiamente la necessità di attingere, per la soluzione del problema, alle radici della relazione giuridica di lavoro ed alle obbligazioni che ad essa fanno capo. Una seconda osservazione preliminare deve muovere dalla nuova luce che sulla questione ha gettato la complessa articolazione dell’apparato sanzionatorio nel nuovo art. 18 St. lav. In passato la questione dell’assenza del requisito di immediatezza si presentava come logicamente preliminare rispetto all’esame della sussistenza della giustificazione sostanziale del recesso. Si vuol dire cioè che, in quel contesto, una volta che il giudice avesse constatato il vizio di tardività della contestazione, avrebbe dovuto necessariamente annullare il licenziamento con le conseguenze radicali ben note. Nel nuovo sistema, invece, come giustamente ci dice anche la sentenza delle Sezioni Unite, il giudice deve anzitutto accertare se il fatto sia insussistente ovvero se esso rientri entro lo specchio di applicazione di una sanzione conservativa e solo successivamente e, nel caso in cui il vaglio precedente sia stato negativo, porsi il problema della eventuale mancanza di immediatezza. Questa impostazione consente alla Corte, nella pars destruens del discorso, di escludere l’applicazione sia del primo che del quarto comma dell’art. 18, disposizioni che, in buona sostanza, considera di stretta interpretazione essendo mirate a sanzionare, la prima, ipotesi tipizzate di nullità-inefficacia e, la seconda, la carenza «di elementi essenziali della giusta causa o del giustificato motivo». In sostanza si tratterebbe di vizi che riguardano il merito della giustificazione addotta dal datore e non la carenza di requisiti eccedenti rispetto ad essa. E si arriva così al cuore della questione riassumibile come segue: l’immediatezza della reazione sanzionatoria del datore di lavoro ha a che fare con l’esistenza e la fondatezza stessa del potere disciplinare o attiene piuttosto alla fase procedurale? Rispondere a tale quesito è rilevante per fondare correttamente i rapporti fra tempo ed esercizio del potere. Un primo dato rilevante, che si può trarre dalla giurisprudenza che se ne è occupata, è che l’immediatezza va intesa in senso relativo e tale relatività, sempre secondo la giurisprudenza pacifica, deve sì tener conto della complessità della struttura aziendale, ma è perfettamente compatibile con l’esistenza di ragioni che possono legittimamente far ritardare la contestazione6.
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V. ad es. il caso deciso da Cass., 12 gennaio 2016, n. 281.
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Il che significa che è ben possibile che il datore di lavoro sia venuto a conoscenza di un determinato comportamento del lavoratore e che, consapevolmente e sulla base di ragioni che hanno legittimo ingresso nel processo, abbia deciso di procrastinare la contestazione. Orbene, se è vero quanto risulta dalla giurisprudenza ricordata, è indiscutibile che sul piano logico ciò porti ad escludere che al potere disciplinare sia consustanziale il requisito dell’immediatezza. Il che detto in altre parole significa escludere che «l’immediatezza … [sia] costitutiva di tale potere»7. Scartata tale impostazione restano le ulteriori rationes che i giudici per solito invocano, e che si riducono sostanzialmente a due opzioni: assicurare una più completa difesa da parte del lavoratore, in ragione della vicinanza nel tempo rispetto ai fatti contestati, oppure tutelare l’affidamento che il lavoratore abbia fatto sul comportamento datoriale di astensione dall’esercizio del potere disciplinare, affidamento, in buona sostanza, riconducibile al rispetto delle regole di buona fede e correttezza contrattuale. Si tratta di premesse giustificative che, a mio avviso, restituiscono un’immagine parziale, se non addirittura falsata del potere disciplinare. Un primo ordine di critiche attiene alla funzione di garantire il diritto di difesa del lavoratore nell’ambito del procedimento. Si legge, a questo proposito in alcune decisioni di legittimità8 che il diritto di difesa «deve essere garantito nella sua effettività, soprattutto nel senso di una contestazione ad immediato ridosso dei fatti contestati, sì da poter consentire al lavoratore l’allestimento del materiale difensivo (documentazione, testimonianze, etc.) per contrastare nel modo più efficace il contenuto delle accuse rivoltegli dal datore di lavoro». Ma si tratta di una giustificazione palesemente fuori centro. È quasi inutile ricordare, in contrario, che l’esercizio del potere disciplinare resta pienamente legittimo anche quando il datore lo eserciti a distanza di anni dai fatti contestati, sol perché egli sia venuto a conoscenza di quei fatti molto tempo dopo la loro commissione. Ed allora se ciò che rileva non è il mero accadimento fenomenico, ma la conoscenza che il datore ne abbia avuto, è evidente che la difesa del lavoratore non gioca alcun ruolo nella dinamica del principio di immediatezza (o gioca un ruolo tutt’affatto secondario), potendo esistere situazioni nelle quali il datore legittimamente contesta al lavoratore fatti assai risalenti nel tempo. Come dire che – una volta che si ammetta che l’immediatezza, in senso relativo, va scrutinata avendo riguardo alla conoscenza che il datore abbia avuto dei fatti – si assume contestualmente che l’ordinamento ammette che l’esercizio del potere disciplinare faccia aggio sui diritti di difesa del lavoratore. Del resto è quanto puntualmente si verifica avendo riguardo al potere punitivo per eccellenza (il diritto penale), rispetto al quale sui diritti di difesa dell’imputato prevale l’esigenza di carattere pubblicistico di perseguire i reati e la posizione dell’imputato è valorizzata esclusivamente con riferimento all’istituto della prescrizione.
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Così De Angelis, L’immediatezza della contestazione disciplinare tra silenzio testuale, costruzione giurisprudenziale e qualche “formalismo senza forma” della Corte di cassazione, in FI, 2006, I, 2718. V. ad es. Cass., 9 settembre 2003, n. 13190.
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Più sensato è l’itinerario prescelto dalle sezioni unite, che come al solito, hanno operato una scelta, discutibile quanto si vuole, ma che ha, come spesso avviene in caso di conflitto fra opposti orientamenti, un carattere compromissorio. È questo – piaccia o non piaccia – il ruolo del supremo consesso, le cui decisioni non sempre risultano (o forse non possono risultare) tecnicamente ineccepibili. Le considerazioni che seguono vanno quindi apprezzate più che sul piano di una critica, svolta al lume del ragionamento analitico, piuttosto come una presa d’atto ed una razionalizzazione dell’orientamento, del quale – ed è questo il profilo che più mi sta a cuore – vanno necessariamente colte le necessarie implicazioni ulteriori. È certamente condivisibile anzitutto che la sentenza delle sezioni unite escluda la collocazione del vizio in questione fra quelli meramente procedurali, con la conseguente applicazione della tutela indennitaria debole (fra sei e dodici mensilità). Si tratta rispetto alla mancanza di immediatezza, come giustamente si fa rilevare, della valorizzazione di «esigenze più importanti del semplice rispetto delle regole pur essenziali, di natura procedimentale». E fin qui nulla quaestio. Meno condivisibile è il richiamo alla garanzia del diritto di difesa del lavoratore, che, come abbiamo visto prima, è logicamente ed astrattamente incompatibile con un concetto di tempestività connesso al momento della conoscenza che il datore abbia dell’illecito disciplinare e non a quello dell’effettivo verificarsi delle condotte. Resta quindi solo il secondo argomento messo in campo e cioè la necessità di sottrarre il lavoratore «al rischio di un arbitrario differimento dell’inizio del procedimento disciplinare» con lo scopo di «tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile». È evidente in questa parte della motivazione che l’alternativa affidamento/buona fede si risolve in una sorta di endiadi. In null’altro si identifica infatti il concetto di “affidamento” se non nella specifica connotazione dell’adempimento datoriale avendo riguardo all’osservanza dei canoni della correttezza e della buona fede. Al di là di questa precisazione terminologica, la circostanza che la sentenza (in linea con una parte della giurisprudenza di legittimità) riconduca al piano dell’adempimento la questione dell’immediatezza rende ragione del fatto che la vicenda va valutata all’interno del contesto negoziale. Il che consente di precisare meglio il non detto della pronuncia (e del filone giurisprudenziale cui essa si riferisce), deducibile in filigrana dal complesso dell’argomentazione: l’immediatezza nella reazione disciplinare ha a che fare con il comportamento negoziale di uno dei due contraenti (il datore di lavoro) cui, non a caso, è conferito dall’ordinamento un potere unilaterale apparentabile all’autodichia, con cui esso contraente si fa giudice (sia pure provvisorio e “domestico”) del comportamento altrui e lo valuta in chiave disciplinare, emettendo la relativa “sentenza di colpevolezza” (provvedimento disciplinare). Orbene, se ciò è vero, è altrettanto indiscutibile che un ruolo centrale nella verifica della legittimità dell’esercizio del potere venga giocato dal giudizio che lo stesso datore di lavoro dà della rilevanza disciplinare del comportamento del lavoratore. Ne deve logicamente derivare che la reazione ritardata – cioè non dotata di immediatezza – da parte del
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datore lasci presumere che il medesimo datore non abbia attribuito ad esso importanza dirimente ai fini dell’esercizio del potere punitivo. Non so se tale atteggiamento datoriale debba collocarsi entro l’ambito dei comportamenti indiretti o incidenti di volontà, in quanto tali implicanti una implicita rinuncia all’esercizio del potere disciplinare. Forse più convincente è ritenere – ed è qui che i due profili prima indicati si legano – che l’implicito giudizio datoriale di irrilevanza del comportamento agisca sul piano negoziale rinnovando i termini dell’intesa reciproca su nuove basi. È questo il piano caratteristico su cui agiscono i doveri di protezione che implicano proprio che il contatto fra le sfere di pertinenza delle due parti del rapporto non venga inquinato da condotte ingannevoli. Tale conclusione è rafforzata dalla considerazione alla cui stregua, nel nostro ordinamento, il potere di sciogliersi dal vincolo di lavoro è affidato ai contraenti e non al giudice, il quale, se richiesto, potrà solo controllarne ex post le forme di esercizio. Come si vede spostando il focus della discussione sui comportamenti negoziali del datore la prospettiva assunta dalla sentenza delle sezioni unite consente anzitutto di escludere la fondatezza dell’opinione della decisione di merito che invece valorizzava il paradigma della nullità. Così come la medesima consente, in positivo, di costruire una saldatura fra l’apparato sanzionatorio di cui al quinto comma dell’art. 18, considerato «espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale», e la tipica sanzione che accede alla violazione dei doveri di protezione, che è classicamente risarcitoria. Un risarcimento del quale – se si vuole – il legislatore ha prefigurato a priori una gamma valutativa che va da un minimo ad un massimo. La scelta quindi semplifica il compito del giudice e lo induce a valorizzare le circostanze del caso, fra cui spicca, in chiave di correttezza e buona fede, il “comportamento delle parti”, richiamato dal quinto comma dell’art. 18.
3. Le tecniche di valutazione. Ma se quanto ho detto fino a questo punto ha un qualche fondamento occorre trarne le necessarie e logiche conseguenze. In primo luogo se il ritardo nella contestazione fa solo presumere l’irrilevanza disciplinare del comportamento, il datore potrà essere abilitato a vincere tale presunzione con la prova contraria; ad es. allegando, come avverrà nella maggior parte dei casi, che di quel fatto abbia avuto conoscenza tardiva rispetto al suo verificarsi ovvero che una volta avuta la conoscenza tardiva del fatto abbia dovuto procedere ad un approfondimento allo scopo di ricollegare l’illecito proprio a quel lavoratore ovvero per accertarne in modo più specifico la dinamica. Inoltre, se il ragionamento che conduce alla declaratoria di mancanza di immediatezza della contestazione deve fondarsi sul meccanismo della presunzione, esso non può non soddisfare le esigenze fatte proprie dall’art. 2729 c.c., che, come è noto, pretende che esse siano “gravi, precise e concordanti”.
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Il che significa che non si può semplicemente utilizzare un parametro legato al mero decorso dei mesi (vanno bene cinque mesi, ma non sei, bene otto, ma non nove, etc.), ma il giudice è onerato di prendere in considerazione l’intero complesso delle allegazioni delle parti valutando l’immediatezza in una logica, tipicamente negoziale, di contemperamento degli interessi reciproci. Non è un caso che la giurisprudenza, una giurisprudenza a dir poco pretoria, abbia fornito negli anni una gamma di soluzioni assai diversificate ritenendo compatibili con l’immediatezza reazioni datoriali anche assai lontane dal momento della conoscenza dei fatti, proprio a partire dall’impiego di una vasta gamma di parametri di controllo (la complessità delle indagini, l’utilizzazione dello strumento della sospensione cautelare, etc.) 9. L’acquisita dimensione negoziale del requisito dell’immediatezza e la sua collocazione fra i doveri di protezione forniscono pertanto al giudice uno strumentario più ricco e variegato cui attingere per scrutinare il singolo caso.
4. Il controllo in Cassazione. Ma non è tutto. La collocazione del requisito dell’immediatezza disciplinare entro lo specchio della buona fede e correttezza comporta una ulteriore e rilevante ricaduta sul tema del controllo di legittimità della valutazione del giudice del merito, consentendo di collocare la relativa questione fra le questioni di diritto, in quanto tali sindacabili ex art. 360, n. 3 c.p.c. È ben noto che la giurisprudenza di legittimità – se pure spesso tradendo l’affermazione generale ed entrando nel merito delle scelte dei giudici – tende a considerare il problema come una quaestio facti, collocabile al più – fin quando è stato reso possibile dal vecchio testo della disposizione codicistica – entro la previsione di cui all’art. 360, n. 5 c.p.c. Alla luce della posizione assunta dalle sezioni unite della Cassazione, con la sentenza qui commentata, la prospettiva può essere (o dovrebbe essere) destinata a modificarsi. Sappiamo bene che intorno al controllo sulle clausole (o sulle norme) generali si gioca una partita assai delicata, i cui termini sono, da una parte, la necessità di non affidare la soluzione alla mera discrezionalità del giudice di merito e, dall’altra, fornire a quest’ultimo, per non far scivolare il giudizio verso l’anarchia regolativa, dei punti di riferimento che consentano di orientare le scelte concrete. È sufficiente ricordare il percorso compiuto dalla giurisprudenza in relazione al sindacato di legittimità sulla giusta causa di recesso10.
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V. fra le tante: Cass., 25 maggio 2016, n. 10839, in NGL, 2016, 558; Cass., 17 dicembre 2008, n. 29480, in RGL, 2009, II, 356; Cass., 13 giugno 2006, n. 13621, in LG, 2007, 384; Cass., 16 settembre 2004, n. 18722, in OGL, 2004, I, 857; Cass., 20 luglio 2004, n. 13482, in NGL, 2005, 122. 10 Cfr. per tutti: Ballestrero, Tra confusione e sospetti. Clausole generali e discrezionalità del giudice del lavoro, in LD, 2014, nn- 2-3, 389 ss.
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In relazione a quest’ultima, infatti, vi è stata una sostanziale evoluzione dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che è passata da un controllo fondato sulla verifica della sola congruenza della motivazione ad uno basato sulla violazione di regole legali. Il punto di svolta della discussione è costituito dalle sentenze del n. 10514 del 22 ottobre 1998 e 434 del 18 gennaio 1999, n. 43411. Lo stato dell’arte invalso fino a quel punto collocava la valutazione della sussistenza della giusta causa tra le quaestiones facti. Più che di tale dato però può essere utile coglierne un altro, di maggiore consistenza per la nostra riflessione relativa all’immediatezza, che è questo: secondo la giurisprudenza di legittimità anteriore alla svolta «la valutazione del requisito dell’immediatezza del recesso, così come quella del requisito della giusta causa, costitui[vano] materia del giudizio di merito, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente e correttamente motivato»12. È evidente che della massima non ci interessa tanto la specifica questione risolta quanto il brano richiamato. In esso la Corte stabiliva una significativa simmetria – considerando ambedue quaestiones facti – fra scrutinio della sussistenza della giusta causa e verifica dell’esistenza del requisito della immediatezza. Da qui dobbiamo allora partire allo scopo di dimostrare che la naturale e condivisibile evoluzione che ha condotto a considerare la verifica della sussistenza della giusta causa una questione di diritto dovrebbe condurre alla medesima conseguenza con riferimento al requisito della immediatezza della contestazione disciplinare. Come abbiamo detto alla stregua di quanto acquisito con la sentenza n. 4343/1999 «è suscettibile di sindacato da parte della corte di cassazione, sotto il profilo della falsa applicazione di legge di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., il giudizio applicativo di norme c.d. elastiche posto in essere da parte del giudice di merito (nella specie, diretto a stabilire se un determinato comportamento del lavoratore fosse riconducibile al licenziamento per giusta causa senza preavviso o a quello per giustificato motivo soggettivo)». Il ragionamento della Corte si snoda secondo i seguenti passaggi: a) quando esprime il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica, come quella che integra la “giustezza” della causa di recesso «il giudice di merito compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa … in quanto dà concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico sociale, non diversamente da quando un determinato comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorché la legge richieda tale elemento»; b) il «giudizio valutativo – e quindi di integrazione giuridica – del giudice di merito deve … conformarsi oltre che ai principî dell’ordinamento, individuati dal giudice di legittimità, anche ad una serie di standards valutativi esistenti nella realtà sociale che assieme
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Vedile in FI, 1999, I, 1892, con nota di Fabiani, Sindacato della Corte di Cassazione sulle norme elastiche e giusta causa di licenziamento. Resta sullo sfondo, ovviamente, la questione circa la riconducibilità della giusta causa al concetto di “clausola generale”. Secondo Luigi Mengoni (Spunti per una teoria delle clausole generali, in RCDP, 1986, 5) infatti si tratterebbe piuttosto di una “norma generale” 12 Il parallelismo fra controllo sulle clausole generali e sull’immediatezza è fatto proprio da Cass., 7 giugno 1984, n. 3449, in RIDL, 1985, II, 35, da cui è tratta la citazione nel testo.
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Oronzo Mazzotta
ai predetti principî compongono il diritto vivente, ed in materia di rapporti di lavoro la c.d. civiltà del lavoro»; c) «la valutazione di conformità – agli standards di tollerabilità dei comportamenti lesivi posti in essere dal lavoratore – dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa che essi hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell’ambito della funzione nomofilattica che l’ordinamento ad esso affida». Volendo sintetizzare al massimo, i passaggi argomentativi comprendono: a) l’accertamento del fatto; b) la collocazione entro lo schema di cui all’art. 2119 c.c.; c) la qualificazione in chiave di “giustezza” della causa alla stregua di standards valutativi. Orbene, ciò posto, non è difficile dimostrare che si tratta dei medesimi passaggi che il giudice deve compiere per verificare il requisito dell’immediatezza, anch’esso requisito dotato di elasticità, al pari delle nozioni astratte di giusta causa, giusto motivo, buona fede, etc. (ed a prescindere da una qualificazione rigorosa come clausole generali, norme elastiche, norme aperte, norme generali, etc.). Ciò che conta è che il principio implica un rinvio ad un sistema di valori esterno alla norma: nel nostro caso quegli standards che la giurisprudenza di legittimità ha più volte fissato e la cui violazione implica un vizio riconducibile alla violazione di norme di diritto. In sostanza se è vero che non si può prescindere da un accertamento del fatto (in questo caso la scansione temporale tra la conoscenza dei fatti da parte del datore di lavoro e la successiva comunicazione al lavoratore che quei fatti potrebbero avere una rilevanza disciplinare) è altrettanto indiscutibile che la qualificazione di tali eventi non può non essere una questione di diritto valutabile e sindacabile in cassazione. In altre parole, la decisione del caso richiede inevitabilmente una valutazione in ordine alla sussistenza del requisito dell’immediatezza della reazione datoriale, valutazione che, a sua volta, implica un controllo di legalità che assume a parametri i doveri di comportamento, implicati dal contratto di lavoro. Le mie brevi riflessioni si fermano qui: il tempo dirà se i giudici di Cassazione vorranno cogliere l’opportunità dischiusa dalla decisione delle sezioni unite o se (magari per evitare di aggravare un carico lavorativo già soffocante) preferiranno lasciarla cadere.
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Luigi de Angelis
Ripensando alla immediatezza della contestazione Sommario :
1. La nuova rilevanza del tema della tardività della contestazione dell’addebito. – 2. Le origini procedimentali della regola della tempestività della contestazione disciplinare. – 3. Passaggi argomentativi della tesi della natura sostanziale della immediatezza. – 4. Inidoneità di tali argomenti. – 5. Immediatezza della contestazione e comportamenti reiterati e comportamenti permanenti. – 6. Conseguenze giuridiche del ritardo della contestazione. – 7. Violazione delle regole contrattuali collettive in tema. – 8. Intempestività della contestazione, garanzia di difesa ugualmente realizzata e altro.
Sinossi. L’autore riflette sul principio di immediatezza della contestazione in caso di licenziamento disciplinare alla luce delle riforme del 2012 e 2015, giungendo alla conclusione che tale principio ha natura procedimentale e non sostanziale, con le relative conseguenze sulla disciplina applicabile. Sostiene però che frequentemente l’immediatezza realizza anche le fattispecie di cui all’art. 2119 c.c. e, in qualche modo, all’art. 3 l. n. 604/1966, in tal caso, se non osservata, comportando l’applicazione delle relative discipline sostanziali. Abstract. The paper investigates the principle of immediacy of the arraignment in the event of disciplinary dismissal in view of the italian reforms of 2012 and 2015, coming to the conclusion of its procedimental and not substantive kind, with conseguent effects on applicable law. However he considers that the immediacy frequently also makes the situations stated under article 2119 of the civil code and some how article 3 of legge 604 of 1966, in such cases, if not respected, involving the regarding substantive rules’s application. Parole chiave: Licenziamento – Contestazione – Immediatezza – Giusta causa – Giustificato motivo – Sanzioni
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Nel rimpianto infinito di Clemente Ferrario, partigiano e avvocato dei lavoratori, che spesso ricordava, con Jhering, che la forma è sorella gemella della libertà ma che dal formalismo rifuggiva. Il presente scritto sviluppa, con il corredo di note, la traccia di relazione al seminario sul tema Licenziamenti disciplinari e decorso del tempo (Università di Pisa, Dipartimento di Giurisprudenza, 7 marzo 2018).
Luigi de Angelis
1. La nuova rilevanza del tema della tardività della
contestazione dell’addebito.
La riforma del 2012 (l. n. 92/2012), su cui è intervenuta la recente sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione 27 dicembre 2017, n. 309851, e la riforma del 2015 (d.lgs. n. 23/2015) costringono a rimeditare sui tempi dell’esercizio del potere disciplinare in materia di licenziamento2, e, per chi le consideri insoddisfacenti negli approdi e nel percorso argomentativo, ne hanno il merito. Infatti, introducendo3, ferma la disciplina sulla causale, una normativa differenziata delle conseguenze del licenziamento illegittimo – adopero questo termine improprio e generico per intendere il licenziamento comunque non conforme alle previsioni di legge – rendono rilevante ciò che prima non lo era o meglio lo era in parte, come si vedrà alla fine di queste mie considerazioni, e cioè la distinzione tra le varie ipotesi – insisto con il termine – di illegittimità. Prima, dicevo, non lo era o lo era in parte, dal momento che la giurisprudenza, una volta chiusa4 con il riconoscimento dell’applicabilità dei primi tre commi dell’art. 7 l. 300/1970 al licenziamento disciplinare a seguito della sentenza n. 204 del 1982 della Corte costituzionale5 la querelle sviluppatasi nei primi anni di vita dello Statuto dei lavoratori6, ha assimilato sul piano delle conseguenze, con qualche, pur ragionevole7 forzatura8, il licenziamento formalmente viziato a quello privo di giusta causa e di giustificato motivo, e ciò anche, con maggiore sempre ragionevole forzatura, riguardo alla tutela obbligatoria e nella ristretta area del licenziamento ad nutum9. Lo ha fatto, questa volta con qualche spregiudicatezza argomentativa10, perfino
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Pubblicata in GI, 2018, 409, con nota di Pisani, e in FI, 2018, I, 504, con nota di Perrino. Cass., ord. 21 aprile 2017, n. 10159, in MGL, 2017, 489, con nota di Pisani e in GI, 2017, 1910, con nota di Tosi, Puccetti, aveva rimesso la relativa causa al primo presidente per l’assegnazione alle sezioni unite ravvisandovi «questione di massima di particolare importanza» ex art. 374, comma 2, c.p.c. 2 Da ult. cfr. De Mozzi, Le conseguenze sanzionatorie della violazione del principio di immediatezza nel licenziamento disciplinare, in DRI, 2017, 1108 ss. 3 Agli artt. 42 e, rispettivamente, 3 e 4. 4 A partire da Cass., sez. un., 1 giugno 1987, n. 4827, in RGL, 1987, II, 219, con nota di Mazziotti, la giurisprudenza si è consolidata nel ritenere che i suddetti commi dell’art. 7 si applicano al licenziamento ontologicamente disciplinare, vale a dire anche se non previsto tra le sanzioni disciplinari dal contratto collettivo. In proposito cfr. Bollani, Il licenziamento disciplinare, in Mainardi (a cura di), Il potere disciplinare del datore di lavoro, i, Utet, 2012, 125 ss. 5 Tra le varie riviste in RGL, 1982, II, 505. 6 Cfr. la ricostruzione di Niccolai, I licenziamenti disciplinari, in Mazzotta (a cura di), I licenziamenti Commentario, II ed., Giuffrè, 1999, 118 ss., ed ivi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali anche alle note 1-4. 7 Come si legge in Cass., sez. un., 18 maggio 1994, n. 4844, in FI, 1994, I, 2076, «alla inosservanza delle garanzie procedimentali, previste dall’art. 7 l. n. 300 del 1970, conseguono gli stessi effetti stabiliti per l’ipotesi di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, dal momento che sarebbe illogico ricollegare a quella inosservanza conseguenze diverse e più gravi di quelle derivanti dall’accertata insussistenza dell’illecito disciplinare. Altrimenti, si verificherebbe che un licenziamento inidoneo a conseguire l’effetto risolutivo, perché viziato nella forma, comporterebbe una tutela reale (e pertanto un obbligo di retribuzione sino alla reintegrazione), laddove la accertata inesistenza della giusta causa, non privando il licenziamento dell’effetto risolutorio, sarebbe seguita soltanto dall’obbligo del pagamento del preavviso». 8 Mazzotta, La terra è piatta?» «forse...» (a proposito di licenziamento disciplinare illegittimo e sanzioni conseguenti), in FI, 1994, I, 2706; Galardi, Il licenziamento inefficace, in Cinelli, Ferraro, Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Giappichelli, 2013, 307; Bollani, op. cit., 129 ss. 9 Ancora Cass., sez. un., 18 maggio 1994, n. 4844 cit. Sulle precedenti posizioni giurisprudenziali cfr. Mainardi, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, in Comm Sch, 2002, 192 ss., anche riferimenti alle note 70-74. 10 Mi permetto di rinviare al riguardo a de Angelis, Il licenziamento disciplinare del dirigente. Essere dell’ontologia o non essere del potere
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Ripensando alla immediatezza della contestazione
per il licenziamento del dirigente, come noto regolato, per il profilo sostanziale della giustificazione, da disciplina contrattuale11.
2. Le origini procedimentali della regola della tempestività della contestazione disciplinare.
Ebbene, va rimarcato come prima dello Statuto dei lavoratori la regola di contestazione dell’addebito non esistesse, e di conseguenza la tematica dell’immediatezza o della tempestività di essa – altro è il problema dell’immediatezza o tempestività del recesso – era in mente dei. Tale regola venne inserita nell’ordinamento nel 1970 come prima regola di un procedimento pre-giudiziale – si parlò di processualizzazione del potere disciplinare12 – avente incontestabilmente funzione di garanzia difensiva. Si intendeva, cioè, assicurare al lavoratore di potersi difendere con pienezza prima che il datore di lavoro potesse adottare un provvedimento per un presunto fatto disciplinarmente rilevante: un contrappeso procedimentale all’esercizio di un potere privato. Ciò, ripeto, è indiscutibile, è riconosciuto da Corte cost. n. 204/1982 cit. che insistette sulla funzione assicurativa del contraddittorio della contestazione e del procedimento, e, da ultimo, è riconosciuto anche dalle recente sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione quando afferma che «è certo che l’obbligo della contestazione tempestiva dell’addebito rientra nel procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970». E questo a prescindere – si badi bene – dalla natura espulsiva della sanzione da infliggere. Anzi, emerge dal precedente cenno a Corte cost. 204/1982, era in forse, in dottrina e in giurisprudenza, che l’art. 7 cit. comprendesse i licenziamenti: un filone dottrinale che si rifaceva ad uno dei fondatori del diritto del lavoro post-costituzionale13 escludeva in radice che il recesso in generale e il licenziamento in particolare appartenessero alle pene private, come invece, si riteneva tradizionalmente, e si ritiene, in genere per le sanzioni disciplinari14. Esistente, allora, la necessità della contestazione in una logica di garanzia di difesa, seguiva e segue razionalmente e ragionevolmente che essa, pur non detto nell’enunciato testuale, dovesse e debba essere specifica, altrimenti non essendo in grado di assolvere alla sua funzione per non conoscenza puntuale dei fatti da cui appunto difendersi15. E nella medesima logica altrettanto razionale e ragionevole era ed è ritenere che la contestazione
disciplinare?, in RGL, 1997, I, 25 ss. Cass., 3 aprile 2003, n. 5213, in MGL, 2003, 537, con nota di Mannacio. 12 Cfr. Montuschi, Potere disciplinare e rapporto di lavoro, Giuffrè, 1973, 186. 13 Cfr. F. Santoro Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, XXIII ed., Jovene, 1970, 177. Per ulteriori riferimenti cfr. Montuschi, in Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, II ed., sub art. 7, Zanichelli-Il Foro italiano, 1979, 102, nota 7. Di pena privata dice invece espressamente la relazione Brodolini al disegno di legge n. 738 da cui scaturì lo Statuto dei lavoratori: la si può leggere in Stolfi, Da una parte sola Storia politica dello Statuto dei Lavoratori, Longanesi & c., 1976, qui 170. 14 Cfr., per tutti, Persiani, Il potere disciplinare, in M. Martone (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, t. I, Contratto e rapporto di lavoro, in Persiani, F. Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Cedam, 2012, 800, anche riferimenti alle note 107 e 108. 15 Cfr. tra i recenti Del Conte, Il potere disciplinare, in M. Martone (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, op. cit., 862 ss. 11
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Luigi de Angelis
dovesse e debba essere fatta tempestivamente al fine di assicurare all’incolpato il ricordo dell’accaduto ed elementi e prove a discapito, e questo, lo si ribadisce, con riguardo sia alle sanzioni conservative che a quelle espulsive. Appare allora forzata sul piano storico l’operazione interpretativa, nettamente prevalente in giurisprudenza e dottrina16, che è giunta a riconoscere alla tempestività della contestazione natura anche sostanziale individuando in essa un elemento costitutivo del recesso.
3. Passaggi argomentativi della tesi della natura
sostanziale della immediatezza.
Questi sono i passaggi argomentativi utilizzati, a volte in combinazione totale o parziale, tra di loro, altre volte isolatamente, a volte in modo affastellato, a volte ad colorandum, per sostenere tale tesi: a).le regole di correttezza e buona fede nel rapporto di lavoro implicano la tutela del legittimo affidamento del prestatore di lavoro, in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, con la conseguenza che, ove la contestazione sia tardiva, si realizza una preclusione all’esercizio del relativo potere e l’invalidità della sanzione irrogata17. b).l’intempestività della contestazione esprime la abdicazione del datore di lavoro all’esercizio del potere disciplinare18; c).l’inerzia nel tempo fa comprendere l’irrilevanza disciplinare del fatto o comunque la considerazione come tale da parte del datore di lavoro19, e lo stesso è per la tolleranza del datore di lavoro, pure distinta dall’inerzia20. d).in particolare, quanto al licenziamento, l’inerzia è incompatibile con la nozione di giusta causa la quale implica l’impossibilità sia pure provvisoria della continuazione del rapporto di lavoro, e – si è pure sostenuto da qualcuno – è incompatibile anche con la
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Cfr., per stare alla sola giurisprudenza di legittimità più recente, Cass., 1 marzo 2018, n. 4881, ined., a quel che consta; Cass., 13 febbraio 2015, n. 2902, in MFI, 2015, 111; Cass., 10 settembre 2013, n. 20719, in MFI, 2013, 729; in dottrina, Mazzotta, Fatti e misfatti nell’interpretazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in RIDL, 2016, II, 102 ss.; Albi, Il licenziamento disciplinare illegittimo per tardiva contestazione degli addebiti tra vecchio e nuovo diritto, in DLM, 2016, 410 ss.; Del Punta, Il primo intervento della cassazione sul nuovo (eppur già vecchio) art. 18, in RIDL, 2015, II, 38; Martelloni, Nuovo art. 18: la cassazione getta un ponte tra riforma Fornero e Jobs act, ivi, II, 43; F. Marinelli, Il licenziamento individuale affetto da vizi formali o procedurali, in M.T. Carinci ,Tursi (a cura di), Jobs Act Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, 166 ss.; Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e giurisprudenza, (parte I), in RGL, 2014, I, 386 ss. 17 Ad es., Cass., sez. un., 24 ottobre 2017, n. 30985, cit. 18 App. 6 luglio 2015, in Labor, 2016, 297, con nota di Mantovani, che ha occasionato l’assegnazione della causa alle sezioni unite. 19 Cass., sez. un., 24 ottobre 2017, n. 30985, cit.; Mazzotta, op. ult. cit., 108. 20 Cfr. Pisani, Le tutele esclusivamente risarcitorie, in MGL, 2017, 500 ss.; Id., Sul principio di tempestività del licenziamento disciplinare, in MGL, 2008, 149 ss.; da ult. Id., Tardività del licenziamento disciplinare, op. cit., 413.
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Ripensando alla immediatezza della contestazione
nozione di giustificato motivo soggettivo nel senso che non consente la prosecuzione al di là del termine di preavviso21; e).la regola d’immediatezza soddisfa l’esigenza di impedire che l’indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori22, rappresentando per il dipendente una sorta di spada di Damocle che condiziona il libero svolgimento della prestazione di lavoro, ovvero può fondare il sospetto dell’esistenza di un intento ritorsivo, e quindi illecito, o discriminatorio23.
4. Inidoneità di tali argomenti. Sono tutti argomenti a mio avviso inidonei a dimostrare che l’immediatezza della contestazione faccia parte della fattispecie costitutiva dell’esercizio del potere di licenziamento e che pertanto abbia natura sostanziale. Quanto al punto sub a), le clausole generali di correttezza e buona fede, la cui applicazione pure si è nel tempo notevolmente ampliata ed anche per il diritto del lavoro (che presenta però recenti segnali normativi contrari: v. art. 30 l. n. 183/201024), vanno ricondotte, per il prevalente indirizzo, ai c.d. obblighi secondari di protezione che non pare possano influire sulla fattispecie, la quale peraltro qui è costruita, quanto alla giusta causa e al giustificato motivo (v. infra), su una norma generale nel senso mengoniano del termine e non su di una clausola generale25. La violazione di tali obblighi, appunto per l’indirizzo prevalente, rileva solo sul piano risarcitorio26. In ogni caso, l’obbligatorietà e non facoltatività dell’esercizio del potere disciplinare in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni esclude il ricorso al legittimo affidamento per i relativi rapporti27. Può essere, e si passa all’esame del punto b), che vi sia rinunzia datoriale di natura negoziale all’esercizio del potere disciplinare, ma questo se all’inerzia, che di per sé può dipendere dai fattori più svariati ed estranei alla rinunzia, si accompagnano altre circo-
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Cfr., da ult., De Mozzi, op. cit., 1124 ss., ed ivi riferimenti. Cfr. Cass., sez. un., 24 ottobre 2017, n. 30985, cit. 23 Cfr. Sordi, Tutela applicabile in caso di licenziamento disciplinare viziato per la tardività della contestazione dell’addebito disciplinare, www.giustiziaCivile.com, 2017, n. 5, secondo cui solo laddove le circostanze escludano la sussistenza di motivi illeciti stante la intempestività, debba applicarsi l’art. 18, comma 6 altrimenti dovendo applicarsi il comma 5 dell’art. 18; cenno alla possibilità che in concreto vi sia intento ritorsivo e/o discriminatorio, in tal caso dovendosi applicare il comma 1 dell’art. 18, in Mazzotta, I molti nodi irrisolti nel nuovo art. 18 st. lav., in di Cinelli, Ferraro, Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Giappichelli, 2013, 251. 24 Cfr. Campanella, Clausole generali e obblighi del prestatore di lavoro, in DLRI, 2015, 97 ss. 25 Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in RCDP, 1986, 9 ss. 26 Cfr., da ult., De Mozzi, op. cit., 1119 ss., ed ivi, alle note 51, 53, 54, riferimenti, anche a posizioni differenti. 27 Cfr., infatti, Cass., 4 aprile 2017, n. 8722, in FI, 2017, I, 1520. Per alcune peculiarità del tema con riguardo ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni cfr., da ult., De Mozzi, op. cit., 1127 ss., ed ivi, in nota, riferimenti bibliografici e giurisprudenziali. Altresì, da ult., cfr. Caruso, Il licenziamento disciplinare: la prospettiva rimediale tra bilanciamento della Corte costituzionale e diritto vivente giurisprudenziale, in corso di pubblicazione in DRI, 2018 (per la cortesia dell’autore, che ringrazio, letto prima della pubblicazione quando il presente lavoro era già in bozze), che, con riguardo agli approdi raggiunti da Cass., sez. un., 24 ottobre 2017, n. 30985, cit., pone dubbio di costituzionalità, sotto il profilo della ragionevolezza, della differenza delle conseguenze tra i due regimi. 22
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Luigi de Angelis
stanze28: il semplice silenzio, ci è stato insegnato, non significa nulla tranne che nei casi in cui sia la legge a dargli rilievo. Ma in presenza appunto di altre circostanze di direzione univoca non ha utilità autonoma alcuna il ricorso alla categoria dell’immediatezza della contestazione. Sotto questo profilo è il caso di richiamare la giurisprudenza consolidata in materia di cessazione del rapporto di lavoro a tempo determinato per mutuo consenso e per la quale è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo29. Neutro o tutt’ al più con mero valore presuntivo dell’irrilevanza disciplinare del fatto è l’indugio datoriale, che tra le tante ragioni che possono determinarlo vi è quella dell’approfondimento istruttorio o anche del tatticismo per così dire sindacale il quale, se mai, può avere valore sul piano della correttezza e buona fede, come su tale piano può rilevare l’argomento sub e): vale, pertanto, quanto detto in precedenza. Anche circa il punto c), pur concettualmente diverso da quello precedente non rilevando sul piano negoziale ma avendo connotazioni più marcatamente oggettive, valgono però considerazioni analoghe a quelle or ora svolte. Ed arriviamo al profilo sub d), estraneo alle sanzioni conservative (e, si è visto, la disciplina è stata pensata e dettata per tutte le sanzioni). Qui la contestazione non immediata dell’addebito può contraddire l’improseguibilità sia pure provvisoria del rapporto immanente alla nozione di giusta causa30. Sennonché, premesso che questo innanzitutto presuppone che il comportamento del lavoratore sia stato conosciuto e con pienezza (vale a dire, dopo le verifiche del caso) dal datore di lavoro, la contraddizione presuppone che l’immediatezza, o se si vuole, la tempestività propria dell’aspetto procedimentale e quella immanente alla nozione di giusta causa abbiano a coincidere, come può non essere, la prima essendo infatti finalizzata all’esercizio del diritto di difesa, l’altra, si è visto, alla improseguibilità sia pure provvisoria del rapporto. Il vero è che per questa seconda è il tempo trascorso dalla piena cognizione del fatto a rilevare di per sé a prescindere dalla introduzione nell’ordinamento della regola di contestazione. Vale a dire, già prima dell’art. 7 dello Statuto è il tempo trascorso, ovviamente tra conoscenza ponderata del fatto e questa volta recesso – che, lo si ripete, può essere valutato diversamente da quello che rileva ai fini della tempestività della contestazione – a far ritenere improseguibile il rapporto anche in via provvisoria. Se si vuole, è una considerazione di tal tipo ad essere sottostante dell’indirizzo che, sia pure utilizzando concetti
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Nello stesso senso De Mozzi, op. cit., 1113 ss.; Tursi, Il licenziamento individuale ingiustificato irrogato per motivi soggettivi, in M.T. Carinci,Tursi (a cura di), Jobs Act Il contratto a tutele crescenti, 90, scrive che la tardività della irrogazione della sanzione costituisce indice della rinuncia del datore di lavoro ad esercitare il potere disciplinare. 29 Cfr., tre le tante, di recente, Cass., 1 luglio 2015, n. 13535, in MFI, 2015, 410, che ha annullato la sentenza di merito che aveva ritenuto sufficiente a configurare la cessazione per mutuo consenso la mancata attuazione del rapporto di lavoro nientemeno per un periodo di oltre quattro anni. 30 Tra i recenti Del Punta, op. cit., 38, che pertanto sostiene la tesi della tutela indennitaria di cui al comma 5 dell’art. 18. Diversamente Tosi, Puccetti, La dissoluzione di una riforma nella tardività della contestazione disciplinare, in GI, 2017, 1915.
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Ripensando alla immediatezza della contestazione
imprecisi, distingue tra contestazione e recesso, la cui intempestività della prima individua come vizio procedimentale e della seconda come vizio sostanziale31. Che possa non esservi incompatibilità logica tra contestazione tardiva e proseguibilità anche provvisoria del rapporto, e, quindi, giusta causa di recesso32 appare confermato con maggiore evidenza nel caso in cui via stata sospensione cautelativa del rapporto precedente alla contestazione dell’addebito, ad esempio in attesa degli esiti di procedimento penale, come è consentito33.
5. Immediatezza della contestazione e comportamenti
reiterati e comportamenti permanenti.
Tornando alla logica procedimentale, che è quella a mio avviso da seguire, sono dell’avviso che il tempo trascorso relativamente a singoli episodi disciplinarmente sanzionabili con provvedimenti conservativi e reiterati in tempi che ne fanno ritenere l’abitualità34, può pregiudicare il diritto di difesa su di essi, e che la loro tempestiva contestazione, seguita eventualmente da sanzione appunto conservativa, può costituire un monito educativo per i comportamenti futuri così evitandoli. Se il monito non ha però successo ben potrà farsi valere, se ricorra, l’abitualità della condotta a fini espulsivi. Quanto ad un comportamento disciplinarmente rilevante prolungato nel tempo o permanente – si pensi ad un’assenza ingiustificata che superi il termine previsto dalla contrattazione collettiva per l’intimazione del licenziamento – ritengo che il diritto di difesa vada esercitato dal momento della cessazione del comportamento stesso, dal quale, quindi, andrà valutata la tempestività della contestazione35. Diverso è per comportamenti violativi degli obblighi del lavoratore ma di così scarso rilievo da non legittimare neppure la minima sanzione conservativa. Si consideri, ad esempio, il ritardo reiterato di qualche minuto nell’inizio della prestazione. In questo caso il ragionevole contemperamento di tale diritto con il potere organizzativo del datore di lavoro facente capo all’art. 41 Cost. induce a ritenere legittima, laddove ciò implichi abitualità, la
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Cfr. Boscati, Il licenziamento disciplinare nel contratto a tutele crescenti, in DRI, 2015, 1057; Tursi, Il licenziamento individuale ingiustificato, cit., 89 ss., erroneamente da me indicato, in questo stesso lavoro pubblicato in WP D’ Antona, n. 362/2108, tra gli autori che sostengono la tesi sostanzialistica dell’immediatezza della contestazione. 32 Cfr. De Mozzi, op. cit., 1123, 1135; spunto precedente in Pisani, “Tardività-ingiustificatezza” e “tardività-vizio procedimentale” del licenziamento e relative sanzioni, in MGL, 2014, 293. 33 Cfr., tra le più recenti, Cass., 20 giugno 2014, n. 14103, in LG, 2015, 69, con nota di F.M. Gallo, Tempestività ed immutabilità della contestazione disciplinare in presenza di procedimento penale; Cass., 19 giugno 2014, n. 13955, in NGL, 2015, 170; per una posizione più articolata cfr. Pisani, Sul principio di tempestività, cit., 154. 34 In Cass., 13 dicembre 2010, n. 25136, in RIDL, 2012, 79, con nota di Lazzeroni, si legge più genericamente di «serie di fatti che, convergendo a comporre un’unica condotta, esigono una valutazione unitaria», e la annotatrice (ibid., 81) ritiene di puntualizzare distinguendo tra «condotte singolarmente irregolari preordinate ad una specifica fattispecie illecita, dalla valenza più ampia ed unitaria rispetto alle condotte singolarmente poste in essere», soggette al cumulo ai fini della valutazione d’immediatezza, e «condotte irregolari ma finalisticamente scomposite, per le quali dunque la tempestività della contestazione di addebito dovrà essere misurata in relazione ad ogni singola condotta posta in essere». 35 Cfr., con qualche distinguo, De Mozzi, op. cit., 1132 ss; contra, in un’ipotesi di abnormità del prolungamento, cfr. Cass., 31 gennaio 2017, n. 2513, in MGL, 2017, 489, con nota di Pisani.
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contestazione complessiva. Si risolvono così le critiche di Pera36, ricche di buon senso, ad una decisione di cassazione che ha ritenuto il contrario; critiche di recente ricordate da chi ci ha parlato di un giurista antropologo37. Senza il ricorso al ragionevole contemperamento di cui si è detto è del resto difficilmente spiegabile il principio consolidato per il quale l’immediatezza va intesa in senso relativo, essendo compatibile, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, con un intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti contestati, rilevando altresì l’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non l’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi38: anche in una situazione siffatta il decorso del tempo potrebbe pregiudicare o indebolire il diritto di difesa.
6. Conseguenze giuridiche del ritardo della contestazione. Quanto detto non fa condividere le tesi, accolta da Cass., sez. un., n. 30985/2017 cit., che riconosce la tutela indennitaria forte fondandola sulla natura sostanziale tout court della intempestività della contestazione39, e conduce invece alla conclusione che la contestazione intempestiva quale violazione dell’art. 7 comporti l’applicazione della c.d. tutela indennitaria attenuata (art. 18, comma 6, l. n. 300/1970, come modificato dalla l. 92/2012 o art. 8 l. n. 604/1966 per i dipendenti dalle piccole aziende o art. 4 e 9 d.lgs. n. 23/2015 per il lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti)40, salvo che sia stato domandato
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Pera, Immediatezza della contestazione al lavoratore di un comportamento che costituisce infrazione disciplinare solo se si protrae nel tempo, in GC, 1983, 403 ss. 37 Cfr. Mazzotta, Il licenziamento disciplinare alla prova di un giurista antropologo, in LD, 2017, 664 ss., ed ivi riferimento. 38 Cfr., tra le tante, di recente, Cass., 25 maggio 2016, n. 10839, in NGL, 2016, 558; per ulteriori riferimenti e rilievi critici cfr., tra gli altri, Pantano, La contestazione degli addebiti, in Mainardi (a cura di), Il potere disciplinare del datore di lavoro, op. cit., 264 ss. 39 Cfr., ad es., Del Punta, op. cit., 38; Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel jobs act, in ADL, 2015, 310; Pisani, Tardivitàingiustificatezza, op. cit., 289; Fontana, Problemi applicativi dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori in materia di licenziamenti disciplinari, in RIDL, 2014, I, 273; da ult., Pisani, Tardività del licenziamento disciplinare: le Sezioni unite escludono la reintegrazione, in GI, 2018, 413. 40 Conf., ma senza la salvezza di cui al testo, Cass., 26 agosto 2016, n. 17371, in MGL, 2017, 489, con nota di Pisani; altresì, in via di obiter dictum, criticato da Albi, Il licenziamento disciplinare illegittimo, op. cit., 411, Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, in FI, 2014, I, 3418, con nota di De Luca, secondo cui il comma 5 è invece applicabile in caso di tardività del recesso; in dottrina Tosi, Puccetti, op. cit., 1915. Lascia aperta la questione dell’applicabilità del comma 5 o 6, Cass., 9 luglio 2015, n. 14324, in MGL, 2017, 490, con nota di Pisani, Le tutele esclusivamente risarcitorie, op. cit.; dubitativamente, in alternativa con la tesi dell’applicazione del comma 4, Albi, op. ult. cit., 412 ss. Per dubbi di costituzionalità circa la tenuità della sanzione indennitaria attenuata cfr. Vallebona, Licenziamento ingiustificato e indennità crescente: questione di costituzionalità, in MGL, 2017, 583, con riguardo ai contratti a tutele crescenti; Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in RIDL, 2012, I, 544; F. Carinci, Complimenti, dottor Frankenstein: il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, in LG, 2012, 529; contra: Pisani, “Tardivitàingiustificatezza”, op. cit., 294 ss.; Ichino, La riforma dei licenziamenti e i diritti fondamentali dei lavoratori, in Nogler, Corazza (a cura di), Risistemare il diritto del lavoro Liber amicorum Marcello Pedrazzoli, Franco Angeli, 2012, 792 ss. Con riguardo ai profili di costituzionalità della tutela indennitaria del licenziamento ingiustificato cfr., da ult. e per tutti, i saggi, occasionati dall’ordinanza 26 luglio 2017 del Tribunale di Roma (in MGL, 2017, 575, con la citata nota di Vallebona e anche in GI, 2017, con nota di Tosi, Lunardon), di Perulli, Una questione “di valore”: il Jobs Act alla prova di costituzionalità, in DRI, 2017, 1064 ss., spec. 1065 ss. circa l’esiguità della tutela indennitaria, e di Speziale, La questione di legittimità costituzionale del contratto a tutele crescenti, in RGL, 2017, II, 333 ss., ed in tali scritti ampi riferimenti.
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dal lavoratore non dipendente da piccole imprese l’accertamento dell’inesistenza della giusta causa, ove ricorra (v. quanto detto in precedenza, al paragrafo 4, punto d), in tal caso dovendosi applicare la c.d. tutela indennitaria forte (art. 18 cit., comma 6, ultima parte e comma 5, e 4, ult. parte, d.lgs. n. 23/2015)41. Vale a dire, a che sia riconosciuta quest’ ultima deve esservi domanda esplicita di accertamento del difetto della giusta causa: in sostanza, l’applicazione del regime più favorevole è demandata in alcuni casi (quindi lo si ripete, non in tutti) ad un onere tutto sommato formale posto che dal punto di vista del decorso del tempo scrutinio della correttezza del procedimento e scrutinio del merito della giustificazione possono, nella valutazione dei singoli casi, venire a coincidere42. È questa la soluzione che mi sembra comporre il contrasto tra violazione procedimentale e sostanziale, la quale, ove non si aderisse alla conclusione qui raggiunta, dovrebbe comunque prevalere sull’altra, la prevalenza evincendosi appunto dall’ultima parte del comma 6 e dell’art. 4 citt. Non è invece condivisibile la tesi, presente in una decisione di cassazione e contrastata dalle sezioni unite, che assimila il fatto non tempestivamente contestato a quello insussistente per non possedere l’idoneità ad essere verificato in giudizio43. L’abnormità della contestazione, per stare al lessico della sentenza, per un verso incide sul diritto di difesa (v. antea) ed è vizio ben diverso e meno grave dalla mancanza di sussistenza del fatto (non si dimentichi che la l. n. 92/2012 ha modulato le sanzioni in ragione del motivo di illegittimità del recesso44); per un altro verso, esclude la giusta causa ed è quindi appieno nell’ambito del comma 5 dell’art. 18. Si è anche arrivati alla medesima conclusione, pur nello scetticismo che essa sarà condivisa, sul rilievo per il quale se il datore di lavoro non ha ritenuto di reagire tempestivamente «già sul piano della dinamica negoziale o se si vuole, da parte dello stesso datore quale ‘giudice domestico’, vi è stata una valutazione di irrilevanza disciplinare della condotta, valutazione cui non potrà mai sovrapporsi quella, eventualmente diversa, del giudice» «L’uso tardivo del potere corrisponde all’abuso del medesimo e conduce, pari pari, fra le braccia della tutela reintegratoria forte, in ragione della nullità di diritto comune»45. Ma, come si è sopra rilevato, non convince la valutazione negoziale e assoluta di per sé dell’indugio, ed il ravvisare nell’uso tardivo del potere un abuso di esso46.
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Conf. Pisani, op. ult. cit., 296 ss.; successivamente, Id., Le tutele esclusivamente risarcitorie, op. cit., 504 ss. Cfr. gli spunti in De Mozzi, op. cit., 1133 ss. 43 Cfr. Cass., 31 gennaio 2017, n. 2513, in MGL, 2017, 489, con nota di Pisani. 44 Cfr., tra i tanti, Albi, Il licenziamento disciplinare illegittimo, cit., 407; Del Conte, Fratello, La nuova disciplina delle tutele in caso di licenziamento illegittimo: il licenziamento per ragioni soggettive, in Persiani, Liebman (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro, Utet, 2013, 324. 45 Cfr. Mazzotta, Fatti e misfatti, op. cit., 108; in giurisprudenza, per la natura abdicativa della tardività, cfr. App. Firenze 6 luglio 2015, cit.; cfr. altresì Galardi, La cassazione e l’art. 18 stat. lav: dal fatto materiale al fatto disciplinarmente rilevante, in NGCC, 2016, 390; Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e giurisprudenza, (parte II), in RGL, 2014, I, 462 ss. Alla citata nota di Mantovani si rinvia per una puntuale ricapitolazione dei vari orientamenti, sui quali altresì, da ult., De Mozzi, op. cit,, 1108 ss. 46 Per ulteriori rilievi critici cfr. Tosi, Puccetti, op. cit., 1915, ed ivi, pure, ricostruzione della prima giurisprudenza di cassazione (1917 ss., anche note 42-52) e di merito (1916 ss., anche note 36-41; adde, App. Milano 20 dicembre 2017, pres. Cuomo, rel. Casella, L’Abbate c. soc. Telecom, ined., a quel che consta, per la quale la tardività della contestazione da parte del datore di lavoro che abbia 42
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È invece assimilabile al fatto non contestato quello non specifico, impedendo la stessa identificazione della contestazione. Quanto al licenziamento per giustificato motivo soggettivo, la tempestività della contestazione gioca solo ancora sul piano della violazione dell’art. 7 e implica pertanto l’applicazione della tutela indennitaria attenuata, salva, ancora, la domanda di valutazione del merito della condotta, in questo caso la tardività dovendo essere considerata nella logica della più blanda improseguibilità provvisoria. Nel concludere sul punto delle conseguenze giuridiche della intempestiva contestazione vale la pena di sottolineare che per le sanzioni conservative la intempestività comporta la loro caducazione per violazione di norma inderogabile, e cioè una conseguenza più radicale di quella prevista per il licenziamento disciplinare, pure sanzione più grave. Ciò, che del resto già accadeva, e accade, con il regime previsto dalla legge n. 604/1966, si spiega e si giustifica in considerazione del fatto che le sanzioni conservative non toccano quel posto di lavoro inciso invece dal licenziamento e che, se appunto il licenziamento è illegittimo, viene invece a perdersi avendo la legge inteso tutelare solo in forma indennitaria.
7. Violazione delle regole contrattuali collettive in tema. Nel caso in cui vi sia fonte collettiva che preveda che la contestazione debba essere fatta entro un certo termine dalla conoscenza del fatto, penso si abbia una tipizzazione pattizia del principio d’ immediatezza, con le conseguenze prima illustrate. Diversa è, a mio avviso, l’ipotesi in cui la disposizione contrattuale sia nel senso che il procedimento debba essere chiuso entro un termine, dovendosi allora piuttosto ravvisare la perdita del potere sanzionatorio datoriale e quindi, per chi come me crede che il novellato art. 18 non esaurisca le sanzioni del licenziamento illegittimo47, la conseguenza della nullità di diritto comune (o l’applicazione dell’art. 18, comma 5, se in esso si ravvisi la tutela residuale). La puntualizzazione contrattuale pare infatti far intendere la consumazione del potere, come è a maggior ragione laddove il testo specifichi che le giustificazioni si ritengono accolte se non pervenute entro il termine previsto48. Questo a meno che si ritenga che la regola collettiva non contenga l’abdicazione al potere e che quindi, la sua violazione, costituisca piuttosto inadempimento contrattuale sanzionato ex art. 1218 ss. c.c. Non manca, però, chi, pur aderendo alla tesi sostanzialistica della tempestività, sembra assimilare le due descritte ipotesi inquadrandole nel vizio procedimentale49, con la conse-
ingiustificatamente ritardato la contestazione comporta vizio procedurale, mentre implica vizio sostanziale se ciò abbia leso il diritto di difesa del lavoratore o il suo legittimo affidamento nel disinteresse datoriale al fatto) in punto. 47 Cfr., se vuoi, de Angelis, Giudice del lavoro e recenti riforme, in RGL, 2016, I, 413 ss. 48 Conf. Boscati, op. cit., 1057. 49 Cfr. Cass., sez. un., 24 ottobre 2017, n. 30985, cit.; Del Punta, op. cit., 38 ss.; Boscati, op. cit., 1057, che, lo si è prima rilevato in nota, lascia però alla tutela sostanziale il caso della previsione contrattuale per cui la violazione del termine implica accettazione delle giustificazioni; assimila invece l’ipotesi della violazione di regole contrattuali sui vizi procedurali a quelle legali Maresca, Il nuovo
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guenza, che lascia perplessi, del riconoscimento di una tutela più intensa in mancanza di forma (vale a dire: di previsione testuale) di quello in presenza di forma.
8. Intempestività della contestazione, garanzia di difesa ugualmente realizzata e altro.
Ho all’inizio accennato che anche prima della l. n. 92/2012 la tematica qui sviluppata aveva una sua pur parziale utilità che anche da tale angolazione permane. Infatti, se ci si muove nella logica procedimentale della garanzia dell’esercizio del diritto di difesa, era ed è corretto sostenere, come pure da alcuni si è negato50, che gli eventuali vizi appunto della procedura non dovessero e non debbano incidere sulla legittimità della sanzione disciplinare inflitta laddove nonostante i vizi stessi il diritto fosse e sia stato pre-giudizialmente realizzato51. Ciò vale sia per la genericità della contestazione che, per quanto interessa in questa sede, la tardività della medesima. Si è rilevato, in contrario, che la avvenuta difesa è comportamento non idoneo a dimostrare il raggiungimento delle finalità della contestazione in assenza di parametro di raffronto con quella che la difesa stessa poteva essere52, ma il parametro non sempre è necessario. Si pensi a chi riconosca di essere stato a sciare in una gara svoltasi in Alto Adige anziché lavorare nello stesso giorno quale produttore in Val d’Aosta (è un caso a me capitato nel corso del mio mestiere di giudice), come contestatogli tardivamente e più in generale si pensi ad una dettagliatissima difesa svolta su una contestazione generica o ritardata, in questo caso eventualmente, ove necessario, con l’indicazione di tutti gli elementi a discarico. Senza dire, soprattutto, del ragionevole contemperamento di tale diritto, che come tutti i diritti non è senza limiti, con il potere organizzativo del datore di lavoro facente capo all’art. 41 Cost., che porta a considerare rispettate le regole procedimentali ove la difesa sia stata esercitata anche se la contestazione sia stata tardiva. Nella direzione di quanto qui sostenuto sembra essere, pur
regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 statuto dei lavoratori, in RIDL, 2012, I, 434, anche in Nogler, Corazza (a cura di), Risistemare il diritto del lavoro Liber amicorum Marcello Pedrazzoli, Franco Angeli, 2012, 857, sul rilievo che le procedure contrattuali partecipano della stessa natura di quella legale, e può quindi essere ricompresa nel comma 6 con un’interpretazione estensiva; sulla sua scia Galardi, Il licenziamento inefficace, cit., 305 ss. 50 Ad es. da Pisani, “Tardività-ingiustificatezza” e “tardività-vizio procedimentale”, op. cit., 292; Tullini, Ritualità e formalismo nel procedimento disciplinare, in RIDL, 1994, II, 218, rifacendosi a Cass., 9 novembre 1985, n. 5484, in FI, 1986, I, 1378 e Cass., 21 giugno 1988, n. 4240, in NGL, 1988, 843; cfr. altresì la posizione più articolata, ma nella stessa direzione, di Mainardi, op. cit., 396 ss. 51 Conf., in dottrina, Papaleoni, Il procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore, Jovene, 1996, 301; Pizzoferrato, Reticenze e omissioni della contestazione disciplinare, in RIDL, 1995, II, 377; Pera, Sui requisiti della contestazione disciplinare, in RIDL, 1993, II, 334; D’Avossa, Il potere disciplinare nel rapporto di lavoro, II ed., Ipsoa informatica, 1989, 64; con riguardo al principio d’immediatezza della contestazione v. Cass., 7 aprile 2001, n. 5226, in NGL, 2001, 648. Descrive le due tesi senza prendere, a quel che sembra, posizione, Del Conte, op. cit., 864. 52 Cfr. tra gli altri Pisani, “Tardività-ingiustificatezza” e “tardività-vizio procedimentale”, loc. ult. cit., che, rifacendosi ad alcune decisioni della cassazione nello stesso senso, rileva che non si può escludere, anche quando la difesa sia stata esercitata, che una contiguità temporale maggiore ne avrebbe consentito una migliore.
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per la diversa ipotesi dell’esercizio del diritto di difesa prima della scadenza dei cinque giorni di cui all’art. 7, comma 5, l. n. 300/1970, Cass. s.u. 7 maggio 2003, n. 690053. Né in senso contrario può invocarsi la inderogabilità delle regole in questione, che invece vale per il caso in cui il lavoratore non abbia dedotto alcun pregiudizio effettivo all’esercizio della sua difesa54, posto che la realizzazione della loro funzione fa sì non che le parti stabiliscano diversamente ma che le regole stesse siano state rispettate. Nessuno, credo, ad esempio, può sostenere che l’art. 156, comma 3, c.p.c. per il quale «La nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato», renda inderogabili le norme processuali la cui violazione causa nullità per espressa disposizione di legge. Diversamente, il formalismo delle garanzie verrebbe ad inquinare quei principi di civiltà giuridica cui ha fatto riferimento la Corte costituzionale quando estese l’applicabilità delle garanzie procedimentali ai licenziamenti disciplinari intimati nell’area della recedibilità ad nutum55. Tutto questo, ovviamente, non può esser detto se si attribuisca natura sostanziale all’immediatezza della contestazione, la cui mancanza rende incompleta la fattispecie. L’incompletezza, poi, appunto per essere tale implica che la tardività possa e anzi debba essere considerata compresa nella causa petendi del difetto di giustificazione della sanzione, diversamente da quel che è se si accede all’orientamento giurisprudenziale affermatosi per decenni56 – pur se di recente contraddetto57 – sub specie della violazione dell’art. 7.
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In varie riviste tra cui in RIDL, 2003, II, 811, con nota di Montanari. In punto cfr. Albi, La difesa del lavoratore, in Mainardi (a cura di), Il potere disciplinare del datore di lavoro, cit., 300 ss. 54 Cosi Pisani, op. loc. ult. cit. 55 Cfr. Corte cost. 25 luglio 1989, n. 427, in FI, 1989, I, 2685, con nota di De Luca. 56 Si veda la giurisprudenza granitica per la quale «qualora il lavoratore abbia dedotto, con il ricorso introduttivo di primo grado, l’illegittimità del licenziamento per difetto di giusta causa (o di giustificato motivo soggettivo) costituisce domanda nuova quella proposta nel corso del giudizio per ottenere l’accertamento della nullità del medesimo licenziamento per l’inosservanza, a vario titolo, della procedura prevista dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori, in quanto tale ulteriore prospettazione comporta la deduzione di un’altra, diversa causa petendi, con l’inserimento di un fatto nuovo a fondamento della pretesa e di un diverso tema di indagine e di decisione, né tale nullità può essere rilevata dal giudice, ex art. 1421 c.c., poiché il principio della rilevabilità d’ufficio, in ogni stato e grado, della nullità deve essere coordinato con i principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato» (tra le molte Cass., 21 giugno 2011, n. 13575, in OGL, 2011, I, 699. 57 Cfr. Cass., 28 agosto 2015, n. 17286, in MFI, 2015, 544, sulla scorta del revirement attuato da Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, in FI, 2015, I, 862, con note di Pardolesi e Palmieri, Proto Pisani, Adorno, Di Ciommo, Pagliantini, Menchini.
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Lavoro e vita privata nel lavoro digitale: il tempo come elemento distintivo Sommario : 1. Brevi note introduttive. – 2. Tempo di lavoro e di non-lavoro: una distinzione tutt’altro che superata (anche per il lavoro digitale). – 3. I tempi del lavoro digitale nella prospettiva della tutela della salute e della sicurezza. – 4. Segue. L’obbligo datoriale di disconnettere. – 5. Tempi e conciliazione nel lavoro digitale. – 6. Uno sguardo al di fuori della subordinazione.
Sinossi. La presente ricerca intende analizzare l’elemento temporale nel lavoro digitale, con particolare riferimento alla limitazione della durata della prestazione lavorativa. Verificata la necessità di demarcare tempi di lavoro e non lavoro, si indaga sull’esistenza nel nostro ordinamento di disposizioni utili a proteggere la salute del lavoratore digitale e a consentirne la conciliazione vita-lavoro. In quest’ottica, sebbene il legislatore non abbia predisposto molti strumenti al riguardo, il ricorso a principi generali dell’ordinamento, quali quelli espressi dagli artt. 1175, 1375 e 2087 c.c., permette di costruire protezioni in materia di tempo di lavoro nei confronti dei lavoratori digitali sia subordinati che autonomi. Abstract. The present research aims at analysing the element of time in digital work, with particular reference to the limitation of the work performance duration. Having verified the need to demarcate working and non-working times, the existence in our system of provisions useful to protect the digital worker’s health and to ensure work-life balance is inquired. In this perspective, although the legislator has not provided many tools, the use of general legal principles, such as those expressed in Articles 1175, 1375 and 2087 Italian Civil Code, allows the construction of protections concerning working time both towards digital employees and non-employees. Parole chiave: Lavoro digitale – Tempo di lavoro – Salute e sicurezza del lavoratore – Conciliazione vita-lavoro – Lavoro agile – Disconnessione – Buona fede e correttezza
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Sebbene la presente ricerca sia frutto di una riflessione comune tra i due autori, i parr. 2, 3 e 4 sono attribuibili a Giovanni Calvellini mentre i parr. 1, 5 e 6 a Marco Tufo.
Giovanni Calvellini, Marco Tufo
1. Brevi note introduttive. In qualsiasi forma di lavoro l’elemento temporale acquista rilievo giuridico da almeno tre punti di vista. Serve, anzitutto, a stabilire quanto a lungo il rapporto si protrarrà, dipendendo questa circostanza dalla predeterminazione o meno di un termine finale dello stesso. In secondo luogo, il tempo viene in rilievo anche in relazione alla durata della prestazione lavorativa, cioè per rappresentare (con finalità che possono essere molto varie) il quantum di attività svolta dal lavoratore in una determinata unità di tempo. In ultimo, le modalità temporali della prestazione possono assumere una certa rilevanza per la qualificazione del rapporto come subordinato o autonomo, costituendo esse tradizionalmente il terreno privilegiato per l’esercizio dei poteri del datore di lavoro o, viceversa, per l’esplicazione dell’autonomia organizzativa tipica (anche se non esclusiva) di chi opera fuori dall’area della subordinazione. È soprattutto con riferimento al secondo e al terzo dei profili citati che la diffusione del lavoro digitale pone nuove questioni sulle quali occorre sviluppare una seria riflessione giuridica. Il presente studio, in particolare, andrà a focalizzare l’attenzione sulle implicazioni che questa nuova forma di esecuzione del rapporto di lavoro, nelle sue manifestazioni a carattere subordinato (e non solo), produce in ordine ai meccanismi di limitazione della durata della prestazione lavorativa. L’analisi di questa dimensione dell’elemento temporale risulta, infatti, d’importanza cruciale per appurare se e in che misura nel lavoro digitale subordinato le dinamiche tradizionali di articolazione del rapporto tra lavoro e resto della vita abbiano subito un’alterazione funzionale.
2. Tempo di lavoro e di non-lavoro: una distinzione tutt’altro che superata (anche per il lavoro digitale).
Nel lavoro digitale non è possibile fondare la distinzione tra sfera privata e sfera professionale del lavoratore sulla base di schemi prestabiliti di tempo e di luogo1: lo svolgimento della prestazione lavorativa in assenza di un orario predeterminato e di un luogo di lavoro fisso è infatti la principale caratteristica di questa modalità di esecuzione del rapporto. Ciò non significa però che l’individuazione di una linea di demarcazione tra lavoro e vita extra-professionale sia priva di valore2. Si può anzi senz’altro ritenere che questa operazione resti fondamentale, perché, proprio in virtù dell’assenza di una “barriera” prefissata (di tempo e/o di spazio) tra i due ambiti, nel lavoro digitale il prestatore d’opera è esposto
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Allamprese, F. Pascucci, La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore «agile», in RGL, 2017, I, 314. Invece, secondo Weiss, Digitalizzazione: sfide e prospettive per il diritto del lavoro, in DRI, 2016, 659 s., la distinzione tra lavoro e vita privata «potrebbe annullarsi in ragione della digitalizzazione del lavoro». Non si condivide questa prospettiva, perché – oggi come in passato – quando si lavora «non si pensa ad altro» (così Di Nicola, Impiegati in pantofole, in Libertà, giugno 1996, n. 6, 56 s.). Poco importa che lo si faccia in ufficio oppure da casa (o altrove). L’unica differenza è che una prestazione svolta dal proprio domicilio può consentire (ma non è affatto scontato) di alternare più facilmente attività lavorative con attività legate alla vita privata.
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– ben più che nel lavoro tradizionale – al rischio di veder ridotta al minimo la propria vita extra-professionale a causa dell’operare di fattori di vario genere: può essere il datore di lavoro a pretendere un impegno lavorativo che assorba (in termini di ritmo e di durata) l’esistenza del lavoratore; ma può essere anche quest’ultimo a soffrire di una forma più o meno accentuata di dipendenza da lavoro (c.d. workaholic) che lo porta a non saper dire “basta” e quindi all’auto-sfruttamento3. Ebbene, l’impossibilità di fare affidamento su un orario predeterminato non implica che, nel lavoro digitale, la distinzione tra lavoro e vita privata non riposi ancora sull’elemento temporale. Difatti, non pare vi sia altro modo di identificare la sfera professionale del lavoratore se non facendo riferimento all’insieme dei frammenti di tempo che si possono ricondurre alla nozione di orario di lavoro ex art. 1, comma 2, lett. a, d.lgs. n. 66/20034; il resto della temporalità della persona che lavora (cioè il periodo di riposo ex lett. b dello stesso art. 1, comma 2) circoscrive invece la sua sfera privata5. E allora anche nel lavoro digitale separare il tempo di lavoro da quello di non-lavoro per garantire a quest’ultimo un’estensione minima e una certa autonomia rispetto al primo appare determinante per due ordini di ragioni: tutelare la salute del lavoratore e assicurare lo sviluppo della sua personalità attraverso i rapporti familiari, culturali e sociali. Il primo campo è quello più tradizionale6, quello dei limiti all’estensione del tempo di lavoro finalizzati a non compromettere l’integrità psico-fisica del lavoratore. In questa prospettiva vanno lette anche quelle disposizioni che, nelle carte internazionali post-belliche7 e in alcune costituzioni europee post-autoritarie8, fanno riferimento alla durata massima della giornata lavorativa.
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V. con riferimento al telelavoro Cassano, Lopatriello, Il telelavoro: profili giuridici e sociologici, in Dir. inf., 1998, n. 2, 399; Di Nicola, Contrattare il telelavoro, in DLRI, 1997, 494; Id., Impiegati in pantofole, op. cit. La previsione citata, ricalcando il disposto dell’art. 2, comma 1, n. 1, Dir. 03/88/CE, definisce l’orario di lavoro come «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni». Sull’interpretazione della disposizione italiana alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia si rinvia a Leccese, La disciplina dell’orario di lavoro nel d.lgs. n. 66/2003, come modificato dal d.lgs. n. 213/2004, in WP D’Antona, It., 2006, 28 ss. Sulla nozione europea di orario di lavoro (come ricostruita dal Giudice di Lussemburgo) si vedano, tra i tanti, Trillo Párraga, La construcción social y normativa del tiempo de trabajo: identidades y trayectorias laborales, Lex Nova, 2010, 99 ss. e Cabeza Pereiro, Algunas reflexiones a la vista del asunto Tyco sobre el concepto “tiempo de trabajo”, in Derecho de las relaciones laborales, 2016, 36 ss. Questa sistemazione binaria del tempo della persona che lavora è stata oggetto di aspre critiche già nella sua formulazione europea, in quanto palesemente superata dalle trasformazioni che hanno riguardato l’organizzazione del lavoro negli ultimi decenni. Si legga, tra gli altri, Supiot, Il futuro del lavoro. Trasformazioni dell’occupazione e prospettive della regolazione del lavoro in Europa, Carocci, 2003, 88 ss. Per Supiot, Alla ricerca della concordanza dei tempi (le disavventure europee del «tempo di lavoro»), in LD, 1997, 15, la disciplina limitativa dell’orario di lavoro con finalità di tutela della salute del lavoratore costituisce storicamente «l’atto di fondazione del diritto del lavoro». Quando, infatti, nel XIX secolo i lavoratori cominciano a organizzarsi per avversare le prerogative dell’imprenditore individuano la propria principale rivendicazione nel controllo del tempo di lavoro e, a corollario di questo, nella riduzione dell’orario giornaliero (con corrispondente aumento proporzionale delle paghe orarie). È significativo, sotto questo profilo, il fatto che il 1° maggio, la festa del lavoro, ricordi lo sciopero proclamato per quella data del 1886 negli Stati Uniti per rivendicare la giornata di otto ore; manifestazione che, a Chicago, nei giorni successivi, finì nel sangue. Si vedano l’art. 24 della Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1948 e l’art. 7 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966. L’art. 40, comma 2, della Costituzione spagnola prevede un dovere per i pubblici poteri di garantire il riposo necessario mediante la limitazione della giornata lavorativa e le ferie periodiche retribuite. L’art. 36 della Costituzione italiana stabilisce una riserva di legge per la determinazione della durata massima della giornata lavorativa (comma 2) e un irrinunziabile diritto del prestatore d’opera
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Il secondo profilo è invece espressione di istanze più recenti che hanno portato a riconoscere valore primario all’esigenza di conciliazione tra lavoro e vita privata, formula con la quale si intende fare riferimento alla possibilità per il lavoratore di godere del tempo di non-lavoro necessario per «dedicarsi e […] partecipare adeguatamente alla vita familiare, alla vita sociale e di relazione fruendo dei relativi benefici ed adempiendo ai relativi doveri»9. È superfluo precisare che un’effettiva tutela tanto della salute quanto dell’esigenza di conciliazione non può realizzarsi se il lavoratore è always-on, cioè sempre connesso al datore e quindi costantemente esposto alle richieste lavorative di questi o, comunque, alla tentazione (per chi soffre di una forma di dipendenza in questo senso) di mettersi all’opera. Il rischio che l’intera esistenza del lavoratore digitale venga pervasa dalla dimensione produttiva è tutt’altro che trascurabile. In ragione di quanto detto, occorre verificare se vi siano nell’ordinamento giuridico italiano gli anticorpi necessari per impedire che questo pericolo venga a concretizzarsi. A tal fine, però, è opportuno analizzare distintamente le due prospettive di tutela richiamate (salute e conciliazione), in quanto diverso è il valore giuridico dei beni protetti e, di conseguenza, il ventaglio di strumenti giuridici invocabili a presidio degli stessi.
3. I tempi del lavoro digitale nella prospettiva della tutela
della salute e della sicurezza.
Com’è noto, la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore è oggetto di un obbligo contrattuale gravante sul datore10 il cui adempimento ha la priorità rispetto alla libertà dello stesso di organizzare la propria attività economica (artt. 32 e 41, comma 2, Cost.). Egli è «tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» (art. 2087 c.c.). Il datore, dunque, deve organizzare la propria attività produttiva, non solo in conformità agli obblighi specifici previsti dal c.d. diritto prevenzionistico (oggi contenuto nel d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, c.d. T.U. in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro), ma anche adeguandola costantemente agli standards di protezione sempre mutevoli, oltre che prendendo in considerazione (con l’obiettivo di scongiurarli) i rischi precedentemente sconosciuti oppure sopravvenuti a causa dell’impiego di nuove forme di esecuzione della prestazione. Ne consegue insomma che, mentre «le norme specifiche antinfortunistiche rappresentano lo standard minimale richiesto dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore», l’art. 2087 c.c, in quanto «norma di chiusura», impone l’adozione di tutte quelle misure atipiche che, secondo la
al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite (comma 3). La Costituzione francese del 1958 (per il tramite di un richiamo al preambolo della Costituzione del 1946) afferma che la Nazione garantisce a tutti riposo e tempo libero. 9 Così, C. cost., 22 gennaio 1987, n. 16, in RIDL, 1987, II, 647 ss. 10 Cass., 10 gennaio 2011, n. 306, in ADL, 2011, 1338 ss.
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miglior scienza ed esperienza, possono concorrere (insieme a quelle tipiche) alla garanzia del bene protetto11. Le disposizioni che il T.U. rivolge in modo specifico al lavoro digitale non sono molte. Si può anzi ritenere che solo l’art. 3, comma 10, si occupi della materia, prescrivendo l’applicazione della disciplina prevenzionistica prevista per le attività lavorative che comportano l’uso di videoterminali (Titolo VII dello stesso T.U.: artt. 172-179) anche «a tutti i lavoratori subordinati che effettuano una prestazione continuativa di lavoro a distanza, mediante collegamento informatico e telematico»12. La normativa, cui l’art. 3, comma 10, rinvia, risponde però all’obiettivo di prevenire i problemi che possono derivare, ad esempio alla vista o all’apparato muscolo-scheletrico, dall’uso di videoterminali (sul luogo di lavoro o altrove); di poco aiuto è pertanto il Titolo VII per assicurare una protezione contro un altro dei principali pericoli cui è esposta la salute del lavoratore digitale, cioè quello dell’intensificazione dei ritmi di lavoro e della compressione dei tempi di riposo. A tal fine, infatti, opportuno ma certamente insufficiente è il disposto dell’art. 175 T.U., con il quale si riconosce al lavoratore il diritto ad una periodica interruzione della propria attività telematica mediante pause o cambiamento dell’attività stessa13; interruzioni che sono da considerarsi «a tutti gli effetti parte integrante dell’orario di lavoro»14. L’efficacia di tale previsione al fine di cui si sta trattando dipende però dall’esistenza di un limite complessivo alla durata dell’orario di lavoro, in assenza del quale l’inclusione di tali pause in questa nozione speciale di orario finirà per rilevare solamente per il calcolo della retribuzione o, al più, per favorire una breve interruzione del ritmo di lavoro. Inoltre, con tutta evidenza, la norma in parola non incide in alcun modo su tutti quei casi (tra i quali, generalmente, rientrano proprio le attività di lavoro digitale a distanza) in cui la prestazione è svolta, non continuativamente, ma in maniera frammentata nell’arco del giorno. Senz’altro più utile nella prospettiva che qui interessa è quanto previsto direttamente dallo stesso art. 3, comma 10. Qui si legge che il lavoratore digitale deve ricevere dal datore un’informativa «circa le politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in particolare in ordine alle esigenze relative ai videoterminali»15. La disposizione non fa diretto riferimento ai rischi relativi al tempo di lavoro, ma un’interpretazione estensiva –
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Cass., 30 agosto 2004, n. 17314, in DPL, 2005, 716 ss. Sull’ampiezza del campo d’applicazione soggettivo dell’art. 3, comma 10, T.U., si legga Pascucci, La tutela della salute e della sicurezza dei telelavoratori nell’ordinamento italiano (con qualche retrospettiva dottrinale), in olympus.uniurb.it, 6 ss. Peruzzi, Sicurezza e agilità: quale tutela per lo smart worker?, in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, 2017, n. 1, 8, ritiene che tale disposizione trovi applicazione anche al lavoro agile. 13 Ai sensi dell’art. 175, commi 2 e 3, T.U., la durata di tali interruzioni viene fissata dai contratti collettivi e, in difetto, non può comunque essere inferiore a quindici minuti ogni centoventi di prestazione continuativa di fronte al videoterminale. 14 Art. 175, comma 7, T.U. 15 La disposizione prevede poi che, quando il datore fornisce attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, le stesse debbono essere conformi alle disposizione del Titolo III T.U. («Uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale»: artt. 69-87); che il datore, i rappresentanti dei lavoratori e le autorità competenti hanno – a certe condizioni – accesso al luogo in cui viene svolto il lavoro per poter verificare la corretta attuazione da parte del lavoratore a distanza della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza; che il lavoratore a distanza può chiedere ispezioni; che, infine, il datore deve adottare misure dirette a prevenire l’isolamento del lavoratore a distanza. 12
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senz’altro ammessa, visto il carattere fondamentale dell’interesse in gioco – può condurre a includere tra le informazioni da rendere al lavoratore quelle concernenti tale profilo. Anche la disciplina del lavoro agile16 introdotta dalla l. 22 maggio 2017, n. 81 contiene elementi rilevanti per la presente indagine. Anzitutto, nello stabilire che la prestazione è eseguita «senza vincoli di orario»17, si precisa che comunque ciò deve avvenire «entro i […] limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva» (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017). In combinato con questa previsione va letta quella secondo cui «l’accordo relativo alle modalità di lavoro agile […] individua […] i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro» (art. 19, comma 1, l. n. 81/2017). Tale disposizione, diversamente da quanto sostenuto da alcuni commentatori18, ha introdotto nel nostro ordinamento il c.d. diritto alla disconnessione19 (anche se limitatamente al lavoratore agile), da intendersi come diritto a scollegarsi dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro in determinati periodi del giorno, della settimana e dell’anno20. Si tratta, evidentemente, di un diritto “debole” alla disconnessione, atteso che, a differenza di altri Paesi europei, il legislatore domestico privilegia la regolamentazione a livello individuale, non facendo alcun riferimento espresso a un possibile intervento della contrattazione collettiva21, comunque da non potersi escludere a priori22.
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Il lavoro agile ex legge n. 81/2017 può essere considerato una particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, il quale si caratterizza per il fatto che la prestazione lavorativa è svolta «con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici» e «senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro», venendo eseguita «in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa» (art. 18). Nonostante, in astratto, possa aversi lavoro agile anche senza impiego di strumenti tecnologici – atteso che l’utilizzo degli stessi, secondo la norma citata, è solamente “possibile” –, in questo scritto si farà riferimento all’ipotesi opposta; a quella in cui cioè il lavoro agile si configura come una forma di lavoro digitale (anche solo parzialmente) a distanza. 17 Come affermato da Peruzzi, op. cit., 15, l’assenza di vincoli di orario è un tratto potenziale ma non necessario del lavoro agile. 18 Allamprese, Pascucci, op. cit., 314 s.; Di Meo, Il diritto alla disconnessione nella prospettiva italiana e comparata, in LLI, 2017, n. 2, 28; Cuttone, Oltre il paradigma dell’unità di luogo tempo e azione: la revanche dell’autonomia individuale nella nuova fattispecie di lavoro agile, in GggS (a cura di), Il lavoro agile nella disciplina legale, collettiva e individuale, in WP D’Antona, Collective volumes, 2017, 57. 19 Casillo, Tufo, Il lavoro agile (artt. 18-23, l. 22 maggio 2017, n. 81), in Esposito, Luciani, A. Zoppoli, L. Zoppoli (a cura di), Le riforme del lavoro pubblico: nuove idee o vecchie ideologie? La legislazione della XVII legislatura (2013-2018), Giappichelli, 2018, 213. 20 Atteso che, a quanto consta, prima della legge n. 81/2017 solamente il legislatore francese aveva codificato il diritto alla disconnessione (v. art. L2242-17, comma 7, Code du travail), il nostro legislatore può definirsi all’avanguardia su tale punto. Diversa era la situazione nella contrattazione collettiva, poiché in alcune aziende tedesche la pratica della disconnessione era già consolidata a livello aziendale, ad esempio in Volkswagen, senza contare che sul punto vi è stata anche una proposta di legge da parte del Parlamento tedesco (Weiss, op.cit., 658; Däubler, Sfide al diritto del lavoro. Intervento svolto al Congresso internazionale di Diritto del Lavoro Venezia, 25/26 settembre 2015, in CS.info, 2016, n. 2, Fondazione Claudio Sabattini, 12). Per altre esperienze europee in materia di disconnessione v. Fenoglio, Il diritto alla disconnessione del lavoratore agile, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, Cedam, 2018, 549 ss. 21 Così Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, in WP D’Antona, It., 2017, 26. E infatti il legislatore francese ha affidato la disciplina della disconnessione alla contrattazione aziendale. 22 G. Santoro Passarelli, Lavoro eterorganizzato, coordinato, agile e il telelavoro: un puzzle non facile da comporre in un’impresa in via di trasformazione, in WP D’Antona, It., 2017, 10 s.; Rausei, Smart work: contenuti del contratto e caratteristiche del rapporto, in DPL, 2017, 1936. Degli accordi aziendali concernenti (anche) il diritto alla disconnessione sono stati sottoscritti, ad esempio, da Enel e FCA rispettivamente il 4 aprile 2017 e il 12 marzo 2018 (anche se, nel secondo caso, senza l’adesione della Fiom Cgil).
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Ad ogni modo, dal tenore letterale della previsione sembra potersi ricavare che il compito assegnato dalla legge all’accordo individuale non concerna tanto la decisione sull’an del diritto in parola, quanto la determinazione del quomodo del suo esercizio23. Le parti del rapporto di lavoro paiono quindi essere vincolate a raggiungere un’intesa in ordine alle «misure tecniche e organizzative necessarie» per la disconnessione, al punto che si potrebbe considerare violato il requisito della forma scritta, richiesto ad probationem e ai fini della regolarità amministrativa (v. art. 19, comma 1, l. n. 81/2017), nel caso di un accordo lacunoso su questo punto. La formulazione dell’art. 19, comma 1, non autorizza a privare la disconnessione della dignità di vero e proprio diritto del lavoratore agile, a meno di non voler fare lo stesso per il riposo, posto che la disposizione attribuisce entrambi i profili – peraltro strettamente interdipendenti – alla competenza regolativa delle parti del rapporto di lavoro. Insomma, se nessuno ha dubitato che l’art. 19 comma 1, condizioni la configurabilità del diritto al riposo alla relativa formulazione nell’accordo, perché ciò dovrebbe valere per il diritto alla disconnessione? Va infine aggiunto che – per quanto qui rileva – la l. n. 81/2017 ha previsto un obbligo per il datore di consegnare annualmente al lavoratore agile e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza «un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto» (art. 22, comma 1, l. n. 81/2017). In realtà, a ben vedere, l’apporto innovativo della norma – rispetto a quanto già previsto per la generalità dei lavoratori dall’art. 36 T.U.24 – si esaurisce nella necessaria «cadenza almeno annuale» dell’informativa.
4. Segue. L’obbligo datoriale di disconnettere. Così ricostruito il quadro regolativo nazionale, l’attenzione deve concentrarsi su quali siano gli strumenti a disposizione per assicurare una cesura effettiva tra tempo di lavoro e tempo extra-professionale, idonea a tutelare la salute del lavoratore digitale. In questo senso, appare utile sviluppare la riflessione intorno a tre concetti: informazione, formazione e disconnessione. Rendere il lavoratore edotto dei rischi che corre svolgendo la prestazione lavorativa tramite strumenti tecnologici e fuori dai locali aziendali è senz’altro il primo e indispensabile passo sulla strada per la prevenzione contro i danni alla sua salute causati da un’eccessiva estensione del tempo di lavoro a detrimento di quello di riposo. Non a caso il legislatore fa molto affidamento sugli obblighi di informazione posti a carico del datore di lavoro, il quale quindi, una volta stilato il Documento di valutazione dei rischi ex art. 28 T.U. (DVR),
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Similmente Dagnino, Il diritto alla disconnessione nella legge n. 81/2017 e nell’esperienza comparata, in DRI, 2017, 1033 s. La disposizione richiamata prevede infatti che il datore provveda affinché «ciascun lavoratore riceva una adeguata informazione»: «sui rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi all’attività dell’impresa in generale» (art. 36, comma 1, lett. a) e «sui rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia» (art. 36, comma 2, lett. a).
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dovrà adeguatamente mettere al corrente il lavoratore dei rischi generali e specifici connessi allo svolgimento della prestazione secondo le modalità in parola25. Gli obblighi di informazione sono arricchiti poi da quelli di formazione (v. artt. 15, comma 1, lett. n e 18, comma 1, lett. l, T.U.). La disciplina prevenzionistica generale prevede infatti che il datore di lavoro debba assicurare che il lavoratore riceva «una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza […] con particolare riferimento a […] rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda» (art. 37, comma 1, lett. b, T.U.). Anche se la formulazione della disposizione pone qualche problema per la sua interpretazione in relazione ai lavoratori digitali, non possono nutrirsi dubbi circa la configurabilità di un obbligo in capo al datore di formare questi lavoratori sui rischi (rilevati nel DVR) legati all’utilizzo di strumenti tecnologici a distanza e sul corretto impiego degli stessi, soprattutto – per quanto qui rileva – al fine di impedire lo sviluppo delle dipendenze da lavoro che quegli stessi strumenti agevolano. Può accadere però che il lavoratore digitale, nonostante abbia ricevuto informazioni e formazione adeguate, sia comunque portato a comprimere il proprio tempo di riposo al punto da determinare un rischio per la propria salute. È questa un’eventualità tutt’altro che inverosimile della quale il datore è tenuto a dar conto nel DVR26. Bisogna chiedersi allora se esista, sulla base della miglior scienza ed esperienza, una misura capace di impedire questa eventualità e la cui attuazione pertanto, in virtù del disposto dell’art. 2087 c.c., assume carattere obbligatorio per il datore. È così che viene in rilievo la disconnessione27. Un siffatto obbligo28, oltre a costituire un argine alle pretese datoriali, permette al lavoratore – precludendogli per un determinato lasso temporale la connessione con i server aziendali e, ove possibile, l’utilizzo della strumentazione tecnologica di lavoro – di godere in maniera effettiva del riposo necessario a reintegrare le sue energie psico-fisiche. Detto altrimenti, dal dovere generale di garantire la salute e la sicurezza è possibile ricavare un obbligo del datore di disconnettere il lavoratore digitale per garantirgli un riposo effettivo29.
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Come si è visto, obblighi di informazione sono previsti tanto da disposizioni di legge rivolte a forme specifiche di lavoro digitale (art. 22, comma 1, l. n. 81/2017), quanto da previsioni comuni a tutti i tipi di lavoro digitale (art. 3, comma 10, T.U.), quanto infine dalla disciplina prevenzionistica generale ovviamente applicabile anche a chi esegue la prestazione secondo le modalità di cui ci si sta occupando (art. 36 T.U.). 26 Il DVR deve prendere in considerazione «tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato» (art. 28, comma 1, T.U.); patologia, quest’ultima, peraltro molto frequente tra i lavoratori digitali. 27 Pure Donini, I confini della prestazione agile: tra diritto alla disconnessione e obblighi di risultato, in GggS (a cura di), op. cit., 105 e Di Meo, op. cit., 32 ss., individuano un collegamento tra disconnessione e art. 2087 c.c. (anche se circoscrivendo il discorso al lavoro agile). 28 Mathieu, Pas de droit à la déconnexion (du salarié) sans devoir de déconnexion (de l’emplyeur), in Revue de Droit du Travail, 2016, 595, Allamprese, Pascucci, op. cit., 314 e Dagnino, op. cit., 1035. 29 In termini simili Fenoglio, op.cit., 555. La soluzione proposta, tuttavia, non risolve il problema per i lavoratori digitali che svolgono la prestazione lavorativa in modalità offline, ovvero autonomamente e senza alcun collegamento diretto con il datore. In questo caso, quando siano stati correttamente adempiuti tutti gli obblighi di informazione e formazione, l’eventuale danno alla salute non può essere imputato al datore.
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Ciò posto, il problema diventa quello di individuare il periodo di riposo minimo da assicurarsi al lavoratore attraverso la disconnessione. Questa operazione risulta più immediata per il lavoro agile, con riguardo al quale – come si è visto – la legge impone il rispetto dei limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017). Così, il lavoratore agile dovrà essere “disconnesso” almeno per undici ore consecutive ogni ventiquattro e per il tempo eccedente l’orario massimo di lavoro settimanale ex art. 4 d.lgs. n. 66/200330. Sebbene prima facie l’art. 18, comma 1, sembri non farvi riferimento, l’interpretazione sistematica dello stesso alla luce soprattutto della previsione dell’art. 36, comma 3, Cost. comporta l’inclusione tra i tempi di non-lavoro da garantire al lavoratore agile anche del riposo settimanale e delle ferie annuali retribuite (artt. 9 e 10 d.lgs. n. 66/2003). Pure per questi, allora, dovrà eseguirsi la disconnessione del prestatore. Più complesso è invece identificare con chiarezza la durata minima del riposo ritenuta adeguata dall’ordinamento per la tutela della salute dei lavoratori digitali diversi dal lavoratore agile ex l. n. 81/2017. Il d.lgs. n. 66/2003, infatti, esclude l’applicazione della disciplina del riposo giornaliero e dell’orario massimo settimanale nei confronti dei «lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta […] di prestazioni rese nell’ambito di rapporti […] di telelavoro» (art. 17, comma 5). È d’obbligo tuttavia precisare che la disposizione appena citata – com’è ovvio – non implica l’assenza di un limite alla durata dell’orario di lavoro. Come difatti ha avuto modo di affermare la Corte costituzionale in relazione a un’ipotesi derogatoria analoga a quella de qua «un limite quantitativo globale, ancorché non stabilito dalla legge o dal contratto in un numero massimo di ore di lavoro, sussiste pur sempre […] anzitutto in rapporto alla necessaria tutela della salute ed integrità fisio-psichica, garantita dalla Costituzione a tutti i lavoratori». Così, secondo la Consulta, dalla necessità di un limite complessivo consegue la possibilità per il giudice di svolgere, «nelle singole fattispecie, un controllo sulla ragionevolezza della durata delle prestazioni di lavoro pretese dall’imprenditore»31. Si tratta di una lettura teleologica che trova conferma anche nell’inciso iniziale dell’art. 17, comma 5, a mente del quale le deroghe in esso previste debbono comunque operare «nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori». Tutto ciò ci porta quindi a ritenere che, pure in relazione ai lavoratori digitali subordinati che non rientrano nel campo d’applicazione della l. n. 81/2017, discende dall’art. 2087 c.c. un obbligo in capo al datore di disconnettere il prestatore (anche se non per un periodo predeterminato dalla legge, quantomeno) per il tempo eccedente il limite di
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Peruzzi, op. cit., 19. Così, C. cost., 7 maggio 1975, n. 101, in RGL, 1975, II, 335 ss. che inaugura l’orientamento. Nello stesso senso, da ultimo, Cass., 20 giugno 2016, n. 12687, in LG, 2017, 58 ss., in cui il superamento del limite della ragionevolezza è valutato in relazione non solo alla quantità, ma anche alla qualità della prestazione («eccezionalità e gravosità» della stessa). In dottrina, si legga Leccese, op. cit., 53 s., secondo cui «v’è spazio per ipotizzare che, per i lavoratori interessati dalla deroga in questione, possano essere quantomeno confermati gli orientamenti giurisprudenziali […] secondo cui è pur sempre possibile individuare un limite di ragionevolezza della prestazione […]».
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ragionevolezza dell’orario di lavoro (oltre che, ancora una volta, per il riposo settimanale e le ferie, non operando per essi la deroga32). In definitiva, ricorrendo all’obbligo ex art. 2087 c.c., è possibile tracciare un primo confine tra l’area del tempo di lavoro e quella del riposo nel lavoro digitale; confine che, presidiato dal dovere datoriale di disconnettere il lavoratore, rende una quota minima del tempo extra-professionale – quella ritenuta adeguata alla tutela dell’integrità psico-fisica del dipendente – effettivamente inviolabile e irrinunziabile; che, in altre parole, impedisce che la temporalità del lavoratore digitale sia permeata nella sua interezza dall’impegno nel lavoro33.
5. Tempi e conciliazione nel lavoro digitale. Anche se l’istituto della disconnessione – come si è cercato di argomentare sopra – finisce per riguardare (oltre al lavoro agile per il quale un riferimento normativo in proposito si ha) pure quelle fattispecie di lavoro digitale subordinato che non sono oggetto di disciplina legale nel nostro ordinamento, non tutte le esigenze legate alle dinamiche della relazione tra tempi di lavoro e non-lavoro possono essere soddisfatte ricavando un obbligo datoriale di scollegare dall’art. 2087 c.c. Come si è anticipato, separare sfera lavorativa e sfera privata (e quindi tempo di lavoro e tempo extra-professionale) è funzionale a proteggere non solo la salute di chi lavora, ma anche gli altri valori costituzionali ai quali risponde l’esigenza di conciliazione. La tutela di questi – compendiabili nell’interesse allo sviluppo della personalità del lavoratore attraverso i rapporti familiari, culturali e sociali – richiede un’estensione del tempo di non-lavoro ulteriore rispetto a quella strettamente necessaria per il recupero delle energie psico-fisiche. Si tratta quindi di capire se, ferma restando l’imprescindibile garanzia della durata minima del riposo per fini di tutela della salute, l’ordinamento preveda limiti al potere datoriale di determinazione dell’estensione e della collocazione della prestazione lavorativa del lavoratore digitale e, nello specifico, se questi limiti possano derivare dall’esigenza di conciliazione del prestatore stesso. A dire il vero, nonostante il legislatore abbia insistito sulle potenzialità del lavoro digitale per agevolare la conciliazione (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017 per il lavoro agile), nessuno strumento specifico – a parte, come detto, un diritto alla disconnessione di incerta
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Questo almeno in linea di principio, perché poi l’art. 9 d.lgs. n. 66/2003 prevede un’eccezione alla regola del riposo settimanale stabilita dal comma 1 per le «attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata» (comma 2), caratteristica che frequentemente si rinviene nel lavoro digitale. 33 Negli stessi termini Fenoglio, op. cit., 557 ss., la quale sottolinea come la disconnessione sia un dovere anche per il lavoratore, «che è tenuto a staccare tutti i dispositivi tecnologici utilizzati per rendere la prestazione lavorativa non soltanto al fine (primario) di tutelare la propria salute e usufruire pienamente dei periodi di riposo, ma anche allo scopo di consentire un’effettiva misurazione del tempo lavorato e mettere al riparo il datore da eventuali sanzioni derivanti dal superamento dei limiti previsti».
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ampiezza, in quanto rimesso (per la sua componente che travalica la garanzia della salute) all’autonomia individuale34 – pare essere stato predisposto a quel fine. Per questo, allora, può essere utile valersi delle clausole generali di correttezza e buona fede, le quali sono state lette come un veicolo di istanze valoriali del diritto del lavoro che consente un controllo di razionalità diretto a commisurare l’adeguatezza e la proporzionalità dello strumento impiegato nell’ambito dell’esercizio delle prerogative privatistiche35. È questa una prospettiva da condividere anche alla luce degli approdi cui è giunto il diritto vivente, secondo il quale anche nell’ambito del rapporto di lavoro «il principio di correttezza e buona fede […] enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge […]»36. Per il tramite di tali clausole generali fa dunque ingresso nel rapporto di lavoro il dovere costituzionale di solidarietà che impone alla parte che esercita un potere (e, nello specifico, per quanto qui interessa, lo ius variandi temporale) di tener conto degli interessi dell’altra e, conseguentemente, prescrive al giudice di verificare la razionalità della scelta in relazione a essi. Di certo, allora, il ricorso al principio di correttezza e buona fede può servire a qualificare come inadempimenti contrattuali (con conseguente diritto al risarcimento del danno) le forme più evidenti di arbitrio nell’esercizio del potere datoriale di modifica della dimensione temporale della prestazione. Tuttavia, è difficile negare che questa tecnica si rivela inutile all’obiettivo di garantire al lavoratore una significativa autonomia nella gestione del proprio tempo per conciliare gli impegni di lavoro con il resto della vita. Difatti, la verifica di ragionevolezza affidata al giudice, oltre a operare ex post, in sede di contenzioso giudiziale, e ad offrire la sola tutela risarcitoria, lascia alla discrezionalità dell’interprete l’individuazione di quello che può essere reputato il confine adeguato tra tempo di lavoro e non-lavoro, non offrendo garanzie di uniformità nell’applicazione della legge37. Quell’autonoma gestione del tempo allora non può che dipendere dal riconoscimento per legge – a certe condizioni, s’intende – di un diritto di resistere alla pretesa datoriale. Ma di questo diritto, de iure condito, non vi è alcuna traccia per il lavoro digitale. L’impressione è insomma che l’idoneità di quest’ultimo (e quindi anche del lavoro agile, recentemente normato) a rappresentare un valido strumento di conciliazione tra lavoro e vita privata dipenda soprattutto dalla “buona volontà” del datore.
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Afferma condivisibilmente Cuttone, op. cit., 58, che «la presenza di una spiccata autonomia individuale, non etero-integrata e non etero-supportata da altre fonti, potrebbe creare un lavoro agile a dimensione d’impresa». 35 Perulli, Razionalità e proporzionalità nel diritto del lavoro, in DLRI, 2005, 22 ss. 36 Così, Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28056, in DeJure. 37 Fermo restando che tale operazione sarebbe condizionata dalla particolarità del singolo caso concreto, il giudice potrebbe prendere come parametro, oltre ai limiti di cui al d.lgs. n. 66/2003, le regole sull’orario di lavoro enucleate nei contratti collettivi applicabili a lavoratori digitali comparabili per l’attività lavorativa svolta.
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6. Uno sguardo al di fuori della subordinazione. Il riferimento alle clausole di correttezza e buona fede non esaurisce la sua utilità nel campo della subordinazione. Al contrario, esso costituisce la base di partenza anche per cercare di approntare una tutela minima in favore dei lavoratori digitali autonomi, i quali risultano esclusi addirittura dalle garanzie sul tempo di lavoro finalizzate alla tutela della salute (figurarsi da quelle funzionali alla conciliazione). Anzitutto, infatti, l’art. 2087 c.c. non trova applicazione nei confronti di lavoratori diversi da quelli dipendenti, come statuito dalla costante giurisprudenza della Suprema Corte38. Né, d’altronde, può parlarsi propriamente di “orario di lavoro” al di fuori dell’area della subordinazione. Quanto poi alla normativa prevenzionistica del T.U., sono riconosciute certe tutele specifiche in favore dei lavoratori autonomi ex art. 2222 c.c. solo nel caso in cui essi operino – in virtù dell’affidamento di lavori, servizi e forniture – all’interno di locali di cui il committente abbia la disponibilità giuridica (art. 26 T.U.). Ai parasubordinati, invece, si applica l’intera disciplina del T.U., ma solamente ove essi effettuino la propria prestazione «nei luoghi di lavoro del committente» (art. 3, comma 7, T.U.). E ancora, la regola di cui all’art. 3, comma 10, T.U. è destinata ad operare nei soli riguardi dei «lavoratori subordinati che effettuano una prestazione continuativa di lavoro a distanza». La normativa vigente ci consegna quindi un quadro in cui i lavoratori autonomi che effettuano la propria prestazione a mezzo ICT appaiono del tutto esclusi da qualsiasi forma di protezione contro i rischi derivanti dallo svolgimento della propria attività lavorativa secondo quelle modalità. Difatti, considerato che il lavoro digitale è prestato per lo più fuori dai locali aziendali, prevedere che certe tutele si applicano solo se l’attività è svolta nei luoghi di lavoro del committente significa, nella sostanza, negare quella protezione ai lavoratori digitali autonomi. La normativa palesa dunque sul punto un’evidente lacuna che genera un vuoto di tutela capace di esporre questo tipo di prestatori d’opera (e, in particolare, i parasubordinati, per i quali il problema si pone con maggiore intensità) a rischi non indifferenti per la loro salute. In primis, a destare preoccupazione è l’assenza di un obbligo a carico del committente di tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore in relazione ai pericoli legati all’effettuazione della prestazione in modalità digitale, tra i quali rientra quello di un’esistenza always-on. Ad esempio, la mancanza di obblighi di informazione e formazione su quegli stessi rischi è solo la prima di una serie di conseguenze di questo vuoto di tutela. Tuttavia, come anticipato, le clausole di correttezza e buona fede possono venire in soccorso. È infatti noto come esse operino nell’ambito di tutti i contratti di diritto privato. E allora, laddove la prestazione di lavoro abbia carattere autonomo, del ricorso a buona fede e correttezza il lavoratore digitale potrà avvalersi come tecnica di protezione contro quelle
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Cass., 21 marzo 2013, n. 7128, in DeJure. Nello stesso senso, con riferimento ai lavoratori parasubordinati, v. Cass., 16 luglio 2001, n. 9614, in DeJure.
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“aggressioni” alla sua temporalità con le quali, approfittando della costante reperibilità cui egli è soggetto per effetto dell’utilizzo delle ICT, la sua salute è pregiudicata dall’operato del committente. E questa via di tutela, naturalmente, sarà tanto più praticabile quanto più la committenza avrà i caratteri dell’esclusività. Del resto, l’opzione ermeneutica appena descritta trova una conferma anche in talune pronunce giurisprudenziali, secondo le quali, sebbene i lavoratori autonomi non beneficino della protezione ex art. 2087 c.c., sul committente grava comunque un obbligo di sicurezza in loro favore proprio in ragione dell’automatico operare degli artt. 1175 e 1375 c.c.39. Insomma, per mezzo delle “valvole” della buona fede e correttezza l’obbligo di sicurezza deve essere osservato anche nei rapporti di lavoro autonomo. Il richiamo a queste clausole generali ripropone però le stesse problematiche già viste in chiusura del § precedente; problematiche che portano a concludere che questa operazione interpretativa è ben lungi dall’essere risolutiva o financo soddisfacente. Una soluzione è allora possibile soltanto de iure condendo con un quanto mai opportuno intervento del legislatore nel senso, ad esempio, di un riconoscimento a tutti i lavoratori digitali (subordinati e autonomi) di un diritto soggettivo alla disconnessione, quale diritto loro spettante in ragione del mezzo di lavoro utilizzato. In conclusione, sebbene la disciplina sul lavoro digitale in Italia sia ancora agli albori, non sembra che il legislatore sia riuscito per il momento a predisporre strumenti adeguati, da una parte, a proteggere il lavoratore da un’eccessiva estensione del tempo di lavoro e, dall’altra parte, a funzionalizzare l’uso delle ICT alla conciliazione vita-lavoro, ossia a «risarcire l’uomo che lavora del tempo alienato consentendogli di riappropriarsi di porzioni crescenti del tempo – questo, sì, liberamente gestibile – della sua vita»40.
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Trib. Potenza, 1 febbraio 2012, in http://www.ordineavvocatipotenza.it/sites/default/files/6.pdf e Trib. Milano, 21 marzo 2009, in DeJure. 40 Così Romagnoli, «Noi e loro»: diritto del lavoro e nuove tecnologie, in RTDPC, 1986, 388. Similmente Vardaro, Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in PD, 1986, 120 ss.
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La gestione dei rapporti di lavoro del datore sovraindebitato Sommario : 1. La crisi da sovraindebitamento: cenni. – 2. Strumenti di gestione della forza lavoro nelle imprese in stato di sovraindebitamento. – 2.1. I datori di lavoro ammessi alla CIG. – 2.2. I datori di lavoro al di fuori del campo di applicazione CIG. – 2.3. Gli effetti della liquidazione del patrimonio o del ridimensionamento aziendale sui rapporti di lavoro. – 2.3.1 Trasferimento d’azienda e deroghe all’art. 2112 c.c. – 2.3.2. Cessazione dell’attività di impresa. – 3. Osservazioni conclusive.
Sinossi. I procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento introdotti dalla legge n. 3/2012 offrono strumenti per la ristrutturazione delle posizioni debitorie di una vasta ed eterogena categoria di debitori non ammessa alle procedure concorsuali tradizionali. Il presente contributo si propone di analizzare la posizione del debitore sovraindebitato che rivesta al contempo la qualifica di datore di lavoro per comprendere in che modo l’accesso alle menzionate procedure di composizione della crisi influisca sulla gestione dei rapporti di lavoro in essere. Abstract. The crisis settlement procedures of the over-indebtedness, introduced by law no. 3/2012, offer instruments for the restructuring of the debt positions of a large and heterogeneous category of debtors not admitted to traditional insolvency procedures. The purpose of this paper is to analyze the position of the over-indebted debtor, which at the same time is an employer, to understand how to manage employment relationships as a result of access to the mentioned procedures. Parole
chiave:
Datore di lavoro – Insolvenza – Sovraindebitamento – Ammortizzatori sociali
1. La crisi da sovraindebitamento: cenni. La legge 27 gennaio 2012, n. 3, rubricata “Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento”, modificata dal decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179 (conv. nella legge 17 dicembre 2012, n. 221), prevede due
Alessandro Ventura
procedimenti di composizione della crisi da insolvenza rivolti ai debitori esclusi dal campo di applicazione delle procedure concorsuali “maggiori”1. La loro introduzione nell’ordinamento, oltre a ridurre il contenzioso civile in materia di recupero crediti, ha l’ulteriore ambizione di salvaguardare i complessi aziendali del debitore non fallibile di cui residui capacità economica, altrimenti unicamente esposti alle azioni esecutive individuali ordinarie ed alla probabile dissoluzione. Con la tipizzazione legale della fattispecie della crisi da sovraindebitamento, il legislatore colma un vuoto normativo, apprestando specifiche misure di soluzione dell’insolvenza in favore di tutti i soggetti esclusi dall’ambito di applicazione della legge fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, d’ora in avanti anche “l.f.”)2. L’intervento si inserisce nel solco già tracciato dalle ultime modifiche alla disciplina concorsuale tese a favorire la conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa e la sua sopravvivenza attraverso procedimenti caratterizzati da ampi margini di accordo pattizio tra debitore e creditori, come nell’istituto concordato preventivo e nell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.f.3. Ai sensi dell’art. 6, l. n. 3/2012, lo stato di crisi da sovraindebitamento è definito come «la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente». Sulla base del presupposto oggettivo (insolvenza temporanea o irreversibile) sono istituiti tre procedimenti, di cui due volti alla composizione della crisi ed uno alla liquidazione giudiziale. Il novero dei destinatari della fattispecie del sovraindebitamento si presenta variegato e comprende anche soggetti non titolari di rapporti di lavoro, si pensi alla categoria dei “consumatori” di cui all’art. 6, comma 2, lett. b), art. 6, l. n. 3/2012, ma l’economia del presente contributo impone un’analisi rivolta esclusivamente alla posizione giuridica dei
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La dottrina maggioritaria qualifica i procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento alla stregua di procedure concorsuali c.d. “minori”. Sulla natura degli istituti in esame cfr. Piccinini, Il sovraindebitamento del debitore civile (il fallimento del consumatore) in Cagnasso, Panzani (diretto da), Crisi d’impresa e procedure concorsuali, Utet, 2016, 3814 ss.; Panzani, L’esdebitazione e la disciplina del sovraindebitamento in Jorio, Sassani (a cura di), Trattato delle procedure concorsuali, Giuffrè, 2016, vol. III, 698 ss.; Lo Cascio, L’ennesima modifica alla legge sulla composizione della crisi da sovraindebitamento, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2013, 814; per maggiori approfondimenti cfr. Anderloni, Il sovraindebitamento in Italia e in Europa, in L’usura in Italia, EGEA, 2007; Battaglia, La composizione delle crisi da sovraindebitamento del debitore non fallibile: alcuni profili problematici, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, n. 3-4, 2012; Di Marzio, Una procedura per gli accordi in rimedio del sovraindebitamento, in Composizione delle crisi da sovraindebitamento, Il Civilista, Giuffrè, 2012; Macario, Finalità e definizioni, in La nuova procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, Il Civilista, Giuffrè, 2013. Un primo passo in tal senso è stato compiuto con l’estensione, all’imprenditore agricolo, dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.f. (e della transazione fiscale ex art. 182 ter l.f.), operata dall’art. 23, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 convertito, con modifiche, nella legge 15 luglio 2011, n. 111. Traendo impulso dalla proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio, 2016/0359 COD, “riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, la seconda opportunità e misure volte a aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza e liberazione dei debiti”, la commissione ministeriale “Rordorf” ha definito un progetto di riforma delle leggi sulla crisi e sull’insolvenza scaturito nella legge delega 19 ottobre 2017, n. 155. Il 22 dicembre 2017 sono stati consegnati al Ministro della Giustizia dal Presidente della Commissione ministeriale le bozze dei decreti legislativi integranti l’attuazione della delega di cui alla l. n. 155/2017 di cui si attende ancora l’emanazione.
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debitori “datori di lavoro” non fallibili, al fine di analizzare i profili lavoristici della procedura concorsuale a loro dedicata4. Ci si riferisce agli imprenditori agricoli ed ai piccoli imprenditori commerciali; agli enti collettivi non commerciali (fondazioni e associazioni); gli studi associati e le società di professionisti; i soci illimitatamente responsabili di società di persone non fallibili, nonché alle c.d. “start up” innovative, come definite dall’art. 25, comma 2, d.l. n.179/20125. Quest’ultimi possono risanare la propria esposizione debitoria attraverso un accordo da sottoporre all’approvazione di almeno il sessanta percento della globalità dei creditori (accordo di composizione della crisi) ed alla successiva omologazione in tribunale o, in caso di insolvenza irreversibile, possono optare per la liquidazione del proprio patrimonio con conseguente procedimento di esdebitazione, secondo le previsioni di cui alla sez. II, capo II, l. n. 3/20126. Il procedimento di composizione della crisi, come regolato dall’art. 10 ss., legge n. 3/2012, si compone di un momento negoziale, durante il quale il soggetto sovraindebitato è tenuto a ricercare un’intesa con un numero di creditori che rappresenti almeno il 60% della massa creditoria, seguito da una fase di carattere giudiziale, finalizzata all’omologazione dell’accordo raggiunto con l’ausilio dell’Organismo di composizione della crisi e depositato dallo stesso presso la sede del Tribunale del luogo di residenza o in cui ha sede principale il debitore7. Qualora la proposta di accordo soddisfi i requisiti di ammissibilità, il giudice emanerà un decreto di fissazione della data per l’udienza di omologazione con il quale, al contempo, ordinerà, ove il piano preveda la cessione o l’affidamento a terzi di beni immobili o di beni mobili registrati, la trascrizione del decreto, a cura dell’Organismo di composizione della crisi (d’ora in avanti anche “OCC”), presso gli uffici competenti. Dall’emanazione dello stesso decreto, inoltre, scaturiranno una serie di effetti protettivi del patrimonio del debitore in relazione al quale è fatto divieto ai creditori aventi titolo o causa anteriore di avviare e proseguire azioni esecutive individuali, sequestri conservativi, nonché di acquisire diritti di prelazione. La sospensione non opera nei confronti dei titolari di crediti impignorabili, tra i quali figurano le somme dovute a titolo di stipendio, salario e altre indennità relative al rappor-
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La platea dei soggetti destinatari è individuata in negativo attraverso la sottrazione di qualità giuridica, fatta eccezione per il consumatore viene definito come il debitore persona fisica che ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. Ai sensi dell’art. 31, comma 1, d.l. n. 179/2012, le start up innovative non possono essere assoggettate a procedure concorsuali fatta eccezione proprio per i procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio previsti dal Capo II, l. n. 3/2012. In riferimento all’assoggettamento alla disciplina del socio illimitatamente responsabile di società di persone cfr. in senso favorevole Trib. Prato, decreto 16 novembre 2016, contra, Trib. Milano, decreto 18 agosto 2016. Donzelli, Il procedimento di liquidazione del patrimonio in La nuova composizione delle crisi da sovraindebitamento, Il Civilista, Giuffrè, 2013. Per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli OCC, si rinvia a CNDCEC, Bozza di Regolamento degli Organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento, maggio 2016; v. anche D’Aquino Caramanico, Gli organismi di composizione della crisi, in La nuova composizione della crisi da sovraindebitamento, Il Civilista, Giuffrè, 2013; Filocamo, Gli organismi di composizione della crisi:l’assetto organizzativo, in Sovraindebitamento e usura, Ipsoa, 2012.
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to di lavoro8. In favore di questa categoria di soggetti, inoltre, la disciplina legale prevede anche una garanzia di soddisfazione integrale del credito9. Quale condizione di ammissibilità dell’accordo di composizione della crisi, infatti, il piano di ristrutturazione dei debiti deve assicurare l’intero pagamento dei crediti impignorabili ai sensi dell’art. 545 c.p.c., potendo tuttalpiù prevedere una dilazione del debito attraverso una moratoria fino ad un anno dalla sua omologazione10. In deroga alla regola generale, la soddisfazione non integrale dei crediti muniti di privilegio, pegno e ipoteca è prevista unicamente nel caso in cui l’Organismo di certificazione della crisi attesti la convenienza della soluzione rispetto alla liquidazione del patrimonio del debitore11. Secondo le previsioni di legge, la liquidazione dei beni del debitore può essere totale o parziale, con cessazione o con prosecuzione dell’attività di impresa. L’evenienza di una scelta liquidatoria dei beni del debitore per la soddisfazione dei crediti, evidentemente, sarà determinante in ordine alle possibilità di mantenimento dei rapporti di lavoro in essere. La fattibilità del piano di composizione della crisi sarà valuta preliminarmente dall’OCC che, raccolti i consensi necessari, procederà al suo deposito in tribunale, secondo le previsioni di cui all’art. 9, l. n. 3/2012, accompagnandolo con un’attestazione di fattibilità ed una relazione sul tasso di adesione dei creditori12. Ottenuta l’omologazione l’accordo diviene obbligatorio per tutti i creditori anteriori al momento in cui è stata eseguita la pubblicità, quand’anche non abbiano aderito all’accordo di composizione della crisi, ed esso produrrà automaticamente un effetto esdebitatorio nei confronti del soggetto sovraindebitato. Nel procedimento di liquidazione giudiziale, invece, il beneficio della liberazione dei debiti nei confronti dei creditori concorsuali e non soddisfatti sussisterà soltanto qualora il giudice valuti ed accerti la meritevolezza del debitore persona fisica sulla base dei comportamenti posti in essere.
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A tal proposito desta perplessità la posizione assunta dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con Interpello n. 2/2018, circa l’affermata impossibilità di adozione di diffide accertative nei confronti del soggetto alla procedura di sovraindebitamento da parte dell’Ispettorato nazionale del lavoro. 9 Ai sensi dell’art. 2751 bis, n. 1), c.c., i crediti di lavoro sono assistiti da privilegio generale sui beni mobili del debitore. Tra questi sono annoverabili le retribuzioni dirette (periodiche mensili) e differite (Trattamento di fine rapporto) dovute ai lavoratori subordinati, nonché le indennità sostitutive previste in ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro (ferie maturate non godute, permessi retribuiti maturati non goduti, etc.), i crediti maturati dal lavoratore per i danni conseguenti la mancata corresponsione dei contributi previdenziali e assicurativi da parte del datore di lavoro, nonché i crediti per il risarcimento del danno conseguente al licenziamento inefficace, nullo o annullabile. 10 La moratoria è prevista anche per i crediti assistiti da pegno o ipoteca, salvo che nel piano sia prevista la liquidazione del bene su cui insiste la causa di prelazione. 11 È resa possibile, in relazione ai tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, dell’IVA e delle ritenute operate e non versate, la sola dilazione del debito. 12 Il consenso deve essere comunicato dai creditori all’OCC almeno dieci giorni prima dell’udienza. In assenza di una esplicita manifestazione di dissenso, il consenso si ritiene ugualmente prestato (regola del silenzio assenso). Cfr. Quarticelli, Deposito della proposta, in La nuova composizione della crisi da sovraindebitamento, Il Civilista, Giuffrè, 2013.
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2. Strumenti di gestione della forza lavoro nelle imprese in stato di sovraindebitamento.
I minuziosi studi dottrinali sugli effetti dell’insolvenza sui rapporti di lavoro nelle procedure concorsuali c.d. maggiori hanno posto chiaramente in evidenza quali siano le principali problematiche di carattere giuslavoristico implicate nella gestione delle crisi di impresa13. Queste pertengono la conservazione e l’interruzione dei rapporti di lavoro coinvolti nelle procedure concorsuali, le cui modalità sono tornate al centro del dibattito a seguito dell’abrogazione dell’art. 3, l. n. 221/1993, che aveva dettato una disciplina “speciale” del rapporto di lavoro nell’impresa insolvente14. La crisi di solvibilità del datore di lavoro imprenditore, infatti, tende generalmente a caratterizzarsi quale crisi di occupazione, richiedendo all’operatore del diritto soluzioni in grado di contemperare l’interesse al posto di lavoro con quello all’esercizio di impresa, entrambi costituzionalmente garantiti15. Peraltro, sul piano logico ed ideologico, la gestione della crisi di impresa mostra tutta la sua ampiezza e complessità nell’ulteriore tensione finalistica, imposta dal diritto concorsuale, di salvaguardia del ceto creditorio, seppur in un’ottica di preservazione della capacità produttiva dell’azienda, a cui è indissolubilmente legato il destino occupazionale dei lavoratori che in essa operano. Il contesto, sul piano degli interessi e dei diritti in gioco, può dirsi invariato per i datori di lavoro imprenditori ammessi alle procedure concorsuali c.d. maggiori e per i datori di lavoro non fallibili, ora destinatari di specifici procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento, disciplinati dalla l. n. 3/2012. Come anzidetto, l’economia del presente contributo impone un’analisi rivolta esclusivamente alla posizione giuridica dei debitori datori di lavoro non fallibili, al fine di analizzare i profili lavoristici della procedura concorsuale a loro dedicata.
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Ex pluris cfr. Magnani, Crisi di impresa tra diritto del lavoro e mercato, in ADL, 2017, 6, 1359 ss.; Marazza, Garofalo, Insolvenza del datore di lavoro e tutele del lavoratore, Giappichelli, 2015; Tullini, Tutela del lavoro nella crisi d’impresa e assetto delle procedure concorsuali: prove di dialogo, in RIDL, 2014, II, 198 ss.; A. Corrado, D. Corrado, Crisi di impresa e rapporti di lavoro, Giuffrè, 2017; Vallauri, Il lavoro nella crisi dell’impresa. Garanzia dei diritti e salvaguardia dell’occupazione nel fallimento e nel concordato preventivo, Franco Angeli, 2013; Chieco, La disciplina delle eccedenze di personale nelle procedure concorsuali, in RGL, 2001, 186; Persiani, L’interesse del lavoratore alla conservazione del posto e crisi dell’impresa, in GComm, 1979, I, 262; Ferraro, Crisi dell’impresa, procedure concorsuali e tutela dei lavoratori, in RIDL, 1985, I, 142 ss. 14 Da ultimo Lassandari, I licenziamenti e le procedure concorsuali, VTDL, 2018, 1, anche alla luce dell’abrogazione dell’art. 3, legge n. 223/1991, torna molto attentamente sull’interpretazione dell’art. 72 l.f., in materia di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa, sostenendone l’inapplicabilità ai rapporti di lavoro subordinato in contrasto con la dottrina maggioritaria che attribuisce alla disposizione normativa una portata generale “da prendere in considerazione ove manchi una disciplina speciale derogatoria per i singoli rapporti giuridici pendenti”, così Marazza, La disciplina (speciale) del rapporto di lavoro nell’impresa insolvente, op. cit., 9; la tesi della “sospensione” delle regole del lavoro per le imprese sottoposte a procedura concorsuale era già stata stigmatizzata da Tullini, op. cit., 203 e ss.; precedentemente, sul ricorso alle integrazioni salariali in costanza di fallimento v. Miscione, Cassa integrazione e tutela della disoccupazione, Jovene, 1978, 25 ss.; Cinelli, Procedure esecutive concorsuali, tutela dell’occupazione e istituti previdenziali, in DL, 1981, I, 13 ss.; M. De Luca, I diritti dei lavoratori nel fallimento, cit., 651; Copani, Fallimento e Cassa integrazione guadagni straordinaria, in GI, 1989, IV, 266 ss.; Liso, La gestione del mercato del lavoro: un primo commento alla l. n. 223 del 1991, in LI, 1992, suppl. n. 12, 9 ss. 15 V. Dell’Olio, Crisi di impresa e crisi di occupazione, in DL, 1983, I, 3.
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2.1. I datori di lavoro ammessi alla CIG. Nell’apparato normativo dedicato alla composizione della crisi da sovraindebitamento ed alla liquidazione giudiziale dell’impresa non si rintraccia alcuna previsione speciale di carattere lavoristico e tale lacuna non sembra colmabile attraverso il ricorso alle regole previste per la gestione dei rapporti di lavoro nelle altre procedure concorsuali (fallimento o concordato preventivo) per quanto presentino con essa analogie16. L’assenza di “speciali” strumenti di gestione della forza lavoro nei procedimenti descritti dalla l. n. 3/2012, sembra il risultato di una precisa scelta del legislatore che, sotto il profilo lavoristico, non ha ritenuto che la condizione di sovraindebitamento del soggetto non fallibile abbisognasse di una disciplina diversa da quella ordinariamente apprestata per i datori di lavoro in crisi. Tantomeno la l. n. 3/2012 ha previsto “automatismi” di carattere generale in ordine alla sospensione o allo scioglimento dei contratti pendenti come nel fallimento con l’art. 72 l.f. che, secondo l’interpretazione della dottrina e della giurisprudenza maggioritaria, opererebbe anche con riferimento alle obbligazioni di lavoro. In buona sostanza, nella prospettiva di esercizio del potere datoriale di incidere sul proprio assetto organizzativo, si può affermare che nessun nuovo significato è attribuito dall’ordinamento alla nozione di “crisi da sovraindebitamento”, con l’ulteriore implicazione che i rapporti di lavoro in essere restano, di per sé, insensibili a questo tipo di vicende concorsuali e continuano ad esplicare i loro effetti senza variazioni. Per la loro gestione, dunque, il datore di lavoro “debitore” dovrà ricorrere al comune “armamentario” giuridico previsto per la gestione della crisi di impresa se, com’è ovvio, ne avrà verificato i presupposti legali. Nei processi di riorganizzazione aziendale, infatti, l’assenza di una definizione legale del concetto di crisi rappresenta la principale difficoltà per i datori di lavoro che intendano avvalersi delle prerogative loro riconosciute dall’ordinamento in ambito lavoristico e previdenziale17. Nel diritto concorsuale la lacuna è supplita dal contributo che la legge fallimentare (ex art. 5, comma 2, l.f.) e quella sul sovraindebitamento (ex art. 6, comma 2, lett. a), l. n. 3/2012) offrono alla definizione di “crisi”, connotandola come la condizione del debitore non più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente. In relazione al sistema di ammortizzatori sociali, invece, l’assenza di una nozione legale è parzialmente colmata dalle indicazioni contenute nel decreto ministeriale di adozione dei criteri di approvazione dei programmi di “crisi aziendale” ai fini della concessione del trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria (di seguito CIGS), ai sensi dell’art. 21, comma 3, d.lgs. n. 148/201518.
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Diversamente, Gaeta, Tutela dei crediti e continuità dei rapporti di lavoro nelle crisi da sovraindebitamento, in Studi senesi, 2013, vol. 125, fasc. 2, 256-265, propende per l’applicazione analogica. 17 Giova segnalare che la più volte citata legge delega n. 155/2017, nell’ambito del progetto di riforma delle discipline dell’insolvenza e della crisi di impresa, pone come necessaria l’individuazione di specifici indicatori finanziari al ricorrere dei quali sia obbligatorio avviare la procedura di allerta finalizzata ad incentivare l’emersione anticipata della crisi. Tali indici dovranno essere individuati considerando, in particolare, il rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, l’indice di rotazione dei crediti, l’indice di rotazione del magazzino e l’indice di liquidità. 18 V. Aniballi, Crisi di impresa e sospensione dei rapporti di lavoro, in LR, 2011, 129, 1; Orlandini, Stato di crisi aziendale e cassa
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Il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, operata con il d.lgs. n. 148/2015, ha comportato la definizione di nuovi criteri per l’approvazione della CIGS che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha emanato con decreto ministeriale 13 gennaio 2016, n. 94033. Rispetto al presupposto causale di accesso all’integrazione salariale per “crisi aziendale” il decreto (ex art. 2, d.m. citato), richiede che: a).dagli indicatori economico-finanziari di bilancio (fatturato, risultato operativo, risultato d’impresa, indebitamento), complessivamente considerati e riguardanti il biennio precedente, emerga un andamento a carattere negativo ovvero involutivo; b). sia verificato, in via generale, il ridimensionamento o, quantomeno, la stabilità dell’organico aziendale nel biennio precedente l’intervento della CIGS. Deve, altresì, riscontrarsi, di norma, l’assenza di nuove assunzioni, con particolare riguardo a quelle assistite da agevolazioni contributive e/o finanziarie19. In via di principio, la nozione di crisi che emerge dal decreto ministeriale pare coerente con quella desumibile dalle leggi economiche che presiedono alla corretta gestione dell’impresa (economica, finanziaria, patrimoniale), ma che evidentemente non può ritenersi accertata, per i fini che qui interessano, dalla sola condizione di sovraindebitamento, quand’anche da questa consegua l’impossibilità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni20. L’indebitamento, infatti, è uno soltanto degli indicatori economico finanziari di bilancio oggetto di complessiva valutazione perché l’andamento dell’impresa possa dirsi “involutivo”, per quanto l’ulteriore circostanza richiesta per lo status di soggetto sovraindebitato, consistente nell’impossibilità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni, possa assumere un valore quantomeno indiziario di una crisi economico-finanziaria in atto21. Per altri versi, qualora il debitore datore di lavoro fosse definitivamente incapace di soddisfare le proprie obbligazioni, non dovrebbe potersi dubitare del suo conclamato stato di insolvenza. L’insolvenza, infatti, è la manifestazione più grave della crisi, sussistendo allorquando le condizioni di squilibrio economico-finanziario siano tali da impedire ogni prospettiva di recupero22. La condizione del soggetto in stato di insolvenza, però, apre una serie di profili problematici in ordine alle possibilità di accesso agli ammortizzatori sociali
integrazione guadagni straordinaria: vincoli sostanziali e procedurali di fronte alla “domande” comunitarie, in RDSS, 2006, 142; diffusamente sull’istituto della CIGS si rinvia a Garofalo, La cassa integrazione guadagni, in Persiani, Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, in Marazza (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, CEDAM, vol. IV, Tomo II, 2012, 2044 ss.; Garofalo, La riforma della cigs, in Balletti, Garofalo (a cura di), La riforma della cassa integrazione guadagni nel Jobs act 2, Cacucci, 2016, 80 ss.; Garofalo, La nuova disciplina della cassa integrazione guadagni (d.lgs. 14 settembre 2015, n. 148), in Santoni, Ricci, Santucci (a cura di), Il diritto del lavoro all’epoca del Jobs Act, EDS, 2016, 309 ss. 19 La regolamentazione ministeriale precisa che «nel caso in cui l’impresa abbia proceduto ad assumere personale, ovvero intenda assumerne durante il periodo di fruizione della cassa integrazione guadagni straordinaria, deve motivare la necessità delle suddette assunzioni, nonché la loro compatibilità con la disciplina normativa e le finalità dell’istituto della CIGS». 20 Sull’identificazione e classificazione delle condizioni di crisi aziendale si rinvia a CNDCEC, Informativa e valutazione nella crisi d’impresa, 30 ottobre 2015 e a CNDCEC – SIDREA, Linee guida per la valutazione di aziende in crisi, 15 dicembre 2016. 21 Cfr. amplius Caiafa, Le vicende economiche dell’impresa in crisi: diritto del lavoro comunitario e tutela del lavoratore, in Diritto fallimentare, 2005, 541 e ss. 22 V. Caiafa, La legge fallimentare riformata e corretta, Cedam, 2008, 215-216.
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a sostegno del reddito dei lavoratori in costanza di rapporto poiché, qualora da questa si desumesse l’assenza di ogni residua funzionalità di impresa, l’accesso alla CIGS sarebbe addirittura precluso. In proposito, è opportuno ricordare che l’art. 2, comma 70, l. n. 92/2012 ha espunto dall’ordinamento la variante concorsuale dell’integrazione salariale, abrogando l’art. 3, l. n. 221/1993 con effetto dal 1° gennaio 2016, cosicché non è più possibile che l’autorizzazione di trattamenti di integrazione salariale consegua dalla sola ammissione dell’impresa richiedente alle procedure concorsuali23. Ad ogni modo, per completezza di ragionamento, si dubita fortemente che, nell’astratta ipotesi di ultravigenza dell’art. 3, l. n. 223/1991, il suo campo di applicazione avrebbe potuto essere esteso in via analogica anche alla nuova fattispecie concorsuale del “sovraindebitamento”, considerato che il legislatore ha lì operato un’elencazione tassativa ed esclusiva delle procedure concorsuali ammesse alla CIG. Questa precisazione, torna utile a livello sistematico per comprendere la nuova impostazione degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto all’indomani dei decreti attuativi del Jobs Act 224. Con l’emanazione del d.lgs. n. 148/2015 l’istituto della CIG è tornato alla sua più genuina vocazione di strumento a sostegno dei lavoratori dell’impresa di cui residui reale capacità produttiva e possibilità di salvaguardia dei livelli occupazionali25. In coerenza con il nuovo impianto normativo, secondo i criteri del decreto ministeriale 13 gennaio 2016, n. 94033, non basterà accertare lo stato di “crisi” per ottenere l’intervento di integrazione salariale poiché questo è ulteriormente subordinato alla presentazione da parte dell’impresa, di un piano di risanamento che, sul presupposto delle cause che hanno determinato la situazione di crisi aziendale, definisca gli interventi correttivi intrapresi, o da intraprendere, volti a fronteggiare gli squilibri di natura produttiva, finanziaria o gestionale per ciascuna unità aziendale/settore di attività dell’impresa interessata dall’intervento straordinario di integrazione salariale26. In particolar modo, il programma di risanamento
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Ai sensi dell’abrogato art. 3, legge n. 223/1991, il trattamento di integrazione salariale poteva essere concesso, su domanda del curatore, del liquidatore o del commissario, per un periodo non superiore a dodici mesi, ai lavoratori delle imprese soggette alla disciplina dell’intervento straordinario di integrazione salariale, nei casi di dichiarazione di fallimento, di emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all’amministrazione straordinaria, quando sussistevano prospettive di continuazione o di ripresa dell’attività e di salvaguardia, anche parziale, dei livelli di occupazione, da valutare in base a parametri oggettivi definiti con decreto ministeriale 4 dicembre 2012 n. 70750 del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Il trattamento straordinario di integrazione salariale era altresì concesso nel caso di ammissione al concordato preventivo consistente nella cessione dei beni. In caso di mancata omologazione, il periodo di integrazione salariale fruito dai lavoratori era detratto da quello previsto nel caso di dichiarazione di fallimento. Per un approfondimento sull’ipotesi di amministrazione straordinaria si veda Renga, Cassa integrazione guadagni e testo unico: ossimori e vecchi merletti, in LD, 2017, 2, 223-224. 24 Il termine Jobs Act 2 è l’anglicismo americanizzante con il quale si è scelto di indicare il disegno riformatore avviato con la legge delega n. 183/2014 e attuato da una pluralità di successivi decreti legislativi. Per la loro compiuta disamina cfr. Aa.Vv., in Balletti, Garofalo (a cura di), La riforma della cassa integrazione guadagni nel Jobs act 2, Cacucci, 2016; Aa.Vv., in Ghera, Garofalo (a cura di), Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro nel Jobs act 2, Cacucci, 2016; Aa.Vv., in Ghera, Garofalo (a cura di), Semplificazioni–sanzioni–ispezioni nel Jobs act 2, Cacucci, 2016; Aa.Vv., in Ghera, Garofalo (a cura di), Le tutele per i licenziamenti e per la disoccupazione involontaria nel Jobs act 2, Cacucci, 2015. 25 Per Vallauri, op. cit., 77, con l’abrogazione dell’art. 3, l. n. 223/1991, l’intervento CIGS perde la connotazione prettamente assistenzialistica. 26 Cfr. circolari MLPS, n. 24/2015; nn. 1, 24, 27/2016; n. 20/2017; nonché circ. INPS n. 9/2017. Da ultimo v. circ. MLPS n. 4/2018 la quale, nel precisare che in linea generale le procedure concorsuali che legittimano attualmente l’accesso al trattamento di CIGS in capo alle aziende interessate sono le procedure concorsuali con prosecuzione dell’esercizio di impresa, ribadisce la vigenza del regime di
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dovrà essere finalizzato a garantire la continuazione dell’attività e la salvaguardia, seppure parziale, dell’occupazione27. Così, il datore di lavoro sovraindebitato che intenda sospendere i rapporti di lavoro in essere nell’ambito delle procedure di cui alla l. n. 3/2012, potrà domandare l’intervento della cassa integrazione a condizione che ci siano reali possibilità di salvaguardia dell’occupazione tramite la continuazione (diretta) dell’attività di impresa, quand’anche la sua garanzia dipenda in tutto o in parte da un soggetto terzo e diverso rispetto al richiedente l’intervento di CIGS (continuazione indiretta). Nel caso ipotizzato si comprende, allora, come debba necessariamente esserci coerenza, se non proprio integrazione, tra il piano di composizione della crisi da sovraindebitamento ed il piano di risanamento CIGS, in quanto la credibilità di entrambi sarà diretta implicazione della loro idoneità a mantenere integro il complesso aziendale sia in termini dimensionali che di capacità di reddito. D’altronde, il diritto fallimentare e quello del lavoro convergono proprio su questo obiettivo, in quanto soltanto la conservazione della potenzialità produttiva dell’impresa può soddisfare tutti i soggetti coinvolti nella procedura, siano creditori o portatori di diversi interessi28. Ed invero, rispetto alla tradizionale visione che «si limitava a considerare solo l’interesse creditorio del lavoratore, come nel caso della garanzia del privilegio e della prededucibilità, nel diritto concorsuale degli ultimi anni «è diventato prevalente l’interesse al mantenimento del posto di lavoro, privilegiando soluzioni conservative rispetto a quelle meramente liquidatorie»29. D’altro canto il diritto del lavoro nella prospettiva di preservare l’attività di impresa ed i livelli occupazionali ha abbandonato la vecchia logica “puramente assistenziale” tipica dell’intervento di integrazione salariale in costanza di rapporto stabilendo un nuovo punto di contatto tra i settori normativi30. Ai sensi dell’art. 8, comma 4, l. n. 3/2012, pertanto, il debitore potrà negoziare un accordo di composizione della crisi che preveda la prosecuzione dell’attività d’impresa, sia in capo al debitore che attraverso la cessione dell’azienda in esercizio, con contestuale intervento della cassa integrazione guadagni, qualora, in presenza di eccedenza temporanea di personale, abbia necessità di migliorare nell’immediato gli indici economico-finanziari attraverso il contenimento dei costi e, nello specifico, del costo (fisso) del personale, an-
esonero dal versamento del contributo addizionale di cui all’art. 8, comma 8 bis, d.l. n. 86/1988, individuando la sua esatta decorrenza in riferimento alle diverse fattispecie. 27 Occorre ricordare che ai sensi del d.m. 13 gennaio 2016, n. 94033, «non sono presi in esame, in via generale, i programmi di crisi aziendale di cui al comma 1, presentati da imprese che: a) abbiano iniziato l’attività produttiva nel biennio antecedente alla richiesta di CIGS; b) non abbiano effettivamente avviato l’attività produttiva; c) abbiano subito significative trasformazioni societarie nel biennio antecedente la richiesta di CIGS, salvo che tali trasformazioni siano avvenute tra imprese che presentano assetti proprietari sostanzialmente coincidenti, con la preminente finalità del contenimento dei costi di gestione, nonché nei casi in cui, pur in presenza di assetti proprietari non coincidenti, tali trasformazioni comportino, per le imprese subentranti azioni volte al risanamento aziendale e alla salvaguardia occupazionale». 28 V. Magnani, op. cit., 1361; riflette sull’ipotesi di confliggenza di interessi A. Corrado, Ammortizzatori sociali ed operazioni di restructuring e turnaround: punti critici alla luce della recente riforma fallimentare e della disciplina comunitaria, AIDP, 2011. 29 Cit. Piccinini, Mancini, Diritto del lavoro e crisi d’impresa: attualità e prospettive, in Archivio Giuridico, vol. CCXXXV, 2015, fasc. 4, 493-545. 30 Sul punto v. Tullini, op. cit., 198-199.
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che al fine di soddisfare le esigenze della massa creditizia. Al di là dei benefici di tipo economico, l’intervento potrebbe avere un immediato effetto positivo a livello finanziario richiedendo al Ministero del lavoro l’autorizzazione al pagamento diretto dei trattamenti di integrazione salariale da parte dell’INPS, ai sensi dell’art. 7, comma 5, d.lgs. n. 148/201531. Questa possibilità è ammessa in via straordinaria per le imprese in difficoltà finanziaria, condizione in cui è verosimile versino i datori di lavoro in crisi da “sovraindebitamento”, in deroga alla regola generale secondo la quale il pagamento dell’integrazione salariale è generalmente anticipato dal datore di lavoro e successivamente rimborsato dall’Inps secondo le modalità di conguaglio fra contributi dovuti e prestazioni corrisposte (ex art. 7, comma 2). Evidentemente, in tali casi, il datore di lavoro debitore nel predisporre il piano di risanamento della crisi dovrà tenere conto delle tempistiche dettate per l’accesso ai trattamenti di integrazione salariale nonché ai relativi limiti di durata ed intensità. In relazione alla sua durata, l’art. 22, d.lgs. n. 148/2015, prevede, per la specifica causale di ricorso “crisi aziendale”, la concessione della CIGS per un massimo di 12 mesi anche continuativi, cosicché andrà verificato preliminarmente che la fruizione di periodi di cassa integrazione guadagni sia richiesta nei limiti massimi di concessione nonché, in caso di più richieste di trattamento, che il nuovo intervento CIGS giunga dopo un periodo pari a due terzi di quello coperto dalla precedente autorizzazione (v. art. 22, comma 2, d.lgs. n. 148/2015)32. Per giunta, l’art. 22, comma 4, d.lgs. n. 148/2015, nel caso specifico di crisi aziendale, fissa un limite all’entità della sospensione, precisando che possono essere autorizzate sospensioni dal lavoro nel limite dell’80 per cento delle ore lavorabili nell’arco di tempo coperto dalla concessione CIGS33. Per quanto riguarda, invece, le tempistiche occorre tenere presente che la richiesta di trattamento CIGS è subordinata all’esperimento di una fase di consultazione sindacale i cui tempi sono scanditi dall’art. 24, d.lgs. n. 148/2015. L’impresa è tenuta a comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali o alla rappresentanza sindacale unitaria, nonché alle articolazioni territoriali delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative
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Come precisato dall’INPS nella circ. n. 197/2015 e n. 139/2016 è ulteriormente ammessa la possibilità di pagamento diretto dei trattamenti di Cassa integrazione guadagni ordinaria qualora il datore di lavoro richiedente versi in comprovate difficoltà finanziarie e presenti la documentazione obbligatoria, alla competente sede INPS, di cui all’allegato 2 della circ. n. 197/15 da cui si evincano le difficoltà finanziarie dell’azienda. Per quanto concerne la misura del trattamento, l’importo riconosciuto ai destinatari della prestazione è pari all’80 per cento della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate, comprese fra le ore zero ed il limite dell’orario contrattuale, fermi restando i massimali di trattamento di integrazione salariale di cui all’ art. 3, comma 5, d.lgs. n. 148/15. Come precisato dalla circ. INPS n. 36/2017, attualmente, per retribuzioni lorde inferiori o uguali a 2.102,24 Euro il massimale di trattamento lordo ammonta a 971,71 Euro, mentre per retribuzioni lorde superiori a 2.102,24 Euro il massimale di trattamento è pari a 1.167,91 Euro. 32 Oltre ai limiti di durata per singola causale di ricorso, la normativa prevede anche un limite massimo complessivo di trattamento. Ai sensi dell’art. 4, d.lgs. n. 148/2015, si prevede che per ciascuna unità produttiva la durata massima complessiva dei trattamenti di integrazione salariale, data dalla somma delle autorizzazioni per CIGO e CIGS, non possa superare i 24 mesi in un quinquennio mobile. Tale tetto massimo è elevato a 30 mesi in un quinquennio mobile per le imprese industriali e artigiane dell’edilizia e affini o esercenti attività di escavazione e/o lavorazione di materiale lapideo. 33 V. circ. MLPS n. 16/2017.
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a livello nazionale, le cause di sospensione o di riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile, il numero dei lavoratori interessati. Entro tre giorni dalla predetta comunicazione su domanda dell’impresa o delle rappresentanze sindacali, prende avvio l’esame congiunto della situazione aziendale34. L’intera procedura di consultazione, attivata dalla richiesta di esame congiunto, si esaurisce entro i 25 giorni successivi a quello in cui è stata avanzata la richiesta medesima, ridotti a 10 per le imprese che occupano fino a 50 dipendenti35. Considerata la compatibilità delle tempistiche e della convergenza finalistica della fattispecie concorsuale con quella lavoristica, la CIGS potrebbe, medio tempore, rivelarsi non soltanto uno strumento di rilevante sostegno nel periodo intercorrente tra la presentazione della proposta di accordo e la relativa omologazione ma potrà concorrere al positivo esito dell’omologazione dell’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento36. Per converso, preconizzare debitamente il ricorso alla procedura concorsuale per sovraindebitamento all’interno del piano di risanamento della crisi aziendale sarà necessario per la sua positiva valutazione da parte del Ministero del lavoro per l’autorizzazione CIGS. Infatti, è espressamente richiesto dalla normativa ministeriale che il piano di risanamento da presentare al Ministero definisca gli interventi correttivi intrapresi, o da intraprendere, volti a fronteggiare gli squilibri di natura finanziaria (oltre che produttiva o gestionale)37. Indagate le possibilità di “dialogo” tra procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento e quella di CIGS per la specifica causale di “crisi”, è doveroso rammentare un’ulteriore imprescindibile condizione per l’accesso alla cassa integrazione guadagni straordinaria. L’art. 21, d.lgs. n. 148/2015, in aggiunta ai casi di riorganizzazione aziendale e crisi aziendale ha previsto che la CIGS possa essere richiesta tramite stipulazione di contratti di solidarietà difensiva, ovvero accordi di riduzione dell’orario di lavoro, sottoscritti con le rappresentanze sindacali aziendali e le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, finalizzati ad evitare, in tutto o in parte, la dichiarazione di esubero del personale anche attraverso un suo più razionale impiego, secondo la disciplina dettata dall’art. 21, comma 538. “Lavorare meno lavorare tutti” potrebbe essere lo
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Costituiscono oggetto dell’esame congiunto il programma che l’impresa intende attuare, comprensivo della durata e del numero dei lavoratori interessati alla sospensione o riduzione di orario e delle ragioni che rendono non praticabili forme alternative di riduzioni di orario, nonché delle misure previste per la gestione delle eventuali eccedenze di personale, i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere, che devono essere coerenti con le ragioni per le quali è richiesto l’intervento, e le modalità della rotazione tra i lavoratori o le ragioni tecnico-organizzative della mancata adozione di meccanismi di rotazione. 35 La domanda di concessione di trattamento straordinario di integrazione salariale è presentata entro sette giorni dalla data di conclusione della procedura di consultazione sindacale o dalla data di stipula dell’accordo collettivo aziendale relativo al ricorso all’intervento e deve essere corredata dell’elenco nominativo dei lavoratori interessati dalle sospensioni o riduzioni di orario. 36 In tal senso l’art. 12, comma 3, l. n. 3/2012, in base al quale l’omologazione dell’accordo deve intervenire nel termine di sei mesi dalla presentazione della proposta. Ma si veda anche l’art. 9, comma 3 ter, della stessa legge, ai sensi del quale il giudice può concedere un termine perentorio non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni alla proposta e produrre nuovi documenti, a dimostrazione della voluntas legis di contenere i procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento entro tempistiche celeri e definite. 37 Cfr. Circ MLPS n. 21/2017. 38 La prima regolamentazione dei contratti di solidarietà nell’ambito del sistema di ammortizzatori sociali si rinviene nella l. n. 863/1984. Successivamente una nuova distinta figura di contratto, finalizzato a evitare o ridurre le eccedenze di personale nel corso di
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slogan d’antan in grado di esemplificare la ratio dell’istituto fondato sul “sacrificio solidaristico” di tutti i lavoratori con qualifiche di cui si sia dichiarata un’eccedenza. In aderenza al dettato normativo il sacrificio richiesto ai lavoratori in termini di riduzione dell’orario è soggetto a due precise limitazioni, una di carattere collettivo e l’altra individuale: la riduzione dell’orario di lavoro complessivo normalmente osservato da tutto il personale interessato dalla solidarietà non può essere superiore al 60 per cento; mentre il limite massimo di riduzione dell’orario di lavoro di ciascun lavoratore (singolarmente considerato), in relazione all’intero periodo per il quale è stipulato il contratto di solidarietà, è pari al 70 per cento. A questo regime di intervento, connotato da minore “intensità” (almeno in ipotesi) per i lavoratori rispetto a quello preconizzato con l’intervento di CIG per crisi, fa da contraltare per il datore di lavoro un più generoso regime di durata del trattamento di integrazione salariale per solidarietà fino a 24 mesi, anche continuativi, in un quinquennio mobile39. Il ricorso all’istituto della solidarietà difensiva può essere valutato dai datori di lavoro rientranti nel campo di applicazione del Titolo I, d.lgs. n. 148/2015, autonomamente rispetto alle altre causali di ricorso CIGS, venendo a costituire uno strumento ulteriore di gestione dell’eccedenza di personale in caso di crisi aziendale e/o da sovraindebitamento. D’altronde, dal nuovo sistema di ammortizzatori sociali, emerge sotto vari aspetti la predilezione del legislatore per l’istituto della solidarietà difensiva. Questa si manifesta, in primis, nell’obbligo legale di verifica preliminare della sua possibile adozione a discapito delle altre causali CIG, per poi sostanziarsi in incentivi economici e normativi in favore dei datori di lavoro che abbiano stipulato contratti di solidarietà40. In proposito, l’art. 24, comma 4, d.lgs. n. 148/2015, richiede espressamente che, salvo il caso di richieste di trattamento presentate da imprese edili e affini, nella fase di consultazione sindacale le parti devono espressamente dichiarare la non percorribilità della causale di contratto di solidarietà prima di ricorrere alle altre causali CIGS previste dall’art. 21, comma 1. Rispetto ai bisogni dell’impresa in crisi da sovraindebitamento, l’esistenza di un canale “prioritario” di integrazione salariale non sembra creare particolari problemi di gestione del personale. Difatti, i criteri di concessione della CIGS tramite contratto di solidarietà
procedure di licenziamento collettivo venne introdotta dall’art. 5, comma 5, l. n. 236/1993 che estendeva la disciplina alle imprese non inferiori a 16 dipendenti in chiave esclusivamente pubblicistica mentre il comma 8 dell’art. 5, l. n. 236/1993, prevedeva una disciplina speciale per i datori di lavoro artigiani di qualsiasi dimensione con una partnership tra pubblico e privato. Una prima analisi della disciplina in Arrigo, I contratti di solidarietà, in Aa.Vv. (a cura di), Il diritto del lavoro negli anni ’80, ESI, 1988, II, 139 ss.; Curzio, I contratti di solidarietà, in Aa.Vv. (a cura di), Crisi occupazione e legge, Cacucci, 1985, 19 ss. 39 La durata della solidarietà deve essere ovviamente oggetto di negoziazione e formalizzazione nell’accordo di riduzione dell’orario con le rappresentanze sindacali. L’art. 22, comma 5, d.lgs. n. 148/2015, inoltre, stabilisce che i trattamenti aventi come causale la stipula di un contratto di solidarietà vengono computati, ai fini del calcolo della durata massima complessiva di cui all’articolo 4, nella misura della metà per la parte non eccedente i 24 mesi e per intero per la parte eccedente. Pertanto è possibile raggiungere anche i 36 mesi continuativi di fruizione del trattamento. 40 Per quanto concerne gli incentivi di carattere economico si rammenta che con decreto interministeriale n. 2 del 19 settembre 2017, il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, ha disposto il riconoscimento della riduzione contributiva del 35 per cento in favore delle imprese che hanno stipulato contratti di solidarietà ai sensi dell’art. 21, comma 1, lett. c, d.lgs. n. 148/2015, nel 2016 ovvero per quelli stipulati entro il 30 novembre 2017; sempre sul versante economico, la norma prevede che il TFR dei lavoratori coinvolti nella solidarietà difensiva resti a carico della CIG, differentemente da quanto accade per le altre causali di ricorso.
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difensiva, sembrano meno stringenti di quelli dettati per la causale “crisi aziendale”, richiedendo essenzialmente che l’esubero di personale debba essere motivato e quantificato41. Determinante, a tal fine, sarà la fase di consultazione sindacale e di negoziazione dell’accordo nel quale dovranno essere esplicitate le ragioni dell’eccedenza di personale che ben potranno essere motivate sulla base degli stessi presupposti che legittimerebbero la CIGS per “crisi aziendale”. Pertanto, in considerazione delle sue modalità di funzionamento, la verifica sulla preventiva percorribilità della c.d. solidarietà difensiva si dovrebbe essenzialmente risolvere nell’accertamento delle esigenze organizzative aziendali di riduzione dell’orario di lavoro non oltre l’entità massima complessiva del 60% piuttosto che della sospensione del personale a “zero ore”. In quest’ultima ipotesi, è evidente che l’istituto della solidarietà sarà incompatibile rispetto alle esigenze di gestione della residua forza lavoro e da questo ne scaturirà la legittima percorribilità della causale CIGS per “crisi aziendale”.
2.2. I datori di lavoro al di fuori del campo di applicazione CIG. Si è avuto già modo di osservare come la platea dei soggetti ammessi alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento sia molto variegata. In particolare, essendo i destinatari individuati per sottrazione di qualità giuridica rispetto a quelli delle procedure concorsuali maggiori, è molto probabile che non detengano i requisiti soggettivi dimensionali o tipologici per essere ammessi all’intervento di cassa integrazione. Questa asimmetria tra perimetri di applicazione degli istituti, però, è ormai colmata dal nuovo sistema di ammortizzatori sociali come rivisto dal Jobs Act 2. In attuazione della delega ricevuta per il riordino e la razionalizzazione della disciplina in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, fino ad allora particolarmente stratificata, il governo ha emanato il d.lgs. n. 148/2015 optando per un preciso sistema basato su due pilastri: quello della cassa integrazione e quello dei fondi di solidarietà42. Al di fuori del campo di applicazione dell’istituto della cassa integrazione, il fulcro del sistema di tutela del reddito in costanza di rapporto è oggi costituito dai nuovi fondi di solidarietà, disciplinati dagli artt. 26 e ss., d.lgs. n. 148/2015, e finalizzati ad assicurare ai lavoratori impiegati nei settori che «non rientrano nell’ambito di applicazione del Titolo I» del d.lgs. n. 148/2015, ovvero quelli non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale, una tutela nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa per le stesse cause previste dalla normativa per il ricorso alla CIG ordinaria o straordinaria43. L’attuale impianto normativo, ricalcando quello introdotto dall’art. 3, comma 4 e ss., legge n. 92/2012, istituzionalizza un sistema di ammortizzatori sociali a carattere obbliga-
41
Cfr. circ. MPLS n. 21/2017. Per un primo commento al d.lgs. n. 148/2015, v. amplius Aa.Vv., in Balletti, Garofalo (a cura di), op. cit. 43 Secondo Ferraro, Ammortizzatori sociali e licenziamenti collettivi nella riforma del mercato del lavoro, in MGL, 2012, 491, la valorizzazione dei fondi di solidarietà rappresenta la terza direttrice lungo la quale si sviluppa la riforma degli ammortizzatori sociali, dopo la prima corrispondente alla razionalizzazione della CIG e la seconda legata alla nuova ASpI. 42
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torio, complementare a quello pubblicistico “puro”, che implica il coinvolgimento dell’autonomia collettiva con varia intensità a seconda della tipologia del fondo di solidarietà considerato44. La norma, infatti, ne prevede cinque tipi riconducibili a tre tipologie alternative tra loro, la cui “gerarchia” operativa è stabilita per via eteronoma. La prima tipologia è quella dei Fondi di solidarietà bilaterali (d’ora in poi anche FSB), di cui all’art. 26, d.lgs. n. 148/2015, costituiti dalle organizzazioni sindacali e imprenditoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale attraverso la stipula di accordi e contratti collettivi, anche intersettoriali, aventi a oggetto la costituzione di fondi di solidarietà bilaterali, con la finalità di assicurare ai lavoratori una tutela in costanza di rapporto di lavoro nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa per le cause previste dalle disposizioni di cui al Titolo I (v. l’art. 26, comma 1). Attorno a tale tipologia di fondi anche detti “inpsizzati” o a bilateralità “spuria”, il legislatore della riforma ha costruito il nuovo sistema di welfare negoziale, ed alla loro disciplina riconduce anche quella di altri due (sotto)tipi di fondo: il “Fondo territoriale intersettoriale delle province autonome di Trento e di Bolzano” (ex art. 40) e quello dei Fondi di solidarietà “facoltativi”, ovvero quelli che possono essere istituti anche «in relazione a settori di attività e classi di ampiezza dei datori di lavoro che già rientrano nell’ambito di applicazione della CIG (di cui all’art. 26, comma 10, d.lgs. n. 148/2015)45. La seconda tipologia è quella dei Fondi di solidarietà bilaterali alternativi (in avanti anche FSBA), di cui all’art. 27, d.lgs. n. 148/2015, detti a “bilateralità pura”, rappresentati dalle preesistenti forme “consolidate” di bilateralità, ai sensi dell’art. 3, comma 14, l. n. 92/2012, che hanno adeguato gli statuti alle finalità ed alla disciplina dei fondi bilaterali alla data di entrata in vigore del decreto. Sono quelli dell’artigianato e della somministrazione di lavoro, ovvero dei fondi interprofessionali di cui all’art. 118, l. n. 388/2000, o del fondo di cui all’art. 12, d.lgs. n. 276/2003. La terza tipologia è rappresentata dal Fondo di solidarietà residuale (anche FSBR) istituito con decreto del Ministero del lavoro di concerto con quello dell’economia46, che dal 1 gennaio 2016 ha assunto, ai sensi di legge, la nuova denominazione di Fondo di integrazione salariale (di seguito anche FIS), la cui disciplina è qui oggetto di specifico approfondimento47. La varietà di tipologie e la pluralità di fondi di solidarietà esistenti, conseguenza della possibile istituzione/costituzione di un numero imprecisato di Fondi di solidarietà bilaterali di primo tipo, non consente un’analisi dettagliata del fenomeno e di tutte le sue possibili
44
Laforgia, Gli ammortizzatori sociali di fonte collettiva: i fondi di solidarietà, in Chieco (a cura di), Flessibilità e tutele nel lavoro, Cacucci, 2013, 567, inserisce questi strumenti di sostegno al reddito nel più generale solco del welfare negoziale. 45 Alla disciplina dei FSB si sono adeguati anche i fondi di solidarietà già costituiti ai sensi dell’art. 2, comma 28, l. n. 662/1996. 46 Per Liso, I fondi bilaterali alternativi, in Cinelli, Ferraro, Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro, dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Giappichelli, 521 ss., in questa tipologia di fondi «di bilateralità c’è poco quasi nulla». 47 Per una trattazione ex professo sui nuovi fondi di solidarietà sia consentito rimandare ai contributi di Ventura, Il “Jobs Act” e la bilateralità “perduta”: dal Fondo di solidarietà bilaterale residuale al Fondo di integrazione salariale, in Balletti, Garofalo (a cura di), op. cit., 309 e ss.; Leone, I fondi bilaterali di sostegno al reddito nella terra di mezzo tra diritto privato e diritto pubblico, ivi, 271 e ss.; e Venditti, Gli ammortizzatori “privati”, ivi, 255 e ss.
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interazioni con la disciplina concorsuale del sovraindebitamento. Si ritiene, però, che le valutazioni di seguito proposte in ordine alle ipotesi di accesso ai trattamenti di integrazione salariale, possano soddisfare le finalità perseguite con il presente contributo. Difatti, a livello sistematico, il nuovo apparato di fondi di solidarietà bilaterale, garantisce trattamenti economici di integrazione salariale per le stesse causali di ricorso esaminate precedentemente in relazione all’area di applicazione della CIGS. Questo implica che, l’eccedenza temporanea di personale dovuta a “crisi aziendale” del datore di lavoro “sovraindebitato” potrà essere gestita mediante ricorso ad ammortizzatori sociali che, per i soggetti attratti nel sistema obbligatorio dei fondi di solidarietà, si traducono in due principali prestazioni: l’assegno di solidarietà (di cui all’art. 31, d.lgs. n. 148/2015) e l’assegno ordinario (di cui all2.3. art. 30, comma 1). Le prestazioni sono erogate secondo un differenziato regime di intervento, in base alle scelte di gestione dei comitati amministratori (dei fondi di primo e secondo tipo) o in ragione della classe di ampiezza dei datori di lavoro iscritti al FIS e si configurano come sostitutive di quelle connesse al regime di integrazione salariale, ordinaria e straordinaria, e sono garantite per le stesse causali di intervento. Questa classe di prestazioni (tutela in costanza di rapporto) è tipizzata e legalmente imposta per l’operatività dei fondi, cosicché solo residualmente è consentito ai fondi disporre l’erogazione di prestazioni ulteriori. L’assegno di solidarietà può dirsi un “surrogato” della CIGS per solidarietà difensiva così come l’assegno ordinario un surrogato del trattamento di CIGS per crisi o riorganizzazione aziendale. Perciò, in relazione ai bisogni organizzativi di ciascun datore di lavoro intenzionato ad avviare procedure di composizione della crisi aziendale e da sovraindebitamento, si potranno mutuare le riflessioni già esposte per le imprese in area CIG, avendo ovviamente cura di verificare l’esatta operatività di ciascun fondo di solidarietà, attraverso l’analisi dei relativi regolamenti di funzionamento che definiscono tempi e modi di intervento.
2.3.
Gli effetti della liquidazione del patrimonio o del ridimensionamento aziendale sui rapporti di lavoro.
Pur ribadendo la finalistica tensione conservativa della disciplina relativa alla crisi d’impresa e lavoristica, tradotta dal legislatore con la predisposizione di convergenti strumenti giuridici di tutela della continuità dell’attività aziendale e della salvaguardia occupazionale, il livello di dissesto o la carenza di credibilità del piano di risanamento del soggetto sovraindebitato potrebbe impedire la fisiologica ripresa della funzionalità aziendale. Tale evenienza dovrà necessariamente essere affrontata dal debitore datore di lavoro attraverso l’adozione di rimedi drastici volti alla liquidazione giudiziale del proprio patrimonio o, nel migliore dei casi, ad una riorganizzazione aziendale che preveda il ridimensionamento delle attività e/o la cessione di uno o più rami aziendali di cui residui valore economico. La mancata prosecuzione dell’attività aziendale o la scelta di un suo ridimensionato potrà comportare un’eccedenza definitiva di personale che dovrà, evidentemente, essere gestita attraverso la cessazione dei rapporti di lavoro interessati nel rispetto della disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, ai sensi della l. n. 604/1966, o collettivi, qualora ricorrano i presupposti di cui alla l. n. 223/1991.
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In via alternativa, il datore di lavoro (cedente) potrà optare per forme di continuazione indiretta dell’attività di impresa tramite trasferimento d’azienda. I rapporti di lavoro proseguiranno con il datore di lavoro cessionario senza che l’operazione impatti sui livelli occupazionali in termini negativi, almeno secondo quanto previsto in via generale dalla disciplina codicistica. 2.3.1. Trasferimento d’azienda e deroghe all’art. 2112 c.c.
Il datore di lavoro che nella procedura di composizione della crisi preveda forme di continuità aziendale di tipo “indiretto”, ovvero realizzate mediante il trasferimento d’azienda o di un suo ramo, sarà assoggettato alla disciplina generale prevista dall’art. 2112 c.c. che attribuisce al lavoratore un’ampia tutela che si concretizza nella garanzia di continuità del rapporto di lavoro in capo al cessionario, nella conservazione di tutti i relativi diritti acquisiti e nella responsabilità solidale del cessionario per i debiti del cedente48. Rimandando ad altra sede l’approfondimento della regolamentazione in tema di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, per i fini che qui interessano, si reputa necessaria la sola comprensione circa l’ammissibilità del datore di lavoro in crisi da sovraindebitamento alla flessibilizzazione delle garanzie codicistiche previsto per talune categorie di soggetti in crisi che facciano ricorso alle procedure concorsuali con finalità conservative e non liquidatorie, ai sensi dell’art. 47, comma 4-bis, l. n. 428/199149. La disposizione normativa citata annovera tra i suoi destinatari le aziende: a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’articolo 2, comma 5, lett. c), della legge 12 agosto 1977, n. 675; b) per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del d.lgs 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività. b-bis) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo; b-ter) per le quali vi sia stata l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Ancora una volta, l’assenza di alcun esplicito rinvio a disposizioni lavoristiche nella l. n. 3/2012 e la dubbia estensione in via analogica delle disposizioni previste per procedure concorsuali non consentono l’inclusione del datore di lavoro debitore nel regime derogatorio previsto dall’art. 47, comma 4-bis l. n. 428/1990 attraverso la riconducibilità della fattispecie a quella del concordato preventivo con continuità che ne ricalca le finalità50.
48
Ai sensi dell’art. 2112, comma 2, c.c. è possibile svincolare cedente e cessionario dal regime di responsabilità solidale previsto dal medesimo articolo, qualora il lavoratore, in sede di conciliazione, liberi il cedente dalle obbligazioni contratte e non soddisfatte in relazione al rapporto di lavoro 49 In tema di circolazione del patrimonio aziendale ed effetti sui contratti di lavoro v. ex pluris Marazza, La circolazione del patrimonio aziendale e gli effetti sui contratti di lavoro, in op. cit., 43 e ss.; A. Corrado, Trasferimento d’azienda e tutela dei diritti dei lavoratori, in Crisi di impresa e rapporti di lavoro, Giuffrè, 2017, 153 ss. 50 Alle deroghe è possibile accedere per il tramite di un accordo di salvaguardia almeno parziale dei livelli occupazionali al fine di agevolare la cessione dell’azienda o di un suo ramo che conservi residua funzionalità economica, ai sensi dell’art. 47, l. n. 428/1990 accessibile per il tramite di un accordo di salvaguardia almeno parziale, dei livelli occupazionali. I contenuti della deroga devono essere determinati mediante accordo sindacale, come ribadito da Cass., 4 novembre 2014, n. 23473, in www.olympus.uniurb.it, con la quale viene evidenziato il carattere di necessità della procedura di consultazione sindacale, volta a garantire attraverso un accordo
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Piuttosto, però, che forzare analogie con la categoria di soggetti di cui alla lett. b-bis), la soluzione del problema potrebbe riposare nell’interpretazione dell’art. 47, comma 4-bis, lett. a), l. n. 428/1991, ammettendo per tale canale d’accesso la fattispecie del sovraindebitamento. La menzionata lett. a) è rivolta alle imprese per le quali, in base alla disposizione di cui all’art. 2, comma 5, lett. c), l. n. 675/1977, il Ministero del lavoro abbia accertato la sussistenza di casi di crisi aziendale ai fini della concessione del relativo regime di Cassa integrazione guadagni straordinaria51. Seppure, come si è avuto modo di analizzare, non esista alcun rapporto di necessaria correlazione tra la procedura di composizione della crisi da “sovraindebitamento” e l’accesso ai trattamenti CIGS per crisi “aziendale”, quantomeno le imprese che in concomitanza ne abbiano ottenuto l’autorizzazione rientreranno senza dubbio nel descritto campo di applicazione. Sulla base di tali presupposti, però, si pone il problema di verificare la riconduzione alla fattispecie di cui alla lett. a) dei datori di lavoro non rientranti nel campo di applicazione CIG, nonché di quelli che pur rientrandovi non siano in condizione di farne ricorso. In proposito, si potrebbe operare un’interpretazione estensiva dell’art. 47, comma 4-bis, lett. a), l. n. 428/1991, volta a sostenere che l’accertamento da parte del Ministero di casi di crisi aziendali, non sia l’unico modo perché siano verificate le condizioni previste dalla predetta disposizione per la derogabilità all’art. 2112 c.c. L’accertamento giudiziale del sovraindebitamento oltre al suo successivo controllo, potrebbero essere reputate circostanze idonee a far sì che i datori di lavoro con tale status giuridico siano attratti nel campo di applicazione dell’art. 47, comma 4-bis. In fondo, tale assimilazione sembra coerente con la direttiva comunitaria 2001/23 che all’art. 5, comma 3, «estende la possibilità degli stati membri di affidare alla contrattazione collettiva la possibilità di modulare le condizioni di lavoro applicabili in caso di cessione di azienda anche nel caso in cui il cedente sia in una situazione di grave crisi economica, così come definita dal diritto nazionale, purché sia dichiarata da una pubblica autorità e sottoposta al controllo giudiziale»52. In ragione di quanto sopra sarebbe dunque possibile concludere nel senso che alle imprese “sovraindebitate” per le quali sia stata disposta l’omologazione con decreto (stato di crisi accertato da una pubblica autorità), possa trovare applicazione l’art. 47, comma 4-bis, l. n. 428/1990 concernente la derogabilità all’art. 2112 c.c., sempreché, attraverso lo strumento del trasferimento d’azienda, tali imprese abbiano raggiunto un accordo volto al
collettivo la legittimità della deroga all’art. 2112 c.c. in caso di trasferimento dell’azienda insolvente. La sentenza in esame esprime un interessante passaggio laddove motiva la derogabilità all’art. 2112 c.c. attraverso l’evidente priorità di spostamento dal piano di tutela del singolo lavoratore (cui risponde l’esclusiva applicazione dell’art. 2112 c.c.), al piano dell’interesse collettivo, con il «perseguimento dell’agevolazione della circolazione dell’azienda quale strumento di salvaguardia della massima occupazione, in una condizione di obiettiva crisi imprenditoriale, anche al prezzo del sacrificio di alcuni diritti garantiti dall’art. 2112 c.c.». 51 V. Marazza, op. cit., 66. 52 Cit. Marazza, ibidem, in riferimento, però, allo stato di crisi dichiarato dal Ministero del lavoro e comunque sottoposto al controllo giudiziale sia da parte dei giudici amministrativi (per ciò che concerne la legittimità formale e sostanziale del relativo provvedimento ministeriale) che dei giudici del lavoro (per ciò che attiene alle conseguenze dello stato di crisi accertato sui diritti dei lavoratori).
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mantenimento, almeno parziale, del proprio standard occupazionale 53. La traduzione sul piano pratico della riflessione appena condotta, però, abbisogna di estrema cautela. Vista e considerata la pluralità di interessi coinvolti ed il rischio di contenzioso con il personale dipendente, in assenza di orientamenti giurisprudenziali consolidati, si ritiene opportuna l’adozione di un’interpretazione “prudenziale” del disposto normativo, limitata a quanto effettivamente esplicitato dal legislatore. 2.3.2. Cessazione dell’attività d’impresa.
La cessazione dell’attività aziendale può verificarsi sia nel caso in cui l’imprenditore, ottenuta l’omologazione dell’accordo con i creditori e ristrutturata la propria esposizione debitoria, decida di non proseguire nell’esercizio dell’attività, sia nell’ipotesi di avvio del procedimento di liquidazione giudiziale. Come già opportunamente osservato, non si ritiene possibile operare un completo parallelismo tra la liquidazione del patrimonio di cui all’art. 14 ter e ss. legge n. 3/2012 e la procedura prevista dagli artt. 104 ter e ss. l.f., essendo le relative discipline, solo in parte, sovrapponibili. Per quanto concerne la gestione dei rapporti di lavoro, soltanto nel fallimento (ai sensi dell’art. 72. l.f.) è possibile sostenere esista la sospensione dell’esecuzione di qualsiasi contratto rimasto ineseguito o non compiutamente eseguito, fino a che il curatore non subentri nella titolarità del contratto in luogo del fallito, o si sciolga da esso54. Alle stesse conclusioni deve giungersi anche in relazione alle possibilità di recesso dal rapporto di lavoro dove, peraltro, la disciplina codicistica dettata dall’art. 2119, comma 2, c.c., esclude che il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda possano essere integrare gli estremi del licenziamento per giusta causa. Questo, però, per le procedure concorsuali maggiori così come per le minori, non implica che al datore di lavoro sia preclusa la facoltà di recesso dal rapporto di lavoro qualora supportato da un giustificato motivo oggettivo o nello specifico dimostri non potersi avvalere delle prestazioni del dipendente in mancanza di concrete prospettive di prosecuzione dell’attività aziendale. Qualora la cessazione del rapporto di lavoro consegua al grave definitivo stato insolvenza del datore di lavoro, i lavoratori licenziati che vantino nei confronti del datore di lavoro, fallito e/o escusso infruttuosamente, crediti relativi a retribuzioni pregresse non
53 54
Sul punto potrebbe fornire alcuni spunti di riflessione la risposta ad interpello del Ministero del lavoro n. 32/2014. Cfr. da ultimo Cass. 11 gennaio 2018, n. 522, in D&G, 2018, 10, 3, con nota di Maura; anteriormente v. Cass., 14 maggio 2012, n. 7473, in GD, 2012, 26, 60, che si è espressa con parere favorevole circa la preminenza dell’applicazione dell’art. 72 l.f., statuendo che «a seguito della dichiarazione di fallimento, nell’ipotesi in cui non vi sia esercizio provvisorio dell’attività imprenditoriale ma cessazione dell’attività aziendale, il rapporto di lavoro rimane sospeso sino alla dichiarazione del curatore di cui all’art. 72, comma 2, l.f. […] Al curatore, che non ritenga di poter utilizzare le prestazioni del dipendente a causa della cessazione dell’attività aziendale e delle esigenze della procedura concorsuale, deve riconoscersi, in applicazione dei principi generali evincibili dall’art. 72, l.f. e non derogati dall’art. 2119 c.c., la facoltà di sciogliersi dal rapporto medesimo, senza che in conseguenza di ciò il prestatore di lavoro possa far valere nei confronti della massa un diritto al risarcimento del danno, ancorché espressamente pattuito con il datore di lavoro con riferimento a qualunque causa di cessazione anticipata del rapporto di lavoro . […] Non essendovi obbligo retributivo per l’assenza di prestazione lavorativa non è configurabile un credito contributivo nei confronti dell’INPS».
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corrisposte o alla mancata liquidazione del TFR, potranno richiedere l’intervento del Fondo di Garanzia, appositamente istituito presso l’Inps55. La garanzia del Fondo, inizialmente riferita alla sola liquidazione del TFR maturato in caso di inadempienza o insolvenza del datore di lavoro, è stata estesa con il d.lgs. n. 80/1992 anche ai crediti retributivi e previdenziali, seppur con delle limitazioni56. Più nello specifico possono essere posti a carico del Fondo i crediti da lavoro aventi natura strettamente retributiva, quali gli stipendi, i ratei delle mensilità aggiuntive, le somme dovute dal datore a titolo di indennità di malattia o maternità, purché relativi agli ultimi tre mesi di rapporto di lavoro57; sono invece escluse l’indennità di preavviso, l’indennità per ferie non godute e l’indennità di malattia a carico dell’INPS che avrebbe dovuto anticipare il datore di lavoro. Il massimale di intervento del Fondo per la copertura dei crediti retributivi non può essere superiore ad una somma pari a tre volte la misura massima del trattamento di CIGS, al netto delle trattenute previdenziali ed assistenziali. Per quanto concerne i crediti di natura previdenziale, relativi all’omesso versamento da parte del datore di lavoro dei contributi destinati ai fondi di previdenza complementare, il Fondo di Garanzia interviene versando la somma dovuta direttamente al fondo di previdenza cui risulta iscritto il lavoratore58. La richiesta di intervento del Fondo può essere avanzata da tutti i lavoratori dipendenti che abbiano cessato un rapporto di lavoro subordinato, dai soci di cooperative di lavoro, dai loro eredi (parenti entro il terzo grado ed affini entro il secondo) ed i cessionari a titolo oneroso del TFR59.
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Per approfondimenti sul funzionamento del Fondo di garanzia v. Bernucci, L’intervento del fondo garanzia per il TFR in caso di previsione di insufficiente realizzo e conseguente chiusura della procedura fallimentare, nota a Trib. Catanzaro, 21 ottobre 2016, in ADL, 2017, 3, 795 ss.; Romeo, La tutela dei crediti di lavoro nelle procedure concorsuali, in LG, 2017, fasc. 6, 531 ss.; Ferrari, Sull’intervento del Fondo di garanzia per insolvenza del datore di lavoro, Nota a Cass., 21 aprile 2016, n. 8072, in GI, 2016, 10, 2206 ss.; Zilio Grandi, Sferrazza, La tutela del lavoratore nei confronti dell’insolvenza del datore di lavoro (Workers’ Safeguards against Employer’s Insolvency), in DRI, 2014, 1, 142 ss.; Pessi, Lezioni di diritto della previdenza sociale, 85 ss.; Lepore, Il fondo di garanzia per il t.f.r., in G. Santoro Passarelli, Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, Giappichelli, 2007, 75 ss.; Boer, Il fondo di garanzia del t.f.r. e le condizioni del suo intervento, nota a Pret. Monza, 7 maggio 1991, in RGL, 1991, III, 283 ss. 56 Il Fondo di Garanzia nasce in attuazione della direttiva 80/987/CEE, al fine di garantire ai lavoratori subordinati una tutela minima in caso di insolvenza del datore di lavoro. Inizialmente si surrogava all’imprenditore nel solo pagamento del TFR, successivamente la garanzia è stata estesa anche ai crediti di lavoro retributivi, previdenziali e, ancor più di recente, alle situazioni transnazionali. 57 L’art. 2, d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, Attuazione della direttiva 80/987/CEE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, dispone che il pagamento effettuato dal Fondo è relativo ai crediti da lavoro sorti negli ultimi tre mesi del rapporto, purché rientranti nei dodici mesi che precedono: a) la data del provvedimento che determina l’apertura di una delle procedure indicate nell’art. 1, comma 1; b) la data di inizio dell’esecuzione forzata; c) la data del provvedimento di messa in liquidazione o di cessazione dell’esercizio provvisorio ovvero dell’autorizzazione alla continuazione dell’esercizio di impresa per i lavoratori che abbiano continuato a prestare attività lavorativa, ovvero la data di cessazione del rapporto di lavoro, se questa è intervenuta durante la continuazione dell’attività dell’impresa. 58 Nel caso di omessa contribuzione alle forme di previdenza complementare, la prestazione del Fondo include il versamento: dei contributi a carico del datore di lavoro; dei contributi a carico del lavoratore che il datore di lavoro ha trattenuto e non versato; della quota di TFR conferita alla previdenza complementare che il datore di lavoro ha trattenuto e non versato. 59 Al riguardo si vedano: circ. Inps 30 dicembre 1997, n. 273, in tema di Intervento del Fondo di Garanzia in favore dei soci delle cooperative di lavoro; circ. Inps 15 luglio 2008, n. 74, in tema di Intervento del Fondo di garanzia istituito per la liquidazione del TFR in caso di insolvenza del datore di lavoro. Riepilogo delle disposizioni vigenti ed orientamenti giurisprudenziali; circ. Inps 26 giugno 2012, n. 89, Intervento del Fondo di Garanzia di cui all’art. 2 della legge n. 297/1982 in caso di cessione del credito in favore di società finanziarie.
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Il Fondo di Garanzia opera in maniera diversa a seconda che si tratti di imprenditori soggetti o meno alle procedure concorsuali, sulla base dei requisiti di cui all’art. 1, l.f. Nel caso di crisi da sovraindebitamento, com’è evidente, sarà applicata la procedura per gli imprenditori non soggetti alle disposizioni della legge fallimentare, che prevede l’onere della prova, in capo al lavoratore, della non assoggettabilità del datore alle procedure concorsuali e della sola insufficienza delle garanzie patrimoniali di quest’ultimo, a seguito dell’esperimento di un tentativo di esecuzione60.
3. Osservazioni conclusive. In assenza di formante giurisprudenziale, la gestione del lavoro nella crisi di impresa sovraindebitata dovrà avvenire attraverso il ricorso agli strumenti giuridici che l’ordinamento offre in via ordinaria per il superamento delle crisi di impresa. D’altronde, lo status di soggetto “sovraindebitato” ai sensi della legge n. 3/2012, seppur non preveda automatismi giuridici volti all’allentamento delle tutele dei lavoratori o all’intensificazione delle prerogative datoriali in materia di organizzazione del lavoro, potrà essere opportunamente valorizzato per l’accesso al sistema di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto o, qualora la continuità aziendale fosse impedita, quale presupposto per la gestione delle eccedenze definitive di personale. D’altro canto, occorrerà attendere che il progetto di riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza, iniziato nel 2015 ad opera della commissione ministeriale “Rordorf” e culminato nell’approvazione della legge delega n. 155/2017, riesca finalmente nel compito di superare l’attuale frammentazione del sistema di gestione concorsuale attraverso l’istituzione di una procedura unitaria e coerente destinata a trovare applicazione nei confronti di qualsiasi debitore, al tempo stesso offrendo una disciplina lavoristica specifica in armonia con ciascuna procedura di composizione della crisi. Il 22 dicembre 2017 sono stati consegnati al Ministro della Giustizia dal Presidente della Commissione ministeriale le bozze dei decreti legislativi integranti l’attuazione della delega di cui alla l. n. 155/2017. I decreti legislativi dovranno essere adottati su proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e trasmessi alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica entro il 14 settembre 2018 (sessantesimo giorno antecedente la scadenza del termine per l’esercizio della delega). Alle commissioni parlamentari competenti saranno concessi trenta giorni per esprimere il proprio parere, decorsi i quali il Governo potrà emanare i decreti entro il termine ultimo dell’esercizio della delega fissato il 14 novembre 2018.
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In tema di accesso al Fondo di garanzia per i lavoratori non fallibili v. Congeduti, Intervento del Fondo di garanzia nella ipotesi di datore di lavoro non assoggettabile a fallimento: condizioni soggettive, ragioni oggettive e onere della prova, nota a Cass., 19 gennaio 2009, n. 1178, in ADL, 2009, 1149 ss.; riguardo la prassi amministrativa v. Circ. Inps 15 luglio 2008, n. 74.
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza Corte di Cassazione , sez. un., sentenza 7 febbraio 2018, n. 2990; Pres. Rordorf – Rel. D’Antonio – P.M. Fuzio (concl. parz. diff.) – R.S. ed altri (avv. Spinosa) c. Sogei (avv. Proia, Emiliani). Cassa con rinvio App. Roma, sent. n. 8979/2014. Lavoro (rapporto di) – intermediazione ed interposizione di mano d’opera – appalto di servizi – ripristino del rapporto di lavoro – retribuzione – risarcimento del danno – qualifica-zione in termini risarcitori e retributivi – differenza – difetto di prestazione lavorativa – eccepibilità dell’aliunde perceptum.
In tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, salvo gli effetti del d.lgs. n. 276/2003, art. 3 bis, a decorrere dalla messa in mora. Svolgimento del processo. – La Corte d’appello di Roma, con la sentenza qui impugnata, ha confermato la sentenza del Tribunale con la quale il primo giudice aveva accolto le opposizioni proposte dalla soc SOGEI avverso i decreti ingiuntivi, emessi su istanza di V.P., A.A., C.C., F.F., G.G., M.P., R.S. e RO.Cl., con i quali era stato ingiunto alla società il pagamento di Euro 12.256,17 a favore di ciascuno dei ricorrenti, a titolo di retribuzioni per il periodo agosto 2009/febbraio 2010. La Corte territoriale ha esposto che i decreti ingiuntivi erano basati sulla sentenza del Tribunale di Roma che aveva dichiarato l’interposizione fittizia di manodopera nell’appalto di servizi tra la soc SOGEI e la soc COS, con conseguente riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato dei ricorrenti con la prima società; che la SOGEI non aveva ottemperato all’ordine di ripristino del rapporto di lavoro e che, pertanto, i ricorrenti ritenevano di avere diritto alle retribuzioni maturate, e non solo al risarcimento del danno, dalla messa in mora della società. Secondo la Corte d’appello doveva, invece, essere confermato l’orientamento in base al quale si era affermato che l’obbligazione retributiva poteva sorgere solo a fronte della prestazione lavorativa, costituendo l’erogazione del trattamento economico, in mancanza di lavoro, un’eccezione necessariamente oggetto di un’espressa previsione di legge o di contratto. La Corte ha rilevato, altresì, che la qualificazione in termini risarcitori, e non retributivi, dell’obbligazione che gravava sul datore di lavoro, nell’ipotesi di accertata continuità giuridica del rapporto e di difetto della prestazione lavorativa, era stata costantemente affermata dalla giurisprudenza della Suprema Corte in riferimento a molteplici fattispecie assimilabili al caso di esame. La Corte d’appello ha, quindi, concluso affermando che l’omesso ripristino del rapporto di lavoro, pur a fronte di una tempestiva messa a disposizione dell’e-
nergie lavorative, rilevava esclusivamente sul piano risarcitorio, con conseguente eccepibilità dell’aliunde perceptum, e che, nella fattispecie, anche ad interpretare la domanda come risarcitoria, non avrebbe potuto essere accolta, per effetto della detraibilità delle somme di pari importo ricevute dai lavoratori, nel medesimo periodo, a titolo di retribuzione dalla soc COS, presso la quale avevano continuato a lavorare. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso in Cassazione i lavoratori con tre motivi a cui ha resistito la soc. SOGEI. Con istanza depositata l’8/3/2017 gli odierni ricorrenti hanno chiesto la rimessione del presente procedimento alle Sezioni Unite ex art. 376 c.p.c., comma 2, prospettando (anche l’esistenza di un contrasto tra sezioni semplici concernente) la questione di particolare rilevanza circa la natura retributiva o risarcitoria delle somme spettanti al lavoratore, il quale, dopo la declaratoria giudiziale che ha accertato l’illecita interposizione di manodopera, offerte le proprie energie lavorative, non sia stato riammesso in servizio. Accolta l’istanza e fissata la causa per la decisione, entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.. Motivi della decisione. – Omissis. 4. Con l’istanza di rimessione alle Sezioni Unite gli odierni ricorrenti hanno prospettato (anche l’esistenza di un contrasto tra sezioni semplici concernente) la questione di particolare rilevanza circa la natura retributiva o risarcitoria delle somme spettanti al lavoratore, il quale, dopo la declaratoria giudiziale che ha accertato l’illecita interposizione di manodopera, offerte le proprie energie lavorative, non sia stato riammesso in servizio. Osservano che le Sezioni Unite non si erano ancora pronunciate circa le ipotesi di cessione di ramo d’azienda e di interposizione di mano d’opera, ma nem-
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meno in generale per le situazioni di fatto successive alla sentenza. Sottolineano che il caso di interposizione di manodopera è identico “nella situazione di fatto e nella conformazione del sinallagma funzionale” a quello della cessione di ramo d’azienda in quanto intervenuta la sentenza dichiarativa dell’illecita interposizione tra committente ed appaltatore - può esistere o non esistere ancora un rapporto giuridico. Sicché al lavoratore fino a quando continui a lavorare sull’appalto dichiarato illecito, non compete due volte la retribuzione, ma la differenza tra la retribuzione percepita a quella di diritto (secondo l’eventuale diverso CCNL o il diverso inquadramento nell’azienda del committente) e, dopo, “il diritto alla retribuzione permane e non può esservi decurtazione”. - Richiamano la pronuncia n. 303 del 2011 della Corte costituzionale ed i principi da essa espressi. Ipotizzano, infine, la sussistenza di un contrasto tra le pronunce delle Sezioni semplici in materia; difatti, da un canto, sarebbe stato riaffermato il principio secondo il quale al lavoratore spetta la retribuzione, laddove ingiustificatamente il datore di lavoro non gli consenta la ripresa del servizio, interrompendo il sinallagma funzionale (erroneamente viene richiamata dagli istanti la sentenza “1908 del 2013” tenuto conto che il numero e l’anno indicati si riferiscono ad una pronuncia resa in altra materia); dall’altro, nella sentenza n 25993/2016 (rectius 25933/2016) sarebbe stato esteso l’orientamento espresso dalla sentenza Cass. n. 19470/ 2008 (rectius 19740/2008) anche al caso di interruzione del sinallagma funzionale, facendo ricorso all’analogia, ed osservando che l’unificazione del periodo prima e dopo la sentenza nelle fattispecie di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, esclude che il lavoratore abbia diritto all’adempimento e alla retribuzione, ma solo al risarcimento del danno. 5. La sentenza impugnata deve essere confermata, pur con diversa motivazione ai sensi dell’art 384 cpc, con riferimento a tutti i ricorrenti eccettuata la ricorrente V., in ordine alla quale sono necessari ulteriori accertamenti in fatto. I motivi possono essere esaminati congiuntamente, stante la loro connessione, riguardando proprio la questione che le parti hanno inteso rimettere alle Sezioni Unite, quale questione di particolare rilevanza. – Omissis. 6. Ciò premesso va, preliminarmente, ricordato che la fattispecie in esame dell’interposizione di manodopera è regolata dal D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 29 (come modificato dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 911). Il richiamato decreto legislativo, pur nella ridefinizione dei confini del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro - che, originariamente previsto ex art. 2127 c.c., soltanto per i lavori a cottimo, era stato poi esteso ad ogni attività di lavoro subordinato dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1 (poi abrogata dal D. Lgs. n. 276 del 2003, art. 85,
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comma 1, lett. c)) - ha ribadito la sostanza del divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro, dettando la disciplina degli strumenti leciti all’interno della vicenda interpositoria (appalti, somministrazione, distacco), nonché quella sanzionatoria nelle ipotesi di somministrazione irregolare e appalto non genuino. L’impianto sanzionatorio previsto dal D. Lgs. n. 276 del 2003, consente al lavoratore, sia nelle ipotesi di somministrazione irregolare (stipulata “al di fuori dai limiti e delle condizioni” previste, art. 27), sia nelle ipotesi di appalto fittizio (“stipulato in violazione” di legge, art. 29, comma 3 bis), la proposizione di un ricorso giudiziale notificato, anche soltanto nei confronti del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, con cui richiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione o dell’appalto non genuini. 6. La questione della natura, retributiva o risarcitoria, dei compensi richiesti dai lavoratori, a seguito della pronuncia che ha riconosciuto l’interposizione fittizia nell’appalto tra Sogei e la soc COS, nonché il rapporto di lavoro dei ricorrenti con la soc. interponente, oggetto dell’istanza di rimessione a queste Sezioni Unite, non può trovare una corretta soluzione in applicazione di principi affermatisi con riferimento ad altre fattispecie, con la conseguenza che in assenza di norme derogatorie rispetto al diritto comune delle obbligazioni, è quest’ultimo il regime giuridico da applicare. 7. In particolare, deve ritenersi fuorviante il richiamo alla materia dei licenziamenti, in ordine alla quale sussiste una disciplina legislativa specifica e derogatoria rispetto al diritto delle obbligazioni, che riconduce i compensi dovuti dal datore di lavoro, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, nell’ambito del risarcimento del danno. A riguardo - tralasciando principi ormai superati da successivi interventi legislativi quale la distinzione, applicata in talune pronunce, tra il periodo anteriore al licenziamento, in ordine ai quale il diritto del lavoratore era al risarcimento, dal periodo successivo alla pronuncia di reintegra, a seguito della quale spettava al lavoratore la retribuzione - non può farsi riferimento, ai fini che qui rilevano, alla disciplina specifica introdotta dalla L. n. 108 del 1990, a modifica dell’art 18 Stat. Lav., che ha qualificato, come risarcimento del danno, l’indennità commisurata alla retribuzione per il periodo fra il licenziamento e l’effettiva reintegrazione. Si è posto in evidenza in proposito che, alla luce del nuovo testo dell’art. 18, le somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado che abbia dichiarato illegittimo il licenziamento ed ordinato la reintegrazione del lavoratore, costituiscono (in assenza di ottemperanza alla decisione di primo grado) non più retribuzione, ma risarcimento del danno ingiusto subito dal lavoratore per l’illegittima risoluzione del rapporto (Cass., Sez. L, 13/12/2006 n. 26627). Nello stesso senso della natura risarcitoria
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dell’indennità dovuta a seguito di licenziamento illegittimo e fino alla reintegra, è l’intervento operato dalla L. n. 92 del 2012 (legge Fornero) che, modificando l’art. 18 Stat. Lav., qualificata risarcitoria l’indennità da corrispondersi dalla data del licenziamento all’effettiva reintegra, prevede anche la detrazione dell’ aliunde perceptum (cfr. art. 18, comma 2, per il licenziamento discriminatorio: il comma 4, per il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo in ordine al quale, oltre che l’aliunde perceptum, va dedotto quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione). Giova evidenziare, in tema di licenziamento inefficace dopo la novella introdotta dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, che, da ultimo, in funzione di un riallineamento tra la disciplina di tutela obbligatoria stabilita dalla L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 2, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 37, (per le ipotesi di inosservanza della forma scritta e dell’onere di comunicazione dei motivi nel licenziamento) e quella stabilita dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, anch’essa novellata dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, lett. b), (ove il licenziamento orale gode di una tutela reintegratoria piena - comma 1 e 2 - mentre quello del licenziamento intimato in violazione del requisito della motivazione riceve la sola tutela risarcitoria - commi 5 e 6-), è stata data una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata delle conseguenze della prescritta inefficacia al fine di assicurare alle diverse ipotesi una tutela esclusivamente risarcitoria secondo un criterio di ragionevolezza che eviti ingiustificate disparità di trattamento (Cass. Sez. L. 05/07/2016, n. 13669). 8. La tesi secondo cui il datore ha un mero obbligo risarcitorio ha trovato, nelle varie pronunce di questa Corte intervenute in tema di cessione di ramo d’azienda dichiarato nullo, un sostanziale recepimento (significativo a riguardo che, con ordinanza del 2/10/2017, la Corte d’appello di Roma, in fattispecie di cessione di ramo d’azienda, ha rimesso alla Corte costituzionale la questione del contrasto tra il “diritto vivente”, costituito proprio dall’interpretazione accolta da questa Corte, e gli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost.). La questione degli effetti della dichiarazione di nullità del trasferimento di azienda e della cessione di ramo d’azienda è stata, infatti, risolta dalla giurisprudenza di legittimità con l’affermare che l’obbligazione del cedente, il quale non provveda al ripristino del rapporto di lavoro, deve essere qualificata come risarcimento del danno, con la conseguente detraibilità del cosiddetto aliunde perceptum (v. sin da Cass. n 19740/2008; v. pronunce conformi più di recente, n. 18955/2014). Tale orientamento ha inteso dare continuità al principio, che si è andato consolidando nell’elaborazione della S.C., secondo il quale il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l’erogazio-
ne del trattamento economico, in mancanza di lavoro, costituisce un’eccezione, che deve essere oggetto di un’espressa previsione di legge o di contratto. In difetto di un’espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa esclude il diritto alla retribuzione, ma determina a carico del datore di lavoro, che ne è responsabile, l’obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni. “Proprio perché si tratta di un risarcimento del danno - ed in assenza di una disciplina specifica per la determinazione del suo ammontare - soccorrono i normali criteri fissati per i contratti in genere, con la conseguenza che deve essere detratto quanto il lavoratore possa aver conseguito svolgendo una qualsivoglia attività lucrativa” (così test. Cass. n. 18955/2014). Si è soggiunto, inoltre, che nella cessione di contratto si ha la sostituzione di un soggetto (cessionario) ad altro (cedente) nel rapporto giuridico, il quale rimane - di regola e salvo eccezione la cui prova dev’essere fornita dalla parte interessata - eguale nei suoi elementi oggettivi, con la conseguenza che, essendo la controprestazione retributiva relativa ad un unico rapporto di lavoro, dalla situazione di mora non poteva che scaturire, ai sensi dell’art. 1207 c.c., un’obbligazione risarcitoria, essendo quella retributiva già adempiuta (nella specie, risultava pacificamente che i lavoratori avessero continuato a prestare l’attività lavorativa alle dipendenze della cessionaria, venendone retribuiti; pertanto su di loro incombeva l’onere (che non risultava essere stato assolto) di dedurre e dimostrare i danni sofferti, tra i quali l’inferiorità di quanto ricevuto rispetto alla retribuzione che sarebbe spettata alle dipendenze della società cedente (cfr. ancora: Cass. n. 18955 citata). Nel caso di cessione di ramo di azienda, quindi, essendo mancato l’allontanamento dal posto di lavoro, non deriverebbe al lavoratore alcun pregiudizio da licenziamento illegittimo (secondo la disciplina speciale prevista dall’art. 18 St. Lav.), né, per la stessa ragione, sarebbe applicabile la conversione del rapporto di lavoro statuita per il contratti a termini in ragione dell’illegittimità del termine di durata (L. n. 183 del 2010, art. 32, per come interpretato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 303 del 2011), ma soltanto il risarcimento del danno secondo le regole codicistiche sull’illecito contrattuale ex art. 1218 c.c. e segg., (così, in numerosissimi precedenti nel caso di cessione di ramo d’azienda da parte della Telecom ritenuta inefficace, ma con pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario; tra le tante v.: n. 7281 /2015 e n. 19490/2014). 9. Nella specifica fattispecie dell’ interposizione fittizia di manodopera è stato di recente affermato da questa Corte che, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina unicamente conseguenze di natura risarcitoria con detraibilità
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dell’aliunde perceptum (cfr. Cass. n. 25933/2016). È stato applicato, quindi, il principio affermato in tema di dichiarazione di nullità della cessione di ramo d’azienda quale “fattispecie assimilabile” a quella di interposizione di manodopera in esame (cfr. la già cit. n. 19740/2008). 10. Si deve, a questo punto, esaminare se i suddetti principi necessitano di una loro rivisitazione al fine di valutarne la loro attuale applicabilità, alla luce di una necessaria interpretazione costituzionalmente orientata delle norme, nell’ipotesi considerata del rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione offerta dal lavoratore, negando la riammissione in servizio e non ottemperando all’ordine giudiziale che, accertata l’interposizione fittizia della manodopera, ha affermato la sussistenza del rapporto di lavoro con l’interponente fin dall’origine. 11. Ai fini della soluzione della presente questione sembra a questa Corte utile muovere dalle affermazioni contenute nella pronuncia della Corte costituzionale n. 303/2011, resa con riguardo alla questione della omnicomprensività della indennità prevista nelle ipotesi di conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, la quale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale della L. n. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 4 e 5, sollevate con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, (Corte Cost. 4/11/2011, n. 303). Deve preliminarmente precisarsi che non è qui invocabile la giurisprudenza sul contratto a termine e sulla non retribuibilità dei c.d. intervalli non lavorati che si riferisce al periodo anteriore alla sentenza di accertamento della nullità e della conseguente conversione in contratto a tempo indeterminato. La Consulta, con la sentenza citata, ha distinto il periodo anteriore alla pronuncia di conversione del contratto a tempo determinato, da quello successivo riconoscendo con riferimento a quest’ultimo il diritto del lavoratore alla riammissione e all’integrale percezione della retribuzione. In particolare con la sentenza citata è stata adottata un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma denunciata, affermando che l’indennità omnicomprensiva (prevista nella misura da liquidare tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) copre soltanto il periodo intermedio, quello cioè che corre tra la scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. Viceversa, a partire dalla sentenza con cui viene rilevato il vizio della pattuizione del termine e convertito il contratto che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, poiché il datore di lavoro è indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore, è tenuto a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva.
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12. Appare utile riportare il passo della sentenza, significativo ai fini che qui rilevano, da cui è possibile trarre alcuni spunti per una rimeditazione della giurisprudenza tradizionale, accolta da questa Corte, in tema di cessione di contratto ed applicata anche all’ipotesi di interposizione fittizia. Nella sentenza citata si legge: “un’interpretazione costituzionalmente orientata della novella, però, induce a ritenere che il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. A partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva. Diversamente opinando, la tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato sarebbe completamente svuotata. Se, infatti, il datore di lavoro, anche dopo l’accertamento giudiziale del rapporto a tempo indeterminato, potesse limitarsi al versamento di una somma compresa tra 2,5 e 12 mensilità di retribuzione, non subirebbe alcun deterrente idoneo ad indurlo a riprendere il prestatore a lavorare con sè. E lo stesso riconoscimento della durata indeterminata del rapporto da parte del giudice sarebbe posto nel nulla”. 13. Sulla base degli spunti suggeriti dalla suddetta pronuncia, queste Sezioni Unite ritengono che possa affermarsi che, nel momento successivo alla declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione), grava sull’effettivo datore di lavoro l’obbligo retributivo. Dal rapporto di lavoro, riconosciuto dalla pronuncia giudiziale, discendono, infatti, gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti ed, in particolare, con riguardo al datore di lavoro, quello di pagare la retribuzione, e ciò anche nel caso di mora credendi e, quindi, di mancanza della prestazione lavorativa per rifiuto di riceverla. 14. La soluzione della questione sottoposta all’esame di questa Corte involge il più generale fenomeno dell’incoercibilità del comportamento e della cooperazione datoriale (nemo ad factum praecise cogi potest), il quale è strettamente correlato al principio della necessaria effettività della tutela processuale e, dunque, della piena attuazione dei diritti del lavoratore, principi opposti che impongono l’individuazione di un punto di equilibrio. Ciò induce a ritenere che nelle ipotesi in cui i lavoratori, dopo aver richiesto l’accertamento giudiziale
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della invalidità del contratto in violazione di norme imperative in tema di divieto di interposizione di manodopera in un appalto di servizi, abbiano ottenuto l’ordine giudiziale di ripristino del rapporto nei confronti del reale datore di lavoro (nella specie: l’impresa committente), offrano a quest’ultima le loro prestazioni, senza essere stati riammessi in servizio, deve evitarsi, secondo i principi generali in tema di adempimento contrattuale, che subiscano le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro rispetto all’esecuzione dell’ordine giudiziale. 15. Al fine di superare gli stretti confini della ritenuta corrispondenza tra la continuità della prestazione e la debenza della relativa obbligazione retributiva, può soccorrere una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa che si deve applicare alla fattispecie in esame, normativa costituita, sia dalla specifica disciplina di cui al D. Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, che nulla prevede circa le conseguenze del mancato ripristino del rapporto con l’interponente, sia dalla normativa generale del codice civile in tema di contratti a prestazioni corrispettive (art. 1453 c.c. e segg.). Una tale interpretazione, rispettosa degli artt. 3, 36 e 41 Cost., induce al superamento della regola sinallagmatica della corrispettività,- intesa come riconoscimento al lavoratore, che chiede l’adempimento, del solo risarcimento del danno in caso di mancata prestazione lavorativa, pur se tale mancata prestazione è conseguenza di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro in violazione dei principi di buona fede e correttezza -, tenuto conto che essa appare limitativa, ed inidonea a fornire al lavoratore una tutela effettiva, soprattutto con riferimento ad ipotesi, come quella di cui si discute, nelle quali, al mancato svolgimento della prestazione lavorativa, si faccia corrispondere l’automatica non debenza della corrispondente obbligazione retributiva, comportando la mancata cooperazione del datore di lavoro una impossibilità definitiva della prestazione,
sicché il debitore non avrà diritto alla controprestazione, bensì al mero risarcimento del danno, secondo le regole di diritto comune, subendo, dunque, le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro rispetto all’esecuzione dell’ordine giudiziale. Il datore di lavoro, il quale nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisce i rapporti di lavoro, senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore; il rifiuto della prestazione lavorativa, offerta dal lavoratore, impedisce gli effetti giuridici che derivano dalla continuazione del rapporto dichiarato dal giudice, nonché la stessa effettività della pronuncia giudiziale. – Omissis. 17. Sulla base delle considerazioni che precedono deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto: in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, salvo gli effetti del D. Lgs. n. 276 del 2003, art. 3 bis, a decorrere dalla messa in mora. – Omissis. P.Q.M. 1. Accoglie il ricorso della ricorrente V. nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, compensando le spese del presente giudizio. 2. Rigetta il ricorso proposto dai ricorrenti R., A., M., C., RO., F. e G.; compensa le spese del presente giudizio. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei suddetti ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. – Omissis.
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Interposizione di mano d’opera e conseguenze economiche in caso di mancato ripristino del rapporto di lavoro Sommario : 1. Il caso. – 2. La tematica di riferimento. – 3. L’intervento della Corte costituzionale in tema di retribuzione. – 4. Le conseguenze in relazione alla declaratoria di nullità del contratto. – 5. La fattispecie di cui al d.lgs. n. 276/2003. – 6. Le conclusioni delle sezioni unite.
Sinossi. La tematica dell’interposizione illecita di mano d’opera e la declaratoria di conseguente sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, agita l’interesse delle sezioni unite. L’autore, dopo aver riepilogato i fatti di causa, ricorda alcuni temi di riferimento, quali il principio di onnicomprensività della retribuzione, le questioni relative alla nullità del contratto in generale, per arrivare a trattare delle conseguenze relative all’intermediazione illecita di mano d’opera. Non manca un breve cenno all’esecuzione degli obblighi di fare non fare ed alla relativa coercibilità.
1. Il caso. Alcuni lavoratori agivano giudizialmente al fine di ottenere la declaratoria di interposizione fittizia di manodopera, in relazione ad un appalto di servizi intercorso fra la controricorrente Sogei ed altra società. Il giudice di primo grado accoglieva la domanda ed accertava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra i ricorrenti e detta società; ordinava altresì il ripristino del rapporto di lavoro che, tuttavia, la datrice ometteva. Gli stessi lavoratori decidevano, conseguentemente, di agire in via monitoria al fine di ottenere il pagamento di varie somme di denaro a titolo di retribuzioni maturate, in considerazione dell’avvenuto ripristino del rapporto di lavoro. Il tribunale ingiungeva il pagamento, ma, a seguito di regolare opposizione formulata dalla società, l’opposizione stessa veniva accolta. Anche la Corte territoriale, adita su impugnazione dei lavoratori, confermava il dictum del giudice di primo grado, precisando che doveva essere confermato l’orientamento in base a cui l’obbligazione retributiva poteva sorgere solo a fronte di una prestazione lavorativa. Infatti, l’erogazione del trattamento economico, in mancanza di attività di lavoro, doveva considerarsi un’eccezione oggetto di espressa previsione di legge e di contratto. Inoltre, il giudice di secondo grado precisava che vi era stato orientamento consolidato della S.C., in base a cui era stata affermata la qualificazione in termini risarcitori e non
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retributivi, appunto nel caso di accertata continuità giuridica del rapporto, ma di difetto di prestazione lavorativa. Infine, la sentenza di secondo grado chiariva che l’omesso ripristino del rapporto di lavoro, pur in presenza di una messa a disposizione delle energie lavorative, rilevava solo sul piano risarcitorio con detraibilità dell’eventuale aliunde perceptum, che, nella specie, era costituito dalle retribuzioni che i lavoratori avevano comunque percepito dall’altra società legata, da intermediazione fittizia, con Sogei. Avverso la sentenza di secondo grado, proponevano ricorso innanzi la S.C. i lavoratori, con tre motivi di gravame, cui resisteva l’azienda con controricorso. I ricorrenti hanno poi chiesto la trasmissione alle sezioni unite ex art. 376, comma 2, c.p.c. prospettando anche la questione di particolare rilevanza, in relazione alla natura retributiva o risarcitoria delle somme spettanti al lavoratore che non sia stato riammesso in servizio.
2. La tematica di riferimento. La questione di cui si discetta inerisce la natura giuridica delle somme spettanti al lavoratore reintegrato, il quale non sia stato riammesso in servizio dalla datrice. Si tratta, in buona sostanza, di decidere se le somme predette abbiano natura retributiva, oppure risarcitoria. È da aggiungere che, nella fattispecie di cui è causa, i lavoratori avevano senz’altro messo a disposizione del soggetto passivo del provvedimento di reintegrazione le proprie energie lavorative, ma avevano continuato a percepire le retribuzioni da parte del datore originario: quindi siamo di fronte ad un lavoratore che ha diritto di percepire, in virtù del dictum giudiziale, somme riferite ad un rapporto di lavoro accertato, con la particolarità che egli nello stesso periodo apprende denari aliunde. La S.C., per affrontare e risolvere la tematica, ricorda un primo approdo cui erano giunte le sezioni semplici1, secondo cui il contratto di lavoro è rapporto a prestazioni corrispettive in cui l’erogazione del trattamento economico, in assenza di effettività di lavoro, costituisce un’eccezione; infatti la mancanza della prestazione lavorativa esclude il diritto alla retribuzione, ma determina a carico del datore di lavoro che ne è responsabile, l’obbligo di risarcire i danni, anche commisurati alle mancate retribuzioni. Di più, nella cessione del contratto si ha la sostituzione di un soggetto ad un altro (il cessionario al posto del cedente), con la precisazione che il cessionario rimane obbligato alla controprestazione retributiva relativa ad un unico accertato rapporto di lavoro; tuttavia dalla situazione di mora scaturisce un’obbligazione risarcitoria, proprio perché quella retributiva è già adempiuta2.
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Contenuto in Cass., 9 settembre 2014, n. 18955, in CED Cassazione, 2014. Ai sensi dell’art. 1207 c.c., se il creditore è in mora è a suo carico l’impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa non imputabile al debitore. Nella fattispecie di cui al testo risultava pacificamente che i lavoratori avessero continuato a prestare l’attività lavorativa alle dipendenze della cessionaria venendone retribuiti.
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Ancora è riferito il caso della cessione di ramo d’azienda in cui, non essendovi stato allontanamento dal posto di lavoro, non deriverebbe al lavoratore alcun pregiudizio da licenziamento illegittimo, ma soltanto il risarcimento del danno secondo le regole dettate dall’art. 1218 c.c.3. E venendo alla fattispecie dell’interposizione fittizia di manodopera, la pronuncia ricorda come in passato era stato indicato che, in caso di accertata illegittimità e dichiarata esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto stesso determinasse solo conseguenze risarcitorie, con detraibilità dell’aliunde perceptum4.
3. L’intervento della Corte costituzionale in tema di
retribuzione.
Per individuare i giusti approdi intesi a definire il thema decidendum, la sentenza in breve commento muove dai contenuti della nota pronuncia del giudice delle leggi la quale aveva affrontato il tema dell’onnicomprensività della retribuzione nelle ipotesi di conversione del contratto di lavoro a termine in contratto a tempo indeterminato5. Orbene, la Corte costituzionale aveva distinto il periodo anteriore alla pronuncia di conversione del contratto a tempo determinato da quello successivo, riconoscendo il diritto del lavoratore alla riammissione in servizio ed all’integrale corresponsione della retribuzione. Più in particolare si era affermato che l’indennità onnicomprensiva copre solo il periodo intermedio che va dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerti la nullità di esso e dichiari la conversione del rapporto. Dunque, a decorrere dalla sentenza con cui viene rilevato il vizio di pattuizione del termine, il datore è tenuto a corrispondere al lavoratore la retribuzione ed a riammetterlo in servizio; e le retribuzioni sono dovute anche ove non vi sia riammissione effettiva. Una diversa interpretazione svuoterebbe la tutela della conversione del rapporto: se il datore potesse limitarsi al versamento della nota somma compresa fra le 2,5 le 12 mensilità di retribuzione «non subirebbe alcun deterrente idoneo ad indurlo a riprendere il prestatore di lavoro con sé. E lo stesso riconoscimento della durata indeterminata del rapporto da parte del giudice sarebbe posto nel nulla»6.
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Cass., 10 aprile 2015, n. 7281, in GI, 2015, 10, 2166, con nota di D’Addio e Cass., 16 settembre 2014, n. 19490, in CED Cassazione, 2014. Cfr. Cass., 15 dicembre 2016, n. 25933, in CED Cassazione, 2016 e Cass., 17 luglio 2008, n. 19740, in MGI, 2008. C. cost., 11 novembre 2011, n. 303, in ADL, 2012, 3, 637, con nota di Malizia ed in altre Riviste, fra cui: in NGCC, 2012, 4, 1, 348, con nota di De Angelis; in DPL, 2013, 20, 1312 e 1316, ivi 2011, 46, 2759; in Prat. Lav., 2012, 7, 305 con nota di Proietti Semproni; in LG, 2012, 3, 252 con nota di Muggia. Così specificamente, in motivazione, le argomentazioni riportate da C. cost., cit. alla nota precedente.
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4. Le conseguenze in relazione alla declaratoria di nullità del contratto.
Muovendo, appunto, dal dictum della Consulta, la S.C. afferma che «nel momento successivo alla declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione), grava sull’effettivo datore di lavoro l’obbligo retributivo». La Corte Suprema, in verità, fa uso dei principi generali in tema di contratto e dell’incidenza della pronuncia giudiziale su di esso: ed infatti precisa che il rapporto di lavoro, come riconosciuto dalla sentenza di merito, produce effetti su entrambe le parti e, in particolare, sul datore di lavoro che dovrà pagare la retribuzione anche in mancanza di prestazione lavorativa “per rifiuto di riceverla”. È interessante notare come la pronuncia tratti, sia pur per sommi capi, il generale principio della incoercibilità del comportamento e della cooperazione datoriale che, secondo la Corte, è correlato al principio della necessaria effettività della tutela processuale e dunque della piena attuazione dei diritti del lavoratore, ove consacrati in una pronuncia giudiziale. Invero, qui, è fatto solamente un breve cenno di riferimento, ma, è il caso di dare atto che il principio generale di incoercibilità del comportamento datoriale relativo ad un facere infungibile abbia da sempre agitato dottrina e giurisprudenza7. Non è questa la sedes materiae per trattare i principi contenuti nell’art. 18 st. lav.; tuttavia non può non darsi atto che la scelta del legislatore di non prevedere misure effettive di tutela abbia lasciato un vuoto nella risoluzione della questione8. Al di la di ciò, la S.C. giunge a concludere come, proprio in base alle argomentazioni di cui sopra, non è ammissibile che i lavoratori destinatari di una sentenza che abbia accertato l’invalidità del contratto per violazione di norme imperative in tema di divieto di intermediazione di manodopera, subiscano ulteriori conseguenze sfavorevoli, in virtù di una condotta omissiva del datore di lavoro rispetto all’esecuzione dell’ordine giudiziale.
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Ricordiamo soltanto, fra i numerosi contributi in subjecta materia, l’opinione di Proto Pisani, L’attuazione dei provvedimenti di condanna, in FI, 1988, V, 177 secondo cui, atteso che il legislatore aveva trascurato di affrontare il tema della c.d. esecuzione processuale indiretta, rimaneva come unico rimedio quello della sanzione penale ex art. 388 c.p. Contra, Chiarloni, Misure coercitive e tutela dei diritti, Giuffrè, 1979, 57; Tarzia, Presente e futuro delle misure coercitive civili, in Esecuzione forzata e procedure concorsuali, Cedam, 1994, 800. Il riferimento è al disposto dell’art. 614 bis c.p.c. che ha introdotto, anche in Italia, l’istituto dell’astreinte di provenienza francese. La norma, tuttavia, non trova applicazione in caso di provvedimenti reintegratori, quali quelli contenuti nell’art. 18 st. lav. In dottrina v., fra i molti, Proto Pisani, Appunti sulla tutela di condanna (35 anni dopo), in FI, 2010, V, 257; Consolo, Le tutele di merito, sommarie ed esecutive, in Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. I, Giappichelli, 2014,74 ss.; Bove, La misura coercitiva di cui all’art. 614 bis c.p.c., in Judicium.it; Merlin, Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi in fungibili nella L. 69/2009, in RDP, 2009, 1549; De Angelis, La nuova generale misura coercitiva (art. 614 bis c.p.c.) e le controversie di lavoro, in FI, 2011, V, 18 ss. E numerosi altri autori ancora.
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5. La fattispecie di cui al d. lgs. n. 276/2003. E, dunque, ecco giungere l’interpretazione costituzionalmente orientata che deve essere applicata alla specifica disciplina di cui all’art. 29 del d.lgs. n. 276/20039 che, al suo articolo 29, nulla prevede circa le conseguenze del mancato ripristino del rapporto intercorrente. Sul punto la S.C. ritiene che debba superarsi la “regola sinallagmatica della corrispettività”. La stessa non fornisce al lavoratore una tutela effettiva, laddove al mancato svolgimento della prestazione corrisponda una “automatica non debenza” della corrispondente obbligazione retributiva. In conclusione, appare ingiusto che il lavoratore abbia diritto al solo risarcimento del danno, così subendo le conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro, rispetto all’esecuzione dell’ordine giudiziale. È questa una interpretazione che supera l’orientamento contrario secondo il quale, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente individuato da una sentenza di accertamento, comportava il solo diritto al risarcimento del danno10. Conseguentemente, il datore di lavoro che non ricostituisce i rapporti, senza motivo e nonostante l’accertamento giudiziale, deve sopportare il peso economico delle retribuzioni anche senza ricevere la prestazione corrispettiva, ancorché offerta dal prestatore d’opera. A questo punto interviene il disposto di cui al comma 3 bis dell’art. 29 del citato decreto legislativo n. 276 11. La norma consente la proposizione di un ricorso giudiziale anche solo nei confronti del soggetto che ha utilizzato la prestazione a cui potrà essere richiesta la costituzione di un rapporto di lavoro la dipendenza dello stesso. In tal caso, la conseguenza è quella prevista dall’art. 27, comma 2 del decreto predetto, in base a cui i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, liberano il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione fino a concorrenza della somma effettivamente pagata.
6. Le conclusioni delle sezioni unite. In base al ragionamento di cui sopra, la S.C. conclude che la norma più volte mentovata consente di rilevare un’incidenza liberatoria dei pagamenti effettuati da terzi, ovvero dallo stesso datore di lavoro fittizio. Tali pagamenti devono considerarsi effettuati a vantaggio del soggetto che ha utilizzato la prestazione, richiamandosi le regole dell’indebito soggettivo previste dall’art. 2036, comma 3, c.c.
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Cfr., in dottrina per tutti, M.T. Carinci, La tutela dei lavoratori negli appalti di servizi, in Commentario al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, tomo II, sub art. 29, Ipsoa 2004, 198 ss. 10 Così Cass., 15 dicembre 2016, n. 25933, in CED Cassazione, 2016; V. anche Cass., 31 maggio 2013, n. 13748, in Fisco on line 2013 che, in materia tributaria, aveva affermato che se i lavoratori intermediati sono considerati, per legge, dipendenti dell’imprenditore appaltante o interponente, al medesimo devono incombere anche i normali obblighi fiscali posti dalla legge tributaria a carico esclusivo di chi sia datore di lavoro. 11 Comma aggiunto dall’art. 6, comma 2, d.lgs. 6 ottobre 2004, n. 251.
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E quindi, poiché i lavoratori hanno di fatto percepito la retribuzione dalla società interposta, per la quale hanno continuato a lavorare ed essere pagati, agli stessi nulla è dovuto, anche in virtù del fatto che non era stata dedotta in giudizio alcuna differenza di retribuzione, salva l’ipotesi di un unico ricorrente per il quale è stato disposto il rinvio, alla stessa Corte territoriale, ma in diversa composizione, atteso che non era stata effettuata idonea istruttoria sulle buste paga. L’interpretazione voluta dalle sezioni unite può considerarsi rispondente alla più stretta osservanza dei principi dettati in tema di interposizione e/o intermediazione illecita di manodopera e, dunque, in tutti quei casi in cui vi sia anche una simulazione di contratto. E tanto ciò vero che, anche in materia fiscale, come si è visto, le obbligazioni di natura tributaria devono considerarsi a carico dei debitori considerati solidali. Del resto dubbio non v’è che i principi del generale divieto di interposizione di manodopera non sono venuti meno, neppure con la nuova normativa di cui al d.lgs. n. 276/2003 che aveva abrogato la l. n. 1369/196012. Alla luce di quanto sopra, i rapporti contrattuali in caso di intermediazione, pur lecita di manodopera, dovranno essere improntati alla massima attenzione, atteso che il rischio dell’interposizione fittizia, con conseguente riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato in capo all’appaltante di un servizio, determina un’obbligazione solidale di pagamento di tutto ciò che costituisce corrispettivo del rapporto di lavoro e dunque retribuzioni, contribuzioni e ritenute fiscali. Sono fatti salvi i pagamenti effettuati ai lavoratori, ovvero le retribuzioni dagli stessi percepite aliunde, atteso che diversamente, ci si sarebbe trovati di fronte ad una duplicazione di stipendi. Quanto all’altro tema, ovvero quello relativo alla coercibilità di un fare infungibile – valga a titolo di esempio l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro – bisognerebbe che il legislatore avesse il coraggio di estendere i contenuti dell’art. 614 bis c.p.c. anche alle questioni di diritto del lavoro; si eviterebbe così di criminalizzare l’illecito civile, attraverso il recupero di forme di tipo penalistico che mal s’attagliano all’inadempimento delle obbligazioni. Giorgio Treglia
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Cfr., in merito, il commento, a questa stessa sentenza, di D’Ascola, Le sezioni unite sull’interposizione fittizia: il committente condannato che non effettua la riassunzione deve pagare tutte le retribuzioni, in www.rivistalabor.it. V. anche Dulio, in D&G, 2018, 24, 5.
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Giurisprudenza Corte di Cassazione , sentenza 2 marzo 2018, n. 4986; Pres. Napoletano – Est. Di Paolantonio – P.M. Finocchi Ghersi (concl. diff.) – G.A., S.P., C.B., M.L., G.S. (avv.ti Iacomini, Aragiusto) c. Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana (avv.ti Mazzotta, Petronio). Cassa con rinvio App. Firenze, sent. n. 1240/2011. Lavoro (rapporto) – pubblico impiego privatizzato – dirigenti medici – svolgimento dell’incarico – Jus variandi – tutela della professionalità – criteri di giudizio applicabili.
In materia di esercizio della mobilità interna (orizzontale) dei dirigenti medici nell’impiego pubblico contrattualizzato […] gli incarichi dirigenziali, conferiti nel rispetto delle corrispondenze previste dalle fonti regolamentari, in quanto ritenuti dal legislatore equivalenti esprimono la medesima professionalità. Il dirigente medico, quindi, non ha un diritto soggettivo a svolgere interventi qualitativamente e quantitativamente equivalenti a quelli curati da altri dirigenti della medesima struttura né a quelli svolti in passato, fermo restando che lo stesso non può essere lasciato in una condizione di sostanziale inattività né assegnato a svolgere funzioni che esulino del tutto dal bagaglio di conoscenze specialistiche posseduto. Il datore di lavoro nell’assegnazione di incarichi e nella distribuzione del lavoro fra i dirigenti medici è tenuto al rispetto delle regole di correttezza e buona fede, sicché il diritto deve essere esercitato tenendo conto delle esigenze superiori della salute dei cittadini e non può essere finalizzato a mortificare la personalità del dirigente né a realizzare risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali il potere è attribuito.
Svolgimento del processo. – La Corte di Appello di Firenze, adita dalla Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana, ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Pisa che, in accoglimento delle domande formulate con distinti ricorsi, poi riuniti, proposti dai dirigenti medici G.A., S.P., C.B., G.S., M.L., aveva ritenuto che l’Azienda avesse “deprivato i ricorrenti di contenuti essenziali delle loro mansioni” e l’aveva condannata ad adempiere correttamente l’obbligazione ed al risarcimento del danno patrimoniale, biologico e non patrimoniale, quantificato per ciascuno nella misura indicata in dispositivo. La Corte territoriale ha condiviso le conclusioni del giudice di prime cure quanto al ritenuto svuotamento delle mansioni rilevando, in sintesi, che la scelta dell’Azienda di istituire una “nuova cardiochirurgia”, da affiancare al modulo operativo già esistente e ritenuto inadeguato, aveva comportato l’emarginazione dei dirigenti che non erano transitati nell’unità sperimentale i quali, a partire dal giugno 2000, si erano visti privare della possibilità di effettuare interventi chirurgici qualitativamente e quantitativamente adeguati alla professionalità posseduta. Il giudice di appello ha ritenuto corretta la liquidazione del danno non patrimoniale, quantificato in misura pari alle retribuzioni maturate nel periodo giugno 2000-giugno 2004, mentre ha escluso che potesse essere riconosciuto, perché ciò avrebbe determi-
nato una duplicazione del risarcimento, il danno alla professionalità nella sua componente patrimoniale. Ha rilevato al riguardo che a seguito della riduzione del livello di impiego gli appellati non avevano subito una riduzione del trattamento stipendiale ed inoltre gli stessi non avevano fornito elementi dai quale desumere che avrebbero potuto avere una diversa dinamica della carriera ove il demansionamento non si fosse verificato. Infine la Corte territoriale ha ritenuto non sussistenti le condizioni richieste per la pronuncia di reintegrazione nelle mansioni in precedenza espletate ed ha evidenziato che con l’assunzione della direzione del reparto da parte di altro dirigente apicale l’inadempimento aziendale era cessato, tanto che lo stesso Tribunale aveva limitato la quantificazione del danno al giugno 2004. Per la cassazione della sentenza G.A., S.P., C.B., G.S. e M.L. hanno proposto ricorso affidato a tre motivi ai quali ha opposto difese l’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana che, in via incidentale, ha domandato a sua volta la cassazione sulla base di cinque censure. I ricorrenti principali hanno resistito con controricorso all’impugnazione incidentale. – Omissis. Motivi della decisione. – Il primo motivo del ricorso principale denuncia “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.
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ovvero in ordine alla insussistenza di un danno patrimoniale” e rileva, in sintesi, che la mancanza di un’immediata riduzione stipendiale non poteva essere valorizzata per escludere il danno patrimoniale, perché l’emarginazione subita aveva comportato, oltre alla mortificazione della personalità, la riduzione della capacità di lavoro specifico e, quindi, la perdita di chances. La seconda censura del ricorso principale addebita alla sentenza impugnata la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1126, 2103 e 2087 c.c.; violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. e degli artt. 115,116, 414 e 420 c.p.c.; illogica perplessa e insufficiente motivazione su punti decisivi prospettati dall’appellante, in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.”. Si assume che la Corte territoriale doveva fare ricorso alla prova per presunzioni e ritenere provato il danno in considerazione delle caratteristiche della prestazione, della durata e gravità del demansionamento, della conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro, della frustrazione di ragionevoli aspettative di sviluppo professionale, dati questi che erano stati tutti acquisiti e valorizzati dal giudice di appello per affermare l’inadempimento dell’Azienda Ospedaliera. – Omissis Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia “vizio di nullità del procedimento, in relazione all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. e di violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.” perché la Corte territoriale non ha in alcun modo preso posizione sugli argomenti, sviluppati nell’atto d’appello e trascritti nel ricorso, sui quali l’azienda aveva fatto leva per sostenere che non si era verificato alcun demansionamento. Ad avviso della ricorrente incidentale la sentenza impugnata, che richiama unicamente l’art. 2087 cod. civ., si limita a ricostruire il contesto nel quale la vicenda si era svolta ma non affronta la questione fondamentale prospettata nell’atto di gravame, con il quale era stato evidenziato che doveva essere escluso in radice l’inadempimento perché “non esiste e non può esistere il diritto del cardiochirurgo ad effettuare un determinato numero di interventi, costante nel corso del tempo”. La seconda censura del ricorso incidentale denuncia “vizio di omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverse decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. nonché vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.”. Il motivo addebita alla sentenza impugnata di avere utilizzato dati quantitativi riferibili ad un periodo diverso da quello del presunto inadempimento e di avere valorizzato la prova testimoniale quando, in realtà, la natura delle prestazioni rese in campo chirurgico deve essere valutata in modo oggettivo. Si sostiene che la Corte territoriale non poteva disattendere le conclusioni dei consulenti tecnici di ufficio i quali, dopo avere ribadito che deve esserci un potere discrezionale del dirigente del reparto nella scelta degli opera-
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tori chirurgici, avevano escluso che ci fossero state sostanziali modificazioni nell’attività dei ricorrenti. Infine si richiamano gli argomenti, sviluppati nell’atto di appello e riportati nel primo motivo, per sostenere che l’art. 2087 cod. civ. può essere invocato solo a fronte di un inadempimento, non ravvisabile nella fattispecie perché la tutela della professionalità del dirigente medico non può spingersi fino ad affermare che a quest’ultimo deve essere garantito di effettuare interventi qualitativamente e quantitativamente costanti nel tempo. Con il terzo motivo la ricorrente incidentale censura la sentenza impugnata per “vizio di omessa, insufficiente contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.” ed evidenzia che la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare la lievissima entità del danno biologico subito dalle vittime, non compatibile con il contegno vessatorio descritto nella sentenza. Si sostiene, in sintesi, che una condotta quale quella addebitata all’azienda, se effettivamente sussistente, avrebbe dovuto produrre conseguenze pregiudizievoli di ben diversa gravità. La quarta critica del ricorso incidentale denuncia, sotto altro profilo, la contraddittorietà e l’insufficienza della motivazione perché il giudice di appello, da un lato, ha evidenziato che l’organizzazione dei reparti rientra nell’insindacabile discrezionalità della direzione sanitaria, dall’altro, riconoscendo il preteso demansionamento, ha finito per sostenere che il direttore dell’unità di cardiochirurgia è tenuto a distribuire i pazienti cardiopatici fra tutti i chirurghi del reparto, senza che possano assumere rilievo alcuno le esigenze superiori di cura e salvaguardia della vita umana e la volontà manifestata dal paziente. Aggiunge la ricorrente incidentale che le scelte dell’azienda non avevano lo scopo di mettere in discussione la professionalità dei dirigenti, salvaguardata anche per quelli assegnati all’unità operativa di chirurgia vascolare, ossia ad una disciplina equipollente secondo la tabella di equiparazione prevista dal d.m. 31 gennaio 1998. – Omissis. Ragioni di priorità logica e giuridica impongono di esaminare innanzitutto i motivi del ricorso incidentale, con i quali l’Azienda Ospedaliera ha sostenuto che doveva essere escluso il demansionamento posto a fondamento delle domande risarcitorie proposte. – Omissis. Sono, omissis, fondati il secondo ed il quarto motivo nella parte in cui addebitano alla Corte territoriale di avere ritenuto applicabile l’art. 2087 cod. civ. a prescindere dall’accertamento sull’inadempimento colpevole del datore di lavoro e muovendo dal presupposto, ritenuto erroneo, della sussistenza di un diritto soggettivo del dirigente medico a non subire una riduzione qualitativa e quantitativa dell’attività chirurgica espletata. Dell’art. 2087 cod. civ. questa Corte ha da tempo fornito un’interpretazione estensiva, costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli
Marta Vendramin
artt. 32, 41 e 2 Cost. L’ambito di applicazione della norma è stato, quindi, ritenuto non circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso stretto, perché si è evidenziato che l’obbligo posto a carico del datore di lavoro di tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni, ma anche di impedire che nell’ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona (Cass. 10.3.1995 n. 7768, Cass. 8.1.2000 n. 143 e fra le più recenti Cass. 19.2.2016 n. 3291). È stato, però, precisato che, pur nell’ampia accezione di cui sopra si è dato conto, l’art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro, il quale potrà essere chiamato a rispondere del pregiudizio subito dal prestatore solo qualora abbia posto in essere “un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” (Cass. 11.4.2013 n. 8855 e negli stessi termini Cass. 29.1.2013 n. 2038; Cass. 7.8.2012 n. 14192). Occorre, poi, evidenziare che non di rado si può fare applicazione congiunta dell’art. 2087 e dell’art. 2103 cod. civ. o delle altre disposizioni speciali che tutelano la professionalità del lavoratore, come accade ogniqualvolta il demansionamento produca anche una lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore (all’art. 2087 cod. 6 Corte di Cassazione - copia non ufficiale RG 12829/2012 civ. si riferisce in motivazione Cass. S.U. 24.3.2006 n. 6572), ma in dette ipotesi, affinché possa essere configurata una responsabilità del datore di lavoro per i danni che il prestatore assume di avere subito, è necessario che lo ius variandi non sia stato correttamente esercitato dal datore e, quindi, che l’assegnazione di mansioni diverse da quelle espletate in passato, possa essere ritenuta dequalificante, secondo la normativa legale e contrattuale che disciplina il rapporto. In alternativa, ove l’atto risulti essere conforme alla disciplina che regola l’assegnazione delle mansioni, una pretesa risarcitoria potrà essere fondata sull’art. 2087 cod. civ. solo qualora il diritto sia stato esercitato con finalità vessatorie o, comunque, abusando del diritto, il che si verifica allorquando l’esercizio avvenga « con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti» (Cass. 7.5.2013 n. 10568). Ciò perché, come già evidenziato, la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. non sorge per il solo fatto che un danno si sia-prodotto, occorrendo che l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento
colposo, ossia o all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell’esercizio dei diritti. Venendo, poi, al tema specifico del demansionamento nell’ambito della dirigenza sanitaria alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, occorre innanzitutto considerare che l’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 esclude l’applicabilità agli incarichi dirigenziali dell’art. 2103 cod. civ. e detta esclusione è stata ribadita per i dirigenti medici dalle parti collettive (art. 27 CCNL 8.6.2000 per la dirigenza medica del servizio sanitario nazionale), perché, come evidenziato dall’art. 15 del d. lgs 30.12.1992 n. 502, «la dirigenza sanitaria è collocata in un unico ruolo, distinto per profili professionali, ed in un unico livello, articolato in relazione alle diverse responsabilità professionali e gestionali». Il citato art. 15, inoltre, pur prevedendo che “l’attività dei dirigenti sanitari è caratterizzata nello svolgimento delle proprie mansioni e funzioni dall’autonomia tecnicoprofessionale i cui ambiti di esercizio, attraverso obiettivi momenti di valutazione e verifica, sono progressivamente ampliati”, assegna al dirigente della struttura complessa il potere di direzione della struttura, da esercitare mediante “direttive a tutto il personale operante nella stessa e l’adozione delle relative decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l’appropriatezza degli interventi con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata». I poteri che derivano dalla preposizione alla struttura, che sono sostanzialmente quelli già individuati in passato dal d.P.R. n. 761 del 20.12.1979, sono funzionali alla posizione di garanzia che si assume nei confronti del paziente, perché la necessaria tutela del fondamentale diritto dei cittadini alla salute impone al dirigente della struttura e, nel caso di attività chirurgica, al capo equipe di organizzare e sorvegliare anche il lavoro altrui in modo da prevenire errori dai quali possa derivare una lesione al paziente (cfr. Cass. pen. 28.7.2015 n. 33329 sulla posizione di garanzia del capo equipe e Cass. pen. 28.6.2007 n. 39609 sulla delega in ambito sanitario). In relazione a detta posizione di garanzia, considerato anche che il dirigente della struttura deve perseguire obiettivi finalizzati “all’efficace utilizzo delle risorse e all’erogazione di prestazioni appropriate e di qualità”, si deve ribadire il principio già affermato da questa Corte secondo cui “ai fini della distribuzione degli incarichi (nella specie degli interventi chirurgici ai medici del reparto) assumono valore prioritario la competenza e la capacità degli operatori sanitari, dovendosi ritenere una diversa soluzione, che assegni preminenza ad un criterio di equa ripartizione del lavoro, in contrasto con il fondamentale diritto alla salute dei cittadini” (Cass. 7.10.2013 n. 22789). Discende dal principio di diritto enunciato, nonché da quanto si è detto sull’equivalenza degli incarichi, che il dirigente
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medico non ha un diritto soggettivo ad effettuare interventi che siano qualitativamente e quantitativamente costanti nel tempo, sicché lo stesso non può opporsi né a scelte aziendali che siano finalizzate a tutelare gli interessi collettivi richiamati dall’art. 1 del d.lgs. n. 502 del 1992, né alle direttive impartite dal responsabile della struttura che perseguano l’obiettivo di garantire efficienza e qualità del servizio da assicurare al paziente. Ciò non significa che la professionalità del dirigente medico non riceva alcuna tutela, perché innanzitutto deve essere garantito al dirigente di svolgere un’attività che sia correlata alla professionalità posseduta, sicché il dirigente stesso non può essere posto in una condizione di sostanziale inattività né assegnato a funzioni che richiedano un bagaglio di conoscenze specialistiche diverso da quello posseduto e allo stesso non assimilabile, sulla base delle corrispondenze stabilite a livello regolamentare. Inoltre, poiché, come si è detto, il datore di lavoro è tenuto al rispetto dei principi di correttezza e buona fede, l’esercizio del diritto non può essere ispirato da finalità vessatorie né avvenire causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte, al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali il diritto medesimo è attribuito. La sentenza impugnata non è conforme ai principi di diritto sopra enunciati, innanzitutto perché la Corte territoriale ha richiamato a fondamento della pronuncia l’art. 2087 cod. civ., senza individuare l’inadempimento o la regola di condotta violata dal datore di lavoro, ed inoltre perché ha attribuito prevalente rilievo alla comparazione fra quantità e qualità degli interventi effettuati nei periodi rilevanti in causa, di per sé non idonea a fondare la pretesa risarcitoria. La decisione gravata va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo
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che procederà ad un nuovo esame, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità, attenendosi a quanto evidenziato nei punti che precedono ed al principio di diritto di seguito enunciato: Nell’impiego pubblico contrattualizzato non trova applicazione per la dirigenza medica l’art. 2103 cod. civ., perché gli incarichi dirigenziali, conferiti nel rispetto delle corrispondenze previste dalle fonti regolamentari, in quanto ritenuti dal legislatore equivalenti esprimono la medesima professionalità. Il dirigente medico non ha un diritto soggettivo a svolgere interventi qualitativamente e quantitativamente equivalenti a quelli curati da altri dirigenti della medesima struttura né a quelli svolti in passato, fermo restando che lo stesso non può essere lasciato in una condizione di sostanziale inattività né assegnato a svolgere funzioni che esulino del tutto dal bagaglio di conoscenze specialistiche posseduto. Il datore di lavoro nell’assegnazione degli incarichi e nella distribuzione del lavoro fra i dirigenti medici è tenuto al rispetto delle regole di correttezza e buona fede, sicché il diritto deve essere esercitato tenendo conto delle esigenze superiori di tutela della salute dei cittadini e non può essere finalizzato a mortificare la personalità del dirigente né a realizzare risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali il potere è attribuito”. L’accoglimento dei motivi del ricorso incidentale relativi all’an della pretesa risarcitoria, assorbe tutte le questioni poste dallo stesso ricorso incidentale e dal ricorso principale sul quantum del risarcimento. – Omissis La Corte accoglie il ricorso incidentale nei limiti di cui in motivazione ed assorbe il ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Core di Appello di Roma. – Omissis.
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La tutela della professionalità del dirigente (medico) durante lo svolgimento dell’incarico. Tra regole di giudizio, prospettive negoziali e ipotesi ermeneutiche Sommario : 1. Il caso. – 2. Il quadro interpretativo di riferimento. – 3. Incarichi dirigenziali: mobilità ‘esterna’ (infra incarichi) e ‘interna’ (endo incarico). – 4. Jus variandi ‘endo incarico’ e strumentazione giuridica: tra pubblico, privato e contrattazione. – 5. Attendendo la contrattazione collettiva: l’interpretazione della professionalità.
Sinossi. La nota esamina la questione del valore e della tutela della professionalità del dirigente medico sia dal punto di vista, tradizionale, dell’esercizio della mobilità interna tra incarichi, sia da quello – a quanto consta inesplorato – dell’esercizio dello jus variandi nel corso dello svolgimento di un incarico. Il commento si muove tra le pieghe delle modifiche normative, le maglie (a trama larga) della contrattazione collettiva e gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che si sono occupati, dal pubblico al privato e dal privato al pubblico, del tema.
1. Il caso. La sentenza in esame affronta il caso, prima facie abbastanza classico, di quattro cardiochirurghi dirigenti medici di una azienda ospedaliera che si sono rivolti al Tribunale di Pisa per sentir condannare l’azienda alla loro reintegrazione e al risarcimento del danno (patrimoniale, biologico e non patrimoniale) per averli demansionati «deprivando[li] […] di contenuti essenziali delle loro mansioni», a causa del loro mancato trasferimento in una nuova unità sperimentale. Circostanza che li aveva emarginati e privati della possibilità di «effettuare interventi chirurgici qualitativamente e quantitativamente adeguati alla professionalità posseduta». Il Giudice di Pisa, ritenendo fondata la lamentela sullo svuotamento di mansioni, accoglie il ricorso e condanna l’azienda ospedaliera alla reintegrazione nelle precedenti mansioni ed al risarcimento del danno. A seguito di gravame, la Corte di appello di Firenze, sul fronte del demansionamento, conferma la decisione del Giudice di Pisa, pur non ritenendo sussistenti le condizioni per la riassegnazione ai precedenti compiti; tuttavia, in tema di risarcimento del danno alla professionalità, ritiene esistente solo quello non patrimoniale, non risultando provato che i resistenti avrebbero potuto beneficiare di una diversa dinamica di carriera laddove non si fosse verificata la dequalificazione.
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Sia i dirigenti sia l’azienda ospedaliera ricorrono alla Suprema Corte per la cassazione della sentenza di secondo grado nelle parti in cui risultavano, rispettivamente, soccombenti. La Cassazione, in accoglimento del secondo e quarto motivo del ricorso incidentale proposto dall’azienda ospedaliera, giudica insussistente l’asserita dequalificazione. Ciò in quanto non si era verificata una lesione della professionalità dei dirigenti medici ai quali non può essere riconosciuto, stante l’inapplicabilità a questi ultimi dell’art. 2103 c.c., «un diritto soggettivo a svolgere compiti qualitativamente e quantitativamente equivalenti a quelli curati da altri dirigenti della medesima struttura né a quelli svolti in passato». La Corte rinvia alla Corte d’appello di Roma.
2. Il quadro interpretativo di riferimento. La sentenza in commento – che ritorna sul tema della tutela della professionalità del dipendente pubblico in occasione dell’esercizio dello jus variandi da parte dell’amministrazione di appartenenza – si mostra particolarmente interessante sotto due profili. Da un lato, infatti, consente di ragionare sul grado tutela della professionalità del dirigente nell’ipotesi di esercizio del potere di modifica delle mansioni al termine e durante lo svolgimento di un incarico. Dall’altro, permette di analizzare lo stato e le prospettive di tutela della dignità professionale del dirigente in una logica di raffronto tra la strumentazione legale e interpretativa oggi vigente nel lavoro pubblico e nell’impiego privato che, a quasi tre anni dalla riscrittura dell’art. 2103 ad opera dell’art. 3 del d.lgs. n. 81/20151 e dall’abbandono del criterio dell’equivalenza, presenta molti elementi di incertezza, di cui uno si manifesta proprio in relazione al lavoro dirigenziale. La pronuncia consente, quindi, di continuare in quel raffronto tra pubblico e privato che, in materia di mansioni, continua ad affascinare la dottrina e a suggestionare la giurisprudenza2.
3. Incarichi dirigenziali: mobilità ‘esterna’ (infra incarichi) e
‘interna’ (endo incarico).
Il caso affrontato dalla sentenza de qua si colloca su un terreno – quello degli incarichi dirigenziali – in cui le previsioni collettive di inquadramento e di sistematizzazione di mansioni, compiti e professionalità (v. infra § 4) sono pressoché assenti.
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Pubblicato in G.U. n. 144 del 24.6.2015 è entrato in vigore dal giorno successivo. Per una breve ma efficace ricostruzione del rapporto osmotico tra due settori, cfr. Riccobono, Ancora sull’equivalenza della mansioni nel lavoro pubblico e privato: interferenze reciproche e circolazione dei modelli regolativi nella più recente evoluzione normativa, in ADL, 2014, 6, 1341 ss.; più di recente Brollo, Le mansioni: la rivoluzione promessa nel Jobs Act, in Labor, 2017, 6, 631-632.
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Ciò in quanto, data la natura fiduciaria di tale tipologia di incarichi e il loro stretto legame con il raggiungimento di obiettivi di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, al concetto di mansione si sostituisce quello di ‘funzione’ o ‘incarico’ e la ‘qualifica’ non vale ad esprimere una determinata posizione lavorativa inserita «nell’ambito di una carriera» ma solo la «idoneità professionale del dipendente […] a svolgerla concretamente»3. Si pone, quindi, la stimolante questione di verificare se, pur in assenza di una classificazione da parte della contrattazione collettiva ma in dipendenza di una nozione legale contrattuale e ‘contrattata’ di professionalità, il dirigente trovi adeguata tutela. È necessario, tuttavia, fare un passo indietro distinguendo due ambiti: quello dell’assegnazione di un nuovo incarico o del passaggio fra incarichi diversi e quello – che coincide con il caso affrontato dalla sentenza in analisi – dell’attribuzione, durante l’esecuzione di un incarico, di compiti/aree di competenza, responsabilità ed operatività differenti rispetto a quelle inizialmente conferiti. Il primo profilo, cui in questa sede si può solo accennare, trova il proprio referente normativo nell’art. 19, comma 1 del d. lgs. n. 165/2011, secondo cui «al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l’articolo 2103 del codice civile» seppur si tiene conto «[…] in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell’amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione eventualmente maturate all’estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti al conferimento dell’incarico». Sulla base di questo schema – non modificabile dalla contrattazione collettiva4 – il dirigente è chiamato a svolgere una serie di funzioni, per effetto dell’attribuzione di un incarico temporaneo, sulla base dell’esistenza di presupposti oggettivi (natura e caratteristiche degli obiettivi da perseguire) e di caratteristiche soggettive (attitudini e capacità professionali). Alla scadenza dell’incarico, il dirigente può essere destinato a qualunque altro incarico (anche meno rilevante) purché vengano rispettati i procedimenti e i criteri stabiliti da norme e regolamenti per garantire la correttezza dell’azione amministrativa, nonché dei generali principi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.5. Come ormai pacificamente riconosciuto dai giudici di legittimità «alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l’attitudine professionale all’assunzione di incarichi» ma non anche il diritto soggettivo alla conservazione del precedente incarico inteso quale conser-
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Cfr. Cass., 22 dicembre 2004, n. 23760, in FI, 2005, 1, 3120. Conformi, Cass., 22 febbraio 2017, n. 4621, in GC Mass, 2017; Cass., 21 luglio 2015, n. 15226, in www.cortedicassazione.it; Cass., 21 ottobre 2014, n. 22284, in www.cortedicassazione.it; Cass., 23 ottobre 2013, n. 24035, in Diritto e Giustizia online 2013; Cass., 15 febbraio 2010, n. 3451, in GC, 2011, 3, 799; Trib. Forlì, 15 ottobre 2004, in LPA, 2004, 1171 e Trib. Ravenna, 28 novembre 2001, in LPA, 2002, 1175. L’art. 19, comma 2-bis d.lgs. n. 165/2001 stabilisce, infatti, che le disposizioni «di cui al presente articolo» non sono derogabili dalla contrattazione collettiva. Per un esempio di deroga, ampiamente criticata, da parte del CCNL Area I del quadriennio 1998-2001 e successivi rinnovi, cfr. Boscati, Il dirigente dello Stato. Contratto di lavoro e organizzazione, Giuffrè, 2006, 261, nota 87. Sull’importanza dell’utilizzo dei ‘criteri di scelta’ del dirigente da parte della Pubblica Amministrazione, v. C. cost. 30 gennaio 2012, n. 11, in GI, 2002, 2020. Per un breve ma efficace quadro, v. Boscati, op. cit., 58-61.
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vazione di una specifica professionalità acquisita. Viene meno, infatti, un sistema fondato sull’assegnazione di specifiche mansioni ricomprese nella qualifica per il quale il dipendente è stato assunto6. Ciò nell’ottica di dotare gli uffici dirigenziali di risorse umane maggiormente idonee allo svolgimento di attività oggetto di valutazione, sulla base di efficaci criteri di risposta all’interesse pubblico e di opportuna garanzia di una libertà di scelta nell’affidamento dell’incarico dirigenziale senza il timore di eventuali censure basate su un illegittimo demansionamento, dal momento che il mancato rinnovo dell’incarico giunto a scadenza non configura una dequalificazione7. Il secondo ambito di analisi è più circoscritto e, a quanto consta, interpretativamente non battuto e coincide con l’esercizio dello ius variandi orizzontale durante lo svolgimento dell’incarico, in dipendenza dell’esercizio del potere di direzione (o direttivo) da parte dell’amministrazione8. Proprio l’ipotesi verificatasi nel caso analizzato dalla Corte, in cui l’istituzione di una nuova unità sperimentale di cardiochirurgia aveva implicato una variazione organizzativa tale da mutare – nel corso di svolgimento dell’incarico – la distribuzione delle attività e, quindi, anche delle modalità, della quantità e qualità delle prestazioni da effettuare. L’art. 19, comma 12-bis del d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che l’amministrazione possa operare delle variazioni in costanza di incarico, dato che l’atto di conferimento dell’incarico stesso deve individuare «l’oggetto […] e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell’incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati» (c.m.). Secondo una dottrina, la disposizione limita il potere unilaterale di modifica al mutamento dei soli obiettivi poiché la variazione unilaterale della durata e dell’oggetto dell’incarico (leggi: delle mansioni) determinerebbe la precarietà dell’incarico stesso in termini di durata e di contenuti. Stando a questa visione, solo una revoca dell’incarico e una successiva riassegnazione potrebbero modificare la durata e l’oggetto dell’incarico stesso9. Il principio di diritto enunciato dalla Cassazione, però, se nell’incipit recepisce in toto l’orientamento relativo all’inesistenza del diritto del dirigente medico al mantenimento della professionalità acquisita nel passaggio da un incarico ad un altro (v. supra); nel prosieguo afferma che nella «assegnazione degli incarichi e nella distribuzione del lavoro»
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Cass., 22 dicembre 2004, n. 23760 cit., richiamata ampiamente da Cass., 23 ottobre 2013, n. 24035, cit. V. anche Cass., 22 febbraio 2017, n. 4621, cit.; Cass., 14 aprile 2015, n. 7495, in GC Mass, 2015 e Cass., 22 dicembre 2004, n. 23760, cit. In dottrina, D’Alessio, Gli incarichi di funzioni dirigenziali, in F. Carinci, D’Antona (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Commentario, Giuffrè, 2000, 761. Parla di una «mera aspettativa», Tampieri, Il «demansionamento» del dirigente pubblico e la tutela giurisdizionale, in LPA, 2005, 3-4, 573; v. anche Boscati, op. cit., 260 ss. In giurisprudenza, Cass., 24 settembre 2015, n. 18972, in LPA, 2015, 5, 724; Trib. Trento, 8 giugno 2001, in LPA, 2001, 875 e Trib. Forlì, 15 ottobre 2004, cit.; configurano un interesse legittimo, Cass., 22 febbraio 2017, n. 4621, cit. e Trib. Ravenna 28 novembre 2001, in LG, 2002, 870, con nota di Boscati. Tocca la questione, seppur senza proseguirla nel senso qui prospettato, Boscati, op. cit., 262 ss. La variazione degli obiettivi, invece, risulta coerente sia con la necessità di adeguare l’attività alle indicazioni annuali dell’organo politico, sia con le regole di valutazione periodica (annuale) dell’attività dirigenziale. Cfr. v. Boscati, Il dirigente dello Stato. Contratto di lavoro e organizzazione, op. cit., 263 e Zoli, La dirigenza pubblica tra autonomia e responsabilità: l’attribuzione degli incarichi, in LPA, 2005, 276.
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fra i dirigenti medici il «datore di lavoro» è chiamato a rispettare le regole di correttezza e buona fede e non può agire con lo scopo di «mortificare la personalità del dirigente né […] realizzare risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali il potere è attribuito» (i.e. garantire una corretta ed efficace esecuzione del servizio nella logica di tutelare il diritto alla salute dei cittadini). I giudici di legittimità, pur fra le righe e con una certa opacità, sembrano richiamare termini e nozioni prettamente privatistici: il «datore di lavoro» che ai fini della distribuzione degli incarichi (i.e. interventi chirurgici ai medici di reparto) è chiamato a preservare la competenza degli operatori e il loro diritto a non vedere mortificate le capacità sia dalla riduzione in inattività, sia dall’assegnazione a compiti che richiedono un «bagaglio di conoscenze specialistiche diverso da quello posseduto e allo stesso non assimilabile, sulla base delle corrispondenze stabilite a livello regolamentare». C’è da chiedersi, quindi, se – fatti salvi i limiti dati dalla mancanza di un diritto del dirigente al mantenimento di un incarico del medesimo valore e dalla impossibilità per l’amministrazione di variare unilateralmente e macroscopicamente il contenuto dell’incarico stesso – si possa riconoscere all’amministrazione stessa la facoltà di operare dei microaggiustamenti contenutistici delle prestazioni dirigenziali al fine di adattarle a modifiche organizzative intervenute, pur lasciando intatti gli indirizzi generali ricevuti, i risultati da perseguire e i livelli di coordinamento richiesti. Se questo è possibile, in assenza di una disciplina legale e contrattuale applicabile ad hoc vale la pena individuare quale strumentazione interpretativa possa essere utilizzata: se quella dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 (in ragione dell’ordinamento pubblico cui, comunque, appartiene il dirigente) oppure quella dell’art. 2103 c.c. (data la natura privatistica del suo rapporto di lavoro10). Sul punto, il citato art. 19 comma 1 del d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che «al conferimento di incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l’art. 2103 del codice civile» ma non dice quale disciplina si applichi allo jus variandi esercitato durante un incarico.
4. Jus variandi ‘endo incarico’ e strumentazione giuridica: tra pubblico, privato e contrattazione.
Come ormai unanimemente riconosciuto, per il lavoro pubblico non dirigenziale, l’unico referente normativo per ogni questione concernente la mansioni, l’inquadramento e la professionalità del lavoratore è l’art. 52, d.lgs. n. 165/200111.
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Per una breve trattazione del tema della qualificazione (pubblicistica o privatistica) dell’atto di conferimento di incarico, v. Boscati, op. cit., 226-230. Per l’accoglimento, oramai pacifico, della natura privatistica dell’atto di conferimento da parte della giurisprudenza, v. Cass., sez. un., 9 dicembre 2004, n. 22990, in GC, 2005, I, 1392; Cass., 20 marzo 2004, n. 5658, in LPA, 2004, 153 e, per la dirigenza sanitaria, Cass., 15 maggio 2003, n. 7623, in FI, 2003 I, 3384. 11 Curzio, Pubblico impiego, sospensioni, congedi, aspettative, mutamenti di mansioni, promozioni, in D&L, 2002, I, 269, parla di «una disciplina organica, complessivamente diversa e, quindi, incompatibile con quella della norma del codice civile». Per una ampia
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Giurisprudenza
È bene ricordare che l’attuale formulazione della disposizione stabilisce che «il prestatore di lavoro deve essere adibito […] alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento». Alla luce della norma, quindi, la professionalità trova tutela nel valore dell’equivalenza valutato alla stregua delle previsioni negoziali e l’indagine giudiziale risulta limitata all’accertamento oggettivo della riconducibilità, sulla base delle previsioni collettive, delle nuove e vecchie mansioni alla medesima area di inquadramento, senza alcun rilievo per le mansioni effettivamente svolte dal dipendente12. L’equivalenza, quindi, rende legittimo l’esercizio dello jus variandi orizzontale ogni qual volta lo sanciscano i contratti collettivi, senza che abbiano rilievo prestazioni precedentemente e concretamente svolte dal lavoratore13. Tuttavia, sul dato dell’effettività della tutela della professionalità del dipendente pubblico (lo stesso che emerge nella sentenza in commento) la dottrina si è divisa. Una parte degli interpreti14 e la giurisprudenza attualmente maggioritaria15 ha ritenuto che l’autonomia collettiva, muovendo dall’esperienza concreta possa attribuire il giusto valore al contenuto delle mansioni secondo i mutevoli dati di tipicità ambientale, creando famiglie professionali omogenee sotto il profilo della qualità e dell’impegno richiesto ai lavoratori. L’equivalenza ‘convenzionale’, poi, sganciata dalle valutazioni, non uniformi e spesso altalenanti della giurisprudenza e basate sulla verifica dell’attività effettivamente espletata dal singolo lavoratore, entro lo specifico contesto aziendale, sarebbe più forte ed efficace.
bibliografia, ex multis: Liebman, La disciplina delle mansioni nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in ADL, 1999, 636, che individua nella disposizione un «micro-sistema autoconcluso»; Spinelli, I sistemi di classificazione e la disciplina delle mansioni nel lavoro pubblico, in Carabelli, M.T. Carinci (a cura di), Il lavoro pubblico in Italia, Cacucci, 2007, 87-88. 12 In dottrina, cfr. Liso, Autonomia collettiva e occupazione, in DLRI, 1998, 256; Campanella, Mansioni e ius variandi nel lavoro pubblico, in LPA, 1999, 64; Fiorillo, Commento all’art. 56, in Corpaci, Rusciano, Zoppoli (a cura di), La riforma dell’organizzazione dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in NLCC, 1999, 1392; Caponetti, Le mansioni nel pubblico impiego, in LPO, 2006, 451. In giurisprudenza, per tutte, Cass., sez. un., 4 aprile 2008, n. 8740, in LPA 2008, 2, II, 351 ss., con nota di Murrone. 13 In questa sede si può solo ricordare che, secondo buona parte della dottrina, la contrattazione collettiva riveste un ruolo strategico nei processi di mobilità del personale, svincolando il concetto di equivalenza dalle variegate valutazioni professionali invalse nella giurisprudenza privatistica (ante Riforma del 2015 n.d.r.). Cfr. Campanella, op. cit., 64; nello stesso senso Miscione, Mansioni, progressioni professionali e altri strumenti premiali, in F. Carinci, Mainardi (a cura di), La terza riforma del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commentario al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, Ipsoa, 2011, 123 ss.; Ferrante, Nuove norme in tema di inquadramento e di progressione di carriera dei dipendenti, in Garilli, Napoli (a cura di), La terza riforma del lavoro pubblico tra aziendalismo e autoritarismo, Cedam, 2013, 463. 14 Fiorillo, op. cit., 1392; Cecconi, Commento all’art. 52, in Amoroso, Di Cerbo, Maresca, Il diritto del lavoro. Il lavoro pubblico, vol. III, Giuffrè, 2001, 527; Topo, Legge e autonomia collettiva nel lavoro pubblico, Cedam, 2008, 302, secondo cui la «disciplina sindacale», da un lato, elimina alla radice l’arbitrio del soggetto agente e, dall’altro, riduce il contenzioso poiché solleva il dirigente dalla responsabilità di individuare le mansioni equivalenti. V. Liebman, op. cit., 640; Sgarbi, Inquadramento, attività esigibili e progressione professionale nelle pubbliche amministrazioni, in LPA, 1999, 71. 73; Alleva, Lo ius variandi, in F. Carinci, D’Antona (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, op. cit., 1552; Iaria, Commento all’art. 56, in Clarich, Iaria, La riforma del pubblico impiego, Maggioli, 2000, 482. 15 Guida l’orientamento prevalente, la già citata Cass., sez. un, 4 aprile 2008 n. 8740. Per una lettura critica della sentenza cfr. Pisani, Sulla dequalificazione nel lavoro privato e pubblico, in MGL, 2008, 12, e Murrone, Mansioni equivalenti nel pubblico impiego, contratto collettivo e valutazione giudiziale, in LPA, 2008, 2, 360. Per altre pronunce conformi, ex plurimis: Cass., 26 marzo 2014, n. 7107, in RIDL, 2015, 1, II, 151; Cass., 15 gennaio 2014, n. 687, in GC Mass., 2014; Cass., 22 aprile 2011, n. 9313, in GC, 2013, 3-4, I, 799; Cass., 8 aprile 2011, n. 8084, in GC Mass., 2011, 4, 565; Cass., 11 maggio 2010, n. 11405, in FI, 2010, I, 2371; Cass., 5 agosto 2010, n. 18283, in LPA, 2010, 710; Cass., 21 maggio 2009, n. 11835, in DRI, 2010, 68.
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Altra parte della dottrina16, invece, è voluta andare oltre il dato, astratto, del rinvio alle determinazioni contrattuali. Lo ha fatto esaminando, in concreto, la contrattazione di comparto ed i sistemi di classificazione del personale elaborati tramite l’accorpamento delle diverse qualifiche funzionali in un numero ridotto (di norma tre o quattro) di categorie/ aree corrispondenti «a livelli omogenei di competenze, conoscenze e capacità essenziali per l’espletamento di una vasta e diversificata gamma di attività lavorative»17, secondo il diverso grado di autonomia e responsabilità descritto da apposite declaratorie. Dall’analisi è emersa la tendenza di alcuni contratti a rendere esigibili tutte le mansioni ricomprese nelle singole categorie/aree, in quanto considerate equivalenti ‘a priori’, con l’effetto di legittimare una accezione notevolmente ampia di equivalenza e, quindi, di mobilità interna. Ciò, pur avendo il pregio di aumentare la flessibilità gestionale, rischia di depotenziare la tutela della professionalità del lavoratore pubblico: laddove, infatti, l’accorpamento contrattuale18 di mansioni renda, di fatto, fungibili compiti che per essere eseguiti richiedono un bagaglio di competenze professionalmente molto distanti, se non completamente differenti, si ricadrebbe in quella indiscriminata fungibilità che la giurisprudenza maggioritaria, nel settore privato, oblitera per violazione del ‘divieto di patti contrari’ posto dall’art. 2103, comma 9 c.c.19. Per tale ragione alcuni interpreti20 si sono domandati se, in un’ottica di tutela effettiva della professionalità del lavoratore pubblico, ci sia spazio per un accertamento dell’equivalenza guardata con la lente della professionalità effettiva del lavoratore al di là della corrispondenza contrattuale21.
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Alleva, op. cit., 1553-1554; Lanotte, Spunti ricostruttivi su mansioni e professionalità nel lavoro pubblico «privatizzato», in MGL, 2008, 5, 366 ss.; Liebman, op. cit., 628, vede il rischio di una «possibile genericità delle classificazioni contenute nei contratti collettivi» ma appare fiducioso dell’assunzione responsabile da parte dell’autonomia collettiva del ruolo di «gestione collettiva degli interessi professionali dei lavoratori»; parla di un panorama contrattuale ambiguo e contraddittorio, Riccobono, op. cit., 1350. 17 Così Della Rocca, Gli ordinamenti professionali o «broad banding»; l’esperienza in Gran Bretagna e in Italia, in LPA, 2003, 274. 18 Un chiaro e ricorrente esempio di quanto prospettato, si trova nel sistema di classificazione professionale contenuto nell’Allegato A, del CCNL Regioni ed autonomie locali del 31.3.1999, con specifico riferimento alla declaratoria prevista per la categoria D, ove si legge testualmente che «fanno parte di questa categoria, ad esempio, i profili identificabili nelle figure professionali di: farmacista, psicologo, ingegnere, architetto, geologo, avvocato, specialista di servizi scolastici. Curzio, op. cit., 264, ha ricavato, da tale previsione, la possibilità di ammettere «l’intercambiabilità tra un geologo, un farmacista, uno psicologo etc.»; possibilità certamente sorprendente e paradossale ma del tutto corretta dal punto di vista sistematico, data la medesima area di appartenenza delle posizioni professionali descritte. 19 Sgarbi, op. cit., 82; Liebman, op. cit., 627 e 640; Campanella, op. cit., 65; Curzio, op. cit.; Lanotte, op. cit., 366; Perrino, Mansioni del lavoratore e potere della Pubblica amministrazione, in FI, 2005, I, 1365; Gragnoli, Le qualifiche nei nuovi contratti: il reinquadramento e la fase transitoria, in LPA, 1999, 109; Tullini, Le mansioni nel lavoro pubblico (un’idea incompiuta di privatizzazione), in LD, 1998, I, 189-192. Curzio, op. cit., 264 (nota 63); Pellacani, Inquadramento, qualifiche e mansioni, in DPL, 2003, 28, 1934; Murrone, op. cit., 357. 20 Campanella, op. cit., 65; Alleva, op. cit., 1553; Pellacani, op. cit. 21 Parla di professionalità legata a profili formali ed ‘annegata’ nel mare dei grandi raggruppamenti, Alleva, ibidem. Sul punto anche Gragnoli, op. cit., 109, secondo cui la professionalità «potrebbe essere priva di adeguata salvaguardia se l’identificazione delle mansioni equivalenti fosse rimessa in via esclusiva a clausole convenzionali poco rispettose delle competenze maturate e del desiderio di perfezionarle».
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Giurisprudenza
Solo una parte della dottrina22 e alcune – ma isolate – pronunce giurisprudenziali23 hanno provato a rileggere la formulazione letterale dell’art. 52, comma 1 d.lgs. n. 165/2001 riferendola non alle mansioni considerate equivalenti dalla contrattazione collettiva bensì alle «mansioni considerate equivalenti nell’ambito della qualificazione prevista nei contratti collettivi», con la conseguenza che il contratto collettivo rappresenterebbe un mero referente per delimitare l’area entro il quale il giudizio di equivalenza deve essere svolto (ex ante, dall’amministrazione ed ex post dal giudice) ma non l’elemento fondante il giudizio stesso24. A riprova è stato chiamato il CCNL del Comparto Università 2006-2009, che all’art. 24, comma 225 prevede che «l’equivalenza delle mansioni va valutata dal punto di vista della professionalità comunque acquisita dal lavoratore», escludendo, con ciò, l’automatica esistenza di un rapporto di equivalenza tra le mansioni appartenenti alla stessa categoria contrattuale. Ne deriva, secondo il citato contratto, che l’assegnazione a mansioni incluse nella stessa categoria ma non equivalenti sotto il profilo della professionalità posseduta «può avvenire solo se l’Amministrazione si faccia carico dei necessari interventi formativi e con il consenso del lavoratore». Nel caso della dirigenza pubblica, come anticipato, la disciplina collettiva non interviene a disciplinare l’aspetto classificatorio, dal momento che all’esito della procedura concorsuale e una volta stipulato il contratto individuale di lavoro tutti i dirigenti pubblici sono inquadrati in un unico ruolo e in un unico livello, articolato nelle diverse responsabilità professionali e gestionali26. Successivamente, con l’atto di conferimento dell’incarico vengono definite le mansioni cui saranno adibiti. Ciò nonostante, il riferimento alla professionalità e al suo valore nelle previsioni contrattuali non può dirsi assente.
22
Curzio, op. cit., 264-265; Murrone, op. cit., 358; più di recente, Viscomi, Il pubblico impiego: evoluzione normativa e orientamenti giurisprudenziali, in DLRI, 2013, 64. Sul punto v. anche Pisani, La rilegificazione dell’equivalenza delle mansioni nel lavoro pubblico contrattualizzato, in MGL, 2012, 828, ss. e Gargiulo, La disciplina delle mansioni nel pubblico impiego, in Zilio Grandi, Gramano (a cura di), La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act. Quadro legale e profili problematici, Giuffrè, 2016, 181, ss. 23 Cass., 26 settembre 2007, n. 20170, in GC Mass., 2007, 9; Cass., 9 maggio 2006, n. 10628, in GC, 2007, 3, I, 730; App. Roma, 16 maggio 2002, in MGL, 2003, 72, con nota di Tatarelli; Trib. Vicenza, 21 agosto 2001, in LG, 2002, 356. Una conferma alla lettura proposta viene individuata nel l’art. 3, co. 2 del CCNL Regioni e autonomie locali, il quale stabilendo che: «ai sensi dell’art. 56, del d. lgs. n. 29/1993 (leggi: art. 52 T.U.), tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria in quanto (c.m.) professionalmente equivalenti, sono esigibili […]», ha ammesso – anche se con una formulazione poco chiara – la mobilità verso tutte le mansioni che, ricomprese entro la categoria, siano da reputarsi equivalenti in base ad un giudizio di professionalità svolto caso per caso, escludendo che il lavoratore possa essere potenzialmente adibito a tutte le mansioni che, per il solo fatto di essere incluse nella categoria, debbano ritenersi equivalenti. 24 Segnalata sia da Trib. Vicenza, 21 agosto 2001, cit., sia da Curzio, op. cit., 265. 25 Nello stesso senso anche l’art. 3, comma 2 del CCNL Regioni e autonomie locali 1998-2001 del 31.3.1999 (confermato sul punto dai successivi rinnovi), il quale stabilendo che: «ai sensi dell’art. 56, del d.lgs. 29/1993 (leggi: art. 52 T.U.), tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria in quanto (c.m.) professionalmente equivalenti, sono esigibili […]», ha ammesso – anche se con una formulazione poco chiara – la mobilità verso tutte le mansioni che, ricomprese entro la categoria, siano da reputarsi equivalenti in base ad un giudizio di professionalità svolto caso per caso, escludendo che il lavoratore possa essere potenzialmente adibito a tutte le mansioni che, per il solo fatto di essere incluse nella categoria, debbano ritenersi equivalenti. 26 V. l’art. 15 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502. Nel caso dei dirigenti pubblici i concetti di categoria e qualifica coincidono, poiché «l’acquisizione della qualifica dirigenziale a seguito della stipulazione del contratto individuale in esito alla speciale procedura concorsuale comporta l’applicazione dell’intera specifica disciplina […] dettata per i dirigenti pubblici» (Boscati, op. cit., 77-78).
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Il CCNL per la Dirigenza medica del servizio sanitario nazionale27, che distingue quattro tipologie di incarichi conferibili e specifica che fra gli stessi non vi è un rapporto di sovra-sotto ordinazione (nel rispetto del principio di assoluta e astratta equivalenza delle mansioni dirigenziali in sede di conferimento e passaggio di incarico), individua i criteri di ‘ingresso’ (basati sull’anzianità) e di ‘progresso’ (sulla base di criteri di valutazione delle performance) fra gli stessi e li definisce rinviando al livello quali-quantitativo di competenze necessarie per svolgerli. Anche l’art. 6 del Contratto Integrativo del CCNL dell’Area della dirigenza medico-veterinaria del servizio sanitario nazionale del 17 ottobre 2008, rubricato «sistema degli incarichi e sviluppo professionale» riconosce, in un’ottica di valorizzazione delle funzioni dirigenziali, la necessità di salvaguardare l’autonomia e la responsabilità professionale anche laddove – un po’ come accaduto nel caso oggetto di giudizio – si esplichino «nell’ambito di una struttura articolata ma unitariamente preordinata al raggiungimento di un risultato, nel rispetto delle dinamiche organizzative della struttura stessa». L’autonomia collettiva, quindi, sebbene non si occupi della professionalità sotto il profilo della sua classificazione pare accoglierne un valore ed una dimensione sostanziale: di sviluppo e di realizzazione concreta entro le dinamiche delle strutture nelle quali essa si svolge. In altre parole, la contrattazione collettiva conferma, tra le righe, la rilevanza della tutela della professionalità (specifica) del dirigente medico identificandone e caratterizzandone la figura professionale in termini di autonomia e responsabilità in un’ottica di salvaguardia ma anche di accrescimento e di sviluppo delle abilità. Sul campo del lavoro privato, dopo la Riforma del 2015, si ritrova uno schema normativo pressoché identico a quello dell’art. 52 d.lgs. n. 165/2001 ed una realtà contrattuale che per i dirigenti, come nel pubblico, non si è (ancora) occupata di classificare le diverse posizioni e livelli. Cosicché anche i dirigenti del lavoro privato sono, di fatto, inquadrati in un unico ruolo/area, senza distinzioni tarate sul livello di competenza e responsabilità effettivamente posseduto28. L’unico, residuo, elemento di difformità tra pubblico e privato, com’è noto, è rappresentato dal fatto che lo jus variandi ‘privatistico’ ha perso l’equivalenza professionale quale limite alla mobilità orizzontale. Al cospetto, quindi, di una categoria che si mostra molto estesa – dato che comprende dai dirigenti apicali, con ampi poteri di rappresentanza, autonomia e decisione ai c.d. dirigenti c.d. ‘minori’ o ‘pseudo’, privi di tali poteri29 – e in relazione ad una mobilità orizzontale il cui esercizio è unicamente affidato ad una contrattazione collettiva che, però, è assente, gli strumenti diretti a regolare il corretto esercizio della mobilità orizzontale e,
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Si tratta, ex art. 27, degli incarichi di: direzione di struttura complessa; direzione di struttura semplice; di natura professionale anche di alta specializzazione, di consulenza, di studio e ricerca, ispettivi, di verifica e di controllo; di natura professionale conferibili ai dirigenti con meno di cinque anni di attività. 28 Brollo, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in ADL, 2015, 1162. 29 Per una ricostruzione degli orientamenti che si sono succeduti sulla nozione di dirigente, per tutti Zoli, voce Dirigente, in Irti (a cura di), Dizionario di diritto privato, in Lambertucci (a cura di), Diritto del Lavoro, Giuffrè, 2010, 156 ss.
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quindi, a proteggere la professionalità del lavoratore rischiano di essere concretamente inefficaci.
5. Attendendo la contrattazione collettiva: l’interpretazione
della professionalità.
Lo scenario che si ricava dalle brevi ricostruzioni sopra operate è particolarmente nebuloso. Tanto nel lavoro pubblico tanto nel lavoro privato, infatti, lo schema regolativo dello jus variandi basato sulla contrattazione collettiva non pare attualmente in grado di offrire sufficienti tutele, né tanto meno di ridurre il ricorso al sindacato giudiziale. Ciò perché l’autonomia collettiva in materia o è assente (come nel caso dei dirigenti) o è «latitante, imprecisa o vaga»30. Di fronte a questa incertezza e fintantoché la contrattazione collettiva non si muoverà nel senso voluto dal legislatore, le vie interpretative percorribili – a parere di chi scrive – potrebbero essere due. La prima, muove dal lavoro privato e si rifà all’esperienza di alcune multinazionali31 che hanno integrato (nei casi di sistemi di inquadramento ‘datati’ e non aggiornati32) o supplito (nelle ipotesi di regolazione assente33) la contrattazione collettiva in materia di classificazione, inquadramento e gestione della mobilità interna, mediante l’introduzione della c.d. “job architecture”. Si tratta di sistemi che per le qualifiche medio-alte (impiegati e dirigenti), leggendo il dato reale delle organizzazioni, analizzano in modo accurato le singole posizioni di lavoro e descrivono ogni funzione/settore aziendale in termini di conoscenze professionali, livello di complessità, grado di autonomia e tecnica necessari all’esecuzione del lavoro, tenendo conto anche del titolo di studio e dell’esperienza pregressa. Il tutto non senza dare peso alle abilità che il ruolo consente di acquisire in una prospettiva di career development. La valutazione professionale viene espressa e riassunta con un indice numerico progressivo, denominato ‘International Position Evaluation’ e a questo si fa corrispondere una struttura salariale ‘a forbice’, funzionale alla valorizzazione del livello di raggiungimento degli obiettivi di performance connessi alla posizione stessa34.
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Cfr. Brollo, Le mansioni: la rivoluzione promessa nel Jobs Act, op. cit., 630. Per un lucido rinvio ai timori di una parte degli interpreti ed una rapida carrellata (critica) delle «interpretazioni creative» ad oggi prospettate, v. Pisani, I nostalgici dell’equivalenza, in WP D’Antona, It., 310, 2016, 22-26. 31 Viceversa, sulle difficoltà della contrattazione delle aziende nazionali v. D’Amuri, Giorgiantonio, Stato dell’arte e prospettive della contrattazione aziendale in Italia, in WP D’Antona, It., 242/2015, 23 ss. 32 Come nel caso ormai ‘di scuola’ del contratto metalmeccanico definito, a ragione, «il più statico e antico in tema di inquadramento» (Brollo, Le mansioni: la rivoluzione promessa nel Jobs Act, op. cit, 628). 33 Come nell’ipotesi, altrettanto da manuale, dei dirigenti di aziende industriali. 34 Per un esempio: http://www.mercer.com/content/dam/mercer/attachments/global/webcasts/140529_WB_MasterCard_career_path_ journey.pdf e https://info.mercer.com/global-job-architecture-the-electrolux-journey.html.
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Il passo da segnare potrebbe, così, essere quello di affidare alla fonte regolamentare (o contrattuale) aziendale la definizione della materia classificatoria. E ciò sia nel pubblico, sia nel privato35. Se, nel caso oggetto di giudizio, la modifica dell’attività svolta dai dirigenti ricorrenti fosse stata esercitata sotto la guida di una regolamentazione interna contenente una sistematizzazione dei contenuti professionali delle diverse attività (in termini di «competenza e capacità degli operatori sanitari») ed una loro graduazione in dipendenza del concreto ambito lavorativo, con ogni probabilità, il giudice non si sarebbe spinto ad accertare il tipo e il grado di modifica dell’attività svolta ma si sarebbe limitato – come voluto dal legislatore del 2001 e del 2015 – a sussumere la prestazione concretamente resa dentro le caselle categoriali costruite dal regolamento. L’ora richiamata valutazione della professionalità ‘in concreto’ dà lo spunto per la seconda via interpretativa che, questa volta, parte dal lavoro pubblico. Cioè, da quel filone esegetico (ancora minoritario, v. supra) che legge il giudizio di equivalenza ‘contrattuale’ come accertamento basato sulla professionalità realmente estrinsecata anche (ma non solo) tramite l’analisi delle disposizioni contrattuali o regolamentari36. L’operazione ermeneutica operata dai giudici nella sentenza in commento si pone a metà delle due opzioni interpretative. Infatti, sotto il profilo sistematico la Corte accoglie una nozione meramente formale di professionalità ritenendo che gli incarichi dirigenziali, per definizione legislativa, esprimano la medesima capacità professionale. Poi, però, va oltre il dato formale e, sul frangente specifico della distribuzione del lavoro, si spinge (pure con l’aiuto di consulenti tecnici37) a capire se di fatto vi sia stata una mortificazione della dote professionale dei lavoratori. Lo fa, utilizzando un criterio di professionalità ‘customizzata’, tarata su: il profilo professionale oggetto di indagine (il cardiochirurgo); la prestazione da svolgere (l’attività chirurgica), gli obiettivi da perseguire (l’efficace utilizzo delle risorse e l’erogazione di prestazioni appropriate e di qualità). Un giudizio, quello dei giudici di legittimità, che guarda al bagaglio professionale del lavoratore entro lo specifico contesto di riferimento e su questo dato gradua la rilevanza e il rilievo delle modifiche mansionistiche (leggi: la legittimità dello jus variandi). Ne risulta che il diritto al mantenimento della professionalità si traduce e declina in modi diversi a seconda di ciò che il lavoratore concretamente fa. Se il lavoratore ha una professionalità che si esplica giornalmente con la ripetizione di mansioni sempre uguali a se stesse, la variazione (anche minima) di tali attività avrà una ampia rilevanza sotto il pro-
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Nel privato costituisce già un esempio, il Contratto collettivo specifico di lavoro per le aziende appartenenti ai Gruppi FCA e CNH Industrial ed i lavoratori dalle stesse dipendenti del 7.7.2015 (in http://www.bollettinoadapt.it/contratto-collettivo-specifico-ccsl-diprimo-livello-fca-cnh) , con cui è stato introdotto un nuovo inquadramento sperimentale articolato su tre aree professionali, ciascuna delle quali contenente una declaratoria professionale e una serie di mansioni indicate a titolo esemplificativo 36 Un’Autrice ritiene, condivisibilmente, che il filone de quo, data la latitanza contrattuale potrebbe essere ripreso dalla Cassazione. Si rinvia a Brollo, Le mansioni: la rivoluzione promessa nel Jobs Act, op. cit., 632 e Eadem, Quali tutele per la professionalità in trasformazione?, in corso di pubblicazione in Scritti in onore di Carlo Cester. 37 I quali hanno escluso vi fosse stata una sostanziale modificazione della attività dei quattro cardiochirurghi.
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filo dell’esercizio del potere di modificazione datoriale38. Se, al contrario e come nel caso di specie, il lavoratore è addetto a compiti poco ripetivi e largamente creativi, la modifica mansionistica riduce il proprio peso perché incide e si relaziona con un profilo professionale maggiormente complesso e contenutisticamente variabile. Una lettura che, ex artt. 3, 35 e 36 Cost., riconosce l’indubbio diritto all’elevazione professionale dei lavoratori ma lo proporziona, ragionando analogicamente e secondo il principio di uguaglianza sostanziale, «alla quantità e qualità» del tipo di lavoro svolto, in una logica di protezione del «medesimo quantum di ‘saper fare’ […] e non [di] mantenimento del medesimo apporto professionale»39. A prima vista, quindi, il percorso logico giuridico seguito dalla Corte rimanda agli orientamenti ‘nostalgico-creativi’40 che si stanno formando nel lavoro privato per ri-affidare al giudice, nell’attuale stato di ‘vuoto contrattuale’, la protezione concreta ed effettiva della professionalità. A ben guardare, però, la Suprema Corte nel farsi guardiana di tale tutela dà alla nostalgia il senso di un ‘ritorno’ ai ‘principi base’ della materia mansionistica (i.e. tutela della persona che lavora e diritto ad estrinsecare la propria capacità professionale acquisita o potenziale ex artt. 2, 4, 35 e 36 Cost.) ma per ‘andare oltre’. Verso un giudizio diretto a verificare la legittimità dell’esercizio dello jus variandi sulla base del tipo professionale da tutelare e in un’ottica di una nozione di professionalità più o meno ‘adattativa’ e più o meno «plastica»41, a seconda del contesto operativo e organizzativo di riferimento. Marta Vendramin
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La rilevanza dell’esercizio dello jus variandi è testimoniata anche dall’intensità dell’obbligo formativo nascente, ex art. 2103 comma, c.c., dopo il mutamento di mansioni. Si prenda, come esempio, la figura professionale dell’operaio per il quale una minima variazione dei compiti da svolgere determina un immediato ‘debito’ formativo del datore diretto ad adeguare le abilità professionali del lavoratore alle nuove esigenze datoriali. Diversamente, l’obbligo di formazione risulta meno stringente laddove ad essere variati siano alcuni dei compiti che compongono una figura professionale più complessa e variegata (quale quella, ad esempio, del dirigente). 39 Pisani, I nostalgici dell’equivalenza, op. cit., 13. 40 Così, Pisani, op. ult. cit., 2-4. 41 L’espressione, efficacemente contrapposta alla professionalità statica, «di plastica» è di Brollo, Quali tutele per la professionalità in trasformazione?, op. cit.
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Giurisprudenza Corte di C assazione , sentenza 8 novembre 2017, n. 2600; Pres. Napoletano – Est. Manna – P.M. Sanlorenzo (concl. diff.) – B.A. (avv. Pepe) c. X (avv.ti Ricci, Paganuzzi, Fraschini). Cassa con rinvio App. Milano, sent. n. 435/2009. Contratto collettivo – libertà delle forme – forma del recesso – prova della disdetta orale.
In ossequio al principio di libertà delle forme, il contratto collettivo, in quanto contratto di diritto comune, non deve essere necessariamente redatto in forma scritta. Lo stesso principio vale – a meno che vi sia un diverso accordo scritto fra le parti – per l’atto di recesso unilaterale dal contratto collettivo, quando i contraenti prevedano l’ultrattività dello stesso salvo disdetta da compiersi entro una certa data. Il giudice è tenuto ad ammettere la prova testimoniale chiesta dalla parte recedente per dimostrare la disdetta comunicata oralmente alla controparte. Svolgimento del processo. – Con sentenza pubblicata il 30.5.12 la Corte d’appello di Milano confermava - per quel che rileva nella presente sede - la condanna di – Omissis., a pagare per il periodo ottobre 2004 - luglio 2005 ai suoi dipendenti di cui in epigrafe il premio aziendale previsto dagli accordi collettivi aziendali 5.7.74, 6.7.79 e successivi aggiornamenti. Rilevava la Corte territoriale che tali accordi avevano previsto la possibilità di tacito rinnovo annuale, fatta salva eventuale disdetta da manifestarsi entro il 31 gennaio di ciascun anno. La società sosteneva di aver manifestato la propria disdetta dapprima verbalmente nel corso di una riunione con le organizzazioni sindacali tenutasi il 27.1.04, poi per iscritto con lettera del 29 gennaio 2004. Ma – notavano i giudici di merito – essendo pervenuta ad una delle parti stipulanti solo il 3 febbraio successivo, la disdetta doveva considerarsi tardiva, con conseguente rinnovo degli accordi fino alla scadenza del luglio 2005. Per la cassazione della sentenza ricorre – Omissis. affidandosi a sette motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c. – Omissis. Motivi della decisione. – Il primo motivo di ricorso denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 1373 c.c. in riferimento agli artt. 1334, 1350, 1362, 1351 e 1352 c.c., per avere l’impugnata sentenza negato efficacia alla disdetta degli accordi relativi al premio aziendale manifestata oralmente dalla società (nel corso dell’incontro del 27.1.04 con le organizzazioni sindacali), ritenendo all’uopo necessaria la forma scritta, nonostante che – obietta la ricorrente – per il recesso tale forma sia dovuta solo se espressamente pattuita o se concernente un contratto solenne ex art. 1350 c.c.; nel caso di specie la disdetta, espressa dapprima in forma orale dalla società alle organizzazioni sindacali il 27.1.04, doveva quindi considerarsi tempestiva. Il secondo motivo deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 1373, 1334 e 1350 c.c., in relazione
agli artt. 1351 e 1352 c.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto dovuta la forma scritta della disdetta perché pretesa dalle parti collettive nella riunione del 27.1.04: oppone la società la non conferenza del richiamo, operato dalla Corte territoriale, alla ben diversa ipotesi del rapporto fra contratto preliminare e contratto definitivo e a precedenti giurisprudenziali concernenti contratti che la legge espressamente considera solenni. Con il terzo motivo ci si duole di omesso esame d’un fatto decisivo e controverso oggetto di discussione tra le parti, consistente nella avvenuta disdetta verbale manifestata nel corso della riunione del 27.1.04 e nella relativa istanza di prova testimoniale coltivata dalla società. Analoga doglianza viene fatta valere anche con il quarto motivo, sotto forma di denuncia di violazione o falsa applicazione dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 24 Cost. e art. 101 c.p.c. Il quinto motivo denuncia omesso esame d’un fatto decisivo e controverso oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’asserito accordo fra loro intervenuto nel corso della riunione del 27.1.04 affinché la disdetta fosse manifestata per iscritto, accordo apoditticamente affermato dalla sentenza impugnata senza che su di esso sia stato svolto alcun accertamento istruttorio. Il sesto motivo prospetta violazione o falsa applicazione dell’art. 641 c.p.c. in relazione al motivo di gravame con cui la società aveva sostenuto la nullità dei decreti ingiuntivi nn. 16871/08 e 16872/08 (l’opposizione ai quali, da parte della società, aveva originato il presente giudizio) in quanto privi dell’indicazione del termine entro il quale pagare la somma ingiunta: su tale motivo di gravame – lamentava la società ricorrente – nulla aveva risposto la sentenza impugnata. Il settimo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 139, 148 e 149 c.p.c., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui la Corte territoriale non ha considerato che la decadenza dalla disdetta è impedita già dalla mera consegna della relativa lettera
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all’agente postale, di guisa che il dichiarante non può soffrire le conseguenze sfavorevoli di eventuali ritardi altrui. I primi due motivi di ricorso – da esaminarsi congiuntamente perché connessi – sono fondati. Per quanto concerne gli accordi o contratti collettivi di lavoro, una volta venuto meno l’ordinamento corporativo e, con esso, l’art. 2072 cod. civ., inizialmente Cass. n. 5119/87, Cass. n. 5034/89 e Cass. n. 823/93 affermarono la necessità della forma scritta ad substantiam, desunta vuoi dal rispetto del principio dell’affidamento vuoi da norme come, ad esempio, gli artt. 2113 e 2077 c.c., la L. n. 741 del 1959, art. 3 o l’art. 425 c.p.c., che implicitamente presuppongono una forma scritta. Difforme statuizione fu adottata da Cass. n. 8083/87 nel risolvere il diverso, ma connesso, problema della necessità della forma scritta per il mandato conferito dai lavoratori ai rappresentanti sindacali, relativo alla conclusione di un accordo aziendale avente ad oggetto la sospensione del rapporto: tale sentenza ritenne valido il mandato, conferito con comportamenti concludenti, in quanto non era prevista la forma scritta ad substantiam per la stipulazione dell’accordo aziendale (Cass. n. 8083/87). Ancora per la non configurabilità d’una forma scritta ad substantiam si pronunciò Cass. n. 4030/93. Si giunse, infine, alla sentenza n. 3318/95, con cui le S.U. di questa S.C. statuirono che, in mancanza di norme che prevedano, per i contratti collettivi, la forma scritta e in applicazione del principio generale della libertà della forma (in base al quale le norme che prescrivono forme peculiari per determinati contratti o atti unilaterali sono di stretta interpretazione, ossia insuscettibili di applicazione analogica), un accordo aziendale è valido anche se non stipulato per iscritto. In senso conforme si pronunciò Cass. n. 11111/97. Non si ravvisano ragioni idonee a mutare quest’ultimo indirizzo interpretativo, a tal fine non bastando le pur evidenti esigenze funzionalistiche che consigliano l’adozione d’un testo scritto, ma che di per sé non possono imporlo in difetto d’una sanzione a pena di nullità prevista dalla legge o dall’autonomia privata. Per questa ragione non vale invocare gli artt. 2077 o 2113 c.c., la L. n. 741 del 1959, art. 3, l’art. 425 c.p.c. od altre analoghe disposizioni in cui il testo scritto – non sancito a pena di nullità – è implicitamente presupposto a fini meramente ricognitivi. In altre parole, va mantenuto saldo il consolidato principio dottrinario e giurisprudenziale in virtù del quale le norme secondo cui determinati contratti o atti devono essere posti in essere con una forma particolare sono di stretta interpretazione. Ciò sia detto in ossequio al principio di libertà delle forme che deriva dall’art. 1325 c.c., n. 4 (fermo restando che qualsiasi atto, per esistere nel mondo giuridico, deve pur sempre manifestarsi all’esterno ed assumere, quindi, una qualche forma, sia essa verbale, scritta, per fatti concludenti etc.).
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Ne discende che è corretto parlare comunemente di forma libera, come regola, di forma vincolata, come eccezione. È pur vero che in alcune ipotesi questa Corte ha statuito la necessità della forma scritta anche in assenza di espressa disposizione normativa, ma ciò è avvenuto in base ad un’interpretazione estensiva e non analogica di norme che imponevano la redazione per iscritto di atti connessi, come avvenuto – ad esempio – per il contratto che risolva un preliminare comportante l’obbligo di trasferire la proprietà o diritti reali su immobili (v. Cass. n. 13290/15 fino a risalire, indietro nel tempo, a Cass. S.U. n. 8878/90). Una volta stabilita la libertà della forma dell’accordo o del contratto collettivo di lavoro, la medesima libertà deve essere ravvisata anche riguardo agli atti che ne siano risolutori, come il mutuo dissenso (art. 1372 c.c., comma 1) o il recesso unilaterale (o disdetta) ex art. 1373 c.c., comma 2. Tanto deriva dal consolidato principio dottrinario e giurisprudenziale per cui il recesso è un negozio recettizio che, pur non richiedendo formule sacramentali, nondimeno resta assoggettato agli stessi vincoli formali eventualmente prescritti per il contratto costitutivo del rapporto al cui scioglimento sia finalizzato (cfr. Cass. n. 14730/2000, Cass. n. 5454/90 e Cass. n. 5059/86). Ove tali vincoli non siano previsti – come nel caso degli accordi o dei contratti collettivi di lavoro – si riespande il principio della libertà della forma della manifestazione di volontà, tanto per il contratto quanto per i negozi connessivi (come il recesso unilaterale ex art. 1373 c.c., comma 2). È, poi, opportuno precisare che anche per la forma ad probationem tantum è necessaria un’apposita previsione (che nel caso di specie non sussiste) e che esula dalla presente sede il discorso attinente alla forma definita “integrativa” da quella parte della dottrina che la ricava dalle norme che prevedono una determinata forma al solo fine di far sì che il contratto produca tra le parti effetti ulteriori rispetto a quelli tipici e immediati (v., ad es., artt. 1524, 1605, 2787 e 2800 c.c.). La qui ribadita libertà della forma del contratto collettivo di lavoro e dei negozi connessivi (come il recesso unilaterale ex art. 1373 c.c., comma 2) reca con sé la fondatezza – nei sensi qui di seguito meglio chiariti – degli ulteriori motivi di censura riferiti alla mancata ammissione delle prove testimoniali a tal fine chieste e coltivate dalla società ricorrente. Essa è onerata ex art. 2697 c.c., comma 2, della dimostrazione (in quanto ricopre il ruolo sostanziale di convenuto eccipiente) sia dell’esistenza d’una effettiva disdetta verbale espressa nel corso della summenzionata riunione del 27.1.04 sia del carattere meramente confermativo della successiva lettera del 29 gennaio 2004, per superare la contraria affermazione degli odierni controricorrenti, secondo i quali, invece, in quella riunione le parti avrebbero pattuito la comunicazione scritta del recesso.
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A sua volta l’onere di comunicare per iscritto la disdetta, ove pattuito nel corso della summenzionata riunione del 27.1.04, risulterebbe rilevante non ai fini degli artt. 1351 o 1352 c.c., ma perché una pattuizione del genere equivarrebbe ad una concorde richiesta di ripensamento tale da inficiare un’ipotetica iniziale volontà di recesso da parte aziendale, così implicandone l’assenza o (il che è lo stesso ai presenti fini) la non attualità alla data del 27.1.04. Nel caso di specie comunque non soccorrerebbe l’art. 1351 cod. civ. (applicabile solo quando una determinata forma sia stabilita dalla legge e non pure quando essa sia stata prevista dalle parti per un contratto per il quale la legge non dispone alcunché: cfr. Cass. n. 3980/81) né l’art. 1352 cod. civ. (perché il vincolo d’una futura forma può, a sua volta, essere posto soltanto per iscritto). Di tali principi non ha fatto applicazione la sentenza impugnata, che – in violazione degli artt. 24 e 111 Cost. – è pervenuta al diniego della prova (ritualmente chiesta dalla società ricorrente) in base all’erroneo presupposto che nella vicenda in esame la disdetta non potesse darsi che in forma scritta. Vanno disattese le obiezioni mosse dai controricorrenti alla possibilità d’una prova testimoniale della disdetta, vuoi perché ex art. 421 c.p.c., comma 2, nel processo del lavoro non si applicano i limiti alla prova testimoniale previsti dagli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c. (cfr., per tutte, Cass. n. 9228/09), vuoi perché tali limiti sono riferibili ai soli contratti e non anche agli atti unilaterali (cfr., per tutte, Cass. n. 5417/14). È fondato il quinto motivo di censura (scrutinabile come vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo, applicabile ratione temporis, previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134): la sentenza impugnata ha affermato del tutto apoditticamente che nel corso della riunione del 27.1.04 le parti avrebbero pattuito la necessità d’una comunicazione scritta del recesso senza che, però, sia stato svolto alcun accertamento istruttorio a riguardo. Per altro, tale affermazione dei giudici di merito, ancor prima che apodittica, è comunque superata dalla sopra chiarita inapplicabilità degli artt. 1351 e 1352 cod. civ. È, invece, infondato il sesto motivo di ricorso. Nel vigente ordinamento processuale, ispirato ad un assetto teleologico delle forme, la loro inosservanza importa nullità solo se espressamente comminata dalla legge (v. art. 156 c.p.c., comma 1) o se tale da rendere l’atto inidoneo a raggiungere il suo scopo (v. art. 156 c.p.c., comma 2). Non è questa l’ipotesi della fissazione del termine entro il quale pagare la somma ingiunta ex art. 641 c.p.c. È, poi, appena il caso di segnalare l’irrilevanza del motivo di censura, atteso che, per costante ed ultratrentennale insegnamento giurisprudenziale, l’opposizione a decreto ingiuntivo non costituisce un’impugnazione del decreto volta a farne valere vizi originari,
ma dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione di merito inteso all’accertamento del credito inizialmente fatto valere in via monitoria. Pertanto, la sentenza che decide la controversia deve accogliere la domanda dell’attore (vale a dire del creditore istante), rigettando conseguentemente l’opposizione, quante volte abbia a riscontrare che i fatti costitutivi del diritto azionato risultino esistenti e provati al momento della decisione, indipendentemente dall’ammissibilità o validità del decreto e/o dalla fondatezza della pretesa nel momento in cui fu presentato il ricorso ex art. 633 cod. proc. civ. (cfr., ex aliis, Cass. n. 20858/12; Cass. n. 9927/04; Cass. n. 6421/03; Cass. n. 2573/02; Cass. n. 5055/99; Cass. n. 1494/99; Cass. n. 807/99, Cass. n. 3628/87). Ancora infondato è il settimo motivo, dovendosi dare continuità alla giurisprudenza delle S.U. di questa S.C. (v. sentenza n. 24822/15) secondo cui la regola della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario – introdotta dall’art. 149 c.p.c., comma 3, aggiunto dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, e, ancor prima, sancita dalla sentenza n. 477/02 della Corte cost. – si applica solo agli atti processuali e agli effetti sostanziali dei primi ove il diritto non possa farsi valere se non con un atto processuale, come avviene – ad esempio – riguardo all’interruzione della prescrizione di azione costitutiva, che non può realizzarsi se non esercitando in giudizio l’azione medesima. Non è questo il caso in esame. In conclusione, il ricorso è da accogliersi nei sensi di cui in motivazione, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione, che dovrà accertare se e in che termini nella summenzionata riunione del 27.1.04 vi sia stata un’effettiva disdetta orale degli accordi collettivi aziendali 5.7.74, 6.7.79 e successivi aggiornamenti. Ciò il giudice di rinvio dovrà verificare alla luce dei seguenti principi di diritto: a) il principio di libertà della forma si applica anche all’accordo o al contratto collettivo di lavoro di diritto comune, di guisa che essi – a meno di eventuale diversa pattuizione scritta precedentemente raggiunta ai sensi dell’art. 1352 c.c. dalle medesime parti stipulanti – ben possono realizzarsi anche verbalmente o per fatti concludenti; b) tale libertà della forma dell’accordo o del contratto collettivo di lavoro concerne anche i negozi connessivi, come il recesso unilaterale ex art. 1373 c.c., comma 2; c) la parte che eccepisce l’avvenuto recesso unilaterale è onerata ex art. 2697 c.c., comma 2, della prova relativa e, ove alla manifestazione orale segua, su richiesta dell’altro o degli altri contraenti, una dichiarazione scritta del medesimo tenore, è altresì onerata della prova del carattere meramente confermativo – anziché innovativo – di tale successiva dichiarazione. – Omissis.
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Principio di libertà delle forme e disdetta orale: ancora sulla disciplina civilistica applicabile al contratto collettivo Sommario : 1. Premessa. L’applicazione delle regole civilistiche sull’efficacia temporale al contratto collettivo di diritto comune. – 2. La questione controversa: legittimità della disdetta espressa in forma orale dal datore di lavoro. – 3. La decisione della Corte di cassazione, in applicazione del principio di libertà delle forme al recesso datoriale. – 4. Recesso e disdetta: l’interpretazione della clausola negoziale e le sue conseguenze.
Sinossi: Il contributo ricostruisce il quadro dottrinale e giurisprudenziale relativo all’efficacia temporale del contratto collettivo e alla disdetta dal medesimo. L’analisi si concentra sui requisiti formali della disdetta, che, in base alla giurisprudenza della Corte di cassazione, può darsi in forma orale. Tuttavia, secondo l’A., ciò non è tanto da ricondurre al principio di libertà delle forme, quanto a quello di autonomia sindacale. Infine, il contributo esamina il profilo dell’interpretazione della clausola del contratto collettivo, interrogandosi sulla possibilità di ritenere che le parti intendessero richiedere il requisito della forma scritta per la valida disdetta del contratto collettivo.
1. Premessa. L’applicazione delle regole civilistiche
sull’efficacia temporale al contratto collettivo di diritto comune. In merito all’efficacia temporale del contratto collettivo, appare naturale partire dalla considerazione che si tratta di un rebus già risolto, per molti dei suoi aspetti1. Giurisprudenza e dottrina hanno da tempo accolto l’indirizzo, ormai largamente consolidato, secondo cui, alla scadenza del termine in esso apposto (se il contratto collettivo è a termine, come normalmente accade) o in seguito all’esercizio del diritto di recesso di una delle parti (se è privo dell’apposizione di un termine), il contratto collettivo cessa di produrre effetti giuridici2. In caso contrario, si avrebbe un pregiudizio, nel primo caso,
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Ad esempio, così già Bavaro, Sull’efficacia temporale del contratto collettivo nell’ordinamento giuridico sindacale, in RIDL, 2014, I, 51 ss. Per un’idea dei diversi orientamenti in dottrina, ex multis: Maresca, Contratto collettivo e libertà di recesso, in ADL, 1995, 35 ss.; Pellacani, L’ultrattività del contratto collettivo, in Zoli (a cura di), Le fonti. Il diritto sindacale, in DLComm, Utet, 2007, 425 ss.; Galardi, Sulla (non più) controversa questione dell’ultrattività dei contratti collettivi, in RIDL, 2008, 789 ss.; Tiraboschi, L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro: atipicità dello schema negoziale, giuridicità del vincolo e cause di scioglimento, in DRI, 1994, 1, 83 ss.;
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della libertà negoziale; nel secondo, del principio generale di diritto civile per cui nessun contratto può imporre alle parti vincoli perpetui, senza, cioè, che sia data loro alcuna possibilità di scioglimento3. Né si potrebbe ritenere applicabile l’art. 2074 c.c., norma sull’ultrattività da interpretare come riferita ai contratti corporativi4. Tale schema trova un limite solo apparente qualora il contratto collettivo continui (non ad essere applicato, bensì) ad essere adoperato come parametro, pur dopo la scadenza, per l’individuazione della retribuzione minima ai sensi dell’art. 36 Cost5. Altro dato acquisito in dottrina e giurisprudenza è che la disdetta del contratto collettivo a tempo determinato ante tempus è possibile solo per mutuo consenso o per effetto di un’apposita previsione negoziale (c.d. recesso straordinario o per giusta causa)6, mentre il recesso per il contratto a tempo indeterminato è una facoltà unilaterale che spetta elle parti qualora il contratto collettivo sia privo dell’apposizione del termine (c.d. recesso ordinario)7; posto che, in ogni caso, disdetta e recesso hanno, rispetto al contratto collet-
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Maresca, Accordi collettivi separati tra libertà contrattuale e democrazia sindacale, in RIDL, 2010, I, 29 ss.; Lassandari, Le nuove regole sulla contrattazione collettiva: problemi giuridici e di efficacia, in RGL, 2010, 45 ss.; Parravicini, Ultrattività, risoluzione, disdetta del contratto collettivo nella prassi e nella giurisprudenza, in ADL, 2012, 395 ss.; Bavaro, op. cit. Per la giurisprudenza prevalente, secondo cui il contratto collettivo non ha efficacia ultrattiva, Cass., sez. un., 30 maggio 2005, n. 11325, in MGL, 2005, 8/9, 590 ss.; precedentemente, fra le tante, Cass., 17 gennaio 2004, n. 668, in NGL, 2004, 552; Cass., 10 aprile 2000, n. 4534, in NGL, 2000, 556; successivamente, Cass., 7 ottobre 2010, n. 20784, in CED Cass., 2010. Di segno contrario, precedentemente alla pronuncia delle sez. un., Cass., 14 aprile 2003, n. 5908, in MGL, 2003, 714, con nota di Del Conte; Cass., 22 aprile 1995, n. 4563, in Labor, 1996, II, 484, con nota di Romei; Cass., 21 aprile 1987, n. 3899, in RIDL, 1987, II, 121, con nota di Borgogelli. Su tali orientamenti v. Galardi, op. cit. Come espresso chiaramente da Cass., sez. un., 30 maggio 2005 n. 11325, cit., e da Cass., 7 ottobre 2010, n. 20784, cit., rispetto alla violazione del principio di libertà sindacale ex art. 39 Cost. nel caso in cui il contratto collettivo perdurasse oltre il termine previsto. Sul principio generale per cui non possono esistere vincoli contrattuali perpetui, tali per cui il contratto collettivo privo del termine sarebbe per ciò stesso efficace a tempo indeterminato, Cass., 18 dicembre 2006, n. 27031, in DPL, 2007, 11 All. PL, 489, secondo la quale, in virtù del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) e della naturale temporaneità dell’obbligazione, si deve riconoscere ad ambedue le parti la possibilità di far cessare unilateralmente, anche in mancanza di un’apposita previsione legale, l’efficacia di un contratto collettivo stipulato senza l’apposizione del termine. L’art. 1373 c.c., dettato in materia di recesso convenzionale, non sarebbe d’ostacolo a tale interpretazione. Per quanto non manchino voci contrarie in dottrina, motivate dalla circostanza che altre norme riferite al contratto corporativo hanno trovato a lungo applicazione in giurisprudenza. Per un riassunto della dottrina e della giurisprudenza sul punto, Pellacani, op. cit., 432 ss. Pellacani, op. cit., 435. Salvo che sussista – secondo certa dottrina – una vera e propria impossibilità sopravvenuta ad adempiere oppure – che è cosa differente – la causa risolutiva dell’eccessiva onerosità sopravvenuta (cfr. Tullini, Sul recesso dall’accordo istitutivo di un fondo di previdenza complementare, in RIDL, 1996, II, 651 ss.; contra Tiraboschi, op. cit.). Ad avviso di chi scrive, vero è che l’esistenza di una causa estintiva così eccezionale come l’impossibilità sopravvenuta deve essere opportunamente dimostrata allegando l’impossibilità radicale di proseguire l’attività economica, poiché il cambiamento delle condizioni del mercato è in effetti un aspetto fisiologico al quale il contratto collettivo intende precisamente opporre un trattamento economico stabile per un certo periodo di tempo (proprio sulla mutevolezza delle ragioni economiche la giurisprudenza ha infatti spesso giustificato il recesso dal contratto a tempo indeterminato, cfr. Cass., 16 aprile 1993, n. 4507, in RGL, 1994, II, 64 ss.). Del resto, per l’applicazione della risoluzione per eccessiva onerosità occorre il verificarsi di eventi esterni straordinari, imprevisti e imprevedibili con l’ordinaria diligenza, tali da alterare il rapporto di corrispettività alla base del contratto e da snaturarne la ragione economica iniziale. Cfr. Gabrielli, Dell’eccessiva onerosità, in Navarretta, Orestano (a cura di), Dei contratti in generale, (diretto da) Gabrielli, Commentario del codice civile, Utet, 2012, 606 ss. La stessa Corte di cassazione, in materia di contratto collettivo, si è peraltro espressa nel senso che «al singolo datore di lavoro, pertanto, non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo l’eccessiva onerosità dello stesso, ai sensi dell’art. 1467 c.c., conseguente ad una propria situazione di difficoltà economica» (Cass., 31 ottobre 2013, n. 24575, in RIDL, 2014, II, 414 ss. con nota di Forlivesi). Sulla possibilità di recedere dal contratto collettivo privo dell’apposizione del termine c’è stato un acceso dibattito dottrinario, successivamente superato dall’orientamento giurisprudenziale, assolutamente prevalente, che afferma la validità del recesso in ossequio al principio per cui non possono aversi vincoli contrattuali perpetui. Per una ricostruzione della dottrina, Levi, La disdetta o
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tivo, lo stesso effetto: quello di impedire il tacito rinnovo dello stesso8. In mancanza di disdetta, tale effetto si potrebbe verificare ogniqualvolta le parti continuino ad applicare, in attesa di un rinnovo, condizioni sostanzialmente identiche a quelle del contratto collettivo ormai scaduto. Nonostante qualche voce contraria, si ritiene generalmente applicabile anche al contratto collettivo il modello civilistico ostile alla perpetuità dei vincoli negoziali, con ciò che ne consegue in termini di facoltà di recesso9. Tuttavia, la questione degli effetti temporali del contratto collettivo, con particolare riferimento alla disdetta, nella prassi continua a porre dubbi interpretativi, per due ragioni. Da un lato, perché si pone al crocevia tra diritto del lavoro e diritto dei contratti, binomio che «rappresenta un topos classico della prospettiva metodologica giuslavoristica»10. Infatti, quando il contratto collettivo diventa improduttivo di effetti, ciò non toglie che i contratti di lavoro continuino ad esistere: il che li lascia in uno stato di vuoto normativo e di conseguente esposizione al potere della parte più forte, quella datoriale11. Come è stato opportunamente scritto, «chi recede dal contratto collettivo si propone di conseguire un effetto che non è, quasi mai, quello estintivo proprio della posizione civilistica del recesso, ma è quello di acquisire una posizione di maggior forza contrattuale e, così, tentare di approdare ad una modificazione della disciplina vigente in senso più favorevole ai propri interessi»12. In altre parole, si tratta di una di quelle ipotesi per le quali applicare il diritto comune dei contratti non coglie nel segno delle peculiari esigenze di regolazione poste da quel particolare contratto che ha la funzione di disciplinare in modo uniforme i rapporti di lavoro13. La questione della disdetta ne sottende pertanto un’altra dal carattere sistematico, posto che il rapporto fra diritto del lavoro e diritto civile (o viceversa)14 si pone con riferimento ad ogni aspetto di disciplina del contratto collettivo (a tacer d’altro, efficacia soggettiva o oggettiva, interpretazione giudiziale ed elementi del contratto)15.
il recesso dai contratti collettivi, in Zoli (a cura di), Le fonti. Il diritto sindacale, in DLComm, Utet, 2007, 444 ss. Per la giurisprudenza, oltre a Cass., 16 aprile 1993, n. 4507, cit., Cass., 18 dicembre 2006, n. 2701, in RIDL, 2007, II, 616 ss. con nota di di Ciucciovino. 8 Così Bavaro, op. cit., 58; Levi, op. cit., 436 ss. 9 Come voci contrarie si osserva che in dottrina (Bavaro, op. cit.) è stato sostenuto che la mancata apposizione del termine indica la volontà negoziale di considerare ultrattivo il contratto. Il che, peraltro, non contrasta in via di principio, con l’idea della facoltà di recedere liberamente dai contratti a tempo indeterminato. In giurisprudenza la libera recidibilità dal contratto collettivo a tempo indeterminato è stata ricondotta altresì al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.). Cfr. Cass., 20 giugno 2001, in RIDL, 2, II, 8 con nota di Caro. 10 Perulli, Diritto del lavoro e diritto dei contratti, in RIDL, 2007, I, 427. 11 Pellacani, op. cit., 430; Lassandari, op. cit., Bavaro, op. cit. Per queste ragioni, parte della giurisprudenza ha qualificato la disdetta del contratto aziendale non come recesso ma come riapertura delle trattative (Pret. Milano, 2 novembre 1983, in OGL, 1984, 761 ss.). 12 Maresca, Contratto collettivo e libertà di recesso, op. cit., 36. 13 Secondo la ben nota definizione di contratto collettivo “di diritto comune”. Per tutti, F. Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, 1983, 41. 14 Mengoni, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, in Mengoni (a cura di Napoli), Il contratto di lavoro, Vita e Pensiero, 2008, 55 ss. 15 Dovendo necessariamente operare una selezione, all’interno della sterminata bibliografia su questi temi, si rinvia a: Messina, I concordati di tariffa nell’ordinamento giuridico del lavoro, in RDComm, 1904, 458 ss., ora in Scritti giuridici, vol. IV, 1948, 4 ss.; F. Santoro-Passarelli, Lezioni di legislazione del lavoro, Cedam, 1936; Id., Inderogabilità deli contratti collettivi, in Diritto e giurisprudenza, 1950, ora in Saggi di diritto civile, I, Jovene, 1961, 220 ss.; Pera, Fondamento ed efficacia del contratto collettivo di lavoro nel diritto comune, in Scritti giuridici in onore di Pietro Calamandrei, Cedam, 1958; Giugni, Introduzione allo studio della
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Dall’altro, ragionare degli effetti del termine o della disdetta o recesso dal contratto collettivo assume altresì un rilievo specifico rispetto all’attualità concreta delle relazioni industriali. Nella complessiva e complessa dinamica negoziale collettiva degli ultimi decenni, infatti, si osserva senza dubbio una crescente “fuga” datoriale dal contratto collettivo meno vantaggioso verso quello più economico, così come una significativa proliferazione della contrattazione separata16. Fenomeni che, posti sotto i riflettori, in particolare, nel caso dei contratti separati all’interno del gruppo Fiat17, molto hanno a che vedere con i rapporti di forza fra le parti, con lo sgretolamento di prassi negoziali un tempo solide, nonché, talvolta, persino con comportamenti al limite della condotta antisindacale18; in breve, con l’effettiva capacità del contratto collettivo di rappresentare un efficace strumento di regolazione dei rapporti di lavoro. È evidente che un’interpretazione più o meno aderente ai principi civilistici in materia di recesso (o una evoluzione degli stessi in seno allo stesso diritto dei contratti) potrebbe essere determinante, in questo scenario, per individuare le regole del gioco con cui gli attori sociali devono confrontarsi. Nella decisone in commento, la Corte di cassazione torna a pronunciarsi sulla disdetta dal contratto collettivo, esaminandone non tanto l’efficacia in sé, ma alcuni aspetti che attengono più specificamente alla forma della disdetta. Anch’essi, come si avrà modo di argomentare, si scontrano con la non semplice applicazione delle regole previste dal codice civile per i contratti (di durata ed a prestazioni corrispettive) allo specifico caso del contratto collettivo c.d. di diritto comune. L’analisi del caso di specie e della soluzione adottata dal Giudice di legittimità consente, perciò, di accrescere – se mai ce ne fosse bisogno – il novero delle questioni di fronte alle quali l’interprete è chiamato a far combaciare – forzatamente? – il puzzle giusprivatistico, allorché si adoperino i tasselli della contrattazione collettiva.
2. La questione controversa: legittimità della disdetta espressa in forma orale dal datore di lavoro.
Le vicende alla base della pronuncia in commento, come premesso, riguardano un caso di disdetta del contratto collettivo espressa in forma orale dal datore di lavoro.
autonomia collettiva, Giuffrè, 1960; Mengoni, Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, in Jus, 1975, 167 ss; Nogler, Saggio sull’efficacia regolativa del contratto collettivo, Cedam, 1997; Rusciano, Contratto collettivo e autonomia sindacale, in Rescigno P. (diretto da), Trattato di diritto privato. I. Impresa e lavoro, Utet, 2003; Id., La metamorfosi del contratto collettivo, in RTDPC, 2009, 29 ss.; Ghera, Il contratto collettivo tra natura negoziale e di fonte normativa, in RIDL, 2012, I, 195 ss. 16 Sulla contrattazione separata, ex multis, Lassandari, Problemi e ricadute della contrattazione “separata”, in DLRI, 2010, 323 ss.; Voza, Effettività e competenze della contrattazione decentrata nel lavoro privato alla luce degli accordi del 2009, in DLRI, 2010, 33 ss. 17 Sul caso Fiat, fra i moltissimi contributi, Lassandari, La “strana” disdetta del contratto nazionale di categoria dei metalmeccanici, in LD, 2010, 353 ss.; dello stesso autore, Il caso Fiat: una crisi di sistema? La contrattazione collettiva: prove di de-costruzione di un sistema, in LD, 2011, 321 ss. 18 Ad esempio, ove il datore comunichi una disdetta (illegittima) ante tempus per applicare un contratto collettivo differente, si avrebbe potenzialmente un atto idoneo a ledere la capacità del sindacato di svolgere la propria funzione di rappresentanza negoziale degli interessi collettivi.
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Il caso muoveva dall’opposizione in giudizio di una società datrice di lavoro verso determinati decreti ingiuntivi, inviati dall’associazione sindacale con cui la stessa aveva in precedenza stipulato un contratto collettivo. Il sindacato intimava il pagamento ai lavoratori di certi crediti, relativi ad un premio aziendale, derivanti dall’applicazione del suddetto contratto collettivo. La parte ricorrente riteneva, però, che le somme in questione non fossero dovute, poiché la stessa aveva opportunamente dato disdetta del contratto collettivo nelle forme convenzionalmente previste; vale a dire, comunicando l’intenzione di volerne impedire l’altrimenti tacito rinnovo entro la data del 31 gennaio (indicata nel contratto come termine annuale per la disdetta). In primo e in secondo grado i giudici accoglievano la ricostruzione della controparte sindacale, secondo cui non vi sarebbe stata una disdetta tempestiva del contratto collettivo. Quest’ultima, secondo il datore di lavoro, sarebbe stata comunicata (tempestivamente) in forma orale il 27 di gennaio e successivamente confermata con l’invio (tempestivo) di un documento scritto in data 29 gennaio. Secondo i giudici, viceversa, era da accogliere la tesi della controparte, secondo cui non c’era stata alcuna valida disdetta, in quanto le parti avevano convenuto, nell’incontro del 27 gennaio, che essa dovesse presentarsi in forma scritta. Inoltre, poiché il relativo documento sarebbe pervenuto solo il 3 febbraio successivo nelle mani dell’associazione sindacale, la disdetta sarebbe stata comunque tardiva e, pertanto, improduttiva di effetti, con conseguente tacito rinnovo del contratto collettivo. Per queste ragioni, i giudici riconoscevano, in favore dei lavoratori, il diritto di credito oggetto della controversia. La società si rivolgeva quindi alla Corte di cassazione, sulla base di molteplici motivi di ricorso19. In primo luogo, si richiedeva di riconoscere che la disdetta del contratto collettivo non necessita, di per sé, della forma scritta; ciò d’altra parte, secondo la società, non sarebbe stato neppure sostenibile se anche (circostanza che la società negava) vi fosse stato un accordo in proposito fra le parti, ove lo stesso fosse stato raggiunto oralmente e non per scritto. Peraltro, il giudice (che non aveva ammesso le prove testimoniali) avrebbe omesso di esaminare un fatto decisivo e controverso, ossia l’avvenuta disdetta (o meno) nell’incontro del 27 gennaio. Analogamente, la ricorrente lamentava l’omessa valutazione di un altro fatto controverso, ossia il raggiungimento orale di un accordo sulla necessità di presentare la disdetta in forma scritta. In aggiunta, la società sosteneva che la consegna all’agente postale del documento scritto di disdetta in data 29 gennaio sarebbe stata comunque sufficiente ad impedire ogni tardività.
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Si tralascia di approfondire, per estraneità tematica al commento, quello relativo alla supposta nullità dei decreti ingiuntivi, motivata sulla base della mancata esplicitazione di un termine per il pagamento. La Corte di cassazione, oltre a ritenere che ciò non determinasse affatto la nullità dei decreti, aggiungeva che il giudizio instaurato sull’opposizione al decreto ingiuntivo è volto ad accertare nel merito la sussistenza del credito e non la validità del decreto ingiuntivo.
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3. La decisione della Corte di cassazione, in applicazione
del principio di libertà delle forme al recesso datoriale.
Con riferimento alla forma della disdetta – ad eccezione del motivo sulla notifica erroneamente ritenuta tempestiva20 – la Corte ha ritenuto di applicare il principio civilistico per cui la forma dell’atto è libera, salvo diversa previsione di legge o negoziale (chiaramente, stipulata nella stessa forma, cioè per iscritto) ed ha così accolto i motivi di ricorso della società e cassato con rinvio la sentenza impugnata. Il ragionamento muove dalla considerazione che, una volta abolito l’ordinamento corporativo, non residuino norme (come l’art. 2072 c.c.) volte ad indicare la necessità di adoperare la forma scritta per la valida stipulazione di un contratto collettivo21. Pertanto, secondo la Corte, occorre mantenere «saldo il consolidato principio dottrinario e giurisprudenziale in virtù del quale le norme secondo cui determinati contratti o atti devono essere posti in essere con una forma particolare sono di stretta interpretazione», in ossequio al principio di libertà delle forme (art. 1325, n. 4 c.c.; 1350 c.c.; 1351 c.c.)22. Ciò detto, nella pronuncia si legge altresì che, posta la forma libera del contratto collettivo, «la medesima libertà deve essere ravvisata anche riguardo agli atti che ne siano risolutori, come il mutuo dissenso (art. 1372, comma 1, c.c.) o il recesso unilaterale (o disdetta) ex art. 1373, comma 2, cod. civ.»23. Qualificata la disdetta dal contratto collettivo prevista dallo stesso come recesso unilaterale ex 1373 c.c., la Corte interpreta la previsione di tale norma, secondo cui le parti possono attribuirsi la facoltà di recedere, alla luce degli artt. 1351 c.c. e 1352 c.c., osservando che «comunque non soccorrerebbe l’art. 1351 cod. civ. (applicabile solo quando una determinata forma sia stabilita dalla legge e non pure quando essa sia stata prevista dalle parti per un contratto per il quale la legge non dispone alcunché: cfr. Cass. n. 3980/81) né l’art. 1352 cod. civ. (perché il vincolo d’una futura forma può, a sua volta, essere posto soltanto per iscritto)».
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Infondato perché basato sull’erronea supposizione che fosse applicabile l’art. 149, c. 3, c.p.c. (sulla scissione, quanto agli atti processuali, degli effetti della notificazione fra notificante e destinatario), norma applicabile, come ricorda la Corte, «solo agli atti processuali e agli effetti sostanziali dei primi ove il diritto non possa farsi valere se non con un atto processuale, come avviene – ad esempio – riguardo all’interruzione della prescrizione di azione costitutiva, che non può realizzarsi se non esercitando in giudizio l’azione medesima». Inoltre si riteneva infondato anche il motivo, sintetizzato nella nota precedente, sulla nullità dei decreti ingiuntivi. 21 Inizialmente, vi fu in proposito un orientamento di segno contrario che sosteneva la necessità della forma ad substantiam, sia per tutelare il legittimo affidamento, sia per porsi in linea con la tendenza della giurisprudenza ad applicare altre norme riferite al contratto corporativo (Cass., 11 giugno 1987, in MGL, 1987, 604 ss.; Cass., 23 novembre 1989, in MGL, 1990, 18 con nota di Gramiccia), presto contraddetto da altre pronunce della Corte (Cass., 3 novembre 2987, n. 8083, in NGL, 1987, 679 ss.; Cass., 3 aprile 1993, n. 4030, in NGCC, 1994, I, 228 con nota di Niccolai) e risolto dalle Sezioni Unite nel senso della libertà delle forme nella stipulazione del contratto collettivo (Cass., sez. un., 22 marzo 1995, n. 3318, in GI, 1995, I, 1, 1631 con nota di Lambertucci). 22 Fatte salve unicamente quelle ipotesi in cui occorresse un’interpretazione estensiva delle norme che impongono la redazione in forma scritta degli atti connessi, come per il contratto che risolve il preliminare di compravendita relativo al trasferimento di diritti reali. 23 La pronuncia cita in proposito alcune decisioni già rese, quali: Cass., 14 novembre 2000, n. 14730, in Contratti, 2001, 3, 221 con nota di Giuggioli; Cass., 7 giugno 1990, n. 5454, in FI, 1991, I, 172, con nota di Rossi; Cass., 14 agosto 1986, n. 5059 in MFI.
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Posto che è un principio generale quello dell’identità della forma fra atto principale e atto connesso, può essere interessante soffermarsi sull’applicazione del “dogma” della libertà delle forme al contratto collettivo. A ciò si potrebbe aggiungere che lo schema per cui (a) i contratti devono essere redatti in forma scritta (per la loro validità) solamente qualora ciò sia previsto dalla legge o da un atto scritto e, di conseguenza, (b) la prova dei contratti non scritti può essere data con ogni mezzo, compresa la prova testimoniale, è largamente affermato, sia nell’ordinamento nazionale24 che in quello degli altri paesi europei (cfr. art 1, Convention des Nations Unies sur les contrats de vente internationale de marchandises; art. 1.2, Unidroit Principles; art. 2:101,2 Principles of European Contract Law)25. Tuttavia, è altresì inevitabile osservare che proprio il diritto civile sta vivendo una fase di “nuovo formalismo”26, tale per cui non mancano in dottrina coloro che pongono indubbio l’esistenza di un principio generale di libertà delle forme27. Senza voler con ciò entrare nel merito di tale questione teorica, sia consentito comunque sottolineare la possibile fragilità dell’impostazione per cui la libertà della forma sarebbe un principio civilistico al quale è impossibile derogare in via legislativa o interpretativa, a meno di non revocare in dubbio le fondamenta stesse del diritto civile. In altre parole, il fatto che il contratto collettivo abbia la vocazione a porre in essere una regolamentazione astratta e uniforme per una pluralità di soggetti può essere un argomento per attribuirgli particolari vincoli formali, riducendo la portata del principio di libertà delle forme? La questione è se i principi che regolano il diritto civile possano permettere un’interpretazione che valorizzi, pur nell’impossibilità di applicare l’art. 2072 c.c. (pensato per la forma del contratto corporativo), la necessità che il contratto collettivo sia dotato di una qualche veste formale per la sua validità, in virtù della sua ragione economica e funzionale. A ben vedere, peraltro, si tratta di un ragionamento già proposto in passato, da quella dottrina che, sebbene ne riconoscesse la qualificazione come contratto di diritto comune, aveva valorizzato la necessità della forma scritta del contratto collettivo (a pena di nullità) in ragione della finalità dell’istituto28. In verità si porrebbe, in tale prospettiva, un problema di natura non strettamente civilistica, legato alla circostanza che, in quanto espressione del principio di libertà sindacale,
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Per tutti, Breccia, Formazione, vol. IV, in (a cura di) Breccia, Granelli, Roppo, Trattato del contratto, Giuffrè, 2006, 948 ss. Cfr. Pagliantini, Della forma del contratto, in Navarretta e Orestano (a cura di), Dei contratti in generale, op. cit., 2012, 6. 26 Cfr. Modica, Vincoli di forma e disciplina del contratto. Dal negozio solenne al nuovo formalismo, Giuffrè, 2008. Con tale espressione, tuttavia, non si deve necessariamente intendere l’estensione della forma scritta come requisito di validità del contratto, ma anche quel complesso di oneri e formalità che possono comporre gli obblighi attinenti alla conclusione, all’esecuzione e all’estinzione del rapporto contrattuale. 27 Seguendo tali ricostruzioni, in effetti, le disposizioni che prescrivono una forma vincolata non dovrebbero essere considerate di stretta interpretazione e ben potrebbero essere applicate in via analogica ai contratti innominati. In astratto, fra di essi potrebbe rientrare, in tale prospettiva, anche il contratto collettivo, ove si ritenesse la sua funzione compatibile con l’applicazione analogica di una qualche norma fra quelle che prevedono vincoli di forma. Sulle teorie che negano il principio di libertà delle forme, Pagliantini, op. cit., 8 ss. 28 Per una ricostruzione degli orientamenti che hanno sostenuto in passato la forma scritta del contratto collettivo v. Nogler, La forma del contratto collettivo, in Zoli (a cura di), Le fonti. Il diritto sindacale, cit., 364; Bellocchi, Art. 2072 c.c., in Amoroso, Di Cerbo, Maresca, Diritto del lavoro, I, Giuffrè, 2017, 698 ss. 25
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garantito costituzionalmente dall’art. 39, comma 1, Cost., il contratto collettivo non potrebbe in ogni caso sic et simpliciter essere sottoposto a vincoli di forma senza intaccare l’ampiezza del diritto di autoregolazione del sistema sindacale garantito dalla norma costituzionale. Ad avviso di chi scrive, pertanto, sarebbe più opportuno ed efficace ancorare il ragionamento sulla libertà della forma al rispetto dell’autonomia collettiva29 che a quello dei principi comuni del diritto dei contratti30.
4. Recesso e disdetta: l’interpretazione della clausola negoziale e le sue conseguenze.
A questo punto, merita qualche osservazione la qualificazione della disdetta come atto di recesso. Si è già detto del recesso ordinario, per i contratti collettivi a tempo indeterminato, e di quello straordinario, per quelli di durata (v. supra, n. 1). Tuttavia, occorre approfondire l’interpretazione della clausola negoziale – come quella del caso di specie, peraltro assai frequente nella prassi31 – secondo la quale il contratto, se non viene “disdettato” entro un certo termine, continua a produrre effetti giuridici. Si tratta di una previsione che rende il recesso dissimile da quello esercitato in virtù di clausole che attribuiscono una facoltà di recesso alle parti di un contratto a termine, perché il contratto, in questo caso, potrebbe astrattamente non avere mai termine. Una clausola del genere sembra più compatibile, invece, con l’istituto del recesso ordinario: anche se in questo caso tecnicamente esiste un termine, esso non è il termine del contratto, bensì il termine posto per l’esercizio tempestivo della disdetta. Il che non è privo di rilievo, perché, mentre nel recesso convenzionale la modalità di recesso è insindacabilmente quella prevista dalle parti, in questo caso la tendenziale previsione di un vincolo senza termine di durata sottopone la parte che voglia recedere alla necessità di farlo quando vuole, certo, ma con modalità tali da comportarsi secondo buona fede32. La buona fede nell’esercizio del recesso ad nutum – posto che i motivi non sono sindacabili – si può concretare, ad esempio, nella concessione di un congruo preavviso, o nell’offerta di riaprire le trattative; nel caso in cui esista una clausola sulla disdetta, le parti hanno formalizzato quale sia il comportamento da ritenere rispettoso della dinamica negoziale: esprimersi prima di quella data.
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Cfr. F. Santoro Passarelli, Autonomia collettiva, in Enciclopedia del diritto, vol. IV, Giuffrè, 1959, 369 ss. In questo senso, anche Nogler, op. ult. cit., 365. Diversamente, la libertà di contratto (art. 1322 c.c.) non trova tutela costituzionale diretta, bensì solo indiretta, derivante dalla connessione con le libertà economiche garantite dagli artt. 41 e 42 Cost. Non c’è dubbio, tuttavia, che la legge possa regolare la materia. V. Mengoni, Metodo e teoria giuridica, in Castronovo, Albanese, Nicolussi (a cura di), Scritti, I, Giuffrè, 2011, 101 ss. 31 Levi, op. cit., 436. 32 Sulla buona fede nel recesso ad nutum, Santoro, L’abuso del diritto di recesso ad nutum, in CI, 1986, 766 ss. In giurisprudenza, sulla buona fede come unico limite al recesso dal contratto collettivo a tempo indeterminato, Cass., 16 aprile 1993, n. 4507, cit. 30
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Diventa allora essenziale l’interpretazione del contratto collettivo su cosa debba intendersi con ciò. Certamente, visto che il recesso è un atto recettizio, ciò deve implicare perlomeno che la disdetta dovrà essere resa chiaramente nota alla controparte. Nel caso su cui si è pronunciata la sentenza in commento, non è dato sapere se vi sia stata realmente una disdetta inequivocabile da parte del datore in occasione dell’incontro del 27 gennaio; lo stesso invio di un documento scritto successivo (e tardivo) potrebbe astrattamente lasciar suppore il contrario. A poco serve allora richiamare l’avvenuto incontro precedente alla data limite per la disdetta, se la parte non è in grado di provare quanto ivi accaduto. Tanto è vero che nell’ipotesi in esame, sebbene la Corte ritenesse che la disdetta in forma orale fosse perfettamente in grado di produrre effetti giuridici, la stessa spostava poi il problema sull’onere del datore di lavoro di provarne l’esistenza, nonché di provare il fatto che il documento successivamente inviato per iscritto non fosse che confermativo di quanto già espresso oralmente. In mancanza di tale prova, in effetti, non sarebbe risultato altro che una contestazione tardiva. È per questi motivi che la Corte, coerentemente, ha ritenuto indispensabile l’ammissione della prova testimoniale richiesta dalla società, in virtù del diritto di difesa garantito dagli artt. 24 e 111 Cost., nonché dei principi posti in tema di onere della prova dall’art. 2697, comma 2, c.c., ed ha cassato con rinvio la decisione contraria della Corte d’Appello. Il ragionamento, astrattamente parlando, fila, se ed in quanto si dia per assodato che il principio di libertà delle forme trovi coerente applicazione anche per i contratti collettivi e per gli atti connessi, come il recesso unilaterale; cosa che non sembra revocabile in dubbio, se non necessariamente in applicazione dei principi civilistici (come si è detto, meno inossidabili di quanto non appaia, v. supra, n. 3), certamente in virtù del principio di autonomia sindacale ricavabile dall’art. 39, primo comma, Cost. Sotto il profilo interpretativo della clausola in concreto posta dalle parti, però, un’ulteriore considerazione sorge spontanea. Se è vero che è sempre problematico il «criterio interpretativo da applicarsi al contratto collettivo, che per quanto oggi rientrato nell’alveo delle relazioni civilistiche, nondimeno mantiene inalterata la fisionomia di comando astratto»33, questo significa che l’interpretazione di quello che le parti hanno voluto deve calarsi nel contesto specifico delle relazioni industriali, il quale presuppone che lo scopo del contratto collettivo sia quello di fissare le condizioni di lavoro in modo che esse non oscillino a seconda delle esigenze contingenti delle parti34. Per questa ragione, si potrebbe sostenere che se la clausola sulla disdetta nulla dice rispetto alla forma della stessa, si debba presupporre che la conservazione del contratto sia da preferire – posto che, altrimenti, le parti avrebbero sottoscritto un contratto a tempo determinato – quando la disdetta non avvenga in forma scritta, ossia non avvenga nella stessa forma del contratto che contiene la relativa clausola? Cinzia Carta
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Gragnoli, L’interpretazione del contratto collettivo e gli orientamenti della dottrina, in Dialoghi tra dottrina e giurisprudenza, Giuffrè, 2004, 1, 163. 34 V. amplius, Bavaro, op. cit.
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Giurisprudenza Consiglio di S tato, sentenza 3 ottobre 2017, n. 4614; Pres. G. Severini – Est. S. Fantini – Comune di Catanzaro (avv. Valerio Zimatore) c. Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Catanzaro, Ordine degli Ingegneri della Provincia di Catanzaro, Ordine dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali della Provincia di Catanzaro, Ordine dei Geologi della Provincia di Catanzaro, Collegio dei Geometri e Geometri Laureati della Provincia di Catanzaro, Collegio dei Periti Industriali e Periti Industriali Laureati della Provincia di Catanzaro (avv. Alfredo Gualtieri). Appalti pubblici – affidamento a titolo gratuito – corrispettivo non economico – legittimità – differente concetto di contratto a titolo oneroso – altra utilità economicamente apprezzabile – sussistenza.
L’affidamento di appalti pubblici a titolo gratuito, soggetto alla disciplina del codice pubblico, presuppone un differente concetto di titolo oneroso, posto che l’onerosità non trova fondamento in un corrispettivo finanziario della prestazione contrattuale, ma può avere analoga ragione anche in un altro genere di utilità, economicamente apprezzabile (come, ad es. il cd. «ritorno di immagine»). Svolgimento del processo. – Il Comune di Catanzaro ha interposto appello avverso la sentenza 13 dicembre 2016, n. 2435 del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sez. I, che ha accolto il ricorso dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggistici e Conservatori, dell’Ordine degli Ingegneri, dell’Ordine dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali della Provincia di Catanzaro, dell’Ordine dei Geologi della Calabria, del Collegio dei Geometri e del Collegio dei Periti Industriali della Provincia di Catanzaro avverso i provvedimenti dirigenziali comunali dell’ottobre 2016 di approvazione del bando e del disciplinare di gara della “procedura aperta per l’affidamento dell’incarico per la redazione del piano strutturale del Comune di Catanzaro e relativo regolamento urbanistico”, nonché del capitolato speciale, ed ancora avverso la presupposta delibera di Giunta comunale del 17 febbraio 2016 con cui è stata condivisa la possibilità di formulare un bando contemplante incarichi professionali a titolo gratuito. La delibera di Giunta, dando attuazione alla deliberazione consiliare n. 25 del 13 maggio 2015 disponente la predisposizione di un nuovo strumento urbanistico generale, rilevava l’assenza di copertura finanziaria per una spesa stimata in circa euro 800.000,00; e stabiliva, previo parere favorevole della Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Calabria, del 29 gennaio 2016, di formulare un bando che prevedesse incarichi professionali da affidare a titolo gratuito, delegando il dirigente del Settore Pianificazione Territoriale all’approvazione dello stesso. Tali atti sono stati impugnati dagli indicati ordini professionali con il ricorso in primo grado, articolato in censure incentrate sull’illegittimità del bando di gara nella parte in cui ha previsto la natura gratuita del contratto di appalto di servizi, indicando, al punto 2.1
del bando, un corrispettivo pari ad euro uno, laddove l’appalto si caratterizza come contratto a titolo oneroso, sia nella disciplina del Codice civile, sia in quella dei contratti pubblici. La sentenza qui appellata ha accolto il ricorso, nell’assunto che si verta di un appalto di servizi (avente ad oggetto la “elaborazione, stesura e redazione integrale del piano strutturale del Comune di Catanzaro” in forma imprenditoriale) e che non è configurabile un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito, ovvero atipico rispetto alla disciplina di cui al d.lgs. n. 50 del 2016. L’appello critica la sentenza deducendo motivi in rito (di inammissibilità del ricorso di primo grado) e nel merito, essenzialmente convergenti nell’allegazione dell’erroneità della sentenza gravata per avere individuato una corrispondenza tra onerosità dell’incarico professionale e garanzia dei requisiti di qualità dell’offerta, e dunque dell’appalto di servizi. Si sono costituiti in resistenza l’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori, l’Ordine degli Ingegneri, l’Ordine dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali della Provincia di Catanzaro, l’Ordine dei Geologi della Calabria, il Collegio dei Geometri, il Collegio dei Periti Industriali della Provincia di Catanzaro, il Collegio Nazionale degli Ingegneri, il Collegio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, il Consiglio Nazionale dei Geologi, chiedendo la reiezione dell’appello. Nella camera di consiglio del 9 marzo 2017 la causa è stata trattenuta in decisione. Motivi della decisione. – Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’appello, sollevata dal Consiglio Nazionale dei Geologi nell’assunto che il
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Comune di Catanzaro si sia limitato ad una mera reiterazione delle censure in primo grado. L’appello evidenzia con chiarezza le specifiche censure sulle statuizioni in rito e nel merito della sentenza impugnata. La tipologia delle censure dedotte, convergenti in un dissenso di base sull’impianto motivazionale della prima sentenza, comporta che l’appellante abbia dovuto sollecitare al giudice di appello un vero e proprio riesame dei motivi originariamente formulati. Il primo motivo di appello, in rito, con cui si deduce l’irricevibilità e l’inammissibilità del ricorso introduttivo, è infondato. Anzitutto, sotto il profilo della tardività dell’impugnativa della deliberazione di Giunta municipale n. 33 del 17 febbraio 2016, atto presupposto della determinazione indittiva del bando, vale rilevare che la medesima è stata fatta oggetto di gravame in via cautelativa. La delibera, nel recepire la proposta del dirigente del Settore Pianificazione Territoriale e PUC, si limita a «condividere la possibilità di formulare un bando che preveda incarichi professionali a titolo gratuito, delegando il Dirigente del Settore Pianificazione territoriale all’approvazione dello stesso con determinazione dirigenziale». Si tratta dunque di un atto, che, seppure presupposto, è privo di autonoma lesività, come si inferisce anche dal letterale tenore: poteva dunque, se del caso, essere impugnato solamente con il bando di gara, mediante il quale è divenuto attuale l’interesse al ricorso. L’eccezione di difetto di interesse e di legittimazione al ricorso degli Ordini e Collegi professionali è poi argomentata nella considerazione che la natura onerosa di un incarico professionale non è un interesse generalizzato ed omogeneo delle categorie professionali, ma solo di quei professionisti che considerano la retribuzione elemento indispensabile del rapporto d’opera intellettuale. La sentenza bene ha evidenziato che va riconosciuta «la legittimazione ad agire dell’ordine professionale che faccia valere l’interesse omogeneo della categoria, anche se in concreto il provvedimento ritenuto lesivo sia ritenuto “vantaggioso” da singoli professionisti». La legittimazione attiva degli ordini professionali, enti esponenziali della categoria unitariamente considerata, va infatti affermata nei confronti di atti che si assumano lesivi dell’interesse istituzionale della categoria stessa (Cons. Stato, VI, 18 aprile 2012, n. 2208). Appare difficilmente contestabile che il bando di indizione della gara per un appalto di servizi gratuito interferisce sugli interessi collettivi ed istituzionalizzati degli ordini professionali oggi appellati, e non tutela interessi di singoli iscritti o di gruppi di iscritti. Quanto, poi, all’inammissibilità per mancata notifica ai controinteressati, individuabili nell’ambito degli ordini e collegi professionali, vale rilevare che l’impugnazione di un bando di gara non ha controinteressati,
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posto che, per costante giurisprudenza, la qualifica di controinteressato richiede un requisito formale (usualmente dato dall’indicazione del nominativo nel provvedimento amministrativo impugnato) ed un requisito sostanziale (costituito dalla sussistenza di un interesse favorevole al mantenimento della situazione attuale definita dal provvedimento stesso). Il secondo e terzo, tematicamente centrali, motivi di appello censurano, con argomenti complementari, la sentenza che ha ritenuto non configurabile un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito (finalizzato alla pianificazione urbanistica, e con rimborso delle sole spese previamente autorizzate dal RUP), e dunque (ha ritenuto) illegittima la relativa gara, in quanto non conforme al paradigma normativo dell’art. 3, comma 1, lett. ii), d.lgs. n. 50 del 2016, e inoltre perché inidonea a garantire la qualità dell’offerta e, ancora prima, a consentire una sua effettiva valutazione. Per l’appello, l’ordinamento in generale in realtà non vieta una prestazione d’opera professionale a titolo gratuito a vantaggio di una pubblica Amministrazione, e neppure con riguardo al sistema dei contratti pubblici (nel cui ambito, del resto, è ammessa la sponsorizzazione). L’Amministrazione appellante aggiunge che la valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa dei professionisti è qui -necessariamente- avvenuta con la sola esclusione dell’elemento prezzo (pari a zero in tutte le offerte), che rappresenta il parametro proprio dell’offerta economica: vale a dire, è avvenuta circoscrivendo preventivamente lo spazio della valutazione all’offerta tecnica, e secondo i criteri comunque a tale scopo fissati dal disciplinare di gara alla pagina 16. I motivi d’appello, ritiene il Collegio, sono fondati. Il bando di gara qualifica l’ “affidamento dell’incarico per la redazione del piano strutturale comunale del Comune di Catanzaro e relativo R.E.U.” alla stregua di un appalto di servizi, e, tra le “informazioni complementari” (punto VI.3), precisa che «l’appalto è a titolo gratuito. È prevista una somma totale di €. 250.000,00 comprensiva di IVA a solo titolo di rimborso spese per come indicato nel disciplinare di gara». Il capitolato speciale, all’art. 4, conferma: «si precisa che l’incarico è a titolo gratuito e che l’importo del rimborso di tutte le spese documentate e preventivamente autorizzate dal RUP, di qualunque genere ed in ogni caso dovute relative alle prestazioni da effettuare, sostenute dai professionisti costituenti il Gruppo di progettazione incaricato e dai propri consulenti e collaboratori per lo svolgimento dell’incarico affidato ammonta ad € 250.000,00, finanziati con fondi del bilancio comunale». Analogo contenuto si desume dal disciplinare di gara, il quale precisa che l’importo dell’appalto posto a base di gara è [con evidente significato] di euro 1,00, e che il costo della polizza assicurativa, riferita all’incarico professionale, rientra nel rimborso spese. Il Collegio rileva che si tratta, anzitutto, di verificare se la legge consente la gratuità di un siffatto contratto: cioè
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se un contratto di prestazione di servizi (professionali), che preveda il solo (seppure ampio) rimborso delle spese contrasti o non contrasti con il paradigma normativo dell’appalto pubblico (di servizi), posto che l’art. 3 (definzioni), lett. ii), del d.lgs. 12 aprile 2016, n. 50 definisce gli “appalti pubblici” come «contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi», derivando queste connotazioni di onerosità dal diritto europeo. In particolare, per gli appalti nei settori ordinari, la direttiva 2014/24/ UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, afferma: - considerando (4): «La normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici non intende coprire tutte le forme di esborsi di fondi pubblici, ma solo quelle rivolte all’acquisizione di lavori, forniture o prestazioni di servizi a titolo oneroso per mezzo di un appalto pubblico». - art. 2 (definzioni) n. 5): ««appalti pubblici»: contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi». Occorre dunque chiarire la portata ed il significato, nei particolari contesti detti, dell’espressione «a titolo oneroso». Va considerato che la nozione è replicata anche per le contestuali direttive 2014/23/UE e 2014/25/UE. L’intero settore degli appalti pubblici e delle concessioni è dunque caratterizzato da questa necessaria connotazione. Ciò rilevato, si deve considerare che il fondamento della disciplina sui contratti pubblici riposa in principi generali del diritto dell’Unione Europea: il divieto di discriminazione in base alla nazionalità (art. 18 T.F.U.E.), le libertà di circolazione delle merci, di prestazione dei servizi, di stabilimento, e di circolazione dei servizi, le regole di concorrenza enucleate dall’art. 101 del T.F.U.E.. I contratti pubblici debbono perciò formarsi in un mercato concorrenziale e la loro disciplina è improntata alla concorrenza. La caratterizzazione di “onerosità” appare da riferire a questa contestualizzazione al mercato di matrice europea; sembra muovere dal presupposto che il prezzo corrispettivo dell’appalto costituisca un elemento strumentale e indefettibile per la serietà dell’offerta, e l’inerente affidabilità dell’offerente nell’esecuzione della prestazione contrattuale. Al fondamento pare esservi il concetto che un potenziale contraente che si proponga a titolo gratuito, dunque senza curare il proprio interesse economico nell’affare che va a costosamente sostenere, celi inevitabilmente un cattivo e sospettabile contraente per una pubblica Amministrazione. Il tema ha naturalmente diverse declinazioni, a seconda che riguardi contratti “attivi” (comportanti per l’Amministrazione un’entrata) o contratti “passivi” (comportanti per l’Am-
ministrazione una spesa). Per quanto riguarda gli appalti pubblici, si verte in principio di contratti passivi e su questi occorre concentrare l’attenzione. La par condicio tra partecipanti alla gara, presidio della concorrenzialità, è necessaria nel presupposto che la tutela della concorrenza rechi con sé la garanzia di efficienza del mercato. In una tale prospettiva - osserva il Collegio - una lettura sistematica delle previsioni ricordate, con considerazione degli interessi pubblici immanenti al contratto pubblico e alle esigenze che lo muovono, induce a ritenere che l’espressione “contratti a titolo oneroso” può assumere per il contratto pubblico un significato attenuato o in parte diverso rispetto all’accezione tradizionale e propria del mondo interprivato. In realtà, la ratio di mercato cui si è accennato, di garanzia della serietà dell’offerta e di affidabilità dell’offerente, può essere ragionevolmente assicurata da altri vantaggi, economicamente apprezzabili anche se non direttamente finanziari, potenzialmente derivanti dal contratto. La garanzia di serietà e affidabilità, intrinseca alla ragione economica a contrarre, infatti, non necessariamente trova fondamento in un corrispettivo finanziario della prestazione contrattuale, che resti comunque a carico della Amministrazione appaltante: ma può avere analoga ragione anche in un altro genere di utilità, pur sempre economicamente apprezzabile, che nasca o si immagini vada ad essere generata dal concreto contratto. Del resto, quanto alla ragione economica del contraente, la giurisprudenza da tempo ammette l’abilitazione a partecipare alle gare pubbliche in capo a figure del c.d. “terzo settore”, per loro natura prive di finalità lucrative, vale a dire di soggetti che perseguano scopi non di stretto utile economico, bensì sociali o mutualistici; a loro è stato ritenuto non estensibile il principio del c.d. “utile necessario” fondato sull’innaturalità ed inaffidabilità, per un operatore del mercato, di un’offerta in pareggio, perché contro il naturale scopo di lucro (Cons. Stato, V, 20 febbraio 2009, n. 1018 e n. 1030; VI, 16 giugno 2009, n. 3897; V, 10 settembre 2010, n. 6528; V, 13 luglio 2010, n. 4539; V, 26 agosto 2010, n. 5956; III, 9 agosto 2011, n. 4720; III, 20 novembre 2012, n. 5882; VI, 23 gennaio 2013, n. 387; III, 15 aprile 2013, n. 2056; V, 16 gennaio 2015, n. 84; III, 17 novembre 2015, n. 5249; III, 27 luglio 2015, n. 3685; V, 13 settembre 2016, n. 3855). Il fatto stesso della presenza di questa consolidata giurisprudenza dimostra che l’utile finanziario in realtà non è considerato elemento indispensabile dal diritto vivente dei contratti pubblici: e conferma l’assunto qui testé enunciato. La circostanza che l’offerta senza prefissione di utile presentata da un siffatto tipo di soggetto non sia presunta, solo per questo, anomala o inaffidabile, e non impedisca il perseguimento efficiente di finalità istituzionali che prescindono da tale vantaggio stricto sensu economico, dimostra che le finalità ultime per cui un soggetto può essere ammesso a essere parte di un contratto pubblico possono prescindere da una
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stretta utilità economica. È proprio per questo riguardo che è stato rilevato come non contrasti con la definizione di operatore economico contenuta nelle direttive europee la detta connotazione propria delle associazioni di volontariato. A maggiore ragione, dunque, può esservi ammesso l’aspirante contraente cui si chiede di prescindere non già da un’utilità economica, ma solo da un’utilità finanziaria: perché l’utilità economica si sposta su leciti elementi immateriali inerenti il fatto stesso del divenire ed apparire esecutore, evidentemente diligente, della prestazione richiesta dall’Amministrazione. Conseguenza di una tale considerazione è la preferenza, nell’ordinamento dei contratti pubblici, per un’accezione ampia e particolare (rispetto al diritto comune) dell’espressione «contratti a titolo oneroso», tale da dare spazio all’ammissibilità di un bando che preveda le offerte gratuite (salvo il rimborso delle spese), ogniqualvolta dall’effettuazione della prestazione contrattuale il contraente possa figurare di trarre un’utilità economica lecita e autonoma, quand’anche non corrispostagli come scambio contrattuale dall’Amministrazione appaltante. L’assunto trova del resto conforto nella giurisprudenza europea, per la quale vale ricordare Corte Giust. U.E., 12 luglio 2011, in causa C-399/98 (Bicocca), a tenore della quale la direttiva 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, osta ad una normativa nazionale in materia urbanistica (art. 28 legge n. 1150 del 1942 e art. 12 legge reg. Lombardia n. 60 del 1977) che, al di fuori delle procedure previste da tale direttiva, consenta al titolare di una concessione edilizia o di un piano di lottizzazione approvato la realizzazione diretta di un’opera di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo dovuto per il rilascio della concessione, nel caso in cui il valore di tale opera eguagli o superi la soglia fissata dalla stessa direttiva. Detta sentenza, per quanto qui rileva, ha affermato (§§ 76 e ss.) che se si ha riguardo all’obiettivo della direttiva 93/37/ CEE sugli appalti pubblici di lavori, la sua previsione secondo cui «gli appalti pubblici di lavori sono contratti a titolo oneroso» va interpretata “in modo da assicurare l’effetto utile della direttiva medesima”: infatti per attribuire a un contratto pubblico il carattere di oneroso non è necessario un esborso pecuniario, perché ad analogo rilievo funzionale assolve la realizzazione a scomputo di opere di urbanizzazione secondaria. Quel ragionamento incentrato sul principio dell’effetto utile, che vuole che le disposizioni siano lette, di preferenza, nel senso di favorire il raggiungimento dell’obiettivo da esse prefissato, avvalora le considerazioni qui sopra svolte. Del resto, non è inconferente rilevare che assume ormai particolare pregnanza nell’ordinamento, evidenziando il rilievo dell’economia dell’immateriale, la pratica dei contratti di sponsorizzazione, che ha per gli stessi contratti pubblici la disciplina generale nell’art. 19 del d.lgs. n. 50 del 2016 (cfr. art. 199-bis d.lgs. n. 163 del 2006), e una particolare applicazione nel settore
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dei beni culturali (art. 120 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42). La sponsorizzazione non è un contratto a titolo gratuito, in quanto alla prestazione dello sponsor in termini di dazione del denaro o di accollo del debito corrisponde l’acquisizione, in favore dello stesso sponsor, del diritto all’uso promozionale dell’immagine della cosa di titolarità pubblica: il motivo che muove quest’ultimo è l’utilità costituita ex novo dall’opportunità di spendita dell’immagine, cioè la creazione di un nuovo bene immateriale. Per l’Amministrazione è finanziariamente non onerosa – cioè passiva: non comporta un’uscita finanziaria - ma comunque genera un interesse economico attivo per lo sponsor, insito in un prodotto immateriale dal valore aggiunto che va a suo vantaggio. In altri termini: la circostanza che vi sia verso lo sponsor una traslazione meramente simbolica, cioè di immagine, della cosa di titolarità pubblica non può essere considerata come vicenda gratuita, ma va posta in stretta relazione, nei termini propri dell’equilibrio sinallagmatico, con il valore della controprestazione, vale a dire della dazione dello sponsor. Con la sponsorizzazione si ha dunque lo scambio di denaro contro un’utilità immateriale, costituita dal ritorno di immagine. L’utilità costituita dal potenziale ritorno di immagine per il professionista può essere insita anche nell’appalto di servizi contemplato dal bando qui gravato: il che rappresenta un interesse economico, seppure mediato, che appare superare - alla luce della ricordata speciale ratio - il divieto di non onerosità dell’appalto pubblico, e consente una rilettura critica dell’asserita natura gratuita del contratto di redazione del piano strutturale del Comune di Catanzaro. L’effetto, indiretto, di potenziale promozione esterna dell’appaltatore, come conseguenza della comunicazione al pubblico dell’esecuzione della prestazione professionale, appare costituire, nella struttura e nella funzione concreta del contratto pubblico, di cui qui si verte, una controprestazione contrattuale anche se a risultato aleatorio, in quanto l’eventuale mancato ritorno (positivo) di immagine (che è naturalmente collegato alla qualità dell’esecuzione della prestazione) non può dare luogo ad effetti risolutivi o risarcitori. Non vi è dunque estraneità sostanziale alla logica concorrenziale che presidia, per la ricordata matrice eurounitaria, il Codice degli appalti pubblici quando si bandisce una gara in cui l’utilità economica del potenziale contraente non è finanziaria ma è insita tutta nel fatto stesso di poter eseguire la prestazione contrattuale. Il mercato non ne è vulnerato. Al tempo stesso, non si vede per quale ragione le dette considerazioni di economia dell’immateriale non possano essere prese in considerazione quando giovano, come qui patentemente avviene, all’esigenza generale di contenimento della spesa pubblica. Resta comunque l’esigenza della garanzia della par condicio dei potenziali contraenti, che va assicurata dalla metodologia di scelta tra le offerte.
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È infatti il caso di rilevare che è per questa essenziale ragione che un tale contratto pubblico, per quanto “gratuito” in senso finanziario (ma non economico), non può che rimanere nel sistema selettivo del d.lgs. n. 50 del 2016: altrimenti, se ne fosse fuori, portando alle conseguenze un diverso ragionamento, l’Amministrazione appaltante potrebbe scegliere il contraente a piacimento, con ciò ingenerando un’evidente lesione della par condicio dei potenziali interessati al contratto proprio per quell’utile immateriale e ledendo gli stessi principi di derivazione eurounitaria del mercato concorrenziale che sono alla base delle commesse pubbliche. La gratuità finanziaria, anche se non economica, del contratto si riflette infatti sulla procedura di selezione, che non può non esservi in concreto adattata. La descritta concezione “debole” di «contratto a titolo oneroso» va dunque ulteriormente valutata in compatibilità con il d.lgs. n. 50 del 2016 anche per ciò che riguarda la procedura di scelta del contraente, improntata al criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che, di suo, si baserebbe sul miglior rapporto tra qualità e prezzo. Ma la caratterizzazione che si è finora esaminata corrisponde fatalmente a una lex specialis del tutto particolare, che non può che riservare punti zero alla componente economica. Sicché il vaglio della domanda si esaurisce nella valutazione dell’offerta tecnica, in ipotetica criticità con la configurazione di tale criterio ad opera dell’art. 83 d.lgs. n. 50 del 2016. Occorre dunque valutare la compatibilità di una siffatta tipologia contrattuale con le regole dell’evidenza pubblica ed i principi eurounitari, in particolare sotto il profilo della suscettibilità di adeguata valutazione delle offerte prive di un contenuto economico. Si tratta di una valutazione da svolgere in concreto ed ex ante. A questo riguardo, osserva il Collegio che i criteri di aggiudicazione enucleati alle pagg. 16 e seguenti del disciplinare di gara, basati sulla componente tecnica (professionalità, adeguatezza dell’offerta, caratteristiche metodologiche dell’offerta), cui sono attribuiti novanta punti, e residualmente sul tempo, al quale sono riservati dieci punti, appaiono comunque sufficientemente oggettivi per una valutazione dell’offerta e non contrastano dunque con il rammentato art. 83. È questo, del resto, il solo modo in cui può essere inteso in un tal caso il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Un tale carattere sintetico e sincopato del criterio di aggiudicazione in concreto stabilito è infatti
coerente con la delineata nozione di onerosità del concreto contratto, che impone un’applicazione adattata della disciplina del Codice degli appalti pubblici sui criteri di aggiudicazione. Occorre aggiungere, vista anche la riproposizione dei motivi assorbiti in primo grado da parte del Consiglio Nazionale degli Ingegneri e da parte dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori, dell’Ordine degli Ingegneri ed altri della Provincia di Catanzaro, che nel caso di specie la scelta di questo contratto risulta presidiata, per l’assoluta particolarità della fattispecie, da un’attenta valutazione a monte in ordine alla necessarietà di pervenire al nuovo piano strutturale, oltre che della non (integrale) copertura in bilancio del costo stimato, anche nella misura minima, del compenso professionale. Al contempo, il valore dell’appalto è stato parametrato al valore della prestazione, ad evitare l’elusione delle regole dell’evidenza pubblica. Il ricorso ad un siffatto contratto è stato sottoposto al parere della Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Calabria, che, con atto 10 febbraio 2016, ha ritenuto, seppure con ragionamento diverso, che l’Amministrazione comunale può «procedere alla indizione di un bando pubblico per il conferimento di incarico gratuito di redazione del nuovo piano di sviluppo comunale, con la previsione del mero rimborso delle spese sostenute. Tuttavia, il bando dovrà integrare tutti gli elementi necessari per l’esatta individuazione del contenuto della prestazione richiesta, onde consentire la valutazione oggettiva degli elaborati tecnici che vengono così prodotti, senza pretesa di corrispettivo, dai tecnici interessati a prestare appunto gratuitamente la propria opera professionale». In conclusione, alla stregua di quanto esposto, l’appello va accolto, e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va respinto il ricorso di primo grado. La complessità e novità della questione trattata costituisce motivo per compensare tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. P.m.Q. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso di primo grado. Compensa tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
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L’onerosità nei contratti pubblici: trattasi di un’utilità economica anche immateriale purché idonea a far conseguire leciti vantaggi Sommario : 1. Il caso. – 2. La diversa interpretazione di onerosità del Consiglio di Stato. – 2.1. Lavoro autonomo, equo compenso e pubblica amministrazione. – 3. Le critiche mosse alla decisione. – 3.1. L’art. 36 Cost. e il lavoro autonomo. – 4. I molteplici aspetti dell’onerosità nei contratti a prestazioni corrispettive. – 4.1. Onerosità e assenza della controprestazione. Alcuni esempi. – 4.2. Alcune differenze con i rapporti a titolo gratuito. – 5. Alcuni spunti per il contratto di lavoro. – 6. Conclusioni.
Sinossi. Il commento, premesso un inquadramento generale sulla questione di fatto e di diritto sottesa alla decisione del Consiglio di Stato, si concentra in un primo momento nel segnalare le posizioni critiche della dottrina rispetto alla pronuncia; in un secondo momento, l’analisi illustra brevemente come il concetto di onerosità stia mutando rispetto ai canoni tradizionali tracciati nell’ambito del diritto civile per aprire, infine, la riflessione al rapporto di lavoro (autonomo e subordinato) e come in esso corrispettività e onerosità possano mutare nel futuro prossimo.
1. Il caso. Con la sentenza n. 4614 del 3 ottobre 2017, il Consiglio di Stato ha affrontato il tema dell’onerosità nei contratti stipulati con la Pubblica Amministrazione per l’affidamento dei servizi. L’organo giudicante ha ritenuto che possa essere configurabile un contratto di appalto per l’affidamento di servizi a titolo gratuito posto che l’affidabilità e la serietà dell’offerta possono essere ragionevolmente assicurate «da altri vantaggi» che il professionista potrà guadagnare, «economicamente apprezzabili anche se non direttamente finanziari, potenzialmente derivanti dal contratto». La situazione di fatto sottesa alla decisione riguarda la scelta del Comune di Catanzaro di indire una procedura aperta per l’affidamento della redazione del Piano Strutturale Comunale, con la previsione di riconoscere un rimborso spese di euro 250.000,00, documentato e rendicontato, e un corrispettivo pari ad euro 1,00. La decisione dell’Ente di bandire la gara d’appalto inserendo questi parametri matura in un contesto di particolare scarsità di risorse pubbliche e cioè in «assenza di copertura finanziaria per una spesa stimata di circa euro 800.000» per la realizzazione dell’opera, come riportato nella delibera della giunta comunale del 17 febbraio 2016. Peraltro, prima di indire la gara, l’Ente locale ha interpellato la sezione regionale della Corte dei Conti con
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la finalità di accertarsi se fosse stato possibile, tenuto conto del quadro normativo nazionale e comunitario, poter indire una gara di appalto con la previsione di corrispondere un compenso palesemente simbolico. Con parere n. 6 del 29 gennaio 2016, la Corte dei Conti ha reputato possibile una tale operazione posto che il Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12 aprile 2016, n. 50) «non riporta alcun divieto espresso circa l’inammissibilità di contratti di prestazione d’opera intellettuale a titolo gratuito». Dopo che il Comune di Catanzaro ha avviato la procedura di selezione del miglior offerente per l’affidamento della redazione del progetto in questione, l’Ordine provinciale degli architetti, unitamente agli ordini professionali degli ingegneri, degli agronomi e dei forestali hanno impugnato il bando di gara ed il disciplinare davanti al Tar calabrese contestandone l’illegittimità e sostenendo l’impossibilità di stipulare contratti di appalto di servizi di natura gratuita. L’asserita illegittimità poggiava sul fatto che «l’appalto si caratterizza come contratto a titolo oneroso, sia nella disciplina del codice civile, sia in quella dei contratti pubblici». Infatti, la natura onerosa del contratto d’appalto si desume tanto dall’art. 1655 c.c., quanto dalla normativa relativa ai contratti pubblici1. Il Tar ha accolto il ricorso sostenendo che «non è configurabile un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito, ovvero atipico rispetto alla disciplina di cui al d.lgs. n. 50 del 2016», oltre al fatto che la presunta gratuità della prestazione è «inidonea a garantire la qualità dell’offerta e, ancora prima, a consentire una sua effettiva valutazione»2. Il Comune di Catanzaro ha appellato la sentenza ritenendo che non vi è alcuna corrispondenza «tra onerosità dell’incarico professionale e garanzia dei requisiti di qualità dell’offerta». La parte appellante ha osservato che l’ordinamento «non vieta una prestazione d’opera professionale a titolo gratuito a vantaggio di una pubblica amministrazione», neppure «con riguardo al sistema dei contratti pubblici».
2. La diversa interpretazione di onerosità del Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello ribaltando alcuni assunti della sentenza emessa all’esito del primo grado di giudizio: a) l’onerosità3, pur derivando dalla normativa europea che salvaguardia i principi del libero mercato, della concorrenza e della trasparenza, «può assumere per il contratto pubblico un significato attenuato o in parte diverso rispetto all’accezione tradizionale e propria del mondo interprivato»; b) l’assenza della quantificazione finanziaria del corrispettivo, in realtà, non fa venire meno la serietà dell’offerta e l’affidabilità dell’offerente poiché le medesime possono essere ragionevolmente assicurate dal fatto che il professionista può comunque percepire «altri vantaggi, economicamente apprezzabili anche se non direttamente finanziari, potenzialmente derivanti dal contratto».
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Cfr. d.lgs. 12 aprile 2016, n. 50, in particolare: art. 3; art. 35; art. 93; art. 95, comma 3; art. 83, comma 4 e 5. Cfr. Tar Calabria, 13 dicembre 2016, n. 2435. Cfr. art. 3 d.lgs. n. 50/2016.
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In particolare, relativamente al profilo del guadagno finanziario quale presupposto della credibilità dell’offerta, il Consiglio di Stato ha sostenuto che il professionista possa avere interesse a contrarre con la Pubblica Amministrazione, anche a titolo gratuito, con lo scopo di ricevere come controprestazione un «altro genere di utilità», dunque, alternativa al compenso ma «pur sempre economicamente apprezzabile, che nasca o si immagini vada ad essere generata» dal contratto. Infatti, per alcuni soggetti che si obbligano con la Pubblica Amministrazione ad eseguire opere o prestare servizi, alla base dello scambio contrattuale non vi è sempre un utile economico in senso stretto. Si tratta del c.d. terzo settore composto da soggetti giuridici per loro natura privi di finalità lucrativa, cioè soggetti – precisa la sentenza – che perseguono «scopi non di stretto utile economico, bensì sociali o mutualistici; a loro è stato ritenuto non estendibile il principio del c.d. “utile necessario”»4. Da questo orientamento giurisprudenziale, il Consiglio di Stato ne fa discendere due principi centrali per la risoluzione della controversia: a) l’utile finanziario non è considerato dal diritto vivente l’elemento indispensabile per attribuire serietà ed affidabilità all’offerta; b) di conseguenza, le finalità a cui mira un soggetto privato che viene ammesso, all’esito della gara, ad essere parte di un contratto pubblico possono prescindere dal perseguimento di una utilità economica in senso stretto. Chiarite queste questioni, la sentenza si fa carico di definire in modo concreto quali siano le altre finalità alle quali possa legittimamente mirare il professionista. L’utilità economica non è solo un guadagno strettamente finanziario ma si compone anche di «elementi immateriali» quali ad esempio il vantaggio o meglio il prestigio «del divenire ed apparire esecutore, evidentemente diligente, della prestazione richiesta dall’Amministrazione». Il Consiglio di Stato rafforza le proprie motivazioni facendo leva su altri dati normativi e giurisprudenziali. Il d.lgs. n. 50/2016 disciplina all’art. 19 i contratti di sponsorizzazione, che non possono essere qualificati come contratti a titolo gratuito «in quanto alla prestazione dello sponsor in termini di dazione del denaro o di accollo del debito corrisponde l’acquisizione, in favore dello stesso sponsor, del diritto all’uso promozionale dell’immagine della cosa di titolarità pubblica». Questo scambio non può essere considerato gratuito poiché in cambio di denaro viene garantita un’utilità immateriale, cioè il ritorno d’immagine. A supporto dell’onerosità intesa come utilità economica anche immateriale, secondo il Consiglio di Stato, vi è anche la giurisprudenza europea5 che in materia di urbanizzazione ed edilizia, ha osservato che per attribuire ad un contratto pubblico il carattere dell’onerosità non occorre un esborso pecuniario, perché ad analogo rilievo funzionale assolve la realizzazione a scomputo di opere di urbanizzazione secondaria. È utile ricordare che questa pronuncia – che segna comunque una svolta della giurisprudenza nell’ambito dei contratti d’appalto sottoscritti con la Pubblica Amministrazione – interviene in un momento storico, forse decisivo per la riqualificazione e la tutela delle professioni. Nello stesso periodo, infatti, era in atto l’iter parlamentare per l’approvazione della legge sull’equo
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Sul punto la sentenza richiama alcune pronunce che confermano questa tesi; cfr. ex multis Cons. Stato, 13 settembre 2015, n. 3855; Cons. Stato, 27 luglio 2015, n. 3685; Cons. Stato, 17 novembre 2015, n. 5249. Cfr. C. giust., 12 luglio 2011, C-399/98.
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compenso. Inizialmente pensato esclusivamente per le sole professioni legali6, introducendo anche la nullità dell’accordo concluso tra avvocato e committente “forte” (ovvero banche, assicurazioni o imprese di grandi dimensioni) qualora il compenso pattuito non fosse stato proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto ed alle caratteristiche della prestazione legale, il disegno di legge è diventato oggetto d’interesse di tutte le categorie appartenenti al mondo della libera professione (consulenti del lavoro, commercialisti etc.). Infatti, è noto che la legge sull’equo compenso per la categoria degli avvocati è stata collegata nel dibattito parlamentare al disegno di legge dedicato ad una remunerazione proporzionata di tutte le prestazioni professionali, comprese anche quelle non ordinistiche7. Così, l’art. 19-quaterdecies del d.l. n. 148/2017 ha esteso le disposizioni di cui all’art. 13-bis della l. n. 247/2012 a «tutte le prestazioni rese dai professionisti» di cui all’art. 1 della l. n. 81/2017, a prescindere che questi siano iscritti o meno ad ordini o collegi, risultando così incluse anche le professioni non ordinistiche di cui alla l. n. 4/2013. Questa estensione generica a tutto il mondo dei professionisti presta il fianco a non pochi dubbi interpretativi laddove la norma richiama solo il campo di applicazione della l. n. 81/2017, escludendo quindi tutti quelli che, pur svolgendo un’attività professionale, hanno stipulato un contratto di lavoro riconducibile all’art. 409 c.p.c. o all’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 (8).
2.1. Lavoro autonomo, equo compenso e pubblica amministrazione. La norma che contiene un’ampia disciplina in materia di equo compenso è l’art. 13-bis della l. n. 247/2012 e, circoscritta in un primo momento alla tutela delle «prestazioni professionali degli avvocati», è oggi estesa a tutte le professioni, con le esclusioni accennate al paragrafo che precede. Tuttavia, la norma presenta delle imperfezioni giacché non tutela tutte le prestazioni del professionista ma solo quelle rese in «rapporti professionali regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria, in favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di grandi imprese» (cfr. art. 13-bis l. n. 247/2012), elencando a tutela del professionista quali siano le clausole che sono ritenute ex lege vessatorie. È da precisare che la nullità delle clausole vessatorie non rende nullo il contratto; ciò si verifica solo quando la nullità opera a favore dell’avvocato. Ci troviamo di fronte ad una c.d. nullità di protezione, dove l’avvocato è identificato come contraente debole (9). Si osserva anche che la scelta del legislatore di estendere tale disciplina attraverso l’art. 19-quaterdecies del d.l. n. 148/2017 ai rapporti professionali con la pubblica amministrazione è collegata al contrarsi dei guadagni dei professionisti aventi rapporti con la stessa (10).
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Cfr. art. 13-bis, l. n. 247/2012. Cfr. legge 14 gennaio 2013, n. 4. 8 L. Zoppoli, L’equo compenso tra contratto collettivo e legge, in Il lavoro autonomo e il lavoro agile dopo la legge n. 81/2017, in Carabelli, Fassina, I seminari della Consulta giudica della CGIL, n. 1/2018, Ediesse, 81. 9 Ibidem, 79. 10 Ibidem, 78. 7
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Le criticità che la legge mostra non sono poche e la dottrina non ha mancato di rilevarne alcune: a) i vincoli che essa pone nella stipula delle convenzione tra il professionista e il committente riguarda solo rapporti contrattuali con imprese medio-grandi o appartenenti a specifici settori (rectius, banche e società assicurative); b) la disciplina, per quanto possa essere minuziosa, non contempla tutele per tutte le situazioni patologiche possibili del rapporto contrattuale; c) il riferimento alle tariffe ministeriali non è obbligatorio in quanto il giudice potrebbe tenerne conto (comma 10) ma non è obbligato all’applicazione delle stesse11; d) la ristretta sfera di applicazione (solo committenze con grandi imprese) lascia il sospetto che la norma sia stata concepita per tutelare i rapporti nei «mercati più ricchi», tutelando così dei professionisti già presenti nel settore ed impedendo ad altri l’accesso12. La formulazione dell’art. 19-quaterdecies del d.l. n. 148/2017, infine, risulta essere affetta da un’eccessiva genericità che ne rende complessa l’applicazione. In particolare, non si comprende se in essa debba ricomprendersi tutta la pubblica amministrazione e se l’obbligo del corrispettivo si traduca nel corrispondere i compensi in base alle tariffe ministeriali in via orientativa o applicandole pedissequamente13.
3. Le critiche mosse alla decisione del Consiglio di Stato. Il contratto non è un istituto riservato ai soli soggetti privati «giacché anche gli enti di diritto pubblico sono legittimati ad intrattenere relazioni negoziali, sia per esigenze meramente gestionali del proprio patrimonio, sia per assolvere alle funzioni pubbliche loro affidate»14. A differenza però della legislazione dettata per i soggetti privati, il quadro normativo che disciplina l’attività contrattuale della Pubblica Amministrazione si caratterizza per la presenza di «norme che disciplinano profili d’azione dei quali il diritto privato di solito non si occupa»; infatti, «emblematica è la disciplina delle procedure di scelta del contraente»15. Per giurisprudenza e dottrina consolidata, infatti, l’utilità finanziaria perseguita dal professionista attraverso l’aggiudicazione della gara d’appalto ha rappresentato per molto tempo il criterio-guida per attribuire serietà e affidabilità all’offerta economica. E proprio l’adozione di questo storico criterio guida che ha sollevato alcune perplessità sulla decisione presa dal Consiglio di Stato. Una prima nota critica è stata rivolta al parere della Corte dei Conti trasmesso all’ente locale che ha emanato il bando, poiché «pur facendo riferimento al codice dei contratti pubblici» (d.lgs. 12 aprile 2016, n. 50) per giustificare la legittimità del contratto data l’assenza di vincoli rispetto alla “forma” del corrispettivo, i giudici contabili «qualificano il rapporto, che si intende instaurare a seguito della selezione, come collaborazione, istituto ben
11
Ibidem, 79 e 80. Ibidem, 80. 13 In chiave critica, si veda Ibidem, 81. 14 Cappai, Le fonti normative dei contratti della pubblica amministrazione: uno sguardo d’insieme, in RCP, 2017, n. 4, 1138. 15 Cappai, op. cit., 1140. 12
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diverso da un appalto di servizio intellettuali e tecnici»16. Un’altra nota critica si incentra sulla mancata valutazione complessiva dell’impianto normativo del d.lgs. 12 aprile 2016, n. 50. È stato osservato come il Consiglio di Stato abbia trascurato la rilevanza della c.d. onerosità finanziaria, poiché «è intimamente collegata a diversi istituti della contrattualistica pubblica» quali ad esempio l’«offerta anomala»17. Attraverso la valutazione finanziaria dell’offerta presentata dal professionista, infatti, si riesce ad accertare che la stessa sia coerente con la corretta esecuzione dell’appalto18. Appare allora difficile fare una verifica dell’anomalia dell’offerta prescindendo dal corrispettivo, tenendo conto che le utilità economiche immateriali alle quali allude la sentenza «si mostrano anche come pericolosamente generiche ed in grado di generare un terreno fertile per facili equivoci o mercimoni»19. Si teme sostanzialmente che attraverso questi contratti si possano instaurare dei rapporti privilegiati tra professionisti “benefattori” e la Pubblica Amministrazione20. Rispetto invece all’assimilazione operata dai giudici della fattispecie a quella del contratto di sponsor, è stato già sostenuto in passato che «nulla vieta ad un’impresa di effettuare donazioni anche a scopo pubblicitario ovvero forme di sponsorizzazione, ma ciò deve avvenire in modo trasparente e nelle sedi e secondo le forme previste per tal genere di rapporti e, dunque, non nel corso di un appalto»21. È stato anche osservato che questa pronuncia sembra non aver risentito della modifica del d.lgs. n. 50/2016, che all’art. 24, comma 8, così come modificato dal d.lgs. n. 56/2017, introduce un equo compenso anche per i contratti pubblici quale «importo da porre a base di gara dell’affidamento»22. È stato, infine, sottolineato come la gratuità di queste prestazioni svaluti e mortifichi il lavoro, violando l’art. 36 Cost.23. Tuttavia, questa ultima eccezione non è pienamente condivisa in quanto la disposizione costituzionale non trova applicazione per i lavoratori autonomi, come chiarito dalla recente giurisprudenza di legittimità24. Sempre in chiave critica, non è mancata l’osservazione da parte della dottrina che ritiene che la conclusione alla quale è pervenuto il Consiglio di stato sia da ritenere «pericolosissima perché apre la stura ad ogni svuotamento dello scambio sinallagmatico agganciato ai reali bisogni dei due contraenti, consentendo al contraente forte di scegliere la “nozione” di mercato per lui più conveniente»25. Secondo L. Zoppoli, questa impostazione è frutto dell’influenza della disciplina «del contratto di diritto pubblico di stampo europeo» che non potrebbe essere applicata de plano alle categorie giuridiche del diritto nazionale dei
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Cfr. Prestazioni tecnicamente complesse, da effettuare gratuitamente in favore della PA? Il CdS (poco convincentemente) dice di si!, in D&G, n. 157/2017, 3 ss.; Cons. Stato, 3 ottobre 2017, n. 4614, con nota di Alesio. 17 V. anche altre disposizioni tra cui: art. 3; art. 35; art. 93; art. 95, comma 3; art. 83, commi 4 e 5; V. Prestazioni tecnicamente complesse, op. cit., 3 e ss. 18 Sul punto, cfr. Cons. Stato, 15 settembre 2017, n. 4350. 19 V. Prestazioni tecnicamente complesse, op. cit., 3 e ss. 20 Sul punto si rinvia alle considerazioni di Clarich, Sull’affidamento gratuito il rischio sotto traccia di un rapporto di scambio, in Edilizia e Territorio, 5 ottobre 2017. 21 Romano, L’affidamento dei contratti pubblici di lavoro, servizi e forniture, Giuffrè, 2011, 166, nota 39. 22 V. Prestazioni tecnicamente complesse, op. cit., 3. 23 Cfr. sempre Prestazioni tecnicamente complesse, op. cit., 3. 24 Ex multis cfr. Cass., 6 novembre 2015, n. 22701. 25 L. Zoppoli, op. cit., 76.
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contratti, giacché quest’ultima pare non «consenta alcun contratto di lavoro – subordinato o autonomo – privo di un corrispettivo dal valore economico immediatamente apprezzabile sul piano sinallagmatico»26. Da ultimo, dura è stata anche la reazione di Inarcassa, la cassa previdenziale degli ingegneri e degli architetti, che ha anche presentato un esposto all’Anac. Secondo l’Ente, l’impatto di questa decisione sulla tenuta del sistema previdenziale di categoria potrebbe essere certamente notevole, provocando evidenti effetti negativi per l’equilibrio finanziario della cassa previdenziale.
3.1. L’art. 36 Cost. e il lavoro autonomo. Come visto, non è mancato chi ha fatto cenno ad una possibile violazione dell’art. 36 Cost. rispetto al caso trattato dal Consiglio di Stato27. Tuttavia, l’applicazione dell’art. 36 Cost. ai rapporti di lavoro autonomi non è del tutto pacifica, né in dottrina né in giurisprudenza. Infatti, nell’ambito del lavoro autonomo, non è stata mai disposta una regolazione imperativa con riferimento al corrispettivo. Vi sono solo alcuni riferimenti (v. ad esempio, l’art. 2225 c.c. per il contratto d’opera e l’art. 2233 c.c. per il contratto d’opera intellettuale) che rinviano in via sussidiaria alle tariffe e agli usi ed in mancanza di questi, tutto è rimesso all’apprezzamento del giudice che valuterà il compenso rispetto all’importanza dell’opera e al decoro professionale (art. 2233, comma 2 c.c.)28. Tuttavia il legislatore sembra aver preso tutt’altra strada. Infatti, con l’entrata in vigore del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, quest’ultimo, richiamando i concetti di proporzionalità rispetto alla qualità e alla quantità del lavoro prestato, individuava la determinazione di un compenso al lavoratore a progetto alla stregua dei criteri di cui all’art. 36 Cost. Il riferimento alla disposizione costituzionale diventava ancora più stringente quando l’art. 63 del d.lgs. n. 276 veniva novellato dalla l. 12 giugno 2012, n. 92 laddove prevedeva che i compensi dei lavoratori a progetto non potevano essere inferiori ai minimi previsti dai contratti collettivi interconfederali o nazionali (o da altri livelli contrattuali individuati da questi ultimi) stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Nell’attuale quadro normativo, i meccanismi di determinazione del compenso di una parte del lavoro autonomo restano agganciati all’art. 36 Cost. e alla contrattazione collettiva. Infatti, per le collaborazioni di cui all’art. 2, comma 1 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 trova applicazione la disciplina del lavoro subordinato; per le collaborazioni di cui all’art. 2, comma 2, trova applicazione la contrattazione collettiva che si è espressa per regolare i rapporti di collaborazione in determinati settori, agganciando in diversi casi i meccanismi di determinazione dei compensi ai contratti collettivi di settore per il lavoro subordinato, con la finalità di dare concreta applicazione all’art. 36 Cost. anche nel rapporto di lavoro parasubordinato.
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L. Zoppoli, op. cit., 77. Cfr. nota 23. 28 Su questi aspetti, si rinvia a Perulli, Il lavoro autonomo. Contratto d’opera e professioni intellettuali, Giuffrè, 1996, 672. 27
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Ancora, l’art. 1, comma 1, l. n. 233/2012 ha introdotto l’equo compenso per i giornalisti free lance, sganciando dai meccanismi di mercato la determinazione del corrispettivo per “affidarla” ad una apposita commissione che dovrà tenere conto dei trattamenti economici previsti dalla contrattazione collettiva per i giornalisti occupati in regime di subordinazione29. La giurisprudenza, al riguardo, mostra alcune incertezze. Seppure un orientamento risalente escluda alla radice l’applicazione dell’art. 36 Cost. al di fuori del lavoro subordinato, una recente pronuncia ha utilizzato i criteri dell’art. 36 Cost. per decidere una controversia in materia di lavoro autonomo30. Come anche i recenti disegni di legge in materia di equo compenso hanno mostrato alcune esitazioni a riconoscere l’art. 36 come criterio generale per tutelare la corrispettività nei rapporti di lavoro, sia subordinati che autonomi. Infatti, il d.d.l. AC 4631 del 29 agosto 2017 (c.d. d.d.l. Orlando) non riconduce l’equo compenso all’art. 36 Cost.; al contrario, il d.d.l. n. 2858 del 14 giugno 2017 (c.d. d.d.l. Sacconi) richiama l’art. 36 Cost. nella relazione d’illustrazione31. Tuttavia, non si intravedono grosse difficoltà nel poter sostenere che i criteri di proporzionalità e sufficienza debbano trovare applicazione anche nel rapporto di lavoro autonomo poiché la Repubblica «tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»32. La Costituzione, quindi, sembra tutelare in un certo senso la dimensione della dignità e della persona nel rapporto di lavoro. Seppure, infatti, il professionista o comunque il lavoratore autonomo si espone, in virtù della sua autonomia organizzativa, ai meccanismi della libera concorrenza, è anche vero che a quest’ultimo deve essere garantito un minimo per poter garantire la sua esistenza nel mercato.
4. I molteplici aspetti dell’onerosità nei contratti a prestazioni corrispettive.
L’impatto della decisione sulla prassi contrattuale è notevole e sembrerebbe poter risolvere un vivace dibattito dottrinario sorto attorno al tema dell’onerosità, seppure ancora oggi si registrino opinioni contrarie. È possibile osservare preliminarmente come il diritto civile abbia sempre guardato con sfavore agli spostamenti patrimoniali privi di giustificazione. Nell’ottica patrimonialistica del codice civile, ogni rapporto non personale è concepito come strutturalmente bilanciato, poiché costituito da movimenti patrimoniali in senso inverso. Laddove l’equilibrio dovesse mancare, e salvo che non si rientri in ipotesi già contemplate, l’ordinamento interviene attraverso il meccanismo dell’indennizzo. Il contratto, per eccellenza mezzo di circolazione delle ricchezze, si fonda nel concetto di scam-
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Bellavista, Il salario minimo legale, in DRI, 2014, 3, 752. Cfr. Cass., 1 giugno 2016, n. 11412. Sull’applicazione dell’art. 36 Cost. al lavoro autonomo, si veda anche il contributo di Biasi, Ripensando il rapporto tra il diritto della concorrenza e la contrattazione collettiva relativa al lavoro autonomo all’indomani della l. n. 81 del 2017, in WP D’Antona, It., n. 358/2018. 31 L. Zoppoli, L’equo compenso tra contratto collettivo e legge, op. cit., 75. 32 Cfr. art. 35 Cost. 30
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bio, ossia di onerosità. Lo scambio, a sua volta, può realizzarsi nell’ambito di un rapporto che è corrispettivo, dove per corrispettività si intende «l’interdipendenza delle prestazioni nell’ambito del medesimo contratto»33. Si spiega così come nel sistema codicistico ampio spazio sia dedicato proprio ai contratti con prestazioni corrispettive. La legge lascia libere le parti di fissare un corrispettivo a fronte di una valutazione secondo una loro soggettiva valutazione; di conseguenza questo potrebbe avere un valore superiore od inferire alla cosa oggetto di scambio34. Con riguardo al contratto di lavoro, diversamente dal corrispettivo, la retribuzione, per espressa previsione costituzionale (art. 36 Cost.), deve essere «proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato» ed anche «sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Ed è proprio l’esistenza di questi criteri di matrice costituzionale a rendere la retribuzione diversa dal corrispettivo35.
4.1. Onerosità e assenza della controprestazione. Alcuni esempi. Nella prassi commerciale odierna, non è infrequente che un contratto sia oneroso e al contempo non preveda una controprestazione. Il contraente potrebbe ricavare ugualmente, come nel caso oggetto di giudizio da parte del Consiglio di Stato, benefici dalla sola esecuzione della propria prestazione, ad esempio in termini d’immagine. Il disponente quindi attribuisce alla controparte un beneficio misurabile in termini monetari, ricevendo vantaggi economici ma non finanziari36. L’interprete, quindi, è tenuto a chiedersi come una certa modulazione di corrispettività possa condizionare l’onerosità, onde verificare se e quando, assente la prima, anche la seconda debba considerarsi mancante ovvero possa comunque ritenersi sussistente. A ben vedere, l’attribuzione ad altri di un vantaggio di natura patrimoniale misurabile in termini monetari e, in corrispondenza, la sussistenza di “vantaggi” economici per il disponente sono “episodi” sempre più frequenti in assetti non corrispettivi. Nel caso delle c.d. lettere di patronage37, ad esempio, è soddisfatto un interesse economico sia dell’una che dell’altra parte senza alcun assetto sinallagmatico e corrispettivo. La funzione di tali lettere di gradimento o di presentazione non consiste propriamente nel “garantire” l’adempimento altrui, o comunque il soddisfacimento del creditore come nel caso della fideiussione. Infatti, mentre in questo caso il garante assume l’obbligo di eseguire la prestazione dovuta dal debitore principale, scopo della lettera di patronage è rappresentato dal tentativo di rafforzare nel creditore il convincimento che il
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Per una ricostruzione storica degli istituti, v. Cippitani, Onerosità e corrispettività: dal diritto nazionale al diritto comunitario, in Europa e Diritto Privato, 2009, 2, 503. 34 Cataudella, La retribuzione nel tempo della crisi, Giappichelli, 2013, 6. 35 Cataudella, op. cit., 14. 36 Per una disamina delle ipotesi, si veda V. Ficari, Le diverse dimensioni della corrispettività, onerosità, gratuità e liberalità nel diritto tributario dell’impresa, in RDR, 2014, 7/8, 803. 37 Sorte negli Stati Uniti e diffusesi in Italia intorno agli anni Settanta, le lettere di patronage, nel nostro ordinamento non sono immediatamente riconducibili ad alcuna fattispecie tipizzata dal legislatore. Hanno trovato ampio impiego nella prassi commerciale, in particolare nell’ambito dei gruppi di società. Sulle origini della figura, v. Tabellini, Rilevanza valutaria delle lettere di patronage, in Riv. Dir. Econ. Valutaria, 1980, 591.
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patrocinato (cioè il debitore principale) adempirà alle obbligazioni assunte. Trattasi quindi di una garanzia atipica che agevola il ricorso e quindi l’ottenimento del credito38.
4.2. Alcune differenze con i rapporti a titolo gratuito. È anche vero che il nostro codice civile disciplina tipologie di contratto a titolo gratuito. Nell’ambito di quest’ultimo, viene attenuato l’obbligo del promittente in tema di responsabilità e garanzia (artt. 789, 798, 1266, 1710, 1768, 1821 c.c.); in questi casi, la legge afferma che la responsabilità per colpa è da valutare con minore rigore (artt. 1710, 1768, 1821 c.c.), oppure che è da limitarsi alla sola colpa grave o al dolo (art. 789 c.c.; cfr. l’art. 1821 c.c.); nei casi in cui la prestazione consiste in un dare, si circoscrive l’operatività della responsabilità per i vizi (art. 798 c.c.) e per l’evizione (art. 797 c.c., art. 1266 c.c.). La gratuità, tuttavia, si riverbera sull’interpretazione, la quale deve essere condotta nel modo di rendere meno gravoso possibile l’adempimento dell’unico obbligato (art. 1371 c.c.). Questa serie di eccezioni dipende dalla circostanza che, visti dalla prospettiva patrimonialistica, i contratti a titolo gratuito prevedono la prestazione di una sola parte, la quale deve essere tutelata in via principale rispetto a quella che ottiene solo i benefici del contratto. Seguendo questa linea, ad una attenuazione della corrispettività dovrebbe dunque corrispondere una attenuazione delle responsabilità. Se, quindi, il rapporto tra il professionista e la pubblica amministrazione fosse stato inquadrato in giudizio tra i rapporti a titolo gratuito qui brevemente richiamati, sarebbe stata riconosciuta, in ipotesi di eventuale inadempimento, una responsabilità attenuata. In ogni caso, la gratuità del rapporto non è comunque consentita, considerato l’impianto del codice dei pubblici appalti che giustifica la stipulazione dei contratti solo a titolo oneroso, seppure quest’ultima possa essere declinata anche al di là del mero “scambio” di carattere finanziario o monetario.
5. Alcuni spunti per il contratto di lavoro. Concentrando l’attenzione sul contratto di lavoro, si può innanzitutto osservare che nel rapporto di lavoro subordinato l’autonomia privata abbia la facoltà di prevedere che l’esecuzione di un’attività lavorativa avvenga a titolo gratuito, come in generale abbia la facoltà di stabilire variazioni della corrispettività39. Nel libero esercizio della libertà contrattuale, tuttavia, non può prescindersi dal principio di cui all’art. 36 Cost. In questo caso, la modulazione della corrispettività (fino ad una sua negazione, in caso di gratuità della prestazione) integra pur sempre una deroga alla normale onerosità del rapporto, e quindi
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Tra i vari contributi in materia, si segnalano: Macario, Garanzie personali, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Utet, 2009, 573 e ss.; Fezza, Le garanzie personali atipiche, in Trattato di diritto commerciale, sez. II, tomo 3, diretto da V. Buonocore, Utet, 2006; Mastropaolo, Le lettere di patronage, in I contratti di garanzia, in Tratt R, Utet, 2006, 1675. 39 Sulla sufficienza e sulla struttura della retribuzione del rapporto di lavoro si rinvia allo studio di L. Zoppoli, La corrispettività nel contratto di lavoro, ESI, 2003, 1991.
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al concetto di scambio; in definitiva, una modulazione della corrispettività pone in stato di fibrillazione lo stesso concetto di causa del contratto. E così alle parti – e all’interprete – si attribuisce il compito di porre in evidenza quelle circostanze oggettive o soggettive in grado di giustificare il particolare dispiegamento della corrispettività e che, in ultima istanza, portano a escludere la sussistenza di un accordo elusivo dell’irrinunciabilità della retribuzione40. Infatti, a più riprese, la giurisprudenza si è misurata con casistiche che hanno rappresentato l’eccezione alla regola, modulando così la corrispettività in base alle caratteristiche oggettive del rapporto; ad esempio, in materia di lavoro prestato in famiglia, laddove vi è la dimostrazione che il vincolo della solidarietà supera quello lucrativo, ci si trova di fronte ad un rapporto istituto dall’affectionis vel benevolentiae causa, cioè un rapporto oggettivamente caratterizzato dalla gratuità della prestazione per i soggetti ed il contesto in cui si svolge41. Per poter fare questo accertamento, che resta riservato al giudice di merito in fase di giudizio, l’analisi giuridica non può prescindere dall’investigazione sulla causa del contratto, che «va ravvisata non nell’astratta funzione economico-sociale cui lo schema contrattuale assolve, quanto piuttosto nella sintesi degli interessi concreti e reali che l’intera operazione contrattuale, nel suo dinamico svolgimento, è diretta a realizzare»42. È con questa prospettiva che occorre indagare sulla causa in concreto anche di altri contratti, come quelli stipulati dai professionisti e la Pubblica Amministrazione, per comprendere come possa legittimamente modularsi la corrispettività rispetti agli interessi perseguiti dalle parti contraenti.
6. Conclusioni. Concludendo l’analisi della pronuncia, è possibile formulare alcune considerazioni. Ci sono diverse motivazioni che inducono a far ritenere che la decisione assunta dal Consiglio di Stato rappresenti in concreto lo sforzo che l’interpretazione giuridica sta compiendo rispetto all’analisi degli interessi contrapposti in un rapporto contrattuale. In particolare, la giurisprudenza sta cercando di utilizzare i criteri di valutazione delle prassi commerciali per regolare una realtà che sta superando la logica dello “scambio” in termini di attribuzione patrimoniale diretta per essere soppiantata invece da una logica di partenariato o collaborazione, rispetto alla quale l’incremento patrimoniale è solo un riflesso e non la principale causa del rapporto. A buona ragione, si è fatto riferimento alle lettere di patronage, che rispondo a questa logica. La corrispettività, dunque, in termini “immateriali” non fa venire meno l’onerosità del rapporto, che resta tale. Diversamente, la gratuità potrebbe essere utilizzata specularmente per attenuare la responsabilità della parte contrattuale che adempie, facendo leva – come visto – sull’impianto generale del codice
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G. Fontana, Gratuità e onerosità nei rapporti di lavoro, in RIDL, 2003, 2, 240. Cfr. Cass., 26 gennaio 2009, n. 1833; per una rassegna, v. Bussino, Vigilanza ispettiva nel lavoro a titolo gratuito e a titolo oneroso, in Boll. Adapt, 12 ottobre 2009, n. 95. 42 Così Cass. civ., sez. III, 24 luglio 2007, 16315. 41
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civile (a titolo di esempio, cfr. artt. 1710, 1768, 1821 c.c.) che in questi casi impone all’interprete una valutazione meno rigorosa e stringente. Sarebbe quindi paradossale che un professionista stipuli un contratto con la Pubblica Amministrazione, al quale è garantito un certo guadagno d’immagine per l’esecuzione della prestazione, che però esegua il lavoro con un grado di perizia alquanto discutibile solo perché non c’è uno scambio in termini finanziari. In altre parole, qualificando la prestazione come gratuita e non dando rilievo al guadagno d’immagine che il professionista ne ricava, la Pubblica Amministrazione si troverebbe nella situazione di arricchire l’altra parte e nel caso di non corretto adempimento, in una posizione di debolezza rispetto ai profili di responsabilità della parte contraente. È bene osservare anche che se da un lato la tendenza della legislazione italiana ed europea è quella di «normare in maniera pervasiva l’attività contrattuale funzionale alla realizzazione delle opere, alla gestione di servizi e all’apprestamento di forniture» non favorendo così «una larga esplicazione della atipicità negoziale»43, dall’altra è vero che la Pubblica Amministrazione non agisce nel mercato avvalendosi dei soli modelli contrattuali tipici «ben potendo la P.A. attendere alle finalità istituzionali con il perfezionamento di contratti atipici»44. E nella atipicità che occorre ascrivere la quesitone sottoposta al Consiglio di Stato. Infine, le osservazioni formulate nel paragrafo 5 sono finalizzate a mettere in luce come con riferimento al rapporto di lavoro subordinato, il recente orientamento del Consiglio di Stato possa essere uno spunto per aderire ad un dibattito che vada «oltre la retorica del lavoro gratuito»45. La decisione del Consiglio di Stato mette in luce come un rapporto patrimoniale possa misurare la corrispettività rispetto ad un ulteriore paramento, ossia quello della sostenibilità. L’idea di commisurare la corrispettività nei rapporti patrimoniali – e quindi anche nei rapporti di lavoro – a parametri quali ad esempio la sostenibilità, «implica in altre parole un ripensamento della modalità di valutazione economica delle prestazioni e delle relazioni in ottica di investimento, cioè di lungo termine, per cui si può anche “rinunciare” a qualcosa oggi, per avere qualcosa di più domani. In questo senso, l’utilità economica viene a configurarsi non solo e non tanto come guadagno strettamente finanziario, ma si arricchisce anche di elementi immateriali la cui valutazione deve necessariamente estendersi sul lungo periodo: immagine, prestigio e nuove opportunità di business per il professionista; maturazione, orientamento e occupabilità per uno studente in alternanza»46. Giovanni Piglialarmi
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Cappai, op. cit., 1139. Cappai, op. cit., 1139; v. anche Mastragostino (a cura di), Tipicità e a tipicità nei contratti pubblici, Bononia University Press, 2007. 45 Tiraboschi, Il rapporto tra contrattazione e produttività del lavoro, in C&CC, 11, novembre 2017, 4. 46 Tiraboschi, op. cit., 5. 44
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Giurisprudenza Tribunale di Bergamo, 30 marzo 2018; Estensore Bertoncini – Filt Cgil (avv. M. Parpaglioni, C. De Marchi Gomez, V. Vacirca, V. Mattiozzi) c. Ryanair Dac (avv. S. Barozzi, S. Bargellini, E. Baldassarre). Diritto sindacale – discriminazioni – divieto – convinzioni personali – convinzioni sindacali del lavoratore – clausola regolamentare/negoziale – divieto di affiliazione sindacale e azione collettiva – illegittimità - condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro – limitazione.
Il divieto di discriminazione per convinzioni sindacali, quale species delle convinzioni personali, impedisce la previsione di una clausola regolamentare/contrattuale che subordina la validità del contratto individuale di lavoro ed il riconoscimento di alcuni trattamenti retributivi ed indennitari al divieto di affiliazione sindacale e di azione collettiva. Tale clausola integra un’ipotesi di discriminazione diretta ed una chiara limitazione delle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in violazione dell’art. 3, comma 1, lett. a) d.lgs. 216/2003. ‘Svolgimento del processo e motivi della decisione. – Con ricorso promosso ai sensi dell’art. 28 d.lgs. 150/11 e art. 5, co. 2, d.lgs. 216/03 la Federazione Italiana Lavoratori dei Trasporti – FILT CGIL di conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bergamo, la Ryanair Dac per sentir accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della clausola inserita nel contratto individuale di lavoro dei dipendenti e del personale definita “estinzione del contratto” del seguente tenore “questo accordo rimarrà in vigore per tutto il tempo che il personale di cabina di Ryanair contatti direttamente il datore di lavoro e non effettui interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra azione di natura sindacale. Se Ryanair o le società di mediazione di lavoro saranno obbligate a riconoscere qualunque sindacato del personale di cabina o se vi sarà qualunque azione collettiva di qualsiasi tipo, in questo caso il contratto dovrà intendersi annullato e inefficace e qualunque incremento retributivo o indennitario (allowance) o cambio di turno concessi sotto la vigenza del presente contratto sarà ritirato”, con conseguente condanna alla cancellazione ed all’annullamento di tale clausola del contratto-regolamento imposto ai lavoratori; nonché per sentir ordinare a Ryanair un piano di rimozione delle discriminazioni o delle prassi che ostacolano l’esercizio dei diritti sindacali; nonché per sentirla condannare al risarcimento del danno da quantificarsi in via equitativa; nonché per sentir ordinare la pubblicazione del provvedimento su almeno tre quotidiani nazionali. A fondamento di tale pretesa la ricorrente evidenziava come all’interno della società convenuta non esista un sistema di relazioni sindacali, poiché l’azienda rifiuta pubblicamente e sistematicamente l’instaurazione di relazioni sindacali su tutte le basi italiane ed europee presso le quali opera. La ricorrente dava inoltre atto dell’adozione, da parte di Ryanair, di un regolamento unilaterale, imposto in se-
de di instaurazione dei rapporti, atto a penalizzare ogni forma di rivendicazione, sia individuale che collettiva. A tal proposito l’organizzazione ricorrente richiamava la previsione, nei contratti individuali, di clausole che inibiscono in maniera assoluta l’affiliazione sindacale e la rivendicazione collettiva dei diritti. L’associazione ricorrente affermava pertanto il carattere discriminatorio di tale clausola, ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 216/03, in quanto idonea ad incidere sulle condizioni di accesso al lavoro, disincentivando i lavoratori sindacalizzati dall’instaurare rapporti di lavoro con la convenuta, atteso che le “convinzioni personali” rientrano tra i fattori di rischio della discriminazione. La Ryanair DAC, regolarmente citata, si costituiva in giudizio, resistendo alla domanda di cui chiedeva il rigetto. La convenuta eccepiva preliminarmente il difetto di giurisdizione dell’autorità italiana, essendo una società di diritto irlandese, ed eccepiva poi l’inammissibilità e l’improcedibilità dell’azione, che avrebbe dovuto essere proposta ai sensi dell’art. 28 l. 300/70. La convenuta rilevava, inoltre, come ai rapporti di lavoro del proprio personale fosse applicabile la legge irlandese, unica quindi invocabile anche rispetto alle relazioni ed ai diritti sindacali. Nel merito, la convenuta negava che presso l’aeroporto di Orio al Serio, al pari di qualsiasi altro in Italia, fosse ravvisabile una stabile organizzazione di Ryanair. La convenuta eccepiva poi il difetto di legittimazione attiva del sindacato, non essendo stato riconosciuto da Ryanair e non avendo alcun dipendente iscritto. La Ryanair rilevava inoltre come il proprio contratto collettivo, ancorché non sottoscritto dai sindacati, fosse stato giudicato valido, in base alla legge irlandese, dalla Supreme Court. Infine, in ordine alla clausola denunciata di discriminatorietà, la convenuta ricordava come ne esistesse-
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ro di analoghe nell’ambito della contrattazione collettiva italiana. Concludeva per il rigetto del ricorso. – Omissis. Va preliminarmente affrontata la questione della giurisdizione, essendo pacifico che la convenuta è società di diritto irlandese con sede in Italia. L’organizzazione ricorrente afferma la sussistenza della giurisdizione italiana in base all’art. 7 n. 2 del regolamento CE 1215/12 sul presupposto della natura extracontrattuale dell’azione proposta e dell’illecito derivato dalla condotta denunciata, illecito suscettibile, in base alla previsione dell’art. 28, comma 5, d.lgs. 150/11 di risarcimento del danno non patrimoniale. Secondo la citata disposizione “una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro (…) in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire”. L’art. 4, 1° comma, del regolamento CE 1215/12 stabilisce che “le persone domiciliate nel territorio di un determinato Stato membro sono convenute, a prescindere dalla loro cittadinanza, davanti alle autorità giurisdizionali di tale Stato membro”. Il successivo art. 5, 1° comma, aggiunge che “le persone domiciliate nel territorio di uno Stato membro possono essere convenute davanti alle autorità giurisdizionali di un altro Stato membro solo ai sensi delle norme di cui alle sezioni da 2 a 7 del presente capo”. Ciò premesso, va ricordato che l’azione di discriminazione è finalizzata all’accertamento del carattere discriminatorio di una determinata condotta. Essa è ricollegata alla violazione dei principi di uguaglianza e di parità di trattamento e viene talvolta definita come azione di nullità, in quanto nulli sono gli atti posti in essere in violazione del divieto di non discriminazione (come ad esempio, nel caso del licenziamento discriminatorio). La pronuncia del Giudice, una volta accertata la discriminazione, deve avere un contenuto tale da rimuovere la discriminazione stessa e ripristinare la parità di trattamento (v. art. 9 Direttiva CE 43/00 e art. 11 direttiva CE 78/00). Sempre secondo le citate direttive “gli stati membri determinano le sanzioni da irrogare in caso di violazione … e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro applicazione. Le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento del danno, devono essere effettive, proporzionate, dissuasive” (art. 15 Direttiva CE 43/00 e art. 17 Direttiva CE 78/00). L’art. 44, comma 1, d.lgs. 268/98 (richiamato anche dal d.lgs. 216/03) definisce l’azione civile contro la discriminazione come quella all’esito della quale il Giudice può “ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”. Il settimo comma di tale disposizione stabilisce che “con la decisione che definisce il giudizio il giudice
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può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale”. Analogamente, secondo l’art. 4, comma 4, d.lgs. 216/03. – Omissis. Conseguentemente, con l’introduzione del rito unico, l’art. 28, 5° comma, d.lgs. 150/11 ha previsto che “con l’ordinanza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti”. In questo caso, il risarcimento del danno è ricollegato alla lesione di diritti soggettivi o interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (come ad esempio nel caso del diritto alla riservatezza, v. SS.UU. 26972/08, o a non subire discriminazioni). Pertanto, nell’ambito dell’azione contro la discriminazione viene in considerazione, oltre all’accertamento del carattere discriminatorio della condotta denunciata ed all’adozione delle misure più idonee alla rimozione degli effetti, il possibile risarcimento del danno per violazione del diritto a non subire discriminazione. Tra l’altro, a seguito del recente intervento delle Sezioni Unite, non v’è dubbio che tale danno sia annoverabile tra quelli cd. «punitivi » la cui funzione è appunto quella di “punire” l’autore dell’illecito condannandolo al pagamento di una somma il cui importo è superiore all’effettivo pregiudizio patito dal danneggiato (v. SS.UU. 16601/17). Si tratta di un risarcimento legato ad un illecito civile che nella fattispecie in esame, come in molte altre del diritto antidiscriminatorio, ha connotazione extracontrattuale, per cui può latamente rientrare nella previsione di cui all’art. 7 n. 2 del regolamento CE 1215/12. Inoltre, la disposizione in questione deve essere interpretata in base alla giurisprudenza europea che distingue le obbligazioni contrattuali da quelle extracontrattuali semplicemente sul presupposto della presenza o meno, quale oggetto del rapporto, di un obbligo liberamente assunto da una delle parti nei confronti dell’altra. Va pure considerato che il diritto antidiscriminatorio è permeato da norme, anche di carattere processuale, che tendono ad alleggerire la posizione di chi denunzia la discriminazione ed in tale contesto si colloca anche la previsione del secondo comma dell’art. 28 d.lgs. 150/11 secondo cui “è competente il tribunale del luogo in cui il ricorrente ha il domicilio”. Declinare la giurisdizione a favore di quella dell’autorità giudiziaria di altro Stato membro significherebbe frustrare completamente le finalità ed i principi del diritto antidiscriminatorio.
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Sulla base di tali considerazioni può affermarsi la giurisdizione dell’autorità italiana, atteso che la condotta denunciata, per come rappresentata e per come si dirà nel prosieguo, è idonea a produrre i suoi effetti nel territorio italiano. Per completezza occorre rilevare come nessuna disposizione del regolamento CE 1215/12 ne esclude l’applicazione in caso di azione non promossa dal singolo, ma da un’organizzazione collettiva (art. 1). Per quanto riguarda la legge applicabile, non risultano condivisibili le deduzioni della convenuta, poiché queste riguardano disposizioni (regolamento CE 593/08) che si riferiscono alle obbligazioni contrattuali in materia civile e commerciale e presuppongono l’esistenza del rapporto di lavoro. Come già anticipato, tra le parti non sussiste alcun legame contrattuale, tant’è che si verte appunto in tema di responsabilità extracontrattuale, con conseguente applicabilità (anche in base al regolamento CE n. 864/07) della legge del luogo in cui si è verificato l’evento ovvero l’Italia. Per quanto riguarda la legittimazione passiva del sindacato, contestata dalla convenuta sul presupposto della non applicabilità della legge italiana, la diversa conclusione appena affermata consente di respingere l’eccezione, tenuto conto che proprio la legge italiana attribuisce alle organizzazioni sindacali la legittimazione ad agire “nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione” (art. 5, comma 2, d.lgs. 216/03). Va infine respinta l’eccezione di litispendenza con il giudizio ex art. 28 l. 300/70 instaurato dinanzi al Tribunale di Busto Arsizio, trattandosi di azioni che, a prescindere dalla parziale identità di alcuni fatti, sono all’evidenza connotate da petitum e causa petendi diverse. Passando, quindi, ad analizzare il merito, la ricorrente ha evidenziato come la società convenuta neghi qualsiasi rapporto con le organizzazioni sindacali, avendo pure estromesso dall’azienda i dipendenti che nei vari Stati membri hanno tentato di porre in essere attività sindacali (v. doc. 22 fasc. ricorrente). La FILT CGIL denuncia in particolare una clausola risolutiva espressa che la Ryanair DAC farebbe sottoscrivere al personale al momento dell’assunzione e secondo la quale il rapporto sarebbe destinato a risolversi in caso di sindacalizzazione, ragion per cui tale clausola, in quanto fortemente dissuasiva della libertà di associazione, avrebbe carattere discriminatorio per i dipendenti che intendano palesare ed agire in base alle proprie convinzioni personali di natura sindacale. – Omissis. La documentazione prodotta dalla resistente non dimostra che tale clausola non sia apposta, né richiamata nei contratti individuali di lavoro stipulati tra Ryanair DAC e personale italiano, posto che l’unico contratto depositato riguarda un soggetto assunto con la mansione di “customer service supervisor”, mentre la clauso-
la denunziata appartiene al “Cabin Crew Agreemet for Crew Operation”, quindi riguarda il personale di volo (v. doc. 8 fasc. ricorrente e doc. 1 fasc. resistente). L’ex pilota intervistato nel programma di La7, benché non fosse assunto direttamente da Ryanair DAC, ha confermato la richiesta di sottoscrizione di tale clausola, coerentemente con il tenore esplicito della stessa (v. doc. 22 fasc. ricorrente). Tra l’altro, la difesa della convenuta verte più sulla validità di simili clausole, definite di “tregua sindacale”, che sull’assenza di queste nei contratti del personale di cabina. Tuttavia, le clausole di “tregua sindacale” o di “responsabilità” previste all’interno di qualche contratto collettivo hanno un significato ed un tenore diverso, vincolano le rappresentanze sindacali al rispetto degli impegni assunti in sede di stipula del contratto, ma non comportano la risoluzione del contratto nei confronti di quei lavoratori che si rivolgono al sindacato affinché li tuteli. Il modello Ryanair, per come lo ha pubblicizzato la società e per come risulta dalla ricerca depositata dalla ricorrente, è strutturato su una relazione diretta con i lavoratori, senza mediazioni o interferenze da parte del sindacato ed in tale ottica è stata prevista la “clausola di estinzione” denunciata in questa sede. Non può però dubitarsi che questa abbia un effetto dissuasivo nei confronti delle persone sindacalizzate, considerato che il suo contenuto stride fortemente con il contesto lavorativo italiano, caratterizzato da una vigorosa e risalente presenza del sindacato e da ampie relazioni sindacali con le aziende (sia private che pubbliche). Tale effetto dissuasivo è ancor più apprezzabile ove si consideri la reazione avuta dalla società di fronte alla proclamazione di uno sciopero da parte dei piloti. È infatti accaduto che l’amministratore delegato della società, Michael O’Leary, abbia pubblicamente dichiarato di fronte all’assemblea degli azionisti che prima che la Ryanair venga sindacalizzata si “ghiaccerà l’inferno” – Omissis. Tale affermazione è stata resa nel settembre 2017 quando costui ha dovuto affrontare gli azionisti a seguito della cancellazioni, in Italia ed in Europa, di oltre 2.100 voli in sei settimane, per far fronte, secondo le dichiarazioni ufficiali della compagnia, a un deficit di piloti dovuto ad una cattiva gestione dei riposi previsti per legge, ma che secondo altre fonti notoriamente riportate sulla stampa, era dovuta ad una fuga di personale verso altre compagnie aeree che offrivano condizioni migliori. Secondo quanto notoriamente avvenuto, nei mesi successivi i piloti della compagnia hanno indetto una serie di scioperi, a seguito dei quali Ryanair ha deciso di rinegoziare le condizioni contrattuali. L’atteggiamento di ostruzionismo e respingimento della rivendicazione contrattuale è documentato dalla lettera con cui la compagnia ha intimato a piloti e as-
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sistenti di volo di non aderire allo sciopero indetto per venerdì 15 dicembre 2017 a meno di non incorrere in sanzioni tra cui la perdita di futuri aumenti in busta paga oppure trasferimenti o promozioni – Omissis. Nel comunicato in questione si legge testualmente «sarete a conoscenza che il sindacato dei piloti Alitalia Anpac sta provando a incoraggiare i piloti Ryanair a non lavorare (…) Ci aspettiamo che tutti i nostri piloti lavorino normalmente e lavorino con noi per minimizzare gli inconvenienti per i nostri clienti (…) Tutti i piloti di Ryanair e l’equipaggio di cabina devono fare rapporto come sempre il 15 dicembre nella sala equipaggio. Ogni azione intrapresa da ogni dipendente risulterà nella perdita immediata del roster 5/3 (ovvero la turnazione che prevede cinque giorni di lavoro e tre di riposo) per tutto l’equipaggio di cabina)» – Omissis. La cronologia dei fatti conferma che le dichiarazioni di Michael O’Leary si sono inserite in un contesto di agitazione del personale, ragion per cui non può dubitarsi dell’effetto dissuasivo delle stesse, atte oltretutto a rafforzare quello della “clausola di estinzione”. Così ricostruiti i fatti, va richiamata la direttiva 2000/78/CE del 27.11.2000 che ha stabilito un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro. In particolare, secondo il suo articolo 1 la direttiva “mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio di parità di trattamento”. Il d.lgs. 216/03 ha dato attuazione alla direttiva stabilendo all’art. 2, comma 1, che “per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale” e si ha “discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga” (art. 2, comma 1, lett. a, d.lgs. 216/03). Inoltre, “il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale” (art. 3, comma 1, lett. a, d.lgs. 216/03). Occorre quindi precisare che “la qualificazione di discriminatorietà può essere attribuita a un qualsiasi atto che determini un’oggettiva disparità di trattamento, avendosi riguardo agli effetti pregiudizievoli o di particolare svantaggio del trattamento meno favorevole e prescindendo dalle intenzioni del responsabile della discriminazione” (Trib. Bergamo, 24.4.2013, Corte App. Torino 23.1.2013).
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Inoltre, il d.lgs. 216/03, nel definire la discriminazione diretta (“una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”) introduce sia una comparazione attuale, che una meramente ipotetica. E come chiarito dalla Corte di Giustizia, «l’esistenza di una discriminazione diretta, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 non presuppone che sia identificabile un denunciante che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione» (così, par. 36 causa C-81/12 Associatia Accept, nonché par. 23 causa C-54/07). Ciò significa che è atta ad integrare discriminazione anche una condotta che, solo sul piano astratto, impedisce o rende maggiormente difficoltoso l’accesso all’occupazione, come nei casi analoghi sottoposti all’esame della Corte di Giustizia (causa C-81/12 Associatia Accept, nonché causa C-54/07). In particolare, nell’ambito della causa C-81/12 (cd. Associatia Accept), non era in discussione che alle dichiarazioni incriminate (rese da un’azionista di una squadra di calcio per il quale sarebbe stato preferibile ingaggiare un calciatore della squadra giovanile, piuttosto che un calciatore presentato come omosessuale) fossero applicabili gli articoli 1 e 3, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 « che riguardano, in materia di occupazione e condizioni di lavoro, dichiarazioni relative <<alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro (…), comprese (…) le condizioni di assunzione » (causa C-81/12 Associatia Accept). Analoghe considerazioni si possono svolgere rispetto alle dichiarazioni in esame, con cui chiaramente si prendono le distanze dalle persone aderenti al sindacato e di fatto si prospetta la risoluzione del rapporto di lavoro nel caso in cui il dipendente, anziché contattare direttamente il datore di lavoro, effettui interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra azione di natura sindacale – Omissis. Si tratta di una clausola e di espressioni che, sia dal punto di vista meramente oggettivo sia in relazione al contesto in cui si collocano, sono idonee a dissuadere determinati soggetti dal presentare le proprie candidature a Ryanair od a renderlo maggiormente difficoltoso. Peraltro, nella situazione in esame, si è di fronte ad una delle maggiori compagnie aeree low cost, il che attribuisce maggiore risonanza, rilievo e dissuasività alla clausola ed alle dichiarazioni in questione. Entrambe, per quanto già esposto, appaiono idonee a dissuadere dall’invio del curriculum vitae alla compagnia e ciò, di per sè, integra una limitazione delle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro. È verosimile quindi che molte persone, apertamente aderenti al sindacato, potranno astenersi dall’inviare la propria candidatura, avendo la certezza che questa non sarà presa in considerazione, tenuto conto che Ryanair non nasconde, neppure con la memoria difensiva, la sua volontà di preferire una negoziazione diretta con i lavoratori, non mediata dalle organizzazioni
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sindacali italiane. Pertanto, come sostenuto dall’avvocato generale nella causa C-54/07, dichiarazioni simili a quelle in esame hanno «un effetto tutt’altro che ipotetico», avendo piuttosto un impatto demoralizzante e dissuasivo nei confronti di quelle persone che aspirerebbero ad essere assunte presso la compagnia convenuta. Oltretutto, nella situazione in esame, la convenuta non ha fornito alcuna prova di resistenza in senso contrario, dimostrando che, nonostante la clausola, le dichiarazioni ed il periodo di particolare sollevamento del personale, vi siano state numerose assunzioni di personale italiano apertamente sindacalizzato. Alla clausola di estinzione denunciata, per le complessive ragioni già esposte, deve essere attribuita natura discriminatoria integrando un’ipotesi di discriminazione diretta ed una chiara limitazione delle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in violazione dell’art. 3, comma 1, lett. A) d.lgs. 216/03. Occorre, infine, aggiungere che in una situazione simile la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto la violazione dell’art. 11 della convenzione europea dei diritti dell’uomo laddove prevede che “ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica ed alla libertà di associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi” (comma 1) e “l’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge” (comma 2) (sentenza 2.7.2002 nei ricorsi 30668/96 e 30678/96, e in senso analogo sentenze Demir e Baykara c. Turchia e Enerji Yapi-Sol Sen c. Turchia). La giurisprudenza comunitaria ha fornito una interpretazione evolutiva dell’articolo 11 della Convenzione, dedicato alla libertà di associazione, arrivando a ricomprendervi il diritto a non subire discriminazioni in base al proprio orientamento sindacale, ragion per cui nel concetto di «convinzioni personali» vanno incluse le opinioni e l’appartenenza sindacale. Per quanto riguarda la tutela e le sanzioni applicabili, piano di rimozione compreso (art. 28, comma 5, d.lgs. 150/11), va evidenziato come, per le modalità attraverso le quali la discriminazione è stata attuata, l’ambito di intervento è assai limitato, non essendo possibile, per quanto concerne ad esempio le dichiarazioni, ordinare a soggetti estranei al giudizio (l’assemblea degli azionisti o le testate giornalistiche che le hanno riportate) l’eventuale rimozione delle stesse, né ordinare alla parte convenuta di tenere comportamenti incoercibili. Né è possibile, come richiesto dalla FILT CGIL, ordinare la cancellazione della “clausola di estinzione”, in quanto questa sarebbe nulla ove al rapporto di lavoro fosse applicabile il diritto italiano, ma in caso contrario andrebbe vagliata alla stregua del diritto irlandese. Nessuna delle parti, neppure l’organizzazione sindacale ricorrente, ha prodotto un contratto individuale di lavoro del personale di cabina (cabin crew), per cui
non è possibile stabilire se tali rapporti siano soggetti al diritto italiano o a quello irlandese. In questo contesto è evidentemente impossibile emettere l’ordine di cancellazione richiesto dalla ricorrente. L’unica concreta modalità attraverso la quale è possibile la rimozione della condotta discriminatoria è quella di dare adeguata pubblicità al presente provvedimento, anche in considerazione dell’eco che i fatti hanno avuto, sia per il fatto di provenire da una delle maggiori compagnie aeree low cost, sia per la diffusione nazionale degli stessi. Pertanto, va ordinata alla convenuta la pubblicazione, a sue spese, di un estratto del presente provvedimento, in formato idoneo a garantirne adeguata pubblicità, su «Il Corriere della Sera » e su “Il Sole 24 ore”, autorizzando l’associazione ricorrente, in caso di inottemperanza, a provvedere direttamente alla pubblicazione, con diritto di rivalsa nei confronti della convenuta per le spese sostenute. Per quanto attiene, infine, al profilo risarcitorio, va richiamata l’esistenza di un ampio filone giurisprudenziale, che riconosce un autonomo risarcimento del danno non patrimoniale (2059 c.c.) poiché interesse tipizzato già in via legislativa ed a protezione di situazioni giuridiche costituzionalmente protette (v. Trib. Milano, 23 settembre 2009). Inoltre, come già ricordato, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno recentemente ammesso la categoria del cd. “danno punitivo”, ascrivendovi espressamente quello da violazione di norme in materia di diritto antidiscriminatorio (SS.UU. 16601/17). Del resto, secondo le direttive in materia di diritto antidiscriminatorio, anche qualora non via siano vittime identificabili, le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione delle direttive debbono essere effettive, proporzionate e dissuasive, poiché una sanzione meramente simbolica non può essere considerata compatibile con un’attuazione corretta ed efficace delle direttive stesse (causa C-81/12 Associatia Accept, nonché causa C-54/07). Nella situazione in esame, il numero delle decisioni straniere che già hanno interessato Ryanair per il disconoscimento delle organizzazioni sindacali, l’ampia diffusione mediatica che le dichiarazioni hanno avuto, il contenuto e la forza offensiva delle stesse, la notorietà della società, inducono a ritenere non adeguatamente dissuasivo l’ordine di pubblicazione del presente provvedimento, rendendo opportuna la condanna al pagamento di una somma di denaro che, tenuto conto degli elementi appena rappresentati, può equitativamente essere determinata in € 50.000,00. La domanda può dunque essere accolta nei termini sopra evidenziati. Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica ed in funzione di Giudice del Lavoro, definitivamente
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pronunciando sulla causa n. 2077/17 r.g.: 1) dichiara il carattere discriminatorio del comportamento tenuto da Ryanair DAC in relazione alla “clausola di estinzione” del seguente tenore: “questo accordo rimarrà in vigore per tutto il tempo che il personale di cabina di Ryanair contatti direttamente il datore di lavoro e non effettui interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra azione di natura sindacale. Se Ryanair o le società di mediazione di lavoro saranno obbligate a riconoscere qualunque sindacato del personale di cabina o se vi sarà qualunque azione collettiva di qualsiasi tipo, in questo caso il contratto dovrà intendersi annullato e inefficace e qualunque incremento retributivo o indennitario (allo-
wance) o cambio di turno concessi sotto la vigenza del presente contratto sarà ritirato”; 2) ordina a Ryanair DAC la pubblicazione, a sue spese, di un estratto del presente provvedimento, in formato idoneo a garantirne adeguata pubblicità, su «Il Corriere della Sera» e su “Il Sole 24 ore”, autorizzando l’Associazione ricorrente, in caso di inottemperanza, a provvedere direttamente alla pubblicazione, con diritto di rivalsa nei confronti della convenuta per le spese sostenute; 3) condanna Ryanair DAC, in persona del suo legale rappresentante, al pagamento, nei confronti della FILT CGIL di Bergamo, a titolo di risarcimento del danno, della somma di € 50.000,00; – Omissis.
Sul divieto di conflitto e affiliazione sindacale: il «modello Ryanair» sotto la lente del diritto antidiscriminatorio Sommario : 1. La res controversa: sul divieto di conflitto e affiliazione sindacale negli accordi Ryanair. – 2. Questioni processuali: giurisdizione e legge applicabile. – 3. Segue: l’utilizzo strategico della tutela anti-discriminatoria nella composizione giudiziale del conflitto tra impresa e lavoro. – 4. L’impatto fortemente «demoralizzante e dissuasivo» della disciplina negoziale: una discriminazione diretta nei confronti dei lavoratori sindacalizzati. – 5. La rilevanza del danno punitivo: nuovi approdi della giurisprudenza del lavoro? – 6. Verso la fine di un «modello» che ha disconosciuto i diritti sindacali.
Sinossi: il contributo esamina una decisione del Tribunale di Bergamo, soffermandosi sulla validità di una clausola, contenuta negli accordi Ryanair, che subordina il godimento di alcuni trattamenti retributivi ed indennitari alla mancata affiliazione sindacale e alla rinuncia di azioni rivendicative contro l’azienda.
In accoglimento di un ricorso promosso ex art. 28, d.lgs. n. 150/2011 e art. 5, comma 2, d.lgs. n. 216/2003 dalla Federazione Italiana dei lavoratori dei trasporti- CGIL, il Giudice del lavoro ha statuito l’antigiuridicità della condotta datoriale, dopo aver preliminarmente risolto la complessa questione della giurisdizione e della legge applicabile. Nella specie, è stata rilevata la sussistenza d’una discriminazione collettiva sul piano sindacale, che è stata valutata alla luce dei più recenti orientamenti della giurisprudenza nazionale ed europea, inclusa quella della Corte EDU.
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1. La res controversa: sul divieto di conflitto e affiliazione
sindacale negli accordi Ryanair.
A pochi mesi dalla pronuncia della Corte di giustizia europea sulle cause riunite Nogueira – e altri c. Crewlink Ireland Ltd e M.J. Moreno Osacar c. Ryanair Designated Activity Company – Moreno Osacar1, una delle aziende leader nel settore dei voli low cost torna sotto i riflettori per via di un’ordinanza emessa dal Tribunale di Bergamo. Chiamato ad esaminare un ricorso promosso ex art. 28, d.lgs. n. 150/2011 e art. 5, comma 2, d.lgs. n. 216/2003 dalla Federazione Italiana dei lavoratori dei trasporti- CGIL, il Giudice del lavoro ha concluso per l’illegittimità della condotta datoriale, dopo aver preliminarmente risolto la complessa questione della giurisdizione e della legge applicabile. Al centro del procedimento giudiziale s’è posta la disciplina convenzionale riguardante l’estinzione del contratto di lavoro del personale di volo e la sua potenziale idoneità a «incidere sulle condizioni di accesso all’occupazione». Sotto la lente del diritto antidiscriminatorio è finita la clausola che subordina, pena la risoluzione del contratto, il godimento di qualunque incremento retributivo o indennitario ed i cambi di turno alla mancata affiliazione sindacale e alla rinuncia verso qualsiasi azione rivendicativa contro l’azienda2.
2. Questioni processuali: giurisdizione e legge applicabili. Prima di esaminare la condotta aziendale, qualche precisazione meritano il profilo della giurisdizione ed il tipo di procedimento utilizzato, entrambi contestati dalla parte convenuta in quanto società di diritto irlandese. Rilevata la natura extracontrattuale dell’azione proposta, il caso di specie è stato valutato ai sensi dell’art. 7, n. 2, reg. CE 1215/2012 (meglio noto come Regolamento Bruxelles I bis), riguardante gli illeciti civili dolosi o colposi non caratterizzati da «obblighi liberamente assunti da una delle parti nei confronti dell’altra».
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Corte giust. 14 settembre 2017, cause riunite C-168/16 e C169/16, S. Nogueira e altri c. Crewlink Ireland Ltd e M.J. Moreno Osacar c. Ryanair Designated Activity Company, , su cui per un commento v. Carta, Ryanair e le regole di diritto internazionale privato nello spazio Europeo: certezza processuale, carenza di tutela sostanziale?, in Labor, 2017, 6, 675 ss.; Diverio, Dalla Corte di Giustizia un’importante precisazione sulla giurisdizione nelle controversie relative al personale di cabina, in RIDL, 2017, n. 4, II, 872 ss., e Signorini, Il lavoro della gente dell’aria: laboratorio di tutele, in Giur. Lav., 2018, 2, 129 ss. Da qui discende una lettura delle norme che segna l’abbandono del criterio della nazionalità dell’aeromobile nella definizione della giurisdizione con significativo impatto, nell’ordinamento interno, sull’orientamento giurisprudenziale sinora consolidato. Cfr. Cass., sez. un., 7 luglio 2009, n. 18509, in RIDL, 2010, n. 3, II, 653 ss. con nota di Amici, Forum loci executionis e contratto internazionale di lavoro, e Cass., sez. un., 29 aprile 2011, n. 9517, in RDIPP, 2012, 186. «Questo accordo rimarrà in vigore per tutto il tempo che il personale di cabina di Ryanair contatti direttamente il datore di lavoro e non effettui interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra azione di natura sindacale. Se Ryanair o le società di mediazione di lavoro saranno obbligate a riconoscere qualunque sindacato del personale di cabina o se vi sarà qualunque azione collettiva di qualsiasi tipo, in questo caso il contratto dovrà intendersi annullato e inefficace e qualunque incremento retributivo o indennitario (allowance) o cambio di turno concessi sotto la vigenza del presente contratto sarà ritirato».
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Sulla scorta di tale disposizione, che individua la giurisdizione nel luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire, il giudice di merito ha riconosciuto la propria competenza, motivando tale scelta anche come necessaria per non «frustrare completamente le finalità e i principi del diritto anti-discriminatorio»3. Tale interpretazione è stata inoltre suffragata dal fatto che nessuna previsione del reg. CE 1215/2012 esclude l’applicazione del «criterio del luogo in cui si è verificato l’illecito» nel caso di procedimenti avviati da soggetti collettivi. Per quanto attiene alla legge applicabile, la controversia è stata sottoposta al diritto italiano dopo aver escluso l’operatività del regolamento CE 593/2008 (cd. Regolamento Roma I), riguardante le obbligazioni contrattuali in materia civile e penale. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, deve tuttavia constatarsi una certa laconicità dell’ordinanza sulla fonte normativa adottata. Il generico riferimento al reg. UE 864/2007 (che disciplina la legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali, meglio noto come Regolamento Roma II) non consente l’immediata individuazione della previsione applicata alla fattispecie concreta. All’interno di tale regolamento, l’art. 4, quale principio generale, fissa la legislazione applicabile avuto riguardo al Paese in cui il danno si è verificato e non a quello in cui è avvenuto l’evento che ha dato origine al danno; la specifica disciplina in ambito sindacale sancisce che nel caso di «danni causati da un’attività sindacale, prevista o conclusa», si applica «la legge del paese in cui tale attività è destinata a svolgersi o si è svolta» (art. 9).
3. Segue: l’utilizzo strategico della tutela anti-
discriminatoria nella composizione giudiziale del conflitto tra impresa e lavoro. Come anticipato, l’atto introduttivo del processo è stato promosso adoperando non già l’art. 28, l. n. 300/1970, «inteso quale primo caso «mito» che ha condotto il conflitto industriale nelle aule giudiziarie»4 ma ricorrendo all’azione civile di cui all’art. 28, d.lgs. n. 150/2011 in combinato disposto con l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 216/2003. Riprendendo una strategia processuale “sperimentata” nel contenzioso avviato nel 2012 da FIOM contro FIAT5, nell’ambito di condotte pregiudizievoli della libertà di associazione
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Così tra tutti, v. art. 28, comma 2, d.lgs. n. 150/2011. Così Falsone, Tecnica rimediale e art. 28 dello statuto dei lavoratori, in LD, 2017, 3-4, 582 in richiamo di Barbera, Protopapa, Il caso FIAT: come la tutela antidiscriminatoria riformula il conflitto sindacale, in RGL, 2014, 179. Trib. Roma 19 giugno 2012, poi confermata da App. Roma con ord. 19 ottobre 2012, su cui v. il commento di Militello, Dal conflitto di classe al conflitto tra gruppi. Il caso FIAT e le nuove frontiere del diritto antidiscriminatorio, in RIDL, 2013, II, 1, 227 ss.; T. Roma 22 gennaio 2013, ADL, 2013, 2, 363 ss., con nota di De Stefano, “Caso Fiat”, affiliazione sindacale e tutela antidiscriminatoria: una lettura fondata sulle fonti internazionali ed europee; Trib. Roma 6 maggio 2013, in LG, 2014, 2, 168 ss., con nota di Petracca, Caso Pomigliano: criteri di scelta per l’applicazione della Cigs e discriminazione per gli iscritti alla FIOM-CGIL.
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sindacale e dell’azione collettiva si rafforza un trend che compone «il conflitto tra gruppi»6 attraverso il ricorso al diritto antidiscriminatorio. Dietro questa evoluzione della strategic litigation, talvolta intesa come segnale (benchè «ancora poco evidente») di una «colonizzazione del diritto del lavoro» da parte della normativa antidiscriminatoria7, non è tuttavia possibile scorgere il definitivo superamento dell’art. 28 st. lav. Tra le più recenti decisioni di merito che dimostrano la piena vitalità della previsione che disciplina la repressione della condotta antisindacale rileva un precedente del Tribunale di Busto Arsizio (ordinanza del 5 febbraio 2018)8, originato dalla stessa vicenda portata all’esame del giudice del lavoro di Bergamo. La violazione della disposizione statutaria da parte di Ryanair, invocata dalla Filt CGIL, è stata ritenuta sussistente a fronte del pubblico disconoscimento del ruolo del sindacato, del mancato riscontro alle varie «richieste di incontro e informativa» ed in assenza di qualsiasi coinvolgimento del rappresentante dei lavoratori della sicurezza secondo quanto regolato dalla normativa prevenzionistica di cui al d.lgs. n. 81/2008. Che le due azioni non coincidano lo chiarisce molto efficacemente il giudice quando respinge l’eccezione di litispendenza, sollevata dalla società irlandese proprio rispetto al citato procedimento promosso presso il Tribunale di Busto Arsizio. Pur a fronte della parziale sovrapposizione tra i fatti contestati, l’azione civile ex art. 28, d.lgs. n. 151/2011 e la previsione contenuta nel titolo III della l. n. 300/1970 differiscono quanto a petitum e causa petendi. Si dà per implicito che l’una interviene per la tutela di un interesse proprio dei lavoratori a non essere destinatari di condotte antidiscriminatorie, mentre lo strumento per reprimere la condotta antisindacale si pone a difesa di un interesse distinto e autonomo, quello collettivo9. Tale precisazione, oltre a permettere al giudice di trattenere la causa, consente di risolvere la questione sollevata in punto di legge applicabile a favore della previsione generale di cui all’art. 4, reg. UE 864/2007.
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Militello, op. cit., 227. Per Barbera, Protopapa, op. cit., 182 la casistica nella quale può oggi ricomprendersi anche l’ordinanza in esame, non rinnega l’esistenza dell’interesse collettivo classicamente inteso ma svela nuove potenzialità in termini di interesse collettivo di gruppo ed interesse collettivo sindacale. Così Barbera, Il cavallo e l’asino. Ovvero dalla tecnica della norma inderogabile alla tecnica antidiscriminatoria, in Bonardi (a cura di), Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, Ediesse, 2017, 32. Diversamente argomenta Falsone, op. cit., 582. Secondo l’A., le previsioni del diritto anti-discriminatorio «rimangono spendibili nell’ambito del conflitto sindacale, quando le condotte datoriali sono plurioffensive, interferendo perciò anche sulle posizioni individuali». Si tratta più semplicemente di una scelta contingente prescelta per specifici motivi strategici, quali ad esempio l’onere della prova, la competenza territoriale e la struttura del soggetto sindacale. In europeanrights.eu, 28 febbraio 2018, con nota di Orlandini, Il Tribunale di Busto Arsizio condanna Ryanair per condotta antisindacale. Sulle possibili interferenze tra attività protette e non dall’art. 28, St. Lav. v. amplius Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, Franco Angeli, 1974. Più recentemente Barbera, Protopapa, op. cit., spec. 181. Secondo le Autrici, la strategic litigation ha riformulato l’identità degli attori e la natura degli interessi, assurgendo a strumento in cui il sindacato non difende un interesse proprio, ma quello dei lavoratori. Da ultimo, Falsone, op. cit., 581-584.
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4. L’impatto fortemente «demoralizzante e dissuasivo»
della disciplina negoziale: una discriminazione diretta nei confronti dei lavoratori sindacalizzati.
La pronuncia si sofferma sul divieto di discriminazione in base alle convinzioni personali di cui al d.lgs. n. 216/2003, ampliando la portata della tutela sul piano sindacale e in relazione al complessivo mercato del lavoro10. All’esame del giudice bergamasco si pone una clausola del regolamento aziendale recepita nei contratti individuali di lavoro idonea - secondo il soggetto ricorrente - «ad incidere sulle condizioni di accesso al lavoro, disincentivando i lavoratori sindacalizzati dall’instaurare rapporti professionali con la convenuta». Ad una prima valutazione, viene in rilievo una disposizione negoziale che non trova giustificazione nella deroga sancita dall’art. 3, comma 3, d.lgs. 216/2003, constatata l’assenza di elementi di contesto e di ragioni obiettive in grado di determinare incompatibilità tra il godimento dei diritti collettivi ed il tipo di attività lavorativa prestata. Si tratta piuttosto di una clausola, estesa anche al personale assunto «dalle società di mediazione di lavoro» che assume significato se letta alla luce d’un ampio contesto di denigrazione e rappresaglia dell’azienda verso qualsiasi intenzione dell’equipaggio di intraprendere azioni di lotta (poi realizzate pur sotto la minaccia di trasferimenti/risoluzione del rapporto o rifiuti di aumenti e progressioni verticali) e tenendo conto degli effetti che essa produce anche nei riguardi dei soggetti interessati a presentare la propria candidatura alla società. Sotto questo profilo, il giudice è stato chiamato a confrontarsi con le vicende FIAT, allo scopo di confermare o escludere qualsiasi parallelismo con la (controversa) «clausola di responsabilità» contenuta negli accordi collettivi siglati a partire dal 2010 negli stabilimenti di Mirafiori e Pomigliano d’Arco11. Questi ultimi, a differenza di quanto prospettato dalla compagnia aerea, si contraddistinguono per l’introduzione di una clausola sociale sulla
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Nell’ambito di un’analisi comparata, l’attività sindacale rileva testualmente nella legislazione francese. Così Barbera, Protopapa, op. cit., p. 165 in richiamo di Vickers, Religion, Freedom, Religious Discrimination and the Workplace, Hart Publishing, 2008, 24. Sull’argomento cfr. Aimo, Le discriminazioni basate sulla religione e sulle convinzioni personali in Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio. Il quadro comunitario e nazionale, Giuffrè, 2007, spec. 48 ss. A fronte d’una espressione vaga, mutuata dalla terminologia comunitaria, l’A. ritiene di garantire tutela a tutte le diverse declinazioni della libertà d’opinione del lavoratore ed alla sua dimensione latu sensu sociale. Analoghe considerazioni sviluppano: Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro: nozioni, interessi, tutele, Cedam, 2011, 110 ss., spec. 171-178; Borelli, Esiste un principio di non discriminazione per ragioni sindacali nell’Unione europea?, in Borelli, Guazzaroti e Lorenzon (a cura di), I diritti dei lavoratori nelle carte europee dei diritti fondamentali, Jovene, 2012, 63-72. 11 Copiosa è la bibliografia sull’argomento. Senza pretesa di esaustività cfr. F. Carinci, Se quarant’anni vi sembran pochi: dallo Statuto dei lavoratori all’accordo di Pomigliano, in ADL, 2010, 3, 597 ss.; De Luca Tamajo, Accordo di Pomigliano e criticità del sistema di relazioni industriali italiane, in RIDL, 2010, I, 798 ss.; Chieco, Accordi FIAT, clausola di pace sindacale e limiti al diritto di sciopero in WP D’Antona it. 117/2011; Proia, Clausole di responsabilità e clausole integrative in AA. VV., Studi in onore di Tiziano Treu. Lavoro, Istituzioni, Cambiamento sociale, vol. I Il diritto del lavoro e i suoi interlocutori. Diritto sindacale e relazioni industriali, Jovene Editore, 2011, 552 ss.; Pessi, Le relazioni sindacali dopo Pomigliano e Mirafiori, in DRI, 2011, 368 ss.; Zilio Grandi, Le relazioni industriali dopo Pomigliano e Mirafiori: opinioni a confronto, in DRI, 2011, 376 ss.; Corazza, Il nuovo conflitto collettivo. Clausole di tregua, conciliazione e arbitrato nel declino dello sciopero, Franco Angeli, 2012, spec. 51 ss.
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governabilità degli stabilimenti (cfr. p. 14 accordo di Pomigliano d’Arco 15 giugno 2010 e p. 1 Accordo Mirafiori del 23 dicembre 2010), vale a dire un impegno di tregua sindacale relativa, vincolante per (sole) le associazioni sindacali firmatarie. Diverso tenore presenta invece la denunciata clausola di estinzione, producendo effetti esclusivamente nei riguardi dei lavoratori (nella specie, la risoluzione del contratto individuale di lavoro). A ben vedere, nel «modello Ryanair» - così lo definisce il giudice di merito - non si persegue «l’obiettivo di voler ridurre (o meglio azzerare), il ruolo conflittuale delle organizzazioni sindacali dei lavoratori emarginando coloro che non intendono assumere una condizione subalterna o partecipativa nei confronti dell’impresa»12, ma si agisce escludendo a priori qualsiasi possibilità di affiliazione sindacale ed il ricorso all’azione collettiva. A parte questa distinzione, non è tuttavia difficile rintracciare nella decisione del Tribunale di Bergamo l’influenza delle vertenze promosse da FIOM contro FIAT e della relativa giurisprudenza. Rilevata una discriminazione diretta e collettiva, anche se solo astrattamente in grado di impedire o limitare l’accesso nel mercato del lavoro in relazione alla affiliazione sindacale, il procedimento si è concluso con un esito assolutamente prevedibile, statuendosi la violazione dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 216/2003. Così ha deciso il Giudice dopo aver riconosciuto l’impatto «fortemente dissuasivo» e «demoralizzante» della clausola nei riguardi di qualsiasi aspirante candidato all’assunzione presso la compagnia aerea, ricomprendendo le discriminazioni di stampo sindacale nel novero delle convinzioni personali, conformemente ad un consolidato orientamento interpretativo che riferisce la tutela apprestata dalla dir. 78/2000/CE alle «opinioni rientranti in una serie di categorie di ciò che può essere definito il dover essere dell’individuo, dall’etica alla filosofia, dalla politica in senso lato alla sfera dei rapporti sociali» e non soltanto «alle convinzioni di carattere religioso, espressamente menzionate della direttiva distintamente rispetto alle convinzioni personali»13. L’impianto motivazionale è stato sostenuto richiamando in diversi passaggi i casi Associata Accept14 e Feryn NV15 e senza trascurare la casistica sottoposta al vaglio della Corte EDU. In ossequio alla giurisprudenza della Corte di giustizia è stato statuito che per integrare una discriminazione non è necessario individuare una specifica vittima; risulta bastevole
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Così Cannella – Mattone, Alla ricerca di nuove regole per la rappresentanza sindacale, in Quest. Giust., 2011, 21. Così App. Roma 19 ottobre 2012, cit. In critica a tale interpretazione, poi riproposta da Fabbrica Italiana Pomigliano spa nel ricorso in Cassazione, deciso da Cass. 11 marzo 2014, n. 5581, in ADL, 2014, 4-5, 1038 ss., cfr. Vallebona, Le discriminazioni per “convinzioni personali” comprendono anche quelle per affiliazione sindacale: un’altra inammissibile stortura a favore di Fiom – CGIL, in MGL, 12, 8-9, 622. Per l’A., una diversa esegesi avrebbero richiesto gli artt. 1 e 2, d.lgs. n. 216/2003 e l’art. 15, St. lav. Un’evidente forzatura tecnico-giuridica in relazione a Trib. Roma 21 giugno 2012 è stata ravvisata da Zilio Grandi, Noterelle sulla vicenda Pomigliano in “appello”: dove non arrivano gli impegni pubblici del datore di lavoro arriva la discriminazione, in DRI, 2012, 1144. 14 C. giust. 25 aprile 2013, C-81/2012, Associata Accept, in RIDL, 2014, 1, 133 con nota di Calafà, Dichiarazioni omofobiche nel calcio: il caso FC Steaua Bucarest e la discriminazione per orientamento sessuale alla Corte di Giustizia. Nel caso di specie rileva una campagna discriminatoria della società calcistica nell’ingaggio di personale omosessuale. 15 C. giust. 10 luglio 2008, C- 54/2007, Feryn NV, in RGL, 2008, 4, 765 ss., con note di Izzi, Il divieto di discriminazioni razziali preso sul serio e Strazzari, Corte di Giustizia e discriminazione razziale: ampliata la tutela della discriminazione diretta? Il caso ha riguardato una discriminazione diretta basata sulla razza/origine etnica in fase di assunzione. 13
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«una condotta che, solo sul piano astratto, impedisce o rende maggiormente difficoltoso l’accesso all’occupazione». Al giudice di merito è sembrato «verosimile che molte persone, apertamente aderenti al sindacato, potranno astenersi dall’inviare la propria candidatura, avendo la certezza che questa non sarà presa in considerazione, tenuto conto che Ryanair non nasconde, neppure con la memoria difensiva, la sua volontà di preferire una negoziazione diretta con i lavoratori, non mediata dalle organizzazioni sindacali italiane». «Oltretutto», prosegue il giudice, «nella situazione in esame, la convenuta non ha fornito alcuna prova di resistenza in senso contrario, dimostrando che, nonostante la clausola, le dichiarazioni ed il periodo di particolare sollevamento del personale, vi siano state numerose assunzioni di personale italiano apertamente sindacalizzato». Così argomentando, il Tribunale di Bergamo ripropone un’interpretazione che, nell’anticipare la tutela in un momento nel quale lo svantaggio è solo ipotetico, garantisce al massimo grado l’effettività dello statuto protettivo offerto dalle direttive antidiscriminatorie di seconda generazione. Salvo poi riconoscere la piena sussistenza della discriminazione in assenza di prova contraria da parte della società convenuta. Eguale rilevanza è attribuita alla giurisprudenza del Giudice di Strasburgo per via delle numerose analogie che il caso di specie presenta con la pronuncia del 2 luglio 2002 e con le vicende Demir Baykara c. Turchia (Corte EDU 12 novembre 2008) e EnerjiYapi – Yol Sen c. Turchia (Corte EDU 21 aprile 2009)16. L’avversione di Ryanair nei riguardi di qualsiasi forma di attività sindacale e conflittuale nei luoghi di lavoro è, da un lato, accostata ai casi Wilson, Palmer e Doolan promossi contro imprese operanti nei settori del giornalismo e del trasporto che avevano riconosciuto migliori condizioni di impiego a favore dei lavoratori non sindacalizzati. Dall’altro, la condotta tenuta dalla compagnia non appare troppo dissimile dall’ostruzionismo realizzato da pubbliche amministrazioni turche verso i propri dipendenti con riguardo al godimento del diritto di sciopero ed al riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva. Il richiamo a tale giurisprudenza consente di riconoscere continuità all’interpretazione (evolutiva ed espansiva) riguardante l’art. 11, Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, al cui interno la Corte EDU ha ricompreso il diritto a non essere discriminati a causa della scelta di affiliarsi ad un sindacato. È in tale ricco quadro normativo che il Tribunale di Bergamo ha fatto rientrare le discriminazioni relative all’orientamento sindacale nel più generale concetto di convinzioni personali, adottando un approccio multilivello che conferma - ancora una volta - il fecondo dialogo con il diritto dell’UE, le fonti della Cedu e le convenzioni dell’Oil, sebbene a queste si faccia solo indiretto richiamo nell’analisi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo17.
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In argomento cfr., fra gli altri, Bronzini, Diritto alla contrattazione collettiva e diritto di sciopero nell’alveo protettivo della CEDU: una nuova frontiera per il garantismo sociale in Europa?, in RIDL, 2009, I, 975 ss.; Marguénaud, Mouly, L’avènement d’une Cour européenne des droits sociaux, Recueil Dalloz, 2009, 11, 742 ss.; De Stefano, La protezione del diritto di sciopero nella dialettica tra Corti e organi di supervisione internazionale, in DLRI, 2014, 471 ss.; Novitz, The internationally recognized right to strike: a past, present and future basis upon which to evaluate remedies for unlawful collective action?, in IJCLL, 2015, 357 ss. 17 Nella esaminata casistica della Corte di Strasburgo è costante il richiamo all’art. 1, par. 1, conv. OIL n.98, ai sensi del quale «i lavoratori
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5. La rilevanza del danno punitivo: nuovi approdi della
giurisprudenza del lavoro?
Tenuto conto del sistema di relazioni sindacali in essere nella compagnia aerea, il giudice di merito ha disposto la pubblicazione dell’ordinanza su quotidiani di tiratura nazionale ed accolto la domanda risarcitoria proposta da parte ricorrente, avendo cura di individuare un importo in grado di soddisfare i requisiti della dissuasività, proporzionalità ed effettività imposti dal diritto comunitario. In continuità con quanto statuito dalla Cass., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601, la pronuncia include il danno conseguente a discriminazione nella categoria dei danni punitivi18 senza tuttavia apportare nulla di significativo ad un contesto per lungo tempo sottoposto a forte tensione interpretativa e segnato dalle «ataviche idiosincrasie»19 di una parte degli studiosi della responsabilità civile. Posto che «una sanzione meramente simbolica non può essere considerata compatibile con un’attuazione corretta ed efficace delle direttive in tema di discriminazioni (causa C-81/12 Associatia Accept, nonché causa C-54/07» Feryn NV), nel settore del diritto del lavoro, da sempre, ritenuto «terra d’elezione per i danni cd. punitivi»20, il risarcimento si arricchisce di sfumature deterrenti e sanzionatorie, che vengono esplicitate nella definizione del quantum da liquidare. Detto altrimenti, la natura meramente compensativo -riparatoria abdica in favore di un ristoro in cui rilevano la gravità della condotta e tutta una serie di circostanze di fatto ritenute fortemente pregiudizievoli dei diritti dell’aspirante lavoratore21. Alla luce di una dimensione polifunzionale della responsabilità civile, mutuata dal diritto anglosassone e nord americano, sono stati considerati: a) il numero delle decisioni straniere che già hanno interessato Ryanair per il disconoscimento delle organizzazioni
devono beneficiare di un’adeguata protezione contro tutti gli atti di discriminazione tendenti a compromettere la libertà sindacale in materia di impiego». Tale protezione, aggiunge il punto 2, «deve in particolare applicarsi a quanto concerne gli atti che abbiano lo scopo di : a) subordinare l’impiego di un lavoratore alla condizione che egli non aderisca ad un sindacato o smetta di far parte di un sindacato; b) licenziare un lavoratore o portargli pregiudizio con ogni altro mezzo, a causa della sua affiliazione sindacale o della sua partecipazione ad attività sindacali al di fuori delle ore di lavoro, o, con il consenso del datore di lavoro, durante le ore di lavoro». 18 Tale qualificazione del danno non patrimoniale di cui all’art. 28, comma 2, d.lgs. n. 150/2011 era già stata proposta da Tarquini, Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale, Giuffrè editore, 2015, spec. 42-44; Malzani, Licenziamento discriminatorio e danno “punitivo ragionevole”: verso il superamento di un (apparente) ossimoro, in NGCC, 2016, 5, 722 ss. Sulla sua configurabilità, anche prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2011 v., fra gli altri, De Angelis, Il danno da discriminazione tra risarcimento e sanzione civile, in RGL, 2008, spec. 603 ss. 19 Così Malzani, ult. op. cit., 720. 20 Così Maio, La perdita di chances nel rapporto di lavoro e le recenti evoluzioni della responsabilità civile, in ADL, 2018, 124. 21 L’approccio non è molto dissimile da quanto emerge da Cass. 19 maggio 2010, n. 12318, in D&R, 2010, 1043 ss.; da Cass. 10 marzo 2010, n. 5770 e da Trib. Pistoia 8 settembre 2012, in RIDL, 2013, II, 25 ss., con nota di Del Punta, Un esemplare caso di molestie sessuali sul lavoro; Trib. Firenze 20 aprile 2016, in RIDL, 2017, II, 79, con nota di Diamanti, Le molestie sessuali, la discriminazione, l’abuso. Per Maio, op. cit., 125 si tratta d’una prospettiva già considerata da Corte cost. n. 148/1999. Al precedente del Giudice delle leggi si rinvia per «la sconfessione della ritenuta copertura costituzionale della «regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato».
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sindacali; b) l’ampia diffusione mediatica delle dichiarazioni del management22; c) il contenuto e la forza offensiva delle stesse; d) la notorietà della società multinazionale. L’individuazione di tali elementi consente di “stemperare” alcune delle criticità alimentate da un sistema nel quale la determinazione del danno, in chiave sanzionatoria, è completamente ancorata alla discrezionalità del giudicante e di considerare l’ordinanza informata al principio di proporzionalità, quale canone fissato dalle sezioni Unite nella citata decisione che ha sancito la compatibilità del danno punitivo con l’ordine pubblico. Va infine osservato che oltre ad allineare l’ordinamento italiano con i più avanzati sistemi di responsabilità civile, riconoscendo a favore della organizzazione sindacale ricorrente una somma il cui importo pare infrangere – almeno testualmente - il «dogma della inammissibilità del risarcimento ultracompensativo»23, la decisione si sviluppa conformemente all’indirizzo della Corte di giustizia, in specie a quanto statuito in relazione all’interpretazione della dir. 2006/56/CE nel caso Camacho -Securitas Seguridad España SA (definito da C. giust. 17 dicembre 2015, C- 407/14)24. Si ravvisa continuità a tale giurisprudenza laddove il Tribunale di Bergamo precisa che la scelta di risarcire il danno punitivo costituisce attuazione di un obbligo normativo (art. 28, comma 2, d.lgs. n. 150/2011)25 e non dunque un’arbitraria sostituzione del giudice in un ambito di esclusiva competenza del legislatore nazionale.
6. Verso la fine di un «modello» che ha disconosciuto i diritti sindacali.
Alla luce d’una lettura comparata, il caso esaminato non costituisce un unicum nel panorama dei precedenti giurisprudenziali. Il «modello Ryanair» è oggetto di vertenze e contestazioni in buona parte dei Paesi europei dove la società leader dei voli low cost ha proprie basi di servizio.
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Tra le altre si segnala la dichiarazione pubblica fatta dall’amministratore delegato della società, Michael O’Leary, in occasione dell’assemblea degli azionisti: «prima che la Ryanair venga sindacalizzata si “ghiaccerà l’inferno”». 23 Così Carleo, Punitive damages: dal common law all’esperienza italiana, in CI, 2018, 1, 259. In argomento v. anche Astone, Responsabilità civile e pluralità di funzioni nella prospettiva dei rimedi. Dall’astreinte al danno punitivo, in CI, 2018, 1, 276; Sarchillo, La natura polifunzionale della responsabilità civile: dai punitive damages ai risarcimenti punitivi. Origini, evoluzioni giurisprudenziali e prospettive di diritto comparato, in CI, 2018, 1, 289; Alpa, Le funzioni della responsabilità civile e i danni “punitivi”: un dibattito sulle recenti sentenze della Suprema Corte di Cassazione, in CI, 2017, 1084 ss.; Franzoni, Quale danno punitivo?, ibidem, 1107 ss. e Roppo, Responsabilità contrattuale: funzioni di deterrenza?, in LD, 2017, 407 ss. 24 In relazione alla configurabilità del danno punitivo a fronte di una discriminazione di genere, il Giudice europeo ha statuito che l’art. 25, dir. 2006/54/CE si configura come norma che attribuisce agli Stati membri la facoltà di adottare provvedimenti volti a sanzionare la condotta discriminatoria. La scelta di prevedere il risarcimento punitivo compete pertanto al legislatore nazionale e non già al giudice investito della controversia. Per un commento v. in RIDL, 2016, 444, con nota di Calafà, Sul risarcimento “dissuasivo” del danno da discriminazione nel diritto Ue; in NGCC, 2016, 719 ss., con nota di Malzani, op. cit.; in ADL, 2016, 579 ss., con nota di Alvino, Sulla questione della risarcibilità dei c.d. danni punitivi alla vittima di una discriminazione fondata sul sesso. 25 Per una recente ricognizione delle disposizioni legislative che in Italia possono configurare un danno punitivo v. Franzoni, Danno punitivo e ordine pubblico, in RDC, 2018, 283 ss. Al contributo si rinvia per l’accurata distinzione che l’A. propone tra ipotesi di danno punitivo e azioni civili indirette.
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A vari livelli26, vengono in evidenza la singolare aggressività della condotta della compagnia e l’esasperazione della fisiologica dinamica conflittuale nei luoghi di lavoro attraverso condizioni risolutive espresse fissate unilateralmente dal management e l’obbligo di «relazioni dirette con i lavoratori, senza mediazioni o interferenze» da parte dell’organizzazione sindacale. L’elemento che tuttavia contraddistingue il contenzioso definito a marzo 2018 è da rintracciare nella scelta della strategia processuale adottata – riguardante «identità fuori dal mercato e associate a caratteristiche soggettive della persona»27 come le convinzioni sindacali - e negli effetti che a ciò sono conseguiti. Il ricorso all’azione civile di cui all’art. 28, d.lgs. n. 150/2011 ha consentito al Tribunale di Bergamo di emettere una pronuncia severa la quale, al di là della condivisibilità del percorso argomentativo intrapreso (che talvolta reca qualche debolezza), rivela nuove potenzialità del diritto antidiscriminatorio anche grazie all’interpretazione offerta dalle sezioni unite della Cassazione nel luglio 2017. Ad avversare misure anti-sciopero e divieti di negoziazione collettiva nei luoghi di lavoro e più in generale «effetti sistemici devastanti»28 non più episodici interviene, da ultimo, il danno punitivo, entrato oramai a pieno titolo nella giurisprudenza del lavoro quale forte deterrente allo sviluppo di relazioni di lavoro che talvolta svelano tratti più repressivi di quelli che hanno contrassegnato il periodo corporativo. Pur mettendo in campo complesse questioni, nel punitive damage si intravvede lo strumento più adeguato a difendere l’effettività di diritti formalmente garantiti dalle tradizioni costituzionali nazionali e sovranazionali, nonché a dissuadere non soltanto «l’autore del danno dal ripetere il suo comportamento discriminatorio, ma anche gli altri soggetti dall’agire in tal modo»29. Non sarà un caso che, giustappunto all’indomani delle decisioni emesse dai Tribunali di Bergamo e Busto Arsizio, proprio in Italia la compagnia leader nel settore dell’aviazione civile abbia deciso di sottoscrivere un protocollo di relazioni industriali con FIT-CISL, ANPAC e ANPAV30, finalizzato ad aprire un negoziato per la stesura del contratto collettivo relativo al personale di bordo. Anna Rota
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Sul tipo di relazioni sindacali avviate da Ryanair e sulle conseguenti azioni intraprese v. Vandewattyne, Le conflit pour l’amélioration des conditions de travail du personnel navigant de Ryanair, in Courrier hebdomadaire du CRISP, 2012, 2135-2136, 93-105; Vandewattyne, Ryanair ou le refus du dialogue social institutionnalisé, in La Nouvelle Revue du Travail, 2016, 8, 69-86; Barnier, Calame, Vandewattyne, Le low cost dans le secteur aérien, in La nouvelle revue du travail, 2018, 12, 1 ss. 27 Così Barbera, op. cit., 32. 28 In argomento Mariucci, Back to the future: il caso FIAT tra anticipazione del futuro e ritorno al passato, in LD, 2011, 239 ss. Nell’esaminare le vicende FIAT l’A. si chiedeva se si fosse di fronte ad un modello di nuove relazioni industriali oppure ad un caso particolare, persino anomalo per concludere che più che essere un modello il caso in esame consisteva in una anomalia la cui estensione avrebbe comportamento un effetto sistemico devastante. 29 Così si esprime l’Avvocato generale Mengozzi nel citato caso Camacho. Cfr. p. 49 del parere acquisito dalla Corte di giustizia. 30 Dal sito ufficiale dell’azienda e dei sindacati firmatari emerge che un analogo protocollo è stato siglato, sempre nel mese di luglio, anche con le agenzie di reclutamento Crewlink e Workforce, che impiegano il 65% del personale della compagnia low cost.
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