Labor 4/2019

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2019 LABOR 4

L

ABOR Il lavoro nel diritto

issn 2531-4688

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luglio-agosto 2019

Rivista bimestrale

D iretta da Oronzo Mazzotta

www.rivistalabor.it

IN EVIDENZA Il danno differenziale Roberto Pessi

La condizionalità e le politiche attive del lavoro Antonino Sgroi

Giurisprudenza commentata Michele Mazzetti, Lucio Imberti, Silvia Borelli, Paola Gaudio, Cinzia Carta, Arianna Avondola

Pacini



Indici

Saggi Roberto Pessi, Il danno differenziale tra diritto vivente e diritto vigente..........................................p. 355 Antonino Sgroi, La condizionalità e le politiche attive del lavoro dalla NASpI al Reddito di cittadinanza......................................................................................................................................» 369

Giurisprudenza commentata Michele Mazzetti, Il licenziamento illegittimo: la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo............................................................................» 391 Lucio Imberti, Trattamento economico minimo (del socio lavoratore) e c.c.n.l. parametro: chi individua la categoria ed il perimetro della stessa? ...........................................................................» 401 Silvia Borelli, La ricetta dell’insulto omofobo non piace alla Cassazione..........................................» 415 Paola Gaudio, Le conseguenze derivanti dall’abuso dei contratti a termine alla luce dei principi europei...............................................................................................................................................» 429 Cinzia Carta, Validità dei contratti collettivi separati e ricorso all’art. 28, l. n. 300/1970..................» 451 Arianna Avondola, Via libera del Tar alle stabilizzazioni “no limits”.................................................» 463


Indice analitico delle sentenze Lavoro (rapporto) – Condotta omofoba del datore – Dignità del lavoratore – Lesione – Danno non patrimoniale – Risarcimento (Cass., 19 febbraio 2019, n. 4815, con nota di Borelli) – Contratto di lavoro a tempo determinato – Proroghe e rinnovi per esigenze permanenti o durevoli – Illegittimità – Conversione (Trib. Trento, 4 dicembre 2018, con nota di Gaudio) – Socio lavoratore di cooperativa – Art. 3, l. n. 142/2001 e art. 7, d.l. n. 248/2007 conv. in l. n. 31/2008 – Trattamento economico complessivo non inferiore ai minimi previsti dal contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria – Individuazione della categoria e del relativo c.c.n.l. da utilizzare quale parametro (Cass., 20 febbraio 2019, n. 4951, con nota di Imberti) Licenziamenti – Giustificato motivo oggettivo – Manifesta insussistenza del fatto – Reintegrazione – Presupposti (Cass., 13 marzo 2019, n. 6167, con nota di Mazzetti) Pubblico impiego – Stabilizzazione personale precario – Principio del concorso pubblico – Deroga – Selezioni interamente riservate – Legittimità (TAR Sicilia, 29 gennaio 2019, n. 234, con nota di Avondola) Trasferimento d’azienda – Accordo di armonizzazione – Sottoscrizione da parte di un’associazione sindacale – Mancanza – C.c.n.l. applicabile prima del trasferimento – Disdetta ante tempus – Condotta antisindacale – Sussistenza (Trib. Lucca, 20 novembre 2018, con nota di Carta) Indice cronologico delle sentenze Giorno

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Autorità 2018 Novembre Trib. Lucca Dicembre Trib. Trento 2019 Gennaio Tar Sicilia, n. 234 Febbraio Cass., n. 4815 Cass., n. 4951 Marzo Cass., n. 7167

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Notizie sugli autori

Silvia Borelli – professoressa associata nell’Università degli Studi di Ferrara Cinzia Carta – assegnista di ricerca nell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Paola Gaudio – collaboratrice di cattedra nell’Università del Sannio Lucio Imberti – professore associato nell’Università degli Studi di Milano Michele Mazzetti – dottorando di ricerca nell’Università degli Studi di Trento Roberto Pessi – professore straordinario nell’Università LUISS Guido Carli Antonino Sgroi – avvocato presso l’Avvocatura centrale INPS


Saggi



Roberto Pessi

Il danno differenziale tra diritto vivente e diritto vigente Sommario :

1. La transazione storica sugli infortuni sul lavoro. – 2. La disciplina oggetto del T.U. del 1965. – 3. L’espansione del danno complementare. – 4. L’inclusione del danno biologico nella garanzia previdenziale. – 5. I diversi modelli di computo. – 6. Le sentenze di San Martino. – 7. Le opzioni sul computo ed i relativi effetti. – 8. La più recente giurisprudenza di legittimità ed i contrasti nella dottrina. – 9. L’intervento oggetto della legge di bilancio del 2019. – 10. I ripensamenti del legislatore: una possibile opzione interpretativa. – 11. Una modesta proposta.

Sinossi. Il contributo, partendo da una ricostruzione storica delle tutele in caso di infortunio sul lavoro, descrive l’evoluzione della nozione e dei metodi di computo del danno differenziale, pervenendo ad una possibile soluzione interpretativa in ordine all’attuale metodo di determinazione dello stesso. Abstract. The contribution, starting from a historical reconstruction of social security safeguards in the event of an accident at work, describes the evolution of the notion and methods of calculating differential damage, arriving at a possible interpretative solution with regard to the current method of determining the same. Parole

chiave:

Infortunio sul lavoro – Risarcimento – Danno

1. La transazione storica sugli infortuni sul lavoro. La trattazione in ordine all’attuale configurazione del danno differenziale1 deve necessariamente prendere le mosse da una sintetica ricostruzione della disciplina inerente

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In relazione al quale innanzi tutto si rinvia, anche per gli approfondimenti generali sui danni alla persona del lavoratore, a Cinelli, Il


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l’estensione e, soprattutto, i limiti del regime assicurativo pubblico mirante all’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile correlata all’infortunio sul lavoro ed alle malattie professionali2, nei relativi rapporti con il modello delle garanzie risarcitorie altrimenti spettanti al lavoratore in relazione a tali eventi. Senza volere con ciò impensierire il lettore, occorre risalire alla fine dell’800 (legge 17 marzo 1898, n. 80)3, per prendere atto, in merito, di una “transazione” raggiunta dall’ordinamento, per effetto della quale l’imprenditore ha accettato la responsabilità per il rischio professionale, accollandosi l’intero onere finanziario dell’assicurazione anche nell’ipotesi in cui la responsabilità dell’evento lesivo fosse imputabile a colpa del lavoratore danneggiato, ottenendo tuttavia, correlativamente, il contenimento dimensionale degli indennizzi; l’esclusione di alcune fattispecie di infortunio e di malattia professionale dalla protezione assicurativa e la previsione della non risarcibilità di danni permanenti di modesta rilevanza. In coerenza con tale connotazione “transattiva”, quindi, l’assetto del sistema ha previsto l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile derivante dall’infortunio sul lavoro, a meno che una sentenza penale non avesse stabilito che l’infortunio era avvenuto per fatto costituente reato perseguibile d’ufficio, commesso dallo stesso datore di lavoro o da un suo dipendente.

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danno non patrimoniale alla persona del lavoratore: un excursus su responsabilità e tutele, in Il danno alla persona del lavoratore. Atti del convegno nazionale AIDLASS di Napoli, 31 marzo - 1 aprile 2016, Giuffrè, 2007, 115 ss., nonché a Giubboni - Rossi, Infortuni sul lavoro e risarcimento del danno, Giuffrè, 2012; cfr. sul tema oltre ai contributi di seguito citati, Simoncini, Danno differenziale: origine e quantificazione, in DPL, 2018, 2, 89 ss.; Barone, Orientamenti giurisprudenziali in tema di danno biologico differenziale, in RCP, 2018, 4, 1130 ss.; Penta, Il danno differenziale, in Danno e responsabilità, 2017, 6, 754 ss.; Cavallini, Il danno differenziale tra tutela previdenziale e responsabilità civile del datore di lavoro, in LG, 2017, 11, 103; Ludovico, Tra responsabilità civile e tutela previdenziale: presupposti, limiti e criteri di calcolo del danno differenziale, in ADL, 2017, 1, 212 ss.; Casillo, I confini tra tutela sociale e rimediale nel calcolo del danno differenziale, biologico e patrimoniale, in DLM, 2016, 3, 652 ss.; Natali, Lavoratori infortunati: indennizzo Inail e risarcimento del danno differenziale, in DPL, 2016, 12, 776 ss.; Tullini, Il danno differenziale: conferme e sviluppi d’una categoria in movimento, in RIDL, 2015, 4, 485 ss.; Ludovico, La persona del lavoratore tra risarcimento del danno e tutela dal bisogno: la questione del danno differenziale, in DRI, 2013, 4, 1049 ss.; Dalla Riva, Il c.d. ‘danno differenziale’ nel diritto del lavoro, in LPO, 2009, 4, 475 ss.; Casola, Esonero e responsabilità del datore di lavoro e conseguenze processuali in tema di danno differenziale, in RIDL, 2009, 1, 99 ss.; Vallauri, Sulla risarcibilità del danno biologico differenziale e dei c.d. danni complementari, in Inf. prev., 2008, 3, 657 ss.; Ramoni, L’infortunio sul lavoro tra tutela previdenziale e responsabilità civile: il danno biologico differenziale, in OGL, 2006, 4, 929; Rossi, Infortunio sul lavoro e risarcibilità del ‘danno biologico differenziale’ dopo il d.lgs. n. 38/2000, in RIDL, 2005, 2, 364 ss.; Barraco, Tutela Inail e danno biologico differenziale dopo il d.lgs. n. 38/2000, in LG, 2005, 6, 569 ss.. Sul tema, soprattutto per i profili ricostruttivi generali, sia consentito rinviare a Pessi, Lezioni di diritto della previdenza sociale, Cedam, 2016, 341 ss.; Persiani - D’Onghia, Fondamenti di diritto della previdenza sociale, Giappichelli, 2018, 129 ss.; Cinelli - Giubboni, Lineamenti di diritto della previdenza sociale, Cedam, 2018, 95 ss. La disciplina legislativa in materia previdenziale comincia ad enuclearsi a partire dalla l. n. 1473/1883, che conferiva riconoscimento giuridico alla Cassa nazionale di assicurazione per gli infortuni sul lavoro degli operai, la quale, mediante una convenzione con alcuni istituti di credito, introduceva una prima assicurazione facoltativa estesa a tale ampia categoria e dalla l. n. 243/1893, che istituiva, seppur solo per la gente di mare, la prima assicurazione obbligatoria. L’effettivo atto di nascita della previdenza sociale nel nostro Paese deve attendere tuttavia ancora cinque anni; con la l. 17 marzo 1898, n. 80, seguita dal Regolamento 25 settembre n. 411, infatti, viene introdotta l’assicurazione obbligatoria degli operai contro gli infortuni sul lavoro. La legge aveva avuto una lunga e sofferta gestazione (invero risalendo a circa vent’anni prima il progetto iniziale presentato alla Camera), dovuta non solo all’opposizione di chi temeva oneri troppo gravosi per la nascente imprenditoria nazionale, quanto e soprattutto alla difficoltà di enucleare il fondamento teorico dell’istituto al fine di imputare al datore di lavoro l’onere economico e l’obbligo giuridico dell’assicurazione. L’elaborazione della nozione di rischio professionale (correlata all’esonero dalla responsabilità civile, peraltro faticosamente identificabile nell’ordinamento) ha di fatto consentito la realizzazione di un compromesso politico che è, a tutt’oggi, alla base della disciplina vigente.

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2. La disciplina oggetto del T.U. del 1965. Venendo ad epoche a noi più recenti, i termini di tale storica transazione emergono, sul piano normativo, nella formulazione dell’art 10, comma 1, del d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124, che detta, esplicitamente, il principio generale per cui per tutti i danni coperti dall’assicurazione obbligatoria, il datore di lavoro non possa essere chiamato a rispondere civilmente4, disposizione che, come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 356 del 19915 (di cui si dirà a breve), deve essere però letta anche in positivo, nel senso che «l’esonero opera all’interno e nell’ambito dell’oggetto dell’assicurazione, così come delimitata dai suoi presupposti soggettivi ed oggettivi», per cui «laddove la copertura assicurativa non interviene per mancanza dei presupposti, non opera l’esonero: e pur trovando il danno origine dalla prestazione di lavoro, la responsabilità è disciplinata dal codice civile, senza i limiti previsti dall’art. 10 del t.u. del 1965». Entrano quindi in gioco, nella ricostruzione, due temi essenziali e cioè, per un verso, quello della selettività delle garanzie apprestate dall’istituto, tanto sotto il profilo soggettivo, quanto, ed in modo più rilevante per ciò che concerne la presente trattazione, relativamente ai danni suscettibili di copertura assicurativa (e quindi risarcitoria); per altro verso, quello, prima richiamato, della permanenza della responsabilità civile a carico del datore di lavoro che abbia riportato condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato6 in relazione ad un reato perseguibile d’ufficio7. Il tema del danno differenziale trova origine proprio con riferimento a tale ultima ipotesi, giacché, ricorrendo il presupposto appena indicato, viene stabilito, ai commi da sesto ad ottavo dell’art. 10 del d.p.r. n. 1124/1965, che, per i danni coperti da assicurazione, il datore di lavoro possa essere chiamato a risarcire al lavoratore la differenza tra il danno liquidato secondo i criteri civilistici ed il quantum a carico dell’Inail8.

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Tale esonero è stato riconosciuto più volte legittimo dalla Corte Costituzionale (sent. n. 22/1967; n. 74/1981; n. 102/1981), sia in relazione all’art. 3, che all’art. 38, Cost., offrendo esso una maggiore tutela al soggetto protetto in ragione della sostituzione di un diritto a contenuto risarcitorio (incerto nella sua realizzazione) con un diritto previdenziale (a sicura effettività). Corte cost., 18 luglio 1991, n. 356, in DL, 1991, I, 232 ss., con nota di Persiani, Tutela previdenziale e danno biologico, nonché in RDPriv., 1991, 1, 161 ss. con nota di Navarretta, L’intangibilità del danno biologico nell’assicurazione obbligatoria (progressi e limiti della sentenza Corte costituzionale 356/1991). Tale responsabilità, secondo quanto previsto dall’art. 10, comma terzo, del decreto del 1965, nella formulazione risultante dall’esito della sentenza n. 22 del 1967 della Corte costituzionale, permane anche quando l’infortunio sia imputabile alla condotta penalmente rilevante di soggetti del cui fatto egli debba rispondere secondo il codice civile. Ed infatti, l’art. 10, comma terzo, del d.p.r. n. 1124 del 1965 mantiene l’esonero dalla responsabilità «quando per la punibilità del fatto dal quale l’infortunio è derivato sia necessaria la querela della persona offesa». La formulazione dell’art. 11 è in realtà in negativo, prevedendosi, al comma sesto che non si faccia «luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore dell’indennità che, per effetto del presente decreto, è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto». Il risarcimento è però «dovuto solo per la parte che eccede le indennità liquidate a norma degli articoli 66 e seguenti», precisandosi, al comma ottavo, che l’indennità d’infortunio debba essere identificata «nel valore capitale della rendita liquidata, calcolato in base alle tabelle di cui all’art. 39». Tale rendita era rapportata alla retribuzione ed al grado di inabilità, con quote integrative per il carico di famiglia (salva in alcuni casi residuali la possibilità di liquidazione della prestazione in conto capitale).

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Nella medesima ipotesi, il decreto del 1965, stabilisce, all’art. 11, il diritto di regresso dell’Inail le somme pagate a titolo d’indennità e per le spese accessorie contro le persone civilmente responsabili9.

3. L’espansione del danno complementare. In verità, nell’epoca anteriore alla riforma oggetto del d.lgs. n. 38 del 2000, il tema del danno differenziale era, come riconosciuto da attenta dottrina10, di più agevole ricostruzione, in quanto oggetto dell’indennizzo erogato dall’Inail era esclusivamente il danno patrimoniale, commisurato alla riduzione o alla perdita della capacità lavorativa (dell’uomo medio). La stessa Corte costituzionale, difatti, aveva stabilito che l’esonero operasse solo nell’ambito della fattispecie previdenziale, risultando, come appena riferito, limitato alla sola responsabilità per i danni economici derivanti dall’inabilità; al contrario, sempre in ragione di tale principio, l’esonero non operava né per il c.d. danno biologico11, né per il danno morale12, per far valere i quali il lavoratore poteva ricorrere ai rimedi di diritto comune (e quindi all’azione di responsabilità per danni nei confronti del datore di lavoro). Quindi, citando il condivisibile spunto di Giubboni sul punto13, all’epoca, più che ad un danno differenziale, risultava più congruo fare riferimento ad un “danno complementare”, giacché il danno risarcibile «stava quasi tutto fuori dalla copertura assicurativo-sociale dell’Inail»14. Tutto ciò finì per determinare un’esplosione del contenzioso in materia ed i datori di lavoro, “beffati” quanto alla “transazione” conclusa nel 1898, iniziavano a manifestare una propensione al ritorno al modello dell’assicurazione privata obbligatoria, di cui era segnale significativo il referendum proposto per l’abrogazione di una serie di articoli del t.u. n. 1165/1924, poi dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale15.

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Venendo inoltre stabilito che la persona civilmente responsabile deve, altresì, versare all’istituto assicuratore una somma corrispondente al valore capitale dell’ulteriore rendita dovuta, calcolato in base alle tabelle di cui all’art. 39 del medesimo decreto del 1965. 10 Giubboni, Il risarcimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro dopo la legge di bilancio 2009, in RDSS, 2019, 1, 183 ss e in particolare 186-187; Id., Un breve excursus sul danno differenziale, in Notiziario INCA, 2017, n. 3, 13 ss., e Id., Infortuni sul lavoro e responsabilità civile. Vecchie e nuove questioni, in M. Cinelli (a cura di), Il sistema previdenziale tra crisi e sviluppo, in corso di pubblicazione. 11 Oltre alla sentenza n. 356/1991, citata alla precedente nota n. 5, cfr. Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 87, in RIDL, 1992, II, 6 ss., con nota di Avio, Danno biologico e malattie professionali: un ritorno alla teoria del rischio professionale, nonché in FI, 1991, 6, I, c. 1664, con nota di Poletti, Cronaca di un incontro annunciato: il danno alla salute e l’assicurazione contro gli infortuni; Corte cost., 27 dicembre 1991, n. 485, in RIDL, 1992, II, 762 ss. con nota di Giubboni, Danno “biologico” e assicurazione infortuni: attualità e prospettive. 12 Corte cost., 17 febbraio 1994, n. 37, in MGL, 1994, 2, 133, non nota di Piccininno, Il danno morale nel “dialogo tra le due Corti”, nonché in FI, 1994, 5, I, c. 1326, con nota di Poletti, L’azione di regresso previdenziale, il danno morale e il nuovo “diritto vivente”. 13 Giubboni, Il risarcimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro dopo la legge di bilancio 2009, cit., 187. 14 V. su tale profili anche Marando, Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro, Giuffrè, 2003, 501 ss. 15 Con la sentenza 7 febbraio 2000, n. 36, in RIDL, 2006, I, 353 ss., con nota di Ichino, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore ordinario in materia di licenziamenti (note sulla sentenza 7 febbraio 2000 e su alcuni suoi precedenti), con la quale in particolare si è ritenuto che «lo strumento referendario appare inidoneo a raggiungere il menzionato fine dei proponenti così come

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4. L’inclusione del danno biologico nella garanzia previdenziale.

Queste profonde tensioni ordinamentali condussero il legislatore (aggiornando la “transazione” storica di fine ’800 al mutato contesto sociale e giuridico, senza alterare la struttura complessiva della fattispecie) a porre anche il danno biologico a carico dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (art. 13, d.lgs. n. 38/2000). L’art. 13, del d.lgs. n. 38/2000 ha fatto propria una nozione del danno biologico come lesione dell’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, assumendo lo stesso come danno alla persona intesa nella sua globalità, che si ripercuote su tutte le attività e le capacità della medesima, compresa quella lavorativa generica; che, in quanto tale, ricorre sempre in presenza di una menomazione dell’integrità psico-fisica; che è autonomo e prioritario rispetto al danno patrimoniale, nonché unitario ed inscindibile nelle sue componenti; che è uguale per tutti e, quindi, areddituale. Ne è ovviamente conseguita l’impossibilità di utilizzare i criteri risarcitori stabiliti dal t.u. n. 1124/1965 per la riduzione o per la perdita dell’attitudine al lavoro e, quindi, la necessità di procedere alla revisione del sistema indennitario. Ne è derivata un’opzione per cui l’indennizzo del danno biologico è stato interiorizzato nella prestazione per inabilità permanente generica, assoluta o parziale, modificandone il sistema di computo. La nuova prestazione (che sostituisce la rendita per inabilità permanente calcolata ai sensi dell’art. 66, comma 1o, n. 2, t.u. n. 1165/1924) indennizza sempre il danno biologico sino al 100%, salvo le menomazioni di grado inferiore al 6%, ritenute non rilevanti in un sistema di tutela previdenziale (e quindi considerate in “franchigia”), stante la loro lieve entità. Come anticipato, l’indennizzo del danno biologico è areddituale e quindi, essendo espressione di un danno non patrimoniale, viene determinato senza alcun riferimento alla retribuzione dell’infortunato; viene erogato sotto forma di capitale per gradi di invalidità pari o superiori al 6% ed inferiori al 16% ed in rendita a partire dal 16%, ritenendosi in quest’ipotesi che la gravità della menomazione renda necessaria la corresponsione di una prestazione economica che garantisca il sostegno nel tempo. A partire dal 16% viene erogata, altresì, un’ulteriore quota di rendita (che si somma a quella erogata per l’indennizzo del danno biologico), riferita alle conseguenze patrimoniali derivanti dalla menomazione sulla capacità soggettiva di produrre

oggettivato nel quesito, dal momento che il medesimo non è suscettibile di essere conseguito per via di semplice abrogazione parziale della normativa esistente, ma richiederebbe una complessa operazione legislativa di trasformazione di tale assetto» informato a criteri, come quello dell’automaticità delle prestazioni che «non è di per sé compatibile con un regime nel quale la copertura assicurativa venga affidata alla libera contrattazione fra singoli datori di lavoro e compagnie private operanti in regime di concorrenza, quanto meno senza l’introduzione di ulteriori meccanismi di garanzia, cui solo il legislatore potrebbe dar vita». In merito, un segnale forte di tale propensione è stata (anche) l’ordinanza del Tribunale di Vicenza del 25 maggio 2000, con cui la Corte di Giustizia è stata investita del problema della qualificazione della natura imprenditoriale o meno dell’INAIL e della conseguente legittimità del suo “monopolio” rispetto alla normativa comunitaria sulla concorrenza. Con la sentenza 22 gennaio 2002, resa nella causa n. 218/00, la Corte di Giustizia ha definito la questione, stabilendo che la nozione di impresa, ai sensi degli artt. 85 ed 86 del Trattato CE (ora artt. 81 ed 82), non comprende un Ente che è incaricato della gestione di un regime di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, quale appunto l’INAIL, con conseguente esclusione della sussistenza di “indizi di un conflitto di interessi” tra normativa nazionale e normativa comunitaria.

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reddito da lavoro. Quest’ultima quota è commisurata al grado della menomazione subita e ad una percentuale della retribuzione percepita dall’infortunato (nei limiti dei minimi e dei massimi di legge), che varia in funzione dell’incidenza della menomazione sulla categoria di attività lavorativa di appartenenza dell’assicurato e sulla ricollocabilità dello stesso.

5. I diversi modelli di computo. L’inclusione del danno biologico nel modello indennitario a carico dell’Inail ha reso ben più complessa la ricostruzione inerente il danno differenziale, nonché in particolare, il relativo computo. Sul punto la giurisprudenza di merito, dovendo quantificare il danno differenziale spettante al lavoratore che aveva subito un danno pari o superiore a sedici punti (quindi titolare di una rendita composta di una quota riferibile al danno non patrimoniale ed una a quello patrimoniale), si è divisa tra un calcolo per sommatoria, in cui il minuendo è rappresentato dalla somma degli importi liquidati in ambito civilistico per il danno biologico ed il danno patrimoniale ed il sottraendo dall’importo complessivo erogato dall’INAIL16 ed un diverso computo “posta per posta”, nel quale il risarcimento per il danno biologico veniva decurtato solo con le somme liquidate per indennizzare la medesima posta di denaro in ambito previdenziale, ed il risarcimento del danno patrimoniale viene ad essere ridotto solo con il quantum liquidato dall’Ente previdenziale per le sole conseguenze patrimoniali17. Ovviamente, il calcolo per sommatoria, determina una significativa riduzione del danno differenziale suscettibile di liquidazione a favore della vittima e, di converso, una «forte riespansione dei titoli azionabili dall’Inail per via di regresso», operato ai sensi dell’art. 11 del d.P.R. n. 1124/196518.

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V. sul tema Rossi, Il calcolo del danno differenziale secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, in RDSS, 2017, 1, 93 ss. e in particolare, 94. L’Autore richiama tra le sentenze che hanno aderito a tale orientamento Trib. Bassano del Grappa, 7 novembre 2005, n. 59; Trib. Milano, 10 maggio 2005, n. 5298; Trib. Vicenza, 4 gennaio 2007, n. 321; Trib. Vicenza, 4 maggio 2007, n. 80; Trib. Trapani, 13 luglio 2007; Trib. Pisa, 6 marzo 2008, n. 19; Trib. Pisa, 15 febbraio 2008, n. 1012; Trib. Terni, 12 giugno 2008, n. 148; Trib. Siena, 2 settembre 2008, n. 414; Trib. Siena, 24 ottobre 2008, n. 541; Trib. Monza, 12 maggio 2009, n. 241; Trib. Pordenone, 12 marzo 2009, n. 40; Trib. Chioggia, n. 63/2008 e n. 159/2010; Trib. Brescia, 16 marzo 2010, n. 202; Trib. Brescia, n. 2168/2010; Trib. Pisa, 13 agosto 2009, n. 376; Trib. Prato, 8 gennaio 2010, n. 21; Trib. Prato, 16 febbraio 2010, n. 59; Trib. Reggio Emilia, 7 marzo 2011, n. 330, in Arch. giur. circ. sin strad., 2011, p. 944, con nota di Rodolfi, La rivalsa dell’INAIL verso il responsabile civile ed il c.d. «danno differenziale; Trib. Lecce, 29 giugno 2010, n. 9164; Trib. Catanzaro, 21 dicembre 2010, n. 2591; Trib. Milano, 8 giugno 2010, n. 7500; Trib. Milano, 22 giugno 2010, n. 2811; Trib. Milano, 29 giugno 2010, n. 2938; Trib. Bolzano, 8 gennaio 2010, n. 21; Trib. Caltanissetta 18 maggio 2011, n. 461; Trib. Trani, Sez. distaccata di Canosa di Puglia, 25 maggio 2011, n. 82; Trib. Lucera, Sez. distaccata di Rodi Garganico, 20 gennaio 2012, n. 16. 17 Cfr. Rossi, Il calcolo del danno differenziale, cit., 95 e la giurisprudenza di merito che ha aderito a tale orientamento, dallo stesso citata, cioè, in particolare, Trib. Bassano del Grappa, 14 dicembre 2004, n. 65; Trib. Monza, 16 giugno 2005, n. 1828; Trib. Vicenza, 10 ottobre 2006, n. 240; Trib. Como, 12 luglio 2007; Trib. Piacenza, 25 marzo 2009, n. 162; Trib. Milano, 9 giugno 2009, n. 7515. 18 Così Giubboni, Il risarcimento del danno differenziale, cit., 188. L’Autore dà atto della prevalenza, nella giurisprudenza successiva all’intervento del 2000, ma anteriore alle sentenze di San Martino di cui si dirà a breve, di una sostanziale e per lo stesso non condivisibile, prevalenza del metodo per sommatoria. Sul tema si rinvia amplius a De Matteis, Giubboni, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Giuffrè, 2005, 982 ss.

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6. Le sentenze di San Martino. Lo scenario muta ulteriormente a seguito delle note sentenze di San Martino della Corte di Cassazione19. Come è noto, tali sentenze hanno definitivamente ricondotto il danno alle sole categorie del pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, considerando il danno biologico, al pari di quello morale o esistenziale, quali mere componenti, con valore descrittivo, del danno non patrimoniale. Quindi, in buona sostanza, la nozione del danno non patrimoniale viene ad acquisire una natura unitaria, alla quale deve corrispondere una liquidazione unitaria del risarcimento (con una adeguata ponderazione da realizzarsi nel caso concreto con una “personalizzazione” dello stesso danno). Tale ricostruzione ha trovato riconoscimento nella successiva giurisprudenza di legittimità ed una definitiva cristallizzazione nella sentenza a Sezioni Unite n. 26972/200820, nella quale si è confermato che una rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, deve riportare il sistema della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.). Le sentenze appena citate hanno avuto ovviamente un impatto pervasivo, inducendo, sul piano generale, una integrale revisione delle tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale (incluse quelle elaborate dal Tribunale di Milano, assunte a riferimento a livello nazionale dalla giurisprudenza consolidata)21 ed incidendo, ovviamente, anche sul tema della responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, facendo divenire ancor più rilevante il dibattito tra gli orientamenti circa le modalità di determinazione del danno differenziale, con il già richiamato confronto tra calcolo per sommatoria e computo per singole poste omogenee di danno.

7. Le opzioni sul computo ed i relativi effetti. In merito, riteniamo utile richiamare l’efficace ricostruzione delle opzioni interpretative conseguenti all’esito delle sentenze di San Martino operata da Stefano Giubboni22, il quale ha rilevato come, per un verso, l’opzione favorevole al computo per sommatoria

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Cass., sez. un., 9 novembre 2008, nn. 26972 - 26973 - 26974 e 26975, in FI, 2009, I, c. 120, con note di Palmieri, La rifondazione del danno non patrimoniale, all’insegna della tipicità dell’interesse leso (con qualche attenuazione) e dell’unitarietà; Pardolesi - Simone, Danno esistenziale (e sistema fragile): «die hard»; Ponzanelli, Sezioni unite: il «nuovo statuto» del danno non patrimoniale; Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la sostanza dei danni non patrimoniali. 20 In GC, 2009, 1, 913, con nota di Rossetti, Post nubilia phoebus, ovvero gli effetti concreti della sentenza delle Sezioni Unite n. 26972 del 2008 in tema di danno non patrimoniale. 21 In tali tabelle si è, in particolare introdotta la distinzione tra il punto del danno biologico, accertabile in termini medico-legali, e quello del danno non patrimoniale. Le tabelle ed i relativi criteri applicativi sono pubblicati sul sito dell’Osservatorio della giustizia civile di Milano. 22 Giubboni, Il risarcimento del danno differenziale, cit., 188-189. Sempre sulle sentenze di San Martino v. Id., Note d’attualità in tema di risarcimento del danno da infortunio sul lavoro, in RDSS, 2009, 1 ss.

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risultava apparentemente confermata dalle statuizioni contenute nelle sentenze del 2008, giacché, «atteso che il danno risarcibile si distingue in un polo unitariamente identificato dal danno non patrimoniale e in un polo costituito, altrettanto unitariamente, dal danno patrimoniale, a maggior ragione sarebbe necessario operare un confronto per sommatoria, sottraendo dal danno civile, complessivamente considerato, la somma delle indennità previdenziali indistintamente erogate dall’INAIL»23. L’Autore condivisibilmente rileva inoltre che tale modello di calcolo, come già anticipato, «svantaggia tendenzialmente il lavoratore (comprimendo, in particolare, l’area del danno non patrimoniale) e avvantaggia specularmente l’INAIL (consentendo un recupero integrale, in via di regresso, della quota aggiuntiva di rendita per l’invalidità permanente, anche nei casi in cui essa, come sovente avviene, sia superiore al danno patrimoniale civilistico)»24. Al contempo, Giubboni dà atto anche del diverso (ed opposto) orientamento, che, anche successivamente alle statuizioni delle sentenze di San Martino, esalta la distinzione netta del danno biologico dalle altre componenti di danno non patrimoniale (nonché più in generale dal danno patrimoniale), escludendo la possibilità di operare un confronto per sommatoria. In tale prospettiva, quindi «la quantificazione del danno differenziale va operata sottraendo dal danno non patrimoniale civilistico (determinato, anche con la necessaria personalizzazione, alla stregua delle nuove tabelle milanesi) la quota di rendita per danno biologico erogata dall’INAIL; parallelamente, «un separato confronto andrà effettuato tra il danno patrimoniale civilistico e la distinta quota di rendita che, sempre nei casi d’invalidità superiore al 16 per cento, è diretta a indennizzare la riduzione della capacità lavorativa del lavoratore in applicazione della tabella dei coefficienti allegata al d.lgs. n. 38/2000»25. Diversamente dal metodo per sommatoria, quello appena descritto tende ad avvantaggiare il lavoratore, in quanto favorisce un risarcimento integralmente satisfattivo del danno non patrimoniale (la cui entità, ove si assumano a riferimento le tabelle del Tribunale di Milano, è ampiamente superiore all’importo dell’indennizzo erogato dall’Ente previdenziale), mentre limita le possibilità di recupero da parte dell’INAIL di quanto dallo stesso erogato «con l’apposita quota di rendi-

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In effetti tale interpretazione è stata inizialmente fatta propria anche dalla giurisprudenza di merito, potendosi citare in tal senso Trib. Vicenza, 10 febbraio 2009, in RIDL, 2009, II, p. 895; Trib. Milano, 9 giugno 2009, n. 7515; Trib. Milano 4 febbraio 2011, n. 622; Trib. Milano, 1 febbraio 2011, n. 519; Trib. Milano, 31 agosto 2010, n. 3562; Trib. Piacenza, 18 febbraio 2012, n. 102; Trib. Lucera, Sez. distaccata di Rodi Garganico, 20 gennaio 2012, n. 16; Trib. Reggio Emilia, 7 marzo 2011, n. 330; Trib. Milano, 22 novembre 2010, n. 4852; Trib. Siena, 27 ottobre 2010, n. 554; Trib. Pisa, 3 giugno 2010, n. 733; Trib. Pistoia, Sez. distaccata di Monsumano Terme, 17 maggio 2011, n. 157; Trib. Montepulciano, 19 giugno 2009, n. 149; Trib. Piacenza, 4 giugno 2009; Trib. Milano, 8 giugno 2010, n. 7500; Trib. Milano, 22 giugno 2010, n. 2811; Trib. Milano, 29 giugno 2010, n. 2938; Trib. Milano, 27 luglio 2010, n. 3382; Trib. Milano, 30 luglio 2010, nn. 3419 e 3421; Trib. Milano, 23 settembre 2010, n. 3855; Trib. Milano, 16 settembre 2010, n. 3704. 24 Sul punto però Giubboni, Note d’attualità in tema di risarcimento del danno da infortunio sul lavoro, in RDSS, 2009, 25, mettendo in luce che sulla base di questa soluzione ermeneutica gran parte del risarcimento viene destinato a soddisfare la rivalsa dell’INAIL, rileva il rischio di compromissione di «quel peculiare e (diverso) assetto bipolare che in questa sfera derivava dalla netta distinzione tra voci o categorie di danno (patrimoniale e non patrimoniale) coperte, sia pure parzialmente, dall’assicurazione sociale». 25 Giubboni, Il risarcimento del danno differenziale, cit., 190. Cfr. sul tema anche De Matteis, Danno differenziale e danno complementare dopo le Sezioni unite del 2008, in RDSS, 2010, 2, 389 ss.. Vi è inoltre da considerare, come correttamente messo in luce da Rossi, Il calcolo del danno differenziale, cit., 96, che l’applicazione del metodo per sommatoria rischia di pervenire a soluzioni opinabili «laddove il risarcimento del danno non patrimoniale, operato in forma unitaria e nel quale era oramai confluito il ristoro di tutti i pregiudizi alla persona prima tenuti separati, veniva decurtato, anche in assenza di un danno patrimoniale in ambito civilistico, con l’intero importo erogato dall’INAIL sia per il danno biologico sia per le conseguenze da esso derivate, andando ad incidere sul diritto di credito del lavoratore infortunato per i danni estranei alla tutela sociale».

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ta, per indennizzare in modo automatico il danno patrimoniale presunto (che, valutato alla stregua dei comuni principi civilistici, è spesso inferiore all’indennizzo assicurativo-sociale e talvolta persino assente)»26.

8. La più recente giurisprudenza di legittimità ed i contrasti nella dottrina.

La giurisprudenza di legittimità, a partire dalla sentenza 26 giugno 2015, n. 1322227, ha fatto proprio l’orientamento da ultimo indicato (che si è invero consolidato nel tempo), rilevandosi, infatti, in tale decisione, che l’unico criterio di liquidazione coerente con la logica bipolare del danno alla persona fatta propria dalle Sezioni Unite nelle sentenze gemelle del 2008 risulta essere quello analitico per voci distinte, giacché lo stesso inibisce la possibilità di detrarre gli importi riconosciuti dall’Inail a titolo di danno patrimoniale dal risarcimento spettante in ambito civilistico al soggetto protetto a titolo di danno non patrimoniale. Tale orientamento è stato quindi ribadito dalla stessa Corte di cassazione nella sentenza 14 ottobre 2016, n. 2080728, nonché dalla sentenza 10 aprile 2017, n. 916629, nella quale, però, viene precisato che l’operazione di scomputo debba essere realizzata d’ufficio, anche se l’Inail non abbia in concreto provveduto all’indennizzo30. Nonostante il consolidarsi dell’orientamento giurisprudenziale appena descritto, il dibattito dottrinale sulle opzioni inerenti il computo del danno differenziale è proseguito all’indomani delle sentenze di San Martino, confrontandosi coloro che hanno insistito nella correttezza del calcolo per sommatoria, i quali ritengono che proprio dalle decisioni delle Sezioni Unite del 2008 dovrebbe ricavarsi la possibilità detrarre dal danno civile, complessivamente considerato, la somma delle indennità previdenziali indistintamente erogate dall’INAIL31 e coloro che, al contrario, hanno messo in luce l’opportunità di salvaguardare le pretese risarcitorie del lavoratore in vista di «una perdurante rilevanza, come danno complementare, di tutti i pregiudizi di carattere soggettivo, esistenziale ed in senso stretto dinamico-relazionale»32, anche correlata alla circostanza che la nozione normativa di dan-

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Giubboni, Il risarcimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro dopo la legge di bilancio 2009, cit., 190. Cass. civ., 26 giugno 2015, n. 13222, in FI, 2015, 10, I , 3169. 28 Cass. civ., 9 novembre 2016, n. 22862, in D&G, 2016, 2 ss., con nota di Savoia, Danno differenziale: se il danneggiato migliora e l’INAIL diminuisce l’indennizzo, diminuisce anche il risarcimento (a meno che...). 29 In Labor, 2017, 6, 721 ss., con nota di Diamanti, Il danno differenziale. Punti fermi e nuove prospettive. 30 Tale ultima precisazione è criticata da Giubboni, Il risarcimento del danno differenziale, cit., 190, il quale richiama, in senso conforme, Rossi, L’esonero datoriale dalla responsabilità civile nell’assicurazione contro gli infortuni: una regola da rivitalizzare?, in RDSS, 2018, 315 ss. 31 Corsalini, La surroga dell’INAIL: cumulo di azioni, obbligo di accantonamento, limiti alla rivalsa e danno differenziale, in attesa delle S.U. sulla compensatio lucri cum damno, in RCP, 2018, 556 ss.; Id., Estensioni della tutela INAIL: questioni controverse, ivi, 2106, 1388 ss. In senso conforme v. anche Ludovico, Tutela previdenziale per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e responsabilità civile del datore di lavoro, Giuffrè, 2012, 307 ss.. 32 Dà atto di tale diverso orientamento dottrinale Rossi, Il calcolo del danno differenziale, cit., 97. La citazione nel testo è di De Matteis, Danno differenziale e danno complementare, cit. 397. 27

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no biologico nella disciplina previdenziale è differente rispetto a quella prevista civilisticamente. Secondo tale diversa ricostruzione non dovrebbero ricorrere «ricadute negative per il lavoratore rispetto al regime vigente prima della pronuncia delle Sezioni unite»33, non essendo «ipotizzabile un regresso o una surroga (dell’INAIL) relative al danno morale, né può valere per il medesimo l’esonero dalla responsabilità civile del datore di lavoro»34. Pare poi opportuno dare atto di un orientamento “mediano”, nel quale, preso atto che il calcolo per sommatoria sarebbe comunque difficilmente conciliabile con l’impostazione bipolare del danno alla persona, ed individuata, come principale profilo di criticità derivante dal calcolo del danno differenziale basato sullo scomputo per voci omogenee, la difficoltà per l’Inail di agire in regresso, specialmente con riferimento al recupero della «quota di rendita destinata a indennizzare la riduzione della capacità lavorativa specifica, in molti casi non determinandosi un danno patrimoniale parimenti apprezzabile in termini civilistici»35, propone un bilanciamento degli interessi in rilievo per cui “una volta detratto in apicibus il danno complementare36 – spettante in via esclusiva al lavoratore in quanto estraneo alla copertura assicurativo-sociale alla stregua delle comuni regole di responsabilità civile –, tutto il danno che residua andrà unitariamente considerato come danno differenziale, senza poter più distinguere, al suo interno, tra la componente non patrimoniale e quella patrimoniale, che pertanto ben potranno essere sommate tra di loro al fine di realizzare un raffronto complessivo ex art. 10 t.u.»37.

9. L’intervento oggetto della legge di bilancio del 2019. In questo panorama si inseriscono, più di recente, le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione rese sul tema della compensatio lucri cum damno38, che, pur non affrontando direttamente l’istituto del danno differenziale, parevano avere rafforzato la tesi del computo per sommatoria. Ed infatti, benché il tema affrontato dalla Corte fosse quello del concorso tra il risarcimento e l’indennizzo che derivino dal medesimo evento in capo

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Riverso, La liquidazione del danno non patrimoniale del lavoratore dopo le sentenze delle Sezioni Unite del 2008, in LG, 2010, 1071. conformemente cfr. Filì, Danno biologico e assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, in Delle Monache (a cura di), Responsabilità civile. Danno non patrimoniale, in Trattati brevi diretti da Patti, Giappichelli, 2010, 255-256. 34 Navarretta, Il danno non patrimoniale, in Delle Monache (a cura di), Responsabilità civile, cit., 46. 35 Giubboni, Il risarcimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro dopo la legge di bilancio 2009, cit., 192. 36 Ovvero la personalizzazione del danno biologico alla stregua delle tabelle del Tribunale di Milano (tenendo quindi in considerazione il valore del punto «danno non patrimoniale», con il relativo aumento personalizzato, di cui alle tabelle), il danno biologico temporaneo e quello permanente non indennizzato dall’INAIL perché al di sotto della «franchigia» del 6 per cento, il danno patrimoniale, ove effettivamente sussistente, per menomazioni di grado inferiore al 16 per cento. 37 In tal senso Giubboni - Rossi, Infortuni sul lavoro, Giuffrè, 2012, 31 e 180 ss.; Giubboni - Ludovico - Rossi, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Cedam, 2014, 419-420. La citazione è tratta da Giubboni, Il risarcimento del danno differenziale, cit., 192. 38 Cass., sez. un., 22 maggio 2018, nn. 12564, 12565, 12566 e 12567. Come specifica Giubboni, Il risarcimento del danno differenziale, cit., 193 «in particolare, è la sentenza n. 12566/2018 ad affrontare la questione se dal risarcimento dovuto dal terzo responsabile dell’infortunio vada detratta la rendita erogata dall’INAIL, enunciando il principio di diritto di seguito riportato: «L’importo della rendita per l’inabilità permanente corrisposta dall’INAIL per l’infortunio in itinere occorso al lavoratore va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito».

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a soggetti diversi, le Sezioni Unite, nel rilevare che «il diffalco delle prestazioni erogate dall’assicuratore sociale dall’ammontare del risarcimento debba riguardare l’intero importo» parevano risultare ostative rispetto a «quegli orientamenti, accolti di recente anche da alcune decisioni della Corte, che seguono il criterio della scomposizione per voci di danno con la comparazione per poste omogenee di pregiudizi (da una parte danno patrimoniale e indennizzo INAIL per le conseguenze patrimoniali, dall’altra risarcimento del danno non patrimoniale e indennizzo per danno biologico)»39. È cronologicamente a valle di tale sentenze – ma si dubita che le stesse abbiano concretamente influenzato il legislatore – che quest’ultimo, in occasione dell’adozione della legge di bilancio per il 2019, supera la tendenziale astensione rispetto al tema del danno differenziale (ed alle relative modalità di determinazione) ed introduce all’art. 1, comma 1126, della l. n 145/2019, in stretta correlazione con la riduzione degli oneri contributivi a favore dell’Inail, una rilevante modifica gli artt. 10 e 11 del d.p.r. n. 1124/1965, che determinano l’applicazione, ai fini del computo del danno differenziale, del metodo per sommatoria. Ci pare opportuno richiamare, in merito, l’efficace sintesi del contenuto novellato di tali norme proposta da Stefano Giubboni, per il quale “nella versione ora in vigore, il sesto comma dell’art. 10 T.U. dispone che non si faccia luogo a risarcimento del danno qualora il giudice riconosca che questo, «complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo», non ascende a somma maggiore della indennità che, «a qualsiasi titolo ed indistintamente», abbia liquidato l’INAIL. Il nuovo settimo comma ribadisce la regola, stabilendo che non si farà luogo a risarcimento qualora esso non ascenda a somma maggiore di quella riconosciuta a norma degli artt. 66 e seguenti t.u. e delle somme «liquidate complessivamente ed a qualunque titolo a norma dell’articolo 13, comma 2, lettere a) e b), del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38». E lo stesso fa il nuovo comma ottavo dell’art. 10, nel precisare come debba essere determinato il valore capitale della rendita liquidata all’infortunato facendo sempre riferimento – complessivamente – a «ogni altra indennità erogata a qualsiasi titolo». La riformulazione dell’art. 11 estende coerentemente il nuovo criterio di calcolo per sommatoria – essendo questo il vero punto di caduta della innovazione legislativa – all’azione di regresso dell’Istituto. Viene infatti chiarito che il regresso si estende alle somme pagate dall’INAIL «a qualsiasi titolo», nei limiti del complessivo danno risarcibile, onde dovrà tenersi conto di qualunque indennità erogata, appunto, «a qualsiasi titolo»”40.

39 40

In tal senso Corsalini - De Matteis, Il concorso tra risarcimento e indennizzo, in RDSS, 2019, 1, par. 13. Giubboni, Il risarcimento del danno differenziale, cit., 195.

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10. I ripensamenti del legislatore: una possibile opzione

interpretativa.

L’intervento oggetto della legge di bilancio del 2019 ha però avuto vita breve, in quanto, in occasione della conversione in legge (l. 28 giugno 2019, n. 58), con modificazioni, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34, recante misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi, gli innesti normativi agli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124/1965 di cui si è dato conto nel precedente paragrafo sono stati integralmente abrogati. A questo punto l’interprete non può che chiedersi quale possa essere, ad oggi, la disciplina vigente in materia di determinazione del danno differenziale. In merito soccorrono, per un verso, la formulazione della recente previsione con cui sono state abrogate le novelle contenute nella legge di bilancio del 2019 e, per altro verso, le statuizioni oggetto nella recente sentenza 27 marzo 2019, n 8580 della Corte di Cassazione, confermate dalla giurisprudenza successiva della stessa Corte sul tema41. Orbene, all’art. 3-sexies viene stabilito che, le lettere a), b), c), d), e) e f) dell’articolo 1, comma 1126, della citata legge n. 145 del 2018 (cioè le previsioni contenenti gli innesti agli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124/1965 prima descritti) sono abrogate, precisandosi, quindi, che «le disposizioni ivi indicate [cioè, appunto, gli artt. 10 e 11 del decreto del 1965] riacquistano efficacia nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della medesima legge n. 145 del 2018». Ne deriva, quindi, che il Legislatore ha espressamente inteso prevedere, per le epoche successive alla detta abrogazione, la reviviscenza delle disposizioni degli artt. 10 e 11 del decreto del 1965 risultanti dal testo anteriore alle novelle apportate con la legge di bilancio per il 2019, rimanendo quindi il regime introdotto con tale legge rilevante solo relativamente agli eventi lesivi occorsi dalla data di entrata in vigore della legge n. 145 del 2018 alla data in cui acquisisca effetti l’abrogazione da ultimo disposta dal legislatore. Si ritorna quindi allo status quo ante, e, in merito a quale sia, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, il modello di determinazione del danno differenziale concretamente applicabile pro futuro (nonché per le epoche anteriori all’entrata in vigore della legge di bilancio del 2019), risultano utili le statuizioni della prima citata sentenza n. 8580/2019 che, nel negare la natura di interpretazione autentica (e quindi retroattiva) delle novelle oggetto della l. n. 145/2018 e richiamando le sentenze nn. n. 9166/2017, 22862/2016 e 13222/2015 prima citate, ha fatto integralmente ed esplicitamente proprio il modello di computo del danno differenziale per poste omogenee. Quindi, nel qualificare tale ultimo metodo come normativamente alternativo rispetto a quello per sommatoria esplicitamente introdotto dal legislatore (e poi dallo stesso abrogato), la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 8580/2019, pare considerare lo stesso come

41

Cfr. anche le sentenze 2 aprile 2019, n. 9112 e 11 aprile 2019, n. 10230.; l’ordinanza 19 aprile 2019, n. 11114, in FI, 2019, I, 2024, con nota di Santoro.

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ormai effettivamente acquisito al diritto vivente, venendo peraltro tale impostazione da ultimo confermata nella più recente decisione dell’8 aprile 2019, n. 974442.

11. Una modesta proposta. Ponendosi in una prospettiva de jure condendo, non sarebbe apparso irragionevole, a parere di chi scrive, utilizzare l’ampio surplus finanziario di cui è dotato l’Inail – che ha, in ultima analisi, giustificato la riduzione dei premi oggetto degli interventi del 2018/2019 – non tanto per diminuire l’onere contributivo, quanto per ampliare l’ambito di copertura delle relative prestazioni. Tale opzione avrebbe potuto garantire maggiormente i lavoratori, stante l’automatismo correlato al meccanismo di riconoscimento della prestazione previdenziale e la certa solvibilità dell’Ente, a fronte dell’incerta aggressione patrimoniale nei confronti dei datori di lavoro (soprattutto se di ridotte dimensioni). Questi ultimi, infine, avrebbero vista concretamente rafforzata l’effettività della “transazione storica” di cui si è dato conto all’inizio del presente contributo, limitando, con il solo pagamento del premio Inail, la complessiva esposizione rispetto a ulteriori pretese dei lavoratori, nonché gli oneri correlati alla conclusione di polizze assicurative private miranti a fare fronte a tali rischi (oneri che, probabilmente, saranno sostenuti con i risparmi di spesa conseguenti alla riduzione della contribuzione a favore dell’Inail).

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Precisandosi che, ai fini della determinazione del quantum oggetto del regresso dell’Inail, il giudice dovrà tenere conto dell’unica novella oggetto della legge di bilancio del 2019 sopravvissuta alla successiva abrogazione, cioè quella contenuta nell’art. 1, comma 1126, lett. g) della l. n. 145/2018, a mente della quale lo stesso «può procedere alla riduzione della somma tenendo conto della condotta precedente e successiva al verificarsi dell’evento lesivo e dell’adozione di efficaci misure per il miglioramento dei livelli di salute e sicurezza sul lavoro. Le modalità di esecuzione dell’obbligazione possono essere definite tenendo conto del rapporto tra la somma dovuta e le risorse economiche del responsabile». Si rinvia anche alla ricostruzione della disciplina in esame offerta da De Angelis, Il danno differenziale tra diritto comune, diritti speciali e schizofrenia legislativa, in WP D’Antona, It. - 392/2019, n. 12-18, nonché sul relativo iter legislativo a Bona, Legge di bilancio 2019 e “danno differenziale INAIL”: nessun segno meno per i lavoratori danneggiati, in www.ridare.it, 2019, 3.

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Antonino Sgroi

La condizionalità e le politiche attive del lavoro dalla NASpI al Reddito di cittadinanza* Sommario : 1. La Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego - NASpI. – 2. Il Reddito di inclusione - ReI. – 3. Il Reddito di cittadinanza - RdC.

Sinossi. Il contributo ha lo scopo di verificare, pur nella molteplicità degli interventi legislativi succedutisi tempo per tempo sin dalla legge delega n. 183 del 2014, se la linea di tendenza, con riguardo alle condizioni alle quali deve sottostare il beneficiario di una prestazione a carico del sistema di sicurezza sociale sia sostanzialmente omogenea o se all’opposto si assiste a tante condizionalità quanti sono gli istituti ai quali essa si attaglia. Contestualmente lo scritto, con riferimento allo stesso periodo di osservazione, investiga se e come la disciplina di politica attiva affidata ai pubblici servizi sia mutata nel tempo, ancor prima della sua concreta attuazione, ad oggi mancata. Abstract. The present paper tries, on a base of a wide range of laws starting with the enabling law Nr. 183 of year 2014, to verify the trend line and specifically if to be entitled to social security benefits requires homogenous conditions or distinct ones dealing separately for the different benefits. The paper at the same time examines if and how active policies provided by public services has been changing over the years, even if they have not yet been implemented. Parole

*

chiave:

Naspi – Reddito di cittadinanza – Condizionalità – Politiche attive

Testo, integrato e riveduto, della relazione svolta al seminario organizzato dall’Associazione Giuslavoristi Toscani su “Diritti e doveri nel rapporto di lavoro a tre anni dal Jobs’ act”, tenuto ad Arezzo il 14 giugno 2019.


Antonino Sgroi

1. La Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per

l’Impiego - NASpI

La NASpI, come noto, costituisce l’attuazione delle previsioni della legge delega del 10 dicembre 2014, n. 183. Il legislatore delegante, con riguardo alla prestazione riconosciuta in favore dei lavoratori che perdono involontariamente il posto di lavoro e per quel che attiene all’odierna esposizione, ha previsto l’applicazione delle disposizioni che attengono alla partecipazione attiva del lavoratore alla sua riqualificazione professionale e alla ricerca di un posto di lavoro. La menzionata disciplina delegante prevede che: a) il lavoratore, sospeso dal lavoro o licenziato si attivi “con meccanismi e interventi che incentivino la ricerca attiva di una nuova occupazione”; b) l’attivazione si sostanzi nell’incentivazione di una ricerca attiva di una nuova occupazione “secondo percorsi personalizzati di istruzione, formazione professionale e lavoro”; c) tale attività “possa consistere anche nello svolgimento di attività a beneficio delle comunità locali, con modalità che non determinino aspettative di accesso agevolato alla pubblica amministrazione”; d) nei confronti del soggetto beneficiario degli strumenti di sostegno al reddito, che non si rende disponibile a svolgere una nuova occupazione o a partecipare a programmi di formazione o a svolgere attività in favore delle comunità locali, si adeguino le sanzioni e le relative modalità di applicazione, in funzione della loro effettività, secondo criteri oggettivi e uniformi. La disciplina delegata costituita dal decreto legislativo del 4 marzo 2015, n. 22 a sua volta prevede sia l’istituzione della nuova prestazione economica previdenziale riconosciuta in favore dei lavoratori subordinati che hanno perso involontariamente il lavoro, sia l’istituzione della nuova prestazione previdenziale denominata DIS-COLL in favore dei lavoratori autonomi con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, nonché a decorrere dall’1 luglio 2017 in favore degli assegnisti e dei dottorandi di ricerca con borsa di studio. Limitatamente poi ai lavoratori subordinati che hanno fruito della NASpI per un lasso temporale superiore a quattro mesi, il legislatore delegato ha riconosciuto un ulteriore beneficio economico denominato assegno di ricollocazione la cui disciplina però la si rinviene nel decreto delegato destinato al riordino dei servizi per il lavoro e le politiche attive. Beneficio questo al quale è riconosciuta la qualifica di livello essenziale delle prestazioni. La NASpI, al pari dell’originaria indennità di disoccupazione e dell’ASpI, è una prestazione previdenziale riconosciuta ne confronti dei lavoratori, subordinati e autonomi (cate-

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gorie queste per la cui specifica individuazione si rinvia alla lettura del testo legislativo), che hanno perso involontariamente la propria occupazione1. L’accesso e la permanenza del diritto a fruire del beneficio sono condizionati, giusta la disposizione contenuta nell’art. 4 del d.lgs. cit., alla regolare partecipazione del disoccupato alle iniziative di attivazione lavorativa nonché ai percorsi di riqualificazione professionale proposti dai centri per l’impiego. Disposizione sostanzialmente omologa la si rinviene nel successivo comma decimo dell’art. 15 con riferimento alla DIS-COLL. Il delineato meccanismo di condizionalità, al quale è subordinato il riconoscimento della prestazione, trova la sua dettagliata disciplina nel d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150. Il modello previsto da questo decreto delegato, ai fini dell’odierna esposizione e rinviando in ogni caso alla lettura del testo, può essere così sunteggiato: a) stato di disoccupazione, recte condizione di non occupazione, connesso alla presentazione di una dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l’impiego (art. 19) sullo stato di disoccupazione dopo l’intervento legislativo del 2019, si v. con riguardo al versante amministrativo, la circolare ANPAL del 23.7.2019, n. 1.; b) equivalenza alla condizione di non occupazione in caso di presentazione all’Inps di domanda di NASpI o DIS-COLL o di mobilità (art. 21); c) onere a carico del richiedente, ai fini della conferma della condizione di non occupazione, di contattare il centro per l’impiego entro trenta giorni dalla presentazione della dichiarazione di immediata disponibilità ai fini dapprima della profilazione e poi della stipula di un patto di servizio personalizzato (art. 20); d) onere a carico del richiedente l’indennità di disoccupazione o di mobilità, privo di occupazione, di contattare entro 15 giorni dalla presentazione della domanda di fruizione della prestazione sempre il centro per l’impiego, per la sottoscrizione del patto di servizio personalizzato (art. 21). Patto di servizio che costituisce livello essenziale delle prestazioni. Si deve ritenere che, anche in questo caso e ancorché nel testo non si trovi menzione alcuna, sia prevista l’assegnazione del richiedente in una classe di profilazione, attività logicamente e strutturalmente precedente alla successiva stipula del patto predetto; e) assegnazione da parte del centro per l’impiego, del soggetto che ha reso la dichiarazione di immediata disponibilità (DID), in una classe di profilazione sulla scorta delle

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Sull’istituto si v. da ultimo, Miscione, Gli scopi dell’indennità di disoccupazione (NASpI), in LG, 2018, 10, 903. Si v. anche da ultimo e con riferimento al rapporto fra tutela del lavoro e politiche di formazione del lavoratore, per facilitare il passaggio da un posto di lavoro all’altro, politiche alle quali si connette, secondo il modello in essere, la disponibilità del lavoratore ad accettare corsi di apprendimento e di formazione per facilitare l’accesso a nuovi lavori, nonché la disponibilità del medesimo lavoratore; a prescindere dal compimento di percorsi formativi e “rigenerativi” delle sue conoscenze, ad accettare offerte di lavoro che, secondo criteri prefissati dal legislatore, sono congrue, sia Barbera, Tre narrazioni della flexicurity, in RGL, 2018, I, 557; sia Angiello, Mercato del lavoro e ammortizzatori sociali, in Nicolini (a cura di), Gli ammortizzatori sociali, Giuffré, 2018, 175.

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informazioni fornite dallo stesso soggetto e aggiornamento trimestrale automatico della classe di profilazione , tenendo conto della durata della condizione di non occupazione e delle altre informazioni medio tempore raccolte dallo stesso centro per l’impiego (art. 19); f) sottoscrizione da parte del soggetto che ha presentato la DID di un patto personalizzato i cui contenuti minimi sono predeterminati dal legislatore delegato (art. 20) e fra i quali si annoverano: a) l’individuazione delle modalità con cui la ricerca attiva di lavoro da parte del beneficiario la prestazione è dimostrata, b) la partecipazione a iniziative e laboratori per il rafforzamento delle competenze nella ricerca attiva di lavoro, c) la partecipazione a iniziative di carattere formativo o di riqualificazione o altra iniziativa di politica attiva o di attivazione, d) l’accettazione di congrue offerte di lavoro; g) obbligo in capo al lavoratore che fruisce dei benefici connessi allo stato di disoccupazione/condizione di non occupazione di attenersi alla disciplina dettata dal legislatore delegato ai fini dell’accesso e della permanenza del diritto a fruire della prestazione; h) determinazione di specifiche sanzioni connesse alla fruizione della NASpI, della DISCOLL e dell’indennità di mobilità (art. 20). Quest’ultima disposizione istitutiva di sanzioni ad hoc con riferimento ai percettori delle menzionate prestazioni riporta alla lettura della disciplina in tema di decadenza prevista con riferimento alla NASpI dall’art. 11 del d. lgs. n. 22/2015. Si decade dal diritto a fruire della prestazione economica di disoccupazione, NASpI, allorquando: a) si perda lo stato di disoccupazione; b) si inizi un’attività di lavoro subordinato o autonomo senza informare l’Inps secondo il termine e le modalità individuate rispettivamente negli artt. 9 e 10 del medesimo testo legislativo; c) si raggiungano i requisiti per fruire della pensione di vecchiaia ordinaria o anticipata; d) sia riconosciuto il diritto all’assegno ordinario di invalidità, a meno che il beneficiario opti per continuare a fruire della NASpI. Con riguardo alla DIS-COLL si rinvengono le ipotesi di decadenza nel testo del successivo art. 15 medesimo testo legislativo e si radicano: a) nello svolgimento di un rapporto di lavoro subordinato di durata superiore a cinque giorni; b) nella mancata comunicazione del reddito che si prevede di trarre dallo svolgimento di un’attività di lavoro autonomo. Si deve ritenere che si perda il beneficio della DIS-COLL, al pari di quel che accade per la NASpI e come previsto dall’Inps nella circolare n. 83/2015, anche quando il beneficiario della prestazione raggiunga il diritto alla pensione di vecchiaia ordinaria o anticipata o gli sia riconosciuto il diritto all’assegno ordinario di invalidità, a meno che il beneficiario opti per continuare a fruire della DIS-COLL.

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A queste disposizioni peculiari dei menzionati istituti si aggiungono le ulteriori fattispecie di decadenza dai predetti benefici radicate sulla violazione delle regole in tema di condizionalità che si rinvengono nell’art. 21 del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150. Il modello sanzionatorio si impernia: - sulla decurtazione graduata, nelle ipotesi meno gravi, della misura della prestazione in godimento, - sulla decadenza, nelle ipotesi più gravi, dal diritto alla fruizione della prestazione di disoccupazione e dallo stato di disoccupazione. Le fattispecie sanzionate attengono: a) alla mancata presentazione, senza giustificato motivo, alle convocazioni o agli appuntamenti fissati dal centro per l’impiego; b) alla mancata partecipazione, senza giustificato motivo, alle iniziative di orientamento o alle iniziative per la determinazione del profilo personale di occupabilità o, infine, allo svolgimento di attività a fini di pubblica utilità in favore delle comunità territoriali di appartenenza (in questo caso da parte di lavoratori disoccupati con più di sessant’anni che non abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia ordinaria o anticipata [si v. art. 26.5]); c) alla mancata accettazione, senza giustificato motivo, di un’offerta di lavoro congrua. Si osservi che la decadenza dallo stato di disoccupazione in conseguenza del venir in essere di una delle fattispecie sunteggiate comporta l’ulteriore conseguenza sanzionatoria dell’impossibilità di una nuova registrazione come disoccupato prima del decorso di due mesi. Il provvedimento sanzionatorio è emesso dal centro per l’impiego e avverso lo stesso è previsto ricorso amministrativo all’ANPAL, recte a un Comitato incardinato presso la predetta Agenzia e nominato da questa con deliberazione del 26 luglio 2017, n. 18. Se dall’irrogazione delle sanzioni consegue anche e medio tempore l’indebita fruizione della prestazione è affidato all’Inps il compito del suo recupero. Infine altra e diversa ipotesi di decadenza è connessa all’ulteriore beneficio, sempre disciplinato in seno al d.lgs. n. 150/2015, costituito dal riconoscimento dell’assegno di ricollocazione (art. 23). L’assegno individuale di ricollocazione, come noto, è riconosciuto su domanda ai disoccupati, la cui durata di disoccupazione eccede i quattro mesi e che hanno stipulato il patto di servizio personalizzato2. Si tratta di un’ulteriore erogazione di somma di denaro

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Si ricordi che tale beneficio è sospeso fino al 31 dicembre 2021, in conseguenza dell’istituzione dell’assegno di ricollocazione in favore dei beneficiari del reddito di cittadinanza in via sperimentale e per un triennio, ai sensi dell’art. 4 u. c. del d. l. 28 gennaio 2019, n. 4, conv.to con modif.ni dalla l. 28 marzo 2019, n. 26. È facile constatazione quella che, per una scelta affatto politica, si è deciso di allocare le risorse destinate all’assegno di ricollocazione presso altro bacino di destinatari, senza che esista una ragione strutturale che possa suffragare la sospensione del beneficio in favore dei lavoratori che hanno perso il lavoro.

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la cui misura è funzione del profilo personale di occupabilità e che può essere spesa dal beneficiario presso i centri per l’impiego o presso i servizi accreditati. L’assegno serve al beneficiario per ottenere un servizio di assistenza intensiva nella ricerca di lavoro e non concorre alla formazione del reddito ai fini della determinazione del reddito delle persone fisiche, né lo stesso è assoggettato a contribuzione. L’assegno ha una durata di sei mesi, prorogabile per altri sei mesi, ma tale proroga è connessa alla circostanza che non sia stato consumato l’intero importo dell’assegno. Si decade dalla fruizione di questo se il beneficiato non richiede il servizio di assistenza intensivo nel termine perentorio di due mesi dalla data del suo riconoscimento. La decadenza dalla fruizione dell’assegno individuale di ricollocazione porta con sé anche la decadenza dallo stato di disoccupato e l’impossibilità di iscriversi come tale prima che siano decorsi due mesi (art. 21, comma 9). Il percorso ordinario delineato dal decreto legislativo, come detto, prevede anche l’individuazione dell’offerta di lavoro congrua che è il risultato dell’applicazione dell’art. 25 e del successivo decreto ministeriale del 10 aprile 2018 (in G.U. 14 luglio 2018, n. 162). Offerta di lavoro che se non accettata dal disoccupato senza giustificato motivo comporta la decadenza dalla prestazione e dallo stato di disoccupazione (art. 25). La disposizione del decreto delegato fissa quattro principi ai quali si deve attenere il Ministero del lavoro per la definizione dell’offerta di lavoro congrua. Interessante agli odierni fini è il requisito che riguarda la retribuzione e che contiene altresì al suo interno una disposizione di collegamento con il reddito di cittadinanza istituito con il d. l. del 28 gennaio 2019, n. 4, conv.to con modif.ni dalla legge 28 marzo 2019, n. 26. Secondo il legislatore delegato, per potersi definire un’offerta di lavoro congrua, la retribuzione deve essere superiore di almeno il 20 per cento rispetto all’indennità percepita dal disoccupato nell’ultimo mese precedente3. Indennità che è calcolata senza tenere conto dell’eventuale integrazione della stessa da parte dei fondi di solidarietà. L’individuato differenziale al rialzo cambia se si è davanti a un soggetto percettore di reddito di cittadinanza. In questo caso la retribuzione è sufficiente che sia superiore di almeno il 10 per cento rispetto al beneficio massimo fruibile da una sola persona e nella determinazione della misura del reddito di cittadinanza da utilizzare quale parametro si tiene conto anche della componente economica connessa alla locazione dell’abitazione (art. 3, comma 1, lett. b, l. ult. cit.). La successiva decretazione ministeriale4 e con riguardo al profilo della retribuzione, oltre a ripetere pedissequamente quanto previsto nel testo legislativo, chiarisce che la

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Si osservi che l’aggancio della misura della retribuzione percepibile con l’accettazione dell’offerta di lavoro considerata congrua alla misura dell’indennità percepita dal disoccupato nell’ultimo mese, è funzione dell’erogazione via via decrescente dell’indennità di disoccupazione, conseguendone che il trascorrere del tempo ha effetti negativi non solo su questa ma anche sulla retribuzione che si potrebbe percepire una volta accettata l’offerta di lavoro congrua. Il cennato decreto ministeriale, con riguardo ai soggetti in stato di disoccupazione, ai fini dell’individuazione dell’offerta di lavoro congrua distingue fra coloro che sono in stato di disoccupazione per un periodo fino a dodici mesi e coloro che sono in stato di disoccupazione da oltre dodici mesi. Per la prima categoria il luogo dell’offerta di lavoro non deve distare più di 50 chilometri dal domicilio del soggetto in stato di disoccupazione o comunque deve essere raggiungibile mediamente in 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblici.

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determinazione della congruità della retribuzione offerta va fatta al netto dei contributi a carico del lavoratore (art. 7). Sempre il decreto ministeriale individua l’elenco dei giustificati motivi legittimanti la mancata accettazione dell’offerta di lavoro congrua. Giustificati motivi che si sostanziano: a) nel documentato stato di malattia o di infortunio; b) nel servizio civile e nel richiamo alle armi; c) nello stato di gravidanza, per i periodi di astensione previsti dalla legge; d) in gravi motivi familiari, documentati o certificati; e) in casi di limitazione legale della mobilità personale; f) in ogni comprovato impedimento oggettivo o causa di forza maggiore, documentati o certificati, cioè ogni fatto o circostanza che impedisca al soggetto di accettare l’offerta di lavoro congrua (art. 8) . La politica attiva del lavoro/condizionalità delineata dal decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150 si conclude con il possibile utilizzo dei lavoratori, che fruiscono di ammortizzatori sociali, da parte delle comunità territoriali di appartenenza dei medesimi in attività a fini di pubblica utilità. I lavoratori interessati sono: a) quelli che fruiscono di strumenti di sostegno del reddito in costanza di rapporto di lavoro o sottoposti a procedure di mobilità; b) quelli disoccupati con più di 60 anni e che non abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia ordinaria o anticipata. Qualora gli enti territoriali utilizzino lavoratori disoccupati, il tempo di svolgimento dell’attività non può essere superiore a venti ore settimanali e in favore di costoro è riconosciuto una somma di denaro pari all’assegno sociale. La determinazione della somma di denaro ri-

Per la seconda categoria i requisiti individuativi dell’offerta di lavoro congrua si fanno più ampî, infatti la distanza si eleva a 80 chilometri e il tempo di percorrenza con i mezzi pubblici diviene di 100 minuti. Si rilevi che la decretazione ministeriale, con riferimento alla prima categoria, recepisce i criteri antecedentemente previsti dall’art. 4, comma 42 della l. 28 giugno 2012, n. 92. Sempre il decreto ministeriale, ma questa volta con riferimento al tipo di contratto di lavoro da porre in essere, definisce congrua l’offerta quanto ricorrono – i primi due motivi contestualmente e il terzo alternativamente ai primi – i seguenti requisiti: a) rapporto di lavoro a tempo indeterminato o determinato o di somministrazione di durata non inferiore a tre mesi; b) rapporto di lavoro a tempo pieno o con un orario di lavoro non inferiore all’80% di quello dell’ultimo contratto di lavoro; c) retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria, giusto il richiamo fatto all’art. 51 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81.

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conosciuta è funzione delle ore dedicate allo svolgimento dell’attività a fini di pubblica utilità, conseguendone pertanto la rideterminazione al ribasso qualora le ore siano inferiori alle venti. La somma così riconosciuta ai lavoratori disoccupati impegnati in attività di pubblica utilità è incompatibile con eventuali trattamenti pensionistici ordinari o anticipati. Mentre la predetta somma è compatibile con la fruizione di assegni e pensioni di invalidità civile, di pensioni privilegiate per infermità contratta a causa del servizio obbligatorio di leva. Alla predetta somma si applicano le disposizioni dettate in tema di fruizione della NASpI in tema di lavoro subordinato e autonomo e quindi anche la decadenza dal diritto alla sua percezione qualora non sia effettuata la comunicazione all’Inps5. È opportuno, in conclusione di questa sommaria esposizione, ricordare che la disposizione in tema di condizionalità e politiche attive del lavoro si applica anche ai lavoratori beneficiari di integrazioni salariali per i quali è programmata una sospensione o riduzione superiore al 50% dell’orario di lavoro (si v. l’art. 8 del d. lgs. n. 148/2015 che richiama l’art. 22 del d.lgs. n. 150/2015). Questi lavoratori, convocati dal centro per l’impiego in un orario compatibile con la prestazione lavorativa ancora svolta, stipulano il patto di servizio personalizzato6, dopodiché svolgono le attività compatibili alla circostanza che continuano a svolgere un’attività lavorativa7.

2. Il Reddito di inserimento - ReI. Il reddito di inclusione, denominato ReI, costituiva l’evoluzione del sostegno all’inclusione attiva (SIA) e dell’assegno di disoccupazione (ASDI). Il SIA era una misura di contrasto alla povertà, tramite il quale si garantivano in via prioritaria interventi per nuclei familiari in modo proporzionale al numero di figli minori o disabili, tenendo conto della presenza, all’interno del nucleo familiare, di donne in stato di gravidanza accertata (si v. art. 1, comma 387, legge 28 dicembre 2015, n. 208). Il primo testo legislativo, risalente al 2012 che lo istituiva, prevedeva altresì l’emissione di un decreto ministeriale che avrebbe dovuto disciplinare, fra l’altro, le caratteristiche del

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Sulle politiche perseguite dal legislatore condizionanti l’accesso alle prestazioni e la loro fruizione connesse alla disponibilità da parte del beneficiario a essere coinvolto in percorsi di aggiornamento professionale, a compiere lui stesso un’attività di ricerca del lavoro e, infine, ad accettare un’offerta di lavoro congrua, si v. da ultimo: Anastasia - Santoro, Jobs act: politiche attive e ammortizzatori sociali, in Economia italiana, 2018, n. 2-3, 37; Villa, Attivazione e condizionalità al tempo della crisi contraddizioni di un modello (almeno formalmente) improntato alla flexicurity, in ADL, 2018, 477; D’onghia, Il rafforzamento dei meccanismi di condizionalità, in Jobs Act: un primo bilancio, Atti del XI Seminario di Bertinoro-Bologna del 22-23 ottobre 2015, Carinci (a cura di), Adapt Labour Studies, e-Book series, n. 54, 2016, consultato il 10 giugno 2019. Il patto di servizio, in considerazione del fatto che i lavoratori continuano a svolgere un’attività lavorativa, può essere svolto sentito il datore di lavoro e con l’eventuale concorso dei fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua. Fondi questi ultimi che, giusto il primo comma dell’art. 116 della l. 23 dicembre 2000, n. 388, potevano essere istituiti per ciascuno dei settori economici dell’industria, dell’agricoltura, del terziario e dell’artigianato. Una volta siglato il menzionato patto, il lavoratore può partecipare a iniziative e laboratori per il rafforzamento delle competenze nella ricerca attiva di lavoro o a iniziative di carattere formativo o di riqualificazione o a ogni altra iniziativa di politica attiva o di attivazione o, infine, alle attività socialmente utili a beneficio degli enti territoriali di appartenenza sotto la direzione e il coordinamento delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

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progetto personalizzato di presa in carico del beneficiario la prestazione. Progetto volto al reinserimento e all’inclusione sociale anche attraverso il condizionamento del godimento del beneficio alla partecipazione del progetto (art. 5, comma 2, lett. d, decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, conv.to con modif.ni dalla legge 4 aprile 2012, n. 35)8. L’ASDI aveva la funzione di sostegno al reddito dei lavoratori beneficiari di NASpI, che avevano fruito dell’indennità di disoccupazione per l’intera sua durata, che erano ancora privi di occupazione e che si trovavano in una condizione economica di bisogno (art. 16, d.lgs. n. 22/2015). Per il riconoscimento di tale beneficio si prevedeva, fra l’altro, l’adesione da parte del disoccupato a un progetto personalizzato, contenente specifici impegni in termini di ricerca attiva di lavoro, disponibilità a partecipare a iniziative di orientamento e formazione, accettazione di adeguate proposte di lavoro. La decadenza dal beneficio era connessa alla mancata partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dal centro per l’impiego (art. 16, comma 5, d. lgs. ult. cit.). Si osservi in questa sede come il SIA era configurato come una misura di contrasto alla povertà a valenza generale; mentre l’ASDI, nonostante era anche sussumibile fra le misure di carattere assistenziale, annoverava fra i suoi beneficiari una categoria oltremodo ristretta di possibili beneficiari, evinta dalla categoria “lavoratori disoccupati che avevano integralmente fruito della NASpI”. L’introduzione del ReI ha costituito l’attuazione della delega legislativa contenuta nella legge 15 marzo 2017, n. 33. Legge questa che ha previsto l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà, denominata reddito di inclusione ed individuata come livello essenziale delle prestazioni da garantire uniformemente in tutto il territorio nazionale. Fra i principi e criteri direttivi della menzionata legge delega rilevano, agli odierni fini, quelli che prevedevano (si v. ad ogni buon fine il testo dell’art. 1, comma 2, della legge): - l’adesione da parte del beneficiario a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà; - l’individuazione prioritaria dei nuclei familiari possibili beneficiari della prestazione attraverso anche la presenza al loro interno di persone di età superiore a 55 anni in stato di disoccupazione ai sensi dell’art. 19 del d. lgs. n. 150/2015; - la previsione che i progetti personalizzati siano predisposti da un gruppo multidisciplinare in collaborazione con le amministrazioni competenti sul territorio in materia di servizi per l’impiego, la formazione, le politiche abitative, la tutela della salute e l’istruzione, secondo principi generalizzati di presa in carico dei beneficiari la prestazione e sulla base di una valutazione multidimensionale del bisogno.

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Ma si ricordi che antecedentemente la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato dei servizi sociali, legge 8 novembre 2000, n. 328, aveva previsto il reddito minimo di inserimento, quale misura di contrasto alla povertà e di sostegno al reddito da annoverarsi fra le misure destinate in particolare alle persone senza fissa dimora. Si v. con riferimento alla menzionata legge quadro, fra gli altri: Aa.Vv., Il sistema integrato dei servizi sociali, Balboni Baroni - Mattioni - Pastori (a cura di), Giuffré, 2007 e da ultimo Gualdani, Diritto dei servizi sociali, Giappichelli, 2018.

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Il ReI, venuto meno dall’1 aprile 2019, era pertanto una misura a carattere universale, unica a livello nazionale, di contrasto alla povertà e all’inclusione sociale (art. 1, comma 1, d.lgs. 15 settembre 2017, n. 147) e costituiva livello essenziale delle prestazioni. Il riconoscimento del reddito di inclusione era condizionato da un verso alla prova dei mezzi e da altro verso all’adesione del richiedente a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà (in questi termini il secondo comma dell’art. 2 del d. lgs. ult. cit.). Beneficiari del ReI erano i nuclei familiari, che dovevano annoverare fra i suoi componenti almeno un lavoratore di età pari o superiore a 55 anni in stato di disoccupazione, che versavano in una condizione di povertà individuata secondo parametri legislativi e la sua fruizione era compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa secondo criteri predeterminati legislativamente. Si osservi che la definizione generale di stato di disoccupazione era integrata in quanto, ai fini dell’accesso al beneficio, erano considerati in stato di disoccupazione anche i lavoratori il cui reddito da lavoro, subordinato o autonomo, corrispondeva a un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell’art. 13 del T.U.I.R. (art. 3, comma 3, d. lgs. cit.). Con riguardo alla disponibilità dei componenti il nucleo familiare al progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa, era prevista la sottoscrizione di un progetto personalizzato da parte dei beneficiari il ReI. Il ReI non era compatibile con la contemporanea fruizione, da parte di qualsiasi componente il nucleo familiare, della NASpI o di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria (art. 3, comma 4). Del testo legislativo restano vigenti, per quel che rileva l’odierna esposizione e dopo l’introduzione del reddito e della pensione di cittadinanza, le disposizioni che disciplinano il patto per l’inclusione sociale, il progetto personalizzato. Istituti questi che si connettono al neo istituito reddito di cittadinanza, allorché i nuclei familiari beneficiari non annoverino fra i loro componenti alcuno con le caratteristiche tassativamente indicate, per la sottoscrizione del percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale. Istituti questi che pare debbano trovare altresì applicazione, unitamente all’affidamento ai servizi sociali comunali, anche nei confronti di quei nuclei familiari che, pur annoverando fra i loro componenti soggetti che in via teorica ricadono nell’ambito di efficacia della disciplina in tema di sottoscrizione del “Patto per il lavoro”, presentino bisogni complessi e multidimensionali che necessitano della sottoscrizione del “Patto per l’inclusione sociale”. Secondo quanto comunicato sul sito web del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociale, con decreto ministeriale del 23 luglio 2019, sono state approvate le Linee Guida per la definizione dei Patti per l’inclusione sociale, ma il testo del decreto non risulta essere disponibile, né a quel che consta lo stesso è stato pubblicato. Ciò nonostante sul sito web del Ministero è consultabile una pubblicazione contenente le predette Linee Guida. Il progetto personalizzato deve essere sottoscritto da tutti i componenti il nucleo familiare e prevede in capo a costoro, fra l’altro, l’impegno a svolgere specifiche attività che trovano la sua concreta individuazione nel successivo progetto personalizzato. Progetto personalizzato che, a sua volta e con riferimento agli atti di ricerca attiva di lavoro e alla disponibilità dei componenti il nucleo familiare alla partecipazione a iniziative e laboratori per il rafforzamento delle competenze nella ricerca attiva di lavoro, alla

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partecipazione a iniziative di carattere formativo o di riqualificazione o altra iniziativa di politica attiva o di attivazione, all’accettazione di congrue offerte di lavoro e al servizio di assistenza intensiva nella ricerca di lavoro, rinvia rispettivamente agli artt. 20 e 23 del d.lgs. n. 150/2015. Ma che trova altresì ulteriore integrazione dei contenuti necessari nelle previsioni dettate dal legislatore del 2019 in tema di “Patto per il lavoro” (si v. art. 4, comma 13, d.l. n. 4/2019, conv.to con modif.ni dalla l. n. 26/2019). Integrazione che sfocia nell’obbligo in capo al sottoscrittore il “Progetto personalizzato”, ora denominato “Patto per l’inclusione sociale”: a) di collaborare alla definizione del Patto in questione; b) di registrarsi sulla piattaforma digitale denominata Sistema informativo del reddito di cittadinanza; c) di consultare quotidianamente tale piattaforma, che costituisce supporto nella ricerca attiva del lavoro; d) di accettare di essere avviato alle attività individuate nel Patto per il lavoro; e) di sostenere colloqui psicoattitudinali e le eventuali prove di selezione finalizzate all’assunzione, su indicazione dei servizi competenti e in attinenza alle competenze certificate; f) di accettare almeno una di tre offerte di lavoro congrue; g) di accettare, a pena di decadenza, la prima offerta utile di lavoro congrua se vi è stato il rinnovo del beneficio. L’erogazione della prestazione inglobava, se precedentemente goduta, la prestazione connessa alla carta acquisti (s. v. art.19, d.lgs. ult. cit.); mentre l’attuale RdC non prevede tale incompatibilità9. Si rilevi che sia il progetto personalizzato, sia i sostegni in esso previsti costituiscono livelli essenziali delle prestazioni, ancorché nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente. Prima della novella legislativa costituita dal d.l. n. 4/2019, conv.to con modificazioni dalla l. n. 26/2019, l’apparato sanzionatorio connesso al godimento del ReI lo si rinveniva nel testo dell’art. 12. Testo quest’ultimo che imponeva a tutti i componenti il nucleo familiare di attenersi ai comportamenti previsti nel progetto personalizzato e imponeva altresì ai componenti in età attiva del predetto nucleo familiare di presentarsi alle convocazioni del centro per l’impiego. Il sistema sanzionatorio delineato dal legislatore del ReI sostanzialmente ricalca il modello delineato dal legislatore della riforma dei servizi per il lavoro e le politiche attive (si rinvia alla lettura dell’art. 21 del d. lgs. n. 150/2015).

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Si v. il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 19 aprile 2019 che disciplina il concorrente utilizzo di entrambe le carte.

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Infatti il modello sanzionatorio ruotava intorno: - alla decurtazione graduata, nelle ipotesi meno gravi, della misura della prestazione in godimento da parte del nucleo familiare; - alla decadenza, nelle ipotesi più gravi, dal diritto alla fruizione della prestazione da parte del nucleo familiare; sanzione alla quale si accompagnava infine, in sede di reiterazione dell’inadempimento, la decadenza dallo stato di disoccupazione in capo al componente il nucleo familiare al quale era riconosciuto (si v. art. 12, d.lgs. 15 settembre 2017, n. 147). Le fattispecie sanzionate appaiono essere la replica di quelle sanzionate nel d.lgs. n. 150/2015, infatti esse attenevano: a) alla mancata presentazione, senza giustificato motivo, alle convocazioni o agli appuntamenti previsti nel progetto anche da parte di uno solo dei componenti il nucleo familiare; b) alla mancata partecipazione, senza giustificato motivo, anche da parte di uno solo dei componenti il nucleo familiare alle iniziative di orientamento o alle iniziative per la determinazione del profilo personale di occupabilità o, infine, allo svolgimento di attività a fini di pubblica utilità in favore delle comunità territoriali di appartenenza; c) alla mancata accettazione, senza giustificato motivo, di un’offerta di lavoro congrua. La definizione di offerta di lavoro congrua era espressamente ricollegata alla definizione che di essa era evincibile nel d.lgs. n. 150/2015 (si v. art.12, comma 5, d.lgs. n.147/2017 che richiama l’art. 25 del precedente decreto delegato). Si osservi che avverso il provvedimento sanzionatorio, diversamente da quel che accade nella procedura prevista in seno al decreto legislativo n. 150 del 2015, non è prevista l’esperibilità di un ricorso amministrativo. L’irrogazione delle sanzioni e il loro recupero era affidato all’Inps. Ulteriore sanzione di carattere automatico, connessa alla decadenza dal beneficio, era quella che precludeva la possibilità di presentare nuova domanda di fruizione del reddito di inserimento prima del decorso del termine di sei mesi. Termine da calcolare dal giorno di emissione del provvedimento di decadenza. In chiusura di questa sommaria esposizione è però opportuno ricordare che il modello di politica attiva testé delineato non è stato mai posto in essere, a quel che consta, in considerazione della disposizione transitoria che ha riconosciuto, per il biennio 2018 – 2019, il diritto alla percezione del beneficio economico anche in assenza della comunicazione dell’avvenuta sottoscrizione del progetto personalizzato (si rinvia alla lettura del testo dell’art. 26, comma 2).

3. Il reddito di cittadinanza – RdC. Il reddito e la pensione di cittadinanza, istituti introdotti entrambi dal d. l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla l. 28 marzo 2019, n. 26, costituiscono l’ultimo stadio di evoluzione del reticolato legislativo preposto alla tutela delle fasce deboli di po-

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polazione e anche per essi, al pari del ReI è prevista una connessione con le politiche attive e alla condizionalità. Connessione che sfocia in uno “schiacciamento” sulla componente lavoristica10, a detrimento della componente assistenziale che, in operazioni legislative di tal fatta, dovrebbe avere invece una rilevanza preponderante. Il legislatore del 2019 istituisce, come noto: - il reddito di cittadinanza, che costituisce livello essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse disponibili in favore di nuclei familiari; - la pensione di cittadinanza, quale misura di contrasto alla povertà, per i nuclei familiari composti esclusivamente da uno o più componenti di età pari o superiore a 67 anni o per i nuclei familiari in cui un componente o più componenti di età pari o superiore a 67 anni convivano esclusivamente con una o più persone in condizione di disabilità grave o di non autosufficienza. Il diritto al beneficio è disconosciuto, per quel che rileva in questa sede, in capo al componente del nucleo familiare disoccupato a seguito di dimissioni volontarie, nei dodici mesi successivi alla data delle dimissioni, fatte salve le dimissioni per giusta causa (art. 2, comma 3, l. cit.). Il riconoscimento e la fruizione del RdC, contrariamente a quel che era previsto per il ReI, è compatibile con la fruizione della NASpI e della DIS-COLL e di ogni altro beneficio di sostegno al reddito per la disoccupazione involontaria, sempre che ricorrano i requisiti di accesso al citato beneficio (art. 2, comma 8, l. cit.). L’erogazione della prestazione economica denominata RdC, in linea con il delineato trend legislativo, è condizionata dapprima alla presentazione della dichiarazione di immediata disponibilità (cd. DID) al lavoro da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni entro trenta giorni dal riconoscimento del beneficio. Poi all’adesione a un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale – percorso che prevede lo svolgimento: a) di attività al servizio della comunità, b) di attività di riqualificazione professionale, c) di attività tese al completamento degli studi, d) e infine con formula conclusiva vaga di altri impegni individuati dai servizi competenti e finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale (art. 4, comma 1, l. cit.). La presentazione della DID e l’adesione al percorso costituiscono obblighi posti a carico di tutti i componenti il nucleo familiare maggiorenni, non occupati e non frequentanti un regolare corso di studi. Tale modello diviene una possibilità, affidata alla scelta libera del componente il nucleo familiare con disabilità.

10

In questi termini da ultimo: Rossini, Il “tesoretto” del RdC va usato per minori e stranieri, Newsletter di Nuovi lavori, n. 238 del 4 giugno 2019, in www.nuovi-lavori.it, consultato il 6 giugno 2019. Ma si v. ante: Valente, Contrasto alla povertà e promozione del lavoro tra buoni propositi e vecchi vizi, in DRI, 2018, n. 4, 1081; Ponte, Appunti sul reddito di cittadinanza: dalla utopia alla distopia, in DML, 2018, 463. In generale sul reddito di cittadinanza si v. Martone, Il reddito di cittadinanza, una grande utopia, in RDL, 2017, n. 3, 409. Con riguardo all’odierna disciplina si v. Cavallaro, Profili costituzionali e comunitari del reddito di cittadinanza, relazione tenuta al Convegno nazionale del Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro “Domenico Napoletano” l’8 giugno 2019, paper per gentile concessione dell’Autore. In questa sede non può sottacersi che l’attuale crisi di Governo mette a rischio l’attuazione dell’istituto (per i concreti profili posti a rischio si v. Pogliotti, Reddito di cittadinanza le incognite della crisi, in Il Sole24Ore, 11 agosto 2019).

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Di converso da tali obblighi possono essere esonerati: a) i componenti del nucleo familiare con carichi di cura, valutati con riferimento alla presenza di soggetti minori di tre anni o di componenti il nucleo familiare con disabilità grave o non autosufficienza, come definiti ai fini ISEE; b) i componenti del nucleo familiare i quali hanno un reddito da lavoro, autonomo o dipendente, che corrisponde a un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell’art. 13 del T.U.I.R. e nonostante costoro, ai fini di applicazione del beneficio, siano considerati in stato di disoccupazione (art. 4, comma 15-quater): c) i componenti del nucleo familiare che frequentano corsi di formazione; d) i componenti del nucleo familiare che svolgano attività la cui individuazione è affidata alla Conferenza unificata Stato-città e autonomie locali. La sottoscrizione del percorso personalizzato, una volta presentata la DID, passa attraverso lo svolgimento di una serie di attività poste a carico del centro per l’impiego. Il centro per l’impiego innanzitutto procede all’individuazione dei soggetti componenti il nucleo familiare da convocare, previa verifica di esistenza in capo ai medesimi di uno o più dei requisiti tassativamente elencati e che si sostanziano: a) nell’assenza di occupazione da non più di due anni; b) nel fruire della NASpI o di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria o nell’avere terminato la fruizione delle predette prestazioni da non più di un anno; c) nell’avere sottoscritto, negli ultimi due anni, un patto di servizio personalizzato presso i centri per l’impiego come previsto dal decreto delegato di riforma dei servizi per il lavoro e le politiche attive; d) nel non avere sottoscritto il progetto personalizzato previsto dal decreto legislativo di istituzione del ReI. Si osservi che il legislatore garantisce al centro per l’impiego la conoscenza dei componenti il nucleo familiare maggiorenni e di età pari o inferiore a 29, indipendentemente dal possesso da parte di costoro di uno dei requisiti da scrutinare per la successiva sottoscrizione del percorso personalizzato. Il centro per l’impiego, una volta effettuate le operazioni retro delineate e ancor prima di convocare i soggetti, qualora ravvisi che nel nucleo familiare siano presenti particolari criticità11 in relazione alle quali è difficoltoso l’avvio di un percorso di inserimento al lavoro, invia il soggetto ai servizi sociali comunali competenti per il contrasto alla povertà.

11

La concretizzazione dell’espressione “condizioni di particolare criticità”, al fine di assicurare omogeneità di comportamenti a livello nazionale, è affidata alla Conferenza unificata Stato-città e autonomie locali.

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I servizi sociali comunali, a loro volta, provvedono alla convocazione entro trenta giorni dal riconoscimento del beneficio per la valutazione multidimensionale e la sottoscrizione del progetto personalizzato, istituti previsti e disciplinati nel d.lgs. n. 147/201712. Finalmente, una volta effettuate queste attività necessarie e preliminari, nei confronti dei nuclei familiari rimasti e dei componenti di questi rientranti in una di quelle categorie per i quali vi è l’obbligo di sottoscrizione, il centro per l’impiego o uno dei soggetti accreditati a svolgere funzioni e compiti in materia di politiche attive del lavoro (si v. per queste l’art. 12 del d.lgs. n. 150/2015) convocano costoro per la sottoscrizione del “Patto per il lavoro” che equivale al “Patto di servizio personalizzato” (si v. art. 20 d.lgs. ult. cit.)13. Il percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione che in questa ipotesi prende il nome di “Patto per il lavoro” ha un contenuto obbligatorio costituito dall’obbligo in capo al sottoscrittore: a) di registrarsi sulla piattaforma digitale denominata Sistema informativo del reddito di cittadinanza; b) di consultare quotidianamente tale piattaforma, che costituisce supporto nella ricerca attiva del lavoro; c) di accettare di essere avviato alle attività individuate nel Patto per il lavoro; d) di sostenere colloqui psicoattitudinali e le eventuali prove di selezione finalizzate all’assunzione, su indicazione dei servizi competenti e in attinenza alle competenze certificate; e) di accettare almeno una di tre offerte di lavoro congrue; f) di accettare, a pena di decadenza, la prima offerta utile di lavoro congrua se vi è stato il rinnovo del beneficio. La congruità dell’offerta è parametrata innanzitutto agganciandola alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 150/2015. Disciplina questa che è però integrata dalla disposizione speciale contenuta nello stesso testo legislativo n. 26/2019.

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Si osservi che tale modello è quello ordinario allorquando i nuclei beneficiari del reddito di cittadinanza, non annoverino fra i loro componenti alcuno con le caratteristiche tassativamente indicate dal legislatore del 2019 per la sottoscrizione del percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale. Lo stesso modello, di affidamento ai servizi sociali comunali, pare debba trovare applicazione anche nell’ipotesi di nuclei familiari che, pur annoverando componenti per i quali in via teorica è predicabile la sottoscrizione del “Patto per il lavoro”, presentino bisogni complessi e multidimensionali, con la conseguente sottoscrizione del “Patto per l’inclusione sociale” ovverosia del “Progetto personalizzato” (si v. art.4, comma 8). 13 La lettura del tessuto legislativo evidenzia che la sottoscrizione di tale “Patto per il lavoro” dovrebbe avvenire entro 30 giorni dalla presentazione della DID e da tale presentazione allo spirare del trentesimo giorno i centri per l’impiego sono chiamati a svolgere tutte quelle attività necessarie e propedeutiche per l’individuazione di quei nuclei familiari e al loro interno di quei componenti obbligati alla sottoscrizione del predetto. Il predetto Patto e il “Patto per l’inclusione sociale” e i sostegni e l’eventuale precedente valutazione multidimensionale costituiscono livelli essenziali delle prestazioni, nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente.

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La disciplina speciale integrativa menzionata prevede che la predetta congruità è definita anche con riferimento alla durata di fruizione del beneficio del reddito di cittadinanza e al numero di offerte rifiutate. L’offerta di lavoro è ritenuta congrua se ha le caratteristiche tassativamente fissate dal legislatore. Nei primi dodici mesi di fruizione della prestazione: - se si tratta di prima offerta di lavoro, questa è congrua se il posto di lavoro si trova entro cento chilometri dalla residenza del beneficiario, o se è comunque raggiungibile con l’uso di mezzi pubblici; - se si tratta di seconda offerta e nel nucleo familiare non siano presenti componenti con disabilità, come definita ai fini ISEE, questa è congrua se il posto di lavoro si trova entro 250 chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario; - se si tratta di terza offerta e nel nucleo familiare non siano presenti componenti con disabilità, come definita ai fini ISEE, questa è congrua ovunque si trovi il posto di lavoro nel territorio italiano. Una volta trascorsi i primi dodici mesi di fruizione del beneficio, la prima e la seconda offerta di lavoro sono congrue, sempre che nel nucleo familiare non siano presenti componenti con disabilità come definita ai fini ISEE, se il posto di lavoro si trova entro 250 chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario. Nel caso si tratti di terza offerta e fermo restando quanto detto prima, l’offerta di lavoro è congrua ovunque si trovi il posto di lavoro nel territorio italiano. Se poi si tratta di un rinnovo del beneficio, l’offerta di lavoro è congrua, sempre che nel nucleo familiare non siano presenti componenti con disabilità come definita ai fini ISEE, ovunque si trovi il posto di lavoro nel territorio italiano. Specifica modalità attuativa dell’offerta di lavoro congrua si ha anche qualora il nucleo familiare sia composto di figli minori, ancorché i genitori siano separati, ma limitatamente ai primi 24 mesi dall’inizio di fruizione della prestazione. In questa specifica fattispecie: a) nel caso di fruizione entro e post dodici mesi e limitatamente alla terza offerta, il posto di lavoro deve trovarsi entro 250 chilometri dalla residenza del beneficiario; b) non si applica la disciplina generale fissata per il rinnovo. Il modello sin qui sommariamente descritto, con riguardo alle interferenze fra accesso e permanenza al diritto alla prestazione e disponibilità a partecipare alla formazione e ad accettare offerte di lavoro congrue, si chiude con la fase patologica, ovverosia con l’individuazione di un modello sanzionatorio connesso alla violazione delle regole riguardanti l’aspetto di politica attiva. Il legislatore prevede la decadenza dal reddito di cittadinanza, per una serie tassativa di casi che afferiscono a uno dei componenti il nucleo familiare, allorquando questi: - non presenta la dichiarazione di immediata disponibilità; - non sottoscrive il “Patto per il lavoro” o il “Patto per l’inclusione sociale”;

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- non partecipa, senza giustificato motivo, alle iniziative di carattere formativo o di riqualificazione o ad altra politica attiva o di attivazione; - non aderisce ai progetti a titolarità dei comuni; - non accetta almeno una di tre offerte congrue o, in caso di rinnovo, non accetta la prima offerta di lavoro congrua; - non effettua la comunicazione di variazione della condizione occupazionale, per avvio attività d’impresa o di lavoro autonomo , o l’effettua, fornendo dati non veritieri, conseguendone l’erogazione di una prestazione superiore a quella che sarebbe spettata in caso di comunicazione veritiera; - in sede di accesso ispettivo, è trovato che svolge un’attività di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa, e il datore di lavoro o il committente non avevano comunicato l’inizio dell’attività lavorativa almeno il giorno prima dell’inizio dell’attività stessa, fornendo le indicazioni tassativamente previste (si v. in ogni caso l’art. 9-bis, comma 2, della legge 28 novembre 1996, n. 608, di conversione con modificazioni del d.l. 1 ottobre 1996, n. 510); - in sede di accesso ispettivo, è stato trovato intento a svolgere lavoro autonomo o d’impresa e si è constatato il mancato invio della comunicazione all’Inps. Ma il modello sanzionatorio non si ferma a quello sin qui descritto ma prevede altre sanzioni, graduate nella forma della decurtazione della prestazione o della decadenza dalla medesima. Si ha decurtazione della prestazione, decurtazione anch’essa variamente gradata: a) in caso di mancata presentazione, senza giustificato motivo, alle convocazioni dei centri per l’impiego o dei servizi sociali comunali, anche da parte di uno solo dei componenti il nucleo familiare; b) in caso di mancata presentazione, senza giustificato motivo, alle iniziative e laboratori per il rafforzamento delle competenze nella ricerca attiva di lavoro, anche da parte di uno solo dei componenti il nucleo familiare; c) in caso di mancato rispetto degli impegni previsti dal “Patto per l’inclusione sociale” connessi alla frequenza dei corsi di istruzione o di formazione da parte di un componente minorenne o impegni di formazione e cura volti alla tutela della salute, individuati da professionisti sanitari. Come extrema ratio si ha la decadenza dal beneficio in una delle tre fattispecie da ultimo individuate, quando vi è stata una reiterazione di comportamenti violativi delle regole da parte di uno dei beneficiari della prestazione, componenti il nucleo familiare. Ulteriore fattispecie di decadenza le si rinviene infine nella disposizione che, in seno al testo legislativo, disciplina il riconoscimento e l’erogazione dell’assegno di ricollocazione (AdR). Infatti si prevede la decadenza dalla fruizione del RdC se i beneficiari dell’assegno di ricollocazione entro trenta giorni dal suo riconoscimento non scelgono il soggetto erogatore

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del servizio di assistenza intensiva, prendendo appuntamento sul portale informatico messo a disposizione dall’ANPAL (si v. per questo art. 6). E per svolgere tale attività il beneficiario può servirsi anche dei centri per l’impiego e degli istituti di patronato convenzionati. Con riguardo all’assegno di ricollocazione e in considerazione del richiamo fatto dall’art. 9 all’art. 7, si deve ritenere l’applicabilità delle sanzioni di decurtazione e decadenza, nelle ipotesi di rifiuto ingiustificato da parte del percettore l’assegno o a svolgere le attività individuate dal tutor o ad accettare l’offerta di lavoro congrua. Con riguardo all’irrogazione delle sanzioni civili e al suo recupero il soggetto deputato allo svolgimento di tale attività è sempre l’Inps. La disciplina sul reddito di cittadinanza prevede, come detto prima e al pari di quel che è previsto nel d.lgs. n. 150/2015, il riconoscimento dell’assegno di ricollocazione. Riconoscimento che non passa, come ci si potrebbe attendere, solo attraverso il rinvio alla disciplina contenuta nell’art. 23 del d. lgs. ult. cit., ma attraverso l’apprestamento di una disciplina integrativa ad hoc, rinvenibile nella stessa novella legislativa del 2019. Si v. per i profili amministrativi sul sito web dell’ANPAL, la guida sulle “Modalità operative e ammontare dell’Assegno di Ricollocazione nell’ambito del Reddito di Cittadinanza”14. Innanzitutto il legislatore precisa che l’assegno di ricollocazione, con riguardo ai beneficiari del reddito di cittadinanza e tenuti a stipulare il “Patto per il lavoro, ha un ambito di efficacia limitato al 31 dicembre 2021; termine connesso alla prima applicazione del RdC. L’ulteriore beneficio economico è teso a garantire al beneficiario l’ottenimento di un servizio di assistenza intensiva nella ricerca del lavoro. Dalla lettura del testo parrebbe che l’erogazione dell’assegno di ricollocazione (AdR) da parte dell’ANPAL sia automatica e avvenga a favore del beneficiario una volta decorsi trenta giorni dalla liquidazione del RdC. La misura dell’assegno di ricollocazione è funzione del profilo personale di occupabilità, ovverosia si deve ritenere che tanto più basso è il profilo di occupabilità, quanto più alto è l’importo del predetto assegno; e viceversa. Il percettore dell’AdR può spendere lo stesso presso i centri per l’impiego e i soggetti accreditati a svolgere funzioni e compiti in materie di politiche attive del lavoro. Oggetto del servizio di assistenza intensiva nella ricerca del lavoro è, per quel che interessa in questa sede: -.l’affiancamento di un tutor al beneficiario l’AdR; - la redazione di un programma di ricerca intensiva della nuova occupazione, con l’individuazione della relativa area di ricerca e con l’eventuale previsione di un percorso di riqualificazione professionale mirata a sbocchi occupazionali esistenti nell’area stessa; - l’obbligo in capo al beneficiario l’AdR di svolgere le attività individuate dal tutor;

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Si v. per i profili amministrativi sul sito web dell’ANPAL, la guida sulle “Modalità operative e ammontare dell’Assegno di Ricollocazione nell’ambito del Reddito di Cittadinanza”.

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- l’obbligo in capo al beneficiario l’AdR di accettare l’offerta di lavoro congrua, come definita nello stesso testo legislativo e per la quale si rinvia all’esposizione fatta nelle pagine precedenti; - l’obbligo da parte dell’ente che eroga il servizio di assistenza di comunicare al centro per l’impiego e all’ANPAL il rifiuto ingiustificato da parte del soggetto assistito: a) a svolgere le attività individuate dal tutor, b) ad accettare l’offerta di lavoro congrua.

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Giurisprudenza commentata



Giurisprudenza C orte di Cassazione, sentenza 13 marzo 2019, n. 7167; Pres. Nobile – Rel. Negri della Torre – P.M. Mastroberardino, (concl. conf.) – Viv Decoral Roma S.r.l. (Avv.ti A. Diurni e A. Santigalli) c. S.A. (Avv.to T. Sodani) e Servizi Ambientali S.r.l. Conferma App. Roma, sent. n. 3891/2017 Recesso – Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Manifesta insussistenza del fatto – Presupposti valutazione giudiziale – Reintegra – Indennizzo.

La verifica, da parte del giudice di merito, della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo si articola in due momenti distinti, ma coesistenti. In primo luogo, il giudice deve accertare il fatto del licenziamento valutando: se il processo di riorganizzazione o riassetto produttivo sia effettivo, se sussista il nesso di causalità fra quest’ultimo e la perdita del posto di lavoro e se il datore di lavoro non abbia oggettivamente potuto adempiere all’obbligo di repêchage. Nella seconda fase, il giudice deve analizzare le circostanze del caso concreto per determinare se l’insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento sia caratterizzata da una difformità palese rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento. Nel caso riscontri tale manifesta alterità il giudice deve necessariamente applicare la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 7 della l. n. 300 del 1970, non residuando margini di valutazione ulteriori. Svolgimento del Processo – Omissis. La Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado (che aveva ritenuto il recesso datoriale viziato da motivo illecito determinante), escludeva che il licenziamento intimato da Viv Decorai Roma S.r.l. ad A.S. in data 30/6/2014 potesse considerarsi assistito da un giustificato motivo oggettivo, osservando come il reparto, cui la medesima era addetta alla data del provvedimento, fosse stato bensì soppresso in conseguenza di un riassetto organizzativo e produttivo che ne aveva previsto la «esternalizzazione», ma la lavoratrice vi fosse stata collocata, proveniente da altro reparto, in esubero rispetto all’ordinario livello occupazionale: ciò che determinava l’insussistenza di un effettivo collegamento tra il riassetto e la soppressione del posto di lavoro e, con essa, stante l’evidente arbitrio ravvisabile nella condotta datoriale, la manifesta insussistenza del fatto integrante il dedotto giustificato motivo oggettivo, con conseguente applicazione della tutela di cui al comma 4 della l. n. 300/1970 - Omissis. Motivi della Decisione - Con l’unico motivo – Omissis. la società datrice di lavoro censura la sentenza impugnata per non avere considerato che la manifesta insussistenza del fatto - quale presupposto legittimante la tutela reintegratoria ai sensi del co. 4 della legge - ricorre nella sola ipotesi di inesistenza del fatto materiale addotto a sostegno del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e che, nella diversa ipotesi in cui tale fatto materiale invece sussista (come nel caso

di specie – Omissis.), la tutela applicabile è unicamente quella indennitaria prevista dal comma 5. Il motivo è infondato. L’art. 18, così come modificato dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, dispone (comma 7) che il giudice applichi la disciplina di cui al comma 4, e cioè la più forte e incisiva tutela costituita dalla condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro in precedenza occupato e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso sino a quello della effettiva reintegrazione, entro il limite delle dodici mensilità, «nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo»; e che applichi, invece, la disciplina di cui al comma 5, e cioè la condanna del datore di lavoro al solo pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, «nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo». – Omissis. Ne consegue che l’espressione «può altresì applicare», che compare al principio della disposizione in esame, non assegna al giudice un margine ulteriore di discrezionalità – Omissis., posto che, ove il fatto sia caratterizzato dalla «manifesta insussistenza», è unica, e soltanto applicabile, la protezione del lavoratore rappresentata dalla disciplina di cui al comma 4.


Giurisprudenza

Ciò posto, si osserva che l’indagine, che deve compiere il giudice del merito al fine di stabilire se una data fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia o meno caratterizzata dalla «manifesta insussistenza del fatto», si compone di due momenti concettualmente distinti ma coesistenti nell’unitarietà dell’accertamento giudiziale: nel senso che, con il primo di essi, che attiene alla struttura tipica della specifica fattispecie espulsiva, il giudice è chiamato ad accertare il «fatto» del licenziamento in ciascuno degli elementi che concorrono a delinearlo, e pertanto, a procedere ad un’opera di ricognizione tanto della effettiva sussistenza di un processo di riorganizzazione o riassetto produttivo, come della necessaria sussistenza del nesso di causalità fra tale processo e la perdita del posto di lavoro ed inoltre dell’impossibilità per il datore di lavoro di ricollocare il proprio dipendente nell’impresa riorganizzata e ristrutturata (Cass. n. 24882/2017 e numerose conformi); con il secondo, il giudice è chiamato ad una penetrante analisi e valutazione di tutte le circostanze del caso concreto, quale unico mezzo per determinare l’eventuale riconduzione del fatto sottoposto al suo esame all’area

di una insussistenza che deve porsi come «manifesta» e cioè contraddistinta da tratti che ne segnalano, in modo palese, la peculiare difformità rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento. A tali criteri di indagine si è correttamente uniformata la Corte di appello di Roma nella sentenza impugnata, avendo preso in considerazione non soltanto l’intervenuto riassetto organizzativo e produttivo dell’impresa, pacificamente sussistente e incontestato, ma anche la questione dell’esistenza di un nesso effettivo fra tale riassetto e la soppressione del posto di lavoro; e avendo, sul rilievo della strumentale e sovrabbondante collocazione della lavoratrice – Omissis. in un reparto destinato in breve volgere di tempo ad essere soppresso, accertato la palese elisione di tale legame e, con essa, una condotta datoriale obiettivamente e palesemente artificiosa, in quanto diretta all’attribuzione e all’esercizio di un potere di selezione arbitraria del personale da licenziare, come tale integrante il presupposto per l’applicazione della tutela di cui al comma 4. In conclusione, il ricorso deve essere respinto. (Omissis)

Il licenziamento illegittimo: la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo Sommario : 1. I fatti di causa. – 2. Inquadramento giuridico: il licenziamento per

giustificato motivo oggettivo. – 3. Il licenziamento illegittimo: la manifesta insussistenza del fatto e la tutela reale attenuata alla luce della giurisprudenza della Corte di Cassazione. – 4. Riflessioni conclusive.

Sinossi. Dopo aver brevemente analizzato i fatti di causa e inquadrato la nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il commento considera le sanzioni previste nel nuovo testo dell’art. 18 comma 7 st. lav. in relazione al licenziamento illegittimo per «manifesta insussistenza del fatto». La Cassazione, nella pronuncia in esame, stabilisce che ai fini della determinazione dell’illegittimità del licenziamento per manifesta insussistenza del fatto, oltre a valutare l’effettività del mutamento organizzativo e produttivo, il nesso causale e l’obbligo di repêchage, si debbano considerare anche le circostanze del caso concreto. La Corte chiarisce inoltre che, al ricorrere dei presupposti legali, il giudice abbia sempre l’obbligo di applicare la tutela reale attenuata, non potendo contare su alcun margine ulteriore di discrezionalità.

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1. I fatti di causa. La Corte di Cassazione, nella decisione in commento, si pronuncia in merito al tema della sanzione applicabile in caso di illegittimità, per «manifesta insussistenza del fatto», del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Con questa pronuncia essa consolida, fra l’altro, la propria giurisprudenza in merito all’art. 18, comma 7 st. lav. (modificato dalla l. 28 giugno 2012, n. 92). Prima di addentrarsi nell’analisi delle questioni di diritto ad essa sottese è, però, necessario ripercorrere brevemente i fatti di causa. La controversia scaturisce dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato da Viv Decorai Roma S.r.l. ad A.S. in virtù della chiusura del reparto dove la lavoratrice prestava la propria attività, in conseguenza di un riassetto organizzativo e produttivo che ne aveva previsto l’esternalizzazione. Nel ricostruire i fatti, i giudici constatano che la lavoratrice era stata originariamente assunta in un’unità produttiva diversa da quella in cui operava al momento del licenziamento. La sua collocazione nel reparto esternalizzato era infatti avvenuta in un secondo momento, sulla base del presupposto che, nella precedente unità produttiva, ella sarebbe stata in esubero rispetto all’ordinario livello occupazionale. La modificazione del luogo della prestazione era stata considerata dal Tribunale idonea ad elidere il nesso fra il riassetto organizzativo-produttivo e la soppressione del posto di lavoro. Pertanto, il giudice di primo grado aveva ritenuto il recesso datoriale viziato da motivo illecito determinante. Pur partendo dalla medesima considerazione, la Corte d’Appello aveva parzialmente riformato la sentenza individuando la causa dell’illegittimità del licenziamento nella «manifesta insussistenza del fatto integrante il dedotto giustificato motivo oggettivo». I giudici di secondo grado avevano, quindi, applicato la tutela di cui all’art. 18, comma 7 st. lav., condannando il datore di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice e al pagamento di un’indennità risarcitoria non superiore a dodici mensilità. Contro questa decisione la parte datoriale aveva proposto ricorso per Cassazione affermando che la Corte d’Appello avesse erroneamente interpretato la nozione di «manifesta insussistenza del fatto» prevista dalla legge. Secondo il datore di lavoro, la locuzione poc’anzi citata, imporrebbe una valutazione della sola sussistenza del fatto materiale posto alla base del licenziamento e non di circostanze ulteriori. Pertanto, il ricorrente riteneva che, essendovi stata effettivamente esternalizzazione del reparto in cui la lavoratrice prestava la sua attività, i giudici non avrebbero dovuto infliggere la sanzione reintegratoria attenuata, bensì solo quella indennitaria. La Suprema Corte, tuttavia, rigettava questa esegesi e confermava la sentenza della Corte d’Appello.

2. Inquadramento giuridico: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Nel nostro ordinamento, la disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stata introdotta dall’art. 3, seconda parte, della l. 15 luglio 1966, n. 604. Tale norma prevede infatti che il prestatore di lavoro subordinato possa essere legittimamente licen-

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ziato «per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa»1. Il legislatore in tale disposizione valorizza le esigenze produttive dell’impresa, nonché quelle situazioni di impossibilità sopravvenuta riferibili al lavoratore che possono nuocere al funzionamento dell’azienda e che non sono riconducibili al paradigma del licenziamento disciplinare2. Va detto, tuttavia, che la giurisprudenza non si è particolarmente soffermata sulle differenze fra i tipi legali che rientrano nella categoria del giustificato motivo oggettivo. La dottrina, al contrario, ha specificato tali differenze, affermando che le ragioni obiettive alludono al cambiamento degli «strumenti necessari per lo svolgimento dell’attività produttiva», invece quelle produttive si riferiscono alla modifica dinamica, funzionale «al mutamento del prodotto»3. Il licenziamento in parola presuppone, quindi, la necessità di sopprimere uno o più posti di lavoro per oggettive esigenze produttive e organizzative senza che vi sia alcuna possibilità del c.d. repêchage, ossia di un diverso reimpiego della manodopera. Ciò implica che il datore di lavoro deve effettuare una scelta di carattere organizzativo finalizzata al migliore perseguimento dell’interesse economico protetto dall’art. 41 Cost4. In merito alla scelta datoriale la Corte di Cassazione ha chiarito che i criteri di gestione aziendale non possono essere oggetto di sindacato da parte del giudice5: essi sono infatti espressione della libertà di iniziativa economica; ciò che è invece consentito è la valutazione della reale sussistenza del motivo posto a fondamento del provvedimento datoriale6. In altre parole, a fronte dell’impossibilità di valutare le modalità di gestione dell’impresa, il giudice deve controllare l’esistenza fattuale del motivo addotto dal datore di lavoro, sul quale pende l’onere della prova7. Una giurisprudenza minoritaria, ma comunque degna di nota, afferma che l’insindacabilità degli atti gestori non sia assoluta, ma vada valutata alla luce dei fini perseguiti dal datore di lavoro8. Questa lettura è stata contrastata sia dalla dottrina, sia dal legislatore, che con l’art. 30, comma 1 della l. 4 novembre 2010, n. 183 ha stabilito che in caso di estin-

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Per la dottrina sul tema v. Bracci, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Di Paola, (a cura di), Il licenziamento. Dalla legge Fornero al Jobs Act, Giuffrè, 2016, 214 ss., Biasi, Saggio sul licenziamento per motivo illecito, Cedam, 2017, 15-77, Brun, Il licenziamento economico tra esigenze dell’impresa e interesse alla stabilità, Cedam, 2012, 13 ss., nonché Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo. Lavoro privato e pubblico, Cedam, 2015, 223. In ambito giurisprudenziale, fra le altre, cfr. Cass., 30 giugno 2009, n. 15336 disponibile al sito web http://www.cortedicassazione.it. In merito cfr. Bracci, op. cit., 2016, 214. Per approfondire v. Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Franco Angeli, 1980. Cfr. sulla questione Cass., 18 marzo 2013, n. 6710, nonché Cass., 13 marzo 2013, n. 6333 disponibile al sito web www.cortedicassazione. it. Per approfondire v. anche Brun, Il licenziamento economico tra esigenze dell’impresa e interesse alla stabilità, Cedam, 2012, 18 ss. e Ghera, Garilli, Garofalo, Diritto del Lavoro, Giappichelli, 2017, 256 ss. In merito si cfr. Cass., 4 novembre 2004, n. 21121, in D&G, 2004, 45, 120 (relativa all’insindacabilità della decisione datoriale di gestione dell’impresa, alla quale era conseguito il licenziamento economico), nonché Cass., 11 luglio 2011, n. 15157 e in senso conforme Cass., 12 ottobre 2015, n. 20420 e Cass., 10 marzo 2015, n. 4757 disponibili al sito web www.cortedicassazione.it. Sul punto v. Cass., 1° luglio 2016, n. 13516 disponibile al sito web www.cortedicassazione.it Sulla questione del sindacato si è espressa la Corte di Cassazione, fra le altre, in Cass., 3 luglio 2015, n. 13678 e conformi Cass., 22 dicembre 2008, n. 2936 e Cass., 2 ottobre 2006, n. 21282 disponibili al sito web www.cortedicassazione.it. Per quanto riguarda la riflessione dottrinale cfr. Pera, La rilevanza dell’interesse dell’impresa nella motivazione dei licenziamenti collettivi, in DL, 1972, I, 74 e 75. Sul punto cfr. Cass., sez. un., 11 aprile 1994, n. 3353, in FI, 1994, 117, 1351.

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zione del rapporto di lavoro «il controllo giudiziale è limitato esclusivamente […] all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente»9. L’effetto desiderato è stato sortito solo in parte. In anni recenti, infatti, la Suprema Corte ha nuovamente messo in discussione l’insindacabilità degli atti gestori affermando che «la necessità di soppressione del posto […] non può essere meramente strumentale ad un incremento del profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti»10. Ad ogni buon conto, nella prassi la giurisprudenza svolge un controllo cauto e razionale dei motivi posti a fondamento del licenziamento che ha come fulcro la valutazione «dell’inerenza della scelta imprenditoriale e delle ragioni del conseguente licenziamento alle situazioni oggettive normativamente fissate, nonché della sussistenza del nesso causale fra tale motivo e la soppressione del posto»11. La giurisprudenza di Cassazione ha, infatti, approntato uno schema dei presupposti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo che utilizza al fine di valutarne la legittimità. In primo luogo, il giudice è chiamato a verificare che le ragioni produttive e organizzative poste a fondamento del licenziamento siano effettive e non abbiano carattere pretestuoso12. In un secondo momento, si deve valutare la diretta consequenzialità fra le ragioni addotte dalla parte datoriale e la soppressione dello specifico posto di lavoro (nesso causale). Infine, il giudice deve verificare se il datore di lavoro abbia adempiuto all’obbligo di repêchage13, ovvero abbia dato prova dell’impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno dell’apparato produttivo anche adibendolo a mansioni diverse o inferiori (demansionamento conservativo14). Tale onere include pure la dimostrazione che, al momento del licenziamento, i posti astrattamente

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In senso conforme al dettato della l. n. 183/2010 si è espressa Cass., 21 ottobre 2015, n. 23620 disponibile al sito web www. cortedicassazione.it. Per approfondire v. Confessore, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: repêchage e demansionamento, in GI, 2014, 8, nonché Bracci, op. cit., 2016, 217 ss., Ferraresi, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento: Dalla legge 604 del 1966 al contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2016, 71 ss, nonché Id., Recenti sviluppi del dibattito sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Dall’apparato sanzionatorio alla fattispecie, in ADAPT WP, n. 12/2017, 6-9. 10 V. Cass., 16 marzo 2015, n. 5173, in RGL, 2015, 4, II, 574, con nota di Salvagni. 11 Cfr. con Tatarelli, op. cit., 2015, 224; per approfondire v. anche Cass., 3 maggio 2017, n. 10699, in RIDL, 2017, II, 743, con nota di Pallini, nonché Brun, op. cit., 2012, 33 ss. 12 Rispetto alla non pretestuosità delle motivazioni addotte dal datore di lavoro si è espressa Cass., 23 ottobre 2013, n. 24037, in Boll. Adapt, n. 38/2013, 3, affermando che: «se non è sindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, occorre pur sempre […] che risulti l’effettività e la non pretestuosità delle ragioni addotte dall’imprenditore, a giustificazione della soppressione, in via mediata attraverso l’indicazione delle motivazioni economiche che tale scelta hanno determinato. In altri termini, al giudice è demandato il compito di riscontrare nel concreto, seppure senza ingerenza alcuna nelle valutazioni di congruità e di opportunità economiche rimesse all’insindacabile scelta dell’imprenditore, la genuinità del motivo oggettivo indicato a giustificazione del licenziamento (ossia la sua effettività e la sua non pretestuosità) e il nesso di causalità tra tale motivo e il recesso». 13 Sul punto v. Cass., 2 maggio 2018, n. 10435, in Labor, 2018, 5, con nota di Borzaga, nonché Cass., 11 dicembre 1998, n. 12548, in MGL, 1999, 19 e Cass., 20 dicembre 1995, n. 12999, in LG, 1996, 506, nonché Brun, op. cit., 2012, 33 ss. e Carinci, L’obbligo di «ripescaggio» nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs Act, in RIDL, 2017, I, 203 ss., spec. 209 ss. 14 Sul punto Cass., 28 ottobre 2015, n. 22029, in Boll. Adapt, n. 39/2015, 1-5, ha stabilito che nel caso in cui il datore di lavoro proceda a un demansionamento conservativo, con l’intento di scongiurare i licenziamenti, l’onere della prova riguardo la possibilità di mantenere le mansioni svolte in precedenza ricade sul lavoratore.

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occupabili dal lavoratore non fossero vacanti e che non si sia provveduto a ulteriori assunzioni in sostituzione del licenziato successivamente alla sua espulsione dall’impresa15. Più complesso appare il profilo della soppressione solo parziale delle mansioni del lavoratore, ovvero della loro distribuzione ad altri reparti aziendali16. Sul punto non vi è ancora unanimità di vedute17: per questo la Cassazione ha chiarito, recentemente, che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è in linea di principio legittimo se le mansioni prima svolte dal lavoratore sono state solo parzialmente soppresse o sono state redistribuite ad altri settori dell’impresa per insindacabile giudizio dell’imprenditore18. D’altro canto, i supremi giudici, consci dei rischi che una tale lettura porta con sé, hanno provveduto a più riprese19 a richiamare la giurisprudenza di merito ad una verifica attenta del nesso di causalità fra scelta datoriale e licenziamento e alla necessità di valutare approfonditamente la conformità dei motivi addotti ai paradigmi legali20. Fatte queste rilevanti premesse, va messo in luce come nella decisione in esame assuma particolare importanza il ragionamento condotto dalla Corte di Cassazione in ordine alla struttura della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La decisione in commento ha infatti preso le mosse da tale struttura al fine di qualificare il tipo di accertamento che il giudice deve operare in caso di licenziamento illegittimo per «manifesta insussistenza del fatto».

3. Il licenziamento illegittimo: la manifesta insussistenza

del fatto posto alla base del licenziamento e la tutela reale attenuata alla luce della giurisprudenza della Corte di Cassazione. Ricostruito il quadro giuridico in cui si inserisce questa pronuncia e delineati i caratteri generali del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è opportuno concentrarsi

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Sul punto cfr. Cass., 23 gennaio 2003, n. 1008, in MGL, 2003, 256; Cass., 4 settembre 1997, n. 8505, in DL, 1998, 178; Cass., 3 giugno 1994, n. n. 5401, in NGL, 1994, 666. 16 Cass., 4 novembre 2004, n. 21121, richiamata in sentenza, Cass., 2 ottobre 2006, n. 21282, entrambe disponibili al sito www. iusexplorer.it; Cass. 14 giugno 2000, n. 8135, in OGL, 2000, 742; Cass., 15 novembre 1993, n. 11241, in RIDL, 1994, II, 766, con nota di Marone. Cfr. Cass., 21 novembre 2011, n. 24502 disponibile al sito web www.cortedicassazione.it, nonché nel senso più generale di una attenta verifica del nesso di causalità fra scelta organizzativa e licenziamento v. Cass., 21 luglio 2016, n. 15082, in D&G, 2016, 33, 78, con nota di Leverone. Contra, tuttavia, Cass., 24 giugno 1995, n. 7199, in D&L, 1996, 496, con nota di Muggia; App. Torino, 30 marzo 2009, in RGL, 2010, II, 316, con nota di Spinelli. 17 Il Mazzotta, op.cit., 2018, 707 riferisce che la questione appare ancora aperta; di diverso avviso Del Punta, Diritto del lavoro, Giuffrè, 2016, 637, che dà per assodata la questione sottolineando l’interpretazione della Cassazione per cui non possa ritenersi a priori illegittimo il licenziamento in caso di redistribuzione o soppressione parziale delle mansioni del lavoratore. 18 Cfr. Cass., 2 ottobre 2006, n. 21282, in MGC, 2006, 10. 19 Cass., 21 novembre 2011, n. 24502, Cass., 21 luglio 2016, n.15082, Cass., 1 luglio 2016, 13516 disponibili al sito web www. cortedicassazione.it. 20 Cfr. Cass., 6 luglio 2012, n.11402 disponibile al sito web www.cortedicassazione.it; nonché Cass., 16 marzo 2007, n. 6229, in GLav, 2007, 32, con nota di Zambelli.

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sulle due principali questioni risolte dalla sentenza in esame. Il pregio di questa decisione sta tanto nell’aver precisato gli indici che permettono di individuare le ipotesi di licenziamento illegittimo per «manifesta insussistenza del fatto» quanto nell’aver risolto la questione dei margini di discrezionalità del giudice in merito alla sanzione da applicare in quest’ipotesi21. Le due problematiche sono fra loro strettamente connesse e interdipendenti. A fini di questa trattazione, tuttavia, pare opportuno considerare prima la questione della latitudine dei poteri sanzionatori del giudice per poi risalire ai presupposti giuridici che li legittimano. La questione nasce dal dettato dell’art. 18, comma 7 st. lav., il quale prevede – tramite rimando al comma 4 e al comma 5 della medesima disposizione – che, in caso di licenziamento illegittimo per «manifesta insussistenza del fatto», il giudice «può altresì applicare» la sanzione della tutela reintegratoria attenuta ovvero quella economica rafforzata22. Alla base della questione sta l’utilizzo, da parte de legislatore, della locuzione «può altresì applicare» che sembrerebbe lasciare libero l’organo giudicante di infliggere la sanzione più opportuna al caso concreto. A tal proposito la dottrina ha formulato due ipotesi interpretative diametralmente opposte. La prima valorizza il dato letterale della norma, affermando quindi che il giudice ha il compito di decidere il tipo di sanzione da imporre sulla base di un contemperamento fra l’interesse del lavoratore e quello dell’impresa. La seconda – sposata dalla Cassazione – asserisce, invece, che il legislatore non ha voluto attribuire alcuna discrezionalità al giudice, ma ha semplicemente differenziato la tutela applicabile in base alla maggiore o minore evidenza dell’insussistenza del fatto23. Questa lettura, pur discostandosi maggiormente dalla lettera della legge, è però in grado di ricostruire sistematicamente e teleologicamente il regime sanzionatorio contro il licenziamento illegittimo. Se è vero, infatti, che la riforma Monti-Fornero ha ridotto le tutele contro i licenziamenti, è altresì vero che l’obiettivo del diritto del lavoro permane quello di porre un freno allo squilibrio esistente nella relazione fra il datore di lavoro e il lavoratore24. Interpretando la norma nel senso che il giudice, accertata la «manifesta insussistenza del fatto», applichi la reintegrazione attenuata, la Corte non fa altro che conformarsi ai principi generali del diritto del lavoro25. Chiarito il profilo sanzionatorio, è necessario soffermarsi sui suoi presupposti. L’art. 18, comma 7 st. lav. prevede che il lavoratore illegittimamente licenziato possa essere reinte-

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Per approfondire gli sviluppi recenti sulla questione v. Ferraresi, Recenti sviluppi del dibattito sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Dall’apparato sanzionatorio alla fattispecie, in ADAPT WP, n. 12/2017, nonché Id., Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento – Dalla legge 604 del 1966 al contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2016, capp. III e IV. 22 Cfr. Di Paola, Le varie forme di tutela avverso il licenziamento individuale illegittimo, in Di Paola, op. cit., 2016, 14 ss. 23 Ci informa Tatarelli, op. cit., 2016, 275, che la questione del margine di apprezzamento del giudice rispetto alla sanzione da applicare non è affatto pacifica. 24 I principi generali del diritto del lavoro sono sapientemente espressi in F. Santoro-Passarelli, Spirito del diritto del lavoro, in Saggi di diritto civile, Jovene, 1961, 1071, il quale afferma «se tutti gli altri contratti riguardano l’avere delle parti, il contratto di lavoro riguarda l’avere dell’imprenditore, ma per il lavoratore riguarda e garantisce l’essere, il bene che è condizione dell’avere e di ogni altri bene». 25 Per una lettura teleologicamente orientata del diritto del lavoro al fine di proteggere il contraente debole si esprime unanimemente la dottrina. Per approfondire si v. G. Santoro-Passarelli, Diritto dei lavori e dell’occupazione, Giappichelli, 2017, 7 ss.; Mazzotta, Manuale di diritto del lavoro, Cedam, 2018, 179 ss.

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grato qualora si accerti la «manifesta insussistenza del fatto». Il tenore della disposizione è alquanto ambiguo. La prima problematica che si presenta all’interprete è quella della qualificazione dell’attributo «manifesta» riferito all’insussistenza del fatto. La questione del criterio enfatico è stata ed è oggetto di dibattito. Una parte importante della dottrina è scettica sulla possibilità di graduare gli eventi posti alla base del licenziamento, pertanto ritiene trascurabile l’attributo in parola, facendo unicamente riferimento all’esistenza o all’inesistenza del fatto26. Al contrario, altri valorizzano il requisito dell’«insussistenza manifesta» come elemento fondamentale della qualificazione del fatto storico. Questa lettura ritiene che la graduazione delle circostanze di fatto sia parte integrante della fattispecie astratta: essa cioè enfatizza il requisito rendendolo il punto focale della valutazione del giudice. La sentenza in oggetto aderisce invece ad una diversa interpretazione, che valorizza l’attributo «manifesta» in chiave processuale. Alla luce di questa lettura, il requisito sostanziale per individuare la legittimità del licenziamento sarebbe solamente quello della sussistenza del fatto – giuridicamente inteso – mentre l’attributo enfatico avrebbe unicamente la funzione di permettere al giudice di individuare il tipo di sanzione applicabile nel caso concreto. In altre parole, questo indice assumerebbe rilievo processuale dal momento che permetterebbe di discernere i casi di insussistenza manifesta da quelli di mera violazione dei presupposti del licenziamento, consentendo l’applicazione della sanzione più adeguata (reintegra attenuta ovvero tutela economica rafforzata), senza influire direttamente sulla tipicità27. La seconda problematica affrontata dalla pronuncia è quella della qualificazione della nozione di «fatto» prevista dall’art. 18, comma 7 st. lav. Sul punto, due interpretazioni contrastati si sono fronteggiate sin dall’approvazione della l. n. 92/2012. La prima lettura aveva un chiaro carattere restrittivo, essa sosteneva che bisognasse dare risalto al contenuto materiale e storico del presupposto di «fatto». In altri termini, chi propendeva per questa tesi riteneva che il giudice dovesse unicamente verificare se la circostanza allegata dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento esistesse nella realtà storica28. In totale dissenso si esprimeva una seconda dottrina che sosteneva la necessità di qualificare il «fatto» non come «materiale», ma come «giuridico», valorizzando gli indici giurisprudenziali predisposti per la valutazione della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Lo scopo dei sostenitori di questa diversa interpretazione era volto a

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Al riguardo v. Tatarelli, op. cit., 2015, 273 e Id., Lavoratore con tutela differenziate in caso di licenziamento illegittimo, in Aa.Vv., La riforma del lavoro. Il sole 24 ore – Guida normativa, 2012 che esprime significative perplessità sulla valorizzazione del criterio enfatico. 27 Per approfondire v. Tatarelli, op. cit., 2015, 273 ss., nonché App. Catanzaro, 21 aprile 2015, in RIDL, 2015, 4, 927, con nota di Buoso. Più in generale sul tema v. Ballestrero, Il giustificato motivo di licenziamento. Una rilettura della giurisprudenza della Cassazione alla luce della riforma dell’art. 18 st. lav., in LD, 2013, 4, 559 e Mariucci, È proprio un very bad text? Note critiche alla riforma MontiFornero, in LD, 2012, 3-4, 415. 28 V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in RIDL, 2012, I, 521 ss., spec. 558 ss. nonché, Id., La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e giurisprudenza, WP D’Antona, It., n. 190/2013, 1 ss., spec. 34 ss.

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creare spazi di flessibilità all’interno dei rigidi margini legali in modo da estendere la tutela reintegratoria attenuta ad una serie di casi che altrimenti ne sarebbero stati esclusi29. Questa seconda lettura prevale in giurisprudenza ed è cristallizzata nella decisone in parola, che stabilisce chiaramente che il «fatto» vada interpretato in senso «giuridico»30. A tal fine la Suprema Corte bipartisce lo scrutinio giudiziale in due fasi fra loro distinte, ma strettamente connesse dallo scopo finale di verificare la legittimità del provvedimento datoriale31. In un primo momento lo scrutinio si deve concentrare sull’analisi del «fatto» al fine di qualificarlo giuridicamente. Per questo motivo il giudice deve vagliare le componenti essenziali32 del giustificato motivo oggettivo: a) l’effettività del mutamento organizzativo e produttivo, b) la sussistenza del nesso causale, c) l’impossibilità di adempiere all’obbligo di ricollocare il lavoratore nel nuovo processo produttivo (repêchage33). Valutata la questione di fatto, la Cassazione afferma «che il giudice è chiamato ad una penetrante analisi e valutazione di tutte le circostanze del caso concreto, quale unico mezzo per determinare l’eventuale riconduzione del fatto sottoposto al suo esame all’area di una insussistenza che deve porsi come “manifesta”, e cioè contraddistinta da tratti che ne segnalano, in modo palese, la peculiare difformità rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento»34. Questi due momenti sono definiti come «concettualmente distinti ma coesistenti nell’unitarietà dell’accertamento giudiziale»35: si sancisce così che l’accertamento giudiziale non può limitarsi ad una semplice verifica dei presupposti materiali posti a fondamento del licenziamento, ma deve addentrarsi in uno studio capace di valutare anche i risvolti precipuamente giuridici del fatto. Alla luce dello scrutinio in parola tre sono i possibili esiti36. La prima ipotesi è quella in cui il fatto posto a fondamento del licenziamento per motivo oggettivo palesemente non sussista (ad esempio, perché non sussiste alcuna modifica dell’assetto organizzativo e produttivo): in questa circostanza il giudice impone la reintegrazione e l’indennizzo forfettizzato. All’opposto abbiamo il caso in cui effettivamente il fatto sussiste ed è conforme ai

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V. Speziale, op.cit., 2012, I, 521 ss., spec. 558 ss. nonché, Id., op.cit., 2013, 190, 1 ss., spec. 34 ss. Come espressamente previsto al punto quinto della sentenza in esame. 31 Come espressamente previsto al punto sesto della sentenza in esame. 32 In merito agli indici costitutivi dello scrutinio del giudice in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo v. Persiani, La tutela dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, in Riva Sanseverino, Mazzoni, (diretto da), Nuovo Trattato di diritto del lavoro, Cedam, 1971, 386; nonché Pera, La cessazione del rapporto di lavoro, in GC, 1980, 19; mentre per la giurisprudenza in merito cfr. Cass., 15 febbraio 2017, 4015, in GD, 2017, 12, 95; Cass., 16 marzo 2015, n. 5173, in D&G, 2015; Cass., 24 febbraio 2012, n. 2874, in GC Mass., 2012, 2, 220. 33 La questione del repêchage è stata oggetto di vari interventi della dottrina, per una panoramica completa v. Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i principi costituzionali, in DLRI, 2007, 648. Sullo stesso profilo cfr. Brun, L’obbligo di repêchage tra elaborazione giurisprudenziale e recenti riforme, in RIDL, 2013, 781 e Santoro-Passarelli G., Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in DRI, 2015, 58. In merito alla giurisprudenza v. anche il commento alla sentenza Cass., 2 maggio 2018, n. 10435, in Labor, 2018, 5, con nota di Borzaga, Le conseguenze sanzionatorie in caso di illegittimità del licenziamento economico per mancato rispetto dell’obbligo di repêchage. 34 Come letteralmente statuito al punto sesto, ultima parte, della sentenza in commento. 35 Come letteralmente stabilito al punto sesto, prima parte, della sentenza in commento. 36 V. Tatarelli, op. cit., 2015, 273 30

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Giurisprudenza

requisiti giuridici previsti per il suo scrutinio, caso in cui il giudice rigetterà l’impugnazione del lavoratore. Residua infine un’ultima ipotesi, ossia quella in cui – come nella sentenza in commento – il fatto materiale sussista, ma, alla luce dello scrutinio del giudice, non sia qualificabile come fatto giuridicamente idoneo a motivare il licenziamento. In quest’ipotesi il giudice deve considerarlo come manifestamente non sussistente e, in base alla valutazione della difformità rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento, applicare la tutela reale attenuata37.

4. Riflessioni conclusive. Alla luce di quanto esposto nelle pagine che precedono, si può certamente concludere che i due nodi giuridici rilevanti che danno risalto a questa decisione sono, da un lato, la ricostruzione dei requisiti e del paradigma valutativo della «manifesta insussistenza del fatto» e, dall’altro, la delimitazione della discrezionalità del giudice riguardo alla sanzione da irrogare. In merito al primo punto, la Cassazione ha chiarito che il giudice – nello scrutinio circa la legittimità del provvedimento datoriale – deve seguire un ragionamento bifasico: dapprima deve esaminare la sussistenza del «fatto» in senso giuridico, alla luce degli indici del giustificato motivo oggettivo (effettività del mutamento organizzativo e produttivo, sussistenza del nesso causale, impossibilità del repêchage). In secondo luogo, il giudice dovrà considerare il parametro processuale della «manifesta insussistenza» vagliando le circostanze del caso concreto al fine di individuare il grado di evidenza della difformità fra di esse e la semplice insussistenza dei «presupposti del licenziamento». La seconda importante questione risolta verte sulla latitudine dei poteri del giudice in merito all’inflizione della sanzione. L’art. 18 st. lav., nel comminare la sanzione per il licenziamento per «manifesta insussistenza del fatto», sembrerebbe stabilire che il giudice possa infliggere alternativamente la tutela reintegratoria attenuata o la sanzione economica. Sul punto la sentenza chiarisce che non vi è alcun margine di discrezionalità ulteriore: se il giudice verifica che il licenziamento è illegittimo per «manifesta insussistenza del fatto» deve necessariamente applicare la tutela reale attenuata. Il pregio di questa decisione è dunque quello di aver fatto finalmente chiarezza in merito a due questioni centrali per l’applicazione della disciplina dell’art. 18, comma 7 st. lav. rafforzando le tutele contro il licenziamento illegittimo e recuperando, in questo modo, margini importanti di protezione per il soggetto debole del rapporto di lavoro. Michele Mazzetti

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V. Tatarelli, op. cit., 2015, ibid.

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Giurisprudenza C orte di Cassazione, sentenza 20 febbraio 2019, n. 4951; Pres. G. Bronzini – Est. Ponterio – P.M. Mastroberardino (concl. conf.) – S.S.F. società cooperativa (avv. Musti, Fortunat) c. D.C. (avv. Maggiani). Conferma App. Genova sent. n. 232/2016 Lavoro (rapporto) – Socio lavoratore di cooperativa – Art. 3, l. n. 142/2001 e art. 7, d.l. n. 248/2007 conv. in l. n. 31/2008 – Trattamento economico complessivo non inferiore ai minimi previsti dal contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria – Individuazione della categoria e del relativo c.c.n.l. da utilizzare quale parametro.

Ai sensi dell’art. 3, l. n. 142/2001 e dell’art. 7, d.l. n. 248/2007 conv. in l. n. 31/2008, il parametro per la definizione del trattamento economico complessivo da riconoscere ai soci lavoratori di cooperativa è costituito dai minimi previsti dal contratto collettivo sottoscritto, sia per la parte sindacale che per parte datoriale, dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria (nel caso di specie, il c.c.n.l. applicato dalla cooperativa, pure sottoscritto dalle sigle sindacali confederali dei lavoratori Cgil, Cisl e Uil, risulta stipulato, per parte datoriale, da un’unica organizzazione sindacale, il che – ad avviso della Corte – rende evidente il ristretto ambito applicativo dello stesso e, nel contempo, non soddisfa il requisito previsto a livello legislativo). Fatti di causa. – 1. La Corte d’appello di Genova, con sentenza n. 232 pubblicata il 10.6.2016, in accoglimento dell’appello proposto da C.D. e in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato il diritto della predetta (già dipendente della cooperativa I.F. e transitata dall’1.1.11, con passaggio diretto, alle dipendenze di S.S.F. soc.coop., aggiudicataria dell’appalto di vigilanza e guardianato presso la M. di La Spezia) ad essere retribuita in ragione delle tariffe salariali contenute nel c.c.n.l. “Pulizie Multiservizi”, livello III, con conseguente diritto alle differenze retributive maturate, anziché in base al c.c.n.l. Portieri e Custodi richiamato nel regolamento della cooperativa. 2. La Corte di merito, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che l’obbligo per la società cooperativa di applicare il trattamento economico previsto dal contratto collettivo nazionale del settore o della categoria affine a quella in cui la stessa opera, derivasse dalla legge (art. 3, L. n. 142 del 2001) e non dall’adesione della cooperativa ad una determinata associazione sindacale e che tale obbligo, in quanto posto da una norma imperativa, dovesse prevalere sui diversi accordi eventualmente stipulati con il singolo socio lavoratore. 3. Ha sostenuto che, in base al settore in cui opera S. secondo il suo oggetto sociale (servizi per la conservazione e tutela del patrimonio mobiliare e immobiliare di operatore logistico di controllo degli accessi) e alle prestazioni rese dalla C., la contrattazione collettiva di riferimento non potesse essere il c.c.n.l. Portieri e Custodi, relativo ai rapporti di lavoro dei dipendenti di proprietari di fabbricati, bensì quello per il settore

Pulizia Multiservizi, concernente i rapporti di lavoro degli addetti alle pulizie, alla manutenzione, al controllo degli accessi degli immobili e, in generale, ai servizi integrati svolti a favore di terzi da imprese del settore pulizie o altre imprese di servizi. 4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la S., affidato a cinque motivi, cui ha resistito con controricorso la sig.ra C.. 5. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. Ragioni della decisione. – Omissis. 3. Col terzo motivo la società ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 3, L. n. 142 del 2001, 2070 c.c. e dell’art. 39 Cost., per avere la Corte di merito fatto discendere dall’art. 3 citato l’obbligo per parte datoriale di applicare il c.c.n.l. Multiservizi, anziché il c.c.n.l. Portieri e Custodi. Ha sottolineato come, al contrario, l’art. 3 imponesse alle società cooperative solo di applicare un trattamento economico complessivo “non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine”, lasciando alle stesse la facoltà di scegliere i parametri retributivi anche di categorie affini a quelle in cui la cooperativa medesima opera, come nel caso di specie il c.c.n.l. Portieri e Custodi, applicato da S.. Ha affermato come il c.c.n.l. Portieri e Custodi soddisfacesse il requisito richiesto dall’art. 7, D.L. n. 248 del 2007, in quanto stipulato dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria e che semmai, in base all’oggetto sociale della


Giurisprudenza

società datoriale e alle mansioni della C., si sarebbe dovuto applicare il c.c.n.l. Servizi Fiduciari stipulato l’8.4.2013. 4. Col quarto motivo S. ha dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione del c.c.n.l. Proprietari di Fabbricati – Aziende di servizi e del c.c.n.l. Multiservizi nonché degli artt. 36 e 39 Cost.. 5. In particolare, ha sostenuto come, ai sensi dell’art. 1 del c.c.n.l. Multiservizi, quest’ultimo contratto dovesse trovare applicazione solo in mancanza di altro c.c.n.l. più aderente all’attività effettivamente svolta da una determinata impresa e come le mansioni svolte dalla C. fossero coincidenti con le previsioni dell’art. 17, c.c.n.l. Portieri e Custodi. 6. Col quinto motivo la società ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c. e 2697 c.c. per avere la Corte di merito ritenuto applicabile il trattamento previsto dal c.c.n.l. Multiservizi benché la C. non avesse allegato e dimostrato la non attinenza del c.c.n.l. Portieri e Custodi alle mansioni dalla stessa svolte e all’attività di S., nonché l’inidoneità ai fini dell’art. 36 Cost. del trattamento previsto dal citato contratto collettivo. 7-11. Omissis. 12. Il terzo, quarto e quinto motivo di ricorso possono essere trattati congiuntamente in quanto investono, da diversi punti di vista, l’interpretazione e l’applicazione della disciplina dettata sul trattamento economico dei soci lavoratori di cooperativa. 13. Al riguardo sono necessarie alcune premesse. 14. La L. n. 142 del 2001, nell’ottica di estendere ai soci lavoratori di cooperativa le tutele proprie del lavoro subordinato, ha disposto all’art. 3, comma 1, che: “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300, le società cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo”. 15. Sulla stessa linea si colloca la previsione dell’art. 6, comma 2, della medesima legge che, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 9, lett. f), L. n. 30 del 2003, ha stabilito come il rinvio ai contratti collettivi nazionali operasse solo per il “trattamento economico minimo di cui all’articolo 3, comma 1”, escludendo che il regolamento cooperativo potesse contenere disposizioni derogatorie in peius rispetto a tale trattamento minimo. 16. In questo contesto è intervenuto il D.L. n. 248 del 2007, convertito in L. n. 31 del 2008, che all’art. 7

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comma 4 ha previsto: “Fino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”. 17. Tale previsione, come si legge in Corte Cost. n. 51 del 2015, è stata adottata all’indomani del Protocollo d’intesa, sottoscritto il 10 ottobre 2007 da Ministero del lavoro, Ministero dello sviluppo economico, AGCI, Confcooperative, Legacoop, CGIL, CISL, UIL, in cui il Governo assumeva l’impegno di avviare «ogni idonea iniziativa amministrativa affinché le cooperative adottino trattamenti economici complessivi del lavoro subordinato, previsti dall’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, non inferiori a quelli previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro sottoscritto dalle associazioni del movimento cooperativo e dalle organizzazioni sindacali per ciascuna parte sociale comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nel settore di riferimento» (punto C). L’obiettivo condiviso dai firmatari del Protocollo è di contestare l’applicazione di contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni datoriali e sindacali di non accertata rappresentatività, che prevedano trattamenti retributivi potenzialmente in contrasto con la nozione di retribuzione sufficiente, di cui all’art. 36 Cost., secondo l’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza in collegamento con l’art. 2099 cod. civ.”. 18. L’art. 7 in esame, al pari dell’art. 3, L. n. 142 del 2001, richiama i trattamenti economici complessivi minimi previsti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative, quale parametro esterno e indiretto di commisurazione del trattamento economico complessivo ai criteri di proporzionalità e sufficienza della retribuzione, previsti dall’art. 36 Cost., di cui si impone l’osservanza anche al lavoro dei soci di cooperative. 19. Il fatto che nel tempo sia stata attribuita alla contrattazione collettiva, nel settore privato e poi anche nel settore pubblico, il ruolo di fonte regolatrice nell’attuazione della garanzia costituzionale di cui all’art. 36 Cost., non impedisce al legislatore di intervenire a fissare in modo inderogabile la retribuzione sufficiente, attraverso, ad esempio, la previsione del salario minimo legale, suggerito dall’OIL come politica per garantire una “giusta retribuzione” (ed oggetto dell’art. 1, comma 7, lett. g) delle legge delega n. 183 del 2014, in questa parte rimasta inattuata) oppure, come avvenuto nella materia in esame, attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva.


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20. L’attuazione per via legislativa dell’art. 36 Cost., nella perdurante inattuazione dell’art. 39 Cost., non comporta il riconoscimento di efficacia erga omnes del contratto collettivo ma l’utilizzazione dello stesso quale parametro esterno, con effetti vincolanti (cfr. Corte Cost. n. 51 del 2015). 21. L’art. 7, L. n. 31 del 2008 presuppone un concorso tra contratti collettivi nazionali applicabili in un medesimo ambito (“in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria”) e attribuisce riconoscimento legale ai trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria e quindi presumibilmente capaci di realizzare assetti degli interessi collettivi più coerenti col criterio di cui all’art. 36 Cost., rispetto ai contratti conclusi da associazioni comparativamente minoritarie nella categoria. 22. Come si legge nella sentenza della Corte Cost. n. 51 del 2015, “nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l’articolo censurato (art. 7, D.L. n. 248 del 2007, ndr) si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative”, (in tal senso anche Cass. n. 17583 del 2014; n. 19832 del 2013). 23. Dall’assetto come ricostruito non deriva alcun rischio di lesione del principio di libertà sindacale e del pluralismo sindacale. La scelta legislativa di dare attuazione all’art. 36 Cost., fissando standard minimi inderogabili validi sul territorio nazionale, a tal fine generalizzando l’obbligo di rispettare i trattamenti minimi fissati dai contratti collettivi conclusi dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria, non fa venir meno il diritto delle organizzazioni minoritarie di esercitare la libertà sindacale attraverso la stipula di contratti collettivi, ma limita nei contenuti tale libertà, dovendo essere comunque garantiti livelli retributivi almeno uguali a quelli minimi normativamente imposti. Parimenti, le singole società cooperative potranno scegliere il contratto collettivo da applicare ma non potranno riservare ai soci lavoratori un trattamento economico complessivo inferiore a quello che il legislatore ha ritenuto idoneo a soddisfare i requisiti di sufficienza e proporzionalità della retribuzione. 24. Nella fattispecie oggetto di causa, il regolamento della società cooperativa faceva riferimento, al fine

di individuare il trattamento economico dei soci lavoratori, al c.c.n.l. Portieri e Custodi. 25. La Corte d’appello, tenuto conto del settore in cui opera S., in base all’oggetto sociale, nonché delle prestazioni rese dalla sig.ra C. nell’ambito dell’appalto per il servizio di vigilanza e guardianato presso la sede di La Spezia della M. s.p.a., ha individuato quale parametro del trattamento economico minimo obbligatoriamente applicabile ai soci lavoratori della cooperativa S., quello previsto dal c.c.n.l. Multiservizi. 26. La Corte di merito ha escluso l’utilizzabilità del c.c.n.l. Portieri e Custodi (esattamente “contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti da proprietari di fabbricati”), quale parametro ai fini del trattamento economico minimo, in quanto relativo ad un settore non sovrapponibile a quello oggetto dell’appalto. L’ambito di applicazione del c.c.n.l. Portieri e custodi è espressamente definito come relativo ai rapporti dei lavoratori dipendenti da proprietari di fabbricati e da quelli addetti ad amministrazioni immobiliari o condominiali. Tale contratto, se pure sottoscritto dalle sigle sindacali confederali dei lavoratori (Cgil, Cisl e Uil), risulta stipulato, per parte datoriale, da un’unica organizzazione sindacale, la Confederazione italiana della proprietà edilizia (Confedilizia), il che rende evidente il ristretto ambito applicativo dello stesso e, nel contempo, non soddisfa il requisito previsto dall’art. 7, L. n. 31 del 2008 che fa riferimento al contratto collettivo sottoscritto, anche per parte datoriale, dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria. 27. La decisione d’appello si fonda su una corretta interpretazione ed applicazione delle disposizioni sopra richiamate e dei contratti collettivi esaminati e si sottrae pertanto alle censure di violazione di legge mosse dalla società ricorrente. 28. Non possono trovare ingresso in questa sede censure che investono accertamenti in fatto, ad esempio, sull’oggetto dell’attività di S. e sulla coincidenza tra questo e il settore dei contratti collettivi esaminati, e che si collocano al di fuori del vizio di violazione di legge e nell’ambito del vizio motivazionale, nel caso di specie neanche articolato secondo lo schema del nuovo art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (cfr. Cass., S.U., n. 8053 del 2014), applicabile ratione temporis. 29. Né vi è spazio per una comparazione col c.c.n.l. Vigilanza Servizi Fiduciari dell’8.4.13, quindi successivo ai fatti di causa, che non risulta allegato nei precedenti gradi di merito e di cui non vi è traccia nella sentenza impugnata. 30. Per le considerazioni svolte, il ricorso deve essere respinto. (Omissis)

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Trattamento economico minimo (del socio lavoratore) e c.c.n.l. parametro: chi individua la categoria ed il perimetro della stessa? Sommario :

1. La questione decisa dalla Corte di Cassazione. – 2. Art. 3, l. n. 142/2001 e art. 7, d.l. n. 248/2007 conv. in l. n. 31/2008: la giurisprudenza antecedente a C. Cost. n. 51/2015. – 3. C. Cost. n. 51/2015. – 4. La giurisprudenza successiva a C. Cost. n. 51/2015. – 5. Salario minimo costituzionale e individuazione della categoria in caso di pluralità di c.c.n.l. stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative: chi e come definisce il perimetro della categoria?

Sinossi. Il contributo, partendo dall’analisi della disciplina relativa al trattamento economico minimo riconosciuto ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato, si concentra sulla questione relativa all’individuazione del contratto collettivo nazionale di lavoro che deve essere utilizzato nelle diverse categorie quale parametro di riferimento per individuare il c.d. salario minimo costituzionale.

1. La questione decisa dalla Corte di Cassazione. La pronuncia della Corte di Cassazione riguarda essenzialmente una questione: l’individuazione del c.c.n.l. da utilizzare quale parametro di riferimento – ai sensi dell’art. 3, l. n. 142/2001 e dell’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007 conv. in l. n. 31/2008 – per la definizione del trattamento economico complessivo minimo da riconoscere ad una socia lavoratrice di cooperativa (nello specifico la controversia verte sull’applicazione dei livelli salariali, più bassi, previsti dal c.c.n.l. Portieri e Custodi richiamato nel regolamento della cooperativa, ovvero di quelli, più elevati, contenuti nel c.c.n.l. Pulizia Multiservizi, invocato dalla difesa della socia lavoratrice). Il giudice di primo grado1 ha respinto il ricorso proposto dalla socia lavoratrice, osservando preliminarmente come «il rapporto di lavoro della ricorrente, in considerazione della tipologia di mansioni allegate, possa astrattamente rientrare nell’ambito di applicabilità di entrambi i contratti collettivi menzionati» («art. 1 CCNL Pulizia Multiservizi [...],

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Trib. La Spezia, 27 maggio 2015, n. 249.

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che ricomprende nella sfera di applicazione del contratto, tra le altre, le seguenti attività: “servizi di controllo accessi, servizi ausiliari museali, fieristici e congressuali (reception, accoglienza, accompagnamento, custodia di locali, edifici, aree, ecc.)”; art. 17 CCNL Portieri [...], che richiama i “lavoratori addetti alla vigilanza, custodia, pulizia e mansioni accessorie degli stabili adibiti ad uso di abitazione o ad altri usi”, anche ove “addetti alla vigilanza con mezzi telematici … di particolare complessità e ampiezza”»). Conseguentemente, «la riconosciuta applicabilità alle mansioni della ricorrente (anche) della disciplina di cui al CCNL Portieri è circostanza già di per sé sufficiente a determinare il rigetto del ricorso, dal momento che, se una determinata attività rientra nell’alveo di quelle disciplinate da un certo contratto collettivo, la retribuzione individuata da quest’ultimo va ritenuta sufficiente ex art. 36 Cost.». In senso contrario, i giudici d’appello2 – in riforma della sentenza del Tribunale di La Spezia – hanno ritenuto che «l’obbligo della cooperativa appellata di applicare il contratto collettivo del settore o categoria affini a quelli nei quali essa opera deriva … non dall’appartenenza ad una associazione sindacale stipulante che, come nella fattispecie, può anche non esservi, ma dalla legge e prevale, trattandosi di un obbligo derivante da una norma imperativa, sui diversi accordi eventualmente stipulati con il singolo socio lavoratore. (…). Non vi è dubbio, secondo la corte, che, tenuto conto sia del settore in cui opera la S., secondo il suo oggetto sociale (servizi per la conservazione e la tutela del patrimonio mobiliare e immobiliare di operatore logistico di controllo degli accessi …), sia delle prestazioni rese da C. (nell’ambito di un appalto per il servizio di vigilanza e guardianato presso la sede della Spezia della M. spa), la contrattazione di riferimento debba essere non quella dei “portieri e custodi” – destinata a regolare i rapporti di lavoro dei dipendenti da proprietari di fabbricati, come si legge nelle premesse dello stesso contratto – ma quello per il settore “pulizia multiservizi” regolante i rapporti di lavoro degli addetti alle pulizie, alla manutenzione, al controllo degli accessi degli immobili, e in generale ai servizi integrati svolti a favore di terzi da imprese del settore pulizie o altre imprese di servizi. (…). La Corte in riforma della sentenza appellata dichiara il diritto dell’appellante a essere retribuita in ragione delle tariffe salariali contenute nel CCNL “Pulizie Multiservizi” … e il conseguente diritto al pagamento delle relative differenze retributive maturate». La Corte di Cassazione – con motivazione articolata e ricca di spunti di riflessione rilevanti anche oltre il limitato ambito del trattamento economico del socio lavoratore di cooperativa (v. infra § 5) – conferma la decisione della Corte d’Appello di Genova, ritenendo corretta l’interpretazione ed applicazione dell’art. 3, l. n. 142/2001 e dell’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007, nonché dei contratti collettivi esaminati.

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App. Genova, 10 giugno 2016, n. 232.

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2. Art. 3, l. n. 142/2001 e art. 7, d.l. n. 248/2007 conv. in l. n. 31/2008: la giurisprudenza antecedente a C. Cost. n. 51/2015.

L’art. 3, comma 1, della l. n. 142/2001 prevede che «le società cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine». Ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato viene, quindi, garantita – in conformità all’art. 36 Cost., il cui dettato viene parzialmente riproposto nella formulazione dell’art. 3 della l. n. 142 – la proporzionalità e sufficienza3 del trattamento economico complessivo erogato loro dalla cooperativa. Il parametro di riferimento è costituito dai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, con prevalenza dei c.c.n.l. per i dipendenti delle cooperative nello specifico settore interessato4. Al riguardo, un’autorevole voce dottrinale ritiene incostituzionale, per palese violazione dell’art. 39 Cost., l’imposizione di trattamenti economici non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi, trattandosi della estensione per legge della efficacia dei contratti collettivi di diritto comune a tutti i soci-dipendenti della cooperativa5. La restante parte della dottrina ha, invece, pressoché unanimemente convenuto che il rinvio ai contratti collettivi non comporta, né può comportare, l’applicazione diretta del contratto collettivo indicato dal legislatore (pena appunto l’incostituzionalità per contrasto con l’art. 39 Cost.), ma stabilisce solo il parametro di riferimento per la determinazione della retribuzione che la cooperativa deve garantire ai propri soci6. In proposito, è stato condivisibilmente osservato che se «nel meccanismo di utilizzazione della contrattazione collettiva quale parametro ex art. 36 Cost. il giudice vanta un margine di discrezionalità, nella disciplina del trattamento del socio lavoratore di cooperativa, invece, il criterio è stabilito in termini pressoché vincolanti. In concreto, però, c’è da presumere che i risultati applicativi non saranno molto differenti da quelli generalmente riscontrabili nella giurisprudenza»7, con la conseguente

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Secondo Cester, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa: una controriforma?, in Montuschi, Tullini (a cura di), Le cooperative ed il socio lavoratore. La nuova disciplina, Giappichelli, Torino, 2004, 13, l’assenza di un esplicito riferimento al criterio della sufficienza è compensata dal rinvio ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva del settore o della categoria affine. Spolverato, Piovesana, Trattamento economico del socio subordinato di cooperativa, in DPL, n. 21/2008, 1213-1214, secondo i quali «laddove si tratti di categorie dove sono già presenti i Ccnl dei dipendenti delle cooperative per lo specifico settore, la «categoria affine» per i soci dovrebbe essere quella dei dipendenti delle imprese cooperative; meglio, in questo caso si può dire che il Ccnl “proprio” c’è già, anche se pensato inizialmente solo per i lavoratori subordinati non soci e ora è applicabile anche ai soci subordinati». Vallebona, L’incostituzionale stravolgimento del lavoro in cooperativa, in MGL, 2001, 814. V., per tutti, Zoli, Le modifiche alla riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in M.T. Carinci, (a cura di), La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, Ipsoa, Milano, 2003, 299, che opera una ricognizione sulle diverse interpretazioni della norma in esame. Basilico, Il lavoro nelle cooperative, in LPO, 2007, 217.

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estensione al socio lavoratore degli orientamenti relativi al c.d. “minimo costituzionale”8 (che contempla soltanto alcune voci retributive fondamentali ovvero minimi tabellari, indennità di contingenza, tredicesima mensilità)9 e alla valutazione discrezionale del giudice nel determinare la giusta retribuzione nel singolo caso posto alla sua attenzione. Le pronunce di merito intervenute in materia di trattamento economico del socio lavoratore sembrano aver confermato tali valutazioni della dottrina: si riconosce, infatti, «l’applicabilità anche al socio lavoratore del canone della retribuzione proporzionata e sufficiente (art. 36, comma 1, Cost.)» e si afferma che «il contratto collettivo rappresenta il parametro più adeguato per determinare il contenuto del diritto alla retribuzione», avendo altresì il giudice «l’onere di fornire opportuna motivazione, qualora intenda discostarsi dal parametro della norma collettiva»10. La Corte di Cassazione – in pronunce richiamate anche nella sentenza in commento11 – ha sostanzialmente confermato gli orientamenti della giurisprudenza di merito. Ad alcuni anni dall’approvazione della l. n. 142, il legislatore è poi intervenuto, stabilendo – nell’art. 7, comma 4, del d.l. n. 248/2007 (c.d. “decreto milleproroghe”, convertito con modificazioni in l. n. 31/2008) – che «fino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci

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V., al riguardo, Magnani, Il salario minimo legale, in RIDL, 2010, I, 776-779. Maresca, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in ADL, 2002, I, 624; Meliadò, La nuova legge sul lavoro cooperativo, in De Luca Tamajo, Rusciano, Zoppoli (a cura di), Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, Editoriale Scientifica, Napoli, 2004, 180; Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la c.d. legge Biagi, in Studi in onore di Giorgio Ghezzi, I, Cedam, Padova, 2005, 688-690. 10 Tutte le citazioni testuali da Trib. Arezzo, 22 luglio 2008, n. 453, in Foro Toscano, n. 3/2008, 300, con nota di Palla, La retribuzione «giusta e sufficiente» del socio lavoratore. Cfr. anche Trib. Ariano Irpino, 14 ottobre 2008, Banca dati Leggi d’Italia-Corti di Merito, Wolters Kluwer; Trib. Torino, 7 aprile 2009, Banca dati Leggi d’Italia-Corti di Merito, Wolters Kluwer: «il salario corrente di un socio lavoratore di cooperativa dovrà essere parametrato alla corrispondente retribuzione che spetterebbe ad un lavoratore subordinato che svolga la stessa attività e la medesima quantità di ore lavorative, con la stessa anzianità ed il medesimo inquadramento funzionale»; Trib. Torino, 15 aprile 2009, Banca dati Leggi d’Italia-Repertorio di Giurisprudenza, Wolters Kluwer; Trib. Milano, 21 dicembre 2009, in D&L, 2010, 529, con nota di Paganuzzi, Lo shopping del contratto collettivo: un ritorno all’art. 2070 c.c.?; Trib. Bergamo, 10 giugno 2010, n. 493, a quanto consta inedita; Trib. Torino, 14 ottobre 2010 – in RIDL, 2011, II, 409, con nota di Moro, Pluralità di contratti collettivi ed applicazione del più conveniente: pregiudizio alla retribuzione od all’attività sindacale?; in ADL, 2011, II, 695, con nota di Imberti, L’ennesimo casus belli nella disciplina del socio lavoratore di cooperativa: il trattamento economico conforme all’art. 36 Costituzione e la pluralità di contratti collettivi nello stesso settore; in D&L, 2011, 983, con nota di Piscone, Ancora sul Ccnl applicabile al socio di cooperativa – sentenza ove si afferma che «ovviamente i soci lavoratori rientrano in pieno nell’applicazione dell’art. 36 Cost., svolgendo attività lavorativa analogamente a quanto fanno i dipendenti di datori non in forma di cooperativa»; Trib. Torino, 28 gennaio 2011, n. 135, Banca dati De Jure-Sentenze di merito, Giuffré; Trib. L’Aquila, 11 gennaio 2012, Banca dati De Jure-Sentenze di merito, Giuffré e Banca dati Leggi d’Italia-Corti di Merito, Wolters Kluwer. Cfr. anche Trib. Pescara, 3 maggio 2007, in RGL News, n. 3/2007, 20, ove il Giudice del lavoro ha rigettato la domanda del socio lavoratore relativa a differenze retributive, osservando che il socio che assume la violazione del precetto di cui all’art. 3 della l. n. 142 deve dimostrare quale sia l’attività nella quale la società cooperativa opera, giacché la comparazione comporta l’onere a carico della parte di individuare l’elemento di raffronto e le ragioni per le quali lo stesso deve essere assunto come parametro di valutazione. 11 Cass., 4 agosto 2014, n. 17583: «il contratto collettivo nazionale è applicabile, …, ai soci delle cooperative e queste ultime sono, pertanto, tenute a corrispondere un trattamento economico non inferiore ai minimi previsti da tale contratto, i quali vanno rispettati oltre che per i minimi retributivi costituzionali, anche per le altre voci retributive contrattuali»; Cass., 23 agosto 2013, n. 19832: «il regolamento non può contenere disposizioni derogatorie di minor favore rispetto ai trattamenti previsti dal CCNL del settore di appartenenza o della categoria affine e la clausola eventualmente contenente disposizioni peggiorative è nulla». 9

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lavoratori, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria». La norma ha evidentemente l’apprezzabile finalità di regolare la concorrenza all’interno del mondo cooperativo12 ed evitare il troppo frequente rinvio nella prassi a contratti collettivi che prevedono trattamenti economici dei soci lavoratori anche notevolmente inferiori rispetto a quelli previsti per la medesima categoria dai contratti collettivi applicati dalle cooperative aderenti alle principali associazioni del movimento cooperativo13. Nello specifico è stato osservato che l’intervento legislativo «opera una selezione degli attori collettivi coinvolti, nascendo da l’esplicita iniziativa delle principali centrali cooperativistiche e delle Oo.Ss. Confederali (Cgil, Cisl e Uil), le quali hanno costituito a livello territoriale degli appositi Osservatori permanenti al fine di contrastare l’operato di talune associazioni d’impresa, anche riconosciute (UNCI) e di importanti Sindacati Autonomi (Cisal) le quali avrebbero asseritamente stipulato ccnl connotati fondamentalmente, ma non solo, da un costo del lavoro inferiore ai parametri medi di altri ccnl consentendo alle cooperative “spurie” di essere concorrenziali sul mercato e aggiudicarsi così gli appalti pubblici e privati»14. In sostanza – come affermato dalla sentenza in commento – «l’art. 7, L. n. 31 del 2008 presuppone un concorso tra contratti collettivi nazionali applicabili in un medesimo ambito (“in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria”) e attribuisce riconoscimento legale ai trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria e quindi presumibilmente capaci di realizzare assetti degli interessi collettivi più coerenti col criterio di cui all’art. 36 Cost., rispetto ai contratti conclusi da associazioni comparativamente minoritarie nella categoria»15.

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L’accordo 31 maggio 2007 relativo al «Tavolo di concertazione. Sistema di tutele, mercato del lavoro e previdenza. Proposte comuni di Agci, Confcooperative, Legacoop, Cgil, Cisl, Uil in materia di cooperative “spurie”, appalti e dumping contrattuale», ha affermato: «Contratti di lavoro sottoscritti da organizzazioni datoriali e sindacali, spesso di dubbia rappresentatività, sono strumento di vero e proprio dumping sociale lesivo dei trattamenti dei lavoratori e non rispettoso dell’articolo 36 della Costituzione. (...) le Parti ritengono utile che il Ministero del Lavoro predisponga un’apposita circolare interpretativa dell’art. 3 della legge 142/01, chiarendo quale debba essere la natura dei “contratti nazionali di settore o di categoria affine” per evitare la proliferazione di CCNL sottoscritti da organizzazioni datoriali e sindacali prive di reale rappresentatività, e la cui stipula determina dumping sociale distorsivo delle condizioni sia di concorrenza sia di tutela del lavoro, e non rispettoso dell’articolo 36 della Costituzione». 13 Tale disposizione rappresenta la traduzione in legge del (diverso) impegno assunto dal Governo – nell’ambito della stipulazione del c.d. “Protocollo cooperazione” siglato il 10 ottobre 2007 da Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Ministero dello Sviluppo Economico, Agci, Confcooperative, Legacoop, Cgil, Cisl, Uil – di avviare «ogni idonea iniziativa amministrativa affinché le cooperative adottino trattamenti economici complessivi del lavoro subordinato, previsti dall’articolo 3 comma 1 della legge 3 aprile 2001, n. 142, non inferiori a quelli previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro sottoscritto dalle associazioni del movimento cooperativo e dalle organizzazioni sindacali per ciascuna parte comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nel settore di riferimento». 14 Brillandi, Socio lavoratore. La retribuzione è quella del CCNL “comparativamente più rappresentativo” (art. 7, comma 4, D.L. n. 248/2007), in LPO, 2008, 605-606. Cfr. anche Trib. Arezzo, 22 luglio 2008, n. 453, cit., secondo cui con tale norma è stato ratificato «il disfavore del legislatore verso contratti collettivi – come quello UNCI – non sottoscritti da organizzazioni datoriali e sindacali rappresentative a livello nazionale». 15 Bellavista, Il salario minimo legale, in DRI, 2014, 746, afferma che nel «settore della cooperazione, … il legislatore, … per porre freno

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A fronte dei dubbi di costituzionalità dell’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007 per violazione dell’art. 39 Cost.16, si è ritenuto che «una sola interpretazione … può far ritenere compatibile tale norma con il dettato costituzionale: fare riferimento … ai «trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria» come mero parametro esterno e indiretto di commisurazione del trattamento economico complessivo proporzionato – ai sensi dell’art. 36 Cost., come richiamato dall’art. 3, comma 1 della l. n. 142 – alla quantità e qualità del lavoro prestato dal socio lavoratore con rapporto di lavoro subordinato»17. In questo senso, si sono esplicitamente orientate alcune delle decisioni di merito intervenute sul punto, che hanno ritenuto applicabili i minimali retributivi previsti dal c.c.n.l. di categoria stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative, sia nel caso in cui la cooperativa citata in giudizio non fosse iscritta ad alcuna Centrale Cooperativa e non intendesse applicare alcun contratto collettivo18, sia nel caso in cui applicasse un contratto non sottoscritto dalle associazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale19. Tali pronunce sono fondate sull’assunto che «vista la pluralità di contratti collettivi oggi in vigore, disciplinanti anche lo stesso settore, il giudice non può acriticamente accettare ogni indicazione contenuta in tali contratti come rispettosa dei canoni dell’art. 36 Costituzione, ma deve procedere ad un raffronto tra gli stessi per valutare se vi sia una lesione dell’intangibile diritto del lavoratore a percepire una retribuzione proporzionata al lavoro svolto, come è espressamente previsto dal citato articolo 36 Cost. ma anche, con riferimento al caso di specie, dall’art. 3 legge 142/201 (…) con quanto finora detto non si vuole sostenere che soltanto le sigle sindacali con maggiore rappresentatività possono legittimamente stipulare contratti collettivi e definire trattamenti retributivi: l’art. 39 della Costituzione garantisce la piena libertà sindacale, me è ovvio che ciò non può avvenire in contrasto con il diritto del singolo, intangibile da qualunque organizzazione sindacale, di percepire la giusta retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost.»20. Questo orientamento giurisprudenziale, in altri termini, ribadisce che «se la parte normativa è applicabile ai soli iscritti, la parte retributiva è applicabile a tutti in quanto parametro per individuare i minimi salariali» e che «la funzione parametrica surclassa comunque il regola-

al cosiddetto dumping salariale, ha introdotto una forma di salario minimo» e «utilizza come punto di riferimento del minimo salariale solo i contratti collettivi firmati dai sindacati dotati di maggiore rappresentatività rispetto a tutti gli altri pur esistenti nel settore di riferimento». 16 Cinelli, Nicolini, La fine anticipata della XV legislatura, in RIDL, 2008, III, 85, secondo i quali diventa davvero difficile affermare che il legislatore non abbia conferito efficacia erga omnes ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative. 17 Sia consentito il rinvio a Imberti, Il socio lavoratore di cooperativa. Disciplina giuridica ed evidenze empiriche, Giuffré, Milano, 2012, 191-192. Cfr. anche Spolverato, Piovesana, op.cit., 1215, che – pur adombrando dubbi di legittimità costituzionale della norma – rilevano come tali dubbi potrebbero essere risolti intendendo il riferimento al trattamento economico complessivo rivolto solo al c.d. minimo costituzionale, composto essenzialmente da paga base, indennità di contingenza e tredicesima mensilità. 18 Trib. Arezzo, 22 luglio 2008, n. 453, cit. 19 Cfr. Trib. Arezzo, 22 luglio 2008, n. 453, cit.; Trib. Milano, 21 dicembre 2009, cit.; Trib. Torino, 14 ottobre 2010, cit. 20 Trib. Torino, 14 ottobre 2010, cit.

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mento interno e i richiami a contratti non sottoscritti dalle associazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale»21. Di segno opposto, tuttavia un diverso orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto – anche per quanto concerne gli aspetti retributivi – pienamente legittima la scelta operata dalla cooperativa che ha esercitato la sua libertà negoziale individuando il contratto collettivo da applicare ai propri dipendenti e soci tra i vari contratti collettivi di settore, non essendovi alcun obbligo di applicare quello contenente la disciplina più favorevole22. Il Tribunale di Lucca, con ordinanza del 24 gennaio 2014, ha poi sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007 con queste motivazioni: «la disposizione attribuisce in effetti efficacia “erga omnes” a contratti collettivi di tipo “normativo”»; «l’attribuzione di tale efficacia obbligatoria erga omnes al di fuori delle condizioni previste dall’art. 39 della Costituzione prescinde totalmente da qualsiasi valutazione in ordine al rispetto o meno, da parte del diverso CCNL applicato, dei precetti ex art. 36 Cost.»; «in particolare, la disposizione impone al giudice, in presenza di una pluralità di contratti collettivi di settore, di applicare un trattamento retributivo non inferiore a quello previsto da alcuni di tali contratti, senza una previa valutazione ex art. 36 Cost. del diverso contratto collettivo applicato per affiliazione sindacale dall’impresa»; «quindi, al di là delle finalità perseguite, lo strumento normativo adottato appare in contrasto con l’art. 39 Cost.».

3. C. Cost. n. 51/2015. La Corte Costituzionale – sulla base di argomentazioni ampiamente richiamate anche nella pronuncia di Cassazione in commento – ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale, affermando che il «censurato art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, congiuntamente all’art. 3 della legge n. 142 del 2001, lungi dall’assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall’art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost. (…). Nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l’articolo censurato si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi

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Entrambe le citazioni da Trib. Arezzo, 22 luglio 2008, n. 453, cit. In questo senso Trib. Torino, 24 ottobre 2008, n. 3998. Cfr. anche App. Torino, 27 novembre 2009, n. 1215.

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di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative (fra le tante, la sentenza … della Corte di cassazione n. 17583 del 2014)».

4. La giurisprudenza successiva a C. Cost. n. 51/2015. La pronuncia della Consulta sembrava supportare la possibilità di individuare chiaramente il contratto da utilizzare quale parametro nel settore cooperativo, legittimandone altresì l’applicazione in via esclusiva almeno dal punto di vista retributivo23. Tuttavia, la giurisprudenza di merito successiva alla pronuncia della Consulta è stata tutt’altro che monolitica nell’applicazione del citato art. 7, comma 4, d.l. n. 248/200724. Alcune sentenze25 si sono conformate all’orientamento espresso dalla Corte Cost., accogliendo il ricorso proposto dai soci lavoratori per vedersi riconosciuto il trattamento economico previsto dal contratto (ritenuto) parametro (in quanto stipulato dalle OO.SS. dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative, vale a dire Legacoop-Confcooperative-Agci per il versante datoriale e Cgil-Cisl-Uil per il versante sindacale) in luogo di quello applicato dalla cooperativa datrice di lavoro (per lo più il contratto Unci-Confsal). Altre pronunce, viceversa, hanno rigettato il ricorso proposto dai soci lavoratori, non avendo i loro legali fornito con dati numerici verificabili la prova del fatto che il contratto di cui si richiedeva l’applicazione era stato stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi, essendosi invece limitati a dedurre che si trattava di “fatto notorio” o tutt’al più a produrre lettere contenenti richieste, rimaste senza risposta, di informazioni alle diverse organizzazioni datoriali e sindacali26. Ciò conferma come presupposto per ogni operazione di selezione dei contratti collettivi sia evidentemente l’effettiva misurazione e certificazione della consistenza delle singole organizzazioni sindacali e datoriali, in modo tale da rendere successivamente priva di incertezze l’individuazione di quelle comparativamente più rappresentative. Peraltro, la giurisprudenza sull’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007 si è mostrata ondivaga nonostante nel settore cooperativo l’ambito di applicazione della norma (id est la “categoria” di riferimento) sia chiaramente definito alla luce dalla peculiare natura giuridica – società cooperativa – che caratterizza il datore di lavoro. Certamente l’individuazione del contratto parametro diviene ancor più complessa laddove la “categoria” non sia a priori determinabile in considerazione della peculiare natura del datore di lavoro (come avrebbe dovuto essere nel caso delle cooperative), ma sia al

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Barbieri, In tema di legittimità costituzionale del rinvio al ccnl delle organizzazioni più rappresentative nel settore cooperativo per la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente, in RGL, 2015, 3, II, spec. 501-502. 24 V. Centamore, Contratti collettivi o diritto del lavoro «pirata»?, in VTDL, 2018, 2, 487-488. 25 Trib. Parma, 26 novembre 2015, n. 379/2015, dott. Pascarelli; Trib. Milano, 25 agosto 2016, n. 2309/2016, dott.ssa Cassia; recentemente App. Milano, 17 maggio 2019, n. 720/2019. 26 Trib. Asti, 12 gennaio 2016; Trib. Milano, 13 maggio 2016, n. 1401/2016, dott.ssa Colosimo; Trib. Pavia, 5 ottobre 2016, n. 395/2016, dott.ssa Filippini, sentenza poi riformata da App. Milano, 17 maggio 2019, n. 720/2019 citata alla nota precedente; Trib. Pavia, 11 gennaio 2017, n. 1/2017, dott.ssa Ferrari.

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contrario ordinariamente affidata alla libertà (sindacale e contrattuale) delle parti stipulanti nella definizione del campo di applicazione del contratto. La sentenza in commento – come anticipato al § 1 – offre al riguardo spunti di riflessione di portata più ampia e non limitati alla questione del trattamento economico del socio lavoratore di cooperativa.

5. Salario minimo costituzionale e individuazione

della categoria in caso di pluralità di c.c.n.l. stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative: chi e come definisce il perimetro della categoria? La Corte di Cassazione ha ritenuto di individuare nel c.c.n.l. Multiservizi il contratto da utilizzare quale parametro per definire il trattamento economico minimo da riconoscere alla socia lavoratrice e, confermando le conclusioni della Corte d’Appello di Genova, ha invece escluso l’utilizzabilità del c.c.n.l. Portieri e Custodi, «in quanto relativo ad un settore non sovrapponibile a quello oggetto dell’appalto» e «se pure sottoscritto dalle sigle sindacali confederali dei lavoratori (Cgil, Cisl e Uil), … stipulato, per parte datoriale, da un’unica organizzazione sindacale, la Confederazione italiana della proprietà edilizia (Confedilizia), il che rende evidente il ristretto ambito applicativo dello stesso e, nel contempo, non soddisfa il requisito previsto dall’art. 7, L. n. 31 del 2008 che fa riferimento al contratto collettivo sottoscritto, anche per parte datoriale, dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria». Si tratta senza dubbio di sentenza ampiamente argomentata e motivata, ma che tuttavia desta qualche interrogativo27 soprattutto in ragione dei margini di incertezza e discrezionalità (non casualmente si è giunti in Cassazione dopo che primo e secondo grado avevano fatto registrare decisioni contrastanti) nella definizione della categoria di riferimento nell’ambito della quale individuare il c.c.n.l. parametro ai fini retributivi28. A questo proposito, meritevoli di attenzione e non prive di rilievo sembrano le argomentazioni, già richiamate al § 1, del giudice di primo grado, secondo il quale «la riconosciuta applicabilità alle mansioni della ricorrente (anche) della disciplina di cui al CCNL

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V., al riguardo, le perplessità di Schiavo, L’obbligo del trattamento economico minimo per le società cooperative. La Sentenza della Corte di Cassazione n. 4951/2019, in Boll. Adapt, n. 10/2019: «la motivazione del rigetto del ricorso su cosa si fonderebbe? Sul fatto che l’ambito di applicazione del CCNL Portieri e custodi non è quello coincidente con la categoria produttiva in cui opera la cooperativa, ragione per la quale deve essere applicato invece il CCNL Multiservizi? Oppure, al contrario, essendo sovrapponibili le attività del CCNL Multiservizi e del CCNL Portieri e custodi, si applica il primo in virtù del fatto che … è sottoscritto da più associazioni datoriali?». 28 Su alcune criticità connesse all’assunzione del contratto collettivo quale parametro a fini retributivi e sui rischi di soggettivismo decisionale, v. la relazione al Congresso Aidlass 2018 di Pascucci, La giusta retribuzione nei contratti di lavoro, oggi, § 3.3., in www. aidlass.it.

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Portieri è circostanza già di per sé sufficiente a determinare il rigetto del ricorso, dal momento che, se una determinata attività rientra nell’alveo di quelle disciplinate da un certo contratto collettivo, la retribuzione individuata da quest’ultimo va ritenuta sufficiente ex art. 36 Cost.» 29. Il Tribunale di La Spezia ritiene, in sostanza, di non poter definire il perimetro della “categoria” di riferimento (nell’ambito della quale individuare il c.c.n.l. parametro in quanto stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative) esprimendosi in modo difforme rispetto alla volontà espressa, nell’esercizio della libertà sindacale e contrattuale, dalle medesime organizzazioni stipulanti. Peraltro, non solo la definizione della categoria, ma anche l’operazione di selezione delle organizzazioni sindacali e datoriali è tutt’altro che semplice e scontata, soprattutto nei settori più marginali e meno sindacalizzati del mercato del lavoro, ove la raccolta dei dati al fine di individuare i soggetti comparativamente più rappresentativi si rivela essere alquanto difficile ed incerta negli esiti30 ed ove frequentemente si realizzano le situazioni di dumping lamentate dall’Accordo Interconfederale Confindustria, Cgil, Cisl e Uil del 9 marzo 2018, palesandosi così la crisi della funzione anticoncorrenziale del c.c.n.l.31 proprio nei settori in cui ve ne sarebbe maggiore necessità. La proliferazione dei c.c.n.l. rilevata recentemente ha poi determinato «una vera e propria giungla che riflette una realtà di forte frammentazione delle relazioni industriali italiane e di progressiva disarticolazione delle categorie»32. Anche senza andare ad affrontare l’annosa questione dei c.d. “contratti pirata”, basti pensare, per un verso, alla pluralità di contratti collettivi firmati nei settori metalmeccanico, del commercio, della c.d. “logistica”, dei servizi (come nel caso affrontato dalla sentenza in commento) e del terziario da diverse organizzazioni datoriali (più o meno) rappresentative33 con le rispettive e differenti federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil e, per l’altro, al fatto che è sufficiente confrontare gli articoli dedicati a definire l’area di applicazione di alcuni dei contratti collettivi stipulati da organizzazioni sicuramente rappresentative (da entrambi i lati) per avvedersi che anche quelli formalmente dedicati a settori diversi presentano delle possibili aree di sovrapposizione34. Sembra appunto quanto avvenuto nel caso di specie con riferimento al

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Per le rilevanti e risalenti problematiche connesse con l’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost., v. Mazzotta, L’art. 36 della Costituzione e gli usi ed abusi giurisprudenziali dello stesso, in Martinengo, Perulli, (a cura di), Struttura retributiva del lavoro privato e riforma del pubblico impiego, Cedam, 1998, 65 ss., secondo cui «riflettere sulla retribuzione significa … riflettere su un continuo gioco di specchi, che ci restituisce e contrappone varie immagini: quella dell’autonomia individuale, ma anche quella dell’autonomia collettiva; quella dell’intervento della legge e quella del ruolo dei principi fondamentali di carattere costituzionale. Vi è in sostanza un confine mobile fra i vari termini, che si sposta continuamente e che vive nella meditazione giurisprudenziale». 30 Treu, La questione salariale: legislazione sui minimi e contrattazione collettiva, in WP D’Antona, n. 386/2019, 17-18. 31 Villa, Crisi della funzione anticoncorrenziale del contratto collettivo nazionale, in Lassandari, Martelloni, Tullini, Zoli, (a cura di), La contrattazione collettiva nello spazio economico globale, Bononia University Press, 2017, 73 ss. 32 Ciucciovino, Mettere ordine nella giungla dei ccnl: un’esigenza indifferibile, in DLRI, 2018, 1, 227. V. anche, se vuoi, Alvino, Imberti, Contratto collettivo leader e rappresentanza datoriale, in LLI, n. 2/2018, 1 ss. 33 Cfr. Vitaletti, Dall’altra parte: rappresentanza datoriale e contratto nazionale di categoria nello spazio giuridico globale, in DLM, 2016, 2, 364-369. 34 Marazza, Dall’”autoregolamentazione” alla “legge sindacale”? La questione dell’ambito di misurazione della rappresentatività sindacale, in ADL, 2014, 3, I, 622, rileva come in alcuni settori le associazioni aderenti ai sindacati confederali maggiormente rappresentativi abbiano deciso per loro dissensi interni di dare vita a distinti contratti collettivi nazionali di lavoro destinati a

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Giurisprudenza

c.c.n.l. Pulizie Multiservizi ed al c.c.n.l. Portieri e Custodi, ma analoghe questioni risulta che si pongano per esempio in relazione al c.c.n.l. Logistica, Trasporto Merci e Spedizione ed a quello Pulizie Multiservizi, determinando frequenti situazioni di conflitto in relazione all’applicazione dell’uno o dell’altro contratto, in quanto entrambi firmati da federazioni di categoria comparativamente più rappresentative nei rispettivi e differenti settori merceologici e, peraltro, appartenenti alle medesime confederazioni. In conclusione, ad avviso di chi scrive, è evidente che per poter selezionare con ragionevole sicurezza il contratto da utilizzare quale parametro non è sufficiente la misurazione della rappresentanza datoriale e sindacale, ma è anche necessario effettuare preliminarmente la “perimetrazione”35 e precisa distinzione degli ambiti categoriali36 e/o di applicazione dei contratti. Un intervento diretto del legislatore (o, come nel caso di specie, del giudice) nell’individuazione di tali ambiti, oltre ad essere opinabile nei suoi esiti legislativi o interpretativi, può entrare in collisione con la libertà sindacale ed è, pertanto, da privilegiare la soluzione che affida la definizione degli ambiti alle organizzazioni sindacali e datoriali37. In questo senso, peraltro, soprattutto i sindacati confederali dei lavoratori debbono tornare ad esercitare un ruolo di regia e coordinamento rispetto all’attività contrattuale delle singole federazioni di categoria e di razionalizzazione dell’intero sistema della contrattazione collettiva nazionale38. Spetta, più in generale, proprio alle organizzazioni sindacali e datoriali dimostrare la capacità di esercitare la propria autonomia dando vita ad un sistema contrattuale ordinato, riducendo il numero dei contratti ed evitando le possibili aree di sovrapposizione tra gli stessi, anche per evitare le conseguenze (emerse in modo emblematico nella sentenza in commento) in materia di differenziali salariali tra diversi c.c.n.l. quantomeno “contigui”, se non proprio sovrapponibili quanto al campo di applicazione. Lucio Imberti

convivere nello stesso bacino produttivo, in ciò agevolati dalla forte frammentazione delle rappresentanze datoriali. Cfr. Leccese, La contrattazione collettiva nazionale oggi: caratteri, metamorfosi e criticità. Temi per il dibattito, in Lassandari, Martelloni, Tullini, Zoli, (a cura di), op.cit., spec. 112-114. 36 Sul punto, Ciucciovino, op.cit., 229: «il problema non è solo quello di come pesare la rappresentatività, ma anche quello, ancor più spinoso, dell’ambito categoriale all’interno del quale procedere alla misurazione». 37 Treu, op.cit., 21-23: «si tratta di ricercare la soluzione che possa contemperare meglio una delimitazione univoca dei perimetri contrattuali con il principio di libertà sindacale». 38 V. sul punto la relazione al Congresso Aidlass 2018 di Martone, Retribuzione e struttura della contrattazione collettiva, §§ 3.5. e 3.6., in www.aidlass.it. 35

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Giurisprudenza C orte di C assazione, ordinanza 19 febbraio 2019, n. 4815; Pres. Bronzini – Rel. Ponterio – Pastificio Rana s.p.a. (avv. Trane, Zilioli) c. G.Z. (avv. Galiena, Campesan) Conferma App. Venezia sentenza n. 466/2014 Lavoro (rapporto) – Condotta omofoba del datore – Dignità del lavoratore – Lesione – Danno non patrimoniale – Risarcimento.

In tema di condotta omofoba tenuta dal legale rappresentante della società datrice nei confronti di un dirigente, è corretto fondare il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale subito da quest’ultimo sugli elementi probatori raccolti in merito al contenuto delle offese, alla reiterazione, alle modalità e al contesto in cui le stesse venivano arrecate, oltre che alla difficoltà di reazione, atteso che tali offese, ripetute nel tempo, avevano arrecato un concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore, al suo onore e alla sua reputazione, per il fatto che gli epiteti spregiativi erano stati ripetuti alla presenza dei colleghi e in situazioni nelle quali il destinatario non era in condizioni di reagire. (Omissis) Rilevato che: 1. con sentenza n. 466 pubblicata il 23.9.2014, la Corte d’appello di Venezia ha respinto l’appello proposto dal Pastificio R. s.p.a., confermando la sentenza di primo grado di condanna della predetta società al risarcimento del danno non patrimoniale cagionato al dirigente sig. Z. dalla condotta vessatoria posta in essere dal legale rappresentante del Pastificio, sig. R.G.L.; 2. la Corte territoriale ha ritenuto che la pronuncia del Tribunale avesse ad oggetto i fatti dedotti dal ricorrente in primo grado a fondamento della pretesa risarcitoria e relativi alla condotta offensiva e vessatoria posta in essere in suo danno dal legale rappresentante della società, quantomeno dal 2001 e fino alla data del licenziamento, risalente al 2007; ha rilevato come la condotta datoriale, quanto alle ripetute offese sulla presunta omosessualità del dirigente, avesse trovato conferma nelle deposizioni dei testimoni, sia dei testi M. e B., dipendenti della società rispettivamente fino a novembre 2002 e settembre 2001, e sia dei testimoni (V., M.B.) addotti da parte datoriale, oltre che nell’interrogatorio libero del sig. Z.; 3. la Corte di merito ha escluso che la condotta posta in essere dal legale rappresentante sig. R. fosse solo espressione di un clima scherzoso nell’ambiente di lavoro, avendo al contrario rilevato che la condotta medesima, in quanto ripetutamente posta in essere dal titolare della società nei confronti di un dipendente che, sebbene avente qualifica dirigenziale, era comunque in una condizione di inferiorità gerarchica (e, difatti, mai aveva reagito alle altrui offese), esprimesse un atteggiamento di grave mancanza di rispetto e quindi di lesione della personalità morale del lavoratore;

4. secondo la sentenza impugnata, il lavoratore aveva allegato il danno subito (“stato di ansia e di stress... pregiudizio alla vita di relazione, pregiudizio alla dignità e professionalità, per la conoscenza nell’ambito aziendale”) e questo era stato provato per presunzioni; che, inoltre, era congruo il criterio di liquidazione adottato dal giudice di primo grado e riferito alla retribuzione per il periodo di sei mesi; 5. avverso tale sentenza il Pastificio R. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso il sig. Z.; 6. entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c. Considerato che: 7. col primo motivo di ricorso la società datoriale ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116,414,420,421 e 437 c.p.c., in relazione agli artt. 1218,2087 e 2697 c.c.; nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, con riferimento alla condotta asseritamente inadempiente del datore di lavoro; 8. ha sostenuto come la sentenza impugnata avesse accertato la responsabilità datoriale sebbene non fossero stati provati, dal lavoratore onerato, gli episodi descritti nel ricorso introduttivo di primo grado integranti la condotta inadempiente; e come la medesima sentenza non avesse valutato il fatto, decisivo e oggetto di discussione tra le parti, della mancata prova della condotta inadempiente; 9. col secondo motivo di ricorso la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116,414 e 420 c.p.c., in relazione agli artt. 1218,2059,2087 e 2697


Giurisprudenza

c.c. e in relazione agli artt. 2727 e 2729 c.c. e ancora in relazione all’art. 1226 c.c. e art. 432 c.p.c.; nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, con riferimento al danno asseritamente sofferto dal sig. Z., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; 10. ha affermato come la Corte d’appello avesse riconosciuto un danno in re ipsa in favore del sig. Z., per il difetto di allegazioni e prove e per la mancanza di qualsiasi accertamento sulla esistenza del danno, sulla gravità della lesione e sulla serietà del pregiudizio; come, inoltre, avesse erroneamente ritenuto integrata una prova presuntiva ed avesse erroneamente confermato la liquidazione equitativa del danno ad opera del Tribunale pur in assenza di prova del danno medesimo; 11. il primo motivo di ricorso presenta plurimi profili di inammissibilità; 12. la Corte d’appello ha riprodotto le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo di primo grado, ha dato atto di come gli specifici episodi ivi descritti e collocati nel periodo dal 2003 al 2007 non fossero stati dimostrati ma come, invece, fosse stata comprovata la protratta condotta offensiva di parte datoriale, pure allegata dal lavoratore, e relativa alla presunta omosessualità del sig. Z., sistematicamente apostrofato col termine “finocchio”; 13. la società ricorrente ha anzitutto omesso di trascrivere, almeno nelle parti essenziali, il ricorso introduttivo di primo grado al fine di contrastare l’affermazione della Corte d’appello sulla allegazione, ad opera del lavoratore, della condotta offensiva ritenuta integrata; inoltre, la censura, nella parte in cui denuncia la violazione di diverse norme di legge, risulta priva di adeguata specificità; secondo l’indirizzo di questa Corte, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto che si assumono violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata di cui si denuncia il contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012); 14. di fatto, col motivo di ricorso in esame, la società ha criticato la sentenza impugnata per non aver colto il carattere scherzoso degli epiteti con cui il legale rappresentante era solito apostrofare il dipendente, in presenza degli altri colleghi e in un clima cameratesco, nonchè per avere, in modo illogico e contraddittorio, letto la mancata reazione del sig. Z. in dette circostan-

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ze come sopportazione di una offesa anzichè come riflesso della irrilevanza e inoffensività della condotta datoriale, senza neanche debitamente considerare come il sig. Z. fosse rimasto a lavorare alle dipendenze della società per circa dieci anni, arrivando a ricoprire una importante posizione dirigenziale; 15. tali censure, poichè si risolvono, tutte, in una critica alla valutazione del materiale probatorio e alla ricostruzione della fattispecie concreta di violazione dell’art. 2087 c.c., così come operata dalla Corte d’appello, non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità; tali censure neanche si conformano al modello legale di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 applicabile ratione temporis (sentenza d’appello del 2014); 16. come compiutamente descritto dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 8053 del 2014, per effetto della novella, il sindacato di legittimità sulla motivazione deve intendersi limitato al minimo costituzionale, con la conseguenza che l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di qualsiasi rilievo del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, laddove nel caso di specie è chiaramente percepibile il percorso motivazionale adottato dal giudice d’appello; 17. inoltre, secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite, e dalle successive pronunce conformi (cfr. Cass., 27325 del 2017; Cass., n. 9749 del 2016), l’omesso esame deve riguardare un fatto, inteso nella sua accezione storico-fenomenica, principale (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia carattere decisivo. Non solo quindi la censura non può investire argomenti o profili giuridici, ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche l’omesso esame di determinati elementi probatori, il che rende inammissibili tutti i rilievi che attengono, in sostanza, alla critica nella ricostruzione del fatto come eseguita dalla Corte di merito attraverso la valutazione del materiale probatorio raccolto; 18. neppure è fondata la censura di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c. che presuppone, come più volte precisato da questa Corte (cfr. Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), il mancato rispetto delle regole di formazione della prova ed è rinvenibile nelle ipotesi


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in cui il giudice utilizzi prove non acquisite in atti (art. 115 c.p.c.) o valuti le prove secondo un criterio diverso da quello indicato dall’art. 116 c.p.c., cioè una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale, oppure inverta gli oneri di prova; nessuna di queste situazioni è rappresentata nel motivo di ricorso in esame ove è unicamente dedotto che il giudice ha male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova; 19. considerazioni analoghe possono ripetersi quanto al secondo motivo di ricorso avendo la Corte di merito, una volta ricostruita la condotta inadempiente di parte datoriale, ritenuto il danno non patrimoniale provato in via presuntiva; 20. questa Corte (Cass. n. 11269 del 2018; n. 7471 del 2012) ha più volte statuito come il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non possa mai ritenersi “in re ipsa”, ma vada debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici; 21. le Sezioni Unite, nella sentenza n. 26972 del 2008, hanno affermato come il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. – anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: (a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale; (b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità; (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità; 22. nel caso di specie, la Corte di merito ha desunto il danno non patrimoniale subito dal lavoratore dagli elementi probatori raccolti sul contenuto delle offese, sulla reiterazione, sulle modalità e contesti in cui le stesse venivano arrecate, sulla difficoltà di reazione per essere il destinatario lavoratore subordinato; ha ritenuto che le offese, ripetute nel tempo, avessero arrecato, tra l’altro, “concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione, per il fatto che gli epiteti spregiativi erano ripetuti alla presenza dei colleghi e in situazioni nelle quali il destinatario non era in condizioni di reagire”; 23. la sentenza d’appello ha pronunciato in modo coerente alla giurisprudenza di legittimità che reputa veicolato dall’art. 2087 c.c. l’obbligo di tutela, nel contratto di lavoro, di interessi non patrimoniali presidiati da diritti inviolabili della persona, come appunto la salute e la personalità morale, con conseguente obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale ove l’inadempimento datoriale abbia provocato la lesione dei medesimi (per tutte cfr. Cass., S.U., n. 26972 del 2008);

24. questa Corte ha anche precisato come il danno recato alla reputazione, da inquadrare nell’ambito della categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., debba essere inteso in termini unitari, senza distinguere tra “reputazione personale” e “reputazione professionale”, non concepibili alla stregua di beni diversi e pertanto non suscettibili di distinte domande risarcitorie, trovando la tutela di tale diritto - a prescindere dall’entità e dall’intensità dell’aggressione o dal differente sviluppo del percorso lesivo - il proprio fondamento nell’art. 2 Cost. e, in particolare, nel rilievo che esso attribuisce alla dignità della persona in quanto tale, (Cass. n. 18174 del 2014); 25. sulla stessa linea si pongono le pronunce che ravvisano la risarcibilità del danno non patrimoniale in caso, ad esempio, di licenziamento ingiurioso, tale per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivano, da risultare lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore licenziato (Cass. n. 23686 del 2015; n. 15496 del 2008); 26. infondata è la dedotta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. avendo questa Corte (Cass. n. 15737 del 2003; 722 del 2007; Cass. n. 8023 del 2009) più volte statuito come le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione. Spetta pertanto al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo; le censure della società appellante risultano inammissibilmente volte a contrapporre un risultato interpretativo diverso rispetto a quello adottato dalla Corte d’appello; 27. il rigetto delle censure sulla mancata prova del danno porta a ritenere infondato il rilievo sul non corretto uso della equità integrativa di cui all’art. 1226 c.c. e art. 432 c.p.c.; 28. per le considerazioni svolte il ricorso deve essere respinto;

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29. da tale statuizione deriva la condanna di parte ricorrente, secondo il criterio di soccombenza, alla rifusione delle spese di lite, liquidate come in dispositivo; 30. si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge. (Omissis)

La ricetta dell’insulto omofobo non piace alla Cassazione Sommario : 1. Il caso. – 2. Il clima cameratesco e la dignità della persona. – 3. Il risarcimento del danno non patrimoniale. – 4. Che fine ha fatto il diritto antidiscriminatorio?

Sinossi. Il commento esamina i motivi del rigetto del ricorso contro la sentenza con cui la Corte di Appello di Venezia condannava un datore di lavoro a risarcire il danno non patrimoniale cagionato dalla sua condotta omofoba all’ex-dipendente. L’A. si sofferma sulla ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito e sui motivi di ricorso in Cassazione. Viene poi ricostruito il percorso logico-argomentativo seguito dalla Corte di Appello per riconoscere l’esistenza del danno non patrimoniale e liquidare lo stesso. Nella parte conclusiva, l’A. si sofferma sul mancato utilizzo del diritto antidiscriminatorio e sulle conseguenze che ne sono derivate nel caso di specie.

1. Il caso. L’eccellenza agroalimentare italiana ci aveva già abituato a dichiarazioni omofobe. Non molti anni fa (25 settembre 2013), Guido Barilla, presidente del gruppo omonimo, affermava ai microfoni di Radio 24 che «Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca». A seguito delle reazioni mediatiche contro tale dichiarazione, per salvaguardare l’immagine e la reputazione del gruppo, Barilla rilasciava un video messaggio, diffuso su numerosi siti web, in cui si scusava per quanto detto e dichiarava di avere molto da imparare sul significato di famiglia. Nel contempo, il gruppo metteva in opera una serie di iniziative per tutelare i diritti LGBT (quali, ad esempio, la creazione

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di un “Diversity & Inclusion Board”, composto da esperti indipendenti, per aiutare Barilla a migliorare le politiche per l’eguaglianza; una formazione sulla “diversità”; l’estensione della copertura sanitaria alle famiglie transgender), tanto che nel 2014 la Human Right Campain, associazione per i diritti LGBT, assegnava a Barilla il punteggio massimo ai fini del Corporate equality index. Il caso qui in commento coinvolge Gian Luca Rana, amministratore delegato dell’omonimo pastificio, che dal 2001 al 2007, in diverse occasioni, apostrofava con il termine “finocchio” un suo dipendente che, dopo il licenziamento (avvenuto appunto nel 2007), decideva di agire in giudizio contro il suo datore di lavoro, lamentando lo stato di ansia e di stress, il pregiudizio alla vita di relazione, alla dignità e alla professionalità. La differenza rispetto al caso Barilla è che, anche dopo l’ordinanza della Cassazione con cui veniva rigettato il ricorso contro la sentenza di condanna del Pastificio Rana s.p.a. al risarcimento del danno non patrimoniale cagionato dalla condotta offensiva e vessatoria del sig. Rana, la società continuava a negare che il suo amministratore delegato avesse rivolto appellativi omofobi all’ex dipendente. Si trattava – ha sostenuto la difesa – di commenti dal tono scherzoso, che non avevano impedito al dipendente di sviluppare la propria carriera, fino a divenire dirigente della società. Complice forse la minore rilevanza mediatica del fatto, la circostanza che gli insulti riguardavano, in particolare, uno specifico dipendente1, la diversa locazione geografica dello stabilimento Rana, e – perché no - il cambio dei tempi, il sig. Rana ha ritenuto che la sua condotta non danneggiasse l’immagine e la reputazione del gruppo, e che dunque neppure per ragioni di tipo economico fosse necessaria una resipiscenza.

2. Il clima cameratesco e la dignità della persona. Con l’ordinanza in esame, la Cassazione respinge il ricorso contro la sentenza n. 466 del 23.9.2014 della Corte di Appello di Venezia, con cui, come detto, il Pastificio Rana s.p.a. veniva condannato al risarcimento del danno non patrimoniale cagionato dalla condotta vessatoria del legale rappresentante contro l’ex dipendente. Il ricorso si fonda su due motivi: da un lato, viene contestata la violazione di alcune disposizioni relative alla formazione e alla valutazione della prova in giudizio in quanto i giudici veneziani avevano accertato la responsabilità datoriale, senza che fossero stati provati tutti gli episodi lamentati dal dipendente; dall’altro, il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione delle disposizioni relative alla prova presuntiva e alla valutazione equitativa del danno da parte del giudice di merito che avrebbe riconosciuto, a favore dell’ex dipendente, un danno in re ipsa. In sostanza, i legali del Sig. Rana sostengono che i ripetuti commenti omofobi del cliente si inserivano in un clima cameratesco, e avevano to-

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Dalle dichiarazioni rese dai testi, era emerso che Gian Luca Rana «usava toni pesanti anche nei confronti degli altri dirigenti» (App. Venezia, 23 settembre 2014, n. 466, inedita).

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no scherzoso, tanto che non avevano ostacolato la carriera dell’ex dipendente (che infatti era divenuto dirigente). Il fatto poi che questi fosse rimasto a lavorare alle dipendenze del Pastificio per circa dieci anni, senza mai avere reagito ai commenti del Sig. Rana, dimostra l’irrilevanza e l’inoffensività della condotta datoriale. Si tratta dunque di rimarcare, ancora una volta, che la libertà di manifestazione del pensiero «incontra i limiti degli altri principi e diritti che godono di garanzia e tutela costituzionale»2. L’ordinanza in commento ci ricorda che, a prescindere dal danno economico, un commento omofobo crea sempre un pregiudizio alla dignità della persona, e che quando tali commenti sono ripetuti nel tempo tale pregiudizio è «concreto e grave» e come tale deve essere risarcito. L’ordinanza ci dice anche che, nel rapporto di lavoro, la tutela della dignità della persona deve essere particolarmente intensa data la posizione di inferiorità gerarchica in cui si trova il dipendente (anche se dirigente) nei confronti del datore di lavoro3. Ma andiamo con ordine. Il primo punto del ricorso riguarda la ricostruzione dei fatti da parte della Corte d’Appello di Venezia. La Cassazione rammenta che, in caso di contestazione del vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., occorre indicare, oltre alle norme di diritto che si assumono violate, «le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata di cui si denuncia il contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla dottrina», cosa che il ricorrente non ha fatto. Nel caso di specie – proseguono i giudici di legittimità - non pare che il giudice di merito sia incorso nel vizio di falsa applicazione di legge, per avere sussunto la fattispecie concreta sotto una norma che non le si addice4; al contrario, le norme applicate (gli artt. 1218 e 2087 c.c.) disciplinano una fattispecie astratta in cui può, certamente, rientrare il fatto contestato. A ben vedere, i ricorrenti lamentano l’errore in cui sarebbe incorso il giudice di merito nella valutazione del materiale probatorio e nella ricognizione della fattispecie concreta, circostanza che può semmai essere indicata come vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c.5. Sotto questo profilo, la Suprema Corte rammenta che, a seguito delle modifiche apportate dal d. l. 22 giugno 2012, n. 83 (conv. l. 7 agosto 2012, n. 134), l’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c. menziona esclusivamente l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Pertanto, a seguito della riforma del 2012, il controllo previsto da tale disposizione verte solo sull’esistenza e la coerenza della motivazione, restando escluso ogni controllo sulla sufficienza della stessa6. È dunque censurabile la sentenza di merito nei casi di omissione di motivazione, motivazione apparente, manifesta e irriducibile contrad-

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App. Brescia, 11 dicembre 2014 in RIDL, 2015, II, 106 con nota di Ranieri. Come scrive la Corte di Appello di Venezia (23 settembre 2014, n. 466, inedita), «i fatti avvenivano in una situazione di disparità tra i soggetti coinvolti, che in sé escludeva che il tutto si esaurisse nell’ambito di uno scherzo privo di offensività ed esprimevano piuttosto un atteggiamento di grave mancanza di rispetto del superiore nei confronti del suo dipendente». Cass. civ., sez. III, 26 settembre 2005, n. 18782, in GC Mass, 2005, 7/8; Cass., sez. un., 18 gennaio 2001, n. 5, in FI, 2002, I,1186. Sul punto v. Consolo, Art. 360, in Codice di procedura civile. Commentario, Tomo II, Libro II, Wolters Kluwer, 2018, 1479 e la giurisprudenza ivi richiamata. Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053 in FI, 2015, 1, I, 209 con nota di Quero.

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dittorietà della motivazione, o motivazione incomprensibile7. In particolare, si riscontra il vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c. quando il giudice di merito omette di esaminare «un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia)»8. Al contrario, «l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia tenuto conto di tutte le risultanze probatorie»9. Nel suo ricorso, il sig. Rana non indicava né il fatto storico, il cui esame si riteneva omesso, né il dato, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la decisività del fatto stesso10. La difesa del ricorrente si limitava a fornire una diversa ricostruzione dei fatti che, per giurisprudenza consolidata, non configura un vizio di motivazione, in quanto l’art. 360 c.p.c. non conferisce alla Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, «ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione»11. Né il ricorrente indicava le parti della sentenza impugnata da cui si rileverebbe che il giudice non abbia rispettato le regole di formazione della prova, utilizzando prove non acquisite in atti, o valutando prove secondo un criterio diverso da quello indicato dall’art. 116 c.p.c.12. Anche in questo caso, il ricorrente si limitava a contestare che il giudice di merito avesse male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, circostanza che, come detto, non è oggetto del ricorso per Cassazione. L’ordinanza in esame dichiara pertanto inammissibili tutti i rilievi che attengono alla ricostruzione del fatto eseguita dal giudice di merito attraverso la valutazione del materiale probatorio raccolto.

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Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, cit.; Cass., sez. trib., 2 marzo 2018, n. 4965 in De Jure; Cass., sez. VI, 19 febbraio 2018, n. 3922 in GDir 2018, 12, 39; Cass., sez. III, 12 ottobre 2017, n. 23950 in De Jure; Cass., sez. VI, 5 ottobre 2017, n. 23322, in De Jure. 8 Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, cit. 9 Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, cit.; Cass., sez. VI, 11 ottobre 2017, n. 23782 in De Jure. 10 Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, cit.; Cass., sez. VI, 10 agosto 2017, n. 19987 in GC Mass 2017; Cass., 24 agosto 2017, n. 20335 in GC Mass 2017; Cass., sez. VI, 11 ottobre 2017, n. 23782, cit.; Cass., 17 novembre 2017, n. 27325 in GC Mass 2017; Cass., sez. II, 18 dicembre 2017, n. 30315 in De Jure; Cass., sez. I, 12 aprile 2018, n. 9071 in De Jure; Cass., sez. VI, 15 maggio 2018, n. 11792 in De Jure; Cass., sez. VI, 2 luglio 2018, n. 17285 in De Jure. 11 Consolo, op. cit., 1505 e la giurisprudenza ivi citata. 12 Cass., sez. III, 10 giugno 2016, n. 11892 in GC Mass 2016; Cass., sez. II, 11 dicembre 2015, n. 25029 in GD 2016, 8, 95.

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3. Il risarcimento del danno non patrimoniale. Con il secondo motivo di ricorso, i legali del Sig. Rana contestano il fatto che il giudice di merito avesse riconosciuto un danno in re ipsa e avesse quindi proceduto alla liquidazione equitativa dello stesso. Sul punto in questione, l’ordinanza della Cassazione si pone in piena continuità con quanto affermato dalle c.d. sentenze di San Martino13 e dalla successiva giurisprudenza maggioritaria14 secondo cui il danno non patrimoniale non può mai ritenersi in re ipsa, ma deve essere debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici15. Così facendo, i giudici di legittimità evitano di riaprire l’animata discussione sulla funzione sanzionatoria del risarcimento del danno: essendo sempre necessaria la prova del danno cagionato, l’istituto manterrebbe la sua tradizionale funzione di riparare le conseguenze pregiudizievoli di una condotta. La Suprema Corte, richiamando ancora una volta quanto statuito dalle Sezioni Unite nel 2008, ricorda poi che, in base all’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti, è sempre risarcibile quando la lesione dell’interesse sia grave (quando cioè l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità) e quando il danno non sia futile o irrisorio (non consista cioè in meri disagi o fastidi)16. Nell’ambito del rapporto di lavoro, l’art. 2087 c.c., inserendo in tale rapporto interessi non suscettibili di valutazione economica (l’integrità fisica e la personalità morale), «già implicava che, nel caso in cui l’inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale. Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li aveva elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela»17.

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Cass., sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972-26975 in RCP 2009, 1, 38 con nota Monateri, e in RassDC 2009, 2, 499 con nota di Perlingieri e Tescione. 14 Cass., sez. III, 10 maggio 2018, n. 11269, in GC Mass 2018; Cass., sez. III, 25 maggio 2017, n. 13153 in GC Mass 2017; Cass., sez. III, 25 agosto 2012, n. 18174 in D&G 2014, 5 settembre, con nota di Greco; Cass., sez. III, 28 settembre 2012, n. 16543, in GC Mass 2012, 9, 1155; Cass., 14 maggio 2012, n. 7471 in RIDL 2013, 1, II, 81 con nota di Grivet-Fetà; Cass., sez. III, 13 maggio 2011, n. 10527 in FI 2011, 10, I, 2708 con nota di Ponzanelli; Cass., sez. III, 21 giugno 2011, n. 13614 in GC Mass 2011, 7-8, 997; Cass., sez. un., 16 febbraio 2009 in FI 2009, 11, I, 3073. 15 La Corte Cost. (11 luglio 2003, n. 233, in FI, 2003, 3, I, 2201 con nota di Navarretta) e i giudici di legittimità (v. nota n. 12) «hanno aderito ad un modello di responsabilità in cui la lesione di una situazione soggettiva rilevante non è di per sé sufficiente per l’attivazione del rimedio risarcitorio, ma prelude alla verifica dell’esistenza in concreto di conseguenze pregiudizievoli, derivate alla vittima in seguito alla violazione dell’interesse protetto: i danni non economici devono, quindi, essere sempre allegati e provati; rimanendo consentito il ricorso a valutazioni prognostiche e a presunzioni sulla base di elementi obbiettivi che sarà onere del danneggiato fornire» (Thiene, Art. 2059 c.c., in Cian, Trabucchi (a cura di), Commentario breve al Codice civile, Cedam, 2019, par. X, 36; v. anche Salvi, La responsabilità civile, in Iudica, Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, Giuffré, 2005, 281 e ss.; Cendon, Sapone, Prova presuntiva e quantificazione del danno non biologico, in RCP, 2014, 712; Castronovo, Il danno alla persona tra essere e avere, in D&R, 2004, 246; Barcellona, Il danno non patrimoniale, Giuffré, 2008, 105 e ss.). In senso contrario v. App. Firenze, 11 luglio 2013 in RGL, 2013, II, 624, con nota di Izzi, che, in un caso di molestie sessuali, non ha ritenuto necessaria la prova del danno non patrimoniale in quanto tali condotte determinano nei confronti delle donne che ne sono destinatarie «una sofferenza la cui esistenza nell’an è immediatamente apprezzabile in dipendenza della natura dei beni lesi e delle caratteristiche della violazione». 16 V. Del Punta, Il nuovo regime del danno non patrimoniale: indicazioni di sistema e riflessi lavoristici, in RIDL, 2009, II, 510 e, in generale, Navarretta (a cura di), Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, Giuffré, 2010. 17 Cass., sez. un. 11 novembre 2008, n. 26792, cit.; Cass., 14 maggio 2012, n. 7471, cit.; Cass., 12 maggio 2009, n.10864 in DRI, 2009, 4,

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Sorprende un po’ che nell’enumerare i diritti della persona costituzionalmente garantiti il giudice di merito, e di conseguenza la Cassazione, non menzioni il diritto a non subire discriminazioni in ragione del proprio (reale o presunto) orientamento sessuale, riconosciuto ora dall’art. 21 CDFUE, norma dotata di efficacia diretta orizzontale. Tale scelta taglia fuori tutta la normativa antidiscriminatoria, e il connesso principio di effettività del diritto dell’Unione che probabilmente sarebbero stati utili per argomentare sull’esistenza della condotta lesiva, sull’ammontare del danno e per garantire la celerità del procedimento (v. infra)18. Nel caso di specie – affermano i giudici di legittimità nell’ordinanza in commento – il contenuto delle offese, la loro reiterazione, le modalità e i contesti in cui le stesse venivano arrecate (in presenza di colleghi), la difficoltà di reazione per essere il destinatario lavoratore subordinato, dimostrano che la condotta del sig. Rana aveva arrecato un pregiudizio concreto e grave alla dignità del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione. Le offese subite, ripetute nel tempo, erano inoltre idonee a determinare la tensione emotiva e lo stato d’ansia lamentati dall’ex dipendente. Il ricorrente contesta però l’utilizzo della prova presuntiva ai fini della dimostrazione del danno non patrimoniale. Anche in questo caso, i giudici di legittimità ricordano che, per giurisprudenza consolidata19, la prova presuntiva costituisce una «prova completa» a cui «il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione. Spetta pertanto al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità»20. Di conseguenza, è possibile contestare il vizio di motivazione in ordine all’utilizzo del ragionamento presuntivo solo qualora emerga l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio. Si deve invece escludere che «la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo». Né si incorre nel vizio di motivazione quando il ricorrente si limita a suggerire

1060 con nota di Pagni. Sul punto v. Ferraro, Tecniche risarcitorie nella tutela del lavoro, in RDSS 2015, p. 1. La Cassazione ha annoverato il diritto alla libera espressione della propria identità sessuale tra i diritti inviolabili della persona di cui all’art. 2 Cost., «quale essenziale forma di realizzazione della propria personalità» (Cass., sez. III, 22 gennaio 2015, n. 1126 in RCP, 2015, 3, 827 con nota di Citarella; v. anche Cass., sez. I, 25 luglio 2007, n. 16417, in FI, 2008, 4, I, 1187). 19 Cass., 21 giugno 2013, n. 15737 in De Jure; Cass., sez. III, 2 aprile 2009, n. 8023 in GC Mass, 2009, 4, 570; Cass., sez. un, 24 marzo 2006, n. 6572 in RGL, 2006, 2, II, 233 con nota di Fabbri. In dottrina Thiene, Onere della prova e liquidazione, in Delle Monache (a cura di), Responsabilità civile. Danno non patrimoniale, Wolters Kluwer 2010, 706. 20 Cass., ord. 19 febbraio 2019, n. 4815; in senso conforme Cass., sez. III, 3 settembre 2007, n. 18529 in GD, 2007, 47, 65; Cass., sez. III, 26 giugno 2008, n. 17535 in GC Mass, 2008, 6, 1034. Le sentenze di San Martino (Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, cit.) riconoscono che, qualora il pregiudizio attenga a un bene immateriale (come la reputazione), «il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri». 18

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una valutazione alternativa del materiale probatorio, e dunque un risultato interpretativo diverso rispetto a quello adottato dal giudice di merito21. Affermata l’esistenza di una condotta lesiva della dignità del lavoratore, si tratta poi di quantificare l’ammontare del danno cagionato. Anche qui, la Cassazione segue la linea tracciata dalle sentenze del 2008, ricordando che il danno non patrimoniale costituisce una categoria unitaria, e che il riferimento a determinati tipi di pregiudizio risponde solo ad esigenze descrittive22. Inoltre, non è possibile distinguere tra danno arrecato alla reputazione personale e alla reputazione professionale, «essendo unico il riferimento alla personalità umana e alla persona come singolo, operato dall’art. 2 Cost., e potendo, perciò, mutare il percorso lesivo e l’entità e l’intensità dell’aggressione, ma non il punto terminale, che è costituito sempre e solo dalla persona, nella sua unitarietà»23. I giudici di legittimità rigettano poi il rilievo sul non corretto uso delle norme sulla liquidazione equitativa del danno non patrimoniale. A parere della Cassazione, dato che il danno è stato correttamente provato, mediante prova presuntiva, il giudice può, in ragione degli artt. 1226 c.c. e 432 c.p.c., liquidarlo con valutazione equitativa. Sul punto, pare condivisibile l’orientamento secondo cui, dato che la liquidazione equitativa è l’unica forma possibile di risarcimento del danno non patrimoniale, che non può essere provato nel suo preciso ammontare, «il giudice di merito soddisfa l’obbligo di motivazione anche senza fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di ciascuno degli elementi in base ai quali forma il proprio convincimento complessivo, bastando che egli dimostri di avere tenuto presente tutti i dati di fatto acquisiti al processo»24. L’esercizio del potere discrezionale del giudice rimane invece censurabile ogni volta che la liquidazione appaia irrisoria o simbolica25 o sia per eccesso o per difetto palesemente sproporzionata26 ovvero quando sia omessa ogni pur sintetica enunciazione dei criteri seguiti nella liquidazione27, circostanze che non ricorrono nel caso di specie. Nel determinare l’ammontare del danno non patrimoniale, la Corte d’Appello di Venezia, confermando la decisione del Tribunale di Verona che aveva condannato il Pastificio Rana s.p.a. al pagamento di una somma pari a sei mesi di retribuzione, segue l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il risarcimento del danno non patrimoniale deve essere integrale, deve cioè «ristorare interamente il pregiudizio, ma

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Cass., 14 maggio 2012, n. 7471, cit.; Cass., 21 giugno 2013, n. 15737, cit.; Cass., sez. II, 27 ottobre 2010, n. 21961 in GC Mass 2010, 10, 1375; Cass., sez. III, 2 aprile 2009, n. 8023 cit. 22 Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972 cit.; in senso conforme Cass., sez. III, 17 settembre 2010, n. 19816 in GC Mass, 2010, 9, 1237; Cass., sez. III, 9 dicembre 2010, n. 24864 in GC Mass, 2010, 12, 1580; Cass., 18 gennaio 2011, n. 1072 in GC 2012, 3, I, 804; Cass., sez. III, 16 maggio 2013, n. 11950 in GD, 2013, 33, 57; Cass., sez. III, 3 ottobre 2013, n. 22604 in GD 2013, 42, 38 con nota di Martini. 23 Cass., sez. III, 25 agosto 2014, n. 18174 in D&G, 2014, 5 settembre con nota di Greco. 24 Consolo, op. cit., 1502. In giurisprudenza v. Cass., sez. III, 30 marzo 2004, n. 6285 in GC Mass, 2004, 3; Cass., sez. III, 11 marzo 1998, n. 2677 in GI, 1999, 735 con nota di Bona, Castelnuovo. 25 Cass., sez. III, 2 marzo 2004, n. 4186 in GC Mass, 2004, 3; Cass., sez. III, 14 luglio 2003, n. 11007 in GC Mass, 2003, 7/8. 26 Cass., sez. III, 14 luglio 2004, n. 13066 in RCP, 2005, 1362 con nota di Leonardi; Cass., sez. III, 25 maggio 2017, n. 13153 in De Jure. 27 Cass., sez. III, 8 maggio 2003, n. 6985 in NGCC, 2003, I, 668 con nota di De Giorgi; Cass., sez. III, 19 ottobre 2015, n. 21087 in Diritto di Famiglia e delle Persone 2016, 1, I, 128 con nota di Virgadamo.

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non oltre»28. A tal fine, il giudice deve tenere conto del rango dell’interesse costituzionalmente tutelato, della gravità del comportamento lesivo, della sua durata, dell’esposizione pubblica e sociale del comportamento, e in generale delle particolarità del caso e della reale entità dei pregiudizi sofferti dal lavoratore29. Criteri cui, nel caso di specie, si sono attenuti i giudici di merito.

4. Che fine ha fatto il diritto antidiscriminatorio? Dopo avere letto l’ordinanza della Cassazione, chi si occupa di diritto antidiscriminatorio rimane sorpreso per il mancato richiamo di tale normativa. Non si tratta di una critica ai giudici di legittimità, che reagiscono alla sentenza della Corte d’Appello di Venezia, sulla base di quanto sostenuto dai ricorrenti. Probabilmente, la scelta di non utilizzare il diritto antidiscriminatorio è da ascrivere ai difensori del lavoratore, che hanno preferito basare il loro ricorso sull’art. 2087 c.c. e sulla consolidata giurisprudenza in materia di danno non patrimoniale30. Merita tuttavia di verificare se e in che modo la normativa antidiscriminatoria avrebbe agevolato il lavoratore nella sua azione contro la condotta omofoba del datore di lavoro, posto che tale condotta sicuramente rientra nell’ambito di applicazione del d. lgs. 9 luglio 2003 n. 216 e può configurare una discriminazione diretta vietata da tale normativa31. Sul punto si ritiene opportuno soffermarsi, seppur brevemente, su tre aspetti: l’alleggerimento dell’onere della prova, l’ammontare del risarcimento del danno non patrimoniale, e la possibilità di avvalersi del rito sommario di cognizione32. Quanto al primo profilo, è noto che la normativa antidiscriminatoria semplifica l’onere della prova gravante su chi si considera vittima di una discriminazione. In particolare, l’art. 28 co. 4 d. lgs. 1 settembre 2011, n. 150 ritiene sufficiente che il ricorrente fornisca «elementi di fatto dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori». La disposizione non richiede dunque i requisiti previsti dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici. In particolare, non è necessario «disporre di una pluralità di fatti tra loro “concordanti”, ben potendo il fatto essere anche uno solo (sempre che sia decisivo); così come viene meno anche il requisito della “gravità”, sicché l’onere sembra assestarsi su una mera verosimiglianza del fatto ignoto a partire dal fatto (o dai fatti) noti»33. L’utilizzo

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Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, cit. Cass., 14 maggio 2012, n. 7471 cit.; Cass., 21 aprile 2011, n. 9238 in FI, 2011, 10, I, 2736. 30 Si tratta di una supposizione, dato che chi scrive non ha potuto consultare tutti gli atti dei procedimenti di primo e secondo grado. Sul punto v. Nunin, L’applicazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro come strumento di contrasto alle discriminazioni, in Bonardi (a cura di), Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, Ediesse, 2017, 265. 31 v. C. giust., 10 luglio 2008, causa C-54/07, Feryn, in RIDL, 2009, 1, II,235 con nota di Savino; C. giust., 25 aprile 2013, causa C-81/12, Asociaţia Accept, in RIDL 2014, 1, II, 133 con nota di Calafà. 32 Sul punto v., in generale, Guariso, La tutela giurisdizionale contro le discriminazioni nel dialogo tra le alte corti, in Bonardi (a cura di), Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, Ediesse, 2017, 399. 33 Guariso, Militello, La tutela giurisdizionale, in Barbera, Guariso (a cura di), La tutela antidiscriminatoria. Norme, strumenti, interpreti, Giappichelli, in corso di pubblicazione. 29

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della normativa antidiscriminatoria avrebbe dunque agevolato il lavoratore nella prova della condotta omofoba34. Ed è del tutto irrilevante che il dipendente apostrofato come “finocchio” non fosse omosessuale: il diritto antidiscriminatorio non richiede infatti che la persona svantaggiata a causa di un certo orientamento sessuale, sia realmente omosessuale (o bisessuale, transessuale, ecc.). La normativa antidiscriminatoria riconosce altresì il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale (art. 28 co. 5 d. lgs. n. 150/2011). La regola in questione è il risultato della pluridecennale giurisprudenza della Corte di giustizia35 che, in ragione del principio di effettività del diritto dell’Unione europea36, ha richiesto che l’indennizzo o la riparazione del danno cagionato dalla condotta discriminatoria siano reali ed effettivi, in modo tale da essere dissuasivi e proporzionati al danno subito (per i divieti di discriminazione in ragione del genere v. l’art. 18 dir. 5 luglio 2006 n. 54). Analogamente, si prevede che le sanzioni, fra cui si annovera il risarcimento dei danni, devono essere effettive, proporzionate e dissuasive (per i divieti di discriminazione in ragione del genere v. art. 25 dir. 2006/54; per il divieto di discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale v. art. 17 dir. 27 novembre 2000 n. 78). Nella sentenza Camacho37, la Corte di giustizia ha precisato che il diritto Ue permette, ma non impone di adottare provvedimenti che prevedano il versamento di danni punitivi alla vittima di una discriminazione, aggiungendo però che il risarcimento deve sempre coprire integralmente il danno subito (§ 37 e 45), ivi compreso il danno non patrimoniale. Il pragmatismo dei giudici di Lussemburgo ha suggerito loro di non inoltrarsi nelle accese diatribe sulla funzione sanzionatoria del risarcimento del danno (che parrebbe insito nel requisito della dissuasività), per concentrarsi sul più facile obiettivo dell’integralità del risarcimento del danno, patrimoniale e non. Ma se, come detto, il danno non patrimoniale deve essere necessariamente liquidato in via equitativa, e se tra i parametri cui dovrebbe ispirarsi il giudice vi è quello della gravità del fatto (nel caso di specie, la reiterazione della condotta omofoba di fronte ai colleghi del lavoratore), allora la distanza tra le due tesi è davvero minima38. Nel caso in esame, la normativa antidiscriminatoria avrebbe dunque potuto essere utilizzata per rafforzare la pretesa del risarcimento del danno non patrimoniale, strumento necessario per garantire l’effettività

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Come ricordano Guariso e Militello (op. cit.), il regime agevolato dell’onere della prova non vale per la prova del danno da discriminazione che deve seguire i criteri ordinari, pur con l’ampio e inevitabile ricorso alle presunzioni che deve accompagnare la prova del danno non patrimoniale in tema di diritti fondamentali della persona. 35 Il filone giurisprudenziale ha preso avvio, in materia di discriminazioni di genere, dalla sentenza von Colson (C. giust., 10 aprile 1984, causa C-14/83 in Raccolta della giurisprudenza della C. giust. 1984, 01891). 36 Su tale principio v. da ultimo Prassl, Article 47 CFR and the Effective Enforcement of EU Labour Law: Teeth for Paper Tigers?, working paper presentato alla conferenza annuale dello European Centre of Expertise in the field of labour law, employment and labour market policies, Aprile 2019 e Lörcher, Article 47 – Right to an Effective Remedy and to a Fair Trial, in Dorssemont, Lörcher, Clauwaert, Schmitt (a cura di), The Charte of Fundamental Rights of the European Union and the Employment Relation, Hart, 2019, 609. 37 C. giust., 17 dicembre 2015, causa C-407/14, § 40 in RIDL 2016, II, 444 con nota di Calafà. 38 Sul punto v. Tarquini, Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giurisdizionale, Giuffré, 2015, 43 e 44; Scognamiglio, Le sezioni unite e i danni punitivi: tra legge e giudizio, in RCP 2017, 4, 1109; Thiene, Art. 2059 c.c., in Cian, Trabucchi, Commentario breve al Codice civile, Cedam, 2019, par. VII, 34. In giurisprudenza v. Trib. Milano, ord. 16 aprile 2016 in http://www.osservatoriodiscriminazioni.org/ index.php/2016/05/13/622/; Trib. Bergamo, ord. 6 agosto 2014 e App. Brescia, 14 dicembre 2014 in RIDL 2015, II, 106 con nota di Ranieri; Trib. Rovereto, ord. 21 giugno 2016 in FI 2016, 7-8, I, 2564; App. Firenze, 11 luglio 2013 in RGL 2014, II, 624 con nota di Izzi.

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della tutela del diritto a non subire discriminazioni in ragione dell’orientamento sessuale, principio fondamentale del diritto Ue. Va infine ricordato che, in caso di violazione del divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, è possibile avvalersi del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis, 702 ter e 702 quater c.p.c. (art. 28 d. lgs. n. 150/2011). Esiste dunque un canale privilegiato e accelerato per la tutela del diritto a non subire discriminazioni39. È pertanto altamente probabile che, se avesse invocato la violazione della normativa antidiscriminatoria, il ricorrente non avrebbe dovuto attendere 12 anni per ottenere una pronuncia definitiva40. Il mancato richiamo di tale normativa nel caso di specie è la riprova che, nonostante la maggiore sensibilità degli avvocati e delle corti italiane in materia, vi è ancora tanto bisogno di diffondere la conoscenza e promuovere il corretto utilizzo del diritto antidiscriminatorio41. Silvia Borelli

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Sul punto v. Guariso, Militello, op. cit. All’epoca dei fatti, per la discriminazione basata sull’orientamento sessuale, era in vigore il procedimento cautelare regolato dall’art. 44 T.U. immigrazione. V. Calafà, Le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, e Curcio, Le azioni in giudizio e l’onere della prova, in Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffré, 2009, 171 e 529. 41 Sul punto v. Barbera, Il cavallo e l’asino. ovvero dalla tecnica della norma inderogabile alla tecnica antidiscriminatoria, in Bonardi (a cura di), Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, Ediesse, 2017, 17. 40

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Giurisprudenza Tribunale Trento, sentenza 4 dicembre 2018; Giudice Flaim. Lavoro (rapporto) – Contratto di lavoro a tempo determinato – Proroghe e rinnovi per esigenze permanenti o durevoli – Illegittimità – Conversione.

Atteso che secondo il diritto eurocomunitario le esigenze, al cui soddisfacimento la successione di contratti è diretto, devono avere un carattere temporaneo e comunque non permanente né durevole, sono nulle le clausole appositive dei termini finali apposti ad una successione di contratti nel caso in cui venga accertato in giudizio che i contratti a tempo determinato non rispondono ad un’esigenza temporanea, bensì ad un’esigenza permanente ovvero durevole. (Omissis) La ricorrente Omissispremesso di aver stipulato: I) in data 28.10.2013 con la società Omissis s.r.l. (ora convenuta nella nuova denominazione di ABCD s.r.l.) di un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, in relazione al periodo 4.11.2013-3.5.2014, avente per oggetto mansioni di impiegata amministrativa di V livello CCNL Terziario, con la clausola secondo cui: “Il tempo determinato è motivato da ragioni produttiveorganizzative essendo legato all’entrata di due nuovi clienti, Societe Generale Insurance Italy e Amtrust”; II) in data 30.4.2014 con la società convenuta Omissis s.r.l. un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, in relazione al periodo 5.5.-20.8.2015, avente per oggetto mansioni di impiegata amministrativa di V livello CCNL Terziario (il rapporto cessava in data 30.5.2015 per dimissioni della ricorrente); III) in data 1.8.2015 con la società convenuta Omissis s.r.l. (ora convenuta nella nuova denominazione di ABCD s.r.l.) un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, in relazione al periodo 1.8.201531.1.2016 (nel prosieguo prorogato fino al 31.1.2017 e ulteriormente fino al 31.3.2017), avente per oggetto mansioni di impiegata amministrativa di V livello CCNL Terziario – propone le seguenti domande: 1) domanda di accertamento della nullità delle clausole appositive dei termini finali ai suddetti contratti in quanto tutti e tre sono stati stipulati per far fronte a esigenze di carattere durevole e permanente, in violazione della disciplina eurounitaria, con conseguente “trasformazione del rapporto di lavoro da ultimo stipulato in data 13.7.2015, e successive proroghe, con Omissis SRL in rapporto di lavoro a tempo indeterminato”, in capo a Omissis s.r.l. (cessionaria del ramo di azienda) o in subordine a ABCD s.r.l. già Omissis s.r.l.

(cedente), e con condanna delle stesse alla corresponsione dell’indennità risarcitoria nella misura massima; 2) in via alternativa domanda di accertamento della nullità dei tre contratti in quanto stipulati in frode alla legge ex art. 1344 cod.civ., atteso che “in considerazione dell’alternata reiterazione dei contratti stessi tra Omissis SRL e Omissis SRL e del fatto che la lavoratrice abbia indifferentemente lavorato per ciascuna delle due società, benché assunta dall’altra, che l’intera successione di contratti a tempo determinato, così come gestita, ha permesso alle datrici di lavoro di eludere la tutela della lavoratrice basata sulla sola durata massima dei rapporti a tempo determinato”, con conseguente “trasformazione del rapporto di lavoro da ultimo stipulato in data 13.7.2015, e successive proroghe, con Omissis SRL in rapporto di lavoro a tempo indeterminato”, in capo a Omissis s.r.l. (cessionaria del ramo di azienda) o in subordine a ABCD s.r.l. già Omissis s.r.l. (cedente), e con condanna delle stesse alla corresponsione dell’indennità risarcitoria nella misura massima; 3) in via subordinata domanda di accertamento che le tre società convenute costituivano un unico centro di imputazione dei tre rapporti di lavoro intercorso con la ricorrente, con conseguente configurabilità di una successione di contratti a tempo determinato di durata superiore a 36 mesi, con conseguente “trasformazione del rapporto di lavoro da ultimo stipulato in data 13.7.2015, e successive proroghe, con Omissis SRL in rapporto di lavoro a tempo indeterminato”, in capo a Omissis s.r.l. (cessionaria del ramo di azienda) o in subordine a ABCD s.r.l. già Omissis s.r.l. (cedente), e con condanna delle stesse alla corresponsione dell’indennità risarcitoria nella misura massima; 4) in via ulteriormente subordinata


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domanda di condanna di ABCD s.r.l. al risarcimento dei danni conseguenti alla violazione dei “diritti di richiamo nel contratto del diritto di preferenza e della preferenza stessa per i contratti a tempo indeterminato stipulati dopo il 31.3.2017”. Le ragioni della decisione a) Stante la graduazione impressa dalla ricorrente alle domande da lei proposte, è necessario esaminare in primis la domanda afferente l’illegittimità delle clausole appositive dei termini finali per la natura assertamente temporanea delle ragioni che i tre contratti stipulati dalla ricorrente con le società convenute erano diretti a soddisfare. b) Le società ABCD s.r.l. (già Omissis s.r.l.) e Omissis s.r.l. in relazione al contratto afferente il periodo 4.11.2013-3.5.2014 e la società Omissis s.r.l. in relazione al contratto afferente il periodo 5.5.2014-20.8.2015 eccepiscono la decadenza ex art. 32 co. 3 lett. a) L. 4.11.2010, n. 183, nel testo all’epoca vigente (“3. Le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre: a)… alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni. Laddove si faccia questione della nullità del termine apposto al contratto, il termine di cui al primo comma del predetto articolo 6, che decorre dalla cessazione del medesimo contratto, è fissato in centoventi giorni, mentre il termine di cui al primo periodo del secondo comma del medesimo articolo 6 è fissato in centottanta giorni;”); evidenziano che la ricorrente ha impugnato stragiudizialmente i due contratti solo in data 25.7.2017, vale a dire ben oltre la scadenza del termine di 120 giorni, decorrente dal 3.5.2014 per il primo contratto e dal 30.5.2015 per il secondo contratto. --L’eccezione è fondata solamente in relazione al contratto stipulato dalla ricorrente con Omissis s.r.l. in relazione al periodo 5.5.2014-20.8.2015 (ma con cessazione per dimissioni il 30.5.2015). Occorre, infatti, tenere presente che: - l’illegittimità eccepita dalla ricorrente riguarda la violazione dell’invocato principio ricavabile dalla disciplina eurounitaria del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, secondo cui è consentito avvalersi di prestazioni di lavoro subordinato a tempo determinato solo per soddisfare esigenze di carattere temporaneo (e non, quindi, anche permanente e durevole); - l’accordo quadro CES. UNICE e CEEP, cui la direttiva del Consiglio 28.6.1999, n. 1999/70/CE ha dato attuazione, non ha lo scopo di armonizzare tutte le norme nazionali relative ai contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, ma mira unicamente,

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mediante la fissazione di principi generali e di requisiti minimi, a stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, e a prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato (ordinanze dell’11 novembre 2010, Vino, C-20/10, EU:C:2010:677, punto 54; del 22 giugno 2011, Vino, C-161/11, EU:C:2011:420, punto 27;); in particolare nessuna disposizione dell’accordo quadro obbliga gli Stati membri ad adottare una misura che imponga di giustificare ogni primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato (sentenze del 22 novembre 2005, Mangold, C-144/04, EU:C:2005:709, punti 40-43; del 23 aprile 2009, Angelidaki, C-378/07, EU:C:2009:250, punto 90; ordinanze dell’11 novembre 2010, Vino, C-20/10, EU:C:2010:677, punto 54; del 22 giugno 2011, Vino, C-161/11, EU:C:2011:420, punto 29;). Ne consegue che il vizio di nullità eccepito dalla ricorrente per l’asserito contrasto con il principio eurounitario, secondo cui è consentito avvalersi di prestazioni di lavoro subordinato a tempo determinato solo per soddisfare esigenze di carattere temporaneo, è (già a livello astratto) configurabile solamente in relazione non ad un singolo contratto, ma ad una successione di contratti a tempo determinato (la quale rappresenta l’unica fattispecie da cui possono scaturire gli abusi che il diritto eurounitario intende prevenire). In ordine al caso in esame ne derivano due conseguenze. 1) L’infondatezza dell’eccezione di decadenza sollevata dalla società ABCD s.r.l. (già Omissis s.r.l.) e Omissis s.r.l. in relazione al contratto afferente il periodo 4.11.2013- 3.5.2014; infatti il vizio di nullità eccepito dalla ricorrente, dovendo riferirsi necessariamente a una successione di contratti a tempo determinato, non può essere valutato in relazione al solo contratto afferente il periodo 4.11.2013-3.5.2014; anche se si ritenesse che tale contratto sia stato stipulato per soddisfare esigenze temporanee, la circostanza sarebbe inidonea a configurare la nullità per contrasto con il diritto eurounitario di quel singolo contratto (melius della clausola appositiva del termine ivi contenuta) per la semplice ragione che il diritto eurounitario non trova applicazione; non sussistendo il vizio, nessuna impugnazione avverso quel contratto era possibile e quindi nessun termine di decadenza ha iniziato a decorrere a far data dalla cessazione del relativo rapporto di lavoro (3.5.2014). La circostanza che il contratto medesimo sia stato stipulato da Omissis s.r.l. e dalla ricorrente per soddisfare esigenze temporanee può rilevare, se fondata, solo nell’ambito della successione della quale fa parte anche il contratto concluso nel prosieguo tra gli stessi soggetti in relazione al periodo 1.8.2015-31.1.2016,


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poi prorogato fino al 31.1.2017 e ulteriormente fino al 31.3.2017, ma in tale ipotesi il termine di decadenza non potrebbe che decorrere dalla data di cessazione del rapporto relativo a questo secondo contratto (31.3.2017) quale elemento della successione di contratti a tempo determinato, la quale rappresenta il presupposto necessario per la configurabilità di violazioni del diritto eurounitario in tema di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato. 2) La fondatezza dell’eccezione di decadenza sollevata dalla società convenuta Omissis s.r.l. in relazione al contratto afferente il periodo 5.5.-20.8.2015 (estinzione anticipata in data 30.5.2015 per dimissioni); infatti, come già evidenziato, il vizio di nullità eccepito dalla ricorrente, dovendo riferirsi necessariamente a una successione di contratti a tempo determinato in quanto concerne il contrasto con il diritto eurounitario, non può essere valutato in relazione al solo contratto afferente il periodo 5.5.-30.5.2015 in quanto anche ammettendosi che sia stato stipulato per soddisfare esigenze temporanee la circostanza sarebbe inidonea a configurare la nullità di quel singolo contratto (melius della clausola appositiva del termine ivi contenuta) perché difetta il contrasto con il diritto eurounitario stante la sua inapplicabilità; non può giovare alla ricorrente la sua allegazione secondo cui Omissis s.r.l. e Omissis s.r.l. costituivano un unico centro di imputazione, da cui ella desume (come espressamente precisato nelle note autorizzate depositate in data 10.9.2018) una situazione di “codatorialità”; infatti, è vero che una tale ipotesi non comporta “l’individuazione di un terzo soggetto”, ma è anche vero che configura una titolarità dal lato datoriale del rapporto di lavoro (in capo ad Omissis s.r.l. e Omissis s.r.l.) diversa da quella apparente (in capo alla sola Omissis s.r.l.); questa allegazione configura una causa petendi riconducibile a quelle delle domande previste dall’art. 32 co.4, lett. d) L. 183/2010 (nel testo vigente all’epoca della cessazione del contratto de quo ossia alla data del 30.5.2015), secondo cui “le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche:… d) in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”, essendo evidente che l’apparente datorialità esclusiva in capo ad Omissis s.r.l. costituisce una soggettività diversa dalla asserita codatorialità in capo ad Omissis s.r.l. e a Omissis s.r.l.; (in questo senso si è già espressa Cass. 25.5.2017, n. 13179, secondo cui nella fattispecie ex art. 32 co.4, lett. d) L. 183/2010 rientrano anche le “ipotesi di più imprese in cui viene rivendicata una contitolarità del rapporto di lavoro”;

ne consegue che, allorquando in data 25.7.2017 la ricorrente ha impugnato stragiudizialmente il contratto stipulato con Omissis s.r.l. e cessato il 30.5.2015, era già maturato il termine di decadenza ex art. 32 co.4, lett. d) L. 183/2010 ed ex art. 6 co.1 L. 15.7.1966, n. 604, che la società Omissis s.r.l. ha tempestivamente sollevato in memoria di costituzione. c) Alla luce di quanto statuito sub b) 1) occorre ora stabilire: i) se, vigente la disciplina nel periodo 1.8.201531.3.2017 (quando nel caso concreto si è realizzata la successione di contratti a tempo determinato), il ricorso a una successione di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato per soddisfare esigenze di carattere non temporaneo determinasse la nullità delle clausole appositive dei termini finali a detti contratti e la conseguente loro conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; ii) in caso positivo, se la successione di contratti a tempo determinato, cui è ricorsa la società convenuta Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.), sia stata effettivamente diretta a soddisfare esigenze di carattere non temporaneo. a i) Il punto 6 delle considerazioni generali dell’Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato stipulato in data 18.3.1999 – la cui attuazione costituisce lo “scopo” della direttiva 28.6.1999 n. 1999/70/CE del Consiglio – afferma che “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento”; il successivo punto 8 afferma che “i contratti di lavoro a tempo determinato rappresentano una caratteristica dell’impiego in alcuni settori, occupazioni e attività atta a soddisfare sia i datori di lavoro sia i lavoratori”. Il considerandum n. 14 della direttiva afferma che “le parti contraenti… hanno espresso l’intenzione… di creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato”. In proposito la clausola n. 1 (“Obiettivo”) dell’accordo cit. prevede: “L’obiettivo del presente accordo quadro è: … b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”; la clausola n. 5 (“Misure di prevenzione degli abusi”) dispone: “1. Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi,

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dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti”. La Corte di giustizia ha precisato che: “Il punto 1 di detta clausola ha lo scopo di attuare uno degli obiettivi perseguiti da detto accordo quadro, ossia limitare il ricorso a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, considerata come una fonte potenziale di abusi a danno dei lavoratori, prevedendo un certo numero di disposizioni minime di tutela destinate a evitare che la posizione dei lavoratori subordinati divenga precaria” (sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04, EU:C:2006:443, punto 63; del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07, EU:C:2009:250, punto 73; del 10.3.2011 Deutsche Lufthansa, C-109/09, EU:C:2011:129, punto 31; del 26 gennaio 2012, Kücük, C-586/10,EU:C:2012:39, punto 25; del 13 marzo 2014, Márquez Samohano, C-190/13, EU:C:2014:146, punto 41; del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C-362/13, EU:C:2014:2044 , punto 54; del 14.9.2016, Perez Lopez, C-16/15,EU:C:2016:679, punto 26; del 7 marzo 2018, Santoro, C-494/16, :EU:C:2018:166, punto 25, e del 25 ottobre 2018, Sciotto, C- 331/17, EU:C:2018:859, punto 30); infatti, “come risulta dal secondo comma del preambolo dell’accordo quadro, così come dai punti 6 e 8 delle considerazioni generali di detto accordo quadro, il beneficio della stabilità del rapporto di lavoro è considerato un elemento assolutamente rilevante per la tutela dei lavoratori, laddove è solo in determinate circostanze che contratti di lavoro a tempo determinato possono soddisfare le esigenze sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori” (sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04, EU:C:2006:443, punto 62, dell’8 marzo 2012, Huet, C- 251/11, EU:C:2012:133, punto 35; del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C-362/13, EU:C:2014:2044, punto 55; del 14 settembre 2016, Perez Lopez, C-16/15, EU:C:2016:679, punto 27 e del 25 ottobre 2018, Sciotto, C-331/17, EU:C:2018:859, punto 31). Sempre la Corte di giustizia ha statuito: “La clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro impone agli Stati membri, per prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure che essa elenca, quando il loro diritto interno non contenga norme giuridiche equivalenti. Le misure così elencate nel punto 1, lettere da a) a c), di

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detta clausola, in numero di tre, attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi” (sentenze del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07, EU:C:2009:250, punti 74 e 151; del 26 gennaio 2012, Kücük, C-586/10, EU:C:2012:39, punto 26; del 13 marzo 2014, Márquez Samohano, C-190/13, EU:C:2014:146, punto 42; ordinanza del 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13, EU:C:2013:873, punti 18 e 19; sentenze del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C-362/13, EU:C:2014:2044 , punto 56; del 26 novembre 2014, Mascolo, C-22/13, EU:C:2014:2401 punto 74; del 14 settembre 2016, Perez Lopez, C-16/15, EU:C:2016:679, punto 28; del 7 marzo 2018, Santoro, C-494/16, EU:C:2018:166, punto 26 e del 25 ottobre 2018, Sciotto, C-331/17, EU:C:2018:859, punto 32). In proposito la Corte ritiene che: “Gli Stati membri dispongono di un’ampia discrezionalità per l’attuazione della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, dal momento che essi hanno la scelta di far ricorso a una o più fra le misure enunciate nel punto 1, lettere da a) a c), di detta clausola, oppure a norme giuridiche equivalenti già esistenti, e ciò tenendo conto delle esigenze di settori e/o di categorie specifici di lavoratori” (sentenze 15 aprile 2008, Impact, C-268/06, EU:C:2008:223, punto 71; del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., EU:C:2009:250, C-378/07, punti 81 e 93; del 10.3.2011 Deutsche Lufthansa, C-109/09, EU:C:2011:129, punto 35; del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C-362/13, EU:C:2014:2044, punto 59; del 26 novembre 2014, Mascolo, C-22/13, EU:C:2014:2401 punto 75; del 14 settembre 2016, Perez Lopez, C-16/15, :EU:C:2016:679, punto 29; del 7 marzo 2018, Santoro, C-494/16, EU:C:2018:166, punto 27 e del 25 ottobre 2018, Sciotto, C-331/17, EU:C:2018:859, punto 33); quindi l’uso di contratti di lavoro a tempo determinato basato su ragioni obiettive è un mezzo per prevenire gli abusi, ma non il solo (sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04, EU:C:2006:443, punto 67, del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C- 378/07, EU:C:2009:250, punti 91 e 92; ordinanza 12 giugno 2006,Vassilakis e a., C-364/07, EU:C:2008:346, punto 86; sentenza del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C-362/13, EU:C:2014:2044 , punto 58;); in definitiva: “la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro fissa agli Stati membri un obiettivo generale, consistente nella prevenzione di abusi di tal genere, lasciando loro nel contempo la scelta dei mezzi per conseguire ciò, purché essi non rimettano in discussione l’obiettivo o l’efficacia pratica dell’accordo quadro” (sentenze dell’8 marzo 2012, Huet, C-251/11, EU:C:2012:133, punti 42 e 43; del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C-362/13, EU:C:2014:2044 , punto 59; del 26 novembre 2014, Mascolo, C-22/13, EU:C:2014:2401 punto 75; del 14 settembre 2016, Perez Lopez, C- 16/15,


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ECLI:EU:C:2016:679, punto 30; del 7 marzo 2018, Santoro, C-494/16, EU:C:2018:166, punto 27 e del 25 ottobre 2018, Sciotto, C-331/17, EU:C:2018:859, punto 34); ne consegue che, ai fini dell’attuazione di tale obiettivo, “uno Stato membro è legittimato a scegliere di non adottare la misura di cui al punto 1, lettera a), di detta clausola, consistente nell’imporre di giustificare il rinnovo dei suddetti contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione con ragioni obiettive. Viceversa, esso può preferire l’adozione di una delle misure o le due misure di cui al punto 1, lettere b) e c), della medesima clausola, relative, rispettivamente, alla durata massima totale di tali contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione e al numero dei loro rinnovi, oppure, ancora, optare per la conservazione di una equivalente misura di legge già in vigore purché, quale che sia la misura in concreto adottata, venga garantita l’effettiva prevenzione dell’utilizzo abusivo di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato (sentenze del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07, EU:C:2009:250, punto 94; del 10.3.2011, Deutsche Lufthansa, C-109/09, EU:C:2011:129, punto 44; del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C-362/13, EU:C:2014:2044 , punto 61; del 7 marzo 2018, Santoro, C-494/16, EU:C:2018:166, punto 27;). Sempre la Corte di giustizia ha precisato che spetta al giudice nazionale “valutare in che misura i presupposti per l’applicazione nonché l’effettiva attuazione delle disposizioni rilevanti del diritto interno costituiscano una misura adeguata per prevenire e, se del caso, punire l’uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”(sentenze del 7 settembre 2006, Vassallo, C- 180/04, EU:C:2006:518, punto 41, del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07, EU:C:2009:250, punto 164; del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C-362/13, EU:C:2014:2044 , punto 67; del 14 settembre 2016, Perez Lopez, C-16/15, EU:C:2016:679, punto 35;); tuttavia ha anche ritenuto che la Corte, “nel pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale, può fornire, ove necessario, precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua valutazione” (sentenza del 7 settembre 2006, Vassallo, C-180/04, EU:C:2006:518, punto 39, ordinanza del 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13, EU:C:2013:873, punto 31; sentenze del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C-362/13, EU:C:2014:2044, punto 67; del 14 settembre 2016 Perez Lopez, C-16/15, ECLI:EU:C:2016:679, punto 36; del 7 marzo 2018, Santoro, C-494/16, EU:C:2018:166, punto 45;): in proposito: a) con riferimento alla misura volta a prevenire l’utilizzo abusivo della successione dei contratti di lavoro di cui alla clausola 5, punto 1, lett. a) dell’accordo citato (“ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti”), la Corte di giustizia

ha ritenuto che: “Il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di fatto, hanno un carattere non già provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, non è giustificato ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro. Infatti, un utilizzo siffatto dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato è direttamente in contrasto con la premessa sulla quale si fonda tale accordo quadro, vale a dire il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro, anche se i contratti di lavoro a tempo determinato rappresentano una caratteristica dell’impiego in alcuni settori o per determinate occupazioni e attività” (sentenze del 26 gennaio 2012, Kücük, C-586/10, EU:C:2012:39, punti 36 e 37; del 13 marzo 2014, Márquez Samohano, C-190/13, EU:C:2014:146, punti 55-56, del 26 novembre 2014, Mascolo, C-22/13, EU:C:2014:2401, punto 100; del 14 settembre 2016, Perez Lopez, C-16/15, EU:C:2016:679, punto 48 e del 25 ottobre 2018, Sciotto, C-331/17, EU:C:2018:859, punto 50); ad avviso della Corte: “Spetta, pertanto, a tutte le autorità dello Stato membro interessato, compresi i giudici nazionali, garantire, nell’esercizio delle loro rispettive competenze, il rispetto della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, verificando concretamente che il rinnovo di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi… intenda soddisfare esigenze provvisorie e che una disciplina come quella controversa nel procedimento principale non sia utilizzata, di fatto, per soddisfare esigenze permanenti e durevoli…”(sentenze del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07, EU:C:2009:250, punto 106; del 26 gennaio 2012, Kücük, C-586/10, EU:C:2012:39, punto 39; del 13 marzo 2014, Márquez Samohano, C-190/13, EU:C:2014:146, del 14 settembre 2016, Perez Lopez, C-16/15, EU:C:2016:679, punto 49;); b) con riferimento alla misura volta a prevenire l’utilizzo abusivo della successione dei contratti di lavoro di cui alla clausola 5, punto 1, lett. b) dell’accordo citato (“la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi”) la Corte di giustizia ha ritenuto che una normativa nazionale “la quale prevede una norma imperativa ai sensi della quale, quando un lavoratore è stato ininterrottamente alle dipendenze dello stesso datore di lavoro, in forza di diversi contratti di lavoro a tempo determinato, per un tempo superiore a un anno, questi contratti sono trasformati in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato” è “tale da contenere una misura di legge equivalente alla misura preventiva contro il ricorso abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato enunciata nella clausola 5, punto 1, lettera b), dell’accordo quadro, relativa alla durata massima totale di siffatti contratti” (sentenza del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C-362/13, EU:C:2014:2044, punti

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69 e 70); ciò anche se considera “ininterrotti” e, conseguentemente, “successivi”, solo i contratti di lavoro a tempo determinato separati da un intervallo inferiore o pari a 60 giorni in quanto “un siffatto intervallo può essere considerato, in generale, sufficiente per interrompere qualsiasi rapporto di lavoro esistente. Sembra infatti difficile per un datore di lavoro, che abbia esigenze permanenti e durature, aggirare la tutela concessa dall’accordo quadro contro gli abusi facendo decorrere, alla fine di ciascun contratto di lavoro a tempo determinato, un termine di circa due mesi” (sentenza del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C- 362/13, EU:C:2014:2044, punto 71); alla luce di queste statuizioni si desume che neppure l’adozione della misura ex art. 5 co.1 lett. b) accordo cit., consistente nella previsione, da parte del legislatore nazionale, di una durata massima totale dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi, consente di fare ricorso ad una successione di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze di natura permanente; d’altronde tale preclusione ha un fondamento, rappresentato dalla considerazione che “i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro”, la quale costituisce “la premessa” sulla quale si base l’accordo quadro attuato dalla direttiva n. 1999/70/CE e che, quindi, è comune a ogni contratto di lavoro subordinato a tempo determinato. Pur in difetto di precedenti specifici della Corte di giustizia, sembra potersi dire lo stesso, ricorrendo l’eadem ratio, anche per la misura ex art. 5 co.1 lett. c) accordo cit., consistente nella previsione, da parte del legislatore nazionale, di un numero massimo dei rinnovi dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi. --Venendo a esaminare la disciplina interna, nel periodo 1.8.2015-31.1.2017 (epoca in cui si è realizzata la successione di contratti a tempo determinato in esame) vigeva il testo originario del d.lgs. 15.6.2015, n. 81, con il quale il legislatore italiano, al fine di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato, optò per l’introduzione della misura consistente nella fissazione di una durata massima dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi, così disponendo (art. 19 co.2 e 3): “Fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi, e con l’eccezione delle attività stagionali di cui all’articolo 21, comma 2, la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, non può superare i trentasei mesi. Ai fini del computo di tale periodo si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell’ambito

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di somministrazioni di lavoro a tempo determinato. Qualora il limite dei trentasei mesi sia superato, per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento.3. Fermo quanto disposto al comma 2, un ulteriore contratto a tempo determinato fra gli stessi soggetti, della durata massima di dodici mesi, può essere stipulato presso la direzione territoriale del lavoro competente per territorio. In caso di mancato rispetto della descritta procedura, nonché di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto, lo stesso si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data della stipulazione”. Può aggiungersi che una disciplina di contenuto simile trovava applicazione in ordine alla successione dei contratti di lavoro a tempo determinato all’epoca dello svolgimento del primo rapporto di lavoro (4.11.2013-3.5.2014) (art. 5 co.4bis d.lgs. 6.9.2001, n. 368). Si pone ora, alla luce degli insegnamenti della Corte di giustizia, la necessità di: - stabilire se la disciplina nazionale introdotta al fine di dare attuazione all’art. 5 co.1 lett. b) accordo cit. costituisca una misura adeguata per prevenire e, se del caso, punire l’uso abusivo di una successione di contratti a tempo determinato; - individuare il criterio con cui accertare se la successione dei contratti a tempo indeterminato sia stata utilizzata al fine di soddisfare esigenze permanenti o temporanee. Appare opportuno un esame congiunto delle questioni. Occorre prendere le mosse dal consolidato orientamento delle giurisdizioni superiori (ex multis sentenze della Corte di giustizia del 13 novembre 1990, Marleasing, C- 106/89, EU:C:1990:395, punto 8; del 15 maggio 2003, Mau, C-160/01, EU:C:2003:280, punto 36; del 22 maggio 2003, Connect Austria, C-462/99, EU: C:2003:297, punto 38; del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a. C-397/01-403/01, EU:C:2004:584, punto 114; ordinanze della Corte costituzionale n. 80 del 2015, n. 124 del 2012 e n. 216 del 2011; sentenza della Suprema Corte: Cass. S.U. 14.4. 2011, n. 8486; Cass. S.U. 16.3.2009, n. 6316; Cass. 22.5.2015, n. 10612; Cass. 18.4. 2014, n. 9082;), secondo cui sussiste in capo agli Stati nazionali l’obbligo dell’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme al diritto eurounitario. Con specifico riferimento alle direttive la Corte di giustizia ha statuito che: una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (sentenze del 26 febbraio 1986, Marshall, 152/84, EU:C:1986:84, punto 48; del 14 luglio 1994, Faccini Dori, C-91/92, EU:C:1994:292, punto 20, e del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C-397/01 a C-403/01, EU:C:2004:584, punto 108; del 7.8.2018, Smith, C-122/17, EU:C:2018:631, punto 42;); tuttavia l’obbligo per gli Stati membri, deri-


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vante da una direttiva, di conseguire il risultato previsto da quest’ultima così come il loro dovere di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo s’impongono a tutte le autorità degli Stati membri, comprese, nell’ambito delle loro competenze, quelle giurisdizionali (sentenze del 10 aprile 1984, von Colson e Kamann, 14/83, EU:C:1984:153, punto 26; del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a. C-397/01- 403/01, EU:C:2004:584, punto 110; del 19 gennaio 2010, Kücükdeveci, C-555/07, EU:C:2010:21, punto 47, del 19 aprile 2016, DI, C-441/14, EU:C:2016:278, punto 30; del 14 settembre 2016, Martínez Andrés e Castrejana López, C-184/15 e C-197/15, EU:C:2016:680, punto 50; del 7.8.2018, Smith, C-122/17, EU:C:2018:631, punto 38, e del 25 ottobre 2018, Sciotto, C-331/17, EU:C:2018:859, punto 67); infatti spetta in particolare ai giudici nazionali assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale derivante dalle norme del diritto eurounitario e garantirne la piena efficacia; ciò vale a maggior ragione quando la controversia sottoposta al giudice nazionale verta sull’applicazione di norme interne che sono state introdotte proprio al fine di recepire una direttiva volta a conferire diritti ai singoli; infatti il giudice nazionale, visto l’art. 288 co.3 TFUE, deve presumere che lo Stato, essendosi avvalso del margine di discrezionalità di cui gode in virtù di tale norma, abbia avuto l’intenzione di adempiere pienamente gli obblighi derivanti dalla direttiva considerata (sentenze del 16 dicembre 1993, Wagner Miret, C-334/92, EU:C:1993:945, punto 20; del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a. C-397/01-403/01, EU:C:2004:584, punto 112;); conseguentemente, nell’applicare il diritto interno, in particolare le disposizioni di una normativa appositamente adottata al fine di attuare quanto prescritto da una direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il diritto nazionale per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288 co.3 TFUE (sentenze del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C-397/01 a C-403/01, EU:C:2004:584, punti 113 e 114; del 19 gennaio 2010, Kücükdeveci, C-555/07, EU:C:2010:21, punto 48, del 19 aprile 2016, DI, C-441/14, EU:C:2016:278, punto 31, e del 7.8.2018, Smith, C-122/17, EU:C:2018:631, punto 39;). Alla luce di questi insegnamenti nel caso in esame occorre interpretare la legislazione interna relativa ai rapporti di lavoro subordinato a tempo determinato in modo da perseguire, tra l’altro, l’obiettivo, fissato dalla clausola n. 1 dell’accordo, cui la direttiva 28.6.1999, n. 1999/70/CE ha dato attuazione, di “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”, il che significa, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia appena richiamata, anche evitare che la successione di con-

tratti di lavoro subordinato a tempo determinato venga utilizzata per soddisfare esigenze di carattere durevole o permanente e comunque non temporaneo. Orbene, sembra potersi dire che ogni contratto di lavoro subordinato è diretto a soddisfare, attraverso prestazioni di lavoro, interessi di cui è portatore il datore; ciò è insito nella costante conformazione delle prestazioni del lavoratore agli interessi del datore, la quale costituisce l’essenza della subordinazione. Qualora il datore sia un imprenditore, gli interessi, che egli intende soddisfare mediante le prestazioni messe a disposizione dal lavoratore, attengono più che alla sua persona, all’attività economica da lui esercitata. In definitiva ogni contratto di lavoro subordinato stipulato da un datore imprenditore è diretto a soddisfare esigenze afferenti attività di natura economica e, quindi, di regola, aventi carattere tecnico, produttivo o organizzativo. Alla luce della disciplina eurounitaria più sopra ricordata le esigenze sottese alle successioni di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato devono possedere un quid pluris rappresentato dalla necessaria natura temporanea o comunque non permanente, né durevole. Qualora il legislatore nazionale abbia introdotto la misura ex clausola 5, punto 1, lett. a) dell’accordo cit., viene imposto alle parti (e, ovviamente, soprattutto al datore in quanto soggetto portatore dei relativi interessi) di indicare espressamente nel testo del contratto le esigenze concrete che quel negozio intende soddisfare; in caso di controversia sarà la parte interessata alla durata determinata del rapporto (e quindi, di regola, al datore di lavoro) ad essere onerata della prova dell’effettiva sussistenza di quelle esigenze e del loro carattere temporaneo. Qualora il legislatore nazionale abbia introdotto le misure ex clausola 5, punto 1, o lett. b) o lett. c) dell’accordo cit., viene imposto alle parti di indicare espressamente nel testo del contratto soltanto la durata massima totale dei contratti o il numero massimo dei rinnovi. Tuttavia, atteso che secondo il diritto eurounitario anche in questi casi le esigenze, al cui soddisfacimento la successione di contratti è diretta, devono avere un carattere temporaneo e comunque non permanente né durevole, si pone la questione di salvaguardare l’osservanza di questo precetto senza però introdurre surrettiziamente per via giudiziale e quindi in modo abnorme la misura ex clausola 5, punto 1, lett. a) accordo cit., che, come già precisato dalla Corte di giustizia, gli Stati membri non sono obbligati ad adottare. In proposito sembra sufficientemente plausibile ritenere che nell’ipotesi di superamento della durata massima totale dei contratti o del numero massimo dei rinnovi sorga la presunzione legale assoluta (con conseguente impossibilità di offrire prova contraria) che

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quella successione di contratti a tempo determinato era diretta a soddisfare esigenze non temporanee. Suscita interrogativi ben più complessi la situazione in cui la successione dei contratti a tempo determinato rispetta i limiti o di durata massima totale dei contratti o di numero massimo dei rinnovi previsti dal legislatore nazionale in attuazione delle misure ex clausola 5, punto 1, lett. b) o, rispettivamente lett. c) dell’accordo cit.. Appaiono configurabili tre risposte: A) la parte interessata alla durata determinata dei contratti (di regola il datore di lavoro) ha l’onere di provare l’effettivo carattere non temporaneo delle esigenze sottese alla successione dei contratti a tempo determinato; si tratta, però, di una soluzione non persuasiva atteso che appare perfettamente sovrapponibile a quella che si verificherebbe qualora il legislatore interno avesse scelto di adottare la misura ex clausola 5, punto 1, lett. a) accordo cit. (la cui portata precettiva verrebbe così introdotta in modo abnorme per via giudiziaria); B) all’opposto, sorge la presunzione legale assoluta (con conseguente impossibilità di offrire prova contraria) che quella successione di contratti a tempo determinato è diretta a soddisfare esigenze temporanee; anche questa soluzione non appare corretta atteso che rimetterebbe ad una valutazione generale ed astratta, qual è quella espressa dal legislatore, la verifica circa il carattere temporaneo o permanente delle esigenze perseguite da una specifica successione di contratti a tempo determinato; in proposito occorre ricordare il sostanziale disfavore che la Corte di giustizia esprime per soluzioni di questo genere: allorquando si controverte in ordine alla sussistenza dei requisiti attinenti le esigenze sottese ai contratti a tempo determinato, viene nettamente preferito il criterio dell’accertamento specifico in concreto rispetto a quello della valutazione generale ed astratta; ciò è stato più volte espressamente statuito in riferimento alle “ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo” dei contratti a tempo determinato, di cui alla clausola 5, punto 1, lett. a) accordo cit. (da ultimo sentenza del 25 ottobre 2018, Sciotto, C- 331/17, EU:C:2018:859, punto 39 e giurisprudenza ivi citata); tuttavia, come si già ricordato più sopra, la Corte di giustizia ha anche stabilito più in generale che “quale che sia la misura in concreto adottata”, deve essere “garantita l’effettiva prevenzione dell’utilizzo abusivo di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”, il che, sempre ad avviso della Corte di giustizia, equivale ad impedire che la successione di contratti a tempo determinato sia diretta a soddisfare esigenze di natura non temporanea; inoltre il giudice nazionale è tenuto a “valutare in che misura… l’effettiva attuazio-

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ne delle disposizioni rilevanti del diritto interno costituisca una misura adeguata per prevenire e, se del caso, punire l’uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”; d’altronde la necessità, imposta dal diritto eurounitario, che le successioni di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato siano dirette a soddisfare esigenze di natura permanente costituisce per il datore non solo un obbligo nei confronti del singolo lavoratore, ma anche un dovere di ordine generale, atteso che, altrimenti, al datore sarebbe sufficiente sostituire il lavoratore per eludere il precetto eurounitario; ne consegue che la natura (permanente o temporanea) delle esigenze perseguite dal datore deve essere accertata in una prospettiva che vada al di là dei rapporti con il singolo lavoratore; C) la soluzione più convincente sembra essere quella per cui – allorquando una successione dei contratti a tempo determinato rispetti i limiti o di durata massima totale dei contratti o di numero massimo dei rinnovi previsti dal legislatore nazionale in attuazione delle le misure ex clausola 5, punto 1, lett. b) o, rispettivamente lett. c) dell’accordo cit. – sorge la presunzione relativa che siffatta successione persegue esigenze aventi carattere temporaneo; quindi è riconosciuta alla parte che abbia un interesse contrario alla durata determinata del rapporto di lavoro (ossia, di regola, al lavoratore) la facoltà di offrire prova che la successione dei contratti a tempo determinato oggetto di controversia – seppur rispettosa dei predetti limiti di durata massima totale dei contratti o di numero massimo dei rinnovi – nel concreto, invece, sia volta a soddisfare esigenze aventi carattere permanente o durevole e comunque non temporaneo. In definitiva, rispondendo alle questioni poste all’inizio di questa analisi, la disciplina nazionale ex art. 19 co.2 e 3 d.lgs. 81/2015, introdotta al fine di dare attuazione all’art. 5 co.1 lett. b) accordo cit., costituisce una misura adeguata per prevenire e, se del caso, punire l’uso abusivo di una successione di contratti a tempo determinato, a condizione che venga interpretata nel senso di riconoscere alla parte, che abbia un interesse contrario alla durata determinata del rapporto di lavoro, la facoltà di offrire prova che la successione dei contratti a tempo determinato oggetto di controversia, seppur rispettosa dei limiti di durata massima totale dei contratti ivi previsti, nel concreto, invece, sia diretta a soddisfare esigenze aventi carattere permanente o durevole e comunque non temporaneo. --Conseguentemente in ordine al punto sub i) deve concludersi che, vigente la disciplina nel periodo 1.8.2015-31.3.2017 (quando si è realizzata la successione di contratti a tempo determinato di cui alla vicenda in esame), il ricorso a una successione di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato per soddisfa-


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re nel concreto esigenze di carattere non temporaneo era illegittimo e, quindi, determinava la nullità – per contrasto con le norme imperative ex art. 19 co.2 e 3 d.lgs. 81/2015 come interpretate in conformità alla direttiva n. 1999/70/CE – delle clausole appositive dei termini finali a detti contratti e la conseguente loro conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. a ii) Alla luce di quanto statuito sub i), è necessario accertare se la successione di contratti a tempo determinato, cui è ricorsa la società convenuta Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.), sia stata nel concreto diretta a soddisfare esigenze di carattere o temporaneo o invece permanente o comunque durevole. I) Quanto al contratto afferente il periodo 4.11.2013 – 3.5.2014, emerge per tabulas (doc. 1 fasc. ric.) che aveva per oggetto mansioni di “impiegata 5° livello amministrativa” CCNL Terziario e venne stipulato in ragione dell’ “entrata di due nuovi clienti, Societe Generale Insurance Italy e Amtrust”. In proposito la ricorrente allega che “le due predette società sono rimaste clienti della Omissis s.r.l.” (e successivamente della Omissis s.r.l. cessionaria da Omissis s.r.l. del ramo d’azienda “business sinistri”). Questa circostanza non è stata contestata né da Omissis s.r.l., né da Omissis s.r.l. Quindi è agevole concludere che le esigenze sottese alla stipulazione del contratto de quo avevano carattere non temporaneo. II) Quanto al contratto afferente il periodo 1.8.201531.1.2016, prorogato fino al 31.1.2017 e ulteriormente fino al 31.3.2017, emerge per tabulas (doc. 8-9-10 fasc. ric.) che aveva per oggetto mansioni di “impiegata 5° livello amministrativa addetta al supporto amministrativo liquidatore” CCNL Terziario. La stessa società convenuta Omissis s.r.l. allega (pag. 19 della memoria di costituzione) che “la sig.ra XXX YYY si occupava, in qualità di amministrativo di supporto al liquidatore, di assicurare la corretta gestione dell’attività liquidativa dal punto di vista amministrativo, svolgere attività di back office per la gestione della liquidazione preparando tutta la documentazione necessaria per la fase istruttoria, attivando le scadenze di legge ed interagendo con i fiduciari, di reperire tutte le informazioni necessarie per la liquidazione del sinistro ed inserirle nel gestionale”. Si tratta in tutta evidenza di prestazioni dirette a soddisfare esigenze permanenti o quanto meno durevoli e comunque non transitorie dell’impresa esercitata da Omissis s.r.l., la quale, come pure dalla stessa allegato (pag. 16), “si occupava della trattazione e definizione dei sinistri per conto delle compagnie assicurative e riassicurative italiane e d estere e consulenza nel settore. In particolare… trattava i sinistri (tutti i Rami)

per loro conto, provvedeva all’istruttoria e alla liquidazione del danno, fornendo sostanzialmente servizi alle compagnie assicurative nella gestione e liquidazione dei sinistri ai danneggiati”. In definitiva deve considerarsi compiutamente accertato che la successione di contratti a tempo determinato, cui è ricorsa la società convenuta Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.) nei periodi 4.11.2013 – 3.5.2014 e 1.8.2015-31.3.2017, è stata nel concreto diretta a soddisfare esigenze aventi carattere permanente o quanto meno durevole e comunque non transitorio. Ne consegue la nullità – per contrasto con le norme imperative ex art. 19 co.2 e 3 d.lgs. 81/2015 come interpretate in conformità alla direttiva n. 1999/70/ CE – delle clausole appositive dei termini finali a detti contratti e la conseguente loro conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data odierna. --Atteso che, secondo quanto allegato concordemente dalle parti, in epoca successiva alla scadenza dell’ultimo termine finale del 31.3.2017 Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.) ha ceduto, con effetto dal 15.1.2018, a Omissis s.r.l. il ramo d’azienda “business sinistri” al quale – circostanza questa incontestata – era addetta la ricorrente, la costituzione con la ricorrente Omissis Omissis , per effetto della appena disposta conversione, a decorrere dalla data odierna, dei contratti a tempo determinato integranti la successione ritenuta illegittima, di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato avente per oggetto mansioni di impiegata amministrativa di 5° livello, deve essere pronunciata in capo a Omissis s.r.l., quale cessionario del ramo d’azienda. In proposito questa società eccepisce le decadenze ex art. ex art. 32 co. 4 lett. c) e d) L. 183/2010 (“Le disposizioni di cui all‘articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche:… c) alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento; d) in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall‘articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”); sostiene che il termine ex art. 6 co.1 L. 604/1966 di 60 giorni decorre dalla data in cui l’atto di trasferimento è divenuto efficace (15.1.2018) o dalla data in cui tale atto è divenuto conoscibile mediante la pubblicazione nel registro delle imprese (qui 17.1.2018) e quindi era già scaduto all’epoca (9.4.2018) in cui la ricorrente ha impugnato i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato stipulati con Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.). L’eccezione non è fondata.

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Giurisprudenza

Va, infatti, considerato che la fattispecie attributiva alla ricorrente del diritto a costituire, ai sensi dell’art. 2112 co.1 cod.civ., un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con Omissis s.r.l., quale cessionaria, si è perfezionata solo in data odierna con la pronuncia – di natura costitutiva, il che rappresenta l’aspetto decisivo – di conversione a decorrere da oggi dei contratti a tempo determinato stipulati dalla cedente Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.) e integranti la successione ritenuta illegittima. Quindi solo da questa data (se non fosse già stata esercitata la relativa azione congiuntamente a quella di conversione promossa nei confronti della cedente Omissis s.r.l. ora ABCD s.r.l.) avrebbero iniziato a decorrere i termini di decadenza invocati dalla società cessionaria Omissis s.r.l.. Inoltre, re melius perpensa rispetto ad una propria decisione ormai risalente, occorre considerare il recente orientamento espresso dalla Suprema Corte (Cass. 25.5.2017, n. 13179;), secondo cui in tutte le fattispecie previste dall’art. 32 L. 183/2010, ivi comprese quelle di cui al co.3 in aggiunta al contratto a termine quali il recesso del committente nei rapporti di collaborazione ex art. 409 n. 3 cod.proc.civ., il trasferimento ai sensi dell’art. 2103 cod. civ. e il trasferimento di azienda ex art. 2112 cod.civ., “si è in presenza di atti posti in essere dal datore di lavoro ai quali il lavoratore si oppone invocandone l’illegittimità o l’invalidità, con azioni dirette a richiedere il ripristino del rapporto nei termini precedenti, anche in capo al soggetto che si sostituisce al precedente datore di lavoro nell’ambito del medesimo rapporto come nel caso di cessione di azienda, oppure con azione diretta a richiedere una continuità del rapporto, come nel caso del termine nullo, o ancora in tutte le ipotesi in cui il lavoratore opponga la natura irregolare o fraudolenta del contratto formale e rivendichi l’accertamento del rapporto in capo all’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa e dunque del reale datore di lavoro, come nel caso della somministrazione irregolare”; appare evidente come nel caso in esame la cessionaria Omissis s.r.l. non ha posto in essere alcun atto nei confronti della ricorrente; di questo orientamento appare precursore Trib. Roma 24.5.2016, M.A. e altri /G.C.F., secondo cui: la fattispecie ex art. 32 co.4 lett. c) L. 183/2010 (“cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 del codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento”) riguarda l’ipotesi in cui il lavoratore si opponga all’avvenuto trasferimento dell’azienda al cessionario e, quindi, un’ipotesi diametralmente opposta a quella in esame; la fattispecie ex art. 32 co.4 lett. d) L. 183/2010 (“in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto

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di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”) concerne i casi in cui “vi è sempre una sorta di “contatto” lavorativo tra lavoratore e soggetto diverso dal titolare del contratto, come si ricava dalla circostanza che la predetta ipotesi richiama espressamente la fattispecie del rapporto di lavoro in somministrazione (dove il “contatto” lavorativo è con l’utilizzatore), dovendo pertanto essa riguardare analoghe fattispecie, tipo il rapporto di lavoro in appalto o quello in distacco (dove il “contatto” lavorativo è con la società committente o con l’impresa distaccataria)”; lo si desume dal fatto che, come è stato poi precisato dall’art. 39 d.lgs. 15.6.2015, n. 81 in relazione alla somministrazione (e ritenuto dalla dottrina per le altre ipotesi riconducibili all’art. 32 co.3 lett.d) l. 183/2010), il termine di decadenza decorre dalla data in cui è cessato il rapporto con l’effettivo utilizzatore e cioè con il soggetto diverso dal titolare del contratto; è palese che nel caso in esame la cessionaria Omissis s.r.l. non ha avuto alcun pregresso contatto con la ricorrente. In definitiva deve essere dichiarato che in capo a Omissis s.r.l., quale cessionaria del ramo d’azienda, si è costituito, in data odierna, con la ricorrente Omissis Omissis , per effetto della disposta conversione dei contratti a tempo determinato integranti la successione ritenuta illegittima, un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato avente per oggetto mansioni di impiegata amministrativa di 5° livello. Alla ricorrente Omissis Omissis spetta, ai sensi dell’art. 28 co.2 d.lgs. 81/2015, anche il diritto alla corresponsione di un’indennità risarcitoria, al fine di ristorare il pregiudizio da lei subito in relazione al periodo compreso tra l’1.4.2018 e la data odierna, commisurata – in ragione dell’elevato numero di lavoratori alle dipendenze di Omissis s.r.l. alla data della scadenza del termine del 31.3.2017 (desumibile dalla visura CCIAA sub doc. 3 fasc.ric.) e del tempo trascorso tra quella data e la data odierna in cui è stata pronunciata la conversione – in nove mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Trattandosi di importo agevolmente determinabile, appare superfluo disporre c.t.u. ai fini della sua liquidazione. I soggetti passivi della pronuncia di condanna vanno individuati sia nella cedente Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.) sia nella cessionaria Omissis s.r.l., ai sensi dell’art. 2112 co.2 cod.civ., trattandosi di emolumento il cui diritto scaturisce dalla pronuncia di conversione dei contratti a tempo determinato stipulati dalla cedente Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.) e integranti la successione ritenuta illegittima. d) In ordine ai rapporti tra la ricorrente da un lato e Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.) e Omissis s.r.l. dall’altro, si dispone la compensazione delle spese nella misura


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di un quarto in ragione della complessità e dell’opinabilità delle questioni in ordine alle eccezioni di decadenza; le società convenute Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.) e Omissis s.r.l. vanno condannate alla rifusione, in favore della ricorrente Omissis Omissis , dei residui tre quarti, In ordine al rapporto tra la ricorrente e Omissis s.r.l. si dispone, sempre in ragione della complessità e dell’opinabilità delle questioni in ordine alle eccezioni di decadenza, l’integrale compensazione delle spese tra le parti. P.Q.M. Il tribunale ordinario di Trento Omissis Rigetta l’eccezione, sollevata dalle società convenute ABCD s.r.l. (già Omissis s.r.l.) e Omissis s.r.l., di decadenza ex art. 32 co. 3, lett. a) L. 4.11.2010, n. 183. Accertato che la successione di contratti a tempo determinato, cui è ricorsa la società convenuta Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.) nei periodi 4.11.2013-3.5.2014 e 1.8.2015-31.3.2017, è stata nel concreto diretta a soddisfare esigenze aventi carattere permanente o quanto meno durevole e comunque non transitorio, dichiara

la nullità, per contrasto con le norme imperative ex art. 19 co.2 e 3 d.lgs. 81/2015 come interpretate in conformità alla direttiva n. 1999/70/CE, delle clausole appositive dei termini finali a detti contratti e, conseguentemente, ne dispone la conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data odierna. Rigetta l’eccezione, sollevata dalla società convenuta Omissis s.r.l., di decadenza ex art. 32 co. 4 lett. c) e d) L. 183/2010. Dichiara in capo a Omissis s.r.l., quale cessionario del ramo d’azienda, la costituzione in data odierna, per effetto della disposta conversione dei contratti a tempo determinato integranti la successione ritenuta illegittima, di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la ricorrente Omissis , avente per oggetto mansioni di impiegata amministrativa di 5° livello. Condanna le società convenute Omissis s.r.l. (ora ABCD s.r.l.) e Omissis s.r.l., in solido, a corrispondere, in favore della ricorrente Omissis , l’indennità risarcitoria ex art. 28 co.2 d.lgs. 15.6.2015, n.81, commisurata in nove mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. (Omissis)

Le conseguenze derivanti dall’abuso dei contratti a termine alla luce dei principi europei Sommario : 1. Il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato nell’ordinamento dell’Unione Europea. – 2. Il contratto di lavoro a tempo determinato acausale previsto dal d. lgs. n. 81/2015, l’ineffettività dei limiti imposti all’utilizzo del termine. – 3. Limiti sostanziali ai contratti a termine: la temporaneità delle esigenze aziendali. – 4. “Oltre” la sentenza: il mutato quadro normativo dopo il cd. Decreto Dignità.

Sinossi. Il presente contributo prende in esame una recente pronuncia del Tribunale di Trento che afferma l’illegittimità della successione di contratti a tempo determinato diretti a soddisfare un’esigenza aziendale non temporanea, bensì durevole ovvero permanente, anche nel caso in cui siano formalmente rispettati i limiti normativi previsti dalla vigente legislazione. Ciò argomentando, il giudice del lavoro, di fatto, aggiunge un limite sostanziale ai limiti formali previsti dal legislatore europeo nella direttiva 1999/70/CE, desunto dalla ritenuta ratio della normativa stessa.

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Giurisprudenza

1. Il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato

nell’ordinamento dell’Unione Europea.

Il Tribunale di Trento è stato chiamato a decidere sulla legittimità di una successione di contratti a termine. Più specificamente, la ricorrente, come si avrà modo di approfondire successivamente, ha chiesto che venissero dichiarate nulle le clausole appositive dei termini ai contratti a termine stipulati per violazione della clausola 5 dell’Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, sotteso alla direttiva dell’Unione Europea 1999/70/CE. La ricorrente, in particolare, ha rappresentato di aver stipulato con la società resistente in giudizio diversi contratti a termine avente ad oggetto mansioni di impiegata amministrativa di V livello CCNL terziario. Alla scadenza dell’ultimo contratto di lavoro, ha, quindi, adito il giudice del lavoro competente chiedendo, in via principale, l’accertamento della nullità delle clausole appositive dei termini finali ai contratti stipulati per violazione della clausola 5, sul presupposto che questi erano stati stipulati per far fronte ad esigenze di carattere durevole e permanente e non temporaneo. La pronuncia in oggetto, nonostante si inserisca in un’ormai cospicua produzione giurisprudenziale sulla legittimità delle successioni di contratti a tempo determinato, presenta indubbi tratti di interesse poiché si pronuncia sulla necessità ed imprescindibilità della natura temporanea delle esigenze aziendali poste alla base della successione stessa. Prima di esaminare nel dettaglio le argomentazioni del Tribunale, è necessario, seppur sinteticamente, ripercorrere il quadro normativo di riferimento. A tal fine, è opportuno partire dalla legislazione europea che, con la direttiva 1999/70/ CE, ha disciplinato l’istituto sul contratto a tempo determinato ed, in particolare, il suo abuso. Il legislatore europeo, pur tenendo conto dell’esigenza degli imprenditori di poter utilizzare forme contrattuali più flessibili, in linea con le esigenze che sempre più spesso il mercato impone, ha voluto salvaguardare l’istaurazione di rapporti di lavoro stabili che garantissero ai lavoratori una sicurezza occupazionale e, quindi, economica. Tale valore costituisce per il diritto europeo un elemento portante della tutela dei lavoratori, facendo emergere il duplice obiettivo di proteggere, da un lato, i lavoratori dall’instabilità dell’impiego, e, dall’altro, di individuare nei lavoratori stabili il valido termine di comparazione per garantire trattamenti congrui ai lavoratori precari1. Sul punto si sottolinea come parte della dottrina2 rilevi che la garanzia alla stabilità del posto di lavoro abbia un valore non esclusivamente giuridico, ma anche un valore sociale. Il legislatore europeo, quindi, ha cercato di limitare il ricorso ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, considerato come una potenziale fonte di abuso in danno ai lavoratori. Una scelta comprensibile e condivisibile soprattutto laddove si consideri l’inevitabile parallelismo3 tra il termine apposto al contratto di lavoro, la cui

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Aimo, Il lavoro a termine tra modello europeo e regole nazionali, Giappichelli, 2017. Zoppoli, La disciplina post-vincolistica del lavoro a termine in Italia, Editoriale Scientifica, 2017. Saracini, Contratto a termine e stabilità del lavoro, Editoriale Scientifica, 2013.

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scadenza comporta automaticamente la risoluzione del rapporto, ed il licenziamento, ossia l’atto unilaterale del datore di lavoro che pone fine al rapporto, con i limiti all’uopo previsti dalla legge. Gli Stati membri, quindi, sono chiamati ad adottare idonee misure di prevenzione, prevedendo almeno una delle misure previste dalla clausola 5 dell’Accordo quadro4 attuativo della direttiva europea 1999/70/CE, ossia scegliendo autonomamente se prevedere delle ragioni giustificatrici sottese ai rinnovi contrattuali, ovvero prevedere una durata massima totale dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi, ovvero il numero massimo dei rinnovi dei suddetti contratti. Le misure di prevenzione previste dalla suddetta clausola, tuttavia, non sono da considerarsi tassative. I giudici di Lussemburgo, infatti, hanno specificato che gli Stati membri godono di una certa discrezionalità per l’attuazione della clausola testé analizzata, potendo prevedere anche una sola delle misure previste dall’accordo5. Com’è noto, infatti, il legislatore europeo si è limitato a fornire agli Stati membri delle linee guida, lasciando spazio a questi ultimi per l’individuazione della misura ritenuta opportuna per evitare, nel proprio ordinamento, l’illegittima successione di contratti a tempo determinato; così come è lasciato ai legislatori interni la scelta della sanzione da prevedere in caso di utilizzo abusivo ed illegittimo dell’istituto. L’ordinamento europeo, infatti, non vincola gli Stati membri alla sanzione “tipica” della conversione del contratto a tempo indeterminato fin dalla stipula del primo contratto a termine. È, infatti, possibile prevedere una diversa sanzione purché sia idonea a sanzionare e scoraggiare l’illegittima successione dei contratti a tempo determinato6. I principi sanciti dal legislatore europeo sono stati più volte ribaditi dalla giurisprudenza europea in diverse pronunce, anche recenti. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in particolare, nella sentenza emessa nel 2018 nel caso M. S. vs. Fondazione Teatro Opera di Roma7, pur riconoscendo che la normativa interna in materia di contratti a termine nel settore dello spettacolo sia caratterizzata da una certa ed inevitabile specificità, ha sottolineato che non è possibile consentire a uno Stato membro di invocare la specificità del settore come un mezzo per potersi esimere dal rispetto dell’obbligo generale incombente in forza della clausola 5 dell’accordo quadro in quanto andrebbe chiaramente in contrasto con il fine dalla stessa perseguito. Il dichiarato obiettivo del legislatore di assicurare una certa flessibilità nonché vantaggi sociali ai lavoratori nel settore dello spettacolo, offrendo

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Detta clausola, in particolare, dispone che per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, del contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti. C. giust., 15 aprile 2008, C-268/06, Impact, punto 71, http://curia.europa.eu. È considerato legittimo anche prevedere sanzioni diverse in base alla natura, pubblica o privata, del rapporto di lavoro. È ciò che avviene nel nostro ordinamento in cui è legittimamente esclusa la conversione in un contratto di lavoro a tempo indeterminato nel pubblico impiego, sulla base dell’art. 97 Costituzione che vincola l’ingresso nella P.A. al superamento di un concorso. C. giust., 25 ottobre 2018, C-331/2018, M. S. v. Fondazione Teatro Opera di Roma, http://curia.europa.eu.; C. giust., 26 febbraio 2015, C-238/14, Commissione v. Lussemburgo, punti 36, 50-51, http://curia.europa.eu.

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Giurisprudenza

ai datori di lavoro la possibilità di assumerli in modo frequente in base a contratti di lavoro a tempo determinato, non può certamente rendere la norma di per sé conforme all’accordo quadro, eludendo, così, il valore fondamentale della stabilità dell’impiego8. Pur riconoscendo, quindi, che lo sviluppo della cultura italiana nonché la salvaguardia del patrimonio artistico e storico italiano possono essere considerati come obiettivi degni di tutela costituzionale, non è riscontrabile alcuna motivazione che spieghi come il perseguimento di tali obiettivi richieda l’assunzione di lavoratori esclusivamente con contratti a tempo determinato9. Appare evidente, quindi, che la Corte sembra voler enfatizzare lo scopo dell’accordo quadro di evitare, o quanto meno ridurre, i rischi connessi all’instabilità dell’impiego, proteggendo la cd. job security tout court10, in ossequio alla volontà del legislatore europeo di rendere la stabilità dell’impiego un obiettivo prioritario nella materia dei rapporti di lavoro all’interno dell’Unione11. La discrezionalità lasciata agli Stati membri sul punto, infatti, è limitata ai soli casi di rapporti temporanei con una componente formativa o di inserimento, ad esempio con riguardo ai lavoratori socialmente utili, che può legittimare un differente trattamento, in ossequio ai generali principi di parità di trattamento e non discriminazione, considerato come obiettivo chiave dell’accordo e criterio ordinatore dell’intera disciplina12.

2. Il contratto di lavoro a tempo determinato a-causale previsto dal d. lgs. n. 81/2015, l’ineffettività dei limiti imposti all’utilizzo del termine.

In questo contesto normativo sovranazionale, si inserisce il d. lgs. 81/2015, vigente ratione temporis. Il cambiamento del mercato del lavoro avvenuto a seguito della globalizzazione ma, soprattutto, della crisi economica che dal 2007 vivono gran parte dei Paesi industrializzati, ha spinto il legislatore italiano a modificare la disciplina del contratto di

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Aimo, Il lavoro a termine tra modello europeo e regole nazionali, Giappichelli, 2017. Natullo,”Usi” e “Abusi” del contratto a termine nel settore dello spettacolo, in Saracini, Zoppoli (a cura di), Riforme del Lavoro Contratti a termine, Editoriale Scientifica, 2017. 10 Zappalà, Abuse of fixed-term employment contracts and sanctions in the recent ECJ’s jurisprudence, in ILJ, vol. 35, 2006, 441. 11 La giurisprudenza europea, infatti, ha progressivamente contribuito a costruire un bacino ampio di lavoratori tutelati. Sebbene la nozione di lavoratore a tempo determinato, infatti, dipenda esclusivamente dai diritti nazionali a cui spetta il compito di definire quali contratti o rapporti di lavoro rientrino nell’ambito di applicazione dell’accordo quadro, tale potere discrezionale non può essere considerato illimitato, bensì è limitato al perseguimento degli obiettivi individuati dai principi generali del diritto dell’Unione Europea e dalla direttiva, privando la stessa del proprio effetto utile. Da ciò deriva che nella definizione di lavoratori a tempo determinato rientrano tutti i lavoratori, indipendentemente dalla natura pubblica ovvero privata del datore di lavoro, che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un rapporto di impiego a tempo determinato che li vincola al loro datore di lavoro, con l’espressa eccezione dei lavoratori interinali, in quanto questi non hanno un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente tra il lavoratore ed il datore di lavoro. Sul punto vedi C. giust., 15 marzo 2012, C-157/11, Sibilio, punto 42, http://curia.europa.eu. 12 Sciarra, Il lavoro a tempo determinato nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Un tassello ella “modernizzazione” del diritto del lavoro, in WP D’Antona, It., n. 52/2007, 12. 9

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lavoro a tempo determinato, introducendo il cd. contratto a termine a-causale, strumento contrattuale considerato più flessibile ed in grado di rispondere meglio alle esigenze delle imprese e, contemporaneamente, di aumentare i livelli occupazionali, soprattutto tra i giovani. Per la prima volta, quindi, il legislatore ha svincolato completamente la possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro dalla presenza di ragioni giustificatrici, siano esse tecniche, produttive, organizzative ovvero sostitutive, così come previsto dal d. lgs. 368/2001. Com’è noto, infatti, l’art. 19 del d. lgs. 81/2015, nella versione precedente alla riforma del cd. “Decreto dignità”, (d. l. n. 87/2018), ha modificato la disciplina inerente ai vincoli da rispettare per l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato, sostanzialmente prevedendo il solo limite temporale di durata massima di 36 mesi, anche nel caso di una successione di contratti a termine con lo stesso datore di lavoro. A tale limite si aggiunge quello riferito al numero massimo di proroghe del contratto a tempo determinato, non superiore a cinque nell’arco dei 36 mesi. L’abrogazione del regime causale e la sostituzione con un sistema di limiti elastici di durata e di quantità alla stipula di contratti a termine ha segnato il passaggio da un controllo di carattere funzionale, che si riproponeva di bilanciare la corrispondenza tra ricorso al lavoro flessibile ed esigenze organizzative e produttive dell’impresa, ad un sistema in cui la legge si limita a predeterminare la dose di flessibilità che l’impresa può utilizzare13. Ovviamente, su questo aspetto si sono concentrate maggiormente le critiche dottrina14 rie sul presupposto che le ragioni giustificatrici poste alla base della stipula di un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato fossero, innanzitutto, un tratto identificativo della fattispecie ma, soprattutto, un irrinunciabile strumento di controllo della stessa, la cui eliminazione avrebbero potuto condurre alla completa liberalizzazione dell’istituto, con il rischio di un suo utilizzo improprio che avrebbe potuto causare una maggiore precarizzazione dei lavoratori. Ciò anche in considerazione del fatto che le ragioni giustificatrici al termine del contratto di lavoro, così come individuate dal d. lgs. 368/2001, erano già caratterizzate da un’estrema genericità, tanto da renderle facilmente eludibili. Nel tentativo di delimitarle, la dottrina e la giurisprudenza hanno ritenuto che dovessero assumere natura temporanea, intesa come tratto distintivo della fattispecie rispetto alla stabilità del rapporto di lavoro nel contratto a tempo indeterminato15. Non si è riusciti, tuttavia, ad elaborare un concetto unitario e preciso di temporaneità, tanto che si è arrivati a definirla16 come un concetto relativo e sfuggente perché fondato su un parametro, per l’appunto il tempo, per sua natura generico ed astratto.

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Zoli, La somministrazione di lavoro dal pacchetto Treu al decreto Poletti: un lungo percorso sulla via della liberalizzazione, in Carinci, Le politiche del lavoro del Governo Renzi. Atti del X Seminario di Bertinoro-Bologna del 23-24 ottobre 2014, in ADAPT University Press, 2015, 242. 14 Carinci, Il diritto del lavoro che verrà, in ADL, 2014, n. 3, I, 663. 15 Speziale, La nuova legge sul contratto a termine, in DLRI, 2001, n. 91, 379. 16 Speziale, La nuova legge sul contratto a termine, in DLRI, 2001, n. 91, 381.

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Giurisprudenza

A questi elementi di incertezza, inoltre, si aggiungeva la considerazione che la temporaneità doveva essere necessariamente valutata in funzione dell’organizzazione aziendale, decisa dallo stesso datore di lavoro, assumendo, in tal modo, un contenuto per molti versi autoreferenziale e difficilmente contraddicibile17. La conseguenza di quanto sin qui detto è stata che i giudici hanno preferito generalmente concentrarsi sui requisiti formali del termine più che analizzare il carattere temporaneo dell’esigenza allo stesso sotteso18. L’istituto, quindi, è stato utilizzato non tanto per rispondere ad esigenze di carattere meramente temporaneo, bensì come uno strumento di organizzazione del lavoro così da disporre di una stabile riserva di manodopera alla quale attingere, in modo ricorrente, in funzione delle esigenze di mercato19. In realtà, l’introduzione del contratto di lavoro a termine a-causale non ha portato ad un maggior utilizzo dello stesso. Ciò anche a causa dell’introduzione del cd. contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti previsto dal d. lgs. 22/2015, e degli sgravi contributivi allo stesso collegati, nonché alla revisione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che ha diversamente disciplinato le sanzioni connesse all’illegittima conclusione del rapporto di lavoro, prevalentemente imperniate un una tutela di tipo indennitario20, tanto da spingere una parte della dottrina21 a definire questo tipo di contratto come un contratto precariamente stabile, aprendo ad un fondamentale quesito circa la compatibilità della disciplina rispetto agli obiettivi prefissati dal legislatore europeo, ossia di garantire una reale stabilità per i lavoratori subordinati. È inevitabile, tuttavia, in un simile contesto, porsi il problema della valutazione circa la compatibilità della normativa italiana rispetto ai dettami europei, soprattutto alla luce di un processo, sempre più esteso, caratterizzato da una crescente uniformità delle riforme nazionali del lavoro, realizzata mediante una sostanziale riduzione dei diritti22. Gli obiettivi posti dal legislatore europeo hanno, appunto, come fine quello di reagire ad un simile processo, non attraverso un’uniformità degli strumenti, bensì della ratio generale dell’intervento regolativo e protettivo23. A ciò consegue la necessità, ai fini della corretta valutazione sulla compatibilità della normativa interna rispetto agli obiettivi fissati dalla direttiva europea 1999/70/CE, di guardare non tanto all’aspetto formale, ossia quello di individuare almeno uno dei limiti indicati dal legislatore europeo, quanto all’effettiva capacità della disciplina nazionale di evitare forme di abuso nell’utilizzo dell’istituto, in chiaro contrasto con l’obiettivo primario fissato dal legislatore europeo e recepito dal legislatore nazionale: garantire una stabilità

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Del Punta, La sfuggente temporaneità: note accorpate sul lavoro a termine e lavoro interinale, in DRI, 2002, n. 4, 547. Ludovico, Sui requisiti sostanziali e formali richiesti per l’apposizione del termine al contratto di lavoro e sulla loro autonomia (nota a Trib. Pavia, 12 aprile 2005), in ADL, 2006, n. 1, II, 270. 19 Ludovico, Contratto a tempo determinato versus contratto a tutele crescenti: gli obiettivi e i risultati del Jobs Act tra flessibilità e incentivi economici, in DRI, 2018, n. 1, 63. 20 Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra Costituzione e diritto europeo, in RIDL, 2016, I, 111. 21 Ballestrero, La riforma del lavoro: questioni di costituzionalità, in LD, 2015, 48. 22 Gottardi, Riforme strutturali e prospettiva europea di Flexicurity, in LD, 2015, 256. 23 Caruso, Militello, L’Europa sociale e il diritto: il contributo del metodo comparato, in WP D’Antona, It., n. 94/2012, 46. 18

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del posto di lavoro attraverso la stipula di contratti a tempo indeterminato, considerato quale forma comune di contratto di lavoro.

3. Limiti sostanziali ai contratti a termine: la temporaneità

delle esigenze aziendali.

Nel contesto normativo appena analizzato si inserisce la pronuncia in oggetto. Il giudice del lavoro ha cercato di fornire una risposta circa la compatibilità della normativa nazionale, ossia il d. lgs. 81/2015 applicabile al caso di specie, rispetto alla normativa europea rispondendo, così, all’esigenza di garantire dei limiti all’utilizzo del contratto a termine. Ciò ha spinto il giudice del lavoro a pervenire ad una soluzione interpretativa conforme ai principi europei, più volte ribaditi anche dalla giurisprudenza24, che, come detto precedentemente, hanno individuato nel contratto a tempo indeterminato la forma comune, idonea a garantire la stabilità del posto di lavoro e, conseguentemente, a combattere la precarietà. Sulla base dei principi europei, il Tribunale di Trento ha accolto il ricorso dichiarando la nullità dei termini apposti alla successione di contratti a termine. Nel risolvere la fattispecie sottopostagli, infatti, il giudice del lavoro, ha ripreso i principi espressi dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea25 che, in più occasioni, ha precisato che spetta al giudice nazionale valutare in che misura i presupposti per l’applicazione nonché l’effettiva attuazione delle disposizioni rilevanti del diritto interno costituiscano una misura adeguata per prevenire e, se del caso, punire l’uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato. Come anticipato precedentemente, i giudici di Lussemburgo26 hanno, altresì, specificato che il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di fatto, hanno un carattere non provvisorio ma permanente e durevole, non è giustificato in quanto si pone in netto contrasto con la ratio della clausola 5, punto 1, lettera a) dell’accordo quadro. Un tale utilizzo dell’istituto, infatti, si pone in diretto contrasto con la premessa su cui si fonda l’accordo stesso, ossia che il contratto di lavoro a tempo indeterminato resta la forma comune dei rapporti di lavoro, considerando l’apposizione del termine come una mera eccezione. Orbene, alla luce dei principi europei più volte ribaditi dalla giurisprudenza ed, altresì, in ossequio al principio per cui sussiste sugli Stati nazionali l’obbligo di interpretare il

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C. giust., 4 luglio 2006, C-212/04, Adeneler e a., punto 63, http://curia.europa.eu. C. giust., 7 settembre 2006, C-180/04, Vassallo, punto 41, http://curia.europa.eu; C. giust., 23 aprile 2009, C-378/07, Angelidaki e a., punto 164, http://curia.europa.eu. 26 C. giust., 26 novembre 2014, C-22/13, Mascolo, punto 109, http://curia.europa.eu, nel caso oggetto della sentenza citata, le esigenze di carattere durevole e permanente erano causate dalla mancanza strutturale di posti di personale docente di ruolo ma, in ogni caso, considerata un’infrazione in concreto della direttiva europea. Nello stesso senso vedi C. giust., 14 settembre 2016, C-16/15, PerezLopez, punto 48, http://curia.europa.eu; C. giust., 25 ottobre 2018, C-331/17, Sciotto, punto 50, http://curia.europa.eu. 25

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diritto interno in modo conforme ai principi eurocomunitari, il Tribunale di Trento, nel risolvere la fattispecie sottopostagli, ha ritenuto che, per perseguire il fine principale della direttiva europea 1999/70/CE e dell’accordo quadro alla stessa sotteso, è necessario interpretare il diritto interno in modo tale da evitare che la successione di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato venga utilizzata per soddisfare esigenze di carattere durevole o permanente e, comunque, non temporaneo. Il carattere temporaneo dell’esigenza aziendale andrebbe, quindi, considerato un limite non superabile ai fini della legittima apposizione del termine al contratto di lavoro. Appare, dunque, evidente come il Tribunale di Trento abbia ritenuto che il principio appena descritto, secondo cui le esigenze aziendali che giustificano l’apposizione del termine ad un contratto di lavoro devono essere temporanee e non permanenti o durevoli, sia un principio che deve prescindere dalla misura che il legislatore interno ritiene idonea ed adeguata onde contrastare un utilizzo abusivo del contrato a tempo determinato, andando, a ben vedere, oltre rispetto al dato letterale della clausola 5. Partendo, dunque, da un simile presupposto, il giudice del lavoro ha ritenuto che, anche se l’art. 19, commi 2 e 3 del d. lgs. 81/2015 prevede come misure idonee a evitare un utilizzo abusivo dell’istituto la durata massima dei rapporti di lavoro a tempo determinato ed il numero massimo di proroghe, il datore di lavoro troverà, comunque, un vincolo ulteriore per la legittima apposizione del termine al contratto di lavoro, ossia che questo sia giustificato da un esigenza meramente temporanea. Si potrebbe, quindi, dire che ad un limite meramente formale si aggiunge un limite tipicamente sostanziale che prescinde da una specifica causale giustificatrice dell’apposizione del termine. Interessante è l’iter logico-giuridico seguito dal giudice di merito per giungere ad una simile conclusione. Il giudice del lavoro, in particolare, ha ritenuto che, anche se viene rispettata la formale misura prevista del legislatore per evitare un utilizzo abusivo dei contratti a tempo determinato, ossia la durata massima dei 36 mesi, ciò non esclude un esercizio abusivo e distorto dell’istituto. Si configurerebbe, in questo caso, una presunzione relativa per cui la successione di contratti a tempo determinato, qualora il rapporto, come nel caso di specie, non ecceda la durata massima prevista dalla legge ovvero il numero massimo di proroghe, si presume che persegua esigenze di carattere temporaneo. Viene, tuttavia, riconosciuta alla parte che ne abbia interesse, ossia al lavoratore, la possibilità di dimostrare che, nel caso concreto, pur essendo stato rispettato il requisito formale del limite di durata massima del rapporto di lavoro, l’apposizione del termine sia stata funzionale ad esigenze di carattere permanente o comunque durevole e, quindi, legittimamente chiedere la dichiarazione di nullità del termine apposto, per violazione di norme imperative, con la conseguente conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Orbene, la ricostruzione normativa ed interpretativa fornita dal Tribunale Ordinario di Trento può apparire, come detto, un’interpretazione che si spinge oltre rispetto alla lettera della normativa interna applicabile, il d. lgs. 81/2015, nonché della clausola 5 dell’accordo quadro sotteso alla direttiva europea 1999/70/CE. Come analizzato precedentemente, il legislatore europeo ha ritenuto che anche la previsione di una sola misura scelta discrezionalmente dal legislatore interno sia, in ogni caso, in grado di evitare ed arginare l’utilizzo abusivo dei contratti a termine. Da ciò, dunque,

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deriva che non vi è alcun contrasto formale tra il d. lgs. 81/2015 e la direttiva 1999/70/ CE, considerando che il legislatore italiano ha sì eliminato le ragioni giustificatrici sottese all’apposizione del termine ma, contemporaneamente, ha previsto sia una durata massima del rapporto di lavoro a temine, sia un numero massimo di rinnovi e proroghe. Ciò nonostante, il Tribunale Ordinario di Trento, sul presupposto, più volte ribadito sia dalla giurisprudenza europea che interna27, secondo cui sussiste in capo agli Stati nazionali l’obbligo dell’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme rispetto al diritto eurounitario, ha ritenuto di dover disapplicare il diritto interno in quanto considerato non idoneo a contrastare l’utilizzo abusivo del contratto a tempo determinato o, per meglio dire, ha interpretato la normativa intera alla luce dei principi sottesi alla direttiva 1999/70/ CE. Il giudice del lavoro, infatti, ha ritenuto che l’apposizione di un termine al contratto di lavoro non può essere considerato legittimo per il solo rispetto del requisito formale di durata massima del rapporto stesso. Apporre un termine al contratto di lavoro per rispondere ad un’esigenza aziendale che, a ben vedere, è durevole ovvero permanente, non può che ritenersi in chiaro contrasto con il principio per cui il contratto di lavoro a tempo indeterminato è da considerare quale forma comune del rapporto di lavoro in quanto unica forma in grado di fornire una stabilità economico-sociale al lavoratore dipendente. In questo senso, quindi, il d. lgs. 81/2015 non darebbe piena attuazione ai principi sanciti dalla direttiva europea 1999/70/CE. Non sussisterebbe, dunque, alcuna ragionevole motivazione per cui il datore di lavoro dovrebbe scegliere di stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato in luogo di un contratto a tempo indeterminato se ha una durevole esigenza di avere una prestazione lavorativa in quel determinato settore produttivo. Altro aspetto meritevole di attenzione è la sanzione conseguente alla dichiarazione di nullità delle clausole appositive dei termini finali ai contratti sottoposti all’attenzione del giudice. Il Tribunale di Trento, infatti, ha disposto la conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Particolare, tuttavia, è la scelta della decorrenza della conversione stessa. Dal dispositivo della sentenza in commento, infatti, si legge che il giudice “dispone la conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data odierna”. La particolarità della decisione giudiziale spicca in considerazione del dato letterale della normativa applicabile al caso di specie. L’art. 19, comma 2 del d. lgs. 81/2015, infatti, prevede che “qualora il limite dei trentasei mesi sia superato, per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento”. Il legislatore ha chiaramente inserito la decorrenza del contratto a tempo indeterminato che deriva dalla conversione come sanzione a seguito di una illegittima successione di contratti a termine. La disposizione appena richiamata già si discosta da quanto previsto

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C. giust., 5 ottobre 2004, C-397/01-403/01, Pfeiffer e a., punto 1114, http://curia.europa.eu; Cass., 18 aprile 2014, n. 9082, in www. cortedicassazione.it.

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nel d. lgs. 368/2001, in cui espressamente il legislatore aveva previsto che in caso di illegittima apposizione di un termine ad uno o più contratti di lavoro, il rapporto si convertiva a tempo indeterminato fin dalla stipula del primo contratto. Con il decreto 81/2015 il legislatore ha modificato la decorrenza della conversione, collegandola al superamento del limite dei trentasei mesi. Nel risolvere il caso di specie, invece, il giudice del lavoro, pur riconoscendo la nullità delle clausole appositive dei termini finali ai contratti di lavoro stipulati tra le parti in giudizio, non ha riconosciuto alcuna retroattività con riferimento alla decorrenza del contratto a tempo indeterminato nato a seguito della conversione. E, quindi, dei suoi effetti, ad esempio con riferimento alle differenze retributive e contributive. In ogni caso, la soluzione prospettata dal Tribunale di Trento potrebbe sembrare audace considerando che, di fatto, andrebbe a vanificare la scelta legislativa di non vincolare l’apposizione di un termine al contratto di lavoro a delle ragioni giustificatrici ma, senza dubbio, non può non far riflettere su un fondamentale quesito: perché un datore di lavoro preferisce stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato in luogo di un contratto di lavoro a tempo indeterminato per rispondere ad un’esigenza aziendale permanente?

4. “Oltre” la sentenza: il mutato quadro normativo dopo il cd. Decreto Dignità.

L’entrata in vigore del d. l. 87/2018, convertito in legge n. 96/2018, ha modificato il contesto normativo che disciplina l’istituto del contratto a termine e, conseguentemente, il suo abuso. Il cd. Decreto Dignità, in particolare, al fine di contrastare la precarietà causata dalla normativa precedentemente in vigore e favorire la costituzione di rapporti di lavoro più stabili28, ha reintrodotto le causali giustificatrici dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro, senza, tuttavia, far rivivere le disposizioni normative del d. lgs. 368/2001. Il datore di lavoro, infatti, sarà vincolato alle causali previste dal legislatore solo nel caso di durata superiore ai dodici mesi del rapporto di lavoro. L’intento perseguito dal legislatore è stato, a ben vedere, duplice: da una parte, ridurre la precarietà di alcuni rapporti di lavoro e, dall’altra, incentivare in generale l’occupazione preferibilmente stabile29. Ciò è ancora più visibile se si considera che la contrattazione collettiva non può intervenire per introdurre causali diverse da quelle previste dal legislatore30, ma solo in merito alla durata dei rapporti e delle clausole di contingentamento. Sul punto, in particolare, si discute in dottrina31 sulla possibilità di aprire spazi alla contrattazione di prossimità che potrebbe derogare al rigore dei nuovi presupposti legali.

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Sartori, Prime Osservazioni sul Decreto «Dignità» Controriforma del Jobs Act con molte incognite, in RIDL, n. 4, 2018, 651. Minervini, Il “decreto dignità” per i lavoratori e per le imprese e la nuova disciplina del contratto a termine, in DRI, n. 1, 2019, 359. 30 Bollani, Contratto a termine e somministrazione, in DPL, 2018, 2367 ss. 31 Sacconi, Il decreto dignità tra vecchie rigidità e nuove responsabilità tra le parti sociali, in GLav, 2018, n. 35, 13. 29

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Senza voler entrare nel merito della riforma, alla luce di quanto sin qui detto e della soluzione interpretativa fornita dal Tribunale di Trento, appare opportuno fare alcune considerazioni. Pur mantenendo una sorta di contratto di lavoro a termine a-causale per i primi 12 mesi, nei successivi 12 mesi il datore di lavoro potrà stipulare contratti di lavoro a termine, oltre che per sostituire lavoratori assenti32, in presenza di “esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività”. Ciò potrebbe tradursi nella straordinarietà e nell’occasionalità dell’attività aziendale che giustifica l’apposizione del termine al rapporto di lavoro. In sintesi, si potrebbe dire che il recente intervento legislativo ha cercato di adottare misure per contrastare fenomeni giudicati con disfavore, come la precarietà del posto di lavoro, alla luce dei principi espressi più volte dal legislatore e dalla giurisprudenza dell’Unione Europea. Per fare ciò, il legislatore interno ha, in un certo senso, optato per una sintesi delle discipline previgenti. Se, infatti, sono state reintrodotte le causali giustificatrici dell’apposizione del termine ad un contratto di lavoro, il contratto a termine a-causale non è stato, tuttavia, completamente abrogato, ma resta, come detto, ammissibile se non superiore a 12 mesi. È incerto, tuttavia, se nei primi 12 mesi possono trovare spazi dei rinnovi contrattuali, ovvero se, nel primo arco temporale siano possibili solo proroghe33. Questo aspetto è particolarmente interessante proprio alla luce della pronuncia resa dal Tribunale di Trento, testé analizzata. La riforma, infatti, potrebbe fornire una soluzione alle problematiche affrontate dal giudice del lavoro che ha fornito, come detto, un’interpretazione della clausola 5 dell’accordo quadro sotteso alla direttiva 1999/70/CE alquanto estensiva. Parte della dottrina34, infatti, interpretando l’art. 19 del Decreto dignità in maniera molto restrittiva, ritiene che, anche qualora non venga superato il limite dei 12 mesi, un eventuale rinnovo potrebbe essere legittimo solo al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 19, comma 1 d. l. 87/2018, ossia solo in presenza di una delle causali tassativamente previste dal legislatore che legittimano l’apposizione del termine al contratto di lavoro. È evidente che una simile interpretazione sarebbe coerente con le argomentazioni del Tribunale di Trento, in quanto non si configurerebbe alcuna successione di contratti a termine se non in presenza di “esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività” che la renderebbero, quindi, legittima. È possibile, tuttavia, interpretare la normativa vigente anche in modo più estensivo. La lettera della norma, infatti, non sembra vietare esplicitamente che, nell’ambito dei 12 mesi, il datore di lavoro possa stipulare una successione di contratti a termine a-causali. Quest’ultima interpretazione porta a chiedersi se, alla luce della soluzione interpretativa fornita dal Tribunale di Trento, il lavoratore potrà, in caso di una successione di contratti

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È incerto, tuttavia, se il datore di lavoro può stipulare contratti a termine esclusivamente per sostituire lavoratori che hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro. 33 Le proroghe, infatti, non rientrano nell’ambito di applicazione della clausola 5 dell’accordo quadro sotteso alla direttiva comunitaria 1999/70/CE. 34 Passalacqua, Il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato e la somministrazione di lavoro alla prova del decreto dignità, in WP D’Antona, It., n. 380/2018, 14.

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Giurisprudenza

a termine a-causali, legittimamente chiedere giudizialmente la conversione in un contratto a tempo indeterminato qualora fornisca la prova che la successione di contratti a termine risponde ad esigenze non temporanei, bensĂŹ durevoli o permanenti. Paola Gaudio

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Giurisprudenza Tribunale

di

L ucca, decreto 20 Novembre 2018; Dott.ssa Susanna Messina – FIOM CGIL c. SNAITECH S.P.A.

Trasferimento d’azienda – Accordo di armonizzazione – Mancata sottoscrizione da parte di un’associazione sindacale – Disdetta ante tempus del contratto collettivo – Condotta antisindacale – Sussistenza.

Il contratto collettivo concluso con alcune soltanto delle associazioni sindacali aderenti ad un precedente contratto collettivo prima della naturale scadenza di quest’ultimo non è efficace nei confronti dei contratti di lavoro dei dipendenti affiliati al sindacato che non ha aderito alla nuova disciplina negoziale. Il comportamento del datore di lavoro che non applichi il contratto collettivo originario (sino alla sua scadenza) ai lavoratori aderenti al sindacato che non ha aderito al nuovo accordo è antisindacale, né assume rilievo la circostanza che egli abbia invitato tutti i sindacati a partecipare alle trattative.

(Omissis) Parte ricorrente chiede che sia dichiarato antisindacale il comportamento tenuto dalla convenuta consistito nella disapplicazione, prima della naturale scadenza, del CCNL metalmeccanici (a favore del CCNL terziario) per il tramite della sottoscrizione di un accordo di “armonizzazione” con altre sigle sindacali. Chiede dunque che sia ordinata la cessazione della condotta antisindacale e che sia pertanto disposta l’applicazione agli iscritti FIOM, nonché ai dipendenti non iscritti ad alcun sindacato, del CCNL metalmeccanici quantomeno fino alla naturale scadenza di quest’ultimo, evidenziando le consistenti ripercussioni che, in denegata ipotesi, si verrebbero a creare anche in termini di libertà sindacali, non essendo FIOM sottoscrittrice del CCNL terziario. Parte convenuta nega il fondamento delle avverse pretese, rilevando che l’accordo di armonizzazione trae origine dall’esigenza aziendale di trovare una sintesi tra le varie contrattazioni applicate ai dipendenti acquisiti a seguito di successive incorporazioni di società e che la FIOM è stata costantemente invitata al tavolo delle trattative. Sostiene pertanto che non vi sia stata alcuna lesione delle prerogative sindacali, evidenziando, da un lato, che è stata libera scelta dell’OS quella di non partecipare ai vari incontri di negoziazione e, dall’altro, che è stata adottata, ai fini dell’approvazione dell’accordo, la procedura prevista dall’accordo interconfederale del 2014 (ritenendosi operativa, per analogia, la disciplina prevista per le ipotesi di assenza di RSU, medio tempore scadute). Il ricorso è fondato e deve essere accolto. I fatti che hanno dato adito al presente giudizio sono pacifici tra le parti e possono essere riassunti come segue.

Al fine di pervenire ad un’armonizzazione dei vari CCNL operativi in azienda, la società convenuta ha avviato un tavolo delle trattative volto a conseguire l’applicazione, per tutti i lavoratori – Omissis –, del CCNL del terziario con “abbandono” del CCNL metalmeccanici – Omissis –. Sono state interpellate, come interlocutori, le principali OOSS di entrambe le categorie. FIOM, di fatto, non ha mai partecipato agli incontri, ribadendo la propria netta contrarietà al recesso ante tempus dal CCNL metalmeccanici. Il confronto è pertanto seguito con altre sigle sindacali (salvo Filcams CGIL, che si è successivamente ritirata aderendo alla posizione dell’odierna ricorrente) e nell’ottobre 2018 è stata formulata una ipotesi di accordo che si è deciso di sottoporre alla consultazione dei lavoratori data l’intervenuta scadenza delle RSU (in analogia con quanto previsto dall’accordo interconfederale del 2014 per i casi in cui vi sia soltanto una RSA). A seguito dell’esito positivo della consultazione, sono state consegnate a tutti i lavoratori comunicazioni individuali esplicative delle condizioni economiche e normative stabilite dalla nuova disciplina. – Omissis – In ipotesi di incorporazione, la giurisprudenza è consolidata circa l’individuazione del CCNL applicabile: “L’incorporazione di una società in un’altra è assimilabile al trasferimento d’azienda di cui all’art. 2112 cod. civ., con la seguente applicazione del principio statuito dalla citata norma secondo il quale ai lavoratori che passano alle dipendenze dell’impresa incorporante si applica il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso l’azienda cedente solamente nel caso in cui l’impresa cessionaria non applichi alcun contratto collettivo, mentre, in caso contrario, la contrattazione collettiva dell’impresa cedente è sostituita immediatamente ed in tutto da quella applicata


Giurisprudenza

nell’impresa cessionaria anche se più sfavorevole.” (cfr., per tutte, Cass. sez. L, sent. n. 5882/10). Nel caso di specie non è stato esplicitato quale fosse il CCNL applicato dalla convenuta all’epoca dell’incorporazione, tuttavia vi è prova in atti – Omissis – che la stessa aderisse a Confindustria (firmataria del CCNL metalmeccanici) e che solo nel giugno 2018 (a trattative iniziate) abbia fatto richiesta di associazione a Confcommercio (firmataria del CCNL terziario). Pertanto, può concludersi che certamente la convenuta fosse tenuta all’applicazione del CCNL metalmeccanici, rimanendo irrilevante (perché sopravvenuto in un momento successivo, peraltro a ridosso della stipula dell’accordo di armonizzazione) il recesso da Confindustria – Omissis –. Fermo quanto sopra, va ricordato che, nonostante le loro peculiarità, i CCNL sono e rimangono dei contratti di diritto privato e pertanto soggiacciono alla relativa disciplina. Ne discende che, come anche chiarito dalla giurisprudenza di Cassazione, la facoltà di apportare modifiche a un contratto ancora in corso spetta esclusivamente alle parti che lo hanno sottoscritto, non essendo configurabile un’azione unilaterale del datore di lavoro – Omissis – (cfr. Cass. sez. L., sent. n. 8994/11). Sebbene le finalità della condotta datoriale siano comprensibili da un punto di vista di organizzazione imprenditoriale, ciò non toglie che la decisione di cessare l’applicazione del CCNL metalmeccanici senza l’accordo delle OOSS firmatarie costituisce una pretermissione di queste ultime delle loro specifiche prerogative. Come condivisibilmente affermato dal decreto del Tribunale di Modena allegato dalla ricorrente sub doc. 25 “la stipulazione di un contratto collettivo costituisce una delle principali manifestazioni della forza e della rappresentatività di una organizzazione sindacale, che si accredita come interlocutore delle contrapposte organizzazioni di categoria e del datore di lavoro. È dunque evidente il discredito che il recesso ante tempus è idoneo a cagionare nei confronti del sindacato ricorrente, che, pur avendo sottoscritto un CCNL avente efficacia fino al 31 dicembre 2011, ne vedeva vanificata ante tempo l’efficacia e l’operatività. Né a diverse conclusioni può giungersi in considerazione del fatto che il datore non abbia in alcun modo precluso la partecipazione della FIOM (e che anzi abbia costantemente cercato di coinvolgerla nel confronto) e che sia stata quest’ultima ad “autoescludersi” dal dibattito. Ciò per due motivi. Il primo è che la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere irrilevante la sussistenza, o meno, di un intento lesivo, per cui l’assenza della specifica volontà di ledere le prerogative sindacali non incide sulla sussistenza di una oggettiva violazione dei diritti dell’OS. Si veda, per tutte, Cass. sez. L., n. 13726/14 – Omissis –.

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Il secondo è che, ove la FIOM avesse partecipato agli incontri e l’accordo non fosse stato comunque raggiunto, il risultato non sarebbe cambiato: in assenza del consenso di una delle parti stipulanti, il contratto continua ad essere vincolante fino alla scadenza, per cui la società convenuta non avrebbe potuto sottrarsi agli obblighi da esso derivanti. Infine, non risulta decisivo il rispetto delle disposizioni dell’accordi interconfederale del 2014 che, come chiaro dal dato testuale, riguardano la contrattazione collettiva di livello aziendale. A quest’ultima va riconosciuta una funzione esclusivamente integrativa di quella nazionale, dovendosi escludere che per il tramite di accordi di secondo livello (e senza il consenso di tutti i soggetti coinvolti) si possa costituire, di fatto, la contrattazione di primo livello applicabile, specie a fronte CCNL non scaduto. Anche a tali fini pare irrilevante il sopravvenuto recesso di parte convenuta da Confindustria, poiché successivo all’instaurazione del rapporto di lavoro con i dipendenti transitati dalle società incorporate e comunque avvenuto in corso di validità del CCNL di riferimento, altrimenti sarebbe troppo semplice per il datore aggirare gli obblighi derivanti dagli accordi collettivi sottoscritti dalle associazioni di categoria. Il CCNL dei metalmeccanici deve dunque continuare ad essere applicato a tutti gli iscritti FIOM, nonché ai lavoratori non iscritti ad alcun sindacato che ne facciano specifica richiesta (per il principio giurisprudenziale che ne sancisce l’estensione di efficacia ai soggetti che vi prestino espressa o implicita adesione), fino alla sua naturale scadenza. È appena il caso di ricordare che il CCNL in questione deve intendersi operativo anche nei confronti dei dipendenti che abbiano sottoscritto la comunicazione – Omissis –. Sebbene sia ivi riportata la dicitura “per ricevuta e accettazione” la stessa non può essere considerata una vera e propria adesione del lavoratore alle nuove clausole contrattuali. Ciò in quanto è la stessa azienda ad escluderne la natura negoziale, inquadrandola alla stregua di una mera presa d’atto dell’informativa – Omissis –. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. PQM Il Tribunale così dispone: - dichiara l’antisindacalità della condotta posta in essere da parte convenuta e per l’effetto ordina la cessazione della stessa e la rimozione degli effetti tramite l’applicazione, fino alla sua naturale scadenza, del CCNL dei metalmeccanici ai lavoratori iscritti alla FIOM e a quelli non iscritti ad alcuna sigla sindacale che ne facciano specifica richiesta; - condanna parte convenuta a rimborsare a parte ricorrente le spese di lite che si liquidano in complessivi euro 2800 oltre iva cpa e con rimborso forfettario come per legge. (Omissis)


Cinzia Carta

Validità dei contratti collettivi separati e ricorso all’art. 28, l. n. 300/1970 Sommario :

1. Introduzione. Contrattazione separata e non partecipazione del sindacato alle trattative. – 2. Il decreto del Tribunale di Lucca in accoglimento del ricorso promosso ex art. 28, l. n. 300/1970 dalla Fiom Cgil. – 3. Competizione fra c.c.n.l. e uso strumentale del diritto privato. – 4. Conclusioni. Utilità e limiti del ricorso all’art. 28, l. n. 300/1970 contro lo shopping contrattuale.

Sinossi. Il contributo muove dall’analisi della condotta antisindacale di un datore di lavoro che, prima della scadenza di un contratto collettivo, ha dato attuazione, nei rapporti di lavoro di tutti i propri dipendenti, ad un diverso accordo, concluso in un secondo momento con soggetti sindacali differenti da quelli che avevano sottoscritto il precedente contratto collettivo. L’autrice si sofferma in particolare sul problema della contrattazione separata e della competizione fra contratti collettivi.

1. Introduzione. Contrattazione separata e non

partecipazione del sindacato alle trattative.

La conclusione di un contratto collettivo è generalmente intesa come l’atto con cui sindacato e controparte datoriale raggiungono un compromesso, al fine immediato1 di superare un conflitto in corso o comunque di comporre interessi divergenti2. In questo senso, il contratto collettivo è un modo per garantire una tregua momentanea3, mediante reciproche concessioni sulle condizioni da applicare ai lavoratori, nonché eventualmente sul comportamento che le parti s’impegnano a tenere nei rapporti reciproci4. Come noto, si può far pace solo con i propri avversari.

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A prescindere, poi, dalla funzione del contratto collettivo, che si identifica nel bilanciamento dello squilibrio negoziale. R. Bortone, Il contratto collettivo tra funzione normativa e funzione obbligatoria, Cacucci, 1992, 105 ss. Romagnoli, Il contratto collettivo difficile, in Lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto, Il Mulino, 1974, 216-224. Secondo quanto rilevato già agli albori degli studi in materia da Messina, I concordati di tariffa nell’ordinamento giuridico del lavoro, in RDComm, 1904, I, 511 ss. e successivamente in Scritti giuridici, IV, Scritti di diritto del lavoro, Giuffrè, 1948, 3 ss. 35 ss.; Galizia, Il contratto collettivo di lavoro, Luigi Pierro, 1907. La stipula del contratto collettivo non pone fine alla possibilità di aprire nuove negoziazioni né implica di per sé un obbligo di pace implicito per i sindacati. Fondamentale per tale ricostruzione l’elaborazione di Giugni, Mancini, Movimento sindacale e contrattazione collettiva, in RGL, 1972, 325 ss. Ove anche lo si ritenesse astrattamente configurabile sul piano della teoria dei contratti (Mengoni, Limiti giuridici al diritto di sciopero, in RDL, 1949, I, 246 ss.), un obbligo di pace implicito non sarebbe infatti compatibile con l’art.

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Giurisprudenza

Pur avendo raggiunto un punto d’incontro, è comunque possibile che le parti intendano riprendere le negoziazioni, fermo restando che le regole del diritto privato impongono – per non incorrere in responsabilità risarcitorie – di adempiere agli obblighi espressamente assunti per tutta la durata del contratto5 (a tempo determinato), salvo recesso o modifica mutualmente consensuale6. L’eventuale mancato rispetto del contratto collettivo, comunque, non ha conseguenze di tipo solo civilistico. Sul piano sindacale, l’attività negoziale dei sindacati, il cui libero esercizio è garantito dall’art. 39 della Costituzione, può perdere effettività allorché il datore di lavoro non applichi le condizioni convenute per la disciplina dei rapporti di lavoro degli affiliati al sindacato con cui abbia concluso un determinato contratto collettivo (salvo, se il contratto è a tempo determinato, un mutuo consenso alla modifica o al recesso). Il diritto privato, in queste ipotesi, può rivelarsi uno strumento insufficiente a garantire la funzione del contratto collettivo7. Sono noti in proposito i ricorsi promossi pochi anni orsono dalla Fiom Cgil ai sensi dell’art. 28, l. n. 300/19708 per condotta antisindacale, al fine di impedire che il datore di lavoro potesse applicare agli iscritti a tale sindacato, durante la vigenza del contratto collettivo sottoscritto anche dalla Fiom Cgil, un diverso accordo, concluso in un secondo momento con altre sigle sindacali9. Similmente all’ipotesi del contratto collettivo separato concluso con la Fiat, il Tribunale di Lucca, nel decidere sul caso in commento, è stato pertanto chiamato a stabilire se ad un simile comportamento sia dato rispondere con le armi fornite dall’art. 28, l. n. 300/1970.

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40 Cost. (in questo senso già Ghezzi, La responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali, Giuffrè, 1963): sebbene il contratto collettivo spesso serva a placare momentaneamente una situazione di conflitto (Roccella, Parte obbligatoria del contratto collettivo e diritti sindacali di controllo, in RGL, 1977, 413), da ciò nell’ordinamento italiano non discendono limiti all’azione collettiva, salvo – ma solo in capo ai soggetti stipulanti e non per i singoli lavoratori, così Giugni, Diritto Sindacale, Cacucci, 2010, 148; Contra, F. Santoro Passarelli, Pax, pactum, pacta servanda sunt (A proposito delle cosiddette clausole di tregua sindacale), in MGL, 1971, 374 ss. – quanto previsto dalle stesse parti contraenti (Giugni, L’obbligo di tregua: valutazioni di diritto comparato, in RDL, 1973, 23 ss.; Scognamiglio, La disciplina negoziale del diritto di sciopero, in RDL, 1972, 351 ss.). Contra, fra i primi e più rilevanti contributi, Santoro Passarelli, op. cit. Per delle ricostruzioni sul tema, ex multis, Magnani, Tregua sindacale, Digesto comm., Utet, 1999, 136 ss., Nogler, Pacta sunt servanda e contratti collettivi, in Aa. V.v., Studi in onore di E. Ghera, Cacucci, 2008, 771 ss.; Corazza, Il nuovo conflitto collettivo. Clausole di tregua, conciliazione e arbitrato nel declino dello sciopero, Franco Angeli, 2012; Falsone, Dalle clausole di tregua alla esigibilità: di nuovo l’obbligo implicito di pace sindacale?, in LD, 2015, 121 ss. Sul rispetto della parte obbligatoria del contratto collettivo si segnala l’introduzione delle clausole di c.d. esigibilità, che hanno sollevato non poco dibattito. Sul tema, ex multis, Falsone, Dalle clausole di tregua alla esigibilità, cit.; Barbieri, Il testo unico alla prova delle norme giuridiche, in DLRI, 2014, 577. Ex multis, Bavaro, Sull’efficacia temporale del contratto collettivo nell’ordinamento giuridico sindacale, in RIDL, 2014, I, 51 ss.; Maresca, Contratto collettivo e libertà di recesso, in ADL, 1995, 35 ss.; Tiraboschi, L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro: atipicità dello schema negoziale, giuridicità del vincolo e cause di scioglimento, in DRI, 1994, 1, 83 ss. Sul tema della funzione, ex multis, Giugni, La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, in Atti del III Congresso nazionale del lavoro, Pescara-Teramo, 1-4 giugno 1967, Giuffrè, 1968, 19 ss.; Bortone, Il contratto collettivo tra funzione normativa e funzione obbligatoria, Cacucci, 1992. Norma considerata veramente di chiusura fra ordinamento dello Stato e intersindacale, Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, Angeli, 1974. Si sorvola sulla diatriba relativa all’interpretazione della disposizione quale norma sostanziale o processuale; cfr. Falsone, Tecnica rimediale e art. 28 dello Statuto dei lavoratori, in LD, 2017, 565 ss.; Di Cerbo e Simeoli, Commento sub art. 28, in Amoroso, Di Cerbo, Maresca, Diritto del lavoro. Lo Statuto dei lavoratori e la disciplina dei licenziamenti, 2017, 1224 ss. Ex multis, Liso, Un primo commento ai decreti ex articolo 28 st. lav. sull’applicazione del ccnl separato dei metalmeccanici del 2009, in RIDL, 2011, II, 700 ss.; Del Punta, Del gioco e delle sue regole note sulla «sentenza Fiat», in RIDL, 2011, II, 1421 ss.

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A prescindere dal caso Fiat10, non è infrequente constatare che – anzi, dal volgere del millennio succede piuttosto spesso – durante la vigenza di un contratto collettivo, il datore di lavoro ne dia disdetta ante tempus e concluda un nuovo accordo, firmato con solo alcune fra le parti di quello iniziale11. In molte circostanze, il soggetto più combattivo e inviso al datore di lavoro (spesso, negli ultimi anni, la Fiom Cgil)12 è sovente anche quello che non firma il nuovo contratto13. In questi casi, il datore di lavoro sfida il proprio principale “avversario” muovendo dal piano delle trattative a quello dell’effettiva applicazione della disciplina contenuta nel contratto collettivo già concluso. Quando ciò si traduce, da parte del datore di lavoro, nella conclusione di un accodo diverso, prima della scadenza del precedente e con altri soggetti, il contratto collettivo viene di fatto considerato come una modalità di composizione degli interessi non solo temporanea, ma anche instabile. Si tratta, evidentemente, di una fra le possibili manifestazioni della dinamica nota come contrattazione “separata”14. Con tale espressione ci si riferisce, come noto, alle ipotesi in cui le trattative sono condotte congiuntamente dai sindacati, mentre la firma del contratto collettivo è disgiunta15. Può però anche verificarsi che un sindacato non partecipi sin dal principio alle trattative per la conclusione di un accordo, in specie se firmatario di un contratto collettivo ancora vigente. Osservando le relazioni industriali e le controversie giudiziarie che ne scaturiscono, tale ipotesi può destare uno specifico interesse per almeno due ragioni: perché accade che in certi casi sia collegata a fenomeni di dumping negoziale; perché talvolta si sostanzia in un’autoesclusione del sindacato dalle trattative. Quest’ultima, a sua volta, potrebbe essere addotta come prova dell’inesistenza di condotta antisindacale. Quando, invece, non è detto che sia così.

2. Il decreto del Tribunale di Lucca in accoglimento del

ricorso promosso ex art. 28, l. n. 300/1970 dalla Fiom Cgil. Nel caso in commento, l’impresa convenuta (Sainatech S.p.A.) aveva incorporato una società aderente a Confindustria e che doveva ritenersi vincolata al c.c.n.l. dell’industria

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Che sia considerato o meno esemplificativo del sistema sindacale italiano, la sua importanza è comunque innegabile. Bavaro, Contrattazione collettiva e relazioni industriali nell’«archetipo» Fiat di Pomigliano, in QRS, 2010, 3, 340 ss.; Scarpelli, Pomigliano: variazioni sul tema, in DLM, 2010, 3, 517 ss. 11 Ex multis, Lassandari, Problemi e ricadute della contrattazione “separata”, in DLRI, 2010, 323 ss. 12 Tant’è che si è anche posto il problema dell’impossibilità per la Fiom, altamente rappresentativa nei luoghi di lavoro, di integrare i requisiti dell’art. 19, l. n. 300/1970; ciò ha portato alla notissima sent. Corte cost. 23 luglio 2013, n. 231. Fra i numerosi contributi in materia, Miscione M., Le relazioni sindacali dopo gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, in LG, 2011, 337 ss.; Lassandari, Tra diritti sindacali e contrattazione collettiva: la consulta trova una difficile via, in DLM, 2013, 721 ss.; Maresca, Costituzione della rsa e sindacati legittimati, in ADL, 2013, 1298 ss.; Carinci, Il buio oltre la siepe: Corte costituzionale 23 luglio 2013, n. 231, in DRI, 2013, 899 ss.; De Stefano, La Corte Costituzionale e l’art. 19 dello statuto dei lavoratori: molto più che un semplice aggiornamento, in ADL, 2013, 1407 ss. 13 Il discorso sarebbe per vero più articolato; cfr. Regalia, Galetto, Tajani, Osservazioni sulle relazioni industriali nei casi di contrattazione separata, in RGL, 2010, 19 ss. 14 Maresca, Accordi collettivi separati: tra libertà contrattuale e democrazia sindacale, in RIDL, 2010, 29 ss. 15 Id., Ivi, 30-31.

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Giurisprudenza

metalmeccanica. A seguito dell’incorporazione, il nuovo soggetto economico, al fine asserito di semplificare la molteplicità di c.c.n.l. in azienda, intendeva applicare a tutti i lavoratori il c.c.n.l. terziario ed invitava le principali confederazioni al tavolo delle trattative. La Fiom Cgil, firmataria del c.c.n.l. metalmeccanici precedentemente applicato, decideva di non partecipare agli incontri, perché contraria al recesso ante tempus dal contratto collettivo dei metalmeccanici. Le altre sigle (ad esclusione della Filcams Cgil, che si allineava alla Fiom Cgil) formulavano con il datore un’ipotesi di accordo, che prevedeva il passaggio al c.c.n.l. terziario. La stessa veniva sottoposta all’approvazione referendaria dei lavoratori, in analogia espressa con la previsione dell’Accordo Interconfederale del 2014 per l’ipotesi di contratto aziendale in presenza di r.s.a. (nel frattempo, la r.s.u. stabilita in azienda aveva raggiunto la sua naturale scadenza). La consultazione dava esito positivo. Il datore faceva quindi consegnare una comunicazione sulle nuove condizioni a tutti i dipendenti, i quali controfirmavano individualmente il documento ricevuto. La Fiom Cgil chiedeva che il comportamento della società convenuta, che aveva disapplicato prima della scadenza il c.c.n.l. metalmeccanici a favore del c.c.n.l. terziario, fosse dichiarato antisindacale e che il giudice ne ordinasse pertanto la cessazione immediata, con applicazione del c.c.n.l. metalmeccanici ai lavoratori della Fiom Cgil e ai lavoratori non iscritti ad alcun sindacato. Il Tribunale ordinario di Lucca, nel decidere sul ricorso promosso ex art. 28 l. n. 300/1970, ha qualificato anzitutto l’operazione societaria ai sensi dell’art. 2112 c.c., confermando un indirizzo costante della giurisprudenza di legittimità (si richiama Cass. 11 marzo 2010, n. 5882)16, e ha ritenuto altresì che la stessa fosse tenuta all’applicazione del c.c.n.l. metalmeccanici. Infatti, nonostante la società, durante le trattative per l’incorporazione, avesse fatto richiesta di iscrizione a Confcommercio, firmataria del c.c.n.l. terziario, al momento del passaggio di titolarità la stessa era ancora aderente a Confindustria. Il contratto collettivo applicato dal cessionario precedentemente e successivamente al trasferimento sarebbe stato pertanto sempre il medesimo, ossia il c.c.n.l. metalmeccanici. Un problema quasi sorvolato dal decreto in commento è quello della rilevanza o meno della disciplina contenuta nell’art. 2112 c.c. al fine di determinare quale contratto collettivo fosse applicabile al caso di specie. Come si è detto, la società convenuta aveva consultato i dipendenti al fine di armonizzare i c.c.n.l. applicabili in azienda. La stessa asseriva che la consultazione con cui i lavoratori sceglievano di accettare il passaggio al c.c.n.l. terziario avrebbe costituito un modo per armonizzare i contratti dei dipendenti a seguito del trasferimento, concludendo un contratto aziendale ai sensi delle regole previste nel Testo Unico sulla Rappresentanza del 2014 (per l’intervenuta scadenza della r.s.u., che avrebbe implicato l’applicazione della consultazione necessaria per il caso della costituzione di sole r.s.a.)17. Se si ritiene che ciò configuri un accordo c.d. di armonizzazione successivo al trasferimento d’azienda, come mostra di sostenere il datore di lavoro, sarebbe però evidentemen-

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Pubblicata in LG, 2010, 785 ss., con nota di Bavasso. Sul tema, Lambertucci, La rappresentanza sindacale e gli assetti della contrattazione collettiva dopo il testo unico sulla rappresentanza del 2014: spunti di riflessione, in RIDL, 2014, I, 237 ss.; Carinci (a cura di), Il Testo Unico sulla rappresentanza 10 gennaio 2014, Adapt University Press, 2014.

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te problematico applicare il c.c.n.l. così scelto in base al terzo comma dell’art. 2112 c.c. Sebbene il contenuto del contratto aziendale fosse quello di recepire il c.c.n.l. terziario, esso sarebbe stato pur sempre un contratto di diverso livello rispetto al c.c.n.l. metalmeccanici. Diversamente, ritenendo che di fatto si sia avuto un passaggio fra c.c.n.l., si pone il problema di stabilire se l’adesione successiva ad un contratto collettivo preesistente, in mancanza di negoziazione ad hoc, possa comportare l’applicabilità dei trattamenti previsti nel contratto collettivo del cessionario. In passato, dottrina e giurisprudenza hanno espresso due orientamenti principali: secondo un primo, per la sostituzione del contratto collettivo sarebbe necessaria una disciplina negoziata con i sindacati appositamente per il trasferimento; secondo un altro, confermato dalla giurisprudenza di legittimità, si può avere applicazione automatica del contratto collettivo già applicato dal cessionario ai propri dipendenti18. La prima interpretazione osterebbe all’applicazione del c.c.n.l. terziario. La seconda, invece, potrebbe consentirla, ma solo se letta in senso ampio, cioè ritenendo che la sostituzione automatica possa avvenire ove il cessionario abbia aderito al contratto collettivo non prima bensì dopo il trasferimento. Conclusione, questa, che sembra esclusa dal Tribunale di Lucca e che si esporrebbe ad un uso opportunistico della facoltà prevista dal terzo comma dell’art. 2112 c.c., la quale è volta a promuovere la contrattazione collettiva dopo una prima fase di “assestamento”, oltre a garantire l’applicazione di un contratto collettivo19. Peraltro, l’espressione “contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario” sembra doversi riferire, sul piano letterale, a quelli già adottati in quest’ultima. In altri termini, se al momento del trasferimento il contratto collettivo applicato era quello dei metalmeccanici, come ricostruisce il giudice, il cessionario avrebbe dovuto modificare la disciplina collettiva alla scadenza di quest’ultimo, salvo mutuo consenso di tutte le parti alla disdetta. Nel decreto in commento, la questione è stata trattata quale disdetta ante tempus di un contratto collettivo a tempo determinato, il c.c.n.l. metalmeccanici, con successiva adesione ad un nuovo accordo, firmato con «altre sigle sindacali» rispetto a quelle che avevano sottoscritto il contratto collettivo precedente. In base alle regole del diritto privato, la facoltà di apportare modifiche ad un contratto prima della sua scadenza spetta all’insieme delle parti che lo abbiano stipulato; il comportamento della convenuta, secondo il giudice, era perciò da ritenersi illegittimo. A prescindere dalla validità del nuovo contratto fra gli stipulanti, il precedente avrebbe comunque dovuto trovare applicazione per i soggetti che non avevano aderito alla nuova disciplina negoziale. Detta illegittimità, a parere del Tribunale, costituiva altresì una condotta antisindacale reprimibile ai sensi dell’art. 28, l. n. 300/1970. La decisione di applicare agli iscritti di determinate associazioni sindacali (durante la vigenza del “proprio” contratto collettivo) condizioni previste in un altro accordo, al quale esse non avevano voluto aderire, sarebbe

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Ricostruiscono questi orientamenti, Luciani, Contratto collettivo e controllo sindacale nel trasferimento dazienda, in Rusciano, Zoli, Zoppoli (a cura di), Istituzioni e regole del lavoro flessibile, Editoriale Scientifica, 2006, 441 ss.; Allamprese, Il contratto collettivo nel trasferimento d’azienda, in ADL, 2007, 813 ss.; Scarpelli, Il mantenimento dei diritti del lavoratore nel trasferimento d’azienda: problemi vecchi e nuovi, in WP D’Antona, It., 20/2004. 19 Scarpelli, op. cit.

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Giurisprudenza

stata una «pretermissione di queste ultime dalle loro specifiche prerogative». Il fatto che il datore non avesse precluso la partecipazione di tutti i sindacati alle trattative, ma che avesse anzi invitato anche la ricorrente, non avrebbe giocato alcun ruolo nella qualificazione di antisindacalità, perché, secondo un orientamento a dir poco consolidato, per integrare i requisiti della norma è sufficiente l’oggettiva idoneità alla lesione dei beni protetti, senza che rilevi l’intenzione del datore di lavoro. Del resto, se i sindacati dissenzienti avessero partecipato per poi non firmare il nuovo accordo, il risultato sarebbe stato il medesimo. La circostanza che il datore abbia consultato i lavoratori, poi, non avrebbe assunto valore sostitutivo della mancata firma, poiché in nessun caso un accordo di secondo livello separato sarebbe stato in grado di sostituire la disciplina del contratto collettivo nazionale stipulato unitariamente. Di conseguenza, il giudice ha disposto che il c.c.n.l. metalmeccanici dovesse continuare a trovare applicazione per gli aderenti alla Fiom Cgil nonché per gli altri lavoratori non iscritti ad alcun sindacato e che ne facessero richiesta. Aver controfirmato un documento meramente informativo non sarebbe equivalso, infatti, ad esprimere la volontà di richiedere l’applicazione del c.c.n.l. terziario.

3. Competizione fra c.c.n.l. e uso strumentale del diritto

privato.

Il decreto del Tribunale di Lucca esemplifica alcuni tratti problematici dell’odierno sistema di relazioni sindacali italiano, riassumibili in poche parole: competizione fra contratti collettivi di categoria. In tempi recenti, il passaggio da un’associazione datoriale ad un’altra o la disdetta del contratto collettivo vigente sono comportamenti che si accompagnano sovente alla volontà delle imprese di optare per un diverso contratto collettivo rispetto a quello applicato sino a quel momento, dando luogo ad una prassi sempre meno episodica20. Quest’osservazione deve essere contestualizzata nell’ambito di una generale crisi del sistema di relazioni sindacali, a causa o per effetto della quale i contratti nazionali di categoria talvolta faticano a garantire una tutela adeguata e uniforme delle condizioni di lavoro in un determinato ambito produttivo o merceologico21. In anni in cui il relativo numero è cresciuto in modo (anche) indipendente dall’effettiva moltiplicazione dei settori22, quel sistema di regole che per lungo tempo è stato identificato con l’ordinamento

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Lassandari, Problemi e ricadute della contrattazione “separata”, cit. 332. Inutile dire che su questo terreno un ruolo decisivo – in Italia come nel resto d’Europa – è stato giocato dalle pressioni delle imprese e delle istituzioni nazionali e sovranazionali per un maggiore decentramento della produzione di regole o comunque per la deregolazione della disciplina negoziale di livello nazionale. Ex multis, Treu, La contrattazione collettiva in Europa, in DRI, 2018, 371 ss.; Bavaro, Azienda, contratto e sindacato, Cacucci, 2012. 22 Per quanto un certo incremento sia ricollegabile alla sempre più complessa realtà economica sottostante; fra i motivi ulteriori (che forse sono anche più determinanti) si ascrive l’emersione di soggetti sindacali nuovi (più o meno transeunti) e la moltiplicazione delle associazioni datoriali. Cfr. Gottardi, La contrattazione collettiva tra destrutturazione e ri-regolazione, in LD, 2016, 884 ss.

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intersindacale23 mostra segni di evidente difficoltà, soprattutto qualora (alternativamente o congiuntamente): il contratto collettivo “scelto” dall’impresa rappresenti un accordo al ribasso sulle condizioni di lavoro; sia concluso da soggetti dalla scarsa rappresentatività24. Anche a prescindere da tali ipotesi limite, il fatto che nella medesima categoria sussistano discipline negoziali alternative25 può offrire di fatto alle imprese la possibilità di trarre vantaggi dallo shopping negoziale, anche (non sempre, ma spesso) a scapito degli interessi dei lavoratori26. Se la libertà di applicare qualunque contratto collettivo27 e di dare luogo a fenomeni di contrattazione separata, che discende direttamente dall’art. 39, comma 1, Cost., non sempre si traduce in una cattiva promozione degli interessi dei lavoratori, nel caso in commento essa si accompagna altresì alla violazione di un accordo collettivo a tempo determinato al quale non tutti i contraenti intendono dare disdetta. Infatti, anche nel contesto dei contratti collettivi, così come in quello dei contratti in generale, è illegittimo che alcune parti di un accordo plurisoggettivo28 concluso per un fine unitario decidano di sottrarsi agli obblighi assunti. Tuttavia, il problema è che questo nulla toglie alla validità del contratto successivamente concluso dalle stesse29. L’applicabilità del contratto collettivo successivo (ai sindacati firmatari e ai loro iscritti) è coerente con ciò che si potrebbe definire “attuazione civilistica” del principio di libertà

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E che oggi è posto seriamente in discussione, Gragnoli, Esiste ancora un ordinamento intersindacale?, in Studi in memoria di Mario Giovanni Garofalo, Cacucci, 2015, 433 ss. Il riferimento, naturalmente, è alla ben nota teoria elaborata da Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, cit. 24 In altre parole, si tratta di contratti “pirata”, secondo la nota espressione adoperata per primo da Pera, Note sui contratti collettivi «pirata», in RIDL, 1997, I, 391 ss. Recentemente, Centamore, Contratti collettivi o diritto del lavoro «pirata»?, in VTDL, 2018, 471 ss. 25 Già Lassandari, Pluralità di contratti collettivi nazionali per la medesima categoria, in LD, 1997, 261 ss. Da ultimo, Ciucciovino, Mettere ordine nella giungla dei ccnl: un’esigenza indifferibile, in DLRI, 2018, 227 ss. 26 Una dinamica piuttosto studiata in relazione al caso Fiat, ma caratteristica di molti contesti produttivi e sindacali. Ex multis, Gottardi, La Fiat, una multinazionale all’assalto delle regole del proprio Paese, in LD, 2011, 387, in cui si osserva come in la Fiat abbia inaugurato addirittura il passaggio dalla fase dello shopping a quella dell’autoreferenzialità. Il discorso si collega, più in generale, alla crisi della funzione anticoncorrenziale del contratto collettivo, cfr. Gragnoli, La parabola del contratto collettivo nella società economica italiana, in LG, 2013, 653 ss. 27 Alla questione dell’inapplicabilità della regola di cui all’art. 2070 c.c. al contratto collettivo si aggiunge, infatti, il problema della pluralità di contratti che abbiano campi d’applicazione sovrapponibili. In proposito occorre menzionare l’orientamento inaugurato da Corte cost. n. 70 e 106 del 1963, con nota di Giugni, in G.Cost., 1963, 820 ss. Sulla questione, come noto, Mancini, Libertà sindacale e contratto collettivo «erga omnes», in RTDPC, 1963, 570 ss., ripubblicato in Id., Costituzione e movimento operaio, Il Mulino, 1976. V. altresì Cass. Ss. Uu., 26 marzo 1997, n. 2665, in GC, 1997, I, 1999, con nota di Pera, pubblicata successivamente anche su GI, 1998, 916 con nota di Marazza; Cass. n. 2460 del 26 novembre 2015. Recentemente sul tema, Viscomi Soggettività sindacale e categorie contrattuali, in RGL, 2014, I, 69 ss. Nel nostro ordinamento, secondo l’interpretazione consolidata, la categoria cui si applica il contratto collettivo è quella individuata dalle stesse parti che lo firmano. Cfr. Lassandari, Campo di applicazione del contratto, in Garofalo, Roccella (a cura di), Commentario al contratto collettivo nazionale di lavoro dei metalmeccanici: 20 gennaio 2008, Cacucci, 2010, 29 ss. 28 Con “plurisoggettivo” si vuole dire che è stipulato da più sindacati. L’espressione è stata usata in passato per definire il contratto aziendale come fenomeno “asindacale” (quando ancora si riteneva che l’interesse collettivo potesse essere solo quello di categoria e che quindi a livello aziendale non si potesse avere un contratto collettivo vero e proprio. Così Zangari, Legge, norma collettiva e contratto aziendale, in DE, 1958, 486); non è però in questo senso che la si adopera nel ragionamento sulla disdetta di alcune parti rispetto ad un accordo stipulato unitariamente. 29 Secondo la «salomonica» soluzione adottata da una buona parte dei giudizi promossi dalla Fiom Cgil in simili circostanze, si avrebbero cioè due contratti validi: quello disdettato, fino alla scadenza, per gli iscritti al sindacato contrario alla disdetta, e quello successivamente stipulato, per i lavoratori aderenti agli altri sindacati. L’espressione si trova in Lassandari, L’azione giudiziale come forma di autotutela collettiva, in LD, 2014, 309 ss., spec. 316.

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Giurisprudenza

sindacale, con ciò intendendo l’orientamento interpretativo – assolutamente consolidato in giurisprudenza e in dottrina – che ha avuto il pregio di fornire veste giuridica alle relazioni sindacali “di fatto”30 dell’ordinamento post costituzionale31. In base alle regole che scaturiscono dagli artt. 1321 c.c. ss., in caso di contratti tempo determinato32, il principio di conservazione implica la validità – naturalmente, per i soli stipulanti e relativi affiliati – dell’accordo concluso da alcuni contraenti in violazione di quello stipulato unitariamente, pur esponendo a responsabilità risarcitoria le parti che non abbiano rispettato i termini di durata del precedente regolamento negoziale33. Come è stato da più parti osservato, lo strumentario fornito dal diritto privato, al quale è stato fatto ricorso per fornire tutela giuridica ai prodotti dell’autonomia collettiva, si espone oggi ad un uso strumentale delle parti34, in grado di ritorcersi contro l’andamento per così dire fisiologico delle relazioni sindacali. È possibile che, usando opportunisticamente le regole del diritto comune, si finisca per scardinare le basi dell’ordinamento intersindacale, che si fondano sulla concezione per cui la sigla di un accordo si pone come esito di un reale confronto fra parti contrapposte e garantisce una sia pur limitata stabilità regolativa per il tempo della sua vigenza35. Quando, come nel caso di specie, un sindacato forte e rappresentativo, firmatario di un contratto collettivo vigente, non è disposto a trattare prima della scadenza dello stesso, e il datore di lavoro si rivolge ai dipendenti per decidere di applicare un diverso accordo (concluso con altri soggetti), l’attività negoziale del sindacato ne può venire fortemente delegittimata; da ciò scaturisce l’esigenza di tutela contro la condotta antisindacale del datore di lavoro che non applichi il contratto collettivo originario ai lavoratori aderenti al sindacato dissenziente. La delegittimazione, a ben vedere, deriva puramente e semplicemente dal mancato rispetto del contratto concluso sino alla sua naturale scadenza, in quanto ciò impedisce al sindacato di produrre una disciplina negoziale in grado di regolare le condizioni di lavoro dei propri aderenti. In tal caso il contratto collettivo finisce per somigliare molto ad una somma di contratti bilaterali, con buona pace dell’intera storia del

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Flammia, Contributo all’analisi dei sindacati di fatto, Giuffrè, 1963. Sul tema, indispensabili, fra i molti, i riferimenti a Vardaro, Contrattazione collettiva e sistema giuridico. Il diritto sindacale tra contratto e istituzione, Jovene, Napoli, 1984; Carabelli, Libertà e immunità del sindacato, Jovene, 1986. 32 Non così per gli accordi a tempo indeterminato, che legittimano il recesso unilaterale di entrambe le parti, v. Levi, La disdetta o il recesso dai contratti collettivi, in Zoli (a cura di), Le fonti. Il diritto sindacale, in DLComm, Utet, 2007, 444 ss. Per i contratti collettivi a tempo determinato, l’unica possibilità di recesso legittimo, sebbene di difficile inquadramento teorico e pratico, è quella offerta dal codice civile per l’ipotesi dell’eccessiva impossibilità sopravvenuta. Sia consentito rinviare a Carta, Principio di libertà delle forme e disdetta orale: ancora sulla disciplina civilistica applicabile al contratto collettivo, in q. riv., 2018, 470 ss. 33 Alcuni giudici per vero hanno ritenuto che la risoluzione soggettivamente parziale fosse legittima, qualificando in fin dei conti il contratto collettivo come un insieme di accordi bilaterali; il che riporterebbe la discussione sul tema ai tempi della giurisprudenza probivirale in modo non compatibile con la tutela minima garantita dalla Costituzione all’autonomia collettiva. Così ragionando, in effetti, i contratti collettivi non avrebbero alcuna stabilità e le rispettive parti sarebbero veramente libere di agire indipendentemente dagli accordi presi. Sul tema, Lassandari, I giudici e il conflitto intersindacale tra libertà sindacale e diritto comune, in RGL, 2011, 3, 297 ss. 34 Sul caso Fiat-Fiom, in particolare, Lassandari, Il giudice “equilibrista” e il rebus del sistema sindacale italiano: osservazioni sulla controversia tra Fiom e Fiat, in RGL, 2012, 3 ss. 35 Sul cedimento sofferto dal principio negoziale come base e fulcro dell’ordinamento sindacale, Gragnoli, Esiste ancora un ordinamento intersindacale?, cit. 31

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Cinzia Carta

diritto sindacale italiano, la cui esistenza è legata in gran parte al superamento di questa prospettiva36. La decisione della Fiom Cgil di non partecipare neppure alle trattative, lungi dal testimoniare l’assenza di condotta antisindacale del datore di lavoro, può essere considerata casomai un comportamento normale, di fronte alla decisione di disapplicare il contratto collettivo vigente in assenza di un unanime mutuo consenso ad avviare dette trattative. D’altra parte, la stessa Corte costituzionale ha recentemente ammesso la predominante importanza della manifestazione di dissenso rispetto all’adesione formale al contratto collettivo per il godimento dei diritti sindacali ai sensi dell’art. 19, l. n. 300/1970, precisando che la volontà di non stipulare un contratto ritenuto insoddisfacente può essere un altrettanto valido e forse ancora più potente indizio di rappresentatività37. In questo quadro non può essere secondario osservare la problematicità della consultazione diretta dei lavoratori, in apparente applicazione dell’Accordo Interconfederale, ma condotta in realtà nel tentativo di aggirare il dissenso della Fiom Cgil ed applicare anche ai relativi aderenti le nuove condizioni contrattuali38. Infatti, in nessun caso un accordo di secondo livello approvato in tal modo potrebbe superare – se non altro per i lavoratori iscritti al sindacato dissenziente, in specie se il successivo contratto è peggiorativo – il fatto che la modifica del contratto collettivo deve essere firmata da tutti i suoi sottoscrittori per applicarsi a tutti i lavoratori affiliati ad essi39. Questo prescinde dalle regole interconfederali per l’approvazione dei contratti di secondo livello. L’approccio adottato dal datore di lavoro si segnala, comunque, per l’intenzione di scavalcare la funzione fondamentale del sindacato, quale soggetto in grado di promuovere l’interesse collettivo dei lavoratori40, generando la sensazione che ad essere sotto attacco sia precisamente il contratto collettivo quale strumento di gestione delle ostilità tra sindacato e controparte datoriale.

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Vale la pena ricordare che nei ricorsi promossi nel caso Fiat, i ricorrenti avevano sostenuto che la funzione economico-sociale del contratto collettivo sarebbe stata compromessa ove il contratto collettivo unitario non fosse stato applicato a tutti i lavoratori (non solo a quelli aderenti alla Fiom Cgil) sino alla sua naturale scadenza; tre ricorsi su quattro sono stati vinti, nel senso però che è stata ritenuta sussistente la condotta antisindacale del datore di lavoro che avesse applicato agli iscritti Fiom Cgil il nuovo contratto senza dare loro una reale possibilità di optare per il precedente. 37 Ci si riferisce a Corte cost. 23 luglio 2013, n. 231. Cfr. Lassandari, Tra diritti sindacali e contrattazione collettiva: la consulta trova una difficile via, in DLM, 2013, 721 ss.; Maresca, Costituzione della rsa e sindacati legittimati, in ADL, 2013, 1298 ss.; Carinci., Il buio oltre la siepe: Corte costituzionale 23 luglio 2013, n. 231, in Diritto delle relazioni industriali, 2013, 899 ss. 38 Esprimeva già tempo addietro condivisibili riserve nei confronti dello strumento referendario nel campo sindacale De Simone, Lo spazio e il ruolo del voto, tra elezioni e plebisciti. Lezioni dal caso Fiat, in LD, 2011, 287 ss. 39 Si tratta di un classico caso di rapporto fra contratti collettivi di diverso livello; il successivo accordo, come noto, può modificare quanto previsto dal precedente, ma ciò vale se gli stipulanti sono gli stessi. Sul tema, più in generale, ex multis, Grandi, Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, in DLRI, 1981, 533 ss. 40 Id, ivi, 296.

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Giurisprudenza

4. Conclusioni. Utilità e limiti del ricorso all’art. 28, l. n. 300/1970 contro lo shopping contrattuale.

Come è stato scritto in proposito, quando i soggetti del sistema sindacale non sono in grado di controllare la competizione fra contratti collettivi, «il ricorso al processo è inevitabile, non tanto per l’asprezza del contrasto, quanto per la carenza di una minima capacità di autogoverno»41. Il conflitto, insomma, si sposta sul terreno del giudizio, poiché non si svolge su quello delle trattative negoziali. Questa strategia d’azione, se testimonia le difficoltà vissute, non deve essere considerata puramente come un segno di debolezza del sindacato, cioè come indicativa del fatto che quest’ultimo richiederebbe l’intervento statale in quanto ormai incapace di azioni efficaci42. Diversamente, i ricorsi ex art. 28, l. 300/1970, più volte promossi dalla Fiom Cgil – sindacato tutt’altro che incapace di porsi quale effettivo interlocutore – sono altresì il segno che di fronte alla contemporanea presenza di due contratti collettivi alternativi, entrambi validi ed efficaci, il secondo dei quali sia stato concluso in violazione del primo, l’equazione secondo cui le regole ordinarie del diritto privato basterebbero all’esercizio della libertà sindacale e al buon funzionamento della contrattazione collettiva si mostra controvertibile43. Inoltre, anche uno strumento come quello fornito dall’art. 28, l. n. 300/1970 per la repressione della condotta antisindacale, per quanto utile durante la vigenza del primo contratto collettivo, non può comunque nulla, di per sé (una volta che detto accordo sia giunto alla propria naturale scadenza) in materia di competizione fra contratti collettivi. A quest’ultima il sindacato può solo contrapporre un’azione sufficientemente forte da portare il datore alla conclusione di un nuovo accordo; è usuale che ciò avvenga al termine di un serrato confronto, la cui esistenza è l’unica arma che possa scongiurare – ma siamo al di là delle regole del diritto statale, nel campo dei rapporti di forza – che la firma del contratto collettivo dipenda da una mera ponderazione del menu disponibile. Cinzia Carta

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Gragnoli, Esiste ancora un ordinamento intersindacale?, cit. Cfr. Lassandari, L’azione giudiziale come forma di autotutela collettiva, cit. 43 Sul tema, Lassandari, I giudici e il conflitto intersindacale tra libertà sindacale e diritto comune, cit. 42

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Giurisprudenza Tar Sicilia, sez. II, sentenza 29 gennaio 2019, n. 234; Pres. Di Paola – Est. Russo – S. G. (avv. D. Di Bona) c. Comune di Palermo (avv. S. Polesano). Pubblico impiego – Stabilizzazione personale precario – Principio del concorso pubblico – Deroga – Selezioni interamente riservate – Legittimità.

Il principio secondo cui si accede al pubblico impiego mediante pubblico concorso può essere derogato da disposizioni che, al fine di ridurre il cd. precariato e, al contempo, di valorizzare le professionalità acquisite dai lavoratori a tempo determinato, indicono selezioni riservate interamente al personale in possesso dei requisiti di cui all’articolo 1, commi 519 e 558, l. n. 296/06 e all’articolo 3, comma 90, l. n. 244/2007, ossia il personale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni. Sicché il principio del pubblico concorso, di cui è corollario quella del limite alla riserva di posti al personale interno, ammette deroghe ove queste non appaiano immotivate, ma sorrette da consistenti ragioni di interesse pubblico. Fatto e diritto. – Con l’atto introduttivo del presente giudizio – proposto per ottenere la trasposizione in sede giurisdizionale di ricorso straordinario al Presidente della Regione, a seguito di opposizione del Comune – S. G. ha impugnato, chiedendone l’annullamento, previa sospensione cautelare, il bando con cui è stata indetta una selezione riservata al personale “appartenente al bacino ex art. 23 LL.rr.25/85 e 24/96” per la copertura di n. 16 posti di Funzionario Tecnico Architetto (categoria D posizione economica D/3). Si è costituito per resistere al ricorso il Comune di Palermo. Con ordinanza n. 269/2018, questo Tribunale ha respinto la domanda cautelare, non riconoscendo la sussistenza del fumus di fondatezza del ricorso. Tale provvedimento è stato riformato in appello con ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa n. 491 del 26 luglio 2018, con la quale è stata accolta la domanda cautelare ed è stata disposta la trasmissione del provvedimento a questo Tribunale per la sollecita fissazione dell’udienza di merito. All’udienza pubblica del 23 gennaio 2019, il ricorso è stato trattenuto per la decisione. Il primo, il terzo ed il sesto motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, attesa la sostanziale omogeneità di contenuti. Con tali doglianze il ricorrente, dipendente di ruolo del Comune di Palermo, ha dedotto l’illegittimità della procedura – interamente riservata al personale precario individuato mediante rinvio alle disposizioni sopra indicate – per violazione dell’art. 5 D.P.R. 3/57, dell’art. 5, D.P.R. 268/1987, dell’art. 3, co. 20 l. 537/93, dell’art. 5 D.P.R. 487/1994, dell’art. 35 d. lgs. 165/2001 e dell’art. 20 d.lgs. 75/2017, i quali, tutti, pongono limiti alla riserva di posti al personale interno nei concor-

si pubblici; ha denunciato, inoltre, la violazione del principio del pubblico concorso (art. 97 Cost.); ha poi dedotto che la deliberazione n. 94 del 4/5/2017 della Giunta Comunale di Palermo (“Ridefinizione della parte I – Organizzazione e parte II – Acquisizione risorse umane e progressioni di carriera, del Regolamento Uffici e Servizi”), che al Titolo IV disciplina le selezioni totalmente riservate al personale precario, si porrebbe in contrasto con l’art. 35, co. 7 d. lgs. 165/01, che disciplina il regolamento degli uffici e dei servizi degli enti locali. Tali doglianze non meritano condivisione. L’art. 97, co. 4 Cost. stabilisce il principio dell’accesso al pubblico impiego mediante pubblico concorso, ammettendo la sua derogabilità, nelle ipotesi previste dalla legge: “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. La selezione oggetto del presente giudizio è stata indetta ai sensi dell’art. 3 della Legge regionale n. 27 del 29/12/2016 (cfr. avviso di selezione), il cui primo comma così dispone: “Al fine di realizzare il graduale superamento dell’utilizzo di personale con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, nei limiti del proprio fabbisogno e delle disponibilità di organico, fermo restando il rispetto degli obiettivi del saldo non negativo, in termini di competenza, tra le entrate e le spese finali e le norme di contenimento della spesa di personale, i comuni possono adottare le procedure previste dall’articolo 4, commi 6 e 8, del decreto legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, con priorità per le procedure di cui al comma 6, negli anni 2017 e 2018, aggiungendo, al limite finanziario fissato dall’articolo 35, comma 3 bis, del decreto legislativo 30 marzo


Giurisprudenza

2001, n. 165, le risorse previste dall’articolo 9, comma 28, ottavo periodo, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modifiche ed integrazioni, in misura non superiore al loro ammontare medio relativo al triennio anteriore al 2016, a condizione che siano in grado di sostenere a regime la relativa spesa di personale e che prevedano nei propri bilanci la contestuale e definitiva riduzione del valore di spesa utilizzato per le assunzioni a tempo indeterminato dal tetto di cui al predetto articolo 9, comma 28, in ogni caso senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Le assunzioni secondo le procedure di cui al presente comma sono regolate con contratto di lavoro a tempo indeterminato, anche parziale, che, per singola unità lavorativa, in termini di costo complessivo annuo e di giornate lavorative nonché per gli aspetti connessi all’inquadramento giuridico ed economico, è uguale a quello relativo al contratto a tempo determinato in essere al 31 dicembre 2015”. Il richiamato comma 6 dell’art. 4, D.L. n. 101 del 31/8/2013 stabilisce: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2016, al fine di favorire una maggiore e più ampia valorizzazione della professionalità acquisita dal personale con contratto di lavoro a tempo determinato e, al contempo, ridurre il numero dei contratti a termine, le amministrazioni pubbliche possono bandire…procedure concorsuali, per titoli ed esami, per assunzioni a tempo indeterminato di personale non dirigenziale riservate esclusivamente a coloro che sono in possesso dei requisiti di cui all’articolo 1, commi 519 e 558, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e all’articolo 3, comma 90, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, nonché a favore di coloro che alla data di pubblicazione della legge di conversione del presente decreto hanno maturato, negli ultimicinque anni, almeno tre anni di servizio con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato alle dipendenze dell’amministrazione che emana il bando, con esclusione, in ogni caso, dei servizi prestati presso uffici di diretta collaborazione degli organi politici”. Le disposizioni – nazionale e regionale – in esame, nella cui applicazione è stata bandita la procedura oggetto del presente giudizio, dunque, stabiliscono che, al fine di ridurre il cd. precariato e, al contempo, di valorizzare le professionalità acquisite dai lavoratori a tempo determinato, possono essere indette selezioni riservate interamente al personale in possesso dei requisiti di cui all’articolo 1, co. 519 e 558, l. n. 296/06 e all’articolo 3, co. 90, l. 244/2007, ossia, in estrema sintesi, il personale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni. Le disposizioni citate nel primo motivo di ricorso, che prevedono un limite alla riserva di posti in favore del personale interno, recedono, dunque, innanzi a tali norme, di carattere speciale e che, più che disciplinare

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concorsi pubblici, regolamentano procedure speciali volte alla stabilizzazione del personale precario. Né potrebbe dubitarsi della legittimità costituzionale di tali previsioni; questione, questa, in realtà neppure posta dal ricorrente, il quale, tuttavia, cita alcuni precedenti della Corte Costituzionale in materia di principio del pubblico concorso (cfr. secondo motivo di ricorso). La Corte, in una delle sentenze citate in ricorso, ha, infatti, affermato il principio della illegittimità delle norme che prevedano le stabilizzazioni di personale precario delle pubbliche amministrazioni senza richiedere la necessità del superamento di un concorso pubblico, ossia a semplice domanda. È questo il caso dell’art. 2 l. reg. Sardegna 26 giugno 2012, n. 13 (dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza Corte Cost. n. 277/2013), che si inserisce nell’ambito della disciplina di cui all’art. 36, comma 2, l. reg. Sardegna n. 2 del 2007, il quale ultimo prevede la stabilizzazione a domanda del personale precario. Diversa è anche l’ipotesi presa in esame dalla sentenza Corte Costituzionale, 26 maggio 2006, n.205 (pure citata dal ricorrente), con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una disposizione dettata da una legge della Regione Umbria, che prevedeva una riserva di posti in favore di coloro che semplicemente avessero prestato servizio presso l’Amministrazione (“l’aver prestato attività a tempo determinato alle dipendenze dell’amministrazione regionale non può essere considerato ex se, ed in mancanza di altre particolari e straordinarie ragioni, un valido presupposto per una riserva di posti”, così la sentenza). Del pari inconducenti sono i riferimenti alle sentenze 10 maggio 2005, n.190 e 21 aprile 2005, n.159. La prima ha, infatti, dichiarato costituzionalmente illegittimi gli art. 1, 2 e 3 l. reg. Marche 24 febbraio 2004 n. 4, i quali avevano stabilito l’inserimento nei ruoli regionali di personale assunto con contratto a tempo indeterminato da strutture sanitarie private; in tale occasione la Corte ha precisato che le disposizioni in questione realizzavano una “arbitraria e irragionevole forma di restrizione dei soggetti legittimati a parteciparvi, senza che possa ritenersi utilizzabile la valorizzazione delle ‘specifiche professionalità acquisite’ da tale personale, giacché non si tratta di ‘consentire il consolidamento di pregresse esperienze maturate nella stessa amministrazione’”. Con la seconda, la Corte ha dichiarato l’illegittimità della previsione, contenuta nella la l. reg. Calabria 5 dicembre 2003 n. 28, di un concorso per l’accesso alla qualifica di funzionario D3 integralmente riservato ai soli dipendenti (a tempo indeterminato) dell’Assessorato all’agricoltura della Regione Calabria che già svolgessero determinate funzioni ovvero che fossero componenti “essenziali ed indispensabili” di talune commissioni regionali.


Arianna Avondola

Dal quadro di principi appena esposto discende che il principio del pubblico concorso, di cui è corollario quella del limite alla riserva di posti al personale interno, ammette deroghe ove queste non appaiano immotivate, ma sorrette da consistenti ragioni di interesse pubblico. Orbene, le disposizioni cui il comune di Palermo ha dato applicazione, ossia l’art. 3 della Legge regionale n. 27 del 29/12/2016 ed il comma 6 dell’art. 4, D.L. n. 101 del 31/8/2013 non suscitano dubbi di contrasto con la Carta Costituzionale: per un verso, infatti, non si tratta di stabilizzazioni “a domanda” (come nell’ipotesi di cui alla sopra citata sentenza Corte Cost. n. 277/2013), ma a mezzo di procedure concorsuali, per titoli ed esami; per altro verso, le selezioni in esame sono riservate a chi abbia maturato un’anzianità quale lavoratore a tempo determinato di almeno tre anni, con la conseguenza che la stabilizzazione realizza il fine (espressamente dichiarato dalla citata disposizione nazionale) “di favorire una maggiore e più ampia valorizzazione della professionalità acquisita dal personale con contratto di lavoro a tempo determinato” e, al contempo, di ridurre il precariato. Non assumono rilievo nel caso in esame neppure gli altri precedenti richiamati dal ricorrente: la sentenza di questo Tribunale, sez. III, 4 dicembre 2013, n. 2361 attiene, infatti, ad una procedura interamente riservata a lavoratori socialmente utili, indetta in assenza di una disposizione che la consentisse; il parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa – Sez. Riun. n. 569/2000 attiene ad un concorso pubblico per

soli titoli interamente riservato al personale di ruolo della Provincia Regionale di Siracusa. Deve, pertanto, escludersi la fondatezza dei motivi di ricorso in esame, con i quali è stata denunciata l’illegittimità degli atti della procedura impugnati, così come della deliberazione di G.M. n. 94/2017, che disciplina le selezioni totalmente riservate al personale precario. È, invece, inammissibile, attesa la sua estrema genericità, il secondo motivo di ricorso, con il quale è stata denunciata la violazione della legge 127/97 e del d.lgs. 150/2009, rilevando che “nessuna norma di legge prevede la possibilità della compensazione tra concorsi pubblici con concorsi interni”, senza, tuttavia, specificare se e in quale modo, nella procedura in esame, sia stata realizzata una compensazione. Il quarto ed il quinto motivo di ricorso – con i quali sono stati denunciati vizi procedurali (allegazione del parere del Collegio dei Revisori alla sola del. n. 136/2016 e non anche alla successiva del. n. 206/2017 e mancata pubblicazione in G.U.R.S. dell’avviso di selezione pubblica) – risultano inammissibili per carenza di interesse. Eventuali vizi formali di una procedura selettiva di stabilizzazione, alla quale il G. non avrebbe potuto partecipare per difetto dei requisiti (in quanto dipendente di ruolo del Comune di Palermo) non avrebbero potuto incidere sulla posizione del ricorrente, che non vanta un interesse qualificato all’annullamento della procedura. Il ricorso, per quanto detto, non è meritevole di accoglimento.

Via libera del Tar alle stabilizzazioni “no limits” Sommario : 1. Premessa. – 2. I principali riferimenti normativi per le politiche di stabilizzazione. – 3. Le novità introdotte dalla cd. Riforma Madia. – 4. La giurisprudenza in materia di stabilizzazioni. - 5. Conclusioni.

Sinossi. La nota approfondisce il tema delle “stabilizzazioni” del personale precario nel pubblico impiego, prendendo spunto da una recente sentenza del giudice amministrativo siciliano che introduce una assoluta novità interpretativa nel panorama giurisprudenziale in materia. Secondo il TAR, infatti, è possibile derogare al limite della riserva del 50% per i concorsi pubblici in presenza di norme di carattere speciale, quali quelle dirette alla stabilizzazione del personale precario della PA, in quanto volte alla valorizzazione della professionalità acquisita dal personale assunto a tempo determinato o con contratti flessibili.

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Giurisprudenza

L’ A., dopo un’analisi della legislazione e della giurisprudenza succedutesi in materia, sottolinea come, con tale interpretazione, si pervenga ad una conclusione ineccepibile (innanzitutto sul piano etico): la finalità del superamento del precariato è, infatti, certamente una ragione sufficiente a legittimare concorsi interamente riservati, andando a favorire una maggiore e più ampia valorizzazione della professionalità acquisita dal personale con contratto di lavoro a tempo determinato e, al contempo, ridurre il precariato. Tale principio, emerso dalla sentenza, e condiviso nella nota di commento, sembrerebbe affermare con chiarezza che il limite alla riserva dei posti al personale interno possa ammettere deroghe ogni qual volta queste non appaiano immotivate, ma sorrette da consistenti ragioni di interesse pubblico.

1. Premessa. Con la sentenza che si annota il giudice amministrativo torna a pronunciarsi su un tema già noto alla giurisprudenza italiana ed oggetto di numerosi interventi legislativi succedutisi – in particolare - nell’ultimo decennio: si tratta delle cosiddette “stabilizzazioni” del personale precario della pubblica amministrazione. Il Tar Sicilia introduce, però, una novità rispetto alle pronunce precedenti in materia, ritenendo che si possa accedere al pubblico impiego, in deroga al principio del concorso pubblico1, mediante selezioni interamente riservate al personale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni. In particolare, nel caso di specie, un dipendente di ruolo del Comune di Palermo ha impugnato, chiedendone l’annullamento, il bando di concorso con cui era stata indetta una selezione totalmente riservata al personale precario, già in forze presso l’amministrazione ex art. 23 l. reg. nn. 25/85 e 24/96, deducendo l’illegittimità della procedura per violazione (tra gli altri) dell’art. 35 d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 20 d.lgs n. 75/2017, nella parte in cui pongono limiti alla riserva dei posti al personale interno nei concorsi pubblici, nonché per contrasto con il principio del pubblico concorso (art. 97 Cost.). Il Tar Sicilia ha rigettato il ricorso, non rilevando alcuna contrarietà alle norme richiamate, né tantomento al dettato dell’art. 97 Cost., il quale – secondo i giudici amministrativi - ammette espressamente ipotesi di derogabilità al comma 4 («salvo i casi stabiliti dalla legge»). Il medesimo Tribunale ha, inoltre, specificamente affermato che, al fine di ridurre il precariato valorizzando le professionalità acquisite dai lavoratori a tempo determinato «possono essere indette selezioni riservate interamente al personale» in possesso dei requisiti

1

Sul principio di concorsualità, v., amplius, Luciani, Il principio di concorsualità tra assunzioni e progressioni in carriera, in L. Zoppoli (a cura di), Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, Editoriale Scientifica, 2009, 317 ss.

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richiesti per legge (ovvero, nel caso di specie, un’anzianità di servizio pari ad almeno tre anni). Ciò in quanto, secondo il giudice siciliano, «le disposizioni citate, che prevedono un limite alla riserva di posti in favore di personale interno, recedono innanzi a norme di carattere speciale e che, più che disciplinare concorsi pubblici, regolamentano procedure speciali volte alla stabilizzazione del personale precario»; ne consegue che il principio del concorso pubblico, «di cui è corollario quello del limite alla riserva dei posti al personale interno», ammette deroghe, allorquando queste siano fondate su ragioni di interesse pubblico. Pertanto, nel caso in esame, non trattandosi di “stabilizzazioni a domanda”, ma volte a ridurre il precariato, valorizzando la professionalità acquisita dal personale, il Tribunale amministrativo ha ritenuto non accoglibili le pretese avanzate dal ricorrente, rigettando il ricorso. La decisione in oggetto è stata immediatamente accolta dai commentatori2 con termini entusiastici, volti a sottolinearne i connotati di novità dirompente nella complessa tematica delle stabilizzazioni. Sebbene le conclusioni cui pervengono i giudici amministrativi siciliani non giungano inaspettate, in quanto certamente frutto di un percorso normativo e giurisprudenziale, che già da tempo aveva segnato un cambio di passo in materia, la pronuncia in oggetto rappresenta una coraggiosa inversione di marcia verso un effettivo cambiamento interpretativo. Infatti, la sentenza in commento, richiamando nuovamente l’attenzione sull’opportunità di dare un inserimento stabile a lavoratori assunti dalla PA con contratti a temine o con altre tipologie contrattuali flessibili, mira a realizzare un obiettivo che, da anni, è perseguito (con alterne vicende) dal legislatore italiano, il quale ha varato periodicamente nuove discipline, volte a creare complesse procedure di stabilizzazione attraverso concorsi riservati al personale già impiegato nelle amministrazioni pubbliche. Tali procedure, seppur connotate dai tratti della straordinarietà ed eccezionalità, hanno puntualmente insinuato dubbi di legittimità costituzionale, richiedendo il ripetuto intervento della Consulta. La sentenza che oggi si annota sembrerebbe, quindi, non solo, aver recepito tutte le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza consolidatasi nel tempo (seppur non sempre in maniera pacifica), ma aspirare anche a dare concreta attuazione alle linee guida tracciate dai più recenti assetti legislativi della cd. Riforma Madia (d.lgs. n. 75/2017).

2

Sul tema cfr. amplius, Bianco, L’anzianità salva i concorsi riservati ai precari, in Ilsole24ore del 25 febbraio 2019; Aa.Vv., Il Tar salva i concorsi riservati alla stabilizzazione dei precari, in Il giornale di sicilia, (a cura della redazione), in www.gds.it.

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2. I principali riferimenti normativi per le politiche di stabilizzazione.

Il primo tentativo diretto ad offrire alle PA la possibilità di avviare procedure di stabilizzazione, previo reclutamento mediante concorso pubblico, nei limiti dei posti disponibili in organico, è da individuare certamente nella legge finanziaria dell’anno 2007 e in quella subito successiva del 2008 (rispettivamente, l. n. 296/2006 e l. n. 244/2007), la cui ratio muove dall’esigenza di intervenire sulla “distorsione” dei sistemi di reclutamento abitualmente utilizzati dalla PA. Le pubbliche amministrazioni, infatti, per le esigenze connesse al proprio fabbisogno ordinario, dovrebbero assumere «esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e non possono avvalersi delle forme contrattuali di lavoro flessibile previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa se non per esigenze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi, fatte salve le sostituzioni per maternità relativamente alle autonomie territoriali» (art. 7, comma 79, l. n. 244/2007) e, a tale scopo, sarebbero tenute a seguire le procedure di reclutamento previste dall’art. 35 del TUPI3. Tale premessa, propedeutica all’attuazione della normativa del 2008, diretta ad evidenziare l’atipicità dell’utilizzo di figure contrattuali flessibili e temporanee da parte della PA, è rimarcata da tutte le normative successive, che hanno giustificato l’uso di queste tipologie contrattuali esclusivamente per esigenze temporanee e eccezionali, cercando di arginarne l’abuso proprio attraverso successivi interventi di politiche di stabilizzazione del precariato. Pertanto, con le norme sulla stabilizzazione (norme speciali, che intervengono su casi altrettanto speciali), si consente di fatto alle amministrazioni di assorbire una parte del lavoro flessibile che negli anni si è sedimentato in modo disordinato nel settore pubblico, originando il paradosso di lavoratori con contratto a termine impiegati in modo reiterato nel ciclo ordinario delle funzioni amministrative e tentando in tal modo di porre rimedio ad una prassi nel tempo “degenerata”4. L’intervento delle leggi di stabilizzazione, quindi, appare volto ad una sorta di “sanatoria”, prefiggendosi la valorizzazione delle esperienze professionali acquisite dal personale precario e, per questo, puntando ad ampliare la platea dei possibili destinatari (dapprima solo contratti a termine e, poi, a partire dal 2008 aprendo alla categoria dei co.co.co.). La medesima legge finanziaria del 2008, in una prospettiva di lungo periodo, prevedeva, inoltre, piani di progressiva stabilizzazione per tutte le PA in un ambito di programmazione triennale, fino all’anno 2010, previo accertamento di una effettiva vacanza in organico di posizioni corrispondenti alle qualifiche già assegnate ai precari.

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4

De Marco, Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni dopo la “Riforma Madia” – utilizzo dei contratti flessibili e stabilizzazione del personale precario, in GI, 2018, 4, 985 Serra, Busico, La stabilizzazione dei precari del pubblico impiego, in LG, 2009, 12, 1197. V. anche V. De Michele, L’insostenibile leggerezza della conversione del contratto a termine nel lavoro pubblico, in LG, 2010, 11, 1107 e ss.

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Politiche di stabilità che sono continuate anche con la successiva legge del 2013 (n. 228/2012), che ha promosso la facoltà per le PA di avviare procedure di reclutamento mediante concorso pubblico, nel rispetto della programmazione triennale del fabbisogno e del limite massimo complessivo del 50% delle risorse finanziarie disponibili, e con il d.l. n. 101/2013, il quale, sebbene con un dettato di notevole complessità interpretativa, ha puntato ad una sorta di “restyling” dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, con l’intento di rendere del tutto marginale l’utilizzo di contratti temporanei rispetto all’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La marcia verso la stabilizzazione ha, però, subito una battuta di arresto nel 2015, allorché, con la legge finanziaria n. 190/2014, il processo di stabilità è stato messo in stand by, dovendosi fare i conti con la riorganizzazione del sistema delle autonomie locali attuata dalla legge “Delrio” (n. 56/2014); condizione storico-normativa che ha richiesto una necessaria sospensione delle disposizioni di stabilizzazione in attesa dell’ottimizzazione del processo di ricollocazione del personale provinciale5. Dopo la sosta temporanea, il processo di stabilizzazione ha visto più di recente una ripresa (rectius, un’impennata) con la cosiddetta Riforma Madia (d.lgs. nn. 74 e 75 /2017).

3. Le novità introdotte dalla cd. Riforma Madia. Il d.lgs. n. 75 del 25 maggio 2017, uno dei decreti attuativi della cosiddetta Riforma Madia, individua all’art. 20 uno scopo ambizioso: realizzare l’obiettivo del superamento del precariato nella pubblica amministrazione6. La nuova normativa prende le mosse da alcuni specifici criteri direttivi indicati nella legge delega n. 124/2015, che invitava il legislatore delegato a valorizzare la professionalità acquisita dal personale assunto a tempo determinato o con rapporti di lavoro flessibile, muovendosi contemporaneamente all’insegna della riduzione – o almeno del contenimento - delle forme di lavoro precario. «V’è pertanto l’input di attuare, con questa nuova tornata di stabilizzazioni, un principio di razionalizzazione delle dotazioni del personale, che evoca l’esigenza di rimediare all’abuso nell’impiego di forza lavoro, negli enti pubblici, con tipologie di lavoro flessibile»7.

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7

Di Filippo, Le stabilizzazioni del personale precario nel quadro complessivo della legislazione e nella recente giurisprudenza,in Azienditalia – Il personale, 2015, 7, 362. Fiorillo, La stabilizzazione del personale precario, in Esposito, Luciani, A. Zoppoli, L. Zoppoli (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commento alle innovazioni della XVII legislatura (2013-2018) con particolare riferimento ai d.lgs. nn. 74 e 75 del 25 maggio 2017 (cd. riforma Madia), Giappichelli, 2018, 171; secondo Ricci, L’impatto della riforma Madia (e delle più recenti misure del governo “gialloverde” ) sulla dimensione macro-organizzativa: programmazione dei fabbisogni, concorsi, stabilizzazioni, in WP D’Antona, Collectives Volumes – 8/2019, 287, «Si tratta, come può intendersi, del nuovo episodio di una saga che ha avuto inizio oltre 10 anni or sono, con le stabilizzazioni introdotte dalle leggi finanziarie degli anni 2007/2008 e poi proseguita, con alterne vicende, fino all’ultimo rilevante provvedimento, ossia il d.l. n. 101/2013». V. sul punto, Ricci, op. cit., 288, secondo il quale «…sotto il profilo tecnico, il legislatore della Riforma Madia sembra ritornare per certi versi, all’ispirazione che aveva connotato la prima stagione delle stabilizzazioni, ex leggi finanziarie 2007/2008», ibidem.

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Per realizzare tali finalità, all’art. 20 della Riforma vengono individuate due tipologie di intervento volte alla stabilizzazione dei precari. Con la prima ipotesi si dà la possibilità alle amministrazioni di inserire stabilmente in organico il personale in possesso di tre specifici requisiti: a) essere in servizio con contratto a tempo determinato presso l’amministrazione che procede all’assunzione a partire dal 28 agosto 2015; b) essere stato reclutato sempre con contratto a termine, per espletare le stesse attività con riferimento alle quali viene stabilizzato, attraverso procedure concorsuali svolte anche presso amministrazioni pubbliche diverse da quella che procede all’assunzione; c) aver maturato alla data del 31 dicembre 2017 tre anni di servizio, rispetto agli ultimi otto. In questo primo caso, il legislatore configura un’ipotesi di assunzione definitiva che non richiede l’espletamento di una specifica procedura concorsuale; trattandosi sostanzialmente di un’automatica trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato8. Ciò è reso possibile (sul piano della coerenza con la Carta costituzionale) dalla circostanza essenziale che, sulla base dei requisiti fissati ai fini dell’accesso alla procedura, i lavoratori precari che hanno la possibilità di accedere a tale meccanismo di stabilizzazione hanno già superato una procedura concorsuale al momento dell’originaria assunzione. Per questo motivo questa ipotesi è applicabile al solo personale assunto con contratto a tempo determinato (anche nel caso in cui la procedura concorsuale sia stata espletata presso una diversa amministrazione). La seconda ipotesi, invece, è rivolta a tutti coloro che siano stati assunti con forme di contratto flessibile, nella sola amministrazione che bandisce il concorso. Per tale tipologia di personale, le PA potranno bandire procedure concorsuali riservate nella misura non superiore al 50% dei posti disponibili. Potranno partecipare al concorso tutti i lavoratori che, successivamente all’entrata in vigore della legge delega, abbiano maturato alla data del 31 dicembre 2017 almeno tre anni di contratto, anche non continuativi, nell’arco temporale di otto anni. Questa seconda ipotesi, prevista dal legislatore del 2017, rientra sostanzialmente nelle regolari forme di reclutamento tramite concorso pubblico, con l’unica (seppur considerevole) eccezione di prevedere una riserva di posti a favore del personale da stabilizzare. È apparso subito evidente come la nuova disciplina anti-precariato abbia fatto tesoro dei numerosi fallimenti delle precedenti discipline, le quali non sono mai effettivamente riuscite ad arginare il dilagante ricorso ad assunzioni temporanee o flessibili. Il meccanismo patologico creato da cicliche disposizioni normative recanti blocchi o riduzioni dell’approvvigionamento di personale a tempo indeterminato, ha spinto negli anni le PA a sopperire alle esigenze organizzative con un uso incontrollato di contratti a termine o flessibili.

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Fiorillo, op. cit., 172.

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Modalità di assunzione che finivano per aggirare di fatto il dettato dell’art. 97 Cost., addirittura contraddicendolo attraverso successivi meccanismi di reclutamento poco trasparenti. La nuova normativa tenta un recupero di tutto il personale precario in servizio (ampliando la platea degli interessati alla stabilizzazione, coinvolgendo anche i lavoratori assunti con contratti flessibili), attraverso meccanismi di valorizzazione delle professionalità acquisite e un sistema trasparente di reclutamento, sempre nel rispetto di una chiara programmazione dei fabbisogni9, assicurando la necessaria copertura finanziaria e imponendo il divieto di nuove assunzioni flessibili. Nonostante i buoni propositi esplicitati dalla Riforma Madia, secondo alcuni autori, è di tutta evidenza come il meccanismo di assunzione diretta, sancito dal comma 1 dell’art. 20, rappresenti una rilevante eccezione al principio di accesso mediante pubblico concorso fissato dall’art. 97 Cost.10. Sebbene questo sistema di assunzione si ponga “in limine in punto di compatibilità” con la Carta Costituzionale, non può non rilevarsi come il legislatore del 2017 sembri aver recepito appieno i numerosi orientamenti espressi negli anni passati sul punto dalla Corte Costituzionale11; la quale, più volte pronunciatasi in materia, ha innanzitutto chiarito che le procedure di assunzione in deroga all’art. 97 Cost. devono essere sempre giustificate da un contemperamento di interessi “pariordinati”, che rispondano ad esigenze di tutela costituzionale equivalenti (come nel caso della stabilizzazione dei precari). In particolare, sul punto, è intervenuto anche il Consiglio di Stato, con il Parere n. 916/2017, che ha espressamente sottolineato come la deroga al principio di concorsualità vada intesa come funzionale a un interesse pubblico non irragionevole, costituito dall’esigenza che l’amministrazione pubblica si faccia carico della «posizione di quanti, per anni e magari per decenni, hanno prestato attività lavorativa (…) con contratti di lavoro flessibile». Sta di fatto, in ogni caso, che nella normativa in oggetto il rischio di violazione del principio del pubblico concorso appare, per contro, adeguatamente ridimensionato dal fatto che si faccia riferimento al personale già assunto mediante procedura concorsuale12. Solo sulla base di tali premesse, infatti, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, è riscontrabile la piena legittimità di procedure di assunzione diretta, allorché la riserva coinvolga solo soggetti selezionati ab origine mediante procedure concorsuali precedenti13. A fronte dei paventati dubbi di legittimità costituzionale, secondo alcuni autori appare evidente come il secondo meccanismo di assunzione risulti meno problematico del primo, in quanto «…le stabilizzazioni automatiche coinvolgono, secondo il disposto della legge,

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Alaimo, Dalla “riforma Madia” al “decreto dignità”. La (poche) novità e le (molte) aporie della disciplina del lavoro a tempo determinato e delle collaborazioni autonome nel settore pubblico, in WP C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, Collectives Volumes – 8/2019, 116. 10 Fiorillo, op. cit., 181; ma anche Ricci, v. nota successiva. 11 V. infra. 12 Ricci, op. cit., passim. 13 Cfr., per tutte, C. cost., 14 luglio 2009, n. 215, in FI, vol. 132, 11, p. 2931.

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lavoratori in servizio con contratto a tempo determinato; le stabilizzazioni mediante quote riservate, invece, si riferiscono a chi risulti titolare di un contratto flessibile»14. Il riferimento ai contratti flessibili, però, non è esente da dubbi, essendo stato spesso letto in un’accezione restrittiva15, collocando in una posizione defilata alcune particolari categorie di lavoratori flessibili, tra cui, in primis, i co.co.co. Tale opzione interpretativa è stata di recente notevolmente mitigata nella prassi ministeriale e dalle prime pronunce giurisprudenziali in materia. Sia la circolare ministeriale n. 3/201716, sia il Tribunale Amministrativo del Lazio17 hanno, infatti, fornito un’interpretazione “estensiva” della nuova normativa, ritenendo che «la procedura di stabilizzazione prevista dall’art. 20 del D.Lgs. n. 75/2017 non è limitata ai dipendenti assunti con contratto di lavoro a tempo determinato, ma opera anche con riguardo alle tipologie di contratto di lavoro flessibile, le quali possono ricomprendere i contratti di collaborazione coordinata e continuativa e anche i contratti degli assegnisti».

4. La giurisprudenza in materia di stabilizzazioni. La sentenza in esame, sebbene si ponga in linea di continuità con gli indirizzi normativi anche più recenti, confermandone ratio e scopi, si distingue, invece, sul fronte giurisprudenziale in quanto impone una lettura certamente più “avanzata” rispetto agli assetti fino ad oggi consolidatisi in materia. La pronuncia, infatti, richiama espressamente alcune fondamentali sentenze della Corte Costituzionale, confermando il principio del concorso pubblico, non più nei limiti già enunciati negli anni precedenti dalla Consulta, ma utilizzandolo piuttosto per supportare la tesi della legittimità delle procedure concorsuali interamente riservate al personale precario. La giurisprudenza costituzionale ha, infatti, statuito uniformemente nel tempo che, rispetto alle procedure di stabilizzazione, non sia possibile attuare procedure che comportino automatismi, poiché ciò si porrebbe in palese violazione del principio costituzionale ex art. 97 Cost. che impone l’accesso ai pubblici uffici per mezzo del concorso pubblico18. Tale principio, però, secondo la medesima Consulta, «pur non essendo incompatibile, nella logica dell’agevolazione del buon andamento della pubblica amministrazione, con le previsioni per legge di condizioni di accesso intese a consentire il consolidamento di pregresse esperienze lavorative maturate nella stessa amministrazione, tuttavia non tollera,

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Ricci, op. cit., 289. Fontana, La strana storia delle stabilizzazioni dei lavoratori precari nel settore pubblico, in LPA, 2018, 33 e passim. 16 Secondo cui «per il computo del triennio utile alla definizione del secondo requisito di cui all’art. 20, comma 1, D.Lgs. 75/2017, possono computarsi tutti i rapporti di lavoro prestato direttamente con l’amministrazione, anche con diverse tipologie contrattuali…». 17 Si fa segnatamente riferimento a Tar Lazio, sez. III-bis, 19 ottobre 2018, n. 10158. 18 Sul punto, amplius, cfr. anche Nicosia, Saracini, Spinelli, Lavoro Pubblico, in Saracini (a cura di), Osservatorio sul Lavoro Pubblico, in RGL, 2017, 4, 115. 15

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salvo circostanze del tutto eccezionali, la riserva integrale dei posti disponibili in favore del personale interno»19. La Corte Costituzionale è sempre stata concorde nel ritenere che la regola del concorso ammetta eccezioni solo in presenza di specifiche e particolari esigenze20 e che tali eccezioni siano legittime soltanto quando risultino «funzionali esse stesse al buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle»21. Ciò implica che le deroghe alla regola del concorso siano sempre «sottoposte al sindacato di costituzionalità, nell’esercizio del quale la Corte ha progressivamente precisato il significato del precetto costituzionale»22. Sta di fatto che i principali interventi “chiarificatori” in materia da parte dei giudici delle leggi hanno avuto ad oggetto le norme che prevedono nuove assunzioni nel settore pubblico mediante concorsi interni e/o riservati23; fenomeno rispetto al quale la medesima Corte ha sempre affermato che anche le modalità organizzative e procedurali del concorso devono ispirarsi al rispetto rigoroso del principio di imparzialità24. In particolare, non qualsiasi procedura selettiva diretta all’accertamento della professionalità dei candidati può dirsi di per sé compatibile con il principio del concorso pubblico, ma soltanto «una selezione trasparente, comparativa, basata esclusivamente sul merito e aperta a tutti i cittadini in possesso di requisiti previamente e obiettivamente definiti»25. Ne è conseguito che tale principio non è rispettato «quando le selezioni siano caratterizzate da arbitrarie forme di restrizione dei soggetti legittimati a parteciparvi»26. Pertanto, sino ad oggi, si è comunemente ritenuto che «procedure selettive riservate, che escludano o riducano irragionevolmente la possibilità di accesso dall’esterno, violano il carattere pubblico del concorso»27. Appare evidente, quindi, come la Corte Costituzionale, negli anni, pur rimanendo fedele e netta sul fronte della intangibilità del principio del concorso pubblico, abbia sempre chiarito che tale principio potrebbe trovare una deroga in circostanze “eccezionali”.

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C. cost., 18 febbraio 2011, n. 52, in DeJure. Sul punto, v. anche, Cosmai, La giurisprudenza in materia di accesso nella pubblica amministrazione, in LG, 2011, 5, 499. 20 C. cost., 21 maggio 2014, n. 134; C. cost., 13 settembre 2012, n. 217; C. cost., 23 novembre 2011, n. 310; C. cost., 15 gennaio 2010, n. 9; C. cost., 13 novembre 2009, n. 293; C. cost., 14 luglio 2009, n. 215; C. cost., 3 marzo 2006, n. 81, tutte in DeJure. 21 C. cost., 4 giugno 2010, n. 195 e C. cost., 29 aprile 2010, n. 150, entrambe in DeJure. 22 C. cost., 13 novembre 2009, n. 293, in DeJure. 23 V. sul punto, per una ricostruzione delle varie pronunce in materia, Magri, I concorsi e le assunzioni, in GDA, 2015, 3, 408. 24 C. cost., 15 ottobre 1990, n. 453, in DeJure. 25 C. cost., 13 novembre 2009, n. 293, in DeJure. 26 C. cost., 16 maggio 2002, n. 194 e C. cost., 1 aprile 2011, n. 108, entrambe in DeJure. Inoltre secondo C. cost., 29 aprile 2010, n. 150, ma anche C. cost., 18 febbraio 2011, n. 52, sempre in DeJure , «La legittimità di arbitrarie restrizioni alla partecipazione delle procedure selettive non include soltanto le ipotesi di assunzione senza concorso di soggetti precedentemente estranei alle pubbliche amministrazioni, ma anche i casi di nuovo inquadramento dei dipendenti già in servizio oppure quelli di trasformazione di rapporti non di ruolo, non instaurati ab origine mediante concorso, in rapporti di ruolo». 27 C. cost., 26 gennaio 2004, n. 34, in DeJure.

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La deroga “sottintesa” nelle pronunce descritte aspettava, dunque, solo che un interprete più audace potesse individuare un’ipotesi di ragionevole eccezionalità, effettivamente capace di incrinare un sistema granitico, rimasto inviolato per più di un decennio. Questo connotato di straordinarietà sembrerebbe oggi essere stato espressamente individuato dal Tar siciliano proprio nelle procedure di stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione, le quali, per la loro connaturata eccezionalità, giustificherebbero pienamente una deroga all’art. 97 Cost. Tale conclusione appare ulteriormente plaudibile se si tengono in debita considerazione anche le spinte e le pressioni provenienti a livello europeo dai numerosi interventi della Corte di Giustizia28, che ha più volte sottolineato la necessità di un intervento “correttivo” da parte del nostro legislatore al fine di garantire la pari dignità, sia dei lavoratori pubblici a tempo indeterminato rispetto a quelli a tempo determinato, sia nella comparazione lavoro a termine nel “pubblico” e lavoro a termine nel “privato”, in riferimento alle (crescenti) ipotesi di abuso del contratto a termine nella PA, per le quali, essendo vietato il meccanismo della conversione automatica del rapporto di lavoro, è previsto solo un ristoro economico29. La tesi della eccezionalità delle procedure di stabilizzazione, come già chiarito, trova inoltre conforto anche nelle scelte legislative più recenti, che hanno stigmatizzato il ricorrente (rectius, riprovevole) utilizzo di tipologie flessibili di lavoro da parte delle «amministrazioni (spesso bisognose di personale), le quali finiscono per confidare in un intervento (che ormai a cadenze temporali prevedibili arriva sempre) del legislatore, che consente di rivestire di legittimità rapporti di lavoro non costituiti secondo la forma classica (e auspicata) del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, subordinato, basato sull’accesso per concorso»30.

5. Conclusioni. Alla luce dei descritti precedenti legislativi e giurisprudenziali, le scelte interpretative del giudice amministrativo siciliano realizzano, senza dubbio, un notevole balzo in avanti nella lunga storia delle stabilizzazioni. Secondo il Tar, infatti, dall’esame delle pronunce della Corte Costituzionale il limite della riserva del 50% per i concorsi pubblici non può che recedere dinanzi a norme di

28

V., tra le altre, C. giust., 7 marzo 2018, causa C-494/16, Santoro; C. giust., 8 settembre 2011, causa C-177/10, Santana; c. giust., 23 novembre 2009, causa C-162/08, Lagoudakis; C. giust., 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler, tutte in DeJure. 29 In particolare, sul punto, la recentissima sentenza C. cost., 27 dicembre 2018, n. 248 ha deluso le aspettative di quanti speravano che la Consulta potesse finalmente fornire un definitivo chiarimento in materia, limitandosi invece a confermare gli approdi della giurisprudenza di legittimità che richiama le fattispecie di «danno presunto con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”» Cass., sez. un., 9 giugno 2017, n. 14432. V. Monea, La (lunga) stagione delle cd. “stabilizzazioni” nel p.i., in www. lexitalia.it. 30 Nicosia, Saracini, Spinelli, Lavoro Pubblico, in Saracini (a cura di), Osservatorio sul Lavoro Pubblico, in RGL, 2017, 4, 117-118.

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carattere speciale «che, più che disciplinare concorsi pubblici, regolamentano procedure speciali volte alla stabilizzazione del personale precario». Secondo tale interpretazione, quindi, si perviene ad una conclusione ineccepibile (innanzitutto sul piano etico): la finalità del superamento del precariato è certamente una ragione sufficiente a legittimare concorsi interamente riservati, andando a favorire una maggiore e più ampia valorizzazione della professionalità acquisita dal personale con contratto di lavoro a tempo determinato e, al contempo, ridurre il precariato. Tale principio, emerso dalla sentenza in commento, sembrerebbe affermare con chiarezza che il limite alla riserva dei posti al personale interno possa ammettere deroghe ogni qual volta queste non appaiano immotivate, ma sorrette da consistenti ragioni di interesse pubblico. Ciò che, però, non appare altrettanto cristallino è se, in punto di applicazione, le amministrazioni che dovranno procedere alla copertura di posti in organico potranno utilizzare il principio di deroga stabilito dal Tar solo in presenza di una fonte legislativa (nazionale o regionale) che autorizzi la stabilizzazione (come accade per il caso di specie ove si fa esplicito riferimento alle disposizioni che «regolamentano procedure speciali volte alla stabilizzazione del precariato»), oppure potranno procedere anche in assenza di una esplicita legge che disciplini tali procedure. Mentre questo dubbio interpretativo, con ogni probabilità, troverà una soluzione spontanea stesso nella futura prassi applicativa, la lettura più elastica dei sistemi di stabilizzazione del precariato offerta dal giudice siciliano, per quanto plaudibile, lascia, comunque, insoluti alcuni problemi rilevati anche in fase di attuazione delle più recenti normative in materia. Infatti, non risulta in alcun modo modificata la posizione di mera aspettattiva di stabilità di cui è portatore il lavoratore precario, in quanto, come già chiarito più volte dalla giurisprudenza, un’effettiva mancanza in organico di posti (corrispondenti alle qualifiche già assegnate a tempo determinato) non fa emergere un diritto soggettivo del lavoratore all’assunzione stabile, dato che la regolarizzazione dei rapporti resta una libera scelta delle amministrazioni, in capo alle quali non vi è alcun obbligo di stabilizzazione31. Infine, seppure il nuovo orientamento giurisprudenziale darà un ulteriore apporto al superamento del precariato, per contro, lascerà immutata la pesante eredità di una pubblica amministrazione non ringiovanita32. Infatti, com’è già stato rilevato in dottrina, l’ineludibile necessità di tenere in debita considerazione le professionalità formatesi nelle PA contrasta «non poco con l’esigenza di ricambio generazionale invocato da più parti a gran voce, chiamando a un delicato contemperamento fra finalità differenti»33. Arianna Avondola

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C. cost., 3 marzo 2006, n. 81, in DeJure. De Marco, op. cit., passim. 33 Ricci, op. cit., 293. 32

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