Labor 4/2020

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2020 LABOR 4

L

ABOR Il lavoro nel diritto

issn 2531-4688

4

luglio-agosto 2020

Rivista bimestrale

D iretta da Oronzo Mazzotta

www.rivistalabor.it

IN EVIDENZA Emergenza e riemersione.

Le prospettive del diritto del lavoro prima e dopo Maria Teresa Carinci, Riccardo Del Punta, Vincenzo Ferrante, Roberto Pessi, Roberto Romei, Carlo Zoli, Adalberto Perulli, Carlo Cester, Arturo Maresca, Marcello Pedrazzoli, Marina Brollo

Giurisprudenza commentata „„ Silvia Ortis, Anna Zilli

Pacini



Indici

Emergenza e riemersione. Le prospettive del diritto del lavoro prima e dopo

Oronzo Mazzotta, Presentazione..........................................................................................................p. 379 Saggi Maria Teresa Carinci, Obbligo di sicurezza e responsabilità datoriale: il rischio di contagio da Covid-19.............................................................................................................................................. » 385 Riccardo Del Punta, CIG per sempre? Sui dispositivi di sostegno al reddito nella pandemia da coronavirus......................................................................................................................................... » 399 Vincenzo Ferrante, Le fonti e il dialogo sociale....................................................................................... » 403 Roberto Pessi, Le categorie contrattuali ai tempi del Covid-19.............................................................. » 417 Roberto Romei, Il lavoro agile in Italia: prima, durante e dopo la pandemia...................................... » 423 Carlo Zoli, La tutela dell’occupazione nell’emergenza epidemiologica fra garantismo e condizionalità....................................................................................................................................... » 439 Adalberto Perulli, Covid-19 e diritto del lavoro: emergenza, contingenza e valorizzazione del lavoro dopo la pandemia................................................................................................................... » 455 Carlo Cester, Emergenza epidemiologica e corrispettività nel rapporto di lavoro............................... » 469 Arturo Maresca, Il diritto del lavoro nell’emergenza (post) Covid-19: il lavoro a termine.................. » 477 Marcello Pedrazzoli, Crisi economica da pandemia e costituzione economica e del lavoro: il caso dell’art. 46 Cost............................................................................................................................. » 489 Marina Brollo, Il lavoro agile tra emergenza pandemica e riemersione della questione femminile.. » 507

Giurisprudenza commentata Silvia Ortis, La nozione di «ripresa del lavoro» e la fruizione delle ferie fra diritti e obblighi del lavoratore allo scadere del periodo di comporto............................................................................... » 519 Anna Zilli, Il lavoro agile per Covid-19 come “accomodamento ragionevole” tra tutela della salute, diritto al lavoro e libertà di organizzazione dell’impresa..................................................................... » 531


Indice analitico delle sentenze Lavoro (rapporto di) – Emergenza sanitaria – Assistenza a familiare disabile – Lavoro agile – Diritto – Sussistenza – Condizioni (Trib. Bologna, decr. 23 aprile 2020, con nota di Zilli) – Ferie non maturate – Potere datoriale di fruizione coattiva – Insussistenza – Invalido civile – Lavoro agile – Diritto – Sussistenza – Condizioni (Trib. Grosseto, ord. 23 aprile 2020, con nota di Zilli) Licenziamenti – Licenziamento per giusta causa – Assenza per motivi di salute superiore a 60 giorni – Visita medica preventiva – Ripresa del lavoro – Obbligo del lavoratore di presentarsi sul luogo di lavoro – Sussistenza Assegnazione provvisoria a mansioni diverse – Legittimità (Cass., 27 marzo 2020, n. 7566, con nota di Ortis)

Indice cronologico delle sentenze Giorno

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Autorità 2020 Marzo Cass., n. 7566 Aprile Trib. Bologna Trib. Grosseto

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Notizie sugli autori

Marina Brollo – professoressa ordinaria nell’Università degli studi di Udine Maria Teresa Carinci – professoressa ordinaria nell’Università degli Studi di Milano Carlo Cester – professore emerito nell’Università degli Studi di Padova Riccardo Del Punta – professore ordinario nell’Università degli Studi di Firenze Vincenzo Ferrante – professore ordinario nell’Università Cattolica del Sacro Cuore Arturo Maresca – professore ordinario nell’Università Roma La Sapienza Oronzo Mazzotta – già professore ordinario nell’Università di Pisa Silvia Ortis – dottoranda nell’Università Ca’ Foscari di Venezia Marcello Pedrazzoli – già professore ordinario nell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Adalberto Perulli – professore ordinario nell’Università Ca’ Foscari di Venezia e nell’Università di Parigi Nanterre Roberto Pessi – professore emerito nell’Università Luiss Guido Carli Roberto Romei – professore ordinario nell’Università degli Studi Roma Tre Anna Zilli – professoressa associata nell’Università degli studi di Udine Carlo Zoli – professore ordinario nell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna


Oronzo Mazzotta

Presentazione Gli scritti raccolti in questo numero sono stati presentati nel corso di due seminari telematici organizzati dalla rivista mercé l’ausilio delle Università di Venezia e di Udine ed intendono inaugurare una serie di incontri seminariali (possibilmente) itineranti a cadenza annuale o semestrale che Labor si propone di coltivare per dialogare intorno alla nostra disciplina. Per questa prima iniziativa abbiamo ritenuto opportuno coinvolgere l’intero comitato scientifico della rivista, per dare un segno tangibile di collegialità e condivisione delle sue scelte culturali. Il tema è stato dettato dalla drammatica attualità che ci ha accompagnato fin dall’inverno ed ancora in parte ci accompagna pur ad estate inoltrata. La parola “emergenza” ha in pancia l’idea di soccorso, aiuto ma anche il suo contrario: l’idea di ri(scatto), (ri)emersione. E questo perché emergenza e riemersione hanno la medesima etimologia. Derivano ambedue da emergere; nel primo caso emerge qualcosa di oscuro che ci fa paura e che richiede aiuto, soccorso; nel secondo caso dallo stesso abisso da cui saliva il pericolo può sollevarsi un’idea di riscatto e salvazione. Il che significa che ci si può occupare di emergenza sia segnalando la situazione nefasta nella quale ci si trova sia indicando prospettive di riemersione immediata sia, ancora, allungando lo sguardo verso il futuro prossimo e ipotizzando gli strumenti necessari ad evitare di trovarsi sprovveduti e disorientati di fronte ad una nuova “emergenza” e ad un nuovo pericolo. In queste situazioni, per quanto ci riguarda, vengono poste in discussione sia, per così dire, le regole della fabbrica che la fabbrica delle regole. Nel primo senso si tratta di verificare le torsioni che subiscono le regole del diritto del lavoro in conseguenza della pandemia così come, nel secondo, ci si interroga sulle fonti (legge o autonomia collettiva o anche sull’impiego dei dpcm) che debbano governare queste modificazioni. Lo scossone provocato dalla pandemia ha imposto una serie di misure normative, inedite non tanto intrinsecamente, quanto in relazione alla loro dimensione ed estensione. Vi è in primo luogo da verificare l’impatto della situazione di emergenza sulla dinamica del contratto di lavoro, a partire dal tema centrale della corrispettività. Si tratta di una problematica che appartiene all’armamentario tradizionale del giuslavorista e sulla quale Carlo Cester fornisce una serie di risposte ai principali nodi giuridici, che ruotano intorno alla categoria civilistica dell’impossibilità. Sullo sfondo ovviamente si agitano la questione della tenuta dei modelli contrattuali esistenti (si v. il contributo di Roberto Pessi), ma soprattutto la vera e propria esplosione del lavoro agile, il cui impiego ha perso il carattere dell’elettività, corrispondente ad un apposito accordo fra le parti del rapporto di lavoro, per divenire uno strumento di governo dell’impresa affidato a scelte unilaterali del datore (v. il saggio di Roberto Romei), anche


Oronzo Mazzotta

se con qualche rischio di aggiungere ostacoli alla parità di genere (v. quanto scrive Marina Brollo). Sul lavoro agile occorrerà comunque tornare a riflettere, al di fuori della pressione dell’emergenza, mettendo a fuoco le idee circolanti fra gli organizzativisti e qualche giuslavorista, che intendono farne una testa di ponte per una nuova concezione del lavoro, svincolato dai lacci caratteristici del prototipo di cui all’art. 2094 cod. civ., che apparirebbero inconcepibili rispetto ad una modalità lavorativa che è riottosa ad un esercizio puntuale del potere direttivo e che si piega piuttosto ad un lavoro per obiettivi. Centrale nella fase calda della gestione dell’emergenza è stato ed è ancora il tema della tutela della salute dei lavoratori. Maria Teresa Carinci ci guida in un territorio reso esplosivo anche dalla scelta legislativa di equiparare il contagio da Covid-19 ad infortunio professionale, scelta che ha aperto una discussione sulle ricadute risarcitorie a carico del datore di lavoro in caso di malattia contratta da un lavoratore nell’ambiente di lavoro. Altrettanto centrali, nella logica della conservazione di un sia pur minimo potere d’acquisto per i lavoratori, sono le disposizioni che riguardano l’intervento della cassa integrazione guadagni (di cui si occupa Riccardo Del Punta) ed il blocco dei licenziamenti (affidato a Carlo Zoli). E poi, come abbiamo detto, c’è la fabbrica delle regole: chi le scrive? È tornato il tempo delle grandi politiche concertative, di cui si era persa traccia nel recente passato (e che invece hanno avuto un ruolo centrale nell’emergenza degli anni settanta) o è il tempo di rivalutare il ruolo del parlamento, a dispetto degli atti amministrativi con cui si è governata la prima fase della pandemia? Il dibattito ferve: ne parla Vincenzo Ferrante nel suo saggio. Da notare che sul tema interferisce anche la scelta legislativa (v. l’art. 1, 2° co. lett. l) del d.l. n. 23 del 2020) di condizionare gli interventi economici di sostegno alle imprese all’impegno assunto dalle medesime «a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali». Non è chiara la latitudine della previsione né la sua giustiziabilità, ma non si può trascurare che sia un segnale significativo. E per dopo? Le politiche dell’emergenza mettono al centro il lavoro e la sua conservazione, sia in termini di protezione del reddito sia in termini di blocco dei licenziamenti (misura simbolicamente significativa), sia, infine, in termini di salvataggio delle occasioni di lavoro. Le ricette per il futuro, che circolano esplicitamente o sotterraneamente in molti interventi, guardano sia all’immediato domani sia a prospettive di lungo periodo. Nell’immediato è quasi ineludibile che si riproponga il dilemma flessibilità/rigidità, una alternativa – ampiamente valorizzata dalla legislazione del 2015 – che propone lo scambio fra riduzione dei diritti dei lavoratori e maggiore occupazione (Arturo Maresca, in questa chiave, auspica un ampliamento del lavoro a termine a-causale). Ad una prospettiva totalmente diversa si apre chi, come Adalberto Perulli, ritiene che la pandemia debba riportare al centro del discorso pubblico il valore del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» con una ormai ineludibile universalizzazione delle tutele. Vengono così evocate questioni di fondo che toccano il modello di sviluppo sociale ed interrogano i fondamenti della nostra convivenza. Il tema è quello eterno cristallizzato nella nostra carta costituzionale, che vede la necessità di contrapporre o armonizzare diritto

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Presentazione

al lavoro ed iniziativa economica privata, armonizzazione o bilanciamento che possono certo essere affidati alla legge, ma che ben potrebbero essere affidati alle stesse parti sociali in una chiave partecipativa. È in particolare Marcello Pedrazzoli che propone una appassionata difesa del modello evocato dall’art. 46 Cost., che, a suo avviso, valorizza – se non in contrasto, quanto meno, oltre l’acquisizione di fondo della contrapposizione conflittuale di interessi fra le parti del rapporto e fra il datore ed i rappresentanti dei lavoratori – una vera comunanza di intenti e condivisione di obiettivi. Si tratterebbe di «una connessione vitale che [potrebbe emancipare] l’operazione da ogni ipoteca corporativa» (quella, per intenderci, che alludeva ad un interesse dell’impresa distinto da quello dell’imprenditore). Come si vede le corde toccate sono molte e la discussione è aperta; il futuro ci dirà.

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Emergenza e riemersione Le prospettive del diritto del lavoro prima e dopo



Maria Teresa Carinci

Obbligo di sicurezza e responsabilità datoriale: il rischio di contagio da Covid-19 Sommario : 1. Premessa: le modalità di trasmissione del Covid-19 sono note. – 2. La centralità dell’art. 2087 c.c.: l’obbligo di diligenza del datore di lavoro e la ripartizione degli oneri probatori. – 3. Prima questione: il rischio di contagio da Covid-19 rientra fra i rischi che il datore è tenuto a prevenire? – 4. Seconda questione: per fronteggiare il rischio di contagio da Covid-19 il datore di lavoro deve adottare solo misure di sicurezza nominate o anche innominate? – 5. Primo corollario: le misure di sicurezza nel tempo. – 6. Secondo corollario: il datore di lavoro può utilizzare, quale misura di sicurezza innominata, i test sierologici rapidi? – 7. Terza questione: la prova del nesso causale ed il rilievo delle concause. – 8. Conclusione.

Sinossi. Nel presente saggio l’A. si interroga su come declinare l’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. (che impone, come noto, al datore di lavoro di garantire la salute e la sicurezza dei propri lavoratori) al fine di evitare il rischio di contagio da Covid-19 sul luogo di lavoro. L’A,, dopo aver illustrato quali sono le modalità di trasmissione del virus e aver brevemente ripercorso i contenuti dell’art. 2087 c.c., chiarisce tre punti: il rischio di contagio da Covid-19 rientra fra i rischi che il datore è tenuto a prevenire; per fare ciò il datore di lavoro deve adottare misure di sicurezza non solo nominate ma anche innominate (fra cui i test sierologici rapidi); sebbene l’onere della prova del nesso causale fra inadempimento (nocività dell’ambiente di lavoro) e danno spetti al lavoratore, essendo il Covid-19 una patologia ad origine multifattoriale, il giudice deve far riferimento alla nozione di causalità probabilistica o regolarità causale. Abstract. In this essay, the A. deals with the safety obligation pursuant to art. 2087 c.c. (which requires the employer to guarantee health and safety of its workers) in order to avoid the risk of Covid-19 contagion in the workplace. The A., after clarifying the methods of transmission of the virus and briefly reviewing the contents of art. 2087 c.c., clarifies three points: the risk of Covid-19 contagion is one of the risks that the employer must prevent under art. 2087 c.c.; to do so, the employer must adopt safety measures not only “named” but also “unnamed” (among which rapid serological tests); although the burden of proof of the link between the harmfulness of the work environment and damage relies on the worker, since Covid-19 is a pathology which has a multifactorial origin, the judge must refer to the notion of probabilistic causality or causal regularity.


Maria Teresa Carinci

Parole chiave: Obbligo di sicurezza sul luogo di lavoro – Contagio da Covid-19 – Responsabilità del datore di lavoro – Onere della prova – Misure di sicurezza

1. Premessa: le modalità di trasmissione del Covid-19 sono

note.

Prima di soffermarmi sui principali problemi giuridici che il diffondersi di Covid-19 a mio parere pone sotto il profilo della sicurezza dei luoghi di lavoro, credo sia importante sottolineare che le modalità di trasmissione del virus sono ormai note. Tutti gli scienziati, infatti, sono d’accordo sul fatto che il virus è veicolato dalle microgocce di saliva (aereosol o droplet, a seconda delle dimensioni) emesse della persona infetta (tramite il respiro, la tosse, gli starnuti) che entrano in contatto con le mucose (del naso, della bocca o degli occhi) altrui, in via diretta quando il fiato del soggetto infetto raggiunge la persona che viene infettata, in via indiretta quando le mani di chi viene infettato, entrate in contatto con oggetti contaminati, trasferiscono il virus sulle sue mucose. Il virus può essere veicolato poi anche da altri fluidi corporei (quali le feci)1. Il Covid-19 può peraltro essere rapidamente neutralizzato dal sapone, dall’alcol, dall’acqua ossigenata e dalla candeggina2. È evidente che così stando le cose il Covid-19 può diffondersi in ogni situazione di prossimità fra le persone. Il suo raggio d’azione, d’altra parte, dipende da una serie di variabili che concernono la distanza che le gocce di saliva emesse dalla persona infetta sono in grado di raggiungere in una situazione data, come per es. la forza di emissione del respiro del soggetto in quel determinato momento (a seconda che sia in situazione

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Cfr. Peng, Xu, Li, Cheng, Zhou, Ren, Transmission routes of 2019-nCoV and controls in dental practice, International Journal of Oral Science 2020, in www.nature.com/ijos: in cui si legge: «The common transmission routes of novel coronavirus include direct transmission (cough, sneeze, and droplet inhalation transmission) and contact transmission (contact with oral, nasal, and eye mucous membranes). Although common clinical manifestations of novel coronavirus infection do not include eye symptoms, the analysis of conjunctival samples from confirmed and suspected cases of 2019-nCoV suggests that the transmission of 2019-nCoV is not limited to the respiratory tract, and that eye exposure may provide an effective way for the virus to enter the body. In addition, studies have shown that respiratory viruses can be transmitted from person to person through direct or indirect contact, or through coarse or small droplets, and 2019-nCoV can also be transmitted directly or indirectly through saliva. Notably, a report of one case of 2019-nCoV infection in Germany indicates that transmission of the virus may also occur through contact with asymptomatic patients. Studies have suggested that 2019-nCoV may be airborne through aerosols formed during medical procedures. It is notable that 2019-nCoV RNA could also be detected by rRT-PCR testing in a stool specimen collected on day 7 of the patient’s illness. However, the aerosol transmission route and the fecal-oral transmission route concerned by the public still need to be further studied and confirmed». Nello stesso senso, Rabi, Al Zoubi, Kasasbeh, Salameh, Al-Nasser, SARS-CoV-2 and Coronavirus Disease 2019: What We Know So Far, in Pathogens. 2020, 9(3), 231 e ss. in https://doi.org/10.3390/pathogens9030231; Singhal, A Review of Coronavirus Disease-019 (COVID-19), in Indian Journal of Pediatrics, 2020, 87(4), 281-286, in https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32166607/. V. anche la risposta a FAQ del Ministero della salute http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioFaq. Cfr. Singhal, A Review of Coronavirus Disease-019 (COVID-19), cit. V. anche la risposta a FAQ del Ministero della Salute in www.salute. gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioFaqNuovoCoronavirus; OMS, Cleaning and disinfection of environmental surfaces in the context of COVID-19, Interim guidance, 15 May 2020.

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Obbligo di sicurezza e responsabilità datoriale: il rischio di contagio da Covid-19

di quiete o sforzo3), la distanza fra le persone e il loro tipo di interazione (breve o prolungata, di semplice prossimità o di dialogo ecc.), le dimensioni e le condizioni dell’ambiente (chiuso o aperto; con circolazione più o meno intensa dell’aria), la presenza di barriere fisiche fra una persona e l’altra; la condivisione o il passaggio di oggetti fra loro, ecc. Dati questi presupposti, è chiaro che gli ambienti di lavoro, da una parte, sono luoghi ideali per la trasmissione del virus: la prossimità fra le persone che lavorano, caratteristica del tipo di organizzazione fin qui adottata dalle imprese, li fa assurgere – in assenza di misure preventive – a luoghi dove il rischio di contagio da Covid-19 è particolarmente elevato. D’altra parte, è ugualmente evidente che date le modalità di trasmissione del virus, le misure preventive necessarie per evitare il contagio devono essere calibrate sul singolo ambiente di lavoro e sulle modalità di lavoro del singolo lavoratore.

2. La centralità dell’art. 2087 c.c.: l’obbligo di diligenza del datore di lavoro e la ripartizione degli oneri probatori.

Sul piano del diritto del lavoro il rischio di infezione da Coronavirus fa sorgere oggi diversi interrogativi che ruotano principalmente4 intorno all’art. 2087 c.c., la norma codicistica che fonda l’obbligo contrattuale del datore di lavoro di garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori adottando sul luogo di lavoro tutte le misure a ciò idonee. È noto che per interpretazione condivisa l’art. 2087 c.c. pone in capo al datore un obbligo di comportamento e non una responsabilità oggettiva per danni. Ne deriva che il datore è tenuto ad adempiere all’obbligo posto a suo carico nel rispetto del canone di diligenza, seppur profondendo un impegno che, per orientamento giurisprudenziale consolidato, deve essere particolarmente inteso (secondo il canone della massima sicurezza tecnologicamente possibile): il datore di lavoro infatti è tenuto ad adottare tutte le misure di sicu-

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V. infatti d.p.c.m. del 26 aprile 2020 che fissava in 2 metri la distanza di sicurezza per chi praticasse sport. Il d.p.c.m. è stato ora sostituito dal d.p.c.m. 17 maggio 2020. Diversa e separata questione è se il datore di lavoro, a fronte dell’emergere del rischio da Covid-19, debba anche adeguare il DVR previsto dal d.lgs. n. 81/2008 o, il che è sostanzialmente lo stesso, elaborarne una “appendice” valida per tutto il tempo dell’epidemia. Ritengo che al quesito debba essere data risposta positiva sia per ragioni tecnico-giuridiche che per ragioni pratico-operative. Sul piano tecnico-giuridico basti osservare che la “valutazione dei rischi”, definita come “valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza presenti nell’ambito della organizzazione in cui essi [i lavoratori] prestino la propria attività” (art. 1, co., lett. q) deve riguardare “tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori” (art. 28, co. 1); mentre il DVR è definito come una “relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori durante l’attività lavorativa” (art. 28, co. 2, lett. a). D’altra parte l’art. 29, co. 3, d.lgs. n. 81/2008 richiede che il DVR debba essere immediatamente rielaborato “in occasione di modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro” o “quando la sorveglianza sanitaria ne ravvisi la necessità”, modifiche che il datore dovrà inevitabilmente introdurre (per es. distanziando i lavoratori, introducendo diversi orari e turni, ecc.) per prevenire il rischio di contagio da Covid-19. Mi sembra dunque che le norme del d.lgs. n. 81/2008 impongano di rielaborare il DVR (i cui contenuti dovranno comunque recepire ed eventualmente integrare quanto previsto dai Protocolli fra le parti sociali, ma v. infra par. 4). Sul piano pratico-operativo, d’altra parte, è bene che il datore di lavoro in via cautelativa formalizzi quali misure intende adottare e per quali ragioni. V. nello stesso la nota n. 89 del 13 marzo 2020 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

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Maria Teresa Carinci

rezza (nominate e innominate5) che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica – cioè alla luce dell’esperienza professionale del settore e del progresso scientifico raggiunto in un dato momento storico – siano meglio idonee, in relazione alle mansioni del lavoratore, ad evitare o ridurre al minimo il rischio. Nel caso in cui l’obbligo di sicurezza così configurato non sia adempiuto – dunque qualora il datore non si comporti secondo la diligenza richiesta – sarà responsabile per i danni occorsi al lavoratore. Tuttavia l’affermazione da parte del giudice della responsabilità datoriale richiede altresì che sia assolto in giudizio l’onere della prova non solo della nocività dell’ambiente di lavoro (cioè in sostanza la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro), ma anche della sussistenza del nesso causale fra ambiente di lavoro e danno, oltre che del danno patito dal lavoratore. Oneri questi che – secondo le ordinarie regole in materia di responsabilità contrattuale – incombono tutti sul lavoratore; ricadendo sul datore la prova di aver adottato tutte le misure necessarie ad evitare il danno6. In presenza di tale quadro normativo, credo che l’attuale epidemia da Coronavirus ponga all’interprete almeno tre interrogativi particolarmente critici: in primis se il rischio di contagio da Covid-19 rientri nello spettro dei rischi che l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di prevenire o, al contrario, in quanto rischio generico diffuso nell’ambiente sociale e dunque esterno all’organizzazione, fuoriesca da tale spettro; in secundis, quale sforzo di diligenza deve profondere il datore per assolvere nel caso specifico il suo obbligo di sicurezza e, cioè, se la diligenza richiesta al datore di lavoro è integrata dal mero rispetto delle misure di sicurezza nominate previste dal legislatore (in via diretta o indiretta tramite il rinvio ai Protocolli, v. infra par. 4) oppure, qui come in ogni altro caso, richieda l’eventuale adozione anche di misure innominate; ed, infine, qualora il lavoratore dovesse infettarsi, in che modo egli possa dimostrare la sussistenza del nesso causale fra l’ambiente di lavoro e l’infortunio occorsogli, dal momento che il virus è diffuso anche nell’ambiente sociale. Su ciascuna di tali questioni mi soffermerò nella trattazione che segue.

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Cfr. per tutte da ultimo Cass., 27 febbraio 2019, n. 5749 in cui si legge: “l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento”. V. per tutte da ultimo Cass., 15 febbraio 2019, n. 4613 secondo la quale: “In tale contesto di responsabilità contrattuale e sul piano della ripartizione dell’onere della prova, relativamente ad un giudizio promosso dal lavoratore per ottenere il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento agli obblighi di cui all’art. 2087 c.c., si deve inoltre ribadire che, ai sensi dell’art. 1218 c.c., in linea con quanto affermato in generale nell’interpretazione di tale norme codicistica […], grava sul lavoratore l’onere di dedurre e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno e del nesso di causalità tra quest’ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, pertanto, di avere adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno. V. anche Cass., 27 febbraio 2019, n. 5749, cit.; Cass., 23 maggio 2018, n. 12808.

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Obbligo di sicurezza e responsabilità datoriale: il rischio di contagio da Covid-19

3. Prima questione: il rischio di contagio da Covid-19 rientra

fra i rischi che il datore è tenuto a prevenire?

È indubbio che il rischio da contagio da Covid-19 non è un rischio endogeno (rischio specifico), prodotto dall’organizzazione stessa, ma è un rischio esogeno (rischio generico), che si produce nell’ambiente in cui l’organizzazione è inserita. Esso è destinato solo a riprodursi ed aggravarsi all’interno dell’organizzazione stessa vista la prossimità e la continua interazione fra le persone che caratterizza i luoghi di lavoro. Tuttavia l’art. 2087 c.c. non distingue fra rischi endogeni (specifici) ed esogeni (generici), imponendo al contrario al datore di lavoro di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori prevenendo ed eliminando o riducendo tutti i rischi, senza distinzioni, comunque presenti nell’ambito dell’organizzazione. L’art. 2087 c.c. dunque non solo impone al datore di prevenire i rischi creati dall’organizzazione stessa, ma anche tutti i rischi che siano comunque presenti nel suo ambito ed ancor più – ovviamente – i rischi che pur esterni all’organizzazione al suo interno siano destinati ad aggravarsi. Che le cose stiano così è reso palese da quell’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato che pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di prevenire rischi generici che possono interessare qualunque soggetto (quali per es. i pericoli che derivano dalla circolazione stradale su ghiaccio7, il rischio di contrarre patologie diffuse nel contesto sociale8, il rischio di rapine9 a cui secondo la dottrina va aggiunto anche il rischio di rimanere vittima di atti terroristici10). Certo nel caso del Coronavirus la situazione è portata all’estremo dal momento che non un singolo lavoratore o un gruppo di lavoratori, ma tutti i dipendenti del datore di lavoro sono esposti al rischio di contagio. Ma ciò non toglie che il rischio di infezione da Covid-19 rientri fra i rischi – generici o specifici, non importa – che l’art. 2087 c.c. impone comunque al datore di prevenire11.

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Cfr. Cass., 18 febbraio 2000, n. 1886. Cfr. Cass., 17 ottobre 2018, n. 26041, che analizza un caso in cui il lavoratore aveva contratto una patologia gastroenterica, in relazione alla quale però mancava la prova che l’infezione fosse stata contratta nell’esercizio dell’attività professionale e non nella vita quotidiana, tramite l’assunzione di cibi infetti. 9 Cfr. Cass., 28 ottobre 2016, n. 21901; Cass, 22 febbraio 2016, n. 3424; Cass., 18 febbraio 2016, n. 3212; Cass., 20 novembre 2015, n. 23793; Cass., 13 aprile 2015, n. 7405; Cass., 11 aprile 2013, n. 8855. 10 Cfr. Angelini, Lazzari, La sicurezza sul lavoro nelle attività svolte all’estero, in DSL, 2019, 2, p. 73 ss.; Bacchini, Attività criminosa di terzi e attentati terroristici: valutazione e gestione dei cc.dd. “rischi security”, in LG, 2016, 6, p. 546 ss. 11 Non esiste d’altra parte alcuna norma nel nostro ordinamento che abbia escluso la responsabilità del datore di lavoro per danni derivanti da infezione da Covid-19, come pure sarebbe possibile ai sensi dell’art. 5 dir. 89/391/CEE. Cfr. Marazza, L’art. 2087 c.c. nella pandemia (Covid-19), in RIDL, 2020, 2, I, par. 4. 8

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Maria Teresa Carinci

4. Seconda questione: per fronteggiare il rischio di contagio da Covid-19 il datore di lavoro deve adottare solo misure di sicurezza nominate o anche innominate?

Com’è noto il Governo ha adottato una serie di provvedimenti, succedutisi nel tempo, indicanti sia in modo diretto12 che indiretto (tramite il rinvio ai Protocolli stipulati con le parti sociali13, il cui contenuto è stato “legificato”14) una serie di misure di sicurezza, dotate di un diverso grado di specificità, per scongiurare il rischio di contagio sui luoghi di lavoro (quali per es. provvedere ad assicurare ai lavoratori disinfettanti per le mani e DPI, garantire la separazione fra entrate ed uscite, assicurare la pulizia giornaliera dei locali e la loro sanificazione periodica, ecc.15). Ulteriori disposizioni sono poi contenute in altri provvedimenti, emessi soprattutto dalle Regioni16. Di fronte a tale complesso panorama, la principale questione che si pone è se il datore di lavoro, per assolvere il proprio obbligo di sicurezza, possa limitarsi ad adottare le misure precauzionali prescritte dalla normativa vigente (misure nominate) ed applicarle così come indicato dalle norme stesse o al contrario – come di consueto – sia tenuto ad adottare anche ulteriori misure non previste (misure innominate) oltre che adattare l’utilizzo delle misure prescritte in relazione al contesto di riferimento, quando sulla base delle acquisizioni scientifiche ciò si riveli più efficace per scongiurare il contagio. Così per esemplificare con riferimento a quest’ultimo aspetto, ci si può chiedere se – andando oltre le indicazioni dei Protocolli (v. sia quello del 14 marzo 2020 che quello del 20 aprile 2020) – il datore di lavoro sia tenuto in certe circostanze ad imporre a tutti i dipendenti

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Prima con il d.p.c.m. dell’11 marzo 2020; poi con il d.l. n. 19/2020 convertito in l. n. 27/2020. V. da ultimo il d.l. n. 16 maggio 2020, n. 33 ed il d.p.c.m. del 17 maggio 2020. 13 Mi riferisco al Protocollo nazionale del 14 marzo 2020, poi integrato dal Protocollo nazionale del 24 aprile 2020, che a loro volta rinviano in funzione attuativa a Protocolli aziendali o territoriali. 14 In virtù sia del rinvio operato ad essi dal d.l. n. 19/2020, sia dalla collocazione del Protocollo del 24 aprile 2020 in appendice al d.p.c.m. del 26 aprile 2020, sia in virtù del rinvio da parte del d.l. n. 33/2020 che del loro espresso richiamo ad opera del d.p.c.m. del 17 maggio 2020. 15 Per una classificazione delle varie misure a seconda della loro specificità v. Marazza, L’art. 2087 c.c. nella pandemia (Covid-19), cit., par. 2.1. 16 Tutte le Regioni hanno emesso provvedimenti, integrativi rispetto a quelli governativi, di cui non è possibile fornire qui un quadro. Si vuole però segnalare che il ruolo delle Regioni è stato potenziato nella fase di riapertura (o “back to work”) dal momento che il Governo ha esplicitamente sancito all’art. 1, co. 14, del d.l. n. 33/2020 che: “Le attività economiche, produttive e sociali devono svolgersi nel rispetto dei contenuti di protocolli o linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali. In assenza di quelli regionali trovano applicazione i protocolli o le linee guida adottati a livello nazionale. Le misure limitative delle attività economiche, produttive e sociali possono essere adottate, nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, con provvedimenti emanati ai sensi dell’articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020 o del comma 16”. Il comma successivo della stessa norma prevede poi che: “Il mancato rispetto dei contenuti dei protocolli che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”. Fra i provvedimenti significativi si segnala anche il Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da Sars-cov-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione, pubblicato sul proprio sito dall’Inail il 23 aprile 2020, che però contiene indicazioni al Governo – quindi non vincolanti e non dirette alla generalità dei cittadini – sulle modalità di riapertura del Paese.

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l’uso della mascherina ed al contempo il rispetto di una distanza interpersonale maggiore di 1 metro17. In dottrina c’è chi – pur dando atto del fatto che per interpretazione consolidata in giurisprudenza l’art. 2087 c.c. impone l’adozione di tutte le misure di sicurezza necessarie, nominate ed innominate, secondo la regola della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”18 – ha tuttavia sostenuto che dal momento che, nel caso del Covid-19, manca ancora una legge di copertura scientifica19, il datore di lavoro sarebbe obbligato a rispettare soltanto le regole nominate fissate in via diretta o indiretta dal Governo. L’opinione non può essere condivisa. Come ho già anticipato, non è sconosciuto come il virus si propaghi (v. par. 1): la legge di copertura in merito alle modalità di trasmissione del Covid-19 è nota e, come di consueto, individuata dalla scienza, non dal Governo. Molte sono le pubblicazioni scientifiche al riguardo. Ne sono riprova i risultati di una ricerca statistica effettuata dall’Inps, che dopo aver analizzato il diffondersi del contagio nelle diverse province italiane fra il 24 febbraio ed il 21 aprile (quando l’Italia è stata progressivamente sottoposta al lockdown), ha posto in evidenza come una maggiore concentrazione di attività essenziali – e quindi un maggior numero di lavoratori in attività – in certe aree del Paese abbia prima determinato una maggiore propagazione della malattia (di circa il 20%) e poi una sua decrescita meno rapida20.

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V. infatti d.p.c.m. 26 aprile 2020, art. 1, lett. f) che prescriveva la distanza minima di 2 metri nel caso di attività sportiva; la disposizione è ora confermata dal d.p.c.m. 16 maggio 2020. Se poi in linea generale il Governo individua in 1 metro la distanza minima di sicurezza fra le persone, è bene segnalare però che sul punto il Comitato tecnico scientifico che fornisce supporto al Governo si è diviso: una parte dei medici componenti il Comitato stesso hanno infatti espresso l’opinione che la distanza minima di sicurezza fra le persone dovesse essere fissata in 2 metri (cfr. Gli scienziati si dividono. I duri: “No ai liberi tutti”. Poi prevale la mediazione, in Corriere della Sera, 19 maggio 2020, p. 2). V. anche All.to 10 al d.p.c.m. del 17 maggio 2020, Criteri per Protocolli di settore elaborati dal Comitato tecnico-scientifico in data 15 maggio 2020 ed in particolare i “principi cardine” da esso fissati. 18 Per orientamento consolidato infatti “la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di norme di diritto oggettivo esistenti o di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore sul luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico”, così fra le molte Cass.,15 febbraio 2019, n. 4613. Cfr. anche Cass., 12 giugno 2019, n. 15761: “Le argomentazioni della Corte di merito sono conformi agli orientamenti di legittimità (Cass., 13 ottobre 2017 n. 24217; Cass., 21 settembre 2016 n. 18053) ove si è affermato che in materia di esercizio di attività pericolose ed esposizione dei lavoratori alle polveri di amianto, la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psico-fisica e la salute del luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico”. 19 Cfr. Marazza, L’art. 2087 c.c. nella pandemia (Covid-19), cit., par. 6, secondo il quale “Nell’attuale situazione emergenziale, a differenza di quanto è emerso per il caso di esposizione all’amianto, la peculiarità sta in ciò che è (ormai) certamente nota l’esistenza di potenziale pericolosità del contagio da Covid-19 mentre è in divenire, in ragione della natura (ancora) ignota del virus, la definizione delle misure di sicurezza idonee a prevenirlo negli ambienti di lavoro”. Sembra accogliere tale lettura anche la circolare n. 22 dell’INAIL del 20 maggio 2020. 20 Cfr. Direzione Centrale Studi e Ricerche (DCSR) – INPS, Attività essenziali, lockdown e contenimento della pandemia da COVID-19, studio pubblicato il 24 aprile 2020. Si v. però in senso contrario la ricerca pilota della Regione Veneto, https://www.corriere. it/cronache/20_maggio_18/coronavirus-test-fabbriche-chi-infetto-non-contagia-colleghi-213715ac-9938-11ea-8e5b-51a0b6bd4de9. shtml?refresh_ce-cp, secondo la quale invece le misure di sicurezza adottate in azienda avrebbero determinato una minor diffusione del virus rispetto a quella che deriva dai contatti in famiglia o nei rapporti sociali. La ricerca è stata ora ampliata per verificarne in

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Dunque anche nel caso in discussione – in assenza di previsioni derogatorie – l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare in azienda tutte le misure più idonee a prevenire l’infezione da Covid-19 (concernenti il distanziamento, la protezione, la sanificazione, ecc.), modificando in conseguenza la propria organizzazione. Il datore di lavoro insomma è tenuto ad adottare tutte le misure, nominate ed innominate che siano più efficaci per prevenire il contagio nello specifico contesto organizzativo.

5. Primo corollario: le misure di sicurezza nel tempo. È bene rimarcare però che i datori di lavoro, come del resto tutti i cittadini, non hanno avuto consapevolezza fin dal momento in cui il virus è penetrato nel territorio italiano (forse addirittura nei mesi di ottobre-novembre 2019) della sua diffusione, della sua pericolosità e delle sue modalità di trasmissione. Ne deriva che la sussistenza in capo al datore dell’obbligo di adottare le misure di sicurezza più efficaci per contrastare il propagarsi dell’epidemia dipende inevitabilmente dal giorno in cui il lavoratore ha contratto la malattia: è in quel momento che deve essere valutata la conoscenza o conoscibilità da parte del datore della sussistenza del rischio e delle misure atte a contrastarlo. L’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c., infatti, in quanto obbligo di diligenza, richiede la violazione di una regola cautelare conosciuta o conoscibile da parte del datore di lavoro21. Alla luce di ciò è dunque possibile individuare essenzialmente due fasi: a) una prima fase, conclusasi il 25 febbraio 2020 con l’adozione da parte del Governo del d.p.c.m. che rende chiara la presenza del virus sul nostro territorio (poiché fino al 25 febbraio la situazione di diffusione del virus era ignota); ovviamente fino a quel momento non può esigersi da parte dei datori di lavoro l’adozione di misure di sicurezza volte a contrastarne la diffusione; b) una seconda fase a partire dal d.p.c.m. del 25 febbraio 2020 e tutt’ora perdurante – che concerne tutti i datori di lavoro sull’intero territorio nazionale (ovviamente quelli legittimati, a seconda del periodo di riferimento, a proseguire l’attività22) durante la quel l’obbligo di adottare le necessarie misure di sicurezza per contrastare il contagio è pienamente esigibile. È bene comunque sottolineare che la seconda fase in alcune aree del nostro territorio (comuni del Veneto e della Lombardia) e con riferimento ad alcuni datori di lavoro (quelli legittimati a continuare l’attività) è iniziata con il d.p.c.m. del 22 febbraio 2020 che ha dichiarato quelle aree “zona rossa”.

modo più approfondito l’attendibilità (cfr. https://www.regione.veneto.it/web/sanita/covid-19-ambienti-di-lavoro). La giurisprudenza, infatti, non manca di sottolineare che il datore è tenuto ad adottare le misure di sicurezza più efficaci “tenuto conto della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza ed indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico” (così Cass., 12 giugno 2019, n. 15761). 22 Si deve ricordare infatti con successivi d.p.c.m. è stata prima ristretto (nella “fase del lockdown”) e poi progressivamente riallargata (nella “fase del back to work”) il novero dei soggetti abilitati a proseguire l’attività, fino alla totale riapertura disposta seppur con tempi scaglionati dal d.p.c.m. del 17 maggio 2020. 21

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6. Secondo corollario: il datore di lavoro può utilizzare, quale misura di sicurezza innominata, i test sierologici rapidi?

Fra le misure di sicurezza innominate che il datore può adottare rientrano anche i test sierologici rapidi (i cd. “pungidito”)23? I test sierologici rapidi – supportati da dispositivi di pronto utilizzo e di facile lettura (sul modello dei kit per misurare la glicemia) – permettono, tramite l’uso di poche gocce di sangue, in tempi molto veloci (solitamente nell’arco di 15 minuti) ed a costi contenuti (l’esborso medio si aggira intorno ai 10 euro), di verificare se il soggetto non è entrato in contatto con il virus (in questo caso il dispositivo segnala che gli anticorpi sono assenti) oppure è entrato in contatto con il virus, distinguendo in questo caso tre ipotesi: i) quella in cui il soggetto è ancora infetto e quindi sicuramente portatore del virus (il kit segnala la presenza di anticorpi IgM); ii) quella in cui il soggetto può essere ancora infetto e portatore del virus; iii) quella in cui il soggetto non è più infetto avendo debellato il virus (il kit segnala la presenza di anticorpi IgG). Tali test non possono certo decretare lo stato di immunità della persona al virus: non è ancora chiaro, infatti, se e per quanto tempo le persone che hanno sviluppato anticorpi siano immunizzate. Essi, però ove venissero utilizzati in modo sistematico e ripetuti nel tempo ad intervalli regolari, per es. ogni 5/7 giorni (posto che il tempo di incubazione della malattia si aggira mediamente fra i 5 ed i 10 giorni), potrebbero costituire un utile strumento per intercettare oltre ai lavoratori malati paucisintomatici, soprattutto quelli asintomatici, come tali diffusori del virus, come del resto pone in luce lo stesso Ministero della Salute24. A tutti questi lavoratori potrebbe così essere inibito – in via precauzionale – l’ingresso in azienda, salvi ovviamente i successivi ulteriori controlli incrociati tramite la metodica del tampone nasale. I test sierologici rapidi sono dunque strumenti particolarmente utili per prevenire il contagio nei luoghi di lavoro e possono costituire una misura complementare rispetto alla misurazione della temperatura (già prevista dai Protocolli fra le parti sociali), che invece intercetta le persone attualmente malate. La questione è dunque se il datore di lavoro possa introdurre tali test quale misura di sicurezza innominata ex art. 2087 c.c., rendendoli così obbligatori per tutti i dipendenti, devolvendone l’effettuazione al medico competente (o a laboratori privati da quest’ultimo prescelti). Il medico competente dovrebbe quindi trattare i dati raccolti in conformità alle disposizioni in materia di Privacy (quale responsabile del trattamento) ed ove il test risultasse positivo dovrebbe informarne il SSN per i successivi accertamenti. Un tale percorso,

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Sul punto v. se vuoi M.T. Carinci, Back to work al tempo del Coronavirus e obbligo di sicurezza del datore di lavoro. I test sierologici rapidi, in ADAPT WP, n. 3/2020. 24 Lo sottolinea la circolare del Ministero della Salute del 9 maggio 2020, 0016106-09/05/2020-DGPRE-DGPRE-P.

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che permetterebbe una rapida e frequente ripetizione del test, costituirebbe anche un importante tassello per uno screening periodico della popolazione. Tuttavia tale soluzione si scontra con i vincoli posti dalla normativa vigente: da una parte infatti l’art. 5 St. lav. preclude al datore di lavoro indagini sullo stato di malattia del lavoratore25, dall’altra è discusso se il trattamento dei dati personali che l’esecuzione del test determina già base giuridica nel GDPR in materia di Privacy26. Sarebbe quindi auspicabile che una norma di legge (posta in via diretta dal legislatore o in via indiretta tramite una integrazione del Protocollo nazionale cui la legge rinvia) legittimasse il datore di lavoro limitatamente a questa fase di emergenza – così come avvenuto per la rilevazione della temperatura – ad effettuare i test sierologici rapidi tramite il medico competente. Allo stato l’unica alternativa per i datori di lavoro è proporre ai dipendenti i test sierologici rapidi su base volontaria, con l’impegno di questi ultimi di informare, ove risultassero positivi, il medico competente. Questa seconda strada peraltro è stata spesso utilizzata, tramite accordo sindacale in azienda, per offrire comunque ai dipendenti la possibilità di conoscere il proprio stato di salute. Ciò è stato reso possibile dalle decisioni assunte da parte di diverse Regioni – ma la situazione si presenta ancora a “macchia di leopardo” 27 – che, dopo aver selezionato i test ritenuti affidabili28, ne hanno autorizzato l’uso anche da parte dei datori di lavoro.

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Si segnala peraltro come secondo altra opinione l’art. 5 st. lav. non costituirebbe ostacolo nel caso in cui fosse il medico competente, nell’ambito della sorveglianza sanitaria (v. art. 41 d.lgs. n. 81/2008) a richiedere l’effettuazione dei test sierologici. Cfr. Tullini, Natura del rischio da contagio e tutele della persona, Intervento al webinar COVID-19: fase 2 Principi e tecniche per produrre lavorando in sicurezza, organizzato da Università Cattolica del Sacro Cuore e Gruppo Frecciarossa, 15 maggio 2020. Tuttavia, a parere di chi scrive, gli accertamenti sanitari richiesti dal medico competente sono volti a verificare l’idoneità alle mansioni del lavoratore e non invece il suo stato di salute o di malattia. Ragionare diversamente comporterebbe infatti la sostanziale abrogazione dell’art. 5 st. lav. che invece vieta “accertamenti da parte del datore di lavoro sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente”. 26 Opinione negativa è stata espressa dal Garante della Privacy in risposta a FAQ Trattamento dei dati nel contesto lavorativo pubblico e privato nell’ambito dell’emergenza sanitaria il 24 aprile 2020, in https://www.garanteprivacy.it/temi/coronavirus/faq#lavoro7. Sul punto cfr. Tullini, Natura del rischio da contagio e tutele della persona, cit., 2020. Ritengono invece che tali accertamenti, posti in essere dal medico competente, trovino base nel GDPR: Dagnino, La tutela della privacy al tempo del Coronavirus: profili giuslavoristici, in GC.com, 17 marzo 2020; M.T. Carinci, Back to work al tempo del Coronavirus e obbligo di sicurezza del datore di lavoro. I test sierologici rapidi, cit., 13 ss. 27 Si segnalano in particolare la delibera n. 350 del 16 aprile 2020 della Regione Emilia-Romagna che ha previsto la possibilità per i datori di lavoro, sulla base di progetti redatti in collaborazione con il medico competente, di attivare percorsi di screening volontario sui dipendenti tramite i test sierologici rapidi; la delibera XI/3131 del 12 maggio 2020 della Regione Lombardia che consente ai datori di lavoro di effettuare i test sierologici rapidi, su base volontaria, ai lavoratori garantendo però in caso di positività a proprie spese gli ulteriori accertamenti tramite test sierologici con prelievo del sangue venoso e poi se il risultato fosse nuovamente positivo tramite tampone. 28 I test sierologici rapidi non sono precisi al 100%, ma d’altra parte non lo sono neppure i tamponi nasali attualmente utilizzati. Bisogna considerare d’altra parte che i tamponi non sono disponibili in numero sufficiente, richiedono laboratori dedicati – al momento presenti in numero esiguo –, personale per il trasporto di materiale infetto e tempi più lunghi per il responso.

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7. Terza questione: la prova del nesso causale ed il rilievo

delle concause.

Come ho anticipato l’onere della prova del nesso causale fra inadempimento (nocività dell’ambiente di lavoro) e danno spetta al lavoratore. Con riferimento al contagio da Covid-19 l’assolvimento di tale onere però può porre notevoli problemi: come può il lavoratore dimostrare di aver contratto il virus proprio in azienda e non nelle normali interazioni sociali esterne (per es.: facendo la spesa, da famigliari conviventi, da amici, ecc.)? Ancora, come può egli dimostrare che il danno è derivato proprio dalla omissione datoriale delle misure di sicurezza imposte dall’art. 2087 c.c. e non invece da altre cause quali, per es., patologie pregresse che lo affliggevano? Quanto alla prima questione è pacifico in giurisprudenza che in tema di causalità materiale o di fatto – sia essa commissiva o omissiva, com’è in questo caso – tanto in materia penale che civile operano principi comuni, cioè quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. Ne deriva che in tutti i casi di patologia ad origine multifattoriale si deve far riferimento alla nozione di causalità probabilistica o regolarità causale, salva la precisazione che nei due settori dell’ordinamento vige “la differente regola probatoria che in sede penale è quella dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre in sede civile vale il principio della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”29. Ne deriva che – esclusa ogni presunzione30 circa la derivazione dell’evento dall’ambiente di lavoro – il lavoratore deve provare che sussiste una ragionevole probabilità scientifica della sussistenza del nesso causale, cioè che – secondo le conoscenze scientifiche diffuse in un dato momento storico – è ragionevolmente probabile un nesso fra evento ed omissione delle misure di sicurezza sul luogo di lavoro31.

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Così Cass., 14 marzo 2019, n. 7313. Cfr. Cass., 31 maggio 2017, n. 13814: “Nell’ipotesi di malattia ad eziologia multifattoriale, il nesso di causalità relativo all’origine professionale della malattia non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione che può essere data anche in termini di probabilità sulla base della particolarità della fattispecie, essendo impossibile nella maggior parte dei casi ottenere la certezza dell’eziologia; è, tuttavia, necessario acquisire il dato della ‘probabilità qualificata’, da verificarsi attraverso ulteriori elementi, come ad esempio i dati epidemiologici, idonei a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale”. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto provato il nesso causale solo sulla base della potenziale idoneità delle sostanze con cui il lavoratore era entrato in contatto a favorire la malattia neoplastica di cui era portatore). 31 Cfr. fra le ultime Cass., 17 febbraio 2020, n. 3909 secondo la quale: «il nesso causale tra l’attività lavorativa e il danno alla salute dev’essere valutato secondo un criterio di rilevante o ragionevole probabilità scientifica (…). Le Sezioni Unite di questa Corte, muovendo dalla considerazione che i principi generali che regolano la causalità materiale (o di fatto) sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. e dalla regolarità causale – salva la differente regola probatoria che in sede penale è quella dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre in sede civile vale il principio della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” – hanno poi ulteriormente precisato che la regola della “certezza probabilistica” non può essere ancorata esclusivamente alla determinazione quantitativo – statistica delle frequenze di classe di eventi (c.d. probabilità quantitativa), ma va verificata riconducendo il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica) (cfr. Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581; Cass., 7 dicembre 2017, n. 29315). È stato, infine, evidenziato come, “in tema di accertamento della sussistenza di una malattia professionale non tabellata e del relativo nesso di causalità – posto che la prova, gravante sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere ravvisata in presenza di un notevole grado di probabilità – il giudice può giungere al giudizio di ragionevole probabilità sulla base della consulenza tecnica d’ufficio che ritenga compatibile la malattia non tabellata con la “noxa” 30

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Più in particolare il lavoratore deve dimostrare che “nel singolo caso, in modo razionalmente controllabile, senza il comportamento dell’agente, con un alto grado di probabilità logica, l’evento non si sarebbe verificato (attraverso l’impiego del c.d. giudizio contro-fattuale). Occorre, in sostanza, che le informazioni rilevanti sul piano della causalità generale (la c.d. legge scientifica o di copertura) vengano confrontate con le specifiche emergenze relative al caso concreto, perché si possa restringere lo spettro delle possibili cause alternative”32.

professionale utilizzando, a tale scopo, anche dati epidemiologici, per suffragare una qualificata probabilità desunta anche da altri elementi. In tal caso, il dato epidemiologico (che di per sé attiene ad una diversa finalità) può assumere un significato causale, tant’è che la mancata utilizzazione di tale dato da parte del giudice, nonostante la richiesta della difesa corroborata da precise deduzioni del consulente tecnico di parte, è denunciabile per cassazione». Nello stesso senso Cass., 14 marzo 2019, n. 7313 secondo la quale: “Il nesso causale tra l’attività lavorativa e il danno alla salute dev’essere poi valutato secondo un criterio di rilevante o ragionevole probabilità scientifica (v. Cass., 10 aprile 2018, n. 8773 e, in merito alle prestazioni di assistenza sociale, Cass., 29 dicembre 2016, n. 27449; Cass., 23 ottobre 2017, n. 24959). Le Sezioni Unite di questa Corte, muovendo dalla considerazione che i principi generali che regolano la causalità materiale (o di fatto) sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. e dalla regolarità causale – salva la differente regola probatoria che in sede penale è quella dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre in sede civile vale il principio della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” – hanno poi ulteriormente precisato che la regola della “certezza probabilistica” non può essere ancorata esclusivamente alla determinazione quantitativo – statistica delle frequenze di classe di eventi (c.d. probabilità quantitativa), ma va verificata riconducendo il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica) (cfr. Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581; Cass., 7 dicembre 2017, n. 29315). La relazione del consulente tecnico recepita dalla Corte d’appello ha tenuto conto del fatto che la letteratura medica non è univoca nel caso in esame, ma ha ritenuto che le caratteristiche del caso concreto rendano soddisfatti i criteri medico-legali in tema di nesso di causalità, ed in particolare dell’elemento topografico (desunto dalla letteratura scientifica sull’argomento), dell’elemento cronologico (più di 15 anni di esposizione ad amianto), dell’elemento di efficacia lesiva (l’agente patogeno in oggetto è dotato di idonea efficacia causale rispetto alla malattia denunciata e la neoplasia è insorta dopo un periodo di latenza adeguato, rispetto ai dati riportati in letteratura), dell’elemento di esclusione di altra causa (non sono stati individuati fattori extra-lavorativi per i quali possa essere invocata una responsabilità eziopatogenetica). V. ancora Cass., 12 giugno 2019, n. 15761 secondo la quale: “Infatti, relativamente al profilo della asserita violazione delle disposizioni in tema di nesso di causalità, la Corte di merito si è attenuta al condivisibile principio, cui si intende dare seguito, secondo il quale, in tema di responsabilità civile nella verifica del nesso causale vige, a differenza del processo penale ove vale il principio del meccanismo processuale del cd. “oltre ragionevole dubbio”, la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, da verificarsi in virtù della cd. “probabilità logica”, nell’ambito degli elementi di conferma e, nel contempo, nell’esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto (Cass., 3 gennaio 2017 n. 47; Cass., 27 settembre 2018 n. 23197). Sotto questo profilo, quindi, correttamente la Corte territoriale, sulla base delle risultanze della consulenza tecnica di ufficio, peraltro non adeguatamente censurate, ha statuito che doveva essere considerata la causa più probabile della malattia, valutati anche i tempi di latenza della patologia, l’esposizione diretta ed indiretta del B., durante l’attività lavorativa svolta presso l’Italsider, a fibre di amianto di intensità e durata come accertati in sede peritale”. 32 Così Cass., 11 marzo 2020, n. 6954. V. anche Cass., 27 aprile 2017, n. 10430, in GDir, 2017, 23, 68: “La nostra giurisprudenza (…) ha infatti rifiutato un approccio rigidamente deterministico al tema causale ed ha ribadito che non è indispensabile che si raggiunga sempre la certezza assoluta, una connessione immancabile, tra i due termini del nesso causale; essendo sufficiente allo scopo una relazione di tipo probabilistico; purché la prova della correlazione causale tra fatto ed evento attinga, nel singolo caso concreto, ad un livello di “alta probabilità logica”. Allo scopo, perché l’evento risulti attribuibile ad un agente partendo da una legge statistica (anche con una frequenza medio-bassa) o da una indagine epidemiologica è necessario dimostrare nel singolo caso, in modo razionalmente controllabile, che senza il comportamento dell’agente, con un alto grado di probabilità logica, l’evento non si sarebbe verificato (attraverso l’impiego del c.d. giudizio contro-fattuale). Occorre, in sostanza, che le informazioni rilevanti sul piano della causalità generale (la c.d. legge scientifica o di copertura) vengano confrontate con le specifiche emergenze relative al caso concreto, perché si possa restringere lo spettro delle possibili cause alternative. Ed è quanto risulta aver effettuato nel caso in esame la ctu posta a fondamento della decisione. La quale anzitutto ha dato atto dell’esistenza di una nutrita letteratura medica che riconosce il nesso causale tra l’esposizione ad amianto ed il tumore al colon. Ha citato in proposito studi condotti negli USA che hanno dimostrato la presenza di fibre di asbesto nei tessuti del colon nel 32% di soggetti affetti da cancro al colon ed esposti a tale sostanza. Ha richiamato il D.M. 27 aprile 2004 che prevede lo stesso rapporto causale in oggetto nella lista 3 (“malattia la cui origine lavorativa è possibile”), come confermato anche dal D.M. 14 gennaio 2008. La ctu ha inoltre evidenziato che anche la letteratura medica contraria a riconoscere attualmente con certezza il nesso casuale per il tumore al colon con la esposizione ad amianto, riporta a livello epidemiologico dati non trascurabili riguardanti casi di lavoratori esposti all’amianto e affetti da carcinoma del colon”. Conf. Cass.,

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Obbligo di sicurezza e responsabilità datoriale: il rischio di contagio da Covid-19

La giurisprudenza ha altresì precisato che la regola della certezza probabilistica non può essere ancorata esclusivamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (c.d. probabilità quantitativa), ma va verificata riconducendo il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica)33. Dunque, la prova da parte del lavoratore deve essere ancorata, da una parte, ad elementi di carattere quantitativo/statistico specifici (per es.: il tasso di infezione nell’ambiente sociale di riferimento quali la città, il paese circostante, ecc.; mentre il tasso di contagio in azienda è un dato che il lavoratore non possiede e dunque, in applicazione del principio di prossimità della prova34, il relativo onere compete al datore di lavoro) e, dall’altra, ad elementi di carattere qualitativo specifici (che attengono, per es., alla diffusione del contagio fra i colleghi stretti di lavoro; allo spazio di prossimità sul luogo di lavoro con gli altri lavoratori, alla frequenza di contatti; alla esclusione di fattori di contagio extra-lavorativi, tramite la prova della condotta sociale tenuta dal lavoratore nella fase precedente alla malattia, alla presenza di infezioni in famiglia, ecc.; alla durata della esposizione al contagio in ambiente lavorativo ed al momento di sviluppo della malattia: come anticipato infatti la malattia ha un periodo di incubazione fra i 5 ed i 10 giorni, ecc.). Per finire va data risposta al secondo interrogativo posto all’inizio del paragrafo relativo al rilievo dell’eventuale concorso di cause (quale per es. una patologia pregressa del lavoratore) nella causazione del danno alla salute del lavoratore. Con riferimento al concorso di cause la giurisprudenza costante – in applicazione del principio della equivalenza delle condizioni (o “conditio sine qua non”), che trova fondamento nelle norme del codice penale ed in particolare nell’art. 41 c.p. – ritiene che debbano ritenersi causalmente collegate all’evento tutte quelle cause che abbiano costituito un antecedente indispensabile per il realizzarsi del risultato. Ne deriva che anche nel caso di contagio da Covid-19 una pato-

10 aprile 2018 n. 8773 secondo la quale il nesso causale deve risultare “in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità; a tale riguardo, il giudice deve non solo consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa ex officio diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all’entità ed all’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio ed anche considerando che la natura professionale della malattia può essere desunta con elevato grado di probabilità dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione lavorativa e dall’assenza di altri fattori extra-lavorativi, alternativi o concorrenti, che possano costituire causa della malattia”. V. ancora Cass., 12 ottobre 2012, n. 17438: “Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel caso di malattia professionale non tabellata, come anche in quello di malattia ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità; a tale riguardo, il giudice deve non solo consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa ex officio diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all’entità ed all’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio ed anche considerando che la natura professionale della malattia può essere desunta con elevato grado di probabilità dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione lavorativa e dall’assenza di altri fattori extra-lavorativi”. 33 Cfr. Cass., 17 febbraio 2020, n. 3909 ed altresì la giurisprudenza citata nella nota precedente. 34 Cfr. Cass., 10 gennaio 2006, n. 141.

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Maria Teresa Carinci

logia pregressa che concorra con l’omissione di misure di sicurezza non esclude mai la responsabilità datoriale35.

8. Conclusione. Come ho argomentato fin qui a mio parere l’obbligo di sicurezza del datore di lavoro posto dall’art. 2087 c.c. opera come di consueto anche a fronte del rischio di contagio da Covid-19. Il tema della sicurezza in questa fase presenta però anche tratti di marcata novità. Mi riferisco in particolare ai nuovi strumenti regolativi utilizzati per fronteggiarla: i Protocolli fra le parti sociali. È difficile dire se l’apertura verso la gestione condivisa dell’organizzazione produttiva in tema di sicurezza sul lavoro sperimentata in questa fase di emergenza sia destinata a stabilizzarsi nel futuro ed anche ad espandersi ad ulteriori ambiti del rapporto di lavoro, trasformandosi in una vera e propria forma di cogestione, come a mio parere sarebbe opportuno ed auspicabile. Nei prossimi mesi infatti il Paese dovrà fronteggiare le gravi ripercussioni economiche del lockdown. Per gestire quella che si annuncia come una fase difficile ripartendone equamente i costi fra capitale e lavoro e fra lavoratori e, altresì, pilotare la ripresa, sarebbe auspicabile un sistema istituzionalizzato di partecipazione in azienda che permettesse al datore ed ai rappresentanti dei lavoratori di condividere ex ante le decisioni e valutare l’impatto di esse sui diritti fondamentali dei lavoratori (quali il diritto alla professionalità e ad una retribuzione equa; il diritto alla formazione; il diritto alla riservatezza; il diritto al riposo ed alla disconnessione, ecc.).

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Cfr. fra le altre Cass., 11 marzo 2020, n. 6954: “Ed invero, va ricordato che, in materia di nesso causale (su cui v. da ultimo Cass., 31 ottobre 2018, n. 27952; Cass., 10 aprile 2018, n. 8773; Cass., 28 settembre 2018, n. 23653; Cass., 26 marzo 2015, n. 6105), l’ordinamento è ispirato al principio di equivalenza delle cause (artt. 40 e 41 c.p.); per cui, al fine di ricostruire il nesso, occorre tener conto di qualsiasi fattore, anche indiretto, remoto o di minore spessore, sul piano eziologico, che abbia concretamente cooperato a creare nel soggetto una situazione tale da favorire comunque razione dannosa di altri fattori o ad aggravarne gli effetti, senza che possa riconoscersi rilevanza causale esclusiva soltanto ad uno dei fattori patologici che abbiano operato nella serie causale”. V. altresì Cass., 31 ottobre 2018, n. 27952: “(…) gli argomenti adoperati dalla Corte d’appello risultano conformi ai principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità secondo cui nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali trova diretta applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p.c.. Ciò comporta che il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia per sé sufficiente a produrre l’infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge”. Nello stesso senso Cass., 4 febbraio 2020, n. 2523; Cass., 27 febbraio 2019, n. 5749; Cass., 12 dicembre 2019, n. 32486; Cass., 27 aprile 2017, n. 10430, in GDir, 2017, 23, 68; Cass., 21 novembre 2016, n. 23653.

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Riccardo Del Punta

CIG per sempre? Sui dispositivi di sostegno al reddito nella pandemia da coronavirus Sinossi. Nel presente saggio l’A. si interroga sugli interventi di sostegno al reddito durante l’emergenza sanitaria. Abstract. In this essay, the A. deals with income support interventions in the era of the health emergency. Parole

chiave:

cassa integrazione guadagni – Emergenza Covid-19 – Sostegno al reddito

Quando un paese si trova costretto a utilizzare, nel solo mese di aprile dello sventurato anno 2020, 772,3 milioni di ore di cassa integrazione “d’emergenza”, cioè più o meno quante ebbe a totalizzarne nell’anno forse peggiore dell’ultima recessione, il 2009, si è detto più o meno tutto. Si è detto, cioè, di uno sforzo davvero imponente, se non titanico. In pratica, la maggior parte dell’economia produttiva è stata chiusa e sigillata, a causa delle misure di lockdown, e i suoi lavoratori sono stati messi in cassa integrazione. Il congelamento della situazione occupazionale è stato completato dall’introduzione di un divieto temporaneo di licenziamento per ragioni economiche (individuale e collettivo), prima per 60 giorni ex d.l. n. 18/2020 (conv. con l. n. 27/2020), e poi, a seguito del d.l. n. 34/2020 (conv., dopo la stesura di questo articolo, con l. n. 77/2020), per 5 mesi complessivi, cioè sino al 17 agosto 2020 (fatte salve ulteriori, probabili, proroghe). In pratica: ti impedisco di licenziare ma nello stesso tempo ti sollevo dagli oneri retributivi. Una chiusura a doppia chiave, questa, che non è stata adottata con la medesima sistematicità da parte di altri paesi, che pure si sono profusi in interventi simil-cassa integrazione; ma occorrerebbero, su questo, informazioni più complete. E’ stato rimarcato da tutti, peraltro, come il parallelismo temporale tra le due misure, in origine quasi perfetto, sia stato rotto dal d.l. n. 34/2020, nel senso che le imprese che hanno cominciato a usufruire della cassa integrazione sin dal mese di febbraio non potranno portarsela dietro sino a metà agosto, allorquando potranno ricominciare a licenziare, ovviamente a condizione di avere i motivi per farlo (ma, considerato che molte attività, soprattutto piccole, sono state fiaccate al punto tale che difficilmente riusciranno a ripartire, quei motivi potranno purtroppo esservi).


Riccardo Del Punta

Quella segnalata è, del resto, la spia di una priorità che è stata indubbiamente data, nell’insieme dei provvedimenti di sostegno, ai lavoratori rispetto alle imprese. In effetti, a parte la garanzia statale per i finanziamenti bancari (introdotta dal d.l. n. 23/2020, peraltro in cambio del criptico impegno a gestire i livelli occupazionali tramite accordi sindacali), interventi più decisi a favore delle imprese sono apparsi soltanto nel d.l. n. 34/2020. Diranno i fatti se quella di aggredire il problema dell’occupazione dal corno del sostegno al lavoro piuttosto che da quello degli aiuti alla sopravvivenza delle imprese sia stata o no la scelta più saggia. Di certo, è stata una scelta consapevole, alla luce delle evidenti propensioni politiche delle forze di Governo. Sarebbe un guaio, peraltro, se il diritto del lavoro traesse da questi primi interventi l’illusione di poter essere, da solo, la muraglia che ferma lo tsunami: la perdita di occupati legata alla scadenza di contratti a termine non rinnovati (che stanno fuori dal blocco dei licenziamenti) basta da sola a ricordarci che ciò che è stato possibile nell’emergenza non potrà esserlo nel medio periodo. Parole, queste, che credo siano di scarso interesse per coloro che, anche in queste circostanze così drammatiche per il sistema Italia nel suo complesso, insistono ad avere una visione soltanto lavoro-centrica, come se il destino dei lavoratori non dipendesse, in ultima analisi, da quello del sistema produttivo del paese. Il che rasenterebbe l’assurdo logico, per la verità, se non fosse per il pensiero, pur talvolta soltanto implicito (ma esplicito in tanti, da Marianna Mazzucato a Maurizio Landini), che si rivela attraverso questo tipo di ragionamenti: il pensiero, cioè, che il futuro dello sviluppo produttivo del paese debba basarsi non sulle imprese private, bensì sullo Stato (eventualmente attraverso ingressi, occasionati da queste contingenze, nel capitale delle imprese). Uno Stato, quindi, non soltanto regolatore, promotore, pagatore, sussidiatore, ma a tutti gli effetti imprenditore. Nessuno discute, ovviamente, le eccellenze imprenditoriali pubbliche che abbiamo, da Leonardo a Fincantieri a Ferrovie. E nessuno discute, neppure, che una maggiore presenza dello Stato in settori strategici dell’economia sia necessaria e in linea con lo spirito del tempo, peraltro per il tramite di una politica industriale della quale non si scorge al momento una traccia apprezzabile. Ma da qui a pensare – per forzare un po’ i concetti – che sia opportuno che una struttura produttiva così articolata e ricca come quella italiana finisca nell’orbita di uno Stato il cui debito pubblico schizzerà tra breve a circa il 155% del PIL, e la cui politica – sia detto ad abundantiam – è antropologicamente abituata a spartirsi le nomine dei CEO delle società pubbliche come se fossero bandierine, il passo è lungo, e personalmente credo che sarebbe da incoscienti compierlo. Ciò detto, e lasciando da parte i grandi gruppi che hanno mille risorse e magari sedi in paradisi fiscali finanche europei, così come quelle imprese (che temo non siano poche, in un paese congenitamente incline alla furbizia e all’illegalità) che stanno facendo lavorare da casa i propri dipendenti pur scaricandone il costo sulla cassa integrazione, non riesco proprio a pensare, per quanto mi ci impegni, che la situazione del titolare di un ristorante o di un hotel senza clientela, che oltre ai costi del lavoro deve sopportare i costi fissi del locale (affitto, bollette, manutenzione), ed eventualmente ripagare mutui bancari, sia meno meritevole di tutela, nelle attuali contingenze, di quella di un lavoratore.

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CIG per sempre? Sui dispositivi di sostegno al reddito nella pandemia da coronavirus

O, quantomeno, non cessa di stupirmi come un po’ della cura che è giustamente riservata a chiunque porti il nome di “lavoratore” (ora, per fortuna, anche autonomo), non riesca a propagarsi, quantomeno, a quei titolari di piccole attività, che sono stati ridotti dal coronavirus alla disperazione più totale (in particolare a causa del blocco del turismo, e più in generale della mobilità). Tengo a sottolineare, peraltro, che in tutto ciò che ho detto sin qui c’è sì un richiamo a valutare il quadro di insieme, ed a pensare il lavoro in termini non disgiunti dall’impresa, ma non ci sono in alcun modo parole, né pensieri, contro le misure che sono state adottate, in tema sia di cassa integrazione che di blocco dei licenziamenti (salvo che per il grave difetto di sincronia temporale tra questi due interventi). Nessuno può dubitare, insomma, che ricorressero, e tuttora ricorrano, esigenze sociali urgenti (per tacere di quelle economiche, di indispensabile sostegno alla domanda interna), tali da fornire una robusta giustificazione a questi interventi (salvo lamentare la minore attenzione che è stata riservata alla difesa della base imprenditoriale). Le questioni che ho posto riguardano, diversamente, l’approccio al medio periodo, cioè alla fase di uscita dall’emergenza. Per quanto riguarda, invece, il modo con cui l’intervento di integrazione salariale è stato attuato, forse avrebbe potuto essere fatta una scelta più semplice, cioè quella di prevedere un ammortizzatore sociale unico, dedicato all’emergenza da Covid-19, e dunque che trattasse allo stesso modo grandi imprese e piccolissimi datori di lavoro. È stata sì introdotta, invece, una causale unica, ma innestata sulle forme di integrazione già esistenti (CIGO, Fondi bilaterali di solidarietà, Fondi bilaterali di solidarietà alternativi, Fondo di integrazione salariale), fermi restandone i requisiti e i limiti di applicazione, anche se con una serie di deroghe alla disciplina comune. Il quadro è stato completato dall’intervento “tappabuchi” della CIG in deroga, opportunamente richiamata in servizio. A livello di tecnica normativa, il tutto si è tradotto – anche ad essere comprensivi nei confronti delle difficoltà nelle quali si sono trovati i regolatori – in notevoli complicazioni che hanno stressato interpreti e operatori, essendone venuta fuori una costruzione in progress “a scatole cinesi”. Si pensi che: il d.l. n. 18/2020 è intervenuto sul d.lgs. n. 148/2015, a parte l’aggiunta dell’art. 22 sulla CIG in deroga (che era ovviamente fuori dal decreto-stipite); la l. n. 27/2020 ha convertito con modifiche il d.l. n. 18/2020; il d.l. n. 34/2020, sopravvenuto dopo un breve lasso di tempo, ha introdotto altre modifiche, che sono andate a toccare anche la legge di conversione appena approvata (ad es. con la reintroduzione della procedura di informazione e consultazione sindacale per la CIGO), e che a loro volta si sono rincorse in una molteplicità di testi provvisori, prima dell’emanazione definitiva. Quanto alla CIG in deroga, l’istituto ha inizialmente mantenuto la sua tradizionale fisionomia regionale (peraltro fuori posto, in una situazione così generalizzata a livello nazionale), col risultato che le varie Regioni, negli accordi-quadro che hanno stipulato con le organizzazioni sindacali, l’hanno liberamente interpretata (ad es. sulla necessità di un accordo sindacale formalizzato come tale). In seguito, i prevedibili ritardi nei tempi dei pagamenti hanno indotto il Governo a ristrutturare l’istituto (v. il nuovo art. 22-quater, introdotto dall’art. 71 del d.l. n. 34/2020), creando una sorta di Giano bifronte: regionale per le prime 9 settimane, statale – con com-

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Riccardo Del Punta

petenza INPS – per le seconde 5 ed eventualmente per le ulteriori 4. Le Regioni, che erano nell’occhio del ciclone delle proteste, per una volta sono state politicamente d’accordo a vedersi sottratta una competenza! Che cosa potrà rimanere di questi interventi? Si spera non la loro mole, perché un paese che si abituasse a vivere di assistenza, anziché di lavoro, sarebbe un paese condannato. Quanto ai contenuti e alla qualità degli interventi, si farà invece probabilmente sentire, e a buon diritto, l’istanza universalistica, che tante volte è risuonata nei dibattiti di questo periodo. Al riguardo, peraltro, mi hanno stupito – per la loro memoria corta – le critiche di coloro che hanno lamentato la frammentazione delle forme di intervento. Ma qui c’è dietro la storia di un sistema che da sempre ha privilegiato in modo smaccato l’industria medio-grande (senza che nessuno se ne lamentasse troppo), costringendo “gli altri”, ove ne fossero capaci, a farsi degli ammortizzatori sociali in casa (il battistrada è stato l’artigianato). Rispetto a queste sperequazioni, la Riforma Fornero prima, e il d.lgs. n. 148/2015 poi, hanno fortemente unificato e razionalizzato il sistema, estendendone altresì il raggio di protezione. Certo, ci sono ancora delle situazioni scoperte, cui in questo caso si è provveduto con la CIG in deroga, ma che dovrebbero essere portate anch’esse sotto una rete permanente di protezione, compatibilità finanziarie permettendolo (per quanto questo, per i più, sia un noioso dettaglio contabile). L’universalismo è predicato anche nei confronti del lavoro autonomo: l’istanza è sacrosanta, ma richiede di congegnare meccanismi di intervento adeguati. Sarà senz’altro per difetto di immaginazione, ma non riesco a vedere come un istituto quale la cassa integrazione, che prevede un contributo fisso e (non nella pandemia) uno addizionale a carico delle imprese (in aggiunta al finanziamento pubblico), possa essere applicato ai committenti di lavoro autonomo. Potrebbe forse esserlo, al limite, ai committenti di collaborazioni coordinate e continuative, fermo che, ove queste ultime scivolassero verso l’etero-organizzazione, potrebbero essere assoggettate direttamente alla CIG, per la via (più che problematica, peraltro) dell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015. Tutto sommato, come ho sentito affermare al Presidente dell’INPS in uno dei tanti webinar di stagione, nei confronti dei lavoratori autonomi la tecnica universalistica più ragionevolmente praticabile potrebbe essere proprio quella del bonus, adottata in questo caso, salvo però ancorarla – aggiungo – a presupposti oggettivi che non sarebbe facile delineare.

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Vincenzo Ferrante

Le fonti e il dialogo sociale Sommario : 1. Il ruolo del Governo. – 2. Le fonti: un elenco. – 3. Valore giuridico

del protocollo e sua allegazione al DPCM. – 4. La questione della tutela della salute dei lavoratori. – 5. Le fonti sovrannazionali e la Cassa integrazione “europea”.

Sinossi. Nel presente saggio l’A. si interroga sul ruolo delle fonti ed il dialogo sociale, poiché il rischio di contagio da virus Sars-CoV-2 ha maggiormente concentrato i poteri decisionali in capo al Governo. Abstract. In this essay, the author discusses the role of sources and social dialogue, since the risk of infection with the Sars-CoV-2 virus has led to a centralization of decision-making powers upon the government. Parole

chiave:

Sars-CoV-2 – Legislazione dell’emergenza – Rapporto tra fonti – Dialogo sociale

1. Il ruolo del Governo. Osservata dallo specifico punto di vista delle fonti, la pandemia pone innanzi tutto problemi delicati sul versante degli assetti costituzionali, poiché il rischio di contagio da virus Sars-CoV-2 ha sortito l’effetto d’un raffreddamento dell’ordinaria dialettica istituzionale, concentrando i poteri decisionali in capo all’esecutivo, mentre il Parlamento è rimasto a lungo inattivo, decidendo poi di continuare la sua attività solo grazie alla ridotta presenza dei deputati in aula, nel rispetto tuttavia di un principio di proporzionalità, che conservasse i rapporti di forza registratisi al momento del voto di fiducia, all’atto dell’insediamento del Governo attualmente in carica. In questo senso, per quanto l’argomento richiederebbe analisi ben più ampia di quella che è possibile svolgere nella presente sede, voglio segnalare innanzi tutto come le misure adottate attraverso i numerosissimi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), possano considerarsi come esercizio di un potere di dettare misure “contingibili ed urgenti” per ragioni sanitarie o di pericolo alla pubblica incolumità, che trova fondamento logico nell’ancor vigente art. 253 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 (Testo unico delle leggi sanitarie), in forza del quale: «Il Ministro della sanità determina con suo provvedimento,


Vincenzo Ferrante

sentito il consiglio superiore di sanità, quali siano le malattie infettive e diffusive che dànno luogo alla adozione delle misure sanitarie comprese nel presente titolo e quali le misure applicabili a ciascuna di esse» 1. Ed invero i decreti della Presidenza del Consiglio sono stati adottati sempre su proposta del Ministro della Salute, ed hanno avuto la funzione di dettare “misure”, e cioè atti aventi contenuto provvedimentale, piuttosto che normativo in senso stretto, connotate dal carattere della provvisorietà2. Questo ha garantito in certa misura che l’ordinamento rimanesse al riparo da modifiche dettate dalla contingenza, mentre le disposizioni più rilevanti, come ad es. il divieto di licenziamento o la previsione di ammortizzatori sociali a carattere quasi universale (contenenti altresì gli stanziamenti nel bilancio), sono state adottate attraverso lo strumento della decretazione d’urgenza ex art. 77 Cost., che ha necessariamente coinvolto la Presidenza della Repubblica (cui spetta la sottoscrizione dell’atto) ed ovviamente il Parlamento (chiamato alla ratifica del decreto, mediante la legge di conversione). Pare difficile negare che, attraverso il loro intervento, Camera e Senato abbiano fornito, seppure a posteriori, una legittimazione politica all’azione di Governo3. Un esame più attento delle previsioni contenute nei vari DPCM emanati, quindi, dà la certezza che si tratti di prescrizioni in certa misura anche limitate alla sola indicazione di obiettivi, quasi che ci si trovasse di fronte ad atti di indirizzo, destinati all’intero complesso dell’apparato amministrativo. Né vale lamentare il fatto che attraverso di essi si sia potuto anche incidere sulle posizioni individuali (come nel caso dell’invito a ricorrere a provvedimenti datoriali unilaterali di collocazione dei lavoratori in ferie), poiché una indicazione siffatta non sembra differire troppo dal provvedimento amministrativo attraverso il quale si prevede che non si possa far luogo a concessione della cassa integrazione se non dopo l’avvenuto smaltimento di tutte le ferie. E pure deve aggiungersi che, almeno in via di generale valutazione, non appare ingiustificata la compressione delle libertà individuali, che pure si è registrata in molti ambiti (dalla libertà di movimento, all’accesso alla giustizia, alla tutela individuale della privacy), almeno fin tanto che si tratti di provvedimenti aventi natura provvisoria, a fronte delle precise previsioni costituzionali di cui all’art. 32 Cost., che appaiono adatte a sorreggere interventi di questo tipo, là dove si proclama che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».

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Deve ricordarsi ancora l’art. 261, a mente del quale «Il Ministro della sanità, quando si sviluppi nel territorio dello Stato una malattia infettiva a carattere epidemico, può emettere ordinanze speciali per la visita e disinfezione delle case, per l’organizzazione di servizi e soccorsi medici e per le misure cautelari da adottare contro la diffusione della malattia stessa». Come è noto, con delibera del Consiglio dei Ministri del 31.1.2020, sulla scorta delle disposizioni di cui al “codice della protezione civile” (art. 24, d. lgs. n. 1 del 2 gennaio 2018), è stato dichiarato, per una durata di sei mesi «lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili». Tale provvedimento è stato poi sempre richiamato dai successivi decreti adottati dal Governo o dalla PdCM. Ancora utile, in ordine alle considerazioni svolte in questo paragrafo, appare Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. II, Cedam, 1976, 712 ss., in ordine alla dichiarazione di stato di pericolo pubblico (e v. in part. 716 note e testo).

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Obbligo di sicurezza e responsabilità datoriale: il rischio di contagio da Covid-19

2. Le fonti: un elenco. In ordine alla disciplina del rapporto di lavoro, si segnalano in particolare due serie di interventi che sembrano seguire una medesima sequenza procedurale: tuttavia, mentre nel primo caso l’intervallo temporale fra i singoli provvedimenti è assai breve a ragione della velocità del propagarsi della malattia Covid-19, la seconda serie si svolge su un arco temporale più dilatato e conosce un intrecciarsi di fonti che si richiamano a vicenda. A riguardo resta centrale, innanzi tutto, il d.l. n. 18 del 17 marzo 2020 (in G.U. 17 marzo 2020, ed. str., n. 70), che è stato poi convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27 (in Suppl. Ord. 16 alla G.U., 29 aprile 2020, n. 110), con varie modifiche al testo dell’originario decreto, emanato in via d’urgenza. Tale provvedimento legislativo ha fatto seguito ad un DPCM dell’11 marzo 2020 (in G.U. n. 64 dell’11 marzo 2020), che conteneva una serie di misure dirette alla sospensione delle attività commerciali e professionali e che individuava al n. 7 le modalità secondo le quali sarebbero potute continuare tutte le attività, indispensabili ai fini di assicurare la cura della salute, la mobilità sul territorio nonché la produzione di beni alimentari e di prima necessità. Si “raccomandava” così il ricorso al lavoro “agile”, lo smaltimento delle ferie arretrate, la sospensione delle attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione, nonché l’assunzione di “protocolli di sicurezza anti-contagio” con il rispetto della distanza interpersonale di un metro «come principale misura di contenimento», ed ancora l’adozione di dispositivi di protezione individuale (DPI). A tale atto, faceva seguito, di lì a poco, un primo “Protocollo condiviso” sul lavoro in sicurezza, sottoscritto dalle parti sociali in data 14 marzo 2020 su invito del Governo, che replicava in larga parte le stesse indicazioni che già erano contenute nel DPCM (e che sopra si sono richiamate). Le organizzazioni firmatarie dichiaravano anzi di voler prevedere una misura di attuazione del DPCM stesso, là dove questo (al n. 9) auspicava intese fra le organizzazioni sindacali, stabilendo «linee guida condivise tra le Parti per agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio». Al Protocollo faceva seguito un addendum, sottoscritto fra le medesime parti, che insisteva sulla necessità di un approccio condiviso fra le parti. La sequenza veniva a ripetersi poi nel corso del mese di aprile: ad un primo DPCM del 10 aprile 2020 (in G.U. n.97 dell’11 aprile 2020), che confermava la sospensione delle attività richiamando (art. 2, co. 10) il Protocollo del 14 marzo, faceva seguito un nuovo Protocollo, sottoscritto in data 24 aprile da un più ampio numero di sigle, e completato nelle sue previsioni, per es. attraverso lo sviluppo del titolo 13 in tema di partecipazione dei lavoratori. Segue poi un DPCM del 26 aprile (intitolato alle “Ulteriori disposizioni attuative del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, in G.U. serie gen. n.108 del 27 aprile 2020) che parimenti richiama al proprio 2, co. 6 il secondo Protocollo, che anzi è allegato al DPCM stesso (sub n. 6). L’elenco degli interventi di rilevo si chiude con il d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. “rilancio”, in G.U. 19 maggio 2020, n. 128), che, oltre a previsioni sue proprie, interviene ancora sulle misure di cui al precedente d.l. n. 18, e che è in attesa di conversione. Da ultimo devono poi elencarsi alcuni ulteriori provvedimenti che valgono a completare il quadro: in particolare si deve richiamare: il “Documento tecnico” rilasciato dall’INAIL

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per la «possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro», cui hanno fatto seguito due importanti circolari che riguardano l’applicazione della disciplina generale di cui al t.u. 1124/1965 all’ipotesi di infortunio da contagio avvenuto sul luogo di lavoro (n. 13 e 22); ed ancora la Check-list predisposta dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ed integralmente modellata sulle previsioni del Protocollo condiviso, rinnovato alla data del 24 aprile 2020. La lista viene a chiudersi con lo “Strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in situazione d’emergenza” (European instrument for temporary support to mitigate unemployment risks in an emergency o, in acronimo, SURE), proposto dalla Commissione Europea all’inizio del mese di aprile del 2020 ed approvato dal Consiglio nella riunione dello scorso 23 aprile4, unitamente alle altre misure di contrasto alla crisi economica conseguente all’epidemia da COVID-19, cui verrà dedicato il paragrafo finale di questo intervento.

3. Valore giuridico del protocollo e sua allegazione al

DPCM.

Il primo punto da prendere in considerazione riguarda il valore dei protocolli che sono stati sottoscritti fra le parti sociali, raccogliendo l’invito del Governo, e poi sempre richiamati nei successivi decreti dell’Esecutivo. È il caso del DPCM 26 aprile 2020, che ha prorogato ulteriormente nel tempo le misure di limitazione della libertà individuale, prima che si desse inizio alla c.d. “fase 2”, ma anche dei decreti che lo hanno seguito e preceduto. Come si è sopra messo in evidenza, proprio questo DPCM del 26 aprile richiama espressamente, allegandolo anzi in calce al decreto stesso nella pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il “Protocollo condiviso” sul lavoro in sicurezza, già sottoscritto dalle parti sociali in data 14 marzo 2020 e poi rinnovato in data 24 aprile. Le principali novità di quest’ultimo Protocollo “condiviso” sembrano provenire dal “Documento tecnico” INAIL per la «possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro» reso noto nei giorni precedenti. Comune ad entrambi, innanzi tutto, è il suggerimento di una modifica dell’organizzazione del lavoro attraverso l’adozione di «orari differenziati che favoriscano il distanziamento sociale riducendo il numero di presenze in contemporanea nel luogo di lavoro e prevenendo assembramenti all’entrata e all’uscita». Già in passato, con la c.d. “legge Turco” (n. 53 dell’8 marzo 2000; art. 22 e segg.) si era previsto che gli enti pubblici territoriali dovessero adottare, d’intesa con le aziende di maggiori dimensioni, piani “degli orari”, diretti proprio a garantire flessibilità nell’ingresso e nell’uscita dal lavoro, al fine di non sovraccaricare i sistemi di trasporto pubblico. Furono poche le amministrazioni che al tem-

4

V. Proposal for a Council regulation on the establishment of a European instrument for temporary support to mitigate unemployment risks in an emergency (SURE) following the Covid-19 outbreak: COM/2020/139 final del 2.4.2020.

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po si mossero in quella direzione, anche se quell’esperienza potrebbe tornare utile oggi, seppure in una prospettiva in parte mutata, là dove il Protocollo suggerisce di tornare ad incentivare il trasporto privato, in funzione di contrasto al contagio5. Per il resto, il nuovo Protocollo non sembra contenere disposizioni particolarmente innovative, né là dove si dovrebbe tenere conto della particolare debolezza del prestatore di lavoro (per ragioni legate all’età o alla sussistenza di malattia, anche cronica, o di disabilità), né in relazione alle altre condizioni personali. Ed infatti, mentre il Documento INAIL sopra richiamato prevedeva espressamente che il management dovesse «tenere conto della necessità di garantire il supporto ai lavoratori che si sentono in isolamento e a quelli che contestualmente hanno necessità di accudire i figli», di una simile previsione non c’è traccia nel Protocollo, che solo si limita ad imporre alle imprese l’obbligo (invero già implicito) di fornire assistenza ai propri dipendenti «nell’uso di apparecchiature e software nonché degli strumenti di videoconferenza». Tuttavia, pur in assenza di un tale richiamo, non sembra che la previsione del documento INAIL sia priva di rilievo, dovendosi essa considerare, a fronte dell’accertata maggiore incidenza che il contagio realizza nelle coorti dei più anziani d’età, alla stregua di una indicazione che viene a concretare una regola di condotta prudenziale, che trova il suo fondamento nell’obbligazione di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. In questo senso, del resto, depongono le previsioni del d. lgs. n. 81/2008 che prevedono visite periodiche dei lavoratori e che impongono di tenere conto della condizione soggettiva del prestatore in caso, ad es., di inidoneità alla mansione specifica (art. 42, d. lgs. n. 81/2008), o di lavoro notturno (artt. art. 15 d. lgs. n. 66/2003) o al fine di prevenire lo “stress lavoro correlato”6. Analoghe considerazioni possono farsi in ordine all’organizzazione del lavoro che coinvolge in via generale quanti siano impegnati in prestazioni di lavoro agile da casa: in questo senso la previsione che i lavoratori siano incoraggiati «a fare pause regolari», appare poco rilevante, se rimane collegata alla legislazione italiana, che ne prevede solo una, di almeno dieci minuti (!), durante tutto l’arco della giornata (art. 8 d. lgs. n. n. 66 del 2003). Eppure non sarebbe stata inopportuna una previsione che imponesse all’organizzazione del lavoro di adeguarsi alle necessità individuali dei lavoratori, tenuto conto della particolarissima situazione di costrizione in cui tutti ci siamo trovati a vivere, che avrebbe certamente giustificato un’eccezione, limitata e temporanea, al generale principio per cui resta irrilevante, ai fini dell’esecuzione del contratto, la condizione individuale delle parti. Anche in questo caso il fatto che il Protocollo non ripeta l’indicazione non vale però a far ritenere insussistente la previsione, posto che pure si può ritenere, in assenza di affermazione di segno contrario, che le parti firmatarie abbiano ritenuta inutile una duplicazione della previsione, date le caratteristiche delle indicazioni contenute nel “Documento INAIL” di cui sopra si è detto: la conclusione è che il precetto di adeguamento potrebbe considerarsi come direttiva capace di imporsi a tutti, in quanto viene a concretare (per

5 6

A riguardo v. Balboni, Napoli, Magnani (a cura di), Congedi parentali, formativi e tempi delle città, in NLCC, 2001, 1236 ss. Nunin, La prevenzione dello stress lavoro-correlato. Profili normativi e responsabilità del datore di lavoro, EUT, 2012, 114.

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indicazione di una pubblica istituzione) una specifica obbligazione di legge, diretta a tutelare l’integrità fisica e psichica del lavoratore, individuando la diligenza dovuta al fine di liberare il debitore di sicurezza7. Il fatto che il Protocollo sia allegato al DPCM del 27 aprile 2020 vale ad attribuire ad esso il valore di atto che completa il decreto stesso, venendo a costituire misura, la cui osservanza è affidata alla vigilanza amministrativa: prova ne sia che l’autorità, che ne registra la violazione, deve provvedere a sospendere l’attività imprenditoriale posta in essere illegittimamente (v. art. 2, co. 6 DPCM). In questo senso può dirsi che il Protocollo è dotato di efficacia erga omnes: si tratta di un meccanismo analogo a quello in relazione al quale già la Corte costituzionale ebbe ad esprimersi, rilevandone la compatibilità con i precetti di cui all’art. 39 parte seconda, quando fu chiamata a valutare gli accordi collettivi che, nell’ambito della legge sullo sciopero nei s.p.e. individuano le prestazioni indispensabili, preliminarmente alla valutazione della Commissione di Garanzia8. In ogni caso, anche ove quel provvedimento del Governo dovesse venir meno, pare di poter affermare che il Protocollo abbia oramai abbandonato la qualifica che si attribuiva nella formulazione sottoscritta il 14 marzo 2020 di semplici “linee guida condivise”, per prendere la forma di un negozio idoneo a determinare il sorgere di obbligazioni fra le parti, individuali e collettive, in forza di un contenuto più dettagliato in molte sue parti, che pure può richiedere per qualche aspetto un completamento, nella prospettiva di un adattamento della regola generale alla concreta organizzazione dell’impresa, secondo un modello, tuttavia, differente da quello oramai consolidatosi nella legislazione, della predisposizione del documento di valutazione dei rischi di cui agli artt. 17 e 28 d. lgs. n. 81 del 2008. La correzione di quel modello si spiega, probabilmente, sia per l’esigenza di provvedere in tempi brevi, sia a ragione del fatto che si tratta di rischi che non ineriscono al ciclo produttivo specifico e che, di conseguenza, possono tollerare soluzioni in certa misura uniformi. Nel Protocollo, infatti, già nella sua prima versione, si legge che: «Il Covid-19 rappresenta un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione. Il presente protocollo contiene, quindi, misure che seguono la logica della precauzione e seguono e attuano le prescrizioni del legislatore e le indicazioni dell’Autorità sanitaria». Il datore che voglia riprendere l’attività produttiva è, quindi, tenuto alla scrupolosa osservanza di tutte le previsioni del Protocollo, mentre resta salvo un potere di adattamento all’esito dell’attivazione di quelle forme partecipative, che già prima si sono richiamate. Nel prevedere queste forme, le parti collettive hanno rinnovato una tradizione che risale all’art. 9 stat. lav. e che trova conferma nello stesso impianto della disciplina comunitaria, nella forma della partecipazione dei lavoratori, attraverso i propri rappresentanti (RSL e RSLT) all’elaborazione del documento di valutazione dei rischi. Peraltro, in forza dell’esperienza conseguente a settori come l’edilizia e l’artigianato, dove le ridotte dimensioni

7 8

Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, in Comm. Sch., Giuffrè, 2008. C. cost., 18 ottobre 1996, n. 344 (red. L. Mengoni).

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delle imprese avevano di fatto ostacolato la prima fase di implementazione del d. lgs. n. 626 del 1994, l’art. 51 del d. lgs. n. 81/2008 ha poi previsto che a livello territoriale venissero costituiti “organismi paritetici”, chiamati a «supportare le imprese nell’individuazione di soluzioni tecniche e organizzative dirette a garantire e migliorare la tutela della salute e sicurezza sul lavoro» (co. 3, art. cit.), con poteri di stimolo e di controllo, che giungono sino al sopralluogo, nella prospettiva della creazione di un sistema integrato di sicurezza. A mente del punto 13 del Protocollo condiviso del 24 aprile 2020 (con previsione che sviluppa gli spunti inizialmente contenuti nel protocollo del 14 marzo e nel successivo addendum) devono quindi essere costituti “Comitati per l’applicazione e la verifica”, per dar vita: (I) o ad un Comitato aziendale per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo stesso, con coinvolgimento di RSA e RLS (con previsione correttiva del modello del d. lgs. n. 81/2008, ma che sembra comunque rispettarne lo spirito); (II) o a un Comitato territoriale che coinvolga RLST(erritoriali) e organismi paritetici per la salute e la sicurezza di cui all’art. 51 d. lgs. n. 81/2008 (e anche qui pare di non allontanarsi dal sistema del d. lgs. n. 81/2008, nella misura in cui per le imprese con meno di 15 dipendenti tutta la materia è sostanzialmente demandata a questi organismi bilaterali, a mente dell’art. 48 d. lgs. n. 81/2008); (III) o a Comitati che coinvolgano le ASL e gli altri soggetti istituzionali. Quest’ultima previsione, invero, pare proporre una soluzione innovativa, che tuttavia sembrerebbe senz’altro limitare le capacità dell’INAIL o dell’Autorità sanitaria di adottare successivi provvedimenti specifici, che vengano a discostarsi (in assenza di idonea motivazione) dalle istruzioni già impartite in via generale. Opzione, questa, generalmente poco gradita all’autorità amministrativa, ma probabilmente suscettibile di essere praticata in particolari condizioni di emergenza. Qualcuno ha ritenuto di vedere, in virtù del titolo in parola, una misura diretta a rinvigorire il progetto partecipativo di cui all’art. 46 Cost.: in verità, seppure il Comitato potrà occuparsi anche di orario e di lavoro “agile”, non pare che la materia demandata al confronto sia in grado di avviare una stagione di condivisione organizzativa, al pari dei comitati di Mitbestimmung dell’ordinamento tedesco. Prova ne sia, innanzi tutto, che anche in Germania la tutela della salute e sicurezza viene affidata a organismi speciali, con ambiti strettamente definiti9. Ed in verità, pare di poter dire che la cogestione d’oltralpe si incentra sull’organizzazione produttiva, discutendo di temi come l’orario, i turni, le mansioni e, soprattutto, la retribuzione, mentre la tutela della salute si concreta in diritti individuali che il datore è chiamato a tutelare, sulla base di un principio di indisponibilità10: un tale vincolo lascia poco spazio a quella negoziazione dei poteri di gestione che, al contrario, in assenza di

9

In acronimo, denominato ASA, in ordine al quale Herbst, Der Arbeitsschutzausschussin der betrieblichen Praxis, Arbeitspapier Nr. 288 della Fondazione Böckler del settembre 2013, all’indirizzo www.boeckler.de/de/faust-detail.htm?sync_id=6820, che lamenta peraltro a riguardo una scarsa attenzione dei rappresentanti dei lavoratori. 10 Montuschi, I principi generali del d. lgs. n. 626/1994, in Id. (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, Giappichelli, 1997, 37 ss.

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norme partecipative, costituisce prerogativa esclusivamente datoriale, e dunque suscettibile di essere negoziata11. Semmai il ruolo dei comitati di cui si è appena detto sembra risiedere nella necessità che siano adottati comportamenti condivisi da tutti, cosicché il coinvolgimento del più ampio numero di soggetti nell’elaborazione delle regole di condotta finisce per costituire quell’elemento di sensibilizzazione individuale, che già si rintraccia nel d. lgs. n. 81/2008 (e già nel precedente d. lgs. n. 626/94, sulla scorta delle previsioni della direttiva “madre”, n. 89/391) in una prospettiva di sana auto-regolazione. Resta da dire, per completare la questione dell’efficacia del Protocollo, che ad esso (e gli eventuali accordi che dovessero essere stipulati in sede aziendale, all’esito delle consultazioni di cui al titolo 13° del Protocollo stesso) non può attribuirsi alcun potere propriamente derogatorio della regola di diligenza scolpita nell’obbligazione di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. per almeno tre evidenti ragioni: in primo luogo, per consolidata giurisprudenza, la rinunzia ad un diritto derivante da norma di contratto collettivo non può che realizzarsi, secondo le generali regole civilistiche in tema di mandato, solo a seguito di un’espressa attribuzione da parte di ognuno dei lavoratori alle parti che lo sottoscrivono di un espresso potere dismissivo: attribuzione che, a tutt’evidenza, non si è realizzata in questo caso. In secondo luogo, il diritto di cui dovrebbe disporre il Protocollo (o i contratti collettivi aziendali stipulati in seguito ad esso) sembra discendere direttamente dalla norma di legge, di modo che un potere derogatorio collettivo non potrebbe che fondarsi su una espressa norma di delegificazione che in tal senso disponga. Infine, non potrebbe qui invocarsi (se non in ambiti ristrettissimi) un generale potere di modifica che altrimenti si riconosce all’accordo “di delegificazione”, perché la materia della salute e sicurezza trova quasi per intero la sua disciplina in direttive europee, conseguenti alla direttiva n. 391 del 1989, che non sono suscettibili di essere derogate a mente del disposto dell’art. 8 d.l. n. 138/2011. Il che peraltro vale a confermare che l’allegazione del Protocollo al DPCM, non vale certo a determinare una modifica delle norme di legge pre-esistenti.

4. La questione della tutela della salute dei lavoratori. Resta ora da affrontare l’aspetto che forse di più ha impegnato la dottrina: certo è che l’imprenditore che voglia riprendere l’attività è tenuto alla scrupolosa osservanza di tutte le previsioni del Protocollo, tanto che l’INL ha predisposto una check-list, così da agevolare il rispetto del testo negoziale. Tale rispetto deve essere, a parere di chi scrive, comprensivo di ognuno dei titoli, posto che, pur in assenza di un’espressa clausola di inscindibilità,

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Per un’efficace sintesi del tema, v. Pasquarella, Brevi riflessioni sul ruolo della contrattazione collettiva dal d. lgs. n. 626/94 al d.lgs. n. 81/2008, in Liber Amicorum, Spunti di diritto del lavoro in dialogo con Bruno Veneziani, Cacucci, 2012, 243-247.

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sembra che tutte le previsioni si presentino come correlate fra di esse. E solo può aggiungersi che il titolo 13°, di cui sopra si è discusso, sembra comunque richiedere per la costituzione dei comitati, una specifica iniziativa sindacale, sulla base della generale regola di cui all’art. 19 stat. lav., di modo che, in assenza di richiesta espressa in tal senso da parte dei sindacati dei lavoratori, non può considerarsi inadempiente al Protocollo il datore che non abbia provveduto alla costituzione degli organismi paritetici in parola. Tanto premesso, resta da affrontare la questione più rilevante, che attiene al caso in cui, malgrado il rispetto anche scrupoloso del Protocollo, qualcuno abbia a contrarre la malattia sul luogo di lavoro da un collega o da un cliente. Le risposte che sono state date al quesito sono diverse12. Si è detto che solo il rispetto degli obblighi analiticamente individuati rileverebbe, sul piano risarcitorio e della responsabilità penale. Un emendamento è stato anzi recentemente votato in questo senso alla Camera ed esso si avvia a divenire norma di legge a tutti gli effetti13. Nella mia opinione, in assenza di uno specifico derogatorio intervento normativo a riguardo, non resta che fare applicazione della disciplina generale. Ed invero, sul punto il nostro ordinamento prevede sia l’adozione di un’ampia serie di misure di prevenzione, contenute nel d.lgs. n. 81 del 2008 in relazione a differenti ipotesi di rischi specifici, sia la norma di “chiusura” di cui all’art. 2087 cod. civ., che impone alle imprese di adottare tutte “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Si tratta di una previsione che vale a giustificare un generale dovere di prevenzione, ma anche a determinare i casi nei quali l’impresa è tenuta a risarcire i danni al lavoratore, quando questi abbia a subire un pregiudizio sia fisico (permanente o anche solo transitorio), sia sul piano del turbamento della propria personalità (e da qui il diritto ad un risarcimento per i casi ad es. di mobbing). L’obbligo che grava sul datore è particolarmente impegnativo perché, pur non configurandosi una vera e propria responsabilità “oggettiva” (che prescinde cioè da una specifica mancanza nella condotta dell’imprenditore) impone comunque, una volta che il danno resti provato, una indagine diretta ad accertare se il datore di lavoro ha adottato, non solo

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In part., v. M.T. Carinci, Back to work al tempo del Coronavirus e obbligo di sicurezza del datore di lavoro. I test sierologici rapidi, in W.P. Adapt, n. 3, aprile 2020; Marazza, Scarpelli e Sordi, i giuslavoristi di fronte all’emergenza covid-19, in Giustiziacivile.com, 17 marzo 2020; Sandulli, Pandolfo e Faioli, Coronavirus, regresso e danno differenziale. Contributo al dibattito, in W.P. D’Antona, n. 420 del 25 maggio 2020 (v. altresì il mio Covid-19 e infortunio sul lavoro: come provare l’esonero da responsabilità, in Quotidiano, Ipsoa, 21 maggio 2020). 13 In data 21 maggio 2020, le Comm. riunite della Camera (VI) Finanze e (X) Attività Produttive hanno approvato un emendamento (il 27.08) al decreto n. 23/2020, c.d. “liquidità” (atto C. 2461 Governo), successivamente approvato dal Senato (l. 5 giugno 2020, n. 40), che così recita: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’art. 2087 cod. civ. mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del d.l. 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” (art. 29-bis, d.l. n. 23 del 2020).

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le particolari misure analiticamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata (nonché quelle generiche dettate dalla comune prudenza), ma anche tutte le altre che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela della salute del lavoratore. Riferendo la norma alla situazione attuale, la conclusione è che quando sia accertato che il contagio da Sars-Cov-2 sia avvenuto sul luogo di lavoro, il datore, per andare esente da responsabilità sul piano risarcitorio, dovrà provare di aver posto in essere le precauzioni idonee, in base all’esperienza e alla tecnica, ad evitare il diffondersi della malattia. Questo significa che le imprese dovranno, non solo rispettare tutte le previsioni che derivano dal Protocollo del 24 aprile 2020 (come richiamato dal DPCM del 26 aprile 2020, e ad esso allegato, come sopra si è detto), ma altresì che esse sono chiamate ad adeguarne i contenuti al concreto contesto organizzativo della loro azienda, tenendo conto al contempo di tutte le precauzioni che dovessero via via emergere in ordine alle modalità di diffusione del contagio, e dunque anche di quanto previsto dai protocolli di cui all’art. 1, co. 14 del d.l. 16 maggio 2020 n. 33, adottati dalle Regioni nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali14. Un compito, questo, davvero gravoso, non foss’altro perché non è esattamente chiaro quali misure siano idonee ad impedire il contagio (essendo a tal fine le mascherine una protezione solo parziale, come dimostra il fatto che il medico che si avvicini ad un malato adotta ben altro tipo di protezione). Responsabilità gravi, dunque, che spaventano quanti vogliano riprendere l’attività di impresa, per evitare che il protrarsi del blocco finisca per condurli alla definitiva chiusura dell’attività economica. Ed invero, in disparte dagli aspetti a rilievo penale (sui quali non ho competenza ad esprimermi), appare chiaro come mentre le industrie, specie quelle che provvedono al versamento del premio a più elevata tariffa, sono meglio attrezzate dal punto di vista organizzativo e patrimoniale, per far fronte alle esigenze di risarcimento che dovessero provenire direttamente dai lavoratori, lo stesso non può dirsi per i piccoli esercizi commerciali e per tutte quelle realtà dove l’infortunio grave costituisce un evento quasi eccezionale. Il rischio, in questo caso, come subito si dirà più sotto, sta nell’eventualità che al lavoratore, che resti permanentemente invalido dopo aver contratto la malattia a ragione del suo lavoro (o ai suoi superstiti, in caso di morte), null’altro venga riconosciuto se non l’indennizzo INAIL che, in molti casi non è sufficiente (pur dopo l’ampliamento della copertura al danno biologico) a reintegrare il danneggiato di tutti i danni subiti. A riguardo, si è fatto notare che l’attribuzione di responsabilità resterebbe un’eventualità lontana, poiché sarebbe comunque difficile dare prova del fatto che il contagio si è realizzato proprio sul luogo di lavoro e non sui mezzi di trasporto o altrimenti, in seguito ai contatti della vita quotidiana del lavoratore. Questa conclusione, tuttavia, non vale a tenere indenne il datore in tutti quei casi in cui, al contrario, sia possibile individuare e ricostruire la catena di diffusione della malattia (quando ad es. questa sia stata oggetto dell’indagine epidemiologica condotta dalla autorità sanitaria e diretta alla ricostruzione di

14

V. circolare INAIL n. 22 del 20 maggio 2020, ove richiami ai precedenti atti normativi e alla circ. INAIL del 3 aprile 2020, n. 13.

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Obbligo di sicurezza e responsabilità datoriale: il rischio di contagio da Covid-19

tutti i “contatti stretti” che il malato ha avuto negli ultimi giorni; o quando vi sia una pluralità di contagiati nell’ambito di un gruppo di lavoratori che operano tutti in uno stesso ambiente; o, infine, quando il lavoratore riesca a dimostrare che si reca a piedi al lavoro e che, a parte i familiari, non ha avuto alcun contatto con estranei che fossero portatori asintomatici del virus). Il quadro normativo appena descritto discende direttamente dalle norme generali e deve poi coordinarsi con la disciplina specifica che il decreto “Cura Italia” ha dettato all’art. 42, co. 2 (d.l. n. 18/2020 convertito nella legge n. 27 del 24 aprile 2020), riconoscendo che il contagio da coronavirus contratto sul lavoro deve considerarsi alla stregua di un infortunio indennizzabile. A riguardo, seppure sono del tutto condivisibili le precisazioni poi contenute nella recente circ. n. 22 dell’INAIL in ordine al fatto che il riconoscimento dell’infortunio non implica, di per sé solo, un automatico accertamento delle responsabilità civili o penali del datore, non si può fare a meno di notare come una tale affermazione non libera completamente il datore di lavoro, posto che il risarcimento dei danni civili, non indennizzati, attiene propriamente ai rapporti che intercorrono fra impresa e lavoratore e resta, quindi, escluso dal campo di intervento dell’INAIL. L’Istituto, infatti, segue logiche in parte diverse da quelle proprie delle norme che regolano il risarcimento dei danni, in quanto esso interviene anche in caso di colpa accertata del lavoratore (salvi i casi in cui il danno sia frutto di un’azione del tutto imprevedibile, in caso di rischio elettivo) e non mira a tenere indenne il danneggiato da tutti i pregiudizi che gli derivano dall’infortunio, ma solo ad assicurargli una indennità, calcolata secondo un metodo presuntivo, che in molti casi lascia in capo al datore l’obbligazione di risarcire il danno ulteriore (c.d. differenziale), né indennizzato, né coperto dall’assicurazione INAIL. In questo senso è senz’altro vero che l’azione dell’INAIL non conduce necessariamente ad una condanna penale o al risarcimento dei danni in sede civile, ma resta che l’accertamento dei fatti che viene eseguito dall’autorità sanitaria assume il valore di una prova particolarmente attendibile e viene ad essere comunicato sia al lavoratore, a sua richiesta, sia alla procura della Repubblica, quando dall’evento risulti una lesione non trascurabile della salute del lavoratore. In questa prospettiva, una limitazione di responsabilità, sul piano del risarcimento dei danni, non può che eventualmente essere disposta dalla legge e non certamente da atti aventi natura amministrativa (quali una nota o una circolare) e forse sarebbe bene che fosse direttamente il Parlamento ad intervenire sulla materia, utilizzando gli stanziamenti di bilancio straordinari a sua disposizione, per incrementare, a premio invariato, la misura delle indennità dovute ai singoli, così da estendere, almeno per tutto il periodo del “rilancio”, la copertura offerta dall’INAIL a tutti i pregiudizi che il lavoratore abbia a subire. Si tratterebbe, almeno sul piano della responsabilità civile (poiché pare difficile che possa limitarsi quella penale del datore, senza incorrere nella violazione della Costituzione), di un aiuto concreto e mirato alle imprese e non solo. Infatti, in questo modo si ovvierebbe ad un risultato altrimenti paradossale, quale sarebbe quello che deriverebbe da un confronto fra tutta la legislazione dell’emergenza del 2020, che riconosce svariate forme di aiuto pur in assenza della prova concreta dell’aver subito un danno, mentre sembrerebbe non attribuire alcunché a quei lavoratori, che sicuramente ed inoppugnabilmente hanno subito un danno dalla pandemia, avendo contratto la malattia.

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Vincenzo Ferrante

Né va sottovalutato il fatto che l’impresa tenuta eventualmente al risarcimento del danno differenziale potrebbe in concreto essere sprovvista di mezzi patrimoniali idonei ad assicurare un integrale ristoro, di modo che non sarebbe illogico che, in via limitata nel tempo e esclusivamente nel caso di accertato contagio sul luogo di lavoro, si procedesse nella direzione che si è qui proposta.

5. Le fonti sovrannazionali e la Cassa integrazione

“europea”.

A completare il quadro delle fonti deve ricordarsi che, negli stessi giorni in cui a Roma si metteva a punto il DPCM di proroga delle misure di contenimento domiciliare dei lavoratori di cui sopra si è detto, in Europa si sono prese importanti decisioni in ordine al finanziamento dell’extra-deficit conseguente alle misure di contrasto alla pandemia, varando lo “Strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in situazione d’emergenza” (in acronimo inglese: SURE) proposto dalla Commissione all’inizio del mese di aprile del 2020 ed approvato dal Consiglio nella riunione dello scorso 23 aprile, unitamente alle altre misure di contrasto alla crisi economica conseguente all’epidemia da Covid-19 (come in primis il Fondo di solidarietà dell’Unione). Si tratta di un intervento temporaneo per consentire all’Unione di concedere assistenza finanziaria agli Stati membri colpiti, per un importo fino a 100 miliardi di euro, in forma di prestiti da restituire in tempi lunghissimi. Le passività potenziali derivanti da tali esborsi sui deficit pubblici nazionali saranno rese compatibili con i vincoli di bilancio dell’UE, dietro la fornitura di idonee garanzie da parte degli Stati membri interessati, pari al 25 % dei prestiti concessi. Lo strumento garantirà così una assistenza finanziaria aggiuntiva, forse anche senza pesare sui bilanci nazionali, integrando le misure adottate da ogni Stato membro e le sovvenzioni normalmente erogate per tali scopi dal Fondo sociale europeo. La misura si colloca nell’ambito della politica europea di coesione sociale, che già conosce numerose ipotesi in cui vengono creati fondi destinati al riequilibrio e fa tesoro del recente tentativo di dar vita ad una indennità di disoccupazione europea, sulla falsariga del sistema statunitense, dove a seguito della crisi del ’29 fu il Governo federale a dar vita ad uno strumento unitario di sostegno al reddito15. Nello specifico il Supporto europeo servirà a finanziare i regimi di riduzione dell’orario lavorativo e misure analoghe per i lavoratori autonomi. Si tratta di un intervento che è stato reso possibile da un’interpretazione estensiva dell’art. 122 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE), che consente «in uno spirito di solidarietà tra Stati membri» di intervenire qualora uno Stato membro «si trovi in difficoltà» a «causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali» o nell’eventualità di carenze di determinati prodotti (l’ipotesi

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A riguardo, per una breve panoramica, rinvio al mio Afterword. The European Unemployment Benefit Scheme: the Way Ahead, in EL, n. 1/2017, 93-97.

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Le fonti e il dialogo sociale

era quella di uno shock energetico). Sarà quindi interessante comprendere, nelle prossime settimane, se questo strumento verrà utilizzato per prorogare le settimane di Cassa o di assegno già previste dal ben noto d.l. del 17 marzo e che tipo di garanzia verrà richiesta agli Stati membri per poter attivare il prestito, mentre sembrerebbe che ogni singolo Stato resti libero di disciplinare le modalità di intervento e la scelta dei destinatari (anche se potrebbe essere necessario, al fine di poter avere accesso ai fondi europei, garantire una rotazione fra i lavoratori sospesi in “Cassa”, secondo peraltro una regola già prevista dal Protocollo sindacale di cui si è detto e dalla stessa legge di riforma degli ammortizzatori sociali del 2015).

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Roberto Pessi

Le categorie contrattuali ai tempi del Covid-19 Sinossi. Nel presente saggio l’A. si interroga sulle tradizionali categorie contrattuali del diritto del lavoro nell’era dell’emergenza sanitaria. Abstract. In this essay, the A. deals with the traditional contractual categories of labor law in the era of the health emergency. Parole chiave: Contratto di lavoro – Lavoro autonomo – Lavoro subordinato – Smart working – Emergenza Covid19 – Riders

A fronte dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, è sorto l’interrogativo, che mi è stato posto in vista del webinar organizzato dal collega ed amico Oronzo Mazzotta, se le tradizionali categorie contrattuali del diritto del lavoro abbiano retto o meno all’impatto della crisi sanitaria (ed economico/sociale) in corso. Nel tentativo di offrire una risposta all’interrogativo posto, occorre premettere che la pandemia ha certamente comportato un forte shock sul mercato del lavoro, del quale è effetto la rilevanza assunta da figure ibride su cui si sono, anche recentemente, concentrati gli sforzi qualificatori1, tra le quali spicca, in particolare, quella dei rider2, il cui ruolo ha

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Per il dibattito relativo ai temi qualificatori rinvio ai contributi di Magnani, Autonomia, subordinazione, coordinazione, nel gioco delle presunzioni, in WP D’Antona, It., n. 174/2013; Marazza, Il lavoro autonomo dopo la riforma Monti, in ADL, 2012, 875; Martelloni, Lavoro coordinato e subordinazione, Bononia University Press, 2012; Pallini, Il lavoro economicamente dipendente, Cedam, 2013, I, 116; Id. Il lavoro a progetto, ritorno al futuro?, in Pallini (a cura di), Il lavoro a progetto in Italia ed in Europa, Il Mulino, 2003, 147; Perulli, Un Jobs Act per il lavoro autonomo, verso una nuova disciplina della dipendenza economica in WP D’Antona, It., n. 235/2014; Persiani, Considerazioni sulla nuova disciplina delle collaborazioni non subordinate, in RIDL, 2013, I, 842; Id., Individuazione delle nuove tipologie, tra subordinazione ed autonomia, in ADL, 2005, n. 2; Pedrazzoli, Dai lavoratori autonomi ai lavoratori subordinati, in DLRI, 1995, 546; Santoni, La revisione della disciplina dei rapporti di lavoro, in F. Carinci (a cura di), La politica del governo Renzi. Atto II, in ADAPT e-Book, n. 32/2014, 136; Speziale, Le politiche del lavoro del Governo Renzi: il Jobs Act e la riforma dei contratti e di altre discipline del rapporto di lavoro, in WP D’Anton, It, n. 233/2014. Con riferimento a tali figure v. Perulli, Il diritto del lavoro “oltre la subordinazione”: le collaborazioni etero-organizzate e le tutele minime per i riders autonomi, in WP D’Antona, It., n. 410/2020; Id., La nuova definizione di collaborazione organizzata dal committente. Note al d.lgs. n. 81/2015, 2019, I, 163; Capponi, Lavoro tramite piattaforma digitale: prima lettura del d.l. n. 101/2019 convertito in l. n. 128/2019, in DRI, 2019, 1231; D’Ascola, Convertito in legge il decreto che tutela i platform workers: ecco le principali novità, in Labor, 11 novembre 2019; Cavallini, La “carica” del decreto 101: le nuove regole per la gig economy mettono alla prova le piattaforme di food delivery (e non solo), in Sintesi, novembre 2019, 8. In generale sul lavoro nell’ambito delle piattaforme digitali cfr. Maio, Il lavoro per le piattaforme digitali tra qualificazione del rapporto e tutele, in ADL, 2019, 3; Diamanti, Il lavoro etero-organizzato e le collaborazioni coordinate e continuative, in DRI, 2018, 1.


Roberto Pessi

fornito un’ulteriore riprova della strategicità del lavoro sulle piattaforme e per il tramite delle stesse, in un momento storico in cui la libertà dei cittadini di spostarsi per soddisfare i propri bisogni è stata inevitabilmente compressa. Lo stesso shock ha portato alla generalizzazione del ricorso alla modalità di lavoro “smart” – resa possibile in via del tutto eccezionale anche in assenza di un accordo individuale e/o collettivo – che, favorendo un’organizzazione del lavoro a distanza, ha di fatto spezzato il rapporto spazio-temporale che ha da sempre caratterizzato il tradizionale lavoro in presenza. Fermo restando l’impatto dell’attuale crisi, non ritengo che il lavoro subordinato, nei suoi elementi essenziali, abbia smarrito le connotazioni assunte in precedenza ed, anzi, in alcuni ambiti, si ha l’impressione che la subordinazione ne esca ulteriormente accentuata. Sul punto, basti riflettere sul dovere di sicurezza ex art. 2087 c.c. (particolarmente accentuato in un momento storico in cui il rischio di contrarre e diffondere il virus nei luoghi di lavoro è elevato), che grava sul datore di lavoro in funzione dei rischi specifici connessi alle complessive modalità di espletamento delle prestazioni3, per la cui osservanza è imposto al lavoratore di aderire puntualmente a tutte le direttive impartitegli a fini prevenzionistici. Si verifica, dunque, anche nell’osservanza delle prescrizioni in materia di sicurezza sul lavoro, una notevole accentuazione del potere direttivo e organizzativo dell’imprenditore, ragion per cui, nelle imprese in cui è stata ammessa l’attività lavorativa, la subordinazione risulta è risultata confermata in tutta la sua sostanza, rispondendo perfettamente a quell’esigenza di valorizzazione del momento collaborativo, che il lavoro nell’Industria 4.0 inevitabilmente richiede. Sempre per ciò che concerne l’evoluzione delle tradizionali categorie contrattuali del diritto del lavoro, e con specifico riferimento alla figura dei rider, pare non possa esserci alcun dubbio riguardo al fatto che l’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 sia una norma di disciplina e non una norma di fattispecie e che, dunque, gli stessi siano dei lavoratori autonomi a cui si applica lo statuto protettivo, così come confermato dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza n. 1663 dello scorso 24 gennaio4. In tale decisione la Corte prende correttamente atto che “non ha decisivo senso interrogarsi su se tali forme di collaborazione (...) siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia perché ciò che conta è che per esse (...) l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato” (punto 25), valorizzando, per un verso, la funzione di “prevenzione” della disposizione prima citata, atteso che “il legislatore, onde scoraggiare l’abuso di schemi contrattuali che a ciò si po-

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Su tali profili cfr. Giubboni, Covid-19: obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori, in WP D’Antona, It., n. 417/2020; Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, in WP D’Antona, It., n. 413/2020; Sandulli, Pandolfo, Faioli, Coronavirus, regresso e danno differenziale. Contributo al dibattito, in WP D’Antona, It., n. 420/2020. Per i relativi commenti, oltre ai contributi presenti nel numero monografico del Massimario di Giurisprudenza del Lavoro del 2020, rinvio a F. Carinci, L’art. 2 d.lgs. n. 81/2015 ad un primo vaglio della Suprema Corte: Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663, in WP D’Antona, It., n. 414/2020; G. Santoro-Passarelli, Sui lavoratori che operano mediante piattaforme anche digitali, sui riders e il ragionevole equilibrio della Cassazione 1663/2020, in WP D’Antona, It., n. 411/2020; Perulli, Il diritto del lavoro “oltre la subordinazione”: le collaborazioni etero-organizzate e le tutele minime per i riders autonomi, in WP D’Antona, It., n. 410/2020.

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Le categorie contrattuali ai tempi del Covid-19

trebbero prestare, ha selezionato taluni elementi ritenuti sintomatici ed idonei a svelare possibili fenomeni elusivi delle tutele previste per i lavoratori” (punto 26) e, per altro verso, il carattere “rimediale” della stessa, che si traduce nell’“applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato” quando “l’etero-organizzazione, accompagnata alla personalità ed alla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente” (punto 26)» È chiaro che, ferme restando queste coordinate di rotta, diviene centrale il tema della disciplina applicabile ai prestatori d’opera etero-organizzati, che fruiscono dello statuto protettivo della subordinazione, ma sono sostanzialmente autonomi (laddove, diversamente avrebbero fruito della conversione del rapporto in forza della evidenza simulatoria). Sul punto la sentenza n. 1663/2020 pare presentare alcune stonature, in quanto, se da un lato, al punto 40, specifica i motivi per cui la disciplina del lavoro subordinato dovrebbe applicarsi integralmente alle collaborazioni di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, rilevando che «la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici», al successivo punto 41 rileva come «non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 cod. civ.» . Orbene, fermo restando che il passaggio appena riportato, nel bilancio generale della decisione, è un obiter dictum, lo stesso pare comunque costituire, oltre che una guida per l’interprete, un indiretto richiamo al legislatore affinché intervenga sul punto al fine superare le difficoltà applicative derivanti dal dato testuale della previsione, soprattutto nelle ipotesi in cui l’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato sia incompatibile con le fattispecie da regolare. È, quindi, quanto mai opportuno un intervento risolutivo dei nodi lasciati irrisolti, primo tra tutti il tema dei licenziamenti, che, al termine del blocco eccezionalmente disposto, inevitabilmente si riproporrà anche per la categoria dei rider, magari a fronte di una minore richiesta delle relative prestazioni, una volta che la riapertura delle imprese a favore dei quali essi svolgono le loro attività permetterà un contatto diretto di queste ultime con i relativi clienti. In assenza di un significativo intervento in materia, per assurdo, non avrebbe di fatto più senso parlare di norma di disciplina piuttosto che di norma di fattispecie e tanto varrebbe allora transitare tutti i rider nell’ambito della subordinazione e tornare alle due fattispecie minime unitarie, lavoro autonomo e lavoro subordinato, senza ammettere alcun altro spazio ai collaboratori coordinati, comunque definiti, ad eccezione delle ipotesi derogatorie oggetto dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 81/2015. Tra tali ultime fattispecie, continuerà, comunque, ad essere decisiva l’autonomia collettiva, che, in forza della delega oggetto della disposizione prima richiamata, potrà garantire un processo di graduale armonizzazione, non solo nel passaggio da uno statuto protettivo ad un altro, quanto e soprattutto nel transito da uno status professionale ad un altro (nella convinzione che, in definitiva, non potrà essere quello di “partenza”, ma neppure quello immaginabile come di “arrivo”, in ragione della disciplina attualmente attribuita ex lege), essendosi consolidate in tal senso interessanti esperienze in settori in cui il ricorso a rap-

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Roberto Pessi

porti di collaborazione è particolarmente ampio quali, tra gli altri, quelli dei call center, del cinema, dell’università e ricerca scientifica e del volontariato5. Fermo quanto sinora detto, per ciò che invece concerne il lavoro autonomo “puro”, si ritiene che questo non subirà alcuna radicale modifica. Il prestatore di lavoro autonomo, quale soggetto debole contrattualmente, ha trovato una prima ed embrionale forma di tutela nell’intervento del 2017 e rinviene oggi protezione nella disciplina in materia di ammortizzatori sociali, interinalmente estesi anche a tale categoria. Sul tema si auspica un intervento che introduca il tanto ambito sistema universalistico, anche se le difficoltà dallo stesso implicate sarebbero parecchie: si tratterebbe di stabilire se e come finanziare la tutela nei confronti del lavoro autonomo, in che misura finanziarla e che dimensione di tutela immaginare, con tutte le incertezze del caso, dal momento in cui tutto il lavoro autonomo verrebbe sì ad essere tutelato, ma, naturalmente, in versioni diverse. A titolo esemplificativo, si pensi, da un lato, ai liberi professionisti e, dall’altro, ai piccoli imprenditori commerciali, che non hanno potuto riprendere la propria attività (perché attualmente antieconomica) o che, forse, per lungo tempo non la potranno riprendere appieno perché impossibilitati oggettivamente ad osservare le prescrizioni di distanziamento imposte in occasione delle riaperture. Le problematiche sono molteplici, ma, ciò nonostante, non si corre il rischio di dover ridefinire le categorie tradizionali del diritto del lavoro; si rendono necessari solo degli aggiustamenti in questa fase emergenziale, come avvenuto con la disciplina dello smart working, che sta interessando più o meno 10 milioni di lavoratori e che, per molti di loro, potrebbe diventare la modalità standard di svolgimento della prestazione lavorativa. Si assisterà probabilmente ad una rivisitazione delle regole che riguardano la gestione del rapporto di impiego, a seguito della quale si auspica un intervento della contrattazione collettiva anche in termini di welfare sociale, che attui quella vecchia idea di affiancare al welfare pubblico un welfare privato di tipo assicurativo (anche su base collettiva), come in parte è avvenuto per il contratto dei metalmeccanici o per la previdenza complementare e come potrebbe, ancora, avvenire con riferimento allo smart working, introducendo dei meccanismi che riducano il costo del lavoro, monetizzando, quindi, una serie di diritti, senza perderli, e garantendo uno scambio equo che la contrattazione collettiva dovrebbe gestire nel miglior modo possibile. Quello dei riferimenti al sistema generale di protezione sociale è, invece, un tema molto diverso, perché è evidente che le questioni in ordine al reddito di cittadinanza ed agli altri redditi di emergenza, che stanno emergendo e consolidandosi, aprono scenari sempre più particolari e sempre più diversi: si pensi al fatto che tanto si è discusso della carenza sul piano della filiera alimentare dei braccianti agricoli da regolarizzare e, più in generale, dei

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Ci si riferisce in particolare all’Accordo per i collaboratori outbound del 31 luglio 2017, all’Accordo per la regolamentazione del lavoro a tempo determinato e del lavoro autonomo nel settore del cinema e dell’audiovisivo del 31 luglio 2018, all’Accordo collettivo nazionale per i collaboratori di enti di ricerca privati, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) di diritto privato e strutture sanitarie private che svolgono attività di ricerca del 30 dicembre 2015, all’Accordo collettivo nazionale di riferimento per i collaboratori delle università non statali del 10 dicembre 2015 ed all’Accordo per i collaborati delle organizzazioni della società civile del 9 aprile 2018.

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Le categorie contrattuali ai tempi del Covid-19

lavoratori stagionali, ragion per cui si potrebbe forse immaginare che l’emergenza spinga ad una condizionalità che non preveda più offerte di lavoro a livelli necessariamente comparabili o semi comparabili, ma che consenta – o che anzi imponga – a chi percepisce certi redditi anche di accettare lavori più umili e meno coerenti rispetto alle loro potenzialità. Ciò detto, analizzando quanto accaduto in tale fase emergenziale ed in quella immediatamente successiva di ripresa, si nota come le categorie tradizionali del diritto del lavoro abbiano tenuto e non abbiano modificato i relativi assetti a causa del lockdown, né attraverso lo smart working, né attraverso il “trionfo” dei lavoratori su piattaforma, nonostante sia potuto sembrare che il quadro di riferimento sia venuto in parte a modificarsi, a causa della forte intermediazione che si è inevitabilmente venuta a creare fra il consumatore e l’erogatore del servizio. In conclusione, può indubbiamente affermarsi che l’emergenza non abbia stravolto le categorie contrattuali del diritto del lavoro, ma che, anzi, le abbia confermate e rafforzate.

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Roberto Romei

Il lavoro agile in Italia: prima, durante e dopo la pandemia Sommario :

1. Il lavoro agile nel modello standard. – 2. La progressiva curvatura subita dal lavoro agile nella emergenza. – 3. La nuova modalità di lavoro agile: diritto e dovere. – 4. Le condizioni di lavoro. – 5. Il lavoro agile nella pubblica amministrazione. – 6. Il dopo.

Sinossi. Nel presente saggio l’A. esamina i tratti peculiari del lavoro agile prima, durante e dopo l’emergenza sanitaria e come quest’ultima abbia inciso sulle modifiche del tipo contrattuale. Abstract. In this essay, the author examines the peculiar features of the smart working before, during and after the health emergency and how this affected the contractual changes. Parole

chiave:

Lavoro agile – Emergenza Covid – Pubblica amministrazione

1. Il lavoro agile nel modello standard. Si legge ormai sempre più spesso che il lavoro agile ha avuto un incredibile impulso a causa della pandemia dovuta al Covid-19, ma che non sparirà con essa, e che anzi diverrà una modalità normale di esecuzione di una prestazione di lavoro subordinato. Oppure, che l’emergenza sanitaria ha in qualche maniera corrotto il modello di lavoro agile che si stava affermando, sia pur non in maniera travolgente1, piegandolo ad esigenze estranee alla connotazione originaria. In entrambe le affermazioni c’è senza dubbio un nocciolo di verità, ma anche semplificazioni non secondarie2.

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Di «istituto nicchia» parla Caruso, Tra lasciti e rovine della pandemia: più o meno smart working?, un contributo di prossima pubblicazione su RIDL, n. 2, 2020, in RIDL, 2020,I, 215 ss.. Si vedano le interessanti osservazioni di M. Corso, Sfide e prospettive della rivoluzione digitale, lo smart working, in DRI, 2017, 979 ss.


Roberto Romei

Per un verso infatti, si enfatizza il ruolo del web, come se la pandemia avesse fatto scoprire a tutti inusitate possibilità di lavoro e di comunicazione, quasi del tutto smaterializzate. Per un altro, si mortifica la versione che emerge dai recenti provvedimenti legislativi, che tradirebbe l’originaria vocazione del lavoro agile come strumento di emancipazione dalla subordinazione di (per ora) ristrette categorie di lavoratori molto professionalizzati, ma (in futuro) in grado di espandersi su vaste platee di lavoratori subordinati. È indubbio che nella legislazione più recente, chiaramente condizionata dalla prospettiva emergenziale, il lavoro agile assuma le caratteristiche di uno strumento finalizzato molto più che in passato a realizzare dei piani di conciliazione tra vita e lavoro, per utilizzare un’espressione ormai abusata. Ma è anche vero che non di mutazione genetica si tratta, ma semmai di uno sviluppo di caratteri che già erano propri del modello, anche se lasciati un po’ in disparte3. Del resto già nello stesso art. 18 della L. n. 81 del 22 maggio 2017 accanto all’obiettivo di un incremento della competitività compare quello dell’agevolazione della conciliazione dei tempi di vita e lavoro, a dimostrazione di come nel DNA dell’istituto già fosse presente una vocazione in tal senso. Ma è indubbio come quest’ultima finalità sia un po’ rimasta nell’ombra a tutto vantaggio di una rappresentazione come una modalità di lavoro più adatta ai bisogni ed alle necessità di una nuova figura di lavoratore subordinato, altamente professionalizzato, in certa misura emancipato dal vincolo di presenza, di orario e di prestazione continuativa, più avvezzo ad autorganizzare la propria prestazione di lavoro svincolandola da un facere continuativo ed un po’ anonimo, per ancorarla invece al raggiungimento di obiettivi e alla realizzazione di progetti, e quindi allentando il legame con le coordinate spazio temporali della ordinaria prestazione di lavoro. Il lavoro agile insomma era il frutto della stagione di passaggio che il diritto del lavoro sta ancora attraversando, caratterizzata dall’ appannamento dei confini tradizionali della materia e da una curiosa commistione, in cui prestazioni di lavoro subordinato, come appunto il lavoro agile, assumono i colori del lavoro autonomo. Ed invece, prestazioni di natura autonoma sono assoggettate alla disciplina del lavoro subordinato4. Il legislatore, dal canto suo, aveva previsto un modello anch’esso agile, pur se con qualche omaggio a schemi tradizionali come la consegna al lavoratore e al rappresentante aziendale per la sicurezza di una «informativa almeno annuale… sui rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione» della prestazione, di nessuna utilità pratica. Ancor meno utile, ed anzi probabilmente dannoso, è l’obbligo di comunicazione agli organi amministrativi competenti dell’accordo sul lavoro agile.

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Si rinvia alla pregevole analisi critica di Tinti, Il lavoro agile e gli equivoci della conciliazione virtuale, in WP D’Antona, IT, 419/2020. In generale sul tema, oltre ai titoli di seguito indicati, e senza alcuna pretesa di completezza: Spinelli, Tecnologie digitali e lavoro agile, Cacucci, 2018; Verzaro (a cura di), Il lavoro agile nella disciplina legale, collettiva e individuale. Stato dell’arte e proposte interpretative di un gruppo di giovani studiosi, Jovene, 2018; Dagnino, Menegotto, Pelusi, Tiraboschi, Guida pratica al lavoro agile dopo la legge n. 81/2017, Adapt University Press, 2017; Casillo, La subordinazione «agile», in DLM, 2017, 529. Levi, Il lavoro agile nel contesto del processo di destrutturazione della subordinazione, in RGL, I, 2019, 25 ss. Il riferimento è alla costellazione rappresentata dalle fattispecie regolate dall’art. 409 n. 3 c.p.c.; dall’art. 2 d.lgs. n. 81/2015; e dall’art. 47-bis d.lgs. 15 giugno 2015, n.81 aggiunta dalla l. 2 novembre 2019, n. 128. Ogni riferimento bibliografico è superfluo.

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Il lavoro agile in Italia: prima, durante e dopo la pandemia

Ma accanto a previsioni di omaggio ad una tradizione sostanzialmente burocratica, il modello normativo di lavoro agile contiene delle indicazioni non irrilevanti: il riferimento ad una prestazione di lavoro, ancorché nell’ambito della subordinazione, senza però precisi vincoli di luogo e tempo; con l’utilizzo preminente di tecnologie informatiche; la finalizzazione ad obiettivi (ed una struttura della retribuzione articolata su queste coordinate e non sul tempo); ma soprattutto una valorizzazione dell’autonomia individuale. È infatti da un patto tra le parti che scaturisce la modalità agile di svolgimento della prestazione; ed è sempre il consenso delle parti che definisce l’esecuzione della prestazione di lavoro per quella frazione che si svolge all’esterno dei locali aziendali «anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo» e del potere di controllo e disciplinare. L’accordo individuale rappresenta un dato caratterizzante della disciplina contenuta nella L. n. 81/2017 ed un elemento di assoluta centralità, tanto che, con un’inversione di 180 gradi rispetto a ciò che accade normalmente, è l’accordo individuale a prevalere sulla disciplina collettiva e non il contrario, dal momento che la legge non pone alcuna riserva nei confronti di quest’ultima5. Nel modello originario, la modalità lavoro agile non può essere il frutto della imposizione di una delle parti: la legge non prevede un diritto al lavoro agile, nel senso che né il datore di lavoro può imporlo, né, all’opposto, il lavoratore può pretenderlo. È sempre l’autonomia delle parti ad individuare le forme di organizzazione della prestazione di lavoro agile che può svolgersi per «fasi, cicli e obiettivi» e può riguardare anche solo periodi predefiniti. Quest’ultima dunque può adattarsi alle diverse esigenze del lavoratore o dell’impresa, essere appunto a termine, o legata alla realizzazione di determinati obiettivi, o ripetersi ciclicamente. Né vi sono obblighi di luogo o di tempo: è questo elemento di flessibilità che vale a distinguere il lavoro agile dal telelavoro, che si svolge necessariamente al domicilio del lavoratore, e quindi con un preciso vincolo spaziale e temporale. Una modalità di svolgimento di una prestazione di lavoro subordinato dunque dai tratti fortemente innovativi. Può anche esser vero che nell’ordinamento si trovino sparse disposizioni dalle quali emerge che il lavoro agile altro non è se non la variante raffinata e professionalizzata del telelavoro6, ma dall’analisi della contrattazione collettiva sembrerebbe emergere una realtà che lo diversifica sensibilmente dal suo predecessore, vero o presunto. E comunque rimane vero che dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro o meglio dell’organizzazione aziendale, il lavoro agile racchiude in sé l’idea di un lavoratore subordinato emancipato dai paternalismi del ’900, con forti venature di autonomia e di responsabilità (che giustificano la consensualità del potere direttivo e di controllo). Ad onta della connotazione modernista, però, il lavoro agile in Italia non ha avuto quella diffusione che ci si poteva aspettare. Stando ai dati dell’Osservatorio del Politecnico di

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Chietera, Il lavoro agile, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera del lavoro: autonomo – agile – occasionale, Adapt University Press, 2018, 349. Sembrano dunque eccessive le preoccupazioni espresse da Brollo, Smart o Emergency Work? Il lavoro agile al tempo della pandemia, di prossima pubblicazione in LG, 2020, 553 ss., che paventa – con una impostazione un po’ di maniera – la possibilità di abusi da parte del datore di lavoro. Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, in DRI, 2017, 921 ss.

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Milano, il lavoro agile è rimasto appannaggio di una fetta assai ristretta della popolazione di lavoratori subordinati: poco più o poco meno di 600.000 persone. La spiegazione è in realtà semplice e complessa al tempo stesso, e risiede nel fatto che l’adozione di forme di lavoro agile presuppone che vi siano una organizzazione aziendale ed una mentalità adatte ad accoglierlo ed a valorizzarlo. Alla base del lavoro agile, se non se ne vuole fare una versione moderna del telelavoro, vi è una filosofia di lavoro, di produzione e di organizzazione per molti aspetti diversa da quella ordinaria, che presiede cioè allo svolgimento di una prestazione di lavoro basata su precise coordinate spazio-temporali. Dal lato imprenditoriale occorre ad esempio abituarsi ad una perdita, seppur parziale, di controllo fisico sul lavoratore e sulla sua attività; occorre adottare una organizzazione che sia basata almeno in parte non sulla remunerazione dell’attività, ma del risultato, e che quindi necessita della individuazione e dell’assegnazione di compiti ed incarichi precisi e misurabili. Dal lato dei lavoratori coinvolti è necessario passare da una eterodirezione ad una autorganizzazione con tempi, luoghi e durata della prestazione scelti, in parte, dal lavoratore stesso e quindi aumentare il tasso di responsabilità in ordine al raggiungimento del risultato. Alle organizzazioni sindacali infine si richiede di agevolare questo processo, abbandonando la politica egualitaria che, specie nel rapporto di lavoro pubblico, appare ancora egemone, e di vincere le diffidenze che sempre le organizzazioni sindacali, ed in particolare la Cgil, hanno verso il nuovo. Non sono mutamenti semplici o sempre facilmente accettati o accettabili da tutti. E sarebbe interessante avere delle indagini empiriche che evidenzino quanti dei componenti la platea dei lavoratori agili siano effettivamente utilizzati come tali e non come semplici varianti del lavoro da casa o cioè del telelavoro. E questa è la ragione, o una delle ragioni, del perché il lavoro agile, nei tre anni che sono intercorsi dal suo ingresso ufficiale nell’ordinamento italiano, non ha avuto diffusione nella piccola e piccolissima impresa o nella pubblica amministrazione. Nell’un caso, la struttura organizzativa elementare e spesso personalistica ha rappresentato di fatto un ostacolo alla diffusione di forme di lavoro agile. Nell’altro, ed all’opposto, una struttura elefantiaca e burocratica, e, soprattutto, una mentalità tutt’altro che orientata alla produttività del lavoro, oltre agli evidenti ritardi sia dal punto di vista culturale che da quello tecnologico, hanno rappresentato altrettanti ostacoli all’utilizzo del lavoro agile7.

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Brollo, op.cit., 561 ss.

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2. La progressiva curvatura subita dal lavoro agile nella emergenza Covid-19.

Su questa realtà si innesta il rinnovato interesse al lavoro agile che emerge dal profluvio di provvedimenti che ha investito il Paese negli ultimi mesi. Ripercorrerne la successione è impresa defatigante e forse anche non del tutto utile, in presenza di sintesi molto accurate8. Sarà quindi sufficiente riportare i punti salienti. Fin dall’inizio della pandemia il lavoro agile si caratterizza come strumento in grado di coniugare diversi piani: quello della tutela della salute dei lavoratori e quello della continuazione delle attività produttive9. Attraverso i DPCM dei primi di marzo 2020 il lavoro agile viene semplificato, nel senso che ad esso si può ricorrere anche prescindendo da ogni accordo individuale: il lavoro agile diventa dunque oggetto di un potere unilaterale del datore di lavoro che ne dispone però non secondo le proprie esclusive convenienze10, ma in omaggio a principi di salute pubblica, dal momento che il lavoro agile diventa la modalità di lavoro, come si è appena osservato, che consente di coniugare diverse esigenze. Tanto che il Protocollo del 14 marzo (poi aggiornato) ne fa oggetto di uno specifico invito tutte le volte in cui sia possibile adottarlo11. Con riferimento alle pubbliche amministrazioni il lavoro agile subisce una repentina accelerazione. Ad onta dell’ambiente non favorevole, per le ragioni che si sono appena sopra accennate, dapprima con una serie di atti amministrativi e successivamente grazie all’art. 87 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 (convertito nella l. 24 aprile 2020 n. 27) il lavoro agile diventa la «modalità ordinaria» di svolgimento del lavoro nell’ amministrazione pubblica, anche attraverso «strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dall’amministrazione». L’art. 39 a sua volta ne fa oggetto di un diritto per i lavoratori cd. fragili e cioè con disabilità grave o che hanno nel nucleo familiare persone con disabilità grave. O infine di un criterio preferenziale per altre categorie di lavoratori fragili.

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Quella più aggiornata è quella compiuta da Brollo, op. cit., 556 ss., cui si rinvia. Molto efficacemente, Caruso, op. cit., 233, parla di esigenze di ordine pubblico sanitario e di ordine pubblico economico. 10 Può trarre in inganno allora parlare di uno ius variandi dell’imprenditore, come si legge in molti commenti, dal momento che la terminologia potrebbe indurre in errore e far pensare ad un’assegnazione alla modalità agile basata sulla sola ed esclusiva convenienza del datore di lavoro. 11 In realtà il d.l. 25 marzo 2020, n. 19 (convertito nella l. 22 maggio 2020, n. 35) dispone all’art. 1, c. 1 lett. ff) che al lavoro agile possa farsi ricorso anche in deroga alle disposizioni della l. n. 81/2017, introducendo dunque una deroga di portata ben più ampia rispetto alla regola della consensualità, come osservano Alessi-Vallauri, Il lavoro agile alla prova del Covid-19, in Bonardi-Carabelli-D’OnghiaZoppoli, Covid-19 e i diritti del lavoratori, Instant book, 136. A conferma però dello scarso coordinamento tra i diversi provvedimenti, il DPCM del 26 aprile 2020 all’art. 1, comma 1, lett. gg) dispone che può farsi ricorso al lavoro agile nel rispetto della previsione della l. n. 81/2017 anche senza la necessità dell’accordo individuale, consentendo che gli obblighi di informazione di cui all’art. 22 della legge siano assolti per via telematica. 9

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Da ultimo, il d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (convertito nella L. 17 luglio 2020, n. 77) completa la trasformazione (temporanea?) del lavoro agile, razionalizzandone almeno in parte la disciplina Per un verso infatti si prevede all’art. 90 che fino alla cessazione dello stato di emergenza i genitori lavoratori privati con un figlio minore di anni 14 abbuiano diritto a svolgere la loro prestazione di lavoro in modalità agile «a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore… e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione». Per altro verso il d.l. n. 34/2020 ribadisce che la deroga alla disciplina ordinaria riguarda solo l’assenza dell’accordo individuale, mentre permangono ferme tutte le altre prescrizioni, compresi gli obblighi di informazione (assolvibili in via telematica e semplificati12) e di comunicazione13. Infine il decreto ribadisce che la prestazione di lavoro in forma agile può essere svolta anche con strumenti informatici nella disponibilità del lavoratore, ed estende la possibilità per le amministrazioni pubbliche di utilizzare questa forma di lavoro fino alla fine dell’anno in corso. Innovazioni importanti dunque, che incidono la natura del lavoro agile. La prima e più importante differenza tra l’emergenza e l’ordinario è rinvenibile nell’atto di origine della modalità agile, e cioè nell’assenza della consensualità, sia nel senso che il datore di lavoro può, e talvolta deve, imporla, sia nel senso che il lavoratore in alcuni casi può pretenderla. Una seconda differenza importante riguarda le modalità di esecuzione. La cifra distintiva della modalità agile risiede nel rendere una prestazione lavorativa in un arco temporale definito (orario di lavoro giornaliero) e però senza vincoli né di tempo né di luogo. Quindi, una cosa molto lontana dal telelavoro che, invece, prevede una postazione fissa e generalmente ritmi di lavoro predefiniti. Il lavoro agile può essere reso ovunque e alternando periodi di lavoro a pause senza alcuna ingerenza del datore di lavoro. Balza immediatamente agli occhi la differenza organizzativa tra il lavoro agile emergenziale e quello ordinario: la mobilità limitata (anzi, per alcuni periodi, inibita) ha di fatto avvicinato, fin quasi a sovrapporlo, il lavoro agile al telelavoro. Si comprende anche allora perché il legislatore consenta che il lavoro agile si svolga anche con strumenti informatici anche se non sono messi a disposizione del datore di lavoro Innovazioni queste - non le sole, ma le più rilevanti – che si riconducono al mutamento della funzione del lavoro agile, o meglio, alla prevalenza di una delle due funzioni istituzionali sull’altra. Per la l. n. 81/2017 la finalità del lavoro agile è duplice: efficientare il sistema produttivo, ridurre tempi di spostamento, aumentare la produttività e la competitività, insieme all’

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Si veda la Circ. Inail n. 6/2020 che ritiene sufficiente la trasmissione in via telematica compilando un modello standard, a dimostrazione della inutilità della previsione, modalità questa ora legificata dall’ultimo comma dell’art. 90 del d.l. n. 34/2020. 13 Utilizzando la documentazione a disposizione sul sito del Ministero, e dunque in via informatica.

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armonizzazione dei tempi privati e lavorativi. Oggi, invece, e con riguardo alla prima fase, prevale la necessità di coniugare le esigenze produttive con quelle di salute pubblica; cui si aggiunge, all’indomani del d.l. n. 34/2020, una ulteriore curvature dal lavoro agile che si piega fino a diventare un succedaneo della platea di permessi e congedi di varia natura che il legislatore ha previsto per consentire ai lavoratori (e soprattutto alle lavoratrici!), di attendere alla cura ed alla sorveglianza dei figli o di persone affette da gravi disabilità. Si consuma dunque nel volgere di pochi mesi la mutazione del lavoro agile che perde quasi tutte le caratteristiche dell’agilità per diventare una variante del lavoro a distanza o meglio del telelavoro. Tra l’altro, soprattutto per quanto riguarda l’ amministrazione pubblica, l’obbligo del lavoro agile si inserisce in un tessuto, come si è detto culturalmente e tecnologicamente assai arretrato, per cui accanto a settori che si sono prontamente adattati, come l’intero comparto della istruzione, ve ne sono altri, tra cui purtroppo l’amministrazione della giustizia, che sono rimasti al palo, non sfruttando un’occasione per smaltire, sempre con riferimento alla amministrazione giudiziaria, una parte almeno del contenzioso arretrato.

3. La nuova modalità di lavoro agile: diritto e dovere. Una mutazione così repentina ed imposta da circostanze eccezionali, unita ad una buona dose di improvvisazione da parte del legislatore, solo in parte giustificabile con il rapidissimo evolversi degli eventi, non poteva che dare luogo a dubbi ed incertezze applicative. Ed è soprattutto la configurazione del lavoro agile come diritto alternativo al godimento di congedi e permessi a suscitare le difficoltà maggiori, dal momento che il lavoro agile anche se tale, è però pur sempre lavoro, e non potrebbe e non dovrebbe essere piegato ad esigenze di cura ed assistenza dei figli pre-adolescenti o di persone con disabilità. Procedendo con ordine, la prima questione da esaminare è di carattere generale. Il lavoro agile, seppur materialmente assimilabile al telelavoro, rimane giuridicamente distinto da quest’ultimo; insomma è e rimane, ad onta delle modificazioni subite, un tipo contrattuale diverso. Ne deriva che non dovrebbero residuare dubbi in ordine alla impossibilità di esportare regole e principi14 validi per l’uno nel campo dell’altro. Ma non può escludersi, data la modalità fattuale di svolgimento, che una qualche commistione possa verificarsi15. Una seconda questione, assai rilevante, riguarda la «fonte» del lavoro agile. Nella disciplina standard, come è noto, alla base del ricorso alla modalità agile vi è un accordo. Nella legislazione emergenziale, invece la gamma delle posizioni soggettive è più articolata.

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Peraltro scarni: nelle pubbliche amministrazioni il telelavoro è regolato per legge, mentre nel settore privato vi è solo l’accordo interconfederale del 9 giugno 2004. 15 Si pongono infatti il dubbio Alessi-Vallauri, op. cit., 135.

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Naturalmente è sempre possibile che le parti si accordino per il ricorso al lavoro agile, ma la domanda è se il datore di lavoro abbia un diritto ad imporlo e, correlativamente, se il lavoratore possa rifiutarsi. Non sembra dubbio che dalla sparsa massa di provvedimenti legislativi e non che si è addensata in questi mesi, il lavoro agile emerga come una delle misure che consentono di bilanciare lo svolgimento della prestazione di lavoro con la salvaguardia della salute dei lavoratori. Ne deriva che il datore di lavoro potrà disporre lo svolgimento in modalità agile tutte le volte che lo ritenga necessario per consentire la prosecuzione dell’attività di lavoro in condizioni di sicurezza. Vi è dunque un potere e talvolta, dipendendo dalle circostanze, un dovere di ricorrere alla modalità agile, ed un corrispondente obbligo da parte del lavoratore: il quale dunque non potrebbe rifiutarsi. Così come non potrebbe pretendere di essere assegnato ad una modalità agile ove il datore di lavoro ritenesse di avere adottato tutte le misure imposte dai protocolli. Dell’utilizzo dell’eccezione di inadempimento può parlarsi appunto in caso di inadempimento, e non anche ove il datore di lavoro abbia adottato tutte le misure che sono imposte dai protocolli o eventualmente da accordi con le RSA/RSU16. Ciò non vuol dire che, come è stato osservato17, dell’eventuale malattia contratta dal lavoratore sia responsabile il datore di lavoro che non ha disposto la modalità agile quando avrebbe potuto farlo. La conclusione è fin troppo secca e dipende dalle circostanze di fatto, tanto più ove si tenga presente che il rischio di contagio non è un rischio tipico dell’ambiente di lavoro, ma è un rischio diffuso anche nell’ambiente esterno18. E dunque non si può dare per scontata la responsabilità del datore di lavoro sempre e comunque. Diversa questione è se il datore di lavoro possa scegliere altre strade come ad esempio il ricorso alla Cig o il godimento anticipato delle ferie (maturate). La risposta al primo quesito è certamente affermativa: spetterà al datore di lavoro, a parità di condizioni, scegliere la modalità agile ovvero fare ricorso alla CIG. Quanto al secondo interrogativo, una ordinanza del Tribunale di Grosseto19 ha ritenuto prevalente la fruizione della modalità agile rispetto alla imposizione della fruizione delle ferie. Prescindendo dalle caratteristiche del caso oggetto dell’ordinanza del Tribunale – si trattava infatti di un lavoratore affetto da gravi patologie polmonari – in linea generale, può consentirsi con la soluzione adottata dal Tribunale ogni volta che, almeno, non vi siano reali ostacoli all’ adozione della modalità agile, permodoché un rifiuto da parte del datore di lavoro non sarebbe giustificabile alla stregua del criterio della esecuzione del contratto secondo buona fede.

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In senso contrario Brollo, op. cit., 566, che parla invece di una «gemmazione» di un duplice diritto: al lavoro a distanza ed al rifiuto di svolgimento della prestazione di lavoro in caso di mansioni non essenziali alla prosecuzione dell’attività dell’impresa. 17 Alessi-Vallauri, op. cit., 139. 18 Pascucci, Sistema di prevenzione aziendale, emergenza corona-virus ed effettività, in GC.com, spec. n. 1, 73 ss. 19 Trib. Grosseto, 23 aprile 2020. In senso analogo, l’art. 87, comma 4, d.l. n. 18/2020 prevede che nelle amministrazioni pubbliche, ove non sia possibile ricorrere al lavoro agile, l’amministrazione faccia ricorso alle ferie maturate onde adempiere alle misure di contenimento della diffusione dell’epidemia, ponendo dunque le ferie in posizione suvvalente rispetto alla modalità agile.

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Tralasciando le ipotesi in cui la legge riconosce solo una priorità per lo svolgimento di una modalità agile 20, che non destano questioni particolari, qualche interrogativo lo suscita il caso in cui la legge preveda un vero e proprio diritto allo svolgimento della prestazione di lavoro in modalità agile. Una prima ipotesi è prevista dall’art. 39 c. 1 del d.l. n. 18/2020 che prevede che i lavoratori disabili che si trovino nelle condizioni di cui all’art. 3, c. 3, della l. 5 febbraio 1992, n. 104 o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità nelle stesse condizioni, abbiano diritto a svolgere l’attività di lavoro in forma agile ove tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione di lavoro. La legge di conversione ha però aggiunto un comma 2 bis all’art. 39 il quale estende le «disposizioni di cui ai commi 1 e 2» dell’art. 39 anche ai lavoratori immunodepressi e ai familiari conviventi di persone immunodepresse. Mentre però il comma 1 dell’art. 39 parla di un diritto allo svolgimento dell’attività di lavoro in forma agile, il comma 2 introduce una mera priorità (e per soggetti diversi da quelli presi in considerazione dal comma 1). Il legislatore invece in sede di conversione ha unificato in capo alla medesima categoria di soggetti due situazioni tra loro non compatibili (diritto e priorità) creando così una antinomia non facilmente risolvibile. Un corto circuito ancora maggiore è innescato dall’art. 90 del d.l. n. 34/2020 che intitola in capo ai lavoratori del settore privato che abbiano almeno un figlio minore di anni 14 il diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile «a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore... e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione». La legge di conversione (l. n. 77/2020) ha esteso tale diritto anche ai lavoratori maggiormente esposti al rischio di virus Sars Covid-19 che versino in determinate condizioni (età, immunodepressione, patologie oncologiche, ecc.). Come si vede, mano a mano che le condizioni esterne mutano e si passa da una fase di blocco totale ad una fase di ripresa dapprima moderata e poi sempre più spinta, le funzioni del lavoro agile mutano e si complicano. Il d.l. n. 34/2020 infatti carica il lavoro agile di una terza funzione: non per assicurare comunque la prosecuzione dell’attività produttiva (come nella fase del lockdown) o per garantire la salute di particolari categorie di lavoratori (come nella cd. fase 2), ma per consentire la cura, la custodia, l’assistenza e la formazione dei figli, a questa finalità ubbidisce ancora la modifica introdotta dalla l. n. 77/20202 di cui alla nota n. 21. Il riferimento è alla fase 3, quella della convivenza con il Covid-19 caratterizzata da una normale ripresa delle attività, ma ancora condizionata dall’esistenza di una pandemia o comunque da un’emergenza sanitaria. Con le conseguenti restrizioni ad esempio all’attività scolastica o alla fruizione di attività di cura in generale dei figli (si pensi a minori che si trovano in condizioni di difficoltà o di disabilità). Insomma nella fase 3 il lavoro agile è un succedaneo non del

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In favore dei lavoratori affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa.

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telelavoro, bensì dei permessi che i due grandi maxi decreti di marzo e di maggio hanno elargito proprio per le medesime finalità. Ma il cortocircuito è evidente: mentre infatti il permesso o il congedo sono caratterizzati appunto dall’assenza di obblighi lavorativi; il lavoro agile è lavoro, è attività lavorativa, e se è attività lavorativa non si vede come possa essere compatibile che la cura e l’assistenza dei figli, specie se questa richiede attenzioni continue. Certo l’attività è agile, ma agile non vuol dire inesistente o che possa essere svolta in qualsiasi momento del giorno o della notte, specie ove si consideri che a questa modalità di lavoro si è fatto ricorso in maniera massiccia ed improvvisata senza che fossero stabiliti, specie nel rapporto di lavoro pubblico, quegli obiettivi e programmi m cui la l. n. 81/2017 comunque collega alla modalità agile. Ad una scelta, ancora una volta non meditata, si aggiungono poi le incertezze dal punto di vista della redazione tecnica della disposizione. Va tenuto presente che secondo la Circolare dell’Inps n. 44/2020 i permessi retribuiti non potevano essere fruiti da lavoratori in modalità agile, dal momento che questi ultimi svolgevano appunto attività di lavoro, e dunque si presume che non potessero attendere alla cura dei figli ove prestassero la propria attività con tale modalità. La conseguenza era che se un lavoratore svolgeva la propria attività in forma agile l’altro genitore avrebbe potuto chiedere il congedo. Ma ora l’art. 90 del d.l. n.34/2020 prevede un diritto alla modalità agile proprio finalizzato alla cura dei figli; potrebbe allora ritenersi l’altro genitore non possa chiedere il congedo ex artt. 23-25 del d.l. 18/2020 perché la modalità di lavoro agile può sostituire il congedo. Il c. 1 del d.l. n. 90/2020 prevede invece che il diritto al lavoro agile scatti «a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore». Dunque, in base alla lettera della legge, il diritto al lavoro agile permane anche ove l’altro genitore già svolga la propria prestazione in modalità agile. E permane anche ove l’altro genitore fruisca dei permessi disciplinati dagli artt. 23, 24 e 25 del d.l. n. 18/2020 (come modificati dagli artt. 72 e 73 del d.l. n. 34/2020). Rimane il dubbio se lo stesso genitore – che già lavora in modalità agile ex art. 90 – possa fruire dei congedi per i figli con meno di 12 anni. La risposta positiva è coerente con la lettera della legge21, ma determina conseguenze irrazionali (in realtà innescate dallo stesso legislatore) dal momento che duplica in capo al medesimo soggetto una pluralità di strumenti tutti aventi la stessa finalità. Un gamma davvero ampia di agevolazioni come si vede, poco o nulla coordinate tra di loro, riconducibili alla stessa ideologia pauperistica e compassionevole che ha animato molti degli interventi del Governo e che in definitiva ribalta sulle imprese i costi economici ed organizzativi sia dei congedi (almeno in parte) che del diritto al lavoro agile, che non a

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Così Brollo, op. cit., 566.

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caso la l. n. 81/2017 rimette all’accordo delle parti, dal momento che la sua adozione non è sempre irrilevante per l’impresa. Mentre infatti, per fare solo un esempio, ove la modalità agile sia frutto di un accordo o provvedimento unilaterale è possibile organizzare il lavoro in maniera tale da richiedere dei giorni di presenza sul luogo di lavoro (eventualmente in via alternativa ove entrambi i genitori siano dipendenti della stessa impresa), l’art. 90 del d.l. n. 34/2020 irrigidisce invece la situazione, consentendo ad un lavoratore di “novare” la fonte della modalità agile tramutando un’assegnazione unilaterale in diritto e dunque potendosi rifiutare dal rientrare. A meno che non si interpreti il primo comma dell’art. 90 come una deroga alla disciplina ordinaria che sia però limitata alla sola necessità dell’accordo individuale, mentre per il resto permarrebbe in vigore la normale regolamentazione e dunque anche la titolarità esclusiva del potere direttivo in capo al datore di lavoro. Quest’ultimo potrebbe dunque definire unilateralmente l’organizzazione del lavoro e dunque anche regolare le modalità attraverso le quali il lavoro agile si inserisce all’interno di essa, potendo ciò anche determinare un obbligo di presenza in sede ove ciò non vanifichi o incida sensibilmente sul diritto del lavoratore. Tanto più ove il diritto alla modalità agile sia scollegato da ogni riferimento ad esigenze di cura o di assistenza, tenuto conto che il decreto interviene in un momento in cui l’attività scolastica sarebbe comunque sospesa. Razionalità avrebbe voluto che il diritto al lavoro agile per i genitori di figli con meno di 14 anni di età fosse costruito come una misura residuale, quando altre misure non fossero disponibili, con la conseguenza che se sono utilizzabili i congedi o se già un genitore utilizza questa forma di attività di lavoro non vi è ragione perché ne possa avere diritto anche l’altro genitore. Tanto più ove il diritto alla modalità agile sia scollegato da ogni riferimento ad esigenze di cura o di assistenza, tenuto conto che il decreto interviene in un momento in cui l’attività scolastica sarebbe comunque sospesa. L’unico limite imposto dal legislatore è che la modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione22.Condizione questa che va interpretata non solo come oggettiva impossibilità di svolgimento delle mansioni in modalità agile, come quando ad esempio, l’attività cui è addetto il lavoratore debba necessariamente essere svolta in presenza23, o quando la strumentazione informatica di cui dispone non sia adatta, per ragioni tecniche o di sicurezza informatica, allo svolgimento di una prestazione di lavoro da remoto. Ma anche con riferimento a casi in cui le caratteristiche dell’attività lavorativa siano tali da imporre la presenza presso la sede di lavoro sia pur non in forma continuativa o anche solo sporadica.

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Come già nel caso dell’art. 39, comma 1, d.l. n. 18/2020. È questo il caso deciso da una recentissima ordinanza del Trib. di Mantova (Trib. Mantova, 26 giugno 2020, n. 1054) che ha rigettato la domanda di un lavoratore di vedersi assegnato alla modalità agile ex art. 90 d.l. n. 34/2020 in considerazione del fatto che le mansioni «risultano caratterizzarsi – quanto meno in misura rilevante se non prevalente – per la necessità della presenza fisica del dipendente». La pronuncia è interessante anche perché, pur non assegnando alla circostanza una specifica rilevanza, osserva come la coniuge del ricorrente fosse anche essa in modalità agile.

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4. Le condizioni di lavoro. La legislazione finora intervenuta nulla dispone sulle condizioni di lavoro, se non un generico rinvio alla disciplina contenuta nella l. n. 81/2017. Lo svolgimento della prestazione di lavoro in modalità agile pone però una serie di problemi, primo fra tutti quello del rispetto dell’orario di lavoro. Se è vero che nella modalità ordinaria il lavoro agile si svolge senza precisi limiti di tempo, è anche vero che lo stesso art. 18 della L. n. 81/2017 impone il rispetto dei «limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale» previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva. Se, sempre nella modalità ordinaria, un ruolo decisivo è giocato dall’accordo individua24 le , nel vigore della legislazione emergenziale, come si è più volte osservato, l’accordo manca del tutto o può mancare del tutto. Ne deriva che le parti dovranno comunque concordare un orario di lavoro di massima, che tenga conto anche delle necessità della conciliazione con altre esigenze familiari, o meglio ancora, degli obiettivi che i lavoratori potranno gestire con maggior autonomia25. In assenza di accordi o intese non potrà che trovare applicazione l’orario normale di lavoro. In questa nuova versione infatti il lavoro agile non è correlato a «fasi, cicli e obiettivi», ma rappresenta, ove disposto unilateralmente, una variante del lavoro in presenza, con la conseguenza che sarà assoggettato i medesimi vincoli di orario. In parte diversa è la situazione ove la modalità agile rappresenti oggetto di un diritto del lavoratore, dal momento che, data la consueta superficialità del legislatore, saranno necessariamente le parti a dover trovare un punto di equilibrio. Altri e delicati problemi possono insorgere con riferimento al potere di controllo, che l’art. 21 della l. n. 81/2017 rinvia all’accordo tra le parti, che invece manca nelle ipotesi disciplinate dalla legislazione emergenziale. Tra l’altro va considerato che quest’ultima consente che la modalità agile possa essere attuata anche utilizzando apparecchiature nella disponibilità del lavoratore (art. 90 c. 2 del d.l. n. 34/2020) con evidenti possibilità di commistione con i dati personali dal lavoratore. Anche in questo caso, e come indicazione di larga massima tenendo conto della complessità del problema, in assenza di accordi tra le parti, sempre possibili, le modalità di controllo non potranno che essere stabilite in via unilaterale dal datore di lavoro. Un’altra questione di sicura rilevanza è la spettanza o meno dei buoni pasto. L’art. 20 della l. n. 81/2017 impone che il lavoratore in modalità agile sia destinatario di «trattamento economico e normativo «non inferiore a quello complessivamente applicato… nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda». Ma tale obbligo non può essere dilatato fino a ricomprendervi in maniera meccanica, ogni trattamento, compresi quelli strettamente collegati con la presenza sul luogo di lavoro. Ciò vale in particolare per i buoni pasto, tenuto conto che, a mente del d. m. n. 122 del 7 giugno 2017, il buono pasto è sostitutivo della mensa, e che il lavoro

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Si rinvia sul punto, per brevità, a Chietera, op. cit., 352. Alessi-Vallauri, op. cit., 141.

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agile è svolto presso il domicilio del lavoratore e non semplicemente all’esterno dei locali aziendali. Ne deriva che in tale ipotesi il buono pasto non è da corrispondersi dal momento che l’erogazione sarebbe priva di titolo26. Molto spesso però la corresponsione del buono pasto è prevista dal contratto collettivo, il che introduce un ulteriore elemento di complicazione dal momento che la sua sospensione comporterebbe una disapplicazione della disciplina collettiva, a meno di non ritenere che essa vada intesa come riferita esclusivamente a situazioni ordinarie.

5. Il lavoro agile nella pubblica amministrazione. Nel lavoro pubblico, l’introduzione del lavoro agile a seguito dell’emergenza Covid-19 è stato il frutto di una serie abbastanza disordinata di provvedimenti. Limitando lo sguardo ai principali, si inizia con la Direttiva della Funzione pubblica n. 1/2020 che “invita” le pubbliche amministrazioni a potenziare il ricorso al lavoro agile individuando modalità semplificate e temporanee di utilizzo di questa forma di lavoro. Alla Direttiva fa seguito il d.l. 2 marzo 2020 n. 9, il cui 18 (poi abrogato dalla l. n. 27/2020) istituzionalizza il lavoro agile nel rapporto di lavoro pubblico facendogli perdere il carattere di sperimentalità previsto dalla l. 7 agosto 2015 n. 124. La nuova vita del lavoro agile nella pubblica amministrazione è confermata dal DPCM 9 marzo 2020 che lo classifica come modalità ordinaria di lavoro nella pubblica amministrazione eccezion fatta per un lotto limitato di attività. Esattamente un giorno prima, il DPCM 8 marzo 2020 aveva però raccomandato ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere il ricorso alle ferie o a periodi di congedo ordinario. Tralasciando l’ulteriore Direttiva della Funzione pubblica del 12 marzo 2020, peraltro non del tutto in linea con quanto disposto dai DPCM del 9 marzo, a mettere un punto fermo è l’art. 87 del d.l. n. 18/20202 che conferma come il lavoro agile sia la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione di lavoro fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica ad eccezione delle attività indifferibili e/o collegate all’emergenza sanitaria e prescindendo dall’accordo individuale L’art. 90 del d.l. n. 34 conferma l’impianto precedente spostando il termine finale di ricorso al lavoro agile al 31 dicembre 2020. Una disciplina dunque non molto diversa dal quella prevista per il lavoro privato. Molto diverso però, e come già si è osservato, è il contesto nel quale il lavoro agile si inserisce. Innanzitutto per le dimensioni del fenomeno. Nel settore pubblico si è avuto un colossale ricorso al lavoro agile, anche come conseguenza della inapplicabilità a questo settore della cassa integrazione guadagni.

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Dubitativamente Caruso, op.cit., 239 ss., la medesima soluzione è stata accolta per i dipendenti pubblici. Si veda anche il recentissimo decreto del T. Venezia, 8 luglio 2020, n. 3463/2020 che ha rigettato la domanda della Funzione Pubblica Cgil volta ad ottenere l’apertura di una fase di contrattazione sul diritto al buono pasto per i lavoratori in modalità agile, ritenendo che un tale diritto non spetti a tale categoria di lavoratori. Sull’argomento anche Cass., 28 luglio 2020, n. 16135.

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Non solo, ma terminata la fase di chiusura totale, mentre nel settore privato le attività sono riprese, in quello pubblico, il lavoro agile continua ad essere la «modalità ordinaria» di svolgimento della prestazione di lavoro fino al 31 dicembre 2020 senza che vi sia una plausibile ragione per questa sfasatura dei tempi. In secondo luogo, è certo come esso si sia attuato senza che fosse possibile, non fosse altro che per le dimensioni stesse del fenomeno, una qualche programmazione ed organizzazione delle attività, se non per settori limitati. Se si somma il dato alla scarsa, per non dire nulla, confidenza che dirigenza, dipendenti e organizzazioni sindacali hanno con la cultura del lavoro agile non sembra che questa esperienza abbia dato frutti fecondi, almeno nella generalità dei casi. Dimodiché non sembrano ingenerose le osservazioni critiche formulate sulla effettiva produttività del lavoro agile nel rapporto di lavoro pubblico27. È ancora presto per effettua fare delle valutazioni ponderate, ma sarebbe interessante conoscere se in questi mesi le amministrazioni pubbliche abbiano o non effettuato (o effettueranno) una mappatura delle attività suscettibili di essere svolte in modalità agile anche oltre la fine, si spera, prossima della emergenza sanitaria. Così come sarebbe utile sapere se le amministrazioni pubbliche abbiano utilizzato (o utilizzeranno) questa esperienza per definire, almeno in linea di massima, progetti di lavoro commisurati al raggiungimento ed alla misurazione dei risultati, in assenza dei quali il lavoro agile verrebbe inevitabilmente svilito e degradato, definitivamente, a variante linguistica del telelavoro.

6. Il dopo. L’esperienza del lavoro agile nei mesi passati si è svolta sotto il segno dell’emergenza; ciò non vuol dire però che tutto quanto è accaduto sparirà senza lasciare traccia a condizione beninteso, come peraltro non è affatto probabile, che si faccia tesoro di ciò che è accaduto. Secondo una narrazione che sembra aver preso piede, il lavoro agile rappresenta la frontiera del domani, anzi già dell’oggi, cui la gran parte dei lavoratori potrà ricorrere. Secondo uno studio della Fondazione Consulenti del lavoro – pubblicato su Il Sole 24 ore del 20 luglio 2020 – circa il 40% delle aziende con più di 2 dipendenti interessate a forme di lavoro agile nei mesi del blocco totale, è tornato al lavoro; mentre la platea dei lavoratori occupabili con tale modalità sarebbe pari a circa 3,8 milioni. Ma si tratta appunto di una narrazione. La realtà è invece più cruda. È indubbio che le condizioni nelle quali il lavoro agile si è diffuso siano state tali da far sì che esso fosse assai diverso dal modello immaginato dal legislatore appena tre anni

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Innescate come è noto da un’intervista rilasciata da Pietro Ichino e dalla successiva piccata risposta della Ministra della Funzione pubblica che ribadisce come il lavoro agile sia stato un successo, il che non spiega però le disfunzioni che si sono avute in tutti questi mesi in diversi settori della amministrazione pubblica.

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Il lavoro agile in Italia: prima, durante e dopo la pandemia

fa: più che smart working in molti casi è stato una dislocazione al domicilio delle attività svolte in via di normalità dal luogo di lavoro. La fine dell’emergenza comporterà dunque anche una riduzione dei numeri che certamente sarà di ausilio. Difatti, ammesso e non concesso che tutto possa farsi dal domicilio privato – ed è fortemente dubbio, per non dire certo, che così non sia – vi sono in concreto una serie di ostacoli alla diffusione massiccia del lavoro agile che non sono facilmente superabili. Il tessuto produttivo, organizzativo e culturale non è ancora pronto per una diffusione su ampia scala del lavoro agile. Va poi aggiunta una insufficiente informatizzazione; mentre anche la dimensione sociale del lavoro agile rappresenta un elemento tutt’altro che trascurabile. Sia perché si rischia un effetto di segregazione e di discriminazione della manodopera femminile (come già in parte è successo)28, sia perché le postazioni di lavoro sono spesso inesistenti all’interno delle mura domestiche con portatili utilizzati dall’intero nucleo familiare ed in maniera indistinta e con conseguenti rischi per la sicurezza dei dati. Ma anche da questo contesto emerge qualche utile indicazione. È verosimile ipotizzare una parte almeno della grande massa di lavoratori agili continuerà a svolgere in questa modalità la propria prestazione di lavoro: i numeri cioè non ritorneranno a quelli del mondo pre Covid-19. L’emergenza ha reso necessario dotarsi di tecnologie informatiche in maniera più diffusa che in passato ed adattare anche le procedure organizzative e decisionali. Alcune aziende proseguiranno per la strada di un miglioramento dei sistemi per ottimizzare le risorse e meglio armonizzare i tempi di lavoro. Ma se questo è un patrimonio che si spera non andrà perso, è altrettanto verosimile ipotizzare che il lavoro agile si declinerà al plurale, o almeno che concretamente si avranno due tipi unificati solamente dal nome. Il lavoro agile strettamente inteso, corrispondente al modello ideale delineato dal legislatore del 2017, ha avuto fino ad ora una modesta diffusione. Ma grazie all’emergenza, il lavoro agile si è diffuso e con esso una maggiore propensione verso questa forma di lavoro. Ciò determinerà un ricorso al lavoro agile su scala più ampia di prima, ma non larghissima. Il lavoro agile in senso stretto richiede, come si è osservato, una organizzazione del lavoro non di stampo fordista, ma di tutt’altro calibro, e dunque almeno nel prossimo futuro è destinato ad interessare fette non larghe di lavoratori. Ed è indubbio che la maggiore diffusione del lavoro agile, ma non solo, determinerà nei prossimi anni delle modalità di svolgimento della prestazione di lavoro e di determinazione della retribuzione basate anche e soprattutto sui risultati, e non più solo sul tempo. Ed anzi, è proprio il tempo di lavoro che sembra destinato ad essere uno dei temi, anche di riflessione scientifica, del domani. Ma accanto al lavoro agile in senso forte se ne diffonderà anche una forma più modesta, prevalentemente orientata alle esigenze di cura e di assistenza familiare, con una generica vocazione verso la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, non ancorato a progetti

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Si veda l’intervista di Marco Bentivogli a La Repubblica del 4 marzo 2020, Accordi aziendali per tutelare chi lavorio da casa. Ma evitiamo danni alle donne.

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di lavoro o appannaggio di lavoratori molto professionalizzati, ma semplicemente una diversa modalità di svolgimento di una prestazione di lavoro che era e rimane di stampo tradizionale. Non è necessariamente un lascito di seconda mano, ma può rappresentare una ragionevole possibilità di effettuare delle forme di conciliazione, limitate e circoscritte, diverse dai tradizionali permessi e congedi, specie ove si accompagnino ad anche modeste riorganizzazioni dell’attività lavorativa in maniera tale da renderla misurabile ed al tempo stesso non ancorata a precise scansioni temporali. Ma anche una forma di lavoro agile cosi apparentemente semplice richiede che siano soddisfatte una serie di condizioni, prima fra tutte la predisposizione di una cornice legale che finora non c’è stata. La sovrapposizione tra lavoro agile e telelavoro ha fatto sì che il primo avesse tutte le caratteristiche del secondo senza averne però la cornice giuridica. Si è finito così con l’addossare ai lavoratori una serie di costi (ad es, ma non solo, di energia elettrica, o anche di soluzioni logistiche) che invece dovrebbero essere a carico delle imprese, come in effetti già avviene per il telelavoro. La cornice regolativa è però auspicabile che non sia demandata all’ennesimo contratto nazionale, ma sia rinviata ad accordi aziendali, più agili snelli e maggiormente in grado di adattarsi alle singole condizioni di lavoro. E poi c’è necessità di maggiore semplificazione. I diversi interventi hanno previsto una facilitazione degli obblighi informativi; sarebbe bene che si procedesse per questa strada con maggior coraggio, non facilitando, ma abolendo gli obblighi di informazione e di comunicazione previsti dalla l. n. 81/2017 che sono del tutto inutili. Ma ci sarà almeno un altro lascito che verrà da questa emergenza, e cioè una rivoluzione negli spazi. È probabile che gli spazi aziendali saranno ridimensionati e riorganizzati tenendo conto che una parte almeno della popolazione aziendale non sarà sempre fisicamente presente sul luogo di lavoro: ciò determinerà un dimensionamento degli spazi basato non più sul numero dei singoli lavoratori, bensì sulla media delle presenze. È evidente che la contrazione degli spazi sarà un fenomeno innescato dal lavoro agile del secondo tipo basato su modelli di lavoro tradizionale, ma proprio per questo destinato ad una maggiore diffusione almeno nel breve-medio periodo.

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Carlo Zoli

La tutela dell’occupazione nell’emergenza epidemiologica fra garantismo e condizionalità*1 Sommario :

1. Premessa: la questione sociale e il diritto al lavoro. – 2. Il blocco dei licenziamenti nel sistema del diritto dell’emergenza. – 3. Segue: i principali nodi interpretativi. – 4. La selettività e condizionalità della concessione di benefici pubblici nel sostegno alle imprese: l’art. 1, d.l. n. 23/2020 e la sua ratio. – 5. Segue: b) l’art. 1, d.l. n. 23/2020 e il suo testo. – 6. Le prospettive future: tra diritto dell’emergenza e conferma dei nuovi modelli.

Sinossi. Nel presente saggio l’A. si interroga sulla tutela dell’occupazione durante l’emergenza sanitaria, soffermandosi in particolare sul c.d. blocco dei licenziamenti e sugli impegni gravanti sulle imprese che abbiano ottenuto finanziamenti pubblici. Abstract. In this essay, the A. wonders about the protection of employment during the pandemic, focusing in particular on the freezing of redundancies and on the commitments and duties of companies that have received public funds. Parole chiave: Tutela dell’occupazione – Emergenza sanitaria – Blocco dei licenziamenti – Benefici pubblici

1. Premessa: la questione sociale e il diritto al lavoro. Non vi è dubbio che la pandemia abbia sollevato una questione sociale gravissima. È in gioco la sopravvivenza stessa di numerose imprese e quindi di tanti posti di lavoro.

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Il presente contributo è destinato agli Studi in onore di Alessandro Garilli.


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L’interesse sociale alla difesa dell’occupazione assurge evidentemente al rango di interesse pubblico, tanto più che è in gioco anche pubblico denaro erogato ai privati, tra cassa integrazione guadagni e finanziamenti alle imprese. Pertanto al momento interamente privatistico di definizione degli interessi si abbina un piano eminentemente pubblicistico2. La dimensione individuale è solo una parte del tutto, neanche la più importante, a fronte dei valori e della dimensione della solidarietà, che evidentemente si impone. Le misure in tema di tutela dell’occupazione si inseriscono nel contesto più ampio della disciplina emergenziale, unitamente alla «tante, costose (e inevitabilmente imperfette e disordinate) misure dirette a contenere gli effetti negativi dell’emergenza sul sistema economico nel suo complesso, sulle imprese, sulle lavoratrici e i lavoratori, sulle loro famiglie»3. Il percorso su questo versante muove sostanzialmente in due direzioni. Da un lato, si fonda su una forma di tutela diretta che prevede il blocco dei licenziamenti per ragioni oggettive (art. 46, d.l. n. 18/2020, convertito dalla l. n. 27/2020 e novellato dall’art. 80, d.l. n. 34/2020, convertito dalla l. n. 77/2020) e l’intervento della CIG, anzi addirittura della CIGO, a prescindere dalla possibilità di ripresa produttiva, con causale Covid-19 o in deroga (artt. 19 e 22, d.l. n. 18/2020, convertito dalla l. n. 27/2020 e novellati dall’art. 71, d.l. n. 34/2020, convertito dalla l. n. 77/2020), pur a fronte di eventuali situazioni di crisi difficilmente risolvibili, e persino in caso di fallimento senza esercizio provvisorio. D’altro lato, viene introdotta una forma di tutela indiretta, consistente nell’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali qualora l’impresa benefici della garanzia per i finanziamenti da parte di SACE (art. 1, d.l. n. 23/2020, convertito dalla l. n. 40/2020). Alcuni punti fermi emergono evidenti in chiave sistematica. Innanzitutto, la difesa dei posti di lavoro, la stabilità dell’occupazione e la garanzia del reddito vengono elevate ad esigenza e diritti fondamentali, nella prospettiva di un garantismo individuale forte, anche se a tempo, su un piano, e dell’adozione di misure incentivanti, la cui temporaneità è tutt’altro che di breve durata, sull’altro. In secondo luogo, diventa centrale il ruolo dell’intervento pubblico, «una sorta di Statoprovvidenza che si fa carico di tutti i bisogni dei cittadini»4. Da ultimo, il ruolo del sindacato viene di nuovo valorizzato, come è accaduto in tutti i casi di crisi economica. Ciò sia a livello macro o generale, sia a livello micro o di singola impresa. Sul primo versante, anche se non sembra che, quanto meno formalmente, si possa parlare di vero e proprio reinserimento dei sindacati nei centri decisionali di gestione pubblica della crisi economica, si sono riproposte forme di concertazione sociale specie in tema di sicurezza sul lavoro5. Sul secondo versante sono stati introdotti meccanismi volti

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Cfr. D’Antona, L’intervento straordinario della cassa integrazione guadagni nelle crisi aziendali: interessi pubblici, collettivi, individuali, in RGL, 1983, I, 15 ss. Così Scarpelli, Blocco dei licenziamenti e solidarietà sociale, in corso di pubblicazione in RIDL, 2020, § 1. Così Mariucci, Cinque cose che la pandemia sta già cambiando, in http://www.strisciarossa.it/pandemia-e-cambiamento/. In materia di sicurezza sul lavoro cfr. spec. Marazza, L’art. 2087 c.c. nella pandemia (Covid-19), in corso di pubblicazione in RIDL, 2020, I, che sottolinea la «peculiarità di un sistema di gestione della sicurezza del lavoro incentrato per la prima volta sul rinvio ad atti

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a favorire la codeterminazione di regole, con una significativa combinazione tra forme di controllo pubblico e sindacale, ad esempio con riguardo alla CIGO specie in deroga e alle forme di tutela indiretta dell’occupazione, cui si è accennato in precedenza.

2. Il blocco dei licenziamenti nel sistema del diritto dell’emergenza.

La previsione di un blocco totale dei licenziamenti per ragioni oggettive ha un precedente nel d.lgs.lt. n. 523/1945 per le imprese operanti in alcune Province dell’Alta Italia6. Previsto inizialmente per poco più di un mese, fu prorogato con possibili deroghe sino all’agosto 1947, ma era comunque soggetto a condizionalità, visto che non si applicava «ai lavoratori che, senza grave giustificato motivo, rifiutino di accettare altra occupazione che sia loro offerta presso altro datore di lavoro», e si inseriva in un contesto normativo, oltre che economico, molto diverso. Poi la l. n. 675/1977 aveva introdotto il blocco dei licenziamenti conseguente all’intervento della CIGS per causa di «crisi aziendale di particolare rilevanza sociale» o di dichiarazione di «stato di crisi occupazionale», tanto che non si mancò di parlare di «licenziamenti impossibili»7. Era uno dei momenti più rilevanti del c.d. diritto del lavoro dell’emergenza della seconda metà degli anni ’70. Pur animato dalla stessa finalità di salvaguardare l’occupazione, quello introdotto dall’art. 46, d.l. n. 18/2020 (con successive modifiche e integrazioni) è, invece, un blocco totale che riguarda l’intero territorio nazionale e qualunque datore di lavoro, a prescindere da qualsiasi connessione del licenziamento con il Covid-19 e senza alcuna condizionalità, ed è destinato ad operare persino nel caso di cessazione totale dell’attività dell’azienda e di fallimento senza esercizio provvisorio, dato che non è entrato in vigore il c.d. Codice della crisi d’impresa8: quindi un’irrecedibilità assoluta, più forte persino di quella apprestata a fronte di altre situazioni cruciali quali la tutela della gravidanza e della maternità. Del resto vengono in rilievo valori costituzionali fondamentali, quali la libertà di iniziativa economica privata e il diritto al lavoro, il cui bilanciamento ed il conseguente punto di equilibrio possono mutare9, a maggior ragione in una situazione di emergenza come

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di autonomia negoziale collettiva» (§ 2), anche se non si spinge a riconoscere l’esistenza di un vero e proprio fenomeno concertativo. V. anche Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale, in DSL, 2019, 98 ss. Cfr. Scarpelli, Blocco dei licenziamenti, cit.; Pileggi, Una riflessione sul diritto del lavoro alla prova dell’emergenza epidemiologica e Passalacqua, I limiti al licenziamento nel D.L. n. 18 del 2020, in Pileggi (a cura di), Il diritto del lavoro dell’emergenza epidemiologica, Edizioni LPO, 2020, rispettivamente 3 e 153. Così Mariucci, I licenziamenti “impossibili”: crisi aziendali e mobilità del lavoro, in RTDPC, 1979, 1360 ss. Cfr. Preteroti, Delogu, I licenziamenti collettivi e individuali al tempo del coronavirus, in Pileggi (a cura di), Il diritto del lavoro, cit., 174. Nella specie, stante la sospensione dei rapporti di lavoro, il blocco dei licenziamenti rischiava di penalizzare i lavoratori, i quali sarebbero rimasti dipendenti dell’impresa fallita senza poter essere licenziati e quindi senza alcun ammortizzatore sociale, se non fosse intervenuto il riconoscimento della possibilità di utilizzare la cassa integrazione guadagni. Sul punto, anche per ben più ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, sia consentito rinviare a Zoli, Il puzzle dei licenziamenti

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l’attuale. A fronte di eventi straordinari e di un interesse nazionale, pubblico e sociale evidente, l’affermarsi di un principio solidaristico giustifica una misura quale quella predisposta. La soluzione è del resto comune ad altri Paesi europei, che hanno talora disposto il blocco per tutta la durata dell’emergenza e non con una data prestabilita10. Tuttavia essa può essere accolta alla duplice condizione che sia temporanea e che non sussistano costi per le imprese, ovvero che la CIG copra completamente il periodo di blocco, se si considera che l’esonero dall’obbligo di pagare le retribuzioni opera solo in caso di impossibilità oggettiva per il datore di ricevere le prestazioni lavorative. Di conseguenza, la mancata corrispondenza tra la proroga del blocco sino al 17 agosto 2020 e la copertura della CIG (il cui intervento è stato ammesso in due fasi, la prima di 5 settimane entro agosto, la seconda di altre 4 settimane dal 1° settembre al 31 ottobre 2020, cosicché restano scoperte almeno 6 settimane), si rivela incostituzionale per contrasto con l’art. 41, comma 1, Cost.11. Nell’affrontare il contenuto della norma, il nodo preliminare concerne la scelta di fondo tra un approccio esegetico tradizionale o formale e una lettura costituzionalmente orientata, che tenga conto dei valori posti alla base del divieto di licenziamento e che conduca a ritenere tale misura applicabile a tutti i licenziamenti per ragioni non soggettive. Il primo approccio si impone se si considera, da un lato, che la soluzione adottata ha natura eccezionale, come buona parte del diritto emergenziale. Quest’ultimo, peraltro, non costituisce un sistema generale in sé compiuto tale da indurre a concludere che le eccezioni al diritto comune siano elevate al rango di regola nell’attuale fase storica; di conseguenza non si giustifica un’interpretazione analogica o estensiva generalizzata. Dall’altro lato, una lettura costituzionalmente orientata presuppone un vuoto normativo che nella specie non ricorre e a tal fine neppure il principio solidaristico, in precedenza ricordato a giustificazione della legittimità del blocco, può consentire che si vada oltre l’interpretazione effettuata secondo i canoni ermeneutici ordinari12.

3. Segue: i principali nodi interpretativi. I numerosi problemi interpretativi che la normativa in esame solleva vanno esaminati distintamente alla luce di quanto appena rilevato e possono essere ricondotti ad alcune macro questioni.

ed il bilanciamento dei valori tra tecniche di controllo e strumenti di tutela, in corso di pubblicazione in Del Punta (a cura di), Valori e tecniche nel diritto del lavoro, Firenze University Press, § 4. 10 Cfr. Chietera, Covid-19 e licenziamenti, in Pileggi (a cura di), Il diritto del lavoro, cit., 151, con riferimento all’ordinamento spagnolo (RDL n. 8/2020). 11 Sulle stesse posizioni cfr. Del Punta, Il blocco dei licenziamenti si allunga da 2 a 5 mesi, in Norme & tributi. Focus, Il Sole 24 ore, 23.05.2020, 12. Contra Scarpelli, Blocco dei licenziamenti, cit., § 2. 12 Su tale linea ricostruttiva si pongono, invece, F. Scarpelli, Blocco dei licenziamenti, cit., spec. § 1 e Gargiulo, Luciani, Emergenza Covid-19 e “blocco” dei licenziamenti: commento all’art. 46 del d.l. n. 18/2020 (conv. in l. n. 27/2020), in Bonardi, Carabelli, D’Onghia, Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Ediesse, 2020, 207.

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Innanzitutto, vanno ricostruiti i limiti temporali del divieto di recesso. Da un lato, per i licenziamenti collettivi, si pone sostanzialmente soltanto il problema delle procedure pendenti, ed in special modo di quelle avviate prima del 23 febbraio 2020. In particolare è controverso se le trattative non ancora concluse potessero proseguire in pendenza del blocco e soprattutto se, qualora a quella data fossero invece terminate, magari con un accordo sindacale, siano legittimi i successivi licenziamenti. Sulla prima questione, se nella fase del lockdown la prosecuzione per via telematica, specie per la fase amministrativa, era discutibile stante l’interruzione delle attività degli uffici amministrativi competenti e la sospensione dei termini dei procedimenti amministrativi13, alla fine della stessa la ripresa dei negoziati appare certamente prospettabile e non vietata; tuttavia, si tratta di verificare se sia cambiata la situazione sulla quale si fondava la procedura avviata e se non risulti invece preferibile ripartire nuovamente su altre basi quantitative o causali dopo il 17 agosto 2020. Quanto alla seconda questione, se si considera che la procedura si conclude con l’irrogazione dei licenziamenti e l’invio delle comunicazioni agli enti, sembra decisamente preferibile la tesi che propende per l’operatività del divieto14. Più agevole è, invece, la soluzione relativa alle procedure avviate tra il 23 febbraio e il 17 marzo 2020, delle quali è espressamente prevista la sospensione con ripresa alla fine del blocco, senza che rilevi lo sforamento dei termini (di 45 + 30 giorni) previsti dalla legge n. 223/1991. Fermo restando che, se le condizioni si saranno modificate, il datore di lavoro potrà avviare ab initio una nuova procedura. Al contrario, infine, le procedure avviate a partire dal 17 marzo 2020 sono nulle e non solo sospese, dato che la norma afferma espressamente che il relativo avvio è “precluso”. Maggiori dubbi sorgevano inizialmente con riguardo ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Per quanto concerne quelli intimati dopo il 23 febbraio e prima del 17 marzo 2020, la relativa validità, desumibile dalla lettera della norma, risulta confermata dalla novella introdotta dall’art. 80, d.l. n. 34/2020, che ha aggiunto all’art. 1, d.l. n. 18/2020 un comma 1-bis, il quale conferisce al datore di lavoro la piena discrezionalità di revocare «in ogni tempo» il recesso adottato nel periodo in questione, «in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300», evidentemente sul presupposto che il blocco non operi, «purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale». Relativamente alla possibilità di proseguire la procedura ex art. 7, l. n. 604/1966 avviata prima del 17 marzo, la novella apportata all’art. 46, comma 1, d.l. n. 18/2020 dall’art. 80, d.l. n. 34/2020 ha risolto il dubbio confermando che anch’essa rimane sospesa (del resto erano sospesi i termini dei procedimenti amministrativi), senza decadere ex lege.

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Cfr. analogamente Zambelli, Emergenza Covid-19 e disciplina dei licenziamenti, in GLav, 2020, n. 14, 44; Gargiulo, Luciani, Emergenza Covid-19, cit., 209 ss. 14 Cfr. in tal senso Aiello, Emergenza Covid-19: blocco dei licenziamenti e i termini di impugnazione dei licenziamenti (ed altri casi soggetti a decadenza), in Newsletter Wilkilabour.it, 2 e Gargiulo, Luciani, Emergenza Covid-19, cit., 214; contra Preteroti, Delogu, I licenziamenti collettivi, cit., 171.

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Resta il dubbio se il licenziamento intimato dopo la fine del blocco possa retrodatare i propri effetti alla data di avvio della procedura ex art. 1, comma 41, l. n. 92/2012: la specialità della situazione e della norma contenuta nell’art. 46, d.l. n. 18/2020 fa propendere per la decorrenza degli effetti dalla data del licenziamento. Rimane, infine, la questione sollevata dalla mancanza di tempestività del Governo nell’emanazione del d.l. n. 34/2020 relativamente alla sorte dei licenziamenti intimati e giunti a conoscenza del lavoratore (trattandosi di atti recettizi) il 17 o il 18 maggio 2020, ovvero nel periodo di vacatio legis in cui il divieto di licenziamento era scaduto e la nuova norma che ne ha prorogato gli effetti non era ancora entrata in vigore. Il principio di irretroattività della legge e quello secondo cui tempus regit actum impongono di optare per la mancata operatività del divieto15. Di conseguenza, nessuna censura di nullità potrebbe essere mossa al licenziamento adottato da un datore di lavoro non tenuto ad esperire alcuna procedura collettiva o individuale. Ma anche nel caso di recesso per giustificato motivo oggettivo adottato senza l’espletamento del tentativo di conciliazione obbligatorio, l’effetto risolutivo si produrrebbe comunque, vista l’applicabilità della sola tutela indennitaria debole nel caso di mero vizio procedurale. Al contrario, l’omissione della procedura collettiva può condurre direttamente alla reintegra, quanto meno a seguito di un ricorso per condotta antisindacale. In secondo luogo, è necessario soffermarsi sul campo di applicazione soggettivo e oggettivo del blocco dei licenziamenti. Le fattispecie nelle quali opera sono expressis verbis tutte quelle ricondotte alla nozione di giustificato motivo oggettivo, senza alcuna esclusione, ovvero tanto i licenziamenti conseguenti a scelte organizzative del datore di lavoro, quanto quelli dovuti a situazioni o vicende del lavoratore oggettivamente considerate, a partire dalla sua inidoneità sopravvenuta: in altre parole, tutti quei tipi di recesso che, senza distinzioni, devono essere preceduti dallo svolgimento del tentativo preventivo di conciliazione di cui all’art. 7, l. n. 604/1966 nell’ambito di applicazione dell’art. 18 st. lav. Diversamente i licenziamenti non sono preclusi qualora siano adottati per causali diverse, in quanto non rientranti nel giustificato motivo oggettivo. È il caso del superamento del periodo di comporto16, come conferma indirettamente lo stesso legislatore emergenziale nella misura in cui testualmente esclude che possano rilevare i periodi di assenza dal lavoro dovuti all’isolamento forzato o al Covid (art. 26, d.l. n. 18/2020)17, a contrario ammettendo che le assenze dovute a malattie diverse, invece, rilevano.

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Cfr. analogamente Prioschi, Zambelli, Licenziamenti, stop al divieto da domenica, in Il Sole 24 ore, 19 maggio 2020. Nello stesso senso Zambelli, Emergenza Covid-19, cit., 46 s. e Chietera, Covid-19, cit., 150. In termini dubitativi si esprime, invece, Scarpelli, Blocco dei licenziamenti, cit., § 4. 17 Per un’esauriente trattazione sul punto cfr. Rondina, Quarantena, permanenza domiciliare fiduciaria e malattia, in Pileggi (a cura di), Il diritto del lavoro, cit., 69 ss. 16

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Lo stesso dicasi per il licenziamento del personale impiegato in un appalto, a condizione che «sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore» (art. 46, d.l. n. 18/2020, come novellato dalla l. n. 27/2020 di conversione)18. Ad analoga conclusione si può pervenire nell’ipotesi di recesso ante tempus da un contratto a termine: al riguardo il licenziamento è, comunque, legittimo soltanto se ricorre una giusta causa in base alla regola generale dell’art. 2119 c.c., mentre i casi di impossibilità sopravvenuta sono ormai ricondotti al giustificato motivo oggettivo dalla giurisprudenza di gran lunga prevalente19. Ugualmente il blocco non opera per il recesso dovuto al mancato superamento della prova, ovvero nel caso di licenziamenti ad nutum. La soluzione si giustifica se si considera che, con riguardo al lavoro domestico, non si possono gravare le famiglie di oneri magari non sostenibili; i lavoratori pensionabili non rimangono, comunque, senza un reddito; per gli apprendisti, così come per i lavoratori in prova, non si può ipotizzare di costringere il datore di lavoro a stabilizzarne il rapporto impedendogli di recedere. Quanto, infine, ai dirigenti, per i quali pure una giustificazione è di solito richiesta dai contratti collettivi20, l’inapplicabilità del blocco dei licenziamenti – nella specie soltanto individuali, visto che anche i dirigenti rientrano nella fattispecie del licenziamento collettivo – trova corrispondenza nell’impossibilità di far ricorso alla cassa integrazione guadagni. La medesima soluzione può essere estesa al recesso per mancato superamento della prova e per ragioni disciplinari, al di là dei due ulteriori casi di nullità del licenziamento per ragioni soggettive introdotti dagli artt. 23, comma 6 e 47, comma 2, d.l. n. 18/2020, convertito dalla l. n. 27/2020 (genitori di figli minori di età compresa fra i 12 e i 16 anni in aspettativa e genitori conviventi che assistano un figlio disabile)21. Tuttavia, trattandosi in entrambi i casi di licenziamenti “causali”, non si può escludere la configurabilità di una frode alla legge, quando si invochi la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo per eludere l’applicazione della norma imperativa in esame22: una fattispecie che potrebbe ricorrere qualora emergesse l’insussistenza del fatto contestato. Alla stessa conclusione è possibile pervenire anche nel caso di mancato superamento della prova, qualora venisse dimostrato che la vera ragione del recesso è quella di tipo economico, fermo restando che tale eventualità è effettivamente molto più improbabile. In terzo luogo, vanno esaminate le conseguenze derivanti dalla violazione dell’art. 46, d.l. n. 18/2020. Se si considera che, come sottolineato in precedenza, vengono in rilievo anche finalità di interesse pubblico, non sembra revocabile in dubbio che il licenziamento

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Cfr. sul punto Passalacqua, I limiti al licenziamento, cit., 161 s. Cfr., da ultimo, Colosimo, Licenziamenti individuali, in Del Punta, Scarpelli (a cura di), Codice commentato del lavoro, Wolters Kluwer, 2020, 857 ss. 20 Secondo Gargiulo, Luciani, Emergenza Covid-19, cit., 217 s. l’esistenza del blocco non può non incidere sulla valutazione giudiziale della giustificatezza del licenziamento, «anche qui giusta la ratio dell’intervento ispirata al principio di solidarietà ex art. 2 Cost. di cui tutti lavoratori sono beneficiari». La tesi non appare condivisibile sulla base di quanto esposto retro nel testo alla fine del § 2. 21 Per un’esauriente ricostruzione cfr. Gargiulo, Luciani, Emergenza Covid-19, cit., 218 ss. e Passalacqua, I limiti al licenziamento, cit., 163 s. 22 Cfr. ancora Gargiulo, Luciani, Emergenza Covid-19, cit., 225 ss., spec. 227 e Passalacqua, I limiti al licenziamento, cit., 160. 19

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adottato debba essere considerato nullo per contrarietà ad una norma imperativa23. Ne deriva l’operatività del meccanismo reintegratorio, sicuramente in caso di applicabilità dell’art. 18, l. n. 300/1970, probabilmente anche per i lavoratori con contratto a tutele crescenti, a meno che non si ritenga che a tal fine sia necessario il ricorrere di una nullità testuale e che nella specie si verifichi un’ipotesi di mera nullità virtuale, cui non conseguirebbe l’operatività del meccanismo previsto dall’art. 2, d.lgs. n. 23/201524: eventualità nella quale, peraltro, troverebbe applicazione quanto meno il regime della reintegra di diritto comune25.

4. La selettività e condizionalità della concessione di

benefici pubblici nel sostegno alle imprese: l’art. 1, d.l. n. 23/2020 e la sua ratio.

L’obiettivo di tutelare l’occupazione viene perseguito altresì tramite l’art. 1, d.l. n. 23/2020, convertito dalla l. n. 40/2020, ovvero la previsione che subordina la concessione da parte di SACE s.p.a. della garanzia per finanziamenti all’assunzione in capo all’impresa beneficiaria dell’«impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali»: un impegno che evidentemente dovrà essere riportato nel contratto commerciale tra impresa e SACE. La disposizione è stata attaccata duramente da Confindustria, che ne ha chiesto l’eliminazione in sede di conversione. La norma è complessa, ma sembra opportuno distinguere tra ratio e redazione, anche ai fini di una valutazione d’insieme. La sua ratio è assolutamente chiara. La norma si colloca in un contesto sistematico che, con riguardo alla fine del periodo in cui opera il divieto per le imprese di procedere a licenziamenti per ragioni oggettive, cerca di introdurre misure o incentivi volti a favorire la conservazione dei livelli occupazionali, o, meglio, la relativa gestione congiunta. Se il blocco è una misura contingente, di breve periodo, l’impegno alla gestione con i sindacati ha invece caratteristiche ben diverse, se si considera che i finanziamenti pubblici per i quali è rilasciata la garanzia sono erogati per una durata che può arrivare a 6 anni. In ogni caso ratio e logica non sono nuove. Che l’intervento pubblico nell’economia, specie tramite la concessione di flussi finanziari a forze produttive private, operi secondo meccanismi di selettività e condizionalità è soluzione più volte sperimentata e sicuramente condivisibile.

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Cfr. in tal senso F. Scarpelli, Blocco dei licenziamenti, cit., § 2; Passalacqua, I limiti al licenziamento, cit., 158; Pileggi, Una riflessione sul diritto del lavoro alla prova, cit. 4; Chietera, Covid-19, cit., 148 s. 24 Per il superamento della tesi della nullità virtuale nel caso dell’art. 2, d.lgs. n. 23/2015 si esprime condivisibilmente Cester, Le tutele, in Gragnoli (a cura di), L’estinzione del rapporto di lavoro subordinato, in Persiani, F. Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Cedam, 2017, 1060 s. 25 Cfr. analogamente Passalacqua, I limiti al licenziamento, cit., 159.

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Non è nemmeno del tutto inusuale che istituti e normative del diritto del lavoro vengano utilizzati ed assumano rilevanza «a fini di politica economica e di politica del consenso»26. Già la legge n. 675/1977 aveva costituito il tentativo di operare una reductio ad unum tra meccanismi di sostegno finanziario all’industria (mediante il mezzo prevalente del credito agevolato), criteri e procedure di finalizzazione all’ausilio pubblico, e infine strumenti di politica del lavoro adeguati alle esigenze di gestione delle crisi aziendali27. Anche l’art. 36 st. lav. ha subordinato la concessione di benefici al rispetto di determinati standard di tutela (minimi di trattamento economico e normativo) che il datore di lavoro è tenuto a rispettare. Lo stesso dicasi per l’aggiudicazione di appalti pubblici, che presuppone la conservazione dei livelli occupazionali (art. 50, d.lgs. n. 50/2016). Più recentemente, poi, il c.d. decreto Dignità (d.l. n. 87/2018, convertito dalla l. n. 96/2018), per contrastare il fenomeno delle imprese che, ricevuti gli aiuti di Stato, provvedano a delocalizzare l’attività produttiva al di fuori dei confini dello Stato, agli artt. 5 e 6 prevede la decadenza dal beneficio per tutte quelle imprese che, delocalizzando, riducano la soglia occupazionale entro i 5 anni successivi alla data di conclusione dell’iniziativa agevolata. Il d.l. n. 23/2020, a sua volta, subordina la concessione delle garanzie «per finanziamenti sotto qualsiasi forma» ad una serie di condizioni, ben 14, alla luce della legge di convenzione, di cui particolarmente rilevanti ai nostri fini sono due impegni che le imprese devono assumere nel contratto di finanziamento: un impegno di scopo-funzione (il finanziamento deve essere destinato a sostenere costi del personale, oltre che canoni di locazione o di affitto di ramo d’azienda, investimenti o capitale circolante impiegati in stabilimenti produttivi e attività imprenditoriali localizzati in Italia: lett. n) ed uno di comportamento (la codeterminazione col sindacato dei livelli occupazionali: lett. l). Da un lato, è stata rilevata l’incostituzionalità della norma per contrasto con gli artt. 41 e 39, 1° comma, Cost. nella misura in cui impedirebbe alle imprese, anch’esse titolari di libertà sindacale, di gestire la propria attività in autonomia e di sottrarsi alla sottoscrizione di un accordo sindacale28. A tal fine si potrebbe richiamare la giurisprudenza amministrativa sulle clausole di riassunzione, ovvero sulla compatibilità delle clausole sociali di stabilità occupazionale con la libertà di iniziativa economica privata. Al riguardo l’orientamento prevalente si esprime nel senso che «la clausola sociale è costituzionalmente e comunitariamente legittima solo se non comporta un indiscriminato e generalizzato dovere di assorbimento di tutto il personale utilizzato dall’impresa uscente»29. Solo se formulata in maniera flessibile la clausola

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Come scriveva De Luca Tamajo, Garantismo legislativo e mediazione politico-sindacale, prospettive per gli anni ’80, in RIDL, 1982, I, 33. 27 Cfr. Mariucci, I licenziamenti “impossibili”, cit., 1390. 28 Cfr. Pileggi, Relazione Webinar AGI Campania, 7.05.2020. 29 Così Tar Lazio, sez. III, 15 marzo 2019, n. 3479, in www.gisustizia-amministrativa.it. In senso conforme, tra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 agosto 2017, n. 4079; Cons. Stato, sez. V, 17 gennaio 2018, n. 272; Cons. Stato, sez. III, 27 settembre 2018, n. 5551, tutte in www.gisustizia-amministrativa.it.

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sociale può essere considerata «conforme alle indicazioni della giurisprudenza amministrativa secondo la quale l’obbligo di mantenimento dei livelli occupazionali del precedente appalto va contemperato con la libertà d’impresa e con la facoltà in essa insita di organizzare il servizio in modo efficiente e coerente con la propria organizzazione produttiva, al fine di realizzare economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento dell’appalto»30. Analogamente si può ricordare come la Corte costituzionale in passato abbia censurato la normativa sull’imponibile di manodopera in agricoltura ritenendo che obbligare l’impresa ad assumere dei lavoratori incida sulla libertà di iniziativa di qualsiasi operatore economico31. Inoltre ha accolto lo stesso principio con riguardo ad una legge della regione Sicilia che aveva posto un obbligo di assunzione dei giovani a carico delle società e dei consorzi impegnati in appalti di lavori di censimento e inventariazione di beni culturali, sostenendo che il «dimensionamento» e la «scelta del personale impiegato nell’azienda» e il «conseguente profilo di organizzazione interna di quest’ultima» «caratterizza il nucleo essenziale della libertà d’iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 della Costituzione»32. D’altro lato, si possono muovere alcune obiezioni a difesa della costituzionalità della norma. Innanzitutto, l’oggetto dell’impegno non è la salvaguardia dei livelli occupazionali in sé, ma la condivisione con i sindacati delle scelte che incidono su di essi. In secondo luogo, la partecipazione alle decisioni imprenditoriali, eventualmente anche una vera e propria codeterminazione alla tedesca, trova fondamento nell’art. 46 Cost., che legittima forme partecipative anche più forti, sino alla cogestione33. In terzo luogo, la tutela dell’occupazione è un’esigenza fondamentale, che a sua volta rinviene un solido fondamento costituzionale in alcune norme della nostra Carta fondamentale, come ha sottolineato con forza la recente sentenza della Corte costituzionale n. 194/201834. Da ultimo, nella fattispecie, si deve tentare di fornire una lettura compatibile con la libertà di iniziativa economica privata e con la libertà sindacale delle imprese. A tal fine non si può prima di tutto non rilevare che sicuramente non ricorre un obbligo a contrarre, che, esso sì, lederebbe i valori appena richiamati. In effetti, se ci si arresta alla lettera della norma, sembra che sia stato introdotto un onere a contrarre, tipica situazione nota quando la legge condiziona alla stipulazione di accordi l’accesso a determinati istituti (ad es., i contratti di solidarietà e l’estensione delle ipotesi in cui stipulare contratti a termine) o il ricorso a particolari misure (ad es., la fles-

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Così Cons. Stato, sez. V, 12 settembre 2019, n. 6148, in www.gisustizia-amministrativa.it, che in motivazione rinvia all’ampia giurisprudenza conforme. 31 Cfr. C. cost., 16 dicembre 1958, n. 78, in www.giurcost.org. 32 Così C. cost., 28 luglio 1993, n. 356 in www.giurcost.org. 33 Cfr. Olivelli, Rappresentanza collettiva dei lavoratori e diritti di partecipazione alla gestione delle imprese, in DLRI, 2005, 321 ss.; L. Zoppoli, Rappresentanza collettiva dei lavoratori e diritti di partecipazione alla gestione delle imprese, in DLRI, 2005, 373 ss.; Pedrazzoli, Partecipazione, costituzione economica e art. 46 della Costituzione. Chiose e distinzioni sul declino di un’idea, in RIDL, 2005, I, 427 ss. 34 Cfr. C. cost., 26 settembre 2018, n. 194 in www.giurcost.org.

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sibilità dell’orario di lavoro, le deroghe all’art. 2112 c.c.): un tipico strumento sperimentato in passato per promuovere la c.d. contrattazione gestionale o ablativa35. Tuttavia, tra gli opposti interessi in gioco è necessario trovare un contemperamento, se si considera che i sindacati potrebbero vanificare l’interesse della controparte con un semplice diniego, poiché la situazione di onere non crea pretese creditorie a favore di altri, non certo alla conclusione di un accordo, ma neppure all’avvio di una trattativa. Infatti né la ratio dell’istituto, né la formula utilizzata dalla norma impongono ai sindacati di negoziare, tanto più se si osserva la genericità del rinvio alla contrattazione collettiva, senza neppure specifica indicazione dei titolari dell’eventuale obbligo36. Quindi, se si considera che una sanzione a carico dell’impresa sembra essere configurabile, quanto meno sul piano della sorte della garanzia per il finanziamento, si deve fornire una lettura della norma che ne valorizzi significato e ratio senza esporre l’impresa ad un potere di veto dei sindacati: una situazione che non si verifica neppure nel caso della codeterminazione tedesca, ove il mancato accordo tra le parti è surrogato dalla decisione di un collegio arbitrale (Einigungsstelle), che formalmente assume le vesti di una pattuizione aziendale37. La fattispecie è, del resto, diversa da quella della contrattazione gestionale o ablativa, nella quale si valuta la situazione contingente ed un risultato da conseguire in quel momento; nella norma in esame, invece, la valutazione e la gestione dei livelli occupazionali possono essere effettuate a distanza di anni, magari in contesti modificati a prescindere dalla volontà delle parti e contro le rispettive attese. Una lettura costituzionalmente orientata potrebbe, quindi condurre a leggere l’art. 1, d.l. n. 23/2020 nei termini di un onere a trattare in buona fede, quindi come impegno per l’impresa di dimostrare perché i livelli occupazionali non possano essere mantenuti e di conseguenza perché l’accordo non possa essere concluso, ad esempio per un calo del fatturato o per un peggioramento delle condizioni rispetto a quelle ipotizzate all’atto del finanziamento38. In tale chiave sarebbe opportuno che la norma venisse riscritta.

5. Segue: b) l’art. 1, d.l. n. 23/2020 e il suo testo. La stesura dell’art. 1, d.l. n. 23/2020 è sicuramente molto infelice, addirittura “criptica”39.

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Cfr. Zoli, Gli obblighi a trattare nel sistema dei rapporti collettivi, Cedam, 1992, 32. Cfr. Zoli, Gli obblighi a trattare, cit. 37 Cfr., sul punto, tra gli altri, Corti, La partecipazione dei lavoratori. La cornice europea e l’esperienza comparata, Vita e Pensiero, 2012, spec. 136; Biasi, Il nodo della partecipazione dei lavoratori in Italia, Egea, 2013, 46 ss. e Id., La partecipazione dei lavoratori alla gestione e la Mitbestimmung tedesca, in Zoli (a cura di), Lavoro e impresa: la partecipazione dei lavoratori e le sue forme nel diritto italiano e comparato, Giappichelli, 2015, 33 ss. 38 Giustamente F. Scarpelli, Blocco dei licenziamenti, cit., § 5 ha prospettato la configurabilità di un «obbligo di una concreta e fattiva ricerca dell’accordo». Su posizioni analoghe si pone Chietera, Covid-19, cit., 147. Cfr. anche Perulli, Il dialogo tra imprese e sindacati non frena l’iniziativa economica, in Il Sole 24 ore, 23.04.2020, 26, il quale ha parlato di «generica logica promozionale di ricerca di soluzioni concordate dei problemi occupazionali». 39 Così Maio, Relazione nel Webinar AGI Campania, 7 maggio 2020. 36

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Analogo giudizio può essere esteso all’art. 1, comma 7, altra norma scritta malissimo, che riguarda le imprese di maggiori dimensioni, per le quali non è chiaro se il rilascio della garanzia richieda condizioni ulteriori rispetto a quelle dell’art. 1, comma 2, oppure se – come sembra preferibile – si rinvii alla procedura di cui al comma 6, con la sottoposizione aggiuntiva del rilascio della garanzia alla decisione assunta con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, sentito il Ministro dello sviluppo economico. Comunque è compito del giurista provare ad interpretare le norme dando loro un significato. Le questioni che si pongono con riguardo all’art. 1 sono numerose e complesse. Prendendo le mosse dalla durata dell’impegno, va rilevato che manca un limite temporale, cosicché si deve ritenere che la garanzia perduri per l’intera durata del prestito. Quanto alla natura dell’impegno, si è anticipato che un’interpretazione costituzionalmente orientata dovrebbe condurre a prospettare l’esistenza di un onere a trattare. Di conseguenza per ottemperare all’impegno l’impresa deve negoziare in buona fede ricercando fattivamente il raggiungimento di un accordo40. In caso contrario, se l’impegno de quo dovesse essere ricostruito quale onere a contrarre, soltanto la sottoscrizione di un accordo sindacale sarebbe sufficiente. In questa ipotesi, peraltro, si potrebbe legittimare un accordo preventivo, concluso all’atto del finanziamento, con la previsione di una serie di condizioni o presupposti da rispettare. Ma va ricostruita altresì una serie ulteriore di aspetti di grande rilevanza. Innanzitutto, si tratta di individuare il tipo di procedura che deve essere esperita ed i soggetti da coinvolgere. Quanto alla procedura, se viene in rilievo un’operazione già disciplinata, come un trasferimento d’azienda od un licenziamento collettivo, la risposta è scontata. Diversamente non sembrano necessari particolari formalismi, al di là di quanto previsto dai contratti collettivi. Pertanto si possono prendere le mosse dagli accordi evocati dal legislatore per implementare gli obblighi di informazione, consultazione e talora trattativa relativamente alla situazione, alla struttura e all’andamento prevedibile dell’occupazione nell’impresa, nonché, «in caso di rischio per i livelli occupazionali, le relative misure di contrasto» (art. 4, lett. b, d.lgs. n. 25/2007)41. E tale confronto dovrà aver luogo in via preventiva rispetto all’adozione di determinate misure o periodicamente, quando la modifica dei livelli occupazionali non sia la conseguenza di ben precisi atti del datore di lavoro. La legge non precisa quali organizzazioni sindacali debbano essere coinvolte, ma in base ad un’interpretazione sistematica si può ritenere che si imponga il riferimento ai sindacati comparativamente più rappresentativi e, comunque, nell’ipotesi probabilmente più ricorrente di trattative a livello aziendale, alle RSA o alle RSU42.

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Giustamente Scarpelli, Blocco dei licenziamenti, cit., ha prospettato la configurabilità di un «obbligo di una concreta e fattiva ricerca dell’accordo». 41 Sul punto sia consentito rinviare a Zoli, I diritti di informazione e di c.d. consultazione: il d. lgs. 6 febbraio 2007, n. 25, in RIDL, 2008, I, 169 ss. e, da ultimo, Testa, Sulla titolarità collettiva dei diritti di informazione e consultazione dei lavoratori, in MGL, 2020, 153 ss. 42 Cfr. Colombo, Prestiti garantiti Sace: intesa sindacale su licenziamenti, contratti e appalti, in Il Sole 24 ore, 8 giugno 2020, 22, il quale perviene alle stesse conclusioni in ordine alla legittimazione delle RSA e delle RSU, mentre, diversamente da quanto esposto nel testo, ritiene che a livello sovra-aziendale gli accordi – dall’a. ritenuti necessari – possono essere stipulati «con qualsiasi organizzazione sindacale, anche non comparativamente più rappresentativa». Zambelli, Emergenza Coronavirus, la garanzia Sace nel

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Se si considera che il finanziamento e la garanzia, da un lato, e la procedura sindacale, dall’altro, riguardano le imprese considerate singolarmente, gli accordi sindacali di cui all’art. 1 sono, innanzitutto, inevitabilmente di livello aziendale. Nella misura in cui sono volti a limitare il potere del datore di lavoro di incidere sui livelli occupazionali, essi costituiscono tipici contratti gestionali, come tali efficaci erga omnes. Ciò, peraltro, non esclude che possano essere negoziati e conclusi anche accordi di diverso livello, territoriali e persino nazionali, i quali affrontino e regolamentino le situazioni di più imprese della stessa area o categoria produttiva, oppure che costituiscano protocolli, territoriali o nazionali, diretti a stabilire la cornice e le regole generali, anche procedurali, da seguire43. Più complessa si rivela la lettura dell’espressione «gestire i livelli occupazionali», che rappresenta il vero e proprio oggetto dell’impegno gravante sulle imprese beneficiarie della garanzia. In particolare tale formula lascia adito a molti dubbi, se si considera che la modifica dei livelli occupazionali può dipendere da una serie di fattori o di cause che non dipendono, o non dipendono interamente, dall’impresa. È il caso, ad es., della perdita di un appalto, oppure delle dimissioni di uno o più lavoratori. In altre situazioni, invero, si riduce il livello occupazionale della singola impresa, senza che, quanto meno immediatamente, si verifichino licenziamenti, come quando si cede un’azienda o un ramo d’azienda. Altre fattispecie ancora non hanno nulla a che vedere, salvo operazioni in frode alla legge, con misure di tipo oggettivo, come quando i licenziamenti vengono adottati per mancato superamento della prova, per giusta causa o ad nutum (apprendisti e lavoratori anziani su tutti)44. In altri casi, infine, la riduzione dei livelli occupazionali può verificarsi senza atti di recesso, ma con il mancato rinnovo di contratti a termine, specie per lavoratori stagionali, o di somministrazione. La norma, a ben vedere, non sembra far riferimento a particolari atti del datore di lavoro, al singolo rapporto di lavoro, alla tipologia degli atti di recesso, ma all’occupazione nel suo complesso e, quindi, alla modifica del numero complessivo dei dipendenti. A tal fine sembra corretto operare il confronto con la media occupazionale, quindi non necessariamente ed esclusivamente con l’occupazione stabile, considerandosi altresì che nel caso di licenziamenti per ragioni non oggettive (cioè diversi dal licenziamento collettivo o per giustificato motivo oggettivo) la mancata reintegrazione del numero precedente di posti di lavoro costituisce a sua volta una scelta di tipo organizzativo che incide sui livelli occupazionali45. Il tutto fermo restando, come anticipato, che in sede di trattativa sindacale devono essere esaminate le ragioni che potrebbero giustificare la riduzione del numero complessivo dei dipendenti (in particolare la perdita di un appalto, il trasferimento di un ramo d’azienda, la situazione finanziaria o commerciale della società).

decreto liquidità, in G. Lav., 2020, n. 27, 36 s. propende per la competenza delle sole RSA o RSU, ed in via residuale, laddove non fossero presenti, delle “associazioni sindacali territoriali appartenenti ai sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi”. 43 Cfr. analogamente Preteroti, Delogu, I licenziamenti collettivi, cit., 176. 44 Si è sottolineato da più parti che la procedura riguarda solo i casi di licenziamento per motivo oggettivo: cfr. Preteroti, Delogu, I licenziamenti collettivi, cit., 175 e Pellacani, “Decreto Liquidità”: attenzione al boccone amaro, in www.opinione.it, 2. Zambelli, Emergenza Coronavirus, cit., 37, il quale peraltro rileva che non è pacifico che “l’accordo sindacale sia necessario nell’ambito dei trasferimenti d’azienda o di ramo di essa”. 45 Per uno spunto analogo cfr. Preteroti, Delogu, I licenziamenti collettivi, cit., 175.

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Da ultimo, ma certo non per importanza, resta il problema probabilmente più complesso, ovvero l’individuazione del meccanismo sanzionatorio applicabile in caso di inadempimento da parte dell’impresa. Al riguardo sembra di poter senza eccessivi dubbi affermare che la sanzione concerne il profilo del finanziamento, ovvero il rientro dallo stesso46: ciò alla luce della verifica pubblica che SACE potrà effettuare, magari previa emanazione di un apposito decreto ministeriale con cui fissare «indirizzi … sulla verifica … del rispetto dei criteri e condizioni previsti dal presente articolo» (art. 1, comma 5, d.l. n. 23/2020). Decisamente più improbabile è ritenere che la sanzione possa colpire i singoli licenziamenti eventualmente adottati47, a meno che non ci siano accordi sindacali che introducano vincoli in tal senso. Infatti, nella specie l’impegno de quo non integra gli estremi di un contratto a favore di terzi, come invece nel caso dell’art. 36, l. n. 300/1970. Non ne scaturisce, pertanto, un diritto individuale a non essere licenziati, ma un diritto collettivo alla gestione congiunta dei livelli occupazionali, i quali potrebbero non ridursi anche a fronte di uno o più licenziamenti, così come al contrario ridursi anche senza licenziamenti. Proprio la titolarità collettiva del diritto alla trattativa sindacale induce a ritenere che la mancata ottemperanza all’obbligo di tentare di raggiungere un accordo integri gli estremi della condotta antisindacale48. Se l’ordine di porre fine a tale comportamento si traduce nel dovere per l’impresa di avviare e condurre in buona fede quella trattativa che, in tutto o in parte, è mancata, può risultare più complesso individuare gli effetti da rimuovere con il decreto del giudice. Tuttavia, non si può escludere che vengano invalidati quei licenziamenti che conducono al di sotto del livello occupazionale precedente, sempre che non siano stati adottati per ragioni non oggettive. Non si deve, infine, trascurare la possibilità che trovi applicazione l’apparato rimediale introdotto dal d.lgs. n. 25/2007, ovvero la sanzione amministrativa prevista per la violazione degli obblighi, o oneri, procedurali di informazione, consultazione o trattativa disciplinati dai contratti collettivi, la cui irrogazione è affidata all’Ispettorato Territoriale del Lavoro (art. 7, commi 1 e 3), nella misura in cui corrispondano all’impegno di cui all’art. 1, d.l. n. 23/2020 o con esso coincidano.

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Cfr. analogamente Preteroti, Delogu, I licenziamenti collettivi, cit., 176 e Colombo, Prestiti garantiti, cit., secondo cui «si deve ritenere che venga meno la garanzia rilasciata dallo Stato»; contra Zambelli, Emergenza Coronavirus, cit., 37, secondo cui la sanzione consiste “esclusivamente nell’incremento, a condizione di mercato (che, considerati i tassi in questione, potrebbe determinare anche il raddoppio), delle commissioni annue dovute a SACE a fronte della garanzia prestata”. 47 Cfr. analogamente Zambelli, Emergenza Coronavirus, cit.; contra Colombo, Prestiti garantiti, cit., e Pellacani, “Decreto Liquidità”, cit., 3 ritengono nulli gli eventuali licenziamenti. 48 Cfr. analogamente Preteroti, Delogu, I licenziamenti collettivi, cit., 176; contra Zambelli, Emergenza Coronavirus, cit., 38.

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La tutela dell’occupazione nell’emergenza epidemiologica fra garantismo e condizionalità

6. Le prospettive future: tra diritto dell’emergenza e conferma dei nuovi modelli.

Se si passa in conclusione a valutare in termini prospettici e sistematici quanto del diritto emergenziale potrà trovare conferma nel periodo successivo alla fine della pandemia in chiave di tutela dell’occupazione, non dovrebbe essere difficile prevedere che un blocco assoluto dei licenziamenti come quello attuale non potrà essere a lungo riproposto, pena la sua incostituzionalità. Infatti, una tale soluzione si giustifica nella misura in cui sia temporanea e, come anticipato, senza costi per le imprese, dato che diversamente si arriverebbe al caso limite di introdurre la figura dell’imprenditore coatto, qualora questi sia costretto a, o comunque scelga di, cessare la propria attività, ma si trovi impossibilitato a farlo non potendo licenziare i propri dipendenti. Né sembra di poter condividere la tesi secondo cui la giurisprudenza «sarà presumibilmente attenta agli effetti della recessione economica sul mercato del lavoro» e «probabilmente applicherà in maniera ancora più rigorosa il criterio della extrema ratio, legittimando il licenziamento economico soltanto nelle situazioni in cui la soppressione del posto di lavoro sia realmente priva di alternativa»49. Ancora una volta si ritiene che il diritto dell’emergenza costituisca eccezione ai principi generali, la cui applicabilità non può essere disconosciuta. A ciò si aggiunga che il sindacato giudiziale sull’onere di repêchage è già talmente ampio50 da rendere difficile comprendere sino a che punto un’ulteriore estensione dovrebbe condurre; né pare che possa essere ammesso un controllo sull’opportunità sociale o sulla razionalità tecnica delle scelte del datore di lavoro, che porrebbe in difficoltà le imprese, dalla cui sopravvivenza dipende la conservazione stessa dei posti di lavoro, con una sostanziale eterogenesi rispetto ai fini perseguiti. Al contrario, in situazioni di crisi, come l’attuale, le politiche di assistenza ai lavoratori sono sicuramente una mission che qualunque Stato deve adottare per ridurre l’impatto sulle famiglie e sull’intera società. Tuttavia il conseguente costo non può essere accollato direttamente alle imprese, se non nella misura in cui beneficino dell’intervento e dei sussidi pubblici. In questa logica, la previsione di misure incentivanti nell’erogazione dei benefici, subordinate a selettività e condizionalità, è destinata a rimanere (non fosse altro che per la durata dei finanziamenti stessi e delle relative garanzie) e anzi ad essere riproposta. Tali principi, del resto, permeano già tutto il sistema, sia sul versante delle imprese, con riguardo, ad es., agli aiuti dell’Unione europea51, sia su quello dei lavoratori, con riferimento ai sussidi ed alla correlativa compressione del diritto alla scelta della propria occupazione52. Ma certamente nessuna misura può risolvere i problemi provocati dalla

49

Così Gargiulo, Luciani, Emergenza Covid-19, cit., 226. Dello stesso avviso si è mostrato Scarpelli, I licenziamenti, Relazione Webinar Labor, Emergenza e riemersione, 27 maggio 2020. 50 Per una ricostruzione delle posizioni della giurisprudenza sul punto cfr., da ultimo, Zoli, Il giustificato motivo oggettivo per ragioni organizzative nella più recente evoluzione giurisprudenziale, in DLM, in corso di pubblicazione. 51 Cfr. Taschini, Diritti sociali al tempo della condizionalità, Giappichelli, 2019, 45 ss. 52 Cfr. Villa, Attivazione e condizionalità al tempo della crisi: contraddizioni di un modello (almeno formalmente) improntato alla flexicurity, in ADL, 2018, 487 ss.; Pascucci, Servizi per l’impiego, politiche attive, stato di disoccupazione e condizionalità nella l. n.

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Carlo Zoli

paralisi delle attività, nel contesto di un Paese che non potrà sostenere finanziariamente un sistema come quello emergenziale, quando anche gli interventi sul mercato del lavoro potrebbero non risultare sufficienti a fronte della crisi delle imprese e della conseguente scarsità dei posti di lavoro53.

92/2012, in RDSS, 2012, 409 ss.; Freedland, Countouris, Diritti e doveri nel rapporto tra disoccupati e servizi per l’impiego in Europa, in DLRI, 2005, 584. 53 Già Corazza, Il principio di condizionalità (al tempo della crisi), in DLRI, 2013, 491 ss., spec. 501, sottolineava come sia «stata disvelata ormai da tempo l’illusorietà di una strategia per l’occupazione che incentra sulle regole del mercato del lavoro le potenzialità di successo delle politiche occupazionali. Le regole del mercato del lavoro, siano esse riferite alla flessibilità del rapporto o al potenziamento dell’occupabilità del lavoratore, non sono di per sé in grado di moltiplicare le occasioni lavorative la cui abbondanza e scarsità dipende da altri meccanismi dell’economia». Tuttavia, nell’attuale congiuntura non si può escludere l’opportunità che siano nuovamente rese più libere le assunzioni a termine, come sottolineato da Maresca, Flessibilità v. rigidità, Relazione Webinar Labor, Emergenza e riemersione, 27 maggio 2020.

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Adalberto Perulli

Covid-19 e diritto del lavoro: emergenza, contingenza e valorizzazione del lavoro dopo la pandemia Sommario :

1. Premessa: oltre l’emergenza e la contingenza, il valore del lavoro. – 2. Il ruolo dell’autonomia collettiva. Per un rilancio della concertazione sociale negli ambiti della salute e sicurezza e nella gestione dei livelli occupazionali. – 3. La sicurezza sociale: verso un nuovo universalismo delle tutele. – 4. Dare dignità al lavoro nelle sue nuove forme: dallo smart working al lavoro tramite piattaforme. – 5. La salute e sicurezza sul lavoro, oltre la subordinazione. – 6. Emergenza e catene globali del valore: verso forme di globalizzazione locale?

Sinossi. Nel presente saggio l’Autore sviluppa una riflessione ad ampio spettro sui principali aspetti del diritto del lavoro interessati dall’emergenza pandemica, svolgendo alcune considerazioni anche sulle prospettive future. Abstract. In this essay, the author develops a wide-range reflection on the main aspects of labor law affected by the pandemic emergency, also making some considerations on future perspectives. Parole chiave: Emergenza sanitaria – Valorizzazione del lavoro – Partecipazione – Sicurezza sociale – Tutela del lavoro

1. Premessa: oltre l’emergenza e la contingenza, il valore

del lavoro.

L’emergenza sanitaria Covid-19 ha riportato il lavoro al centro della scena sociale, sia quello “eroico” dei medici e di tutto il personale sanitario che ha combattuto “in prima linea” la malattia per salvare le vite umane, sia il lavoro di chi ha garantito la nostra sussi-


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stenza quotidiana, nei settori della distribuzione, dei trasporti e della logistica, dei servizi essenziali. La pandemia ci ha dimostrato quanto sia vero l’assunto secondo il quale “il lavoro non è una merce”: eppure, questa fondamentale acquisizione, che risale alla fondazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, è costantemente messa in discussione dalla reificazione del lavoro sia nei circuiti materiali della produzione, ove esso viene assoggettato alla logica di un’incessante flessibilità organizzativa e di riduzione dei costi, sia nell’ambito della regolazione, che da alcuni lustri guarda ai diritti del lavoro come a rigidi meccanismi che limitano la crescita dell’economia. Prima della pandemia il lavoro è stato oggetto di una lunga e progressiva de-valorizzazione, che ha minato alle fondamenta l’idea novecentesca secondo la quale il lavoro è alla base della cittadinanza sociale e vive nei processi di riconoscimento sociale che rendono possibile una relativa emancipazione dal dominio. Ciò che la pandemia ci ha drammaticamente ricordato, invece, è che il lavoro umano incorpora proprio i valori extra-mercantili del riconoscimento, i quali richiedono di essere promossi e tutelati. Per questo il lavoro deve essere ri-valorizzato in una prospettiva assiologica e non mercantile: a partire dall’emergenza, durante la quale, in molti paesi europei, sono stati emanati provvedimenti eccezionali di tutela del valore-lavoro (tra i quali la sospensione dei licenziamenti per motivi economici: v. infra), ma guardando, in prospettiva, oltre la contingenza, per adottare politiche che invertano la tendenza al ribasso da tempo avviata dalla globalizzazione neo-liberista e dalla concorrenza sfrenata tra sistemi economici e sociali. Se la pandemia come problema epidemiologico e sanitario costituisce un’emergenza si spera “contingente” e transeunte, vi sono invece elementi che traggono dall’emergenza un valore permanente, e tra questi v’è la nuova considerazione politica, economica e sociale del lavoro umano come un “bene comune”, di valore inestimabile. Vorrei soffermarmi brevemente su alcuni profili di questa necessaria ri-valorizzazione del lavoro, guardando alla crisi come ad un’occasione per ripensare alcuni istituti del diritto del lavoro e attuare una più efficace politica di tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.).

2. Il ruolo dell’autonomia collettiva. Per un rilancio della

concertazione sociale negli ambiti della salute e sicurezza e nella gestione dei livelli occupazionali. Un primo aspetto di riflessione riguarda il ruolo delle parti sociali nella gestione della crisi e la capacità dimostrata dall’autonomia collettiva di rappresentare, ancora oggi, un fondamentale presidio a tutela del lavoro nella nostra società, per l’apporto fornito, in particolare, nella progettazione condivisa delle regole organizzative da seguire nei luoghi di lavoro a fini di prevenzione della diffusione della malattia da Covid-19. Questa ripresa del dialogo sociale nasce dall’emergenza, ma non può essere considerata come una contingenza, specie nell’anno in cui si celebra il cinquantennale dello Statuto dei lavoratori, che ha rappresentato una pietra miliare per il diritto sindacale italiano, benché proprio l’art. 9 della legge n. 300/1970 abbia rappresentato una delle norme meno effettive dell’intera

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disciplina statutaria a sostegno dei sindacati in azienda. Nel caso di specie la valorizzazione dell’autonomia collettiva è avvenuta proprio in materia di salute e sicurezza, sulla base di un inedito intreccio di fonti non legislative (d.p.c.m.) che hanno richiamato, ed anche formalmente recepito, le disposizioni dell’autonomia collettiva. In tal modo, il governo italiano ha rilanciato la funzione regolativa delle parti sociali, rispolverando prassi di concertazione da tempo assopite, peraltro fornendo ai prodotti negoziali un’inedita valenza normativa diretta, di carattere generale. Il “Protocollo condiviso” del 14 marzo, negoziato in piena emergenza, parte dall’importante premessa assiologica secondo la quale “la prosecuzione delle attività produttive può avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione”. L’obiettivo prioritario, dichiarato dalle parti sociali, è quindi la tutela della salute dei lavoratori, tanto che – si afferma espressamente – “nell’ambito di tale obiettivo, si può prevedere anche la riduzione o la sospensione temporanea delle attività”. In tal modo, posto l’obiettivo prioritario di “coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative”, il Protocollo opera come strumento di diritto riflessivo, attivando a sua volta ulteriori meccanismi riflessivi come “il confronto preventivo con le rappresentanze sindacali presenti nei luoghi di lavoro”, e, per le piccole imprese, “le rappresentanze territoriali come previsto dagli accordi interconfederali”; ciò, al fine di rendere condivisa ogni misura adottata e, al contempo, “più efficace” grazie al “contributo di esperienza delle persone che lavorano, in particolare degli RLS e degli RLST, tenendo conto della specificità di ogni singola realtà produttiva e delle situazioni territoriali”. Il 24 aprile, con l’approssimarsi dell’inizio della cd. Fase 2 per il contenimento dell’emergenza sanitaria, il Governo e le Parti sociali hanno provveduto a integrare il Protocollo nazionale. Dopo avere preliminarmente ribadito che l’obiettivo precipuo è quello di garantire il proseguimento delle attività produttive in contesti lavorativi sicuri e salubri, le parti sociali hanno individuato ulteriori misure per affrontare la nuova fase, nell’ottica di una ripartenza graduale delle attività produttive che avrebbe riguardato, a partire dal 27 aprile, un numero sempre maggiore di settori e di aziende. L’opera dell’autonomia collettiva è stata di fondamentale importanza anche al fine di chiarire i profili di responsabilità del datore di lavoro, di cui molto si è discusso nella fase emergenziale, invocandosi da parte confindustriale la necessità di norme che facessero da “scudo” alle aziende, anche sul piano della responsabilità penale. Infatti, le prescrizioni contenute nel Protocollo, in quanto direttamente riconducibili al generale obbligo di sicurezza che incombe sul datore di lavoro ex art. 2087 c.c., non a caso definito “norma di chiusura” del sistema ed espressione del principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile, concorrono non solo a definire, ma anche a circoscrivere le misure di sicurezza “effettivamente dovute”, in quanto giuridificate dalla normativa emergenziale. Se questa prassi emergenziale un giorno terminerà, non deve altrettanto dirsi della funzione regolativa che la contrattazione collettiva ha svolto nella logica preventiva di cui si diceva. Come dire che oltre la “contingenza” della crisi, la capacità delle parti sociali di realizzare protocolli condivisi di tale importanza e dettaglio tecnico dovrà essere preservata e valorizzata, in vista di altri contesti – si spera non emergenziali – in cui esprimere funzioni regolative a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.

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Un’altra disposizione emergenziale si pone, a pieno titolo, nell’ambito di una valorizzazione non necessariamente contingente del ruolo dell’autonomia collettiva nella gestione della crisi. Mi riferisco evidentemente alla norma che condiziona la garanzia statale dei prestiti per le imprese all’impegno di una gestione concordata dei livelli occupazionali attraverso accordi sindacali: disposizione promozionale e condizionale che ha sollevato voci allarmate per il vulnus in tal modo inflitto alla libertà d’impresa, sino ad ipotizzare che questo provvedimento sancisca addirittura “la fine dell’impresa italiana”. La norma intende innescare una regolazione consensuale in cui l’elemento della razionalità sociale emerge per mezzo di “procedure istituzionali” che includono la partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori nella gestione della crisi, in vista di un accordo sulla migliore modalità di controllo dei livelli occupazionali. L’opinione secondo la quale con tale norma si realizzerebbe una grave lesione dell’art. 41 Cost. non può certo condividersi, anzitutto perché il disposto, nella sua formulazione tecnicamente generica (“gestire i livelli occupazionali mediante accordi sindacali”) è sprovvisto di sanzione, ed esprime una logica promozionale per la ricerca di soluzioni concordate senza imporre un vero e proprio obbligo a contrattare i livelli occupazionali idoneo a limitare il potere di licenziamento (che, peraltro, è inibito sino al 17 agosto). Un obbligo a negoziare in buona fede, quindi, come già del resto avviene, di regola, nell’ambito delle procedure di informazione e consultazione sindacale finalizzate a trovare un accordo nella gestione degli esuberi, con la particolarità che, in questo caso, non si negozia il licenziamento collettivo ma “i livelli occupazionali”: concetto più ampio e indeterminato, che racchiude in sé l’impiego di diversi strumenti, alternativi al licenziamento, e che comunque, per quanto sin qui detto, non deve essere inteso come un divieto assoluto di licenziare in assenza di accordo. L’interpretazione massimalistica secondo la quale la gestione dei livelli occupazionali mediante accordi sindacali si porrebbe in rotta di collisione con il principio di libertà di iniziativa economica contrasta con i canoni dell’interpretazione costituzionalmente orientata: se il potere di licenziamento fosse davvero condizionato ad libitum da un contro-potere di veto sindacale, la norma rischierebbe davvero di essere ritenuta incostituzionale per un vincolo improprio alla facoltà dell’imprenditore di “adattare” la dimensione dell’azienda in relazione alle diverse contingenze economiche, produttive ed organizzative. Né si può ragionevolmente immaginare un’improbabile attuazione, attraverso il disposto in esame, di un principio di “codeterminazione”, sia pure interinale e limitato alla materia di gestione dei livelli occupazionali, in attuazione dell’art. 46 Cost. Una tale interpretazione sarebbe destinata a scontrarsi sia con l’assoluta vaghezza della norma, che non prevede né istituzionalizza alcun meccanismo co-decisionale, sia con la peculiare natura della norma, che non riguarda il rapporto di lavoro e la dialettica sindacale ordinaria, ma costituisce elemento di un più complesso procedimento emergenziale di sostegno finanziario alle imprese, all’interno del quale la gestione concordata dei livelli occupazionale funge da condizione. L’interprete deve quindi ricostruire con prudenza la ratio legis della norma, impiegando l’interpretazione orientata alle conseguenze, senza infilarsi nel vicolo cieco dell’esegesi anticostituzionale, per prospettare una soluzione compatibile con l’attuale assetto istituzionale delle relazioni industriali, che se da un lato non contemplano forme di codeterminazione, dall’altro attribuiscono alle organizzazioni sindacali dei lavoratori prerogative collettive di controllo e condizionamento ab externo delle scelte aziendali.

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Ciò detto, va anche osservato che il disposto in esame si pone in sintonia con le soluzioni apprestate da altri paesi europei come, ad esempio, la Spagna e la polonia, i quali, nel pieno dell’emergenza sanitaria Covid-19, hanno seguito una difficile linea di compromesso tra le esigenze dell’impresa (in particolare ricevere sostegno economico da parte dello Stato) e la valorizzazione del lavoro, scoraggiando comportamenti opportunistici da parte delle aziende, che avrebbero potuto sommare ai vantaggi offerti dal governo i benefici di una libera e incontrollata riduzione del personale. La norma, peraltro, non deve essere confusa con quella che dispone la temporanea sospensione dei licenziamenti economici, secondo un modello sperimentato non solo dall’Italia, ma anche da paesi come la Spagna e la Polonia: sistemi che pure hanno in vario modo deciso di condizionare, al pari della norma in esame, la fruizione dei vantaggi messi a disposizione dagli esecutivi all’impegno dei datori di lavoro di mantenere invariati i livelli occupazionali, o, come nel caso italiano, di gestire tali livelli con le OO.SS. Se poi guardiamo al sistema economicamente e socialmente più avanzato dell’Unione Europea ci accorgiamo che un gran numero delle misure adottate dalle imprese tedesche per affrontare l’emergenza pandemica sono assoggettate alle regole della codeterminazione, e necessitano, pertanto, di consultazione o concertazione con il consiglio d’azienda (Betriebsrat); per non parlare dei tanti accordi aziendali stipulati durante la pandemia da parte di grandi gruppi tedeschi, come Steigenberger o Sodexo, che contengono precise garanzie per l’occupazione, oltre ad integrazioni dell’indennità erogata per la sospensione dei rapporti di lavoro. Quando la norma di sospensione dei licenziamenti prevista dal decreto “cura Italia” avrà cessato di produrre i suoi effetti, si porrà quindi il tema della salvaguardia dei posti di lavoro in una fase economica incerta e di probabile contrazione del mercato. Ciò suggerisce alle imprese di pensare fin d’ora a dei piani di gestione degli eventuali esuberi collettivi mediante l’accesso agli ammortizzatori sociali e ai contratti di solidarietà, per far sì che la ripresa avvenga non solo senza rischi per la salute dei lavoratori, ma anche con il necessario sostegno dello Stato all’economia, per traghettare le aziende verso il pieno recupero della loro capacità produttiva. Questi percorsi eccezionali di gestione concordata dei livelli occupazionali saranno quindi destinati a rientrare, per far spazio ai consueti procedimenti di informazione e consultazione sindacale nella gestione delle crisi aziendali. Eppure, anche questa valorizzazione emergenziale dell’autonomia collettiva in funzione promozionale di accordi di gestione dei livelli occupazionali potrebbe rappresentare l’occasione per un legislatore lungimirante e innovativo, che guardi alla crisi pandemica come ad un laboratorio in cui sperimentare soluzioni che possano avere una capacità operativa non contingente sul piano delle relazioni industriali. Resta sul terreno, in particolare, il tema di una vera normativa strutturale di attuazione dell’art. 46 Cost., volta ad introdurre anche nel nostro sistema, così come avviene nella maggior parte dei paesi europei, una forma di partecipazione istituzionale dei lavoratori alla gestione delle aziende. Concepire le relazioni industriali come un elemento di freno alla dinamica economica esprime invece un modo piuttosto sbrigativo e miope di guardare alla ripresa, nonché, più in generale, alla crescita dell’economia italiana. Lo sviluppo sostenibile deve coniugare i pilastri economici, sociali e ambientali: volenti o nolenti, la logica collettiva delle relazioni sindacali fa parte di questo progetto di sostenibilità, oltre che della nostra tradizione indu-

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striale. Sta poi alle stesse parti sociali il compito di guardare al valore dell’impresa come un bene da coniugare con quello del lavoro, in una logica cooperativa e non necessariamente conflittuale, come appunto dimostra l’esempio virtuoso del capitalismo tedesco. Se riguardiamo da questo punto di vista la norma che promuove una gestione concordata dei livelli occupazionali non vedremo un limite all’iniziativa economica, ma uno strumento di valorizzazione del lavoro come “bene comune”, come risorsa non solo produttiva ma anche “vitale” e solidaristica, necessaria per rimettere al centro delle nostre società una visione etica dell’economia, che risponda a quell’esigenza di “radicamento” nel lavoro che, come ha scritto Simone Weil, è l’esigenza più importante e più misconosciuta dell’animo umano.

3. La sicurezza sociale: verso un nuovo universalismo delle

tutele.

Un secondo aspetto di riflessione riguarda la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.), specie per quanto concerne la tutela del reddito e la protezione sociale. Anche in questo caso la logica emergenziale non necessariamente equivale all’assunzione di provvedimenti contingenti, che pure sono stati emanati sotto la spinta della situazione pandemica, ma può essere utilmente impiegata come spinta verso un nuovo assetto di tutele, più universalistico e selettivamente adeguato ai mutamenti del mercato del lavoro, che hanno reso per molti versi obsoleta la distinzione tra subordinazione e autonomia come ragionevole discrimine per l’applicazione delle tutele sociali. La prospettiva di valorizzazione sociale del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni rende quindi necessario pensare in modo strutturale a nuove forme di protezione sociale e, quindi, alla riforma di un sistema che, in questa crisi pandemica, ha dimostrato evidenti limiti. Da una parte la frammentazione degli istituti di protezione sociale crea una situazione di incertezza difficilmente gestibile, anche sul piano operativo, foriera di complicazioni e ritardi nell’intervento e nell’erogazione delle risorse: ben 14 strumenti diversi di “ammortizzatori sociali”, con requisiti, tempistiche, attori istituzionali e campi di applicazione diversificati. Lo stress-test cui sono stati sottoposti gli istituti della cassa integrazione ordinaria, della cassa in deroga e del Fis, con procedure ancora troppo complesse e farraginose (foriere di immancabili polemiche anche sul piano politico-sindacale), ha convinto il governo a procedere ad una riforma, annunciata nel corso dei c.d. Stati generali, che dovrebbe assumere carattere strutturale. Non v’è dubbio che l’emergenza possa quindi svolgere un ruolo di acceleratore di processi da tempo dormienti per dotare il nostro paese di un vero e proprio sistema gestionale delle transizioni occupazionali e di tutela del reddito dei lavoratori, con l’istituzione di una cassa semplificata Covid che duri fino al termine dell’emergenza e, in seguito, una riforma che segua i tre principi guida della semplificazione procedurale, dell’unificazione delle varie forme di cassa integrazione e dell’ampliamento dell’estensione a tipologie e settori attualmente scoperti. Dall’altra parte, la crisi ha evidenziato un’irragionevole esclusione dalle tutele dell’intero mondo del lavoro autonomo, specie di quello più debole o “economicamente dipen-

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dente”, che ha sofferto ancor più di quello subordinato la sospensione delle attività industriali e commerciali. Il bonus di 600 euro per le partite IVA disposto dal governo italiano, pur meritorio, è quindi la “foglia di fico” che nasconde un buco nero fatto di migliaia e migliaia di lavoratori autonomi personali e microimprenditori stremati dalla mancanza di commesse, senza alcun ammortizzatore sociale. Provvedimenti di questo genere sono stati emanati da molti paesi europei, dal Regno Unito al Lussemburgo, dall’Olanda al Belgio, a testimonianza sia della crescita del lavoro autonomo negli ultimi anni, sia della necessità di estendere a queste fasce di lavoratori alcune tutele di base, tra cui, appunto, un supporto a garanzia del proprio reddito. E’ tempo quindi per ripensare alla tutela del lavoro “personale”, o “prevalentemente” tale, in una logica universalistica, al di là della distinzione tra lavoratori subordinati e autonomi, come peraltro previsto dal Pilastro sociale europeo e come avvertito dalle istituzioni europee, che sulla base di quel testo (e della Risoluzione del Parlamento europeo del 19 gennaio 2017) hanno predisposto una importante Raccomandazione del Consiglio del 15 ottobre 2019 sul tema “on access to social protection for workers and the selfemployed”,volta all’estensione delle tutele di protezione sociale ai lavoratori autonomi. In particolare, secondo il testo attualmente non ancora formalmente adottato, gli stati membri dovrebbero prevedere “the following branches of social protection, insofar as they are provided in the Member States: (a) unemployment benefits; (b) sickness and healthcare benefits; (c) maternity and equivalent paternity benefits; (d) invalidity benefits; (e) old-age benefits and survivors’ benefits; (f) benefits in respect of accidents at work and occupational diseases” (art. 3, 2). Anche su questo tema quindi è necessario assumere provvedimenti non contingenti, i quali, pur nati in una situazione emergenziale, si giustificano in ragione di cambiamenti strutturali dei sistemi economici e sociali. Se poi ragioniamo in termini globali, le stime dell’OIL per il secondo semestre del 2020 rappresentano uno scenario “pessimistico” secondo cui la seconda ondata pandemica rallenterebbe di molto la ripresa, con una riduzione di 340 milioni di posti di lavoro a tempo pieno (Nota OIL Covid-19 e mondo del lavoro, 30 giugno 2020). Una prospettiva del genere non può che aprire ulteriori scenari regolativi, rilanciando il tema, già all’ordine del giorno nel dibattito dottrinale, ma la cui rilevanza ed attualità viene acuita dalla crisi Covid-19 con riflessi di politica del diritto di grande importanza, di un reddito universale incondizionato, la cui ragion d’essere, soprattutto secondo la dottrina neo-repubblicana della libertà come non-dominio, dovrebbe rappresentare uno dei principi obiettivi di riforma dei sistemi di democrazia sociale1. Si consideri, in questa prospettiva, che la Spagna ha approvato di recente una legge sul c.d. Ingreso Mínimo Vital (legge n. 20 del 29 maggio 2020), esempio lampante di una disciplina stimolata ed emanata nel corso dell’emergenza, ma avente carattere non contingente, ed anzi decisamente strutturale, destinata a vivere di vita propria indipendentemente dalla crisi del Covid-19.

1

Cfr. Roger, Basic Income and the Resilience of Social Democracy, in Comparative Labor Law &Policy Journal, Volume 40, 2019, 199 ss.

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4. Dare dignità al lavoro nelle sue nuove forme: dallo smart

working al lavoro tramite piattaforme.

L’organizzazione del lavoro è un altro tema che emerge con prepotenza in questa emergenza. Le varie forme di lavoro da remoto, come il telelavoro e il lavoro agile, ma anche il lavoro tramite piattaforme digitali, si sono rivelate una risorsa preziosa non solo per le imprese private, che hanno potuto continuare l’attività nonostante la chiusura degli uffici, ma anche nelle pubbliche amministrazioni, nelle scuole e nelle università. Basti pensare al personale docente che ha garantito la continuità della didattica durante il lockdown, salvando il sistema educativo dal rischio di un drammatico blocco a danno della formazione dei nostri giovani. Queste modalità smart di organizzazione del lavoro, personalizzate e de-gerarchizzate, vanno incentivate e diffuse, non solo per la necessità dell’emergenza, ma per rispondere alle esigenze di conciliazione tra vita e lavoro e per una flessibilità nell’interesse (anche) del lavoratore. Attualmente lo smart working rappresenta la forma “normale” di erogazione del lavoro nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, come prevedono i provvedimenti assunti durante l’emergenza; tuttavia, nonostante taluni ingenerosi giudizi sulla mancata produttività del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, queste modalità prestatorie potrebbero non essere affatto contingenti, ed essere in qualche misura “stabilizzate” per garantire che la continuità lavorativa possa coniugare le esigenze organizzative e produttive, la tutela della salute dei lavoratori e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Su questo punto bisogna distinguere tra le forme lavorative a distanza come il telelavoro e il lavoro agile, che nel nostro ordinamento sono classificate come lavoro subordinato e presentano una disciplina di fonte rispettivamente contrattuale e legale, e il lavoro tramite piattaforma, di più incerta qualificazione ed oggetto di una recente legge (n. 128/2019) volta a predisporre una tutela minima per i rider autonomi. Per quanto riguarda le modalità prestatorie da remoto, ed in particolare il lavoro agile, è evidente che l’esperienza emergenziale ha d’un tratto mutato la funzione dell’istituto, rendendolo il principale strumento di un’attività lavorativa resa “in sicurezza”, dal proprio domicilio, senza necessità di spostamenti e garantendo quel “distanziamento sociale” che ha rappresentato – e tutt’ora rappresenta – l’unica vera arma contro il coronavirus2. Perso il suo peculiare carattere pattizio e consensuale, il lavoro agile è di fatto rientrato tra le modalità prestatorie unilateralmente decidibili dall’impresa, espressione di scelte organizzative non sindacabili né sul piano dei rapporti individuali, né su quello dei rapporti collettivi, posto che il legislatore del 2017 non ha riservato alcuna funzione regolativa alla contrattazione collettiva. Infine, realizzandosi solo dal domicilio del lavoratore e senza alcuna alternanza con prestazioni rese all’interno dell’impresa, il lavoro agile emergenziale ha determinato una serie di effetti contro-intuitivi cui si dovrà, appena possibile, porre

2

Cfr. Alessi, Vallauri, Il lavoro agile alla prova del Covid-19, in Bonardi, Carabelli, D’Onghia, Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Ediesse, 2020, 131 ss.

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rimedio, onde evitare che l’istituto assuma i tratti del mero “telelavoro”, ossia che anche lo smart working diventi una gabbia domestica che condanna il lavoratore all’isolamento, in una condizione esistenziale molto diversa da quella ipotizzata dal legislatore, che identifica nel lavoro agile la forma ideale per realizzare il bilanciamento tra esigenze di vita e di lavoro. Nell’immediato futuro, specie qualora continui un utilizzo emergenziale del lavoro agile, l’impiego dell’istituto, ed in particolare la definizione organizzativa degli standard di performance e la relativa valutazione da parte del datore di lavoro, dovrebbe avvenire tenendo in debita considerazione la condizione soggettiva dei lavoratori che svolgono la prestazione da remoto, al fine di tutelare maggiormente coloro che hanno responsabilità famigliari3. In questa prospettiva non sembrano particolarmente utili le innovazioni apportate dalle Misure per il sostegno e la valorizzazione della Famiglia (c.d. “Family Act”), che, proseguendo in una logica emergenziale, si limitano a sancire il diritto di priorità dei genitori con figli di età non superiore ai 14 anni a svolgere la propria prestazione con modalità agile (art. 5, c.2 e) 4. Se da un lato è senz’altro opportuno favorire la diffusione dello smart working, anche attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dal datore di lavoro (art. 90 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34), dall’altro lato è necessario ricalibrare il quadro regolativo complessivo dell’istituto, superando al più presto l’unilateralismo che ha caratterizzato la fase emergenziale (con facoltà di impiego anche al di fuori di accordi individuali), ed introducendo ulteriori presidi a favore della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, come il diritto alla disconnessione, attualmente solo debolmente previsto dalla legge. Anche nel campo del lavoro tramite piattaforma sono necessari nuovi adattamenti che nascono dalla consapevolezza che solo un’effettiva partecipazione dei lavoratori alla definizione condivisa dei criteri con cui si realizzano le modalità di funzionamento delle piattaforme può contribuire ad una crescita socialmente sostenibile di questi nuovi settori dell’economia. Senza necessariamente ricalcare le più avanzate proposte della dottrina tedesca, che militano a favore di un’estensione delle prerogative co-decisionali dei consigli di fabbrica sino a ricomprendere i lavoratori autonomi delle piattaforme5, sarebbe quantomeno opportuno promuovere con maggiore determinazione la contrattazione collettiva in questo specifico segmento del mercato del lavoro, al fine di realizzare condizioni più avanzate di impiego a prescindere dalla qualificazione dei rapporti di lavoro6.

3 4 5 6

Cfr. Mangan, Gramano, Kullmann, An unprecedented social solidarity stress test, in European Labour Law Journal, 6 luglio 2020. Cfr. Scarponi, Genitorialità, Family Act, Direttiva europea 1158/2019 “work-life balance”, in www.ingenere.it. Cfr. Klebe, Weiss, Workers’ Participation 4.0 – Digital and Global?, in Comparative Labor Law &Policy Journal, Volume 40, 2019. Cfr. in generale De Stefano, “Negotiating the algorithm”: Automation, artificial intelligence and labour protection, Employment WP No. 246, ILO, Geneva, 2018.

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5. La salute e sicurezza sul lavoro, oltre la subordinazione. La pandemia ha rilanciato con forza il tema della sicurezza sui luoghi di lavoro, sia nell’ambito dell’impresa tradizionale sia con riferimento ai nuovi settori dell’economia digitale in cui operano le piattaforme. Richiamare le imprese alla responsabilità sociale di assicurare l’integrità psico-fisica dei dipendenti è parte essenziale di una strategia di valorizzazione del lavoro che, partendo dall’emergenza, individui i punti focali su cui sviluppare un’azione normativa. Il dato emergenziale emerge chiaramente dai dati dell’Ufficio Studi dell’INPS che, con riferimento al periodo di lockdown, mettono a confronto le aree a maggior densità di imprese attive nei cosiddetti settori essenziali, e per questo non interessati alla chiusura, e le aree in cui tale densità è minore. Ebbene da tali dati si evince chiaramente che a seguito dei provvedimenti governativi le provincie con una maggiore quota di rapporti di lavoro nei settori essenziali hanno registrato una crescita nel numero dei contagiati, con un impatto di circa il 25% della media. Ciò dimostra che, sebbene il rischio biologico Coivid-19 non sia strettamente aziendale (salvo ovviamente il settore delle aziende sanitarie), ma esterno e generale, si trasforma in rischio interno per i lavoratori che possono essere esposti e di conseguenza va valutato come rischio anche aziendale e in questo senso rischio specifico. Le imprese dovrebbero, di conseguenza, rivedere il proprio documento di valutazione dei rischi, aggiornandolo in funzione del rischio Covid-19 sulla base dei dati oggettivi e dei profili soggettivi dei lavoratori. Anche in materia di sicurezza del lavoro ritorna con forza l’esigenza di una maggiore universalità di tutela oltre la dicotomia subordinazione/autonomia. In questa prospettiva si dovrebbe rivedere l’interpretazione, se non anche l’assetto, delle norme del TU in punto di distinzione selettiva tra subordinato e autonomo. È evidente che il TU prevede alcune misure assai deboli a tutela del lavoro autonomo: 1. l’obbligo di utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di legge, 2. munirsi di dispositivi di protezione individuale, 3. di beneficiare, a proprie spese però, della sorveglianza sanitaria e 4. di partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte. Queste tutele sono inadeguate di fronte ai cambiamenti del mercato del lavoro e in particolare all’emersione di forme di lavoro autonomo tramite piattaforma digitale. Non è più sufficiente estendere le tutele nei confronti dei collaboratori coordinati e continuativi di cui all’articolo 409, primo comma, n. 3, del Codice di procedura civile”, solo laddove la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente” (come statuisce l’art. 3, co.7, del TU). Questa previsione esclude la tutela integrale per i collaboratori “esterni”, quali, in particolare, i lavoratori autonomi che operano tramite piattaforma digitale e svolgono la loro attività al di fuori dei “locali aziendali”; a questi lavoratori residuerebbe solo la possibilità di applicare l’insoddisfacente disciplina prevista per i lavoratori autonomi che compiono opere o servizi ai sensi dell’articolo 2222 del Codice civile (art. 24). È a causa di questa insufficiente quadro regolativo che il legislatore, con la legge 128/2019, ha introdotto una tutela minima per i riders autonomi, così come prevista dall’art. 47-septies. Tale normativa, in quanto speciale, deve intendersi come un rinvio integrale al TU, e non alla sola norma dedicata al lavoro autonomo, e ciò a prescindere dalla questione della (in)sussistenza nella fattispecie del requisito normalmente previsto per

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l’applicazione dell’intero T.U. al lavoro parasubordinato (e cioè, come si è detto, la circostanza che la prestazione si svolga nei luoghi di lavoro del committente: art. 3, co.7). È stata tuttavia sostenuta in dottrina un’interpretazione più restrittiva, volta a limitare l’estensione della disciplina del T.U., con la conseguenza di limitare l’obbligo del committente alla sola assunzione delle spese per l’organizzazione dei presidi previsti dall’art. 21 per i lavoratori autonomi di cui all’art. 2222 c.c. (formazione e la sorveglianza sanitaria). Di conseguenza l’obbligo di prevenzione e sicurezza non riguarderebbe la fornitura delle idonee attrezzature di lavoro ed i dispositivi di protezione individuale che essi debbono utilizzare; i lavoratori autonomi delle piattaforme inoltre non avrebbero accesso ad altri diritti di sicurezza, come quelli relativi all’informazione e alla valutazione dei rischi preventivabili in relazione alla concreta modalità di esecuzione della prestazione. Una tale interpretazione restrittiva è contraria alla lettera e alla ratio della legge, ai sensi della quale “il committente che utilizza la piattaforma anche digitale è tenuto nei confronti dei lavoratori di cui al comma 1, a propria cura e spese, al rispetto del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”, quindi, all’integrale rispetto del decreto. Se l’intenzione del legislatore fosse stata di limitare l’obbligo del committente alla sola sfera dell’art. 21, la norma sarebbe stata formulata diversamente, riferendosi espressamente a tale specifica norma del T.U., senza imporre, con formula generale, il “rispetto del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”. Inoltre, l’art. 21 si riferisce espressamente ai lavoratori autonomi che realizzano un’opera o un servizio ai sensi dell’art. 2222 c.c., mentre l’art. 47-septies riguarda una peculiare e specifica categoria di lavoratori autonomi, i riders appunto, che non sono inquadrabili nello schema dell’art. 2222 c.c., ma presentano una fisionomia del tutto particolare, tanto che il legislatore, nel fornire loro una disciplina ad hoc, ha innanzitutto fatto salvo il loro inquadramento come prestatori etero-organizzati ex art. 2, co. 1, disponendo in ogni caso una regolamentazione minima. Questi lavoratori autonomi “speciali” sarebbero ingiustamente discriminati rispetto ai collaboratori che svolgono la prestazione nei luoghi di lavoro del committente, e che in ragione dell’art. 3, co.7, hanno diritto all’applicazione integrale del T.U., posto che con quei collaboratori condividono elementi di status, di debolezza economica e di dipendenza economica. Del resto, sarebbe incongruo limitare la previsione dell’art. 47-septies al solo obbligo per il committente di sostenere le spese di formazione e di sorveglianza sanitaria, senza porre a carico del committente anche ulteriori obbligazioni, considerata la peculiare natura, forma organizzativa e struttura operativa dell’impresa-piattaforma, la quale non “esternalizza” il lavoro come avviene nei normali processi produttivi secondo i criteri dell’outsourcing o del decentramento produttivo, ma, al contrario, “internalizza” all’interno del proprio peculiare processo produttivo i lavoratori autonomi: i quali, pur non svolgendo la propria attività all’interno di un perimetro fisso costituito da uffici, locali o stabilimenti in senso fisico, operano pur sempre “nei luoghi di lavoro del committente”, intesi, questi, come i “luoghi” in cui si svolge la produzione del committente, una produzione del tutto indipendente dall’esistenza di un luogo fisico di stabilimento. Questa ricostruzione è coerente non solo con le caratteristiche del ciclo produttivo che connota questo segmento di attività d’impresa, ma anche con la nozione giuridica di piattaforma posta dal legislatore, il quale ha precisato come le piattaforme, “indipen-

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dentemente dal luogo di stabilimento”, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione. La tesi qui sostenuta ha trovato le prime conferme giurisprudenziali durante l’emergenza Covid-19. In particolare, i tribunali di Bologna e di Firenze hanno imputato alle piattaforme il mancato rispetto dell’art. 71 del T.U. in tema di dispositivi di protezione individuale, ordinando la consegna dei dispositivi di protezione individuale contro il rischio di contrarre la malattia da Covid-19 (mascherina protettiva, guanti monouso, disinfettanti e prodotti a base alcolica per la pulizia dello zaino), interpretando quindi il disposto come norma che estende ai riders autonomi l’intero d. lgs. n. 81/2008, e non il solo art. 21. Il lavoro autonomo, nelle sue diverse forme giuridiche, è sempre più un lavoro integrato nei processi produttivi, ma i processi produttivi sono sempre meno materiali e identificabili in un ciclo produttivo che si sviluppa entro coordinate spaziali definite. Nel caso del lavoro tramite piattaforma il legislatore ha opportunamente previsto l’estensione integrale del TU. Ma quid per altre attività di lavoro autonomo, continuative o anche solo occasionali, che non si svolgono nei luoghi di lavoro del committente, ma sono pur sempre a vario titolo funzionalmente inserite nell’organizzazione dello stesso committente? La distinzione tra collaboratori interni ed estrerni al luogo di lavoro, è sempre meno appagante, come dimostra la questione dei collaboratori misti che operano in parte nei luoghi di lavoro in parte fuori: si pensi ai collaboratori informatici o i collaboratori che svolgono attività di promozione e vendita di prodotti, per i quali le tutele antiinfortunistiche si applicherebbero solo nelle fasi di lavoro svolte all’interno della sede aziendale. Recuperare il significato più ampio di lavoratore, quello dell’art. 2, co1, lett. a, del TU “persona che indipendentemente dalla tipologia contrattuale svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione. E, su questa base, sviluppare l’ispirazione universalistica di cui si diceva.

6. Emergenza e catene globali del valore: verso forme di globalizzazione locale?

Rimane al fondo di questa emergenza sanitaria una questione che trascende la capacità degli Stati nazionali di ripensare i propri meccanismi di sorveglianza e di regolazione di fenomeni globali, ma che, al contempo, riguarda da vicino la dimensione “glocale” dei nostri sistemi produttivi. La crisi del Covid-19 è infatti l’ultima esternalità negativa dell’iperglobalizzazione, che ha consentito al virus Covid-19 di viaggiare in business class tra la Cina e la Germania, muovendosi nell’ambito di quelle catene globali del valore che organizzano la produzione di beni e servizi a livello mondiale segmentandola in diverse fasi, localizzate in aree distanti migliaia di chilometri l’una dall’altra. Si tratta di un “modello produttivo globale” che esprime, di fatto, il massimo spregio per la dimensione sociale del mercato, nella misura in cui autorizza le imprese a realizzare quello shopping normativo che è alla base dei comportamenti irresponsabili con riferimento ai beni comuni del lavoro e dell’ambiente. Le supply chains hanno rappresentato uno dei vettori principali

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della dislocazione produttiva nel mondo, ma la crisi pandemica può essere l’occasione per riorganizzarle nella logica di quella che è stata definita una “globalizzazione regionale”7. E allora, una volta che l’onda epidemica sarà scemata, perché non ripensare seriamente la geografia economica su base macro-regionale, su catene “corte” del valore, in cui il lavoro, la produzione e commercio assumono nuovamente la logica giuridica della localizzazione, invece che continuare la corsa verso una de-localizzazione senza fine? Le filiere di produzione corte, valorizzate soprattutto nel settore agroalimentare, sono un modello d’impresa che rafforza gli elementi di localismo e collaborazione territoriale, e consente di avvicinare l’azione economica alla dimensione etica, così importante anche per la logica del mercato (e per superare le sue distorsioni). Entro catene e filiere corte è senz’altro più facilmente attuabile il progetto, divisato dall’OIL, di una “human-centred agenda for the future of work”, basata su una serie di “investimenti” nel potenziale umano, nelle istituzioni del mercato del lavoro e nel lavoro dignitoso e sostenibile. Entro catene e filiere corte, inoltre, è più agevole implementare quelle nuove forme di controllo e regolazione dei fenomeni economici che, in Europa, assumono a base normativa gli strumenti della due diligence e del devoir de vigilance, nonché, sul piano collettivo, la promozione di accordi transnazionali promossi dai sindacati internazionali8. La portata più significativa di una progettualità non contingente dell’emergenza Covid-19 potrebbe dunque essere questa: la ridefinizione di un sistema produttivo dove l’azione economica è orientata verso la soddisfazione di valori come la sostenibilità sociale e ambientale9, la conservazione di culture e abitudini locali, la condivisione e l’accesso: valori che proteggono direttamente le persone che lavorano, perché le collocano in una rete di convenzioni sociali ed economiche di prossimità, centrate sulla persona e sul suo sviluppo.

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Treu, La Pandemia un’occasione per pensare al “mondo che verrà”, in Il mondo che verrà. Interpretare e orientare lo sviluppo dopo la crisi sanitaria globale, Quaderni del Cnel, 2020. Cfr. Brino, Diritto del lavoro e catene globali del valore, Giappichelli, 2020. Sul rapporto tra diritto del lavoro e sostenibilità cfr. Cagnin, Labour Law and Sustainable development, Wolters Kluwer, 2020.

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Emergenza epidemiologica e corrispettività nel rapporto di lavoro Sinossi. Nel presente saggio l’A. si interroga sulla corrispettività del rapporto di lavoro nell’era dell’emergenza sanitaria alla luce delle molte ipotesi di sospensione della prestazione che hanno acquisito improvvisa rilevanza. Abstract. In the essay the A. wonders about the reciprocal duties within the employment relationship in the era of the pandemic in the light of the many hypotheses of suspension of the work. Parole

chiave:

Emergenza sanitaria – Corrispettività – Rapporto di lavoro – Sospensione

1. L’emergenza epidemiologica della primavera del 2020 e la sospensione della gran parte delle attività produttive quale forme di difesa dalla diffusione del contagio da Covid 19 hanno determinato conseguenze poco meno che devastanti nel mondo del lavoro, solo parzialmente rimediate da un massiccio intervento degli ammortizzatori sociali, la cui durata, anche a prescindere dalla lentezza, generalmente riconosciuta, della loro distribuzione, è comunque destinata ad esaurirsi, presumibilmente, prima dell’auspicata (ma ad oggi ancora lontana) recessione dell’epidemia medesima. Tanto che è ragionevole prevedere che i problemi più rilevanti e le sofferenze più significative si manifesteranno nelle prossime fasi dell’epidemia, dopo le graduali riaperture delle attività produttive, allorché non ci saranno solo questioni di ritardi nel pagamento della Cassa integrazione, ma emergeranno problemi di spettanza o meno del trattamento retributivo, e di tenuta stessa dei rapporti di lavoro. Sia in questa fase, sia in prospettiva futura, l’emergenza legata al Covid-19 impone pertanto un confronto con il principio di sinallagmaticità e corrispettività del rapporto di lavoro, messo in discussione dalle numerose situazioni, per lo più indotte da un fattore esterno (factum principis) ma non solo, nelle quali lo scambio di prestazioni, in realtà l’esecuzione della prestazione di lavoro, si trova ad essere più o meno motivatamente sospesa o ridotta, anche su input dello stesso legislatore, che quella sospensione incentiva. 2. La situazione è indubbiamente complessa, sia con riguardo alla prestazione di lavoro in sé, sia con riguardo a ciò di cui il datore di lavoro è onerato, e suggerisce, per semplificare, di occuparsene separatamente.


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Quanto alla prestazione di lavoro, allorché il contagio contratto dal lavoratore determini l’insorgere di uno stato patologico (cosa in sé non scontata, vista la ben nota categoria dei c.d. asintomatici), ne deriva l’impossibilità della prestazione medesima: trattasi peraltro della consueta impossibilità di tipo giuridico che, seppure basata su una qualche forma di impossibilità di tipo naturalistico (incapacità a lavorare), non vi si sovrappone del tutto, talora risultando di estensione maggiore. La particolarità che va segnalata è che l’incapacità al lavoro per infezione da Covid-19 viene ricondotta dal legislatore (art. 42, comma 2, del d.l. n. 18/20, convertito nella l. n. 27/20) alla disciplina dell’infortunio sul lavoro. Si tratta di una qualificazione che crea più di un problema, tanto dal punto di vista sistematico, quanto da quello applicativo. Dal punto di vista sistematico, se da un lato essa si collega al consolidato orientamento giurisprudenziale che equipara la causa virulenta alla causa violenta come requisito essenziale per la definizione dell’infortunio, dall’altro lato c’è da chiedersi come debba essere risolto il problema qualificatorio che quell’orientamento aveva evidentemente risolto a monte nelle singole fattispecie, e cioè la sussistenza dell’occasione di lavoro: un presupposto in base al quale deve essere pur sempre il lavoro ad esporre al rischio di infortunio, che però nel contesto di una epidemia (addirittura una pandemia) è tutt’altro che di facile verifica, vari essendo i luoghi e gli strumenti del contagio. Ma, a ben guardare, la norma sopra citata parla di «infezione da coronavirus… in occasione di lavoro», con il che sembra voler escludere eccezioni alla tradizionale nozione di infortunio e alla necessaria verifica dei suoi presupposti, tanto da confermare le non indifferenti difficoltà di applicazione, con probabile accezione restrittiva della nozione (e della conseguente tutela) da parte dell’ente previdenziale. Con conseguenze ulteriormente problematiche, poi, per l’applicazione della tutela in caso di infortunio in itinere, a proposito del quale si potrebbe assistere ad un singolare rovesciamento del consueto modo di valutare l’utilizzo del mezzo privato, da sempre ammesso (ai fini della tutela) solo se necessitato, ed ora necessitato per definizione, stante l’alto livello di rischio (naturalmente di rischio esogeno) proprio del mezzo pubblico. Dal punto di vista applicativo, inoltre, ci sono da segnalare le problematiche conseguenze che dalla qualificazione in termini di infortunio sul lavoro discendono sul piano della responsabilità penale e della conseguente responsabilità civile del datore di lavoro: conseguenze sulle quali non a caso si è già cominciato a discutere vivacemente. Ma si tratta di questioni eccedenti l’oggetto del presente intervento. 3. C’è da segnalare la norma (art. 26, comma 1) che equipara alla malattia (s’intende comune) i periodi di astensione dal lavoro per quarantena o permanenza fiduciaria domiciliare, cioè situazioni a carattere meramente precauzionale e preventivo riconducibili al classico factum principis, salvo poi escludere tali periodi dal computo del periodo di comporto di cui all’art. 2110 c.c.: esclusione solitamente prevista dalla contrattazione collettiva o dalla giurisprudenza, rispettivamente per le assenze imputabili ad infortunio sul lavoro (e non è questo il caso, stante l’equiparazione alla malattia) o per quelle per malattie sostanzialmente imputabili al datore di lavoro e alla organizzazione da esso predisposta (tutte da dimostrare). Qui, evidentemente, la fonte autoritativa della sospensione della prestazione di lavoro ha indotto il legislatore ad addossare all’ente previdenziale il costo prevalente della sospensione medesima, lasciando (implicitamente) a carico del da-

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tore di lavoro l’onere differenziale fra retribuzione piena e indennità di malattia. Coerente appare poi la disposizione che modifica il titolo dell’assenza – infortunio sul lavoro e non più malattia – allorché dopo o durante il periodo precauzionale di quarantena il lavoratore abbia contratto il virus. A fronte dell’evidente tendenza normativa a favorire le assenze (su cui più diffusamente oltre) c’è da chiedersi se la stessa disciplina dettata per le assenze per quarantena (con equiparazione alla malattia) sia estensibile alle ipotesi in cui il lavoratore debba assentarsi dal lavoro per ottemperare al protocollo aziendale che cerchi di garantire la sicurezza della ripresa attraverso vari sistemi, come ad esempio meccanismi di alternanza e turnazioni. La risposta non può essere che positiva nei confronti del datore di lavoro, cui l’assenza in definitiva è riconducibile (anche se nell’adempimento di un obbligo di protezione), e che pertanto non potrà che essere giustificata. Diverso è invece il problema nei confronti dell’Inps, che ben potrebbe eccepire l’insussistenza di una norma di copertura e l’impossibilità di applicare in via analogica una disposizione (previdenziale) da considerare di stretta interpretazione. Ove si giungesse a questa conclusione negativa, si potrà però sostenere che quanto non è esigibile dall’istituto previdenziale, è esigibile nei confronti del datore di lavoro, sulla base dell’art. 2110 c.c.; senza che lo possa impedire la circostanza sopra evidenziata di una sospensione indotta non dalla libera volontà del datore di lavoro, ma dal necessario adempimento, da parte sua, di uno specifico obbligo di protezione, direttamente indotto dal pericolo epidemiologico, e comprensivo anche di ricadute patrimoniali sul rapporto. Un caso di impossibilità a prestare lavoro da parte del lavoratore, riferito peraltro solo al periodo di chiusura, è quello dell’impossibilità dovuta al divieto di spostamenti fra diverse regioni. Qui la specifica fonte dell’impossibilità potrebbe portare ad accogliere l’equiparazione alla malattia con maggiore facilità rispetto all’ipotesi appena vista. Per quel che riguarda i già segnalati “asintomatici”, essi vanno considerati come soggetti infetti se risultati positivi ai noti accertamenti diagnostici (tamponi) e dunque (ove l’attività produttiva sia ripresa) vanno sospesi dal lavoro fino alla scomparsa del virus nei loro organismi (accertamento ovviamente da rimettersi agli strumenti della scienza medica), mentre appare assai difficilmente configurabile un onere di indagine e verifica a tutto campo a carico del datore di lavoro in assenza del normale accertamento (il tampone), posto che detto onere, per essere efficace, dovrebbe riguardare tutti i dipendenti ancora non infettati né posti in quarantena. Possono residuare solo situazioni particolari e note al datore di lavoro (si pensi a frequentazioni passate con soggetti già infetti), tali da far ritenere “pericolosa” l’attività lavorativa offerta dal singolo lavoratore “sospetto” e legittimo il rifiuto da parte del datore. Ma tutto dovrebbe essere oggetto di prova rigorosa; in mancanza, non mi sembra che possa essere addossato al privato un compito (profilattico) proprio delle strutture sanitarie. Ciò non toglie che, in vista della ripresa dell’attività produttiva e a maggior ragione ad attività ripresa, si possa ritenere che gravi sul lavoratore – particolarmente in una situazione come quella di questo periodo – l’obbligazione di conservare la capacità di adempiere, ponendo in essere tutto quanto è necessario, secondo le ben note indicazioni (distanziamento, mascherine ecc.), perché il rischio di contagio si riduca e la prestazione offerta sia “regolare”.

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Sempre con riguardo alla prestazione di lavoro, una particolare attenzione è stata dedicata dal legislatore ai soggetti che per loro patologie sono maggiormente esposti al rischio da contagio. L’art. 26, comma 2 (aggiunto dalla legge di conversione) si occupa dei soggetti già considerati disabili particolarmente gravi ai sensi dell’art. 3, comma 3 della l. n. 104/1992 nonché dei soggetti accertati come immunodepressi o affetti da esiti di patologie oncologiche. Per tali soggetti l’assenza dal lavoro – praticamente imposta dalla loro condizione – è equiparata al ricovero ospedaliero. Una ulteriore, interessante forma di tutela per i soggetti sopra indicati (disabili gravi) è il diritto, loro riconosciuto dall’art. 39 del d.l. n. 18/2020, a svolgere l’attività lavorativa in modalità agile, sempreché ciò sia compatibile con la natura dell’attività. Diritto, questo, significativamente esteso ai familiari dei soggetti disabili gravi. La norma non considera invece i tanti altri lavoratori che, pur non essendo “certificati” nel senso appena detto, siano tuttavia da ritenersi “fragili” e più indifesi di fronte alle conseguenze del contagio. Una interpretazione estensiva o analogica mi sembra impraticabile, di talché non si potranno che applicare i princìpi generali. E dunque, esauriti gli strumenti di flessibilità, l’eventuale rifiuto da parte del lavoratore di tornare a svolgere l’attività lavorativa, anche se per certi aspetti giustificato, c’è da dubitare che non possa portare alla perdita della retribuzione. Dopodiché, si potrebbe aprire la strada ad un accertamento di inidoneità (non più soltanto temporanea) alla prestazione e al successivo licenziamento, ovviamente superato il periodo di blocco, visto che si tratterebbe pur sempre di ragioni in sé soggettive, ma riconducibili all’organizzazione e alle sue esigenze, e dunque rientranti nel blocco medesimo. 4. Passando alla posizione del datore di lavoro, il profilo che interessa è ovviamente quello che riguarda la predisposizione del c.d. substrato della prestazione di lavoro, cioè degli elementi materiali e strumentali per lo svolgimento dell’attività: un onere notoriamente a carico del datore medesimo e il cui difetto può essere determinato – anche questo è ben noto – da situazioni di vera e propria impossibilità o di mera difficoltà, il tutto ripercuotendosi poi sulla sussistenza e la misura dell’obbligazione retributiva. Che la chiusura dell’attività produttiva (il c.d. lockdown) costituisca un fatto oggettivo derivante dal factum principis, è fuori discussione. Lo schema è quello, ben noto, della Cassa Integrazione ordinaria, riconducibile alla impossibilità, che è impossibilità della prestazione di lavoro come conseguenza della impossibilità del datore di lavoro a fornire il substrato della prestazione medesima. Uno schema esteso, dal punto di vista dei soggetti beneficiari, attraverso il sistema della Cassa in deroga. Il rischio tutelato, come di consueto, è quello del lavoratore di fronte a sospensioni che sarebbero legittime secondo la legge del rapporto, oltre che di fronte a possibili licenziamenti indotti dal protrarsi della situazione di impossibilità. Ma il rischio tutelato coinvolge anche la posizione del datore di lavoro, a fronte dell’eventualità di una chiusura dell’attività tutt’altro che teorica. Naturalmente il problema assumerà proporzioni non facilmente controllabili allorché il sistema degli ammortizzatori sociali si sarà esaurito o quando, dopo la riapertura, e la fine del periodo di Cassa integrazione, la ripresa dell’attività produttiva non sarà decollata e si potranno verificare nuove chiusure. La tenuta degli ammortizzatori sociali è a termine, così come a termine è il blocco dei licenziamenti (ad oggi, fino al 17 agosto, ma sembra che

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vi saranno proroghe). Venute meno quelle tutele, non potranno che riprendere i princìpi di sinallagmaticità. Con quale tenuta, in generale, per l’occupazione, è facile immaginare. Dopo la fase della chiusura totale, la riapertura segue dunque i princìpi generali in tema di corrispettività, anche se il contesto nel quale essa andrà a collocarsi sarà quello di una emergenza economica di proporzioni incontrollate. Una particolarità nella gestione “normale” del rapporto ripreso può essere quella legata al possibile rifiuto del lavoratore di eseguire una prestazione lavorativa non supportata da misure di prevenzione e sicurezza sufficientemente affidabili. Certo, si può pensare che non tutti i lavoratori potrebbero concedersi, nella situazione attuale, il lusso di una eccezione di inadempimento. Ma la questione resta, anche perché, a monte, occorre risolvere un problema comunque non eludibile, cioè quello del livello delle misure di sicurezza che nell’attuale e ancora non passata epidemia il datore di lavoro è tenuto ad adottare, e ciò a svariati fini, uno dei quali soltanto è quello di precisare i presupposti per la suddetta eccezione. La questione è già stata trattata in un precedente intervento e pertanto non mi soffermerò. Segnalo solo che la rilevanza del problema ha assunto un peso maggiore da quando la giurisprudenza di legittimità (peraltro con due sentenze motivate in modo piuttosto sbrigativo: n. 6631/2015 e n. 836/2016) ha accompagnato l’applicazione dell’eccezione di inadempimento – che di per sé giustifica solo il rifiuto di chi la oppone e non gli garantisce la controprestazione – al riconoscimento, appunto, del diritto alla retribuzione, in base alla considerazione per cui il lavoratore non può subìre conseguenze sfavorevoli a causa dell’inadempimento del datore di lavoro. 5. L’esigenza di circoscrivere quanto più possibile il contagio anche dopo la pur graduale riapertura delle attività produttive induce il legislatore a garantire alle assenze misure protettive e ad incentivarle, anche al fine (indiretto) di favorire comportamenti virtuosi di cura familiare. Si iscrivono in questi obiettivi anzitutto le norme sui congedi di cui all’art. 23 del d.l. n. 18/2020, aventi come destinatari tanto i lavoratori subordinati del settore privato, quanto i soggetti iscritti alla Gestione separata dei c.d. parasubordinati, quanto anche i lavoratori autonomi iscritti all’Inps. Tali congedi costituiscono un aiuto – certamente insufficiente in termini quantitativi seppure condivisibili dal punto di vista della ratio che vi è sottesa – per le grandi difficoltà nelle quali si è trovata la maggior parte delle famiglie italiane nella gestione di una attività lavorativa mai interrotta (nei servizi essenziali) o comunque poi ripresa dopo la chiusura, a fronte della ininterrotta e totale sospensione della attività scolastiche di ogni ordine e grado. È chiaro che la soluzione di un problema di così ampie proporzioni non può essere affidata al solo legislatore giuslavorista, sì che talune critiche sollevate nei confronti di un intervento a impatto indubbiamente ridotto possono sembrare ingenerose. Ma la sensazione che 15 giorni di congedo straordinario siano poco più che un palliativo, è difficile da allontanare. Dunque, l’art. 23 citato prevede che, per il periodo di sospensione delle attività educative e didattiche, i lavoratori di cui sopra hanno diritto ad un congedo di 15 giorni, continuativi o frazionati, per i figli di età non superiore a 12 anni (salvo che si tratti di figli disabili, per i quali non vige il limite di età). Durante tale congedo il lavoratore ha diritto (ovviamente a carico dell’Inps) ad una indennità pari al 50% della retribuzione. È previ-

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Carlo Cester

sta la conversione degli ordinari congedi parentali di cui agli articoli 32 e 33 del d.lgs. n. 151/2001 nel congedo straordinario di cui sopra, con conseguente conservazione della misura del congedo ordinario per il periodo corrispondente a quello straordinario. Il diritto in oggetto, peraltro, è subordinato a che non vi sia nel nucleo familiare altro genitore beneficiario di ammortizzatori sociali o comunque disoccupato o non lavoratore. Insomma, una provvidenza in sostanza residuale, che mette implicitamente al primo posto quello che potremmo chiamare il Welfare fatto in casa, considerato strumento idoneo a mettere fuori gioco l’intervento pubblico. E qui, ovviamente, le critiche si sprecano. Un parziale correttivo – peraltro in senso solo descrittivo, dato che il campo di applicazione è diverso rispetto a quello del comma 3 dell’art. 23 appena visto – è introdotto dal comma 6 del medesimo articolo, che prevede a beneficio dei medesimi soggetti un diritto di astenersi dal lavoro in caso di sospensione delle attività didattiche per figli di età compresa fra 12 e 16 anni (questa appunto la differenza nel campo di applicazione, nonostante la diversa e più elevata età male si combini con la conservazione del riferimento alla sospensione anche dei servizi educativi per l’infanzia), il diritto di astenersi dal lavoro appunto in caso di sospensione delle scuole di ogni ordine e grado. Tale diritto di astensione, in realtà, si esaurisce nell’esclusione di ogni responsabilità disciplinare a carico del lavoratore per l’assenza, posto che al lavoratore medesimo non spetta alcuna indennità, né contribuzione figurativa. Quanto alla durata dell’assenza, essa coincide con il periodo di chiusura delle attività scolastiche. La novità rispetto alla disciplina di cui al comma 3 sta nell’introduzione del divieto di licenziamento e nella garanzia della conservazione del posto: previsioni in sostanza eccentriche rispetto ad un congedo di durata assai limitata, ma non prive di senso se riferite ad una assenza (giustificata) per periodi più lunghi. Quanto al primo (divieto di licenziamento) esso opera oltre il termine di 60 giorni previsto in origine dallo stesso d.l. n. 18/2020, ma, ovviamente, anche oltre il termine successivamente prorogato (5 mesi complessivi, con scadenza al 17 agosto 2020), posto che la sospensione dell’attività scolastica comunque lo sopravanza. Naturalmente la norma ha riguardo non al possibile licenziamento disciplinare in ragione dell’assenza, essendo questa giustificata per legge, ma ad una possibile situazione oggettiva di (dis)organzzazione in ipotesi innescata da una assenza magari particolarmente lunga. Poco comprensibile, come disposizione autonoma, è invece quella che garantisce la “conservazione del posto di lavoro”, che, com’è del tutto evidente, appare una mera ripetizione del divieto di licenziamento. A meno che l’espressione non debba essere riferita alla conservazione anche delle mansioni ricoperte prima dell’assenza: una lettura forse un poco forzata, ma l’unica che può garantire un significato precettivo autonomo della disposizione. L’art. 25 del d.l. n. 18/2020 estende la disciplina ora vista ai dipendenti pubblici. Con una ambiguità letterale, visto che l’estensione riguarda il congedo e la relativa indennità di cui anche al comma 6 che però non prevede alcuna indennità. Propenderei per una svista, visto che sarebbe arduo pensare che il diritto all’astensione senza benefici economici si tramutasse, per i dipendenti pubblici, in un diritto coperto anche economicamente. In alternativa ai congedi straordinari appena visti, il comma 8 dell’art. 23 prevede la concessione di un bonus per l’acquisto di servizi di baby sitting, nel limite massimo complessivo di 600 euro, da utilizzare nel medesimo periodo.

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Emergenza epidemiologica e corrispettività nel rapporto di lavoro

6. Da ultimo, c’è da chiedersi come e fino a che punto la sospensione per ferie possa essere utilizzata come strumento di prevenzione dal contagio, con una innegabile distorsione della sua tradizionale funzione. Non ci vuole molto, infatti, per rendersi conto che, quanto meno nel periodo di chiusura generalizzata, la “fruibilità” effettiva di un periodo di ferie fosse, in relazione agli interessi personali del lavoratore, pressoché nulla. Perché se è vero che spetta al datore di lavoro stabilire la collocazione delle ferie nel tempo (art. 2109 c.c.), è anche vero che ciò non dovrebbe autorizzare a modificarne la funzione. Ciononostante, nei primi Decreti della Presidenza del Consiglio (d.p.c.m. 8.3.2020, art. 1, comma 1; d.p.c.m. 11.3.2020, art. 1, comma 7) molte raccomandazioni sono contenute affinché il datore di lavoro faccia ampio uso delle ferie residue. Conclusione alla quale si può aderire a patto di considerare la assoluta novità della situazione emergenziale, con gli interessi dei lavoratori – ordinariamente da bilanciare con quelli dell’impresa – da mettere invece a confronto (un confronto perso in partenza) con l’interesse pubblico al controllo dell’epidemia. Fa propendere per tale necessitata soluzione anche la disciplina relativa al pubblico impiego contenuta nell’art. 87, comma 3 del d.l. n. 18/2020, dalla quale si evince che l’utilizzazione delle ferie pregresse dei dipendenti è in sostanza un obbligo per le pubbliche amministrazioni (così come il ricorso ad altri strumenti di flessibilità). Anche se, per la verità, il confronto con il settore privato è sostanzialmente impari. Ed infatti, mentre per i lavoratori privati alla fine delle forme di flessibilità (salvo il periodo temporaneo di blocco) c’è il possibile licenziamento, per i dipendenti pubblici alla fine delle forme di flessibilità c’è un provvedimento di “esenzione dal servizio” (art. 87, comma 3), che però costituisce a tutti gli effetti servizio prestato, con diritto alla retribuzione piena, depurata soltanto dell’indennità sostitutiva di mensa. Una riprova, questa, del progressivo allontanamento del legislatore dagli obiettivi paritari di cui al d.lgs. n. 29/1993. Qualche ulteriore problema può riguardare il rapporto di sequenza cronologica fra godimento delle ferie e collocazione in Cassa Integrazione. Con riferimento alla Cassa ordinaria è opinione condivisa quella per cui si deve escludere che il datore di lavoro non possa richiedere (e ottenere) l’intervento della Cassa nonostante la presenza di ferie residue. Non altrettanto può dirsi con riferimento alla Cassa in deroga, per la quale la posizione dell’Inps, favorevole ad adottare la medesima soluzione, diverge da quella del Ministero, che invece ritiene che la Cassa possa intervenire solo dopo che le ferie si sono esaurite: una soluzione, quest’ultima, più coerente con il carattere appunto derogatorio ed eccezionale dell’intervento. Ma la questione è aperta.

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Arturo Maresca

Il diritto del lavoro nell’emergenza (post) Covid-19: il lavoro a termine Sinossi. Nel presente saggio l’A. analizza gli interventi legislativi attuati durante l’epidemia da Covid-19 in tema di lavoro a termine. Abstract. In this essay the author analyses the legislative interventions put into effect during the Covid-19 epidemic in the area of fixed-term employment. Parole

chiave:

Covid-19 – Lavoro a tempo determinato – Emergenza

1. Ancora una volta il diritto del lavoro si deve misurare con un’emergenza. Ma nel caso dell’epidemia da Covid-19 si tratta, purtroppo, di un’emergenza di eccezionale drammaticità, ben diversa da quelle (endemiche) vissute nel passato1. La reazione dispiegata dall’ordinamento giuridico per contrastare la diffusione del coronavirus è stata imponente (nelle dimensioni, nell’articolazione, nelle tecniche), ma certamente complessa e farraginosa, anche se, forse, è troppo presto per formulare giudizi definitivi in ordine alla sua efficacia che, quando sarà valutata, dovrà esserlo rispetto ai problemi di cui il legislatore (in larga parte, il Governo) si è dovuto far carico. Si deve, peraltro, tener conto che i molteplici problemi del lavoro nell’emergenza epidemiologica richiedono soluzioni da calibrare con riferimento ai tempi in cui dovranno operare: in alcuni casi, in via contingente, mentre in altri per fronteggiare situazioni i cui effetti, pur essendo oggi già presenti, continueranno a prodursi anche nel breve-medio periodo ed in altri casi ancora le misure adottate tendono a stabilizzarsi, dando vita a modifiche destinate in futuro ad inserirsi strutturalmente nella disciplina del lavoro. Appare, quindi, chiaro che un fattore determinante per valutare l’impatto delle nuove norme è quello dell’orizzonte temporale in cui sono chiamate a produrre i loro effetti in vista dei risultati cui sono finalizzate. Ad esempio gli interventi legislativi realizzati utilizzando la CIG, in tutte le sue forme ed articolazioni, hanno dovuto garantire ai lavoratori un reddito sostitutivo, nell’immedia-

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Il ricordo va subito ad un’altra emergenza che il diritto del lavoro è stato chiamato ad affrontare v. Il diritto del lavoro nell’emergenza, Jovene, 1979, a cura di De Luca Tamajo e Ventura.


Arturo Maresca

tezza, di quello retributivo venuto meno a causa della chiusura o del drastico ridimensionamento ex lege (per Covid-19) di molte attività produttive. Mentre con le modifiche alla disciplina del lavoro a termine si è cercato di dare una risposta ai problemi occupazionali di questi lavoratori che sono i più esposti al rischio di perdere il lavoro2, diversamente da quelli a tempo indeterminato garantiti dal divieto di licenziamento (art. 46, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito con l. 24 aprile 2020, n. 27). Infine con le modifiche al lavoro agile si è sperimentata una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa con risultati largamente positivi che consentono di immaginare nel prossimo futuro un passaggio dal lavoro agile emergenziale (che ha caratteristiche del tutto specifiche, spesso mirate a preservare il personale dipendente dal rischio di contagio da coronavirus nei luoghi di lavoro) al lavoro agile strutturalmente e funzionalmente inserito nell’organizzazione del lavoro all’interno della quale le prestazioni lavorative potranno essere rese non in presenza (cioè in un luogo diverso da quello individuato dal datore di lavoro) e secondo una collocazione temporale scelta dal dipendente, senza per questo incidere sulla proficuità dell’apporto lavorativo, anzi spesso migliorandola in termini di produttività e quanto al senso di responsabilità del lavoratore. 2. Passando alle modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a termine, l’art. 19bis, d.l. n. 18/2020 ha previsto che “ai datori di lavoro che accedono agli ammortizzatori sociali di cui agli articoli da 19 a 22 del presente decreto, nei termini ivi indicati, è consentita la possibilità, in deroga alle previsioni di cui agli articoli 20, comma 1, lettera c), 21, comma 2, e 32, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, di procedere, nel medesimo periodo, al rinnovo o alla proroga dei contratti a tempo determinato, anche a scopo di somministrazione”. L’art. 93, d.l. 19 maggio 2020, n. 34 prevede, a sua volta, che “in deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, per far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19, è possibile rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020, anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”. Le due norme hanno ambiti applicativi ed affrontano temi diversi, pur essendo complementari rispetto alle finalità che intendono perseguire. La prima rimuove un divieto che avrebbe impedito alle imprese che ricorrono alla CIG di rinnovare e, probabilmente, prorogare un contratto a termine o di avvalersi di lavoratori somministrati.

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Come, del resto, è sempre avvenuto in tutte le crisi che hanno attraversato il nostro Paese. L’ultima, quella iniziata nel 2008, ha fatto registrare, per quanto riguarda le riduzioni del personale a tempo indeterminato, un numero di lavoratori licenziati inferiore a quello che ci si sarebbe potuto attendere considerando la contrazione subita dalla produzione. Ciò è avvenuto non solo per gli interventi di sostegno al reddito garantiti dagli ammortizzatori sociali, ma anche perché gli effetti della crisi sono stati scaricati sui lavoratori temporanei (diretti o somministrati) riducendo drasticamente il rinnovo dei loro contratti e, quindi, il numero dei lavoratori occupati con questi contratti.

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Il diritto del lavoro nell’emergenza (post) Covid-19: il lavoro a termine

Aggiungo “probabilmente” perché secondo l’art. 20, co. 1, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 “l’apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non è ammessa: … c) presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato”. Quindi, seguendo un’interpretazione letterale e restrittiva in coerenza con la natura di eccezione della norma, si potrebbe ritenere che il divieto opera soltanto quando viene concluso un contratto di lavoro fissandone il termine finale che ne delimita la durata, ma non anche se si procede a prorogare il termine inizialmente convenuto; termine che, infatti, viene modificato e differito, non già apposto. Inoltre nel caso della proroga non si verifica un incremento del numero complessivo dei lavoratori occupati in concomitanza con l’intervento della CIG, in quanto tale numero resta invariato. Peraltro la proroga di un contratto a termine non sembra porsi in contraddizione insanabile con il contestuale ricorso alla CIG per lavoratori adibiti alle stesse mansioni. Infatti potrebbe anche rappresentare una valorizzazione del principio fondamentale (nella direttiva europea 1999/70/CE e nell’ordinamento italiano) di non discriminazione dei lavoratori a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato, poiché nel caso in esame verrebbe offerta ai primi – in coerenza con quanto avviene per i secondi – un’opportunità di conservazione dell’occupazione (attraverso la proroga) e, con essa, del reddito da lavoro. A conferma dell’ipotesi interpretativa relativa all’ammissibilità della proroga, si potrebbe anche evidenziare la differenza tra l’art. 20 e la più radicale previsione dell’art. 32, co. 1, d.lgs. n. 81/2015 secondo cui “il contratto di somministrazione di lavoro è vietato: … c) presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro”. In questo caso, infatti, il legislatore sembra aver optato per l’assoluta incompatibilità tra la CIG e l’utilizzo della somministrazione quando quest’ultima riguarda lavoratori che svolgono mansioni identiche a quelle dei lavoratori sospesi. Tornando alla norma in esame (l’art. 19-bis, d.l. n. 18/2020), si deve osservare che con essa il legislatore non ha inteso favorire il lavoro temporaneo (diretto o tramite agenzia) rimuovendo o attenuando i limiti legali a cui è sottoposto in via ordinaria, essendosi limitato, piuttosto, a prendere atto della peculiarità della causa integrabile relativa al COVID-19 per affermare conseguenzialmente che essa è compatibile – diversamente dalle altre ipotesi di utilizzo della CIG per le quali il divieto continua ad operare – con la proroga o la riassunzione dei lavoratori a termine che, quindi, sono in tal modo consentite, ma non agevolate, restando pur sempre assoggettate alle causali dell’art. 19, co. 1, d.lgs. n. 81/2015, introdotte con il decreto dignità (d.l. 12 luglio 2018, n. 87). L’unico vincolo legale preesistente che viene rimosso dall’art. 19-bis è quello dell’intervallo temporale (di dieci o venti giorni) che, in applicazione dell’art. 21, co. 2, D. lgs., n. 81/2015, deve intercorrere tra un contratto a termine e quello successivo. Il legislatore ha, probabilmente, valutato l’interesse delle imprese ad assumere a termine risorse ritenute necessarie a fronteggiare nell’immediato la situazione in atto, tanto è vero che la norma opera in ogni caso di rinnovo di un contratto a termine, anche di

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un lavoratore cessato ben prima dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 e, quindi, in modo del tutto indipendente da essa. In questa prospettiva si deve considerare che l’intervento del legislatore, realizzato con l’art. 19-bis, era destinato a produrre i suoi effetti durante il periodo in cui il Governo ha dovuto disporre la generalizzata sospensione delle attività produttive con esclusione di quelle necessarie a garantire i beni ed i servizi di primaria necessità3 che subivano, invece, un’intensificazione tanto straordinaria nei volumi e nei ritmi, quanto imprevista, ma assolutamente da salvaguardare per la convivenza sociale. Quindi il problema che si poneva per i contratti a termine – indispensabili per fronteggiare e sostenere l’improvviso innalzamento della domanda di beni e servizi di primaria necessità – non era all’epoca tanto quello delle causali essenziali per la validità delle proroghe o dei rinnovi di tali contrati, quanto il timore della loro incompatibilità con il ricorso alla CIG. Infatti si poteva verificare la necessità per un’impresa di ricorrere alla CIG e, contestualmente, aver bisogno di lavoratori a termine, anche se impegnati nelle stesse mansioni di quelli sospesi. Un’evidente contraddizione nella normalità, ma non anche in quei frangenti nei quali tale situazione si poteva manifestare per svariate ragioni: i vincoli alla mobilità delle persone e dei lavoratori (trasferte), la diversificazione delle esigenze produttive su base territoriale (si pensi alla limitatissima attività dei grandi supermercati posti nelle periferie e, per converso, alle code per fare la spesa di fronte agli esercizi commerciali presi d’assalto per la loro prossimità), la necessità di evitare gli spostamenti territoriali dei lavoratori nel tentativo di contenere la diffusione del contagio (ad esempio ciò ha comportato, specialmente per le catene commerciali di prodotti alimentari, di continuare ad avvalersi in un punto vendita degli stessi lavoratori, senza un avvicendamento con altri dipendenti provenienti da altri negozi). Invece per quanto riguarda le causali, necessarie a legittimare i rinnovi e le proroghe (superiori ai 12 mesi) dei contratti a termine, il problema poteva trovare soluzione – diversamente da quanto avviene in situazione di normalità – nelle attività svolte durante la fase più acuta dell’emergenza epidemiologica. Attività derivanti da “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività” (ad esempio per le aziende che, riconvertendo gli impianti, hanno iniziato a confezionare mascherine, camici, o macchinari per la ventilazione polmonare, cioè beni completamente diversi da quelli usualmente prodotti) oppure da “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria” (impennate della normale attività dovuta ad un evento, la pandemia, sicuramente non prevedibile). In tutti questi casi, quindi, si veniva a configurare quella che gli operatori hanno definito la causale coronavirus (peraltro il numero dei lavoratori assenti in quel periodo era molto elevato con la possibilità, quindi, di utilizzare anche la causale sostitutiva).

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In particolare ospedali, aziende farmaceutiche, farmacie, aziende industriali di macchinari e strumenti per gli ospedali, filiera agroalimentare, distribuzione commerciale dei beni di prima necessità, logistica, servizi cimiteriali, imprese industriali che forniscono servizi e scorte alle prime, ecc.

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Queste ragioni hanno indotto il legislatore ad intervenire nei termini più sopra evidenziati, scegliendo di farlo con una norma di interpretazione autentica, come si legge nella rubrica dell’art. 19-bis. Anche se nella formulazione del testo della norma tale intenzione sembra essere contraddetta, in quanto il legislatore afferma di voler disporre “in deroga alle previsioni” degli artt. 20, co. 1 e 32, co. 1, d.lgs. n. 81/2015 e non già con la finalità di chiarirne il significato. Si tratta, però, di un’imperfezione tecnica, poiché la volontà del legislatore si palesa sicuramente quella di precisare la portata di queste norme (gli artt. 20 e 32, d. lgs. n. 81/2015) in relazione alla novità assoluta costituita dalla causa integrabile Covid-19 prevista dagli artt. 19 e 22, d.l. n. 18/2020. In altre parole il legislatore risolve il problema interpretativo costituito dall’ambito applicativo del divieto stabilito dagli artt. 20 e 32 escludendone l’operatività nel caso della predetta causa integrabile in presenza della quale, conseguentemente, vengono ammesse le proroghe ed i rinnovi dei contratti a termine. L’effetto della qualificazione dell’art. 19-bis come norma d’interpretazione autentica è quello della sua retroattività, ma a ben vedere si tratta di un effetto molto circoscritto, in quanto, anziché operare dalla data della sua approvazione da parte della legge di conversione (24 aprile 2020, n. 27), la norma retroagisce all’entrata in vigore del d.l. (17 marzo 2020) che ha introdotto la causa integrabile Covid-19 con gli artt. 19 e 22 alla quale si riferisce l’interpretazione autentica. Tutto ciò conferma la natura della norma in esame che subito si è fatta carico del problema sorto, già in sede di conversione del d.l., in ordine all’applicabilità del divieto di concludere contratti a termine per l’azienda che ricorre alla CIG prevista a fronte dei provvedimenti restrittivi dell’attività produttive conseguenti alla pandemia. L’ulteriore questione relativa all’ambito applicativo dell’art. 19-bis riguarda la delimitazione alle proroghe ed ai rinnovi dei contratti a termine, con esclusione, quindi, delle nuove assunzioni a termine di quei lavoratori che non hanno avuto precedenti contratti a termine con lo stesso datore di lavoro. Non è agevole individuare le ragioni della scelta del legislatore che potrebbe anche essere stata non del tutto consapevole e, forse, dettata dalla suggestione esercitata dal decreto dignità che avrebbe potuto indurre il legislatore a fare riferimento solo ai rinnovi ed alle proroghe del contratto a termine, escludendo involontariamente le nuove assunzioni a tempo determinato. Infatti mentre la scelta operata dal legislatore con l’art. 93, d.l. n. 34/2020 – che riguarda soltanto i contratti a termine “in essere alla data del 23 febbraio 2020” – si spiega (a prescindere dalla condivisione) con la volontà di concedere un’opportunità ai lavoratori in servizio a quella data (il punto sarà ripreso nel prosieguo), l’aver ricompreso nell’ambito di applicazione dell’art. 19-bis anche i rinnovi dei contratti a termine conclusi con lavoratori che negli anni passati (anche risalenti a tempi lontani) erano stati già occupati a termine dallo stesso datore di lavoro, escludendo invece l’assunzione a termine di nuovi lavoratori (e, quindi, anche di quelli utilizzati dal datore di lavoro, ma tramite la somministrazione) appare priva di una ragione comprensibile. Tutto ciò a prescindere dalle possibili incongruenze applicative della norma in esame che, però, possono profilarsi rispetto ad ogni scelta del legislatore e che, in questo caso, riguarderebbero le imprese di recente costitu-

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zione che, non avendo avuto alle proprie dipendenze lavoratori a termine, restano escluse dall’ambito applicativo dell’art. 19-bis. Forse l’unica motivazione della scelta del legislatore (ammesso che sia stata consapevole) va ricondotta, come già si è accennato, alla volontà di rimuovere il divieto posto dagli artt. 20 e 32, ma soltanto per consentire alle imprese di assumere a termine lavoratori con un’esperienza aziendale già collaudata e, per questo, in grado di fronteggiare nell’immediato la difficile situazione in atto. Ciò, peraltro, appare coerente anche con la deroga prevista dallo stesso art. 19-bis all’intervallo tra un contratto a termine e quello successivo (altrimenti operante ex art. 21, co. 2, d.lgs. n. 81/2015); deroga dettata nell’interesse del datore di lavoro ad un pronto impiego dei lavoratori, per fronteggiare al meglio l’emergenza epidemiologica. 3. La seconda norma da prendere in considerazione è l’art. 93, d.l. n. 34/2020 che, in modo diverso da quella in precedenza esaminata, incide direttamente sui vincoli ai rinnovi ed alle proroghe dei contratti a termine, ma solo di quelli che erano in essere al 23 febbraio 2020 sospendendo, fino al 30 agosto 2020, l’operatività delle causali del decreto dignità, altrimenti applicabili. La finalità dell’intervento del legislatore, esplicitata nell’incipit dell’art. 93, è quella di “far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19”. Non costituisce certamente una novità che il legislatore si preoccupi di motivare le proprie scelte, manifestando così la finalità che intende perseguire ed è altrettanto scontato il valore di tale motivazione per l’interprete, pur nella consapevolezza che, come si dice, le norme una volta approvate si distaccano dal legislatore che ne è l’autore per vivere nelle interpretazioni dei giudici e della dottrina. Nel caso di specie si deve capire se la motivazione enunciata dal legislatore è l’unica oppure se concorre con altre, anche se non esplicitate, ma prima ancora si tratta di chiarire se la motivazione espressa è tale o se, invece, viene a configurare una condizione a cui il legislatore subordina l’applicazione della norma, assumendo così un valore ben diverso, poiché in questo caso le proroghe ed i rinnovi acausali dei contratti a termine sarebbero riservati soltanto a quelle imprese che, avendo subito la chiusura, devono “far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19”. Seguendo questa interpretazione si verrebbe, sostanzialmente, a configurare una nuova condizione di validità delle proroghe e dei rinnovi che si sostituirebbe alle causali del decreto dignità che, invece, restano sospese fino al 30 agosto. Questa tesi appare del tutto infondata. Il legislatore non ha certamente voluto sostituire le causali del decreto dignità con una diversa causale “riavvio post Covid-19”, ma ha operato in senso opposto rimuovendo (temporaneamente) ogni causale. Del resto il “riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19”, non riguarda solo le imprese che hanno dovuto sospendere la loro attività, ma tutte le imprese che devono fronteggiare le difficoltà della situazione attuale nei modi più diversi. Ad esse – oltre ai sostegni finanziari ed alle agevolazioni di altro genere – viene anche consentito di utilizzare il contratto a termine con meno vincoli relativamente alle proroghe ed i rinnovi.

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Del resto l’ambito applicativo della norma in esame non viene individuato, sul piano soggettivo, con riferimento ai datori di lavoro, quanto piuttosto ai lavoratori titolari di “contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020”. Con la conseguenza di escludere da tale ambito il lavoratore il cui contratto a termine si era estinto entro il 22 febbraio 2020. Questo lavoratore potrà essere riassunto a tempo determinato, ma soltanto in presenza delle causali di cui all’art. 19, co. 1, D. lgs. n. 81/2015. Non solo, ma anche un lavoratore assunto a termine per la prima volta nel marzo 2020 ed il cui contratto sia scaduto dopo due mesi, se fosse riassunto a termine dallo stesso datore di lavoro prima del 30 agosto, dovrebbe comunque essere assoggettato alle causali ordinarie. Infatti la norma riguarda i lavoratori che avevano un contratto a termine “in essere alla data del 23 febbraio 2020” e non anche quelli assunti con tale contratto successivamente a tale data. Le considerazioni più sopra svolte consentono anche di precisare e chiarire le effettive finalità che il legislatore intende perseguire con la norma in esame che non sono soltanto quelle esplicitate nel suo incipit, ma riguardano prevalentemente la predisposizione di misure di sostegno al mantenimento dell’occupazione di quei lavoratori a termine il cui contratto, in corso al 23 febbraio, è destinato ad estinguersi prima del 30 agosto 2020. Secondo una prima ricostruzione si potrebbe ipotizzare che il legislatore intende tutelare quei lavoratori che, a causa e per effetto della pandemia, hanno visto frustrate e compromesse le opportunità di proroga o di rinnovo del contratto a termine che, invece, avrebbero potuto avere in una situazione di normalità. Ma a ben vedere questa ipotesi si espone all’obiezione che la perdita della chance di rioccupazione a termine potrebbe riguardare – ed in termini del tutto simili – pure quel lavoratore in precedenza assunto a termine, ma cessato prima del 23 febbraio. Infatti la pandemia ha compromesso anche per questo lavoratore la possibilità di ottenere un rinnovo cui, comunque, avrebbe potuto aspirare non avendo raggiunto il limite massimo dei ventiquattro mesi previsti dall’art. 19, co. 2, d.lgs. n. 81/2015. Appare, allora, più probabile che l’intervento del legislatore sia stato prevalentemente ispirato dall’intenzione di favorire il mantenimento dell’occupazione dei lavoratori temporanei (diretti o somministrati) di cui l’impresa si avvaleva nel momento in cui è sopraggiunta la pandemia (la data del 23 febbraio si identifica, ormai, con questo momento). Quindi una norma di contenimento del forte rischio, a dire il vero, della sicura perdita di posti di lavoro con lo scopo di salvaguardare l’occupazione statica, cioè quella rappresentata dai lavoratori (temporanei) in servizio nel momento in cui la pandemia ha iniziato a produrre i suoi terribili effetti sul sistema produttivo e sul lavoro. Senza, però, alcuna ulteriore ambizione di dare impulso e sostenere una strategia dinamica dell’occupazione temporanea che è l’unica oggi realisticamente possibile (proprio perché a tempo determinato). In questa prospettiva la norma si pone in continuità e coerenza con il divieto di licenziamenti economici imposto dall’art. 46, d.l. n. 18/2020 e con quella norma (altrimenti insensata, cioè priva di senso) che prevede la revoca del licenziamento del lavoratore al solo fine di consentirgli la fruizione della CIG. Ovviamente gli effetti sono ben diversi: nel caso dei licenziamenti la protezione è inderogabilmente imposta al datore di lavoro ed il dipendente può, nel caso di violazione, far

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valere il proprio diritto di fronte al giudice; mentre per i lavoratori temporanei il legislatore – non potendo certamente obbligare il datore di lavoro a mantenerli in servizio – rimuove i limiti, altrimenti operanti, in materia di proroghe e rinnovi, auspicando che ciò possa concorrere a salvaguardare la loro occupazione. Le due norme (l’art. 19-bis, d.l. n. 18/2020 e l’art. 93, d.l. n. 34/2020), quindi, si connotano per la comune preoccupazione di puntellare l’occupazione dei lavoratori temporanei ed agiscono con una sequenza progressiva dettata anche dal diverso contesto nel quale sono state approvate: l’art. 19-bis è intervenuto quando ancora era vigente il provvedimento generale di chiusura delle attività produttive e, quindi, era necessario sostenere l’impegno di quelle imprese che, invece, erano chiamate a fornire beni e servizi indispensabili per la convivenza sociale; l’art. 93, è rivolto alla prima fase della riapertura delle attività produttive e, guardando ai problemi che si pongono nell’immediatezza, rimuove i vincoli normativi che avrebbero reso ancor più difficile mantenere in servizio i lavoratori temporanei. Il corto respiro dell’art. 93 potrebbe, peraltro, diventare cortissimo se dovessero prevalere interpretazioni restrittive di tale norma che ne ridurrebbero il raggio di azione, tanto da vanificarne sostanzialmente ogni effetto. Intendo riferirmi, in primo luogo, al termine stabilito dal legislatore al 30 agosto (tralasciando ogni indagine sulla motivazione per cui tale termine è stato fissato con un giorno di anticipo sulla fine del mese). Si tratta di capire se, entro il predetto termine (quello del 30 agosto), il datore di lavoro deve procedere al rinnovo o alla proroga oppure se la durata massima del contratto a termine oggetto della proroga o del rinnovo ex art. 93 debba essere contenuta al 30 agosto, senza quindi poter superare tale data. La formulazione dell’art. 93 induce ad accogliere la prima soluzione. Infatti se, come afferma il legislatore, “è possibile rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020”, ciò significa che la conclusione del nuovo contratto a termine o la proroga convenute tra le parti deve avvenire entro la predetta data. La norma, quindi, svincola (fino al 30 agosto) l’esercizio dell’autonomia contrattuale dai limiti legali costituiti dalle causali che, altrimenti, avrebbero frenato le proroghe ed i rinnovi, mentre il legislatore intende incoraggiarle. Del resto lo stesso legislatore non sembra aver voluto dettare una disciplina speciale – nel senso di diversa da quella prevista in via generale dal d.lgs. n. 81/2015 – della durata massima del contratto a termine rinnovato o prorogato in applicazione dell’art. 93. A conforto di tale interpretazione si deve considerare che l’incipit dell’art. 93 indica chiaramente il tipo di intervento che il legislatore intende realizzare e che riguarda la “deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81” e l’art. 21, al co. 1, subordina le proroghe ed i rinnovi alle condizioni previste dall’art. 19, co. 1, dello stesso d.lgs. La durata massima (per sommatoria) dei contratti a termine è, invece, disciplinata dall’art. 19, co. 2 che la fissa in ventiquattro mesi. Ma quest’ultima norma non è stata in alcun modo toccata dall’art. 93 il cui oggetto non è la durata del contratto a termine una volta prorogato o rinnovato.

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Né si potrebbe dire che il legislatore intende derogare all’intera previsione dell’art. 21 facendo rientrare in esso anche la disciplina della durata massima per sommatoria dei contratti a termine. Infatti, se è pur vero che l’art. 93 sembra riferire la deroga all’intero art. 21 e non al solo co. 014, il legislatore chiarisce subito – per eliminare ogni dubbio – la portata di tale richiamo che è circoscritto, in quanto finalizzato soltanto a rendere “possibile rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020”. Del resto se così non fosse, si dovrebbe ritenere che l’art. 93 contiene una disciplina speciale in materia di durata del contratto a termine destinata ad operare fino al 30 agosto e che consentirebbe di rinnovare o prorogare un contratto a termine anche andando oltre il termine dei ventiquattro mesi previsto dall’art. 19, co. 2, nonché effettuare un numero di proroghe superiore al limite generale delle quattro. Con l’effetto – seguendo questa tesi – di consentire il rinnovo del contratto ad un lavoratore che era stato già assunto a termine per ventiquattro mesi, ritenendo sufficiente per la validità di tale rinnovo che ne sia prevista l’estinzione entro il 30 agosto oppure di differire ulteriormente il termine di un contratto che aveva già subito quattro proroghe. Appare, invece, più coerente una ricostruzione interpretativa dell’art. 93 che consenta (fino al 30 ottobre) di prorogare e rinnovare i contratti a termine di quei lavoratori in servizio al 23 febbraio (con contratto a termine e non in somministrazione) senza dover indicare alcuna causale, fermi restando, per il resto, i limiti di durata massima previsti in via generale dall’art. 19, co. 2, d.lgs. n. 81/2015 ed il numero massimo delle proroghe (art. 21, co. 1). Peraltro optando per la diversa soluzione interpretativa, per cui i contratti a termine prorogati o rinnovati ex art. 93 si dovrebbero comunque estinguere entro il 30 agosto, la norma risulterebbe del tutto inadeguata rispetto alla finalità esplicitata dallo stesso legislatore di “far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19”, perché è a tutti, purtroppo, chiaro che al 30 agosto non sarà sicuramente esaurita la fase critica del “riavvio delle attività” e, quindi, non potrebbe venir meno lo strumento della proroga e del rinnovo del contratto a termine previsto dal legislatore a questo scopo. Un altro dubbio interpretativo riguarda la possibilità di applicare l’art. 93 anche alla somministrazione di lavoro, dubbio avanzato da chi non trova nella norma alcun esplicito riferimento al contratto di somministrazione. Si tratta di un dubbio del tutto infondato. Infatti il contratto di somministrazione (per essere chiari, quello che intercorre tra l’agenzia del lavoro e l’impresa utilizzatrice) non è soggetto a limiti legali quanto alla sua proroga o al rinnovo, poiché tali limiti riguardano il numero massimo dei lavoratori som-

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Diversamente dall’art. 19-bis, d.l. n. 18/2020 che, come si è notato inizialmente, più selettivamente dispone “in deroga alle previsioni di cui agli articoli … 21, comma 2 … del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”.

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ministrati di cui l’utilizzatore si può avvalere (art. 31, ma v. anche i divieti dell’art. 32, d.lgs. n. 81/2015). Le limitazioni subite dalla somministrazione derivano, invece, dalla scelta fatta con il decreto dignità di applicare le stesse regole previste per la generalità delle imprese in materia di proroga e rinnovi, anche ai contratti a termine stipulati dalle agenzie con i lavoratori da somministrare, eliminando il regime speciale che fino a quel momento operava per la somministrazione. Com’è noto questa scelta ha comportato notevoli difficoltà per le agenzie che, a fronte della reiterazione o prosecuzione del contratto di somministrazione con l’impresa utilizzatrice (come si è detto, non sottoposte a vincoli specifici), hanno dovuto farsi carico di gestire i nuovi limiti che, invece, si applicano ai rinnovi ed alle proroghe del rapporto a termine del lavoratore somministrato (considerato che quasi sempre l’impresa utilizzatrice intende continuare ad avvalersi degli stessi lavoratori per evitare le disfunzioni derivanti dalla loro sostituzione con altri prestatori privi di analoghe conoscenze ed esperienze). Ciò premesso, è evidente che la temporanea sospensione dei vincoli in materia di proroghe e rinnovi trova automatica applicazione anche alle agenzie del lavoro per quanto riguarda i rapporti a termine con i lavoratori da somministrare alle imprese utilizzatrici e ciò consente di acquisire maggiori margini di operatività per la somministrazione che, in questo modo, può concorrere alla tenuta dell’occupazione dei lavoratori temporanei in servizio alla data del 23 febbraio, assecondando l’obiettivo del legislatore. 4. Una considerazione finale deve essere rapidamente accennata con riferimento alle politiche legislative in materia di lavoro a termine che dovranno accompagnare il ritorno alla normalizzazione, sostenendo la ripresa delle attività produttive e di sostegno all’occupazione dopo il lungo lockdown. In questa prospettiva la questione che si pone concerne l’ulteriore allentamento (rispetto a quello già attuato nella fase 2) dei vincoli alla disciplina del lavoro a termine (diretto e somministrato) e, realisticamente, non riguarda il se, ma il come deve essere perseguito dal legislatore questo allentamento (cioè la misura ed i limiti temporali). Infatti è fin troppo evidente che l’obiettivo del decreto dignità di marginalizzazione del lavoro a termine5 – a prescindere dalla condivisione delle scelte all’epoca effettuate e dei risultati ottenuti – si palesa oggi non coerente con le necessità imposte dalla gestione dell’emergenza occupazionale successiva alla fase più acuta della pandemia. Non sembra possa essere messo in discussione il punto di avvio del ragionamento che muove dall’estrema incertezza che caratterizza la ripresa dell’attività produttiva e che renderà assai improbabile la decisione delle imprese di effettuare assunzioni a tempo indeterminato, in quanto esse implicano un rischio, quello della stabilizzazione dei rapporti di lavoro, considerato oggi molto (troppo) elevato. Anche tenendo conto del divieto posto

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È significativa la “lettura integrata” offerta dal Rapporto annuale (del 9 marzo 2020) sul mercato del lavoro nel 2019 curato dalle massime istituzioni pubbliche (Ministero del lavoro, Istat, Inps, Inail e Anpal) con il quale si “intende fornire una base empirica e analitica utile a favorire lo sviluppo del dibattito pubblico sul tema del lavoro”, ma che trascura il lavoro a tempo determinato nel periodo ante Covid-19.

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dal legislatore – ancorché in via temporanea (ma a quanto pare destinato a protrarsi di rinvio in rinvio con un’accentuazione che alimenta incertezza) – ai licenziamenti individuali per motivi organizzativi ed a quelli collettivi (art. 46, d.l. n. 18/2020), ma anche delle condizioni previste per le imprese che intendono beneficiare dei prestiti garantiti dallo Stato a fronte dell’“impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali” e dell’“impatto sui livelli occupazionali e mercato del lavoro” (art. 1, co. 2, lett. l) e co. 7, lett. d), d.l. n. 23/2020, convertito con l. n. 40/2020). Nel momento attuale appare assolutamente necessario agevolare le assunzioni a termine in quanto si tratta della forma di occupazione oggi realisticamente sostenibile per le imprese, drenando così ogni deriva verso l’alternativa più temibile, quella del lavoro irregolare. Mentre il legislatore dovrà porsi l’obiettivo della stabilizzazione di questi lavoratori temporanei quando, finalmente, saremo ritornati in situazioni di mercato normali, incentivando le imprese a confermare i lavoratori utilizzati a termine. Peraltro l’allentamento dei vincoli al contratto a termine si palesa doveroso per evidenti motivi di equità nei confronti dei lavoratori temporanei le cui aspettative di occupazione sono state vanificate dal sopravvento della pandemia da Covid-196. Infatti, com’è ben noto, le limitazioni ai contratti a termine sono da sempre finalizzate a favorirne l’evoluzione a tempo indeterminato. Il meccanismo utilizzato dal legislatore si basa sul divieto per l’impresa di reiterare o prorogare i contratti a termine con lo stesso lavoratore oltre un periodo massimo (drasticamente ridotto dal decreto dignità a 12 mesi). In tal modo, una volta esaurita la possibilità di continuare ad avvalersi dello stesso lavoratore con un contratto a termine, l’impresa dovrà scegliere se trasformare tale contratto a tempo indeterminato oppure privarsi della collaborazione di quel lavoratore e, quindi, semmai procedere all’assunzione sempre a termine, ma di un nuovo lavoratore (con le disfunzioni che ciò inevitabilmente comporta). Se questo meccanismo non viene corretto, si finiranno per vanificare le chance di trasformazione a tempo indeterminato dei lavoratori e non solo di quelli in servizio al 23 febbraio (secondo la previsione dell’art. 93) con un contratto a termine, ma anche di tutti i lavoratori che avrebbero potuto aspirare ad essere riassunti dallo stesso datore di lavoro alle cui dipendenze avevano lavorato a tempo determinato senza aver superato il periodo massimo dell’art. 19, co. 2, d.lgs., n. 81/2015. Infatti è fin troppo agevole immaginare come può reagire un’impresa di fronte al permanere dei vincoli all’utilizzazione dei contratti a termine, le alternative ipotizzabili sono tre: a) lasciare scadere i contratti a termine, riducendo il numero dei lavoratori attualmente occupati, ancorché a termine; b) sostituire i lavoratori oggi in servizio a termine, assumendo nuovi lavoratori sempre a termine; c) trasformare a tempo indeterminato gli attuali contratti a termine.

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V. la proposta di Maresca, Abolire i limiti ai contratti a termine è un fatto di equità, in Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2020 e, ben più autorevolmente, il Rapporto per il Presidente del Consiglio dei Ministri del giugno 2020 elaborato dal Comitato di esperti in materia economica e sociale presieduto da V. Colao avente ad oggetto le Iniziative per il rilancio “Italia 2020-2022”.

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A legislazione invariata, l’ipotesi a) è quella più probabile e con le conseguenze più negative: riduzione dell’occupazione, del gettito contributivo ed incremento della spesa per indennità di disoccupazione (naspi). L’ipotesi b) comporterebbe nel migliore dei casi un effetto di sostituzione quanto al numero degli occupati, ma priverebbe le imprese dell’apporto, importante nella fase di ripresa dell’attività produttiva, di lavoratori con una esperienza già maturata ed un’apprezzata utilità (in termini soggettivi e oggettivi) e questi ultimi vedrebbero frustrata la loro aspettativa ad essere confermati a tempo indeterminato, impraticabile per l’incertezza, con tendenza ad un netto peggioramento, che caratterizza l’attuale ciclo economico. Per queste ragioni l’ipotesi c) avrebbe ben poche possibilità di concretizzarsi. La soluzione che si impone è, quindi, quella di consentire rinnovi e proroghe dei contratti a termine per un periodo sufficientemente lungo, cercando così di indurre le imprese, quanto meno, a confermare gli attuali contratti di lavoro temporanei, rinviando a tempi migliori le prospettive di stabilizzazione dei lavoratori oggi irrealizzabili. Tale soluzione, peraltro, sarebbe funzionalmente coerente con quella perseguita dal legislatore con il divieto di licenziamento che congela gli organici delle imprese ed eviterebbe di scaricare sui lavoratori temporanei la contrazione dell’occupazione che si è inteso puntellare per i lavoratori a tempo indeterminato7.

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Le “azioni specifiche” suggerite dal Comitato Colao, pur non mettendo in primo piano la rimozione delle causali (come sembra necessario), riguardano una pluralità di interventi «a. i limiti nell’utilizzo dei contratti a termine che assumono rilievo rispetto al contesto descritto sono quelli relativi alla durata complessiva, 12 mesi o 24 in presenza di determinate causali, ed il numero massimo di proroghe consentite. Si tratta di allentare, in via temporanea, questi vincoli almeno per i contratti a termine in corso la cui scadenza sopraggiungerà entro il 2020, o appena scaduti dopo l’avvio del blocco. b. Si potrebbe ipotizzare che il periodo dall’inizio del blocco al 31 dicembre 2020 sia neutralizzato rispetto al maturare del limite dei 24 mesi complessivi, consentendo la prosecuzione per un periodo significativo dei contratti a termine in corso o appena cessati. c. Si potrebbe ipotizzare inoltre, per i contratti in scadenza entro il 31 dicembre 2020, la possibilità di una ulteriore proroga degli stessi anche se e stato già raggiunto il numero di proroghe massimo consentito, e comunque consentire la suddetta proroga eccezionale anche al di fuori delle condizioni (causali) previste dall’art. 19, comma 1 del Dlgs 81 del 2015. d. Tutto quanto qui previsto per i contratti a termine dovrebbe essere esteso anche ai contratti di somministrazione a tempo determinato».

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Crisi economica da pandemia e costituzione economica e del lavoro: il caso dell’art. 46 Cost. Sommario :

1. Covid-19: la crisi economico-sociale che ne deriva e l’opportunità di cambiamenti e riforme nel diritto del lavoro. – 2. Simiglianze e differenze con altre gravi crisi economiche del passato: nella nostra si avverte una tendenza ad atteggiamenti inclusivi e di riconoscimento reciproco. – 3. Qualche spunto offerto dalle normative esaminate: obbligo di sicurezza e «protocolli condivisi»; l’«impegno a gestire i livelli occupazionali» come condizione per beneficiare di garanzie. – 4. Notizie minime sul diritto riconosciuto nell’art. 46, Cost. (con un retropensiero: attuando questa norma negletta, si contribuirebbe a mutare nel profondo l’approccio giuslavoristico). – 5. Altri scalpitii circa l’interesse comune nel diritto del lavoro: approfittiamo dell’aria un po’ diversa che tira.

Sinossi. Come in altre gravi crisi economico-sociali del passato, pure in quella da Covid-19 si è sollecitati a proposte di ordine complessivo, tali cioè da investire le strutture portanti del diritto del lavoro. L’autore ne individua una nell’art. 46, Cost., norma che rivela l’esistenza nel diritto del lavoro di interessi comuni, e non solo in conflitto. Dopo la ricognizione, nella affannata legislazione conseguente alla pandemia, di due contesti partecipativi non adeguatamente disciplinati, l’autore tratteggia le possibili linee di attuazione della norma detta, rimarcandone l’aspetto qualificante, e sempre pretermesso, per cui il Costituente ha riservato alla legge il compito di stabilire i bilanciamenti necessari in un diritto così cruciale dal punto di vista della costituzione economica. Sulla base di ulteriori indizi di un maggior apprezzamento degli interessi comuni di lavoratore e impresa, ne auspica, concludendo, l’opportunità di meglio valorizzare il loro riconoscimento reciproco. Abstract. As in other serious economic and social crises of the past, even in the Covid-19 crisis, proposals of a general order are urged, suitable for investing the bearing structures of labor law. The author identifies one in art. 46 of the Italian Constitution, a rule which reveals the existence in labor law of common interests, and not only in conflict. After the recognition, in the troubled legislation following the pandemic, of two participatory contexts that are not adequately regulated, the author outlines the possible lines of implementation of the mentioned rule, underlining the qualifying aspect, for which the Constituent has reserved to the law the task of establishing the necessary balances in such a crucial right from the point of view of the economic constitution. On the basis of further


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indications of a greater appreciation of the common interests of worker and company, he hopes, in conclusion, the opportunity to better enhance their mutual recognition. Parole chiave: Crisi economica da Covid-19 – Interessi comuni nel diritto del lavoro – Art. 46, Cost. – Esigenza della sua attuazione

1. Covid-19: la crisi economico-sociale che ne deriva e

l’opportunità di cambiamenti e riforme nel diritto del lavoro. Nella analitica ricognizione che veniamo diffusamente facendo della incalzante normazione imposta dalla pandemia, a vario livello di fonti e con ricalibrazioni continue, risultano in primis da presidiare beni essenziali come la vita, l’integrità fisica e la salute degli individui, nonché come il diritto al lavoro, che storicamente ricomprende l’equa retribuzione. Le regole che da febbraio 2020 presiedono con affanno al contenimento dell’epidemia e all’esigenza di fronteggiarne l’esplosione, nonché quelle finalizzate all’immediato ripristino di condizioni vitali e di sussistenza (nel contempo seguite per attenuare l’impatto del virus sulla vita di ognuno e in generale sull’economia)1 sono state sottoposte, spesso con acuti spunti interpretativi, ad una scrupolosa attenzione esegetica. Tutto ciò era indispensabile, e certo per qualche tempo non esattamente prevedibile lo sarà ancora. Occorre però domandarsi se un accadimento tanto micidiale e rapido non contenga valenze che spingono a riguardarlo pure da un’angolazione più ampia e di prospettiva. Per misurarci in questa direzione, gli elementi possono essere fissati solo da una prognosi, razionale e empiricamente controllata, sulle conseguenze economico-sociali da associare a Covid – 19; e in proposito può servire la sintesi che della situazione (attorno al 20 maggio) ha fatto un osservatore attento e competente2, partendo da scarni dati che ne disvelano le conseguenze in fieri, sia immediate che di più lungo periodo. Sette milioni di italiani hanno chiesto la cassa integrazione e, dove invece si licenzia (USA), solo in aprile ci sono stati venti milioni di nuovi disoccupati. A raffica si spargono – a parole, id est nostra burocrazia permettendo – le misure di sostegno immediato al reddito per chi non lavora, compresi gli autonomi; ma in quanto temporanee esse misure andranno replicate,

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Cito in sequenza, nel testo, espressioni che compaiono nelle intitolazioni (dopo «Misure urgenti») dei decreti-legge che si sono susseguiti: 23 febbraio 2020, n. 6; 17 marzo 2020, n. 18; 25 marzo 2020, n. 19; 8 aprile 2020, n. 23; 16 maggio 2020, n. 33; 9 maggio 2020, n. 34; ad alcuni di essi si sono applicati nomignoli vari, «cura», «liquidità», «rilancio», ecc. Non richiamo altre espressioni che compaiono nei d.p.c.m. che sono prodromici e/o intramezzati ai decreti sopradetti. V. Cottarelli, I naufraghi del lavoro. Cassintegrati, donne, autonomi: che cosa fare per salvarli, in La Repubblica, 23 maggio 2020, 29. «È allora fondamentale chiedersi – scrive fra l’altro Cottarelli – quanto durerà la crisi economica … ma non illudiamoci» finisca presto perché «il clima di incertezza da essa creato in Italia e nel resto del mondo renderà famiglie e imprese prudenti nelle proprie decisioni di spesa e senza spesa non c’è produzione» (sottolin. mia). Di qui l’esigenza di andare oltre gli interventi «difensivi» («quattro quinti del pacchetto “rilancio” consistono di parziali reintegri del reddito perso») perché «servono ulteriori interventi, soprattutto per investimenti pubblici, per avere un maggior impatto sulla domanda e sulla produzione».

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non si sa fino a quando. In questa sofferenza viene specialmente colpito il lavoro femminile, già in partenza più precarizzato. Con il rischio, in aggravamento, «che i lavoratori perdano la capacità di rientro nel mercato del lavoro» perché «la disoccupazione palese e nascosta (tramite cassa integrazione) tenderà a restare elevata per parecchio tempo». Aggiungendosi infine che le misure non potranno continuare ad essere in netta «prevalenza “difensive” (quattro quinti del pacchetto di maggio consistono di parziali reintegri del reddito perso»), ma dovranno essere «costituite da aumenti alla spesa pubblica … o incentivi alla spesa privata» in una quota ben maggiore, essendo quindi necessari «ulteriori interventi, soprattutto per investimenti pubblici, al fine di avere un maggior impatto sulla domanda e sulla produzione». Nell’Assemblea della Banca d’Italia il 29 maggio 2020, prevedendo per il 2020 un calo del nostro PIL fra il 9% e il 13% (prendendo a base due scenari di diversa severità, ma non estremi)3, il Governatore Visco ha insistito sulla grande incertezza che la pandemia e la recessione hanno aperto, con «significative ripercussioni sul mercato del lavoro»; osservando fra l’altro che «la caduta dell’attività economica ha ridotto le nuove opportunità di lavoro, ripercuotendosi in particolate sui giovani che per la prima voltasi si affacciano sul mercato del lavoro, su chi è abitualmente impegnato in attività stagionali, con contratti a tempo indeterminato o di apprendistato»; una caduta che «colpisce con maggior intensità le attività tradizionali svolte dai lavoratori autonomi e il lavoro irregolare ancora troppo diffuso nel nostro paese». Tanto che per il Governatore, alludendo alla svolta europea (dalla proposta di Recovery Fund ad opera della Commissione), «le drammatiche circostanze di oggi rafforzano le ragioni di stare insieme e spingono a perseguire un progetto che mobiliti risorse a sostegno di una crescita inclusiva e sostenibile … con una assunzione collettiva di responsabilità per il finanziamento della ripresa»4. In conclusione, di fronte a ciò che Covid-19 già ad oggi ha determinato, che sancisce una traumatica prospettiva di recessione, destinata ed aggravarsi e comunque a durare non solo in Italia ma nell’economia mondiale, impallidiscono situazioni antecedenti per le quali si era scomodato la parola «emergenza»5. Non ne faccio una questione nominalistica, ma vi è bisogno di rappresentare con le parole più consone per denotare la situazione a cui siamo di fronte, anche per congetturare se la pandemia offra pure lo spunto per qualche riconsiderazione giuslavoristica d’insieme6. Non ci attende una «decrescita felice», a volte vagheggiata, ma uno sconvolgente e duraturo impoverimento di milioni di perso-

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Il primo scenario sconta il recesso della pandemia nella seconda metà del 2020, per cui la diminuzione del PIL sarebbe concentrata nei soli primi due trimestri; il secondo scenario allarga la diminuzione del prodotto all’intero 2020, con una ancora più lenta ripresa nel 2021. Così nelle Considerazioni finali (lette all’Assemblea del 29 maggio 202: vedine il testo in Banca d’Italia, Relazione annuale 2019, 12). Così le Considerazioni finali, cit. 11 e 25. 6 Alludo a De Luca Tamajo, Ventura (a cura di), Il diritto del lavoro nell’emergenza, Jovene, 1979, noto rendiconto della nostra legislazione 1978-79, in cui sono focalizzate importanti tematiche giuridiche dell’evoluzione di quegli anni e/o poste in rilievo da difficoltà del mercato del lavoro o da esigenze maturate nel sistema industriale. Seppure nei vari decreti finora succedutisi sia continua ed invasiva l’interferenza, o l’eccezionale contrasto, di molte delle regole o contegni imposte agli individui, con diritti e libertà fondamentali, nel presente scritto non toccherò questo «quadro» costituzionale generale.

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ne – cittadini, immigrati, extracomunitari – di ogni ceto sociale, specie, relativamente, di middle class; con l’impatto negativo peggiore su donne, giovani, marginalizzati, professioni autonome, titolari di piccole iniziative economiche; e con vantaggio iniquo per nuove rendite, che allargheranno la forbice delle disuguaglianze, aumentando specialmente per i più deboli la penuria o perdita di standards di vita in precedenza fruiti.7 L’espressione più consona a tutto ciò è «crisi economico-sociale». E di fronte ad una prognosi siffatta diventa ancor più inevitabile il richiamo alla necessità di cambiamenti e all’esigenza di riforme. Una richiesta di «rottura» con le politiche recenti, troppo di facciata e difensive, è avanzata dallo stesso Governatore della Banca d’Italia, quando afferma che «serve un nuovo rapporto tra Governo, imprese dell’economia reale e della finanza, istituzioni, società civile: possiamo non chiamarlo … bisogno di un nuovo “contratto sociale” ma … serve procedere a un confronto ordinato e dar vita ad un dialogo costruttivo»8. Per la «crisi profonda, drammatica e violenta» apertasi con il coronavirus9, e che ad esso seguirà per un notevole periodo anche dopo che sarà debellato, non deve dunque mancare al nostro discorso una componente progettuale di alto spessore. Sarebbe una iattura se, posti nella necessità di uscire da manchevolezze ataviche, invece che veramente semplificare ed innovare (come enfatizza di voler fare il Presidente del Consiglio), ancora una volta si celebrasse la disperante inclinazione nazionale al rinvio, all’inconcludenza e all’aggiustamento in peggio. Nel quadro di opportunità evocato, pure il mutamento di concezioni o di visuali di fondo in ordine alla costituzione economica e del lavoro potrebbe fungere da antidoto e contribuire al miglioramento, in aspetti basici, degli istituti del diritto del lavoro attraverso revisioni critiche senza costi, alle quale concatenare altre riforme, del pari virtuose.

2. Simiglianze e differenze con grandi crisi economiche del passato: nella nostra si avverte una tendenza ad atteggiamenti inclusivi e di riconoscimento reciproco.

Posto che lo scenario di crisi descritto in precedenza sia «realistico», a quali altri accadimenti storici può essere assimilato? Il Governatore Visco lo paragona, e possiamo tutti essere d’accordo, alle due guerre mondiali e alla crisi del 1929; si potrebbero aggiungere, separandoli dalle guerre, anche i due tumultuosi periodi che seguirono a entrambe. E forse sarebbe interessante concretizzare questo riferimento ulteriore, visualizzandolo

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Il tutto in un sommovimento delle forme giuridiche di lavoro, per cui viene dilatata la modalità «agile», e quindi sono promossi il lavoro a distanza e tramite piattaforme (con una indispensabilità sempre maggiore, nell’organizzazione del lavoro, ad esempio dei riders). Neppure in questi importanti aspetti mi potrò tuttavia addentrare. Esortazione rafforzata con un richiamo a Keynes, il quale, sotto le bombe che colpivano Londra, nel 1940 auspicava «un piano concepito in uno spirito di giustizia sociale … che utilizzi un periodo di sacrifici generali … come un’occasione per procedere più avanti … verso una riduzione delle disuguaglianze» (Considerazioni finali, cit., 25 e 24). Così il Presidente del Consiglio Conte nell’Informativa del 24 maggio 2020 alla Camera dei Deputati.

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nell’ottica di due paesi – Italia e Germania – che nei contesti in esame hanno nutriti e/o realizzati, ruoli, aspettative e risultati molto diversi10. Ma ne verrebbe una ricostruzione storica troppo complessa e sproporzionata, anche per la mia modesta padronanza, in cui le indicazioni opinabili prevalgono di netto su qualche esile spunto. Può però almeno dirsi che, nel corso di tutte le succitate crisi sono state sollevate richieste di cambiamento politico e sono state dibattute controverse riforme in materia economica e del lavoro. La contrapposizione fra capitale e lavoro, accesa fin dagli albori dell’età industriale e maturatasi nel corso del XIX secolo, ebbe una specifica deflagrazione nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale11, quando sopravvenne con esiti alterni un intenso conflitto fra classi sociali e uno scontro politico che sfocia in dinamiche, per semplificare, più o meno improntate alla conquista del potere, con partiti e fra fazioni opposte che, in una lotta senza quartiere e nel più completo disconoscimento reciproco, puntavano anzitutto ad abbattere l’avversario12. Negli accadimenti in esame può solo registrarsi, in un grossolano sguardo di insieme, che le idee o gli aneliti di cambiamento hanno ottenuto risultati più apprezzabili e costruttivi laddove sono prevalsi atteggiamenti cooperatori, in cui le ragioni per apprezzare quanto le parti confliggenti avevano in comune sono risultate superiori al loro irrimediabile contrasto. Venendo in concreto all’esito – senza andare oltre il risaputo, e per non essere inconcludente – nel corso e subito dopo il cd. biennio rosso, lo squadrismo agrario-fascista prevalse sulle forze di sinistra e liberali, per cui l’Italia si trovò soggiogata, fin dal 1922, ad un regime autoritario; mentre in Germania, rintuzzato dalla socialdemocrazia l’estremismo di sinistra, si poté sviluppare, almeno fino al 1932-33, l’esperienza a suo modo luminosa di Weimar. Diversamente è a dirsi del secondo dopoguerra, allorquando una Germania disfatta, sotto l’egida delle potenze occupanti, si incanalò ben presto dal punto di vista delle strutture di fondo del diritto del lavoro, sui binari conosciuti e collaudati della legislazione degli anni ’20: e ciò impresse all’ordinamento del lavoro e ai suoi istituti – parlo fino al 1990 solo della RFT - una forte continuità con quello weimariano13, sulla cui scia si

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L’Italia, vittoriosa nella guerra 1914(5)-18 e, in un modo per così dire dimezzato, pure nella guerra 1939 (40)-45; la Germania sconfitta nella prima come nella seconda guerra. Finito il conflitto, nei paesi belligeranti riemersero contraddizioni nascoste, o che si erano sopite, a volte aggravate dalle inique conseguenze di trattati di pace troppo gravosi, per cui ovunque sopravvennero, specie dopo la prima guerra mondiale, lotte politico-sociali e rivendicazioni improntate a radicalismo e inneggianti al cambiamento. 11 Per l’influsso concomitante della vittoriosa rivoluzione bolscevica. Come ben noto, nel corso di quegli anni vennero agitati in molti paesi obiettivi politici o sindacalpolitici di tipo anche radicali (bastino ad esempio, nel cd. biennio rosso l’occupazione delle fabbriche torinesi nel 1919; nonché i moti, in Berlino e altre città tedesche, dopo la cd. Novemberrevolution del 1918, che portò al tracollo dell’impero e al sorgere della repubblica. 12 In una dialettica di contrasto e disconoscimento sopravvennero ovunque, specie a sinistra, scissioni di partiti, strategie politiche e sindacali alternative, vittorie o sconfitte di fazioni, contrapposizioni di fini ultimi o intermedi. È rimarchevole che, nei suoi esiti, una siffatta destrutturazione porti in Italia allo squadrismo agrario-fascista e nell’avventurismo dannunziano, per approdare ad un regime autoritario basato – con il corporativismo – su una compiuta concezione dei rapporti collettivi di lavoro connotata dall’interesse superiore dell’economia nazionale. Mentre nell’esperienza di Weimar, assopiti i contrasti più estremi e nonostante le difficoltà incontrate dalla socialdemocrazia negli anni fra il 1919 e 1933, sono state prodotte, oltre una costituzione (1919) ammirevole in punto a catalogo dei diritti fondamentali e di organizzazione democratica dell’economia, una legislazione che avrebbe lasciato la sua stabile impronta sulle istituzioni lavoristiche germaniche, dalla ordinanza sul contratto collettivo del 1918 alla legge sui consigli aziendali (1920), nella quale si esplica una compiuta Betriebsverfassung, dotando gli stessi di Mitbestimmungsrechte. 13 Emendato – semplifico alla grossa – dal difetto di essere «costituzione senza decisione», secondo l’aforisma schmittiano. In una Germania messa sulle ginocchia dalla disfatta, invero, la ricostruzione ordinamentale avvenne in modo per coì dire bipartito. Nella

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concretizzarono le nuove leggi di riforma, arrecando una crescente stabilità e floridezza al paese, anche dopo la sua impegnativa riunificazione negli anni novanta. Quanto all’Italia, schieratasi dopo l’8 settembre del 1943 sull’altro fronte, l’azione riformista si trovò ad operare in un territorio dissestato e frammentato, per la concomitante operatività della Repubblica Sociale Italiana e della progrediente Liberazione, grazie alla Resistenza e al risalire degli Alleati verso Nord. In questo contesto peculiare si verificò in rapida successione una singolare combinazione. Un decreto della RSI di Salò, contenente norme per la socializzazione delle grandi imprese, istituì un organismo misto – il Consiglio di gestione14 – che poi, nell’aprile 1945, venne fatto proprio dal CLNAI. Intorno a tale organo e alla sua pratica si accese per due anni un importante dibattito, che costituisce in sostanza l’unico vero capitolo dell’idea partecipativa in Italia, sia sul piano dell’esperienza concreta, sia su quello della progettualità legislativa15. Ciò rimarco perché, pur non concretizzandosi allora una legge, rimane il tangibile e imperituro segno di una sua esigenza nella discussione costituente che portò al varo dell’art. 46 Cost. – norma improvvidamente poi trascurata, che adempie un ruolo centrale, come cercherò di mostrare, nella nostra costituzione economica e del lavoro. Merita tirare qualche fila dal discorso comparativo, pur solo abbozzato. Come avvenuto in altri casi paragonabili di crisi economica, e pur nella diversità di contesti, anche in quella da Covid-19 si esprimeranno discussioni intese a promuovere cambiamenti necessari e/o riforme indispensabili. In proposito, pare cogliersi nel nostro caso, seppur non ovunque, un atteggiamento delle stesse forze politiche ad essere fra loro meno belligeranti, quasi ad assecondare una inclinazione più diffusa, nella stessa opinione pubblica, alla cooperazione, alla unione di intenti, accrescendo la possibilità di metter mano costruttivamente alla realizzazione di opere comuni. Forse sono influenzato, in tale impressione, da un fatto singolare, quello sì che meriterebbe diffusione virale16. Verso la fine di questo aprile è apparsa la notizia che Rui Rio, leader del centro-destra portoghese all’opposizione, è intervenuto in Parlamento per espri-

zona occupate da USA, Gran Bretagna e Francia, grazie al ponte di un eccezionale potere legislativo in via transitoria assegnato al Kontrollrat degli alleati, fu possibile riconnettere ai principi giuslavoristici weimariani la legislazione intervenuta, dopo il Grundgesetz del 1948, sul contratto collettivo (TVG del 1951) e sull’ordinamento (costituzione) aziendale (BVG del 1952), i pilastri del doppio canale di rappresentanza. 14 D.lgs.12 febbraio 1944, n. 375. Dell’allora nato consiglio di gestione facevano parte in misura paritaria, da un lato dirigenti e tecnici aziendali, unitamente a sindacalisti corporativi della CGLTA (Conf. Gen. Lav. Tecnica e Arti), dall’altro rappresentanti della proprietà. Tale configurazione venne cancellata dal CLNAI il 17 aprile 1945; ma l’organismo «consigli di gestione» venne però mantenuto in vita (affidandone la composizione ai locali CLNA: Comitati di liber. nazion. aziendali), affinché sostituissero i membri coinvolti con la RSI. Dopo tale «epurazione», i ricomposti Consigli gestirono meritoriamente molte aziende dell’Italia liberata, fino al cambiamento politico del 1947. 15 Mi riferisco ai disegni di legge del Ministro del lavoro Ludovico D’Aragona e dell’industria e commercio Rodolfo Morandi, presentati a fine 1946. Testimoniano l’importanza che ebbe allora questo capitolo (e l’interesse che gli stessi imprenditori vi portarono, nonostante una evidente opposizione) i due voll. su I consigli di gestione. Esperienze e documenti, a cura di Confindustria, Roma, 1946 (v. i disegni di legge succitati in vol. 1, 146 ss. nonché 149 ss., con la Relazione Morandi, 155 ss.). Una riconsiderazione generale del tema anche in I consigli di gestione e la democrazia industriale e sociale in Italia. Storia e prospettive a cura di Fiamma Lussana, Ediesse, 2014, libro in cui sono riprodotti gli atti di un importante convegno milanese del febbraio 1946 (presieduto alla Bocconi da Giovanni De Maria), con contributi di Stefano Musso e di Francesco Vella. 16 Traggo le frasi citate fra virgolette da un qualsiasi sito recente del web (sul nome Rui Rio).

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mere un incondizionato appoggio al Primo Ministro Antonio Costa perché «la minaccia che dobbiamo combattere esige unità, solidarietà e senso di responsabilità. Per me in questo momento, il governo non è espressione di in partito avversario, ma la guida dell’intera nazione che tutti abbiamo il dovere di aiutare. Non parliamo più di opposizione ma di collaborazione. Signor Primo Ministro, conti sul nostro aiuto. Le auguriamo coraggio, nervi d’acciaio e buona fortuna perché la sua fortuna è la nostra fortuna»17. Sono pensieri che gratificano chi è parte di un sistema democratico e che lo rassicurano, se un governo dovesse cambiare, sul fatto fondamentale che l’alternativa sarà altrettanto valida: magari si sentissero nel nostro paese, anche nel fare, parole simili! E trovo emblematico che proprio nel contesto Covid-19 sia sortito un atteggiamento in forza del quale persino il conflitto istituzionale fra forze strutturalmente in contrasto, vien fatto calare di intensità, posto in secondo piano, e anzi, occorrendo, fatto scomparire, temporaneamente soppiantato dalla condivisione, dal riconoscimento reciproco, dal mutuo aiuto18. Ciò significa semplicemente che la pandemia, almeno nel breve periodo, non ha nessun amico, ma è essa il nemico contro cui tutti dovrebbero unirsi. Per cui ognuno, senza distinzioni, può contribuire a quanto appare essere utile e necessario in suo nome, o per difendersene, essendo di fondo inclusiva, e non divisiva. Vero o supposto che sia un tale atteggiamento, sto comunque indulgendo su una situazione di cui il diritto del lavoro si cura, al netto dell’ideologia, fin da quando è nato come scienza normativa. In esso, a condurre la danza, è il conflitto di interessi più determinante nell’età moderna. Basta Dahrendorf per saperlo; ma conta ben di più Marx, sulla cui base illuminante e di insuperata profondità è stato però piantato un chiodo, che aere perennius distorce in un’unica monocorde direzione la visione delle cose. Perché, se si focalizza solo la detta, incontroversa, contrapposizione di fondo essa diventa onnipervadente, bloccando o oscurando tutto il resto; mentre il problema è che invece esistono pure interessi obiettivamente comuni, per cui questo restante viene disconosciuto, non perché non ci sia, ma perché diverge dal conflitto principale, e anzi potrebbe contraddirlo, o semplicemente perché ubi major, minor cessat19.

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Di questo discorso ho sottolineato alcune parole perché rinviano, latamente, a quanto viene evocato con la locuzione «democrazia industriale», quando si visualizzino come «schematizzazione binaria o relazionale» i «poteri» che agiscono nel sistema giuslavoristico (v. il mio Democrazia industriale e subordinazione, Giuffrè, 1985, 111 ss.). Fra un governo (del management) e una opposizione (del sindacato) che si contrappongono nelle relazioni industriali, Hugh Clegg individua come compito del secondo «l’opposizione permanente al governo dell’industria», nel senso di «una opposizione che non potrà mai andare al potere» (ivi, 116). Da questa immagine ho ricavato anche quella, complessiva, (degli strumenti) di democrazia industriale, in quanto «opposizione che non può mai diventare governo». 18 La inusitata scenetta potrebbe essere: «è sopravvenuto qualcosa di nuovo e gravissimo? Fermi tutti, non è più consentito intrecciare le armi nella lotta e anzi, per superare la cosa, è necessaria una tregua in cui tutti co-operano». Si potrebbe anche dire, se fossimo guidati da un pronto sense of humour: «basta ragazzi: fin qui abbiamo scherzato, ora si deve fare sul serio, per cui smettiamola di litigare». Oppure infine, a la Belushi: «quando il gioco si fa duro, i duri …». 19 Cosicché non si deve mai ammettere, se non come spurio, l’interesse che, magari nel sembiante di una comunione di scopo, o nella veste di un’impresa in sé con anche un proprio interesse, o in qualsiasi altra forma, si incorpori in un condividere, o in un partecipare (di lavoratori e impresa); e se mai emerge un simile corpo «estraneo», viene sottaciuto, nascosto, sminuito, nonostante pure attraverso esso venga tessuta la tela in cui si compone il lavoro e il suo diritto. Del resto, chi potrebbe mai negare, nonostante queste distorsioni ideologiche, che lavoro e impresa abbiano un interesse reciproco al riconoscimento del loro proprio interesse, e che questo dato comporta un interesse comune al loro riconoscimento reciproco (v. pure, infra, n. 5).

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3. Qualche spunto offerto dalle normative esaminate:

obbligo di sicurezza e “protocolli condivisi”; l’«impegno a gestire i livelli occupazionali» come condizione per beneficiare di garanzie. Lavoro e impresa siano dunque costellazioni percorse pure da interessi comuni, anche se per un’inerzia mentale di natura ideologica se ne tien poco, o nessun, conto. Ovviamente, nelle normative da noi analizzate non si riscontrano particolari apprezzamenti di una tale constatazione; ma in almeno due punti vengono in rilievo aspetti da ricondurre lato sensu alla partecipazione dei lavoratori, con profili problematici che si inquadrano nel tema or ora evocato (anche richiamando l’art. 46 Cost.). Il primo è stato messo in luce nel contributo di Maria Teresa Carinci, in cui tratta, con l’acuminatezza consueta, di sicurezza sul lavoro, di art. 2087 cod. civ. e di conseguenti responsabilità datoriali, specie nella fase di riemersione. Nel d.l. 25 marzo 2020, n. 19 (art. 1, comma 2,), fra le misure «per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus» si indica (lett. z) la «limitazione o sospensione di altre attività di impresa o professionali … anche di lavoro autonomo» sottoponendo «la possibilità di esclusione dei servizi di pubblica necessità» alla «previa assunzione di protocolli di sicurezza anticontagio»20; nonché (lett. gg) ribadendo, per i servizi di pubblica necessità, laddove non sia possibile rispettare tale distanza interpersonale» la previsione di protocolli di sicurezza anti-contagio, con adozione di strumenti di protezione individuale». Non è sconosciuto al nostro ordinamento l’affidare alla cura o cooperazione di soggetti privati (quali i sottoscrittori di tali protocolli) la determinazione di limiti che investono diritti fondamentali del singolo; ma non è il caso di soffermarsi sugli aspetti problematici, anche di ordine costituzionale, di una siffatta attribuzione, trent’anni dopo che è stata sancita in modo assordante per le «prestazioni indispensabili» dalla legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Mi limito a qualche osservazione sul presumibile impatto di una tale previsione, tenendo conto dell’attuale contesto delle nostre relazioni industriali. I suddetti «protocolli di sicurezza» si stanno moltiplicando a livello aziendale, dopo che, a livello nazionale, il 14 marzo 2020 è stato sottoscritto da CGIL, CISL, UIL e UGL, oltre che da Confindustria e da altre confederazioni, un «protocollo condiviso» diciamo di base, rinnovato il 24 aprile. Si precisa che in questo rinnovo, all’art. 13 viene configurato, in ordine all’aggiornamento del protocollo, una sorta di procedimento, stabilendosi: «E costituito in azienda un Comitato per l’applicazione e verifica delle regole del protocollo di regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del

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Per completezza, il disposto prosegue: “e, laddove non sia possibile rispettare la distanza di sicurezza interpersonale predeterminata e adeguata a prevenire o ridurre il rischio di contagio come principale misura di contenimento, con adeguati strumenti di protezione individuale».

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RLS» [rappresentante dei lavoratori per la sicurezza]. Del resto la stipulazione di siffatti protocolli viene caldeggiata anche nei d.p.c.m.21. Con il complesso di queste norme, e al netto di un certo loro disordine sul piano delle fonti22, viene impressa una notevole inflessione partecipativa in materia di tutela della salute e della sicurezza nell’ambiente di lavoro; tema che, dopo l’art. 9, Statuto, svolge un importante ruolo nella configurazione di organi di rappresentanza specifici e rientra in modo preminente in quella organizzazione del lavoro che è l’oggetto principalmente investito dalla presenza del sindacato in azienda e dalla relativa attività di controllo. Tema che nel contempo rientra nel «diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende» e non può quindi non concorrere in modo essenziale alla sua definizione. Scontato il convulso contesto di partenza delle disposizioni in esame, alla produzione normativa di protocolli condivisi nella materia in esame nonché alla eventualmente connessa ridefinizione degli organismi che sul versante lavorativo adempirebbero alla corrispondente tutela, si frappongono tuttavia alcuni ostacoli, che al fondo sono riconducibili alla mancanza di un quadro normativo di riferimento più consolidato. La circostanza che a livello nazionale solo la triplice abbia sottoscritto il protocollo relativo agli «ambienti di lavoro», ad esempio, determina difficoltà a livello aziendale o decentrato, ogni volta che la rappresentanza dei lavoratori si esprima attraverso sigle diverse, o con articolazioni ostili alle sigle nazionali preminenti23. Un’altra considerazione vien da fare con riguardo agli atteggiamenti sindacali e, in senso più lato culturali, che sono assai differenziati, avendosi nella pubblica amministrazione, in materia di sicurezza, una sensibilità, e pure una sperimentazione concreta, poco o punto sviluppata; il che rende il relativo ambito meno permeabile di quello privato agli strumenti di prevenzione e i suoi dirigenti più inclini a trascuratezza, anche per la deresponsabilizzazione che i meandri del sistema agevolano. Con queste osservazioni non si vuol criticare, ma porre l’attenzione sul pericolo che la diffusione di un movimento di tutela pur interessante, se è disordinato perché privo di struttura nella guida (tranne che l’affanno Covid-19 da fronteggiare), possa tradursi invece che in un cambiamento positivo, nell’ennesimo ingarbugliamento delle cose. Una riforma è tale solo se si basa solidamente su principi condivisi, possibilmente di rango costituzio-

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Nel d.p.c.m. 11 marzo 2020, all’art. 1, n. 7, si legge: «In ordine alle attività produttive e alle attività professionali si raccomanda che: […] lett. d) si assumano protocolli di sicurezza anti-contagio e […]; e al n. 9, in corrispondenza, «si favoriscono, limitatamente alle attività produttive, intese fra organizzazioni datoriali e sindacali». Nel successivo d.p.c.m. 26 aprile 2020, all’art. 1, lett. ii), «in ordine alle attività professionali si raccomanda che, C) siano assunti protocolli di sicurezza anti contagio» (allegandosi poi il protocollo condiviso del 24 aprile 2020, citato nel testo). 22 Per la loro concatenazione, riconoscono a tali norme un valore legislativo Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli, in DSL, 2020, 98 ss., nonché, sulla sua scia, la relazione di M.T. Carinci (con richiamo del dato che il protocollo condiviso in sede nazionale del 24 aprile 2020 è stato allegato al d.p.c.m. 26 aprile 2020), pubblicata nel presente fascicolo. 23 Ciò compromette la capillarità di diffusione degli strumenti escogitati e la loro compattezza, anche se poco tocca le aziende mediograndi e per nulla le grandi. Invero, pur di evitare la sottoscrizione di protocolli ricalcati su quelli nazionali non sottoscritti, i «diversi» sul piano locale tendono a denominare diversamente gli eventuali accordi che sottoscrivono: con il pericolo che invece di giovarsi di una compattezza unitaria che la rende visibile e più forte, l’esperienza a livello locale si presenterà in molti rivoli, caotica e indebolita da una molteplicità frammentata.

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nale, capaci di renderla razionalmente ponderata negli strumenti di realizzazione come nei contenuti che è indirizzata a promuovere24. Un secondo aspetto emerge in tema di partecipazione ed è valorizzato nel contributo di Carlo Zoli; il quale, a proposito di selettività e condizionalità nella concessione di benefici, ha dovuto affrontare una espressione inusuale, il cui significato è meritevole di attenzione. Nell’art. 1 del D.L. 8 aprile 2020, n. 23 (il cd. decreto «liquidità», ora convertito nella l. L. 5 giugno 2020, n. 40) fra le dodici condizioni richieste alle aziende perché possano fruire della garanzia concessa da SACE spa sui finanziamenti di banche e istituzioni finanziarie alle imprese colpite dagli effetti di Covid-19, compare pure quella (lett. l) per cui «l’impresa che beneficia della garanzia assume l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali»25. Con la lunga sottolineatura intendo rimarcare l’impaccio, già sul piano lessicale, di un legislatore che si è avventurato non proprio con padronanza per terreni poco solcati. Di fronte al carattere un po’ criptico dell’impegno in esame, Zoli ritiene che abbia «ad oggetto non la salvaguardia dei livelli occupazionali, ma la codeterminazione degli stessi», aggiungendo che trova fondamento nell’art. 46 Cost. L’autore definisce poi la posizione così enucleata come un «onere a contrarre», precisandolo, attraverso una interpretazione «costituzionalmente orientata», come implicante per l’impresa un «obbligo a trattare in buona fede», e quindi con l’onere di dimostrare le ragioni che non consentono di mantenere i livelli occupazionali (auspicati dal sindacato, credo vada aggiunto). Essendo troppo approssimativo il linguaggio del legislatore, del resto, l’interprete non può che provare a tradurlo. Ma «codeterminare» non è attività da poco, specie se ha ad oggetto i «livelli occupazionali»: «gestire» tali livelli «attraverso accordi» significa o no concordarli (deciderli assieme)? A questa domanda il testo – su cui la legge di conversione non ha messo becco – non mi pare risponda con chiarezza. Non a caso Franco Scarpelli, in parallelo, evoca un asserito «obbligo di concreta e fattiva ricerca dell’accordo»: ma se fra le parti alla fine l’accordo non viene in essere, qual è l’organo di conciliazione (di unificazione delle volontà) che con il suo dictum sostituisce la decisione non concordata, come dovrebbe accadere se si trattasse di codeterminazione? Su tale aspetto non affiora alcuna indicazione; e all’interprete, per forza di cose, non resta che destreggiarsi fra i dilemmi. Queste esplicazioni critiche e dubitative comprovano la insufficienza di connessioni ricostruttive, che rispecchia persino nel lessico l’immaturità della esperienza partecipativa nel nostro paese; immaturità che il semplice richiamo dell’inattuato art. 46 non basta a superare.

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In proposito non va sottaciuto il problema (lo ha sollevato Maresca nella sua relazione, pubblicata nel presente fascicolo) che può emergere dall’inevitabile raccordo che deve essere istituito fra osservanza dei protocolli condivisi, di ogni ordine e grado, e obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. Invero, per diminuire il grado di incertezza, può essere pensato che la sottoscrizione, o meglio l’osservanza del protocollo sottoscritto, funzioni da scudo, nel senso di diventare una sorta di esimente della responsabilità derivante dalla norma cardine. Cfr. comunque l’art. 1, commi 14 e 15 d.l. 16 maggio 2020, n. 33, che su questa possibile soluzione ancora non si sbilanciano (ma potrebbe essere configurata nella attesa legge di conversione, o per qualche altro contraccolpo). 25 Accanto a questa, si pone pure la condizione (di scopo-funzione) per cui (lett. n) «il finanziamento coperto dalla garanzia deve essere destinato a sostenere i costi del personale, investimenti o capitale circolante impiegati in stabilimenti produttivi e attività imprenditoriali che siano localizzati in Italia, come documentato e attestato dal rappresentante legale dell’impresa beneficiaria». Ma questa, con le ulteriori precisazioni aggiunte nella legge di conversione, non pare dar luogo a soverchi problemi interpretativi.

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Pur partendo dall’idea che si tratti di codeterminazione, non a caso Zoli prosegue il discorso come se ad (eventualmente) stabilire i livelli occupazionali fosse invece la contrattazione collettiva: è inevitabile trascorrere dall’uno all’altro piano, così confondendoli, se un sistema di relazioni industriali è tanto compresso e avviluppato come il nostro26. E ciò accadrà fino a quando pure da noi non saranno tenuti costituzionalmente distinti, nell’ambito degli strumenti di democrazia industriale, quelli in cui alle parti in conflitto resta l’ultima decisione (con la conseguenza che può anche non venire in essere l’accordo: meccanismo negoziale di contrattazione collettiva); e quelli in cui, essendo stabilita una codeterminazione, l’accordo che non venga in essere possa/debba essere sostituito da quanto decide un organo terzo, neutrale o comunque misto (meccanismo partecipativo di codeterminazione).

4. Notizie minime sul diritto riconosciuto nell’art. 46,

Cost. (retropensiero: attuando questa norma negletta, si contribuirebbe ad arricchire nel profondo l’approccio giuslavoristico).

Nel paragrafo precedente si sono esemplificate due questioni che attengono alla norma in cui risulta in modo trasparente che nella costituzione dell’economia e del lavoro siano presenti interessi comuni e anzi che questi agitino fin dalle fondamenta il diritto del lavoro. Dell’art. 46 non farò però la trattazione, né mi avventurerò nella fissazione del contenuto specifico di una sua attuazione27. È invece opportuno mettere in evidenza la centralità, per un ordinamento del lavoro, del diritto sancito nella norma e le ragioni per cui è stato messo fra parentesi per settant’anni, venendo stravolto e/o sminuito proprio nella portata fondante, nella sua essenza costituzionale. Ciò offrirà l’occasione di accentuare il valore di quanto stabilito per la sua attuazione nello stesso art. 46, ponendo limiti, di ordine diciamo formale, che in una costituzione rigida esigono di essere rispettati. La vicenda di disattenzione evocata, va altresì detto, si è svolta mentre, per altri versi, in ricostruzioni di rango, alla norma venivano riconosciuti significati fondanti, tali da farne il crinale della materia; di cui era vista prefigurare visioni alternative, quasi ne fosse la frontiera mobile28. Venendo al suo contenuto, l’art. 46 afferma «il diritto dei lavoratori a

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Di fronte agli incongrui «mescolamenti» che presenta, infatti, mi venne in passato da usare la locuzione sincretica «contratto collettivo partecipato», non perché mi piacesse, ma per forza di cose (V. Pedrazzoli, Partecipazione, costituzione economica e art. 46 Cost. Chiose e distinzioni sul declino di un’idea, in RIDL, 2005, I, 427 ss., 450 ss., qui 452). 27 Al di là di quello suscitato a ridosso della nuova Costituzione, l’interesse per la norma non è mai stato travolgente, specie a sinistra. Negli stessi commentari, a parte quello a cura di Giuseppe Branca, l’art. 46 è trattato non solo con eccessiva laconicità, ma con deplorevole trascuratezza. Pagine di rilievo sulla sua importanza sono state invece spese da riconosciuti maestri, come Mancini, Giugni, Mengoni, Pera e Cessari, ma non posso trattenermici. Ne tratteggia da ultimo l’importanza costituzionale Ichino, L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore, Rizzoli, 2020, 235 ss. in un contrappunto con l’art. 36 Cost. che ricalca sue note impostazioni di law & economics in una nuova combinazione. 28 Mi riferisco in particolare a Mancini, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Giuffrè, 1957, 120 ss. ma pure 110 ss., nella sua ricerca – fra struttura signorile e comunitaria – dei modi distinti della «collaborazione» di cui, rispettivamente, all’art. 2094,

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collaborare alla gestione delle aziende»; diritto che «la Repubblica riconosce … nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi», aggiungendo sue apposizioni («ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione».) come parametri, diciamo, di contestualizzazione. Si tratta di una norma-principio che sancisce un diritto sociale fondamentale, di cui va subito messo in rilievo l’aspetto che il suo contenuto e le modalità e i suoi limiti e modi dovranno essere fissati con l’atto più caratterizzante del sistema parlamentare: una o più leggi approvate col voto di Camera e di Senato (conformi: così stiamo sempre messi), dopo un confronto fra la maggioranza e minoranza politica; atto che deve prevedere, in tutti i dettagli di una difficile conciliazione, gli elementi ulteriori che concorrono alla buona riuscita di una concreta attuazione dell’art. 46. Non si tratta, quindi, solo di una «riserva di legge», a mio avviso «assoluta» 29: se si ritiene che, come pure credo, con le due apposizioni «ai fini …» e «in armonia …» lo stesso Costituente abbia inteso dare le più essenziali indicazioni di massima circa i «modi» e i «limiti» che debbono contornare il diritto riconosciuto, si dovrebbe parlare di «riserva rinforzata di legge» (lo dico senza pretesa di avventurarmi in questioni definitorie, ma solo perché al nostro proposito poco o punto se ne è spesa parola). E del resto, non è un fuor d’opera che, rispetto ad un nodo così essenziale di costituzione economica, si sia adottata una grande circospezione su come attuarne il nevralgico principio: invero l’art. 46 in apparenza non sembra darsi molte arie, ma nella sua semplicità è una bomba che esplode fra le mani. Si tratta infatti di tracciare la linea di confine perché non vengano incisi (o recisi, o confusi) dall’attribuzione ai lavoratori del diritto in esame, i connotati costituzionali dell’«economia di mercato» (quandanche la si qualifichi «sociale»), in cui primeggiano, oltre il diritto di proprietà privata, la libertà di iniziativa sancita dall’art. 41, 1° comma. La questione è di un’importanza così dirimente che si resta stupefatti nel constatare che nessuno, o quasi, le abbia mai dato il rilievo che merita: non solo fra i giuslavoristi,

c.c., e all’art. 46 Cost. (ancorché con una considerazione accentuata delle teoriche sulla Betriebsgemeinschaft, come può desumersi pure dal quasi coevo Personale occupato nell’impresa e commissione interna, in DE, 1957, 1191 ss.). Invero nell’art. 46 si esprime in controluce, già come norma programmatica, la possibilità di due diverse, e contrapposte, configurazioni generali del diritto del lavoro, questione che l’attuazione della norma avrebbe deciso (anche per questo era molto attesa!). Non potendo in questa sede dilungarmi in un dibattito denso e a troppe voci, Scusandomi per la episodicità nella selezione dei protagonisti, osservo che, negli anni cinquanta, nello stesso orientamento comunista si trovano spunti interessanti, ad es. in ambiente pisano: in primis Natoli (Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Giuffrè, 1955, cap. III, specie 110 ss., 124 ss.; e poi Smuraglia (La Costituzione e il sistema del diritto del lavoro, Feltrinelli, 1958, 67 ss., 113 ss., e anche, in grana grossa, 106 s.). Sulla impostazione di rottura che Giorgio Ghezzi ha accreditato a fine anni ’70, v. infra, nt. 30 e testo in corrispondenza. 29 Su tale qualificazione non mi pare possa incidere la circostanza che, con l’art. 18 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, siano state apportate al codice di procedura civile due modifiche che in notevole misura sanciscono il carattere di fonte di diritto obiettivo ai «contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro», equiparandoli a quanto previsto per gli omologhi contratti nell’ordinamento del “lavoro alle dipendenze della e amministrazioni pubbliche” (d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Titolo III). L’importante cambiamento per cui, anche per la «violazione o falsa applicazione» dei suddetti contratti nazionali sia da allora ammesso il ricorso per cassazione (modifica additiva dell’art. 360, n. 3, c.p.c..), e altresì per cui essi siano sottoponibili ad accertamento pregiudiziale (nuovo art. 420 bis, c.p.c.), non consente di promuoverli al rango della legge anche in ordine all’adempimento di una riserva come quella limpidamente posta dall’art. 46 per la sua attuazione. Piuttosto, il cambiamento del 2006 introduce semmai una garanzia ulteriore proprio con riguardo al rispetto della detta riserva: potendo ora essere dedotta come motivo di cassazione pure la violazione (questio juris) della norma di contratto collettivo nazionale, potrà diventare oggetto di un eventuale giudizio di legittimità costituzionale pure il modo in cui il detto contratto ha stabilito, come fonte secondaria, la disciplina dello strumento partecipativo.

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ma neppure nei commentari alla Costituzione (in genere, per vero, fiacchi su questo articolo). Né occorre insistere a dire che essa questione consista proprio nella definizione costituzionale di un interesse comune fra impresa e lavoro. Debbo però rinviare ad altra occasione una critica più strutturata a tale atteggiamento quantomeno anomalo; in questa dirò semplicemente che, ad un certo momento, si cominciò a ritenere che ad attuare l’art. 46 Cost. doveva essere la contrattazione collettiva, a cui veniva così affidato il compito di disciplinare il relativo diritto al posto della legge30. Come che sia stato, basti qui dire che il grande progetto implicato (anche a livello europeo, a suo tempo addirittura con la quinta direttiva) nel discorso su una doverosa attuazione dell’art. 46, si è per così dire liquefatto in un permanente surrogato per cui, alla contrattazione collettiva sono ritualmente assegnati i cd. diritti di informazione e consultazione o poi via via altre più recenti, deboli e casuali, espressioni del cd. coinvolgimento dei lavoratori31: assegnati, intendo dire, anche nel senso che di continuo lo stesso legislatore rinvia in modo generico, ma sistematico, alla contrattazione per cavarsi d’impaccio, mostrando così la sua inclinazione assenteista di fronte all’obbligo di attuazione costituzionale32. Senza ripercorrere una complicata vicenda pluridecennale di inglorioso scivolamento al ribasso, mi domando tuttavia se da una seria (non elusiva) legge di attuazione dell’art. 46, potrebbe derivarne un quadro di riferimento migliore, non solo per la soluzione dei due punti analizzati al n. precedente, ma anche, in ipotesi più ampia, per l’approccio giuslavoristico nell’insieme. A me pare che il legislatore ordinario dovrebbe nella specie assolvere anzitutto il compito di «bilanciare» i due parametri (le due apposizioni) che la Costituzione impone di rispettare nell’attuazione, il primo di tipo propulsivo-espansivo («elevazione sociale ed economica del lavoro»), il secondo maggiormente atteggiato a limite («esigenze della produzione»), ma pur sempre connotato («in armonia») in senso finalistico. La congiunzione «e» che unisce i due parametri indica infatti che le loro proiezioni rispettive possono divergere, ma, nel contempo, debbono trovare conciliazione. A tal fine il legislatore dovrebbe

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Il momento in cui apparve tutto tanto cambiato da potersi evocare (a mio avviso impropriamente), lo scudo della «costituzione materiale», fu come noto l’ondata di contratti in cui, verso metà anni ’70, importanti aziende industriali concordarono con i sindacati, fra l’altro, investimenti produttivi nel Sud: fatto di rilievo, che suscitò nella sinistra sindacale e nell’orientamento comunista una sorta di euforia (Federico Mancini se ne uscì grosso modo allora con la frase: «la contrattazione può molto, ma non può tutto»). In tale contesto apparve un saggio (Ghezzi, La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese ed il sistema contrattuale delle informazioni e della consultazione del sindacato, in RGL, 1978, I, 3 ss.), che divenne il contenuto del commento sub art. 46 nel Comm B, Rapporti economici, Zanichelli-Il Foro It., Tomo III, 1980, 69 ss. L’autore adduce le vicende dette, e altri aspetti, a favore di un cambiamento di quanto deciso dai padri costituenti in ordine al modo di attuare la norma, affermando che a presiedervi doveva essere la contrattazione collettiva, e non più la legge (per la motivazione completa di questo passaggio, cfr. La partecipazione, cit. 7 s., nonché il commento, cit., 73 s.). Inutile aggiungere che ora, ancor più di allora, appare la fralezza delle ragioni addotte, che comunque né allora potevano, né tanto meno ora potrebbero, giustificare l’infrazione della riserva di legge. 31 V. per tutti il libro di Corti, La partecipazione dei lavoratori. La cornice europea e l’esperienza comparata, Vita e Pensiero, 2012. La disordinata e inconcludente vicenda sul tema viene raccontata pure da Ichino, L’intelligenza del lavoro, cit., cap. V e, per le più recenti evoluzioni, 227 ss.; in un modo condivisibile tranne che per la noncuranza a riguardo della riserva di legge, aspetto del tutto sottovalutato. 32 Persino le «specifiche intese» erga omnes, consentite a livello aziendale o territoriale dal dibattuto art. 8, l. 14 settembre 2011, n. 148, possono essere «finalizzate … all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori»: così semplicemente e senz’altra guida, tanto per gradire!

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appoggiarsi alle scienze aziendalistiche per avvalersi di un concetto di «gestione» adeguato (articolato e comprensivo, ma anche delimitato), al quale possa commisurarsi una «collaborazione» dei lavoratori. Ma dovrebbe altresì far tesoro, il legislatore, dell’esperienza effettuale delle relazioni industriali, in cui si presentano ogni giorno gli «affari» di un governo dell’impresa, alla cui soluzione è utile o opportuno il concorso (di organi rappresentativi) dei lavoratori, differenziando le specie di casi e raggruppando i metodi di soluzione codeterminata in un assetto organico e compiuto. Orbene, se qualcosa del genere venisse approvato, con formulazioni adatte e pure con specificazioni esemplificatrici, che aiutino a non oltrepassare confini costituzionalmente essenziali, anche il rinvio eventuale alla contrattazione collettiva, ora elusivamente distorto e di tipo meccanico, potrebbe costituire il terminale di un sistema partecipativo virtuoso, indirizzato con equilibrio e omogeneità al suo consolidamento istituzionale in un quadro di necessarie certezze. E questo dovrebbe valere sia per gli organi di rappresentanza autorizzati, sia per le materie o questioni da affrontare in comune sia, specialmente, per i procedimenti decisionali da adottare, in coordinamento con la contrattazione collettiva occorrendo, ma anche in via autosufficiente a sé stante. In conclusione, riandando al quesito che mi ero posto, sugli specifici aspetti venuti in puntuale rilievo in tema di salute e sicurezza e relativi protocolli, nonché a proposito si gestione dei livelli occupazionali attraverso accordi sindacali (retro n. 3), non potevo più di tanto dare in questo momento concrete risposte. Con le precedenti osservazioni di cornice sull’importanza dell’attuazione nell’art. 46 si è tuttavia cercato di chiarire che il diritto riconosciuto in tale norma è basilare nella costituzione economica prefigurata nel 1948 e che la sua attuazione recupererebbe al diritto del lavoro italiano una dimensione non trascurabile che, nonostante il mutare delle determinanti socio-economiche, sarebbe da auspicare fra i suoi principi-guida.

5. Altri scalpitii sull’«interesse comune»: approfittiamo

dell’aria un po’ diversa che forse tira.

Le questioni nevralgiche sono sempre difficili da dipanare, per cui su di esse si inclina ad evitare il confronto e a dilazionare il redde rationem: ma se non si affrontano mai, rimarranno sempre irrisolte, determinando arretratezza e incompiutezza sistemica. Di tal fatta è il nodo se, ovunque emerga nel diritto del lavoro, vada apprezzato l’interesse comune di lavoratori e impresa ovvero, in omaggio ad una egemonia ormai devitalizzata d’antan, se si debba attribuire linfa e vigore solo agli interessi irriducibilmente confliggenti. La storia della partecipazione dei lavoratori, che impersona il primo corno del dilemma, non è fatta da pretese astratte e supponenti, di chi vorrebbe tutto e tutto di un colpo, che si assommano casualmente disseminate in un mosaico oscuro e inefficiente perché senza disegno: essa è il frutto paziente di una lenta riflessione e di una faticosa prassi che, dopo inevitabili fallimenti, trasformano un progetto desiderato in una risultante istituzionale, grazie ad un collaudo continuo che costa sudore e sangue, conformando le indoli nazionali.

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Dopo molti anni di stanca, può ben accadere che la consapevolezza degli interessi anche comuni, venuta meno una sorta di vergogna ideologica a riconoscerli, possa caratterizzare in misura maggiore il nostro diritto del lavoro ed essere perciò trasfusa in regolazioni efficaci e ben fatte. È questo un clima o atteggiamento spirituale ottativo, che viene spesso rappresentato, anche fuori Italia, usando l’aggettivo «sostenibile» o il sostantivo «sostenibilità»; parole che nell’antropocene sono la reazione al disagio collettivo (senso di colpa) per il declino irreversibile del pianeta e richiamano la necessità di frenarlo (o di invertirne la rotta) opponendovi una nuova misura o mentalità che poggi su un agire completamente diverso33. Il giorno in cui lo Statuto compiva cinquant’anni, tre autori di rilievo della nostra materia, di diversa generazione, hanno reso pubblico un «manifesto»34 che, in mezzo a molti altri temi e spunti, abbozza anche una dotazione di senso per «il “nuovo” contratto di lavoro subordinato». Chiedendosi se «all’era del diritto del lavoro sostenibile … sia più consono … un contratto che si fermi al dato della contrapposizione strutturale fra le parti, o uno che, pur senza negare l’esistenza di interessi contrapposti, enfatizzi la presenza di rilevanti interessi comuni, e spinga le parti, di conseguenza, a comportamenti cooperativi», la risposta è senza dubbi per il secondo: si tratta, rovesciando il modo di ragionare consueto, di passare ad un altro «concetto guida»: quello che «il lavoratore subordinato collabora alla realizzazione degli scopi produttivi dell’impresa e alla gestione efficiente e competitiva della stessa, a fronte di retribuzione e sicurezza della persona, ma anche, più ampiamente di un pieno “riconoscimento”35 del suo ruolo essenziale nell’attività di impresa e della conseguente valorizzazione delle sue competenze e capacità»36. Sono parole inusuali e coraggiose, che indicano come stia finendo una sorta di omertà che spingeva all’obliterazione dell’ovvio, quando esso … è necessario per respirare. Da tempo non echeggiavano parole così libere, che pochi decenni orsono sarebbero state riprovate per la loro arretratezza, diciamo politico-culturale. «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole – come dice il poeta – anzi d’antico». Eppure parole consimili non erano dette solo da Aldo Cessari, ma da molti altri; ai quali non giovava una certa opacità del contesto da cui traevano i loro assunti, ma a volte erano studiosi di razza, pieni di ingegno inventivo, come Lorenzo Mossa, o si stavano esercitando in prove di autore, come il primo Mancini, o ti buttavano sul piatto una classe superiore nello scandagliare la struttura dei grandi temi lavoristici, come Luigi Mengoni.

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Alla stancante propensione al conflittuale ad ogni costo, che ha per antidoto la «scenetta» rappresentata senza pretese alla nt 18 (retro, n. 2), qui aggiungo una speranza da sempre ragionevole: ciò che unisce rafforza (per diventare più forti bisogna unirsi). 34 Cfr. Caruso, Del Punta, Treu, Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile, 2020, in www.csdle.lex.unict.it, 24. Per i suoi molti aspetti positivi, e anche per quelli controvertibili, è auspicabile che su tale documento si apra una discussione. 35 Aggiungendosi «nel senso pregnante di Axel Honneth», l’allievo di Jürgen Habermas, a cui è dovuta la principale teorizzazione del riconoscimento (e disconoscimento) reciproco, come fattore di attribuzione (o denegazione) di valore, che integra costitutivamente il rapporto sociale (v. da ultimo, Honneth, Riconoscimento. Una storia di idee europea, Feltrinelli, 2019). 36 «Riconoscimento reciproco, quindi, dell’impresa da parte del lavoratore, e del lavoratore da parte dell’impresa … nella consapevolezza – si insiste – che gli scopi dell’uno non soltanto sono compatibili con gli scopi dell’altro, ma sono la condizione ultima (…) del loro perseguimento» (Manifesto, cit. 24).

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Mi guardo in giro, nel nostro webinar, e penso: siamo una rivista che sta crescendo in autorevolezza – e intanto guardo Oronzo Mazzotta; vi è oggi con noi il direttore di un’altra rivista – Luca Nogler – la cui autorevolezza è da tempo indiscussa; altri colleghi ancora sono membri dei comitati scientifici di prestigiose riviste (vedo Carlo Cester, Arturo Maresca e Franco Scarpelli); conclude la discussione addirittura la Presidente dell’AIDLaSS: è possibile individuare qualcosa a cui come ceto intellettuale per troppo tempo abbiamo trascurato di porre attenzione e che andrebbe doverosamente affrontato? Proporre cioè qualcosa che ci risulta bisognoso di adeguamento scientifico e di completamento interpretativo, al fine di far funzionare meglio un sistema replicante e ingorgato? Perché allora non formulare una ipotesi innovativa e senza costo, che abbia al centro la legge attuativa dell’art. 46 Cost.? Si tratta di concentrare le nostre forze in una condivisione, avviare una sensibilizzazione attraverso scritti, interventi e dibattiti e, se ne vediamo qualche frutto, passare a un piano più operativo (il che comporta non disdegnare la ricerca di referenti politico-parlamentari, per associarli all’iniziativa). Il seppellimento dell’art. 46 Cost. è troppo grave, scientificamente parlando, per lasciare spazio alla rassegnazione; per ciò come giuslavorista sono scalpitante. Sento già l’obiezione che non è questo il problema – mai per taluni esiste; ma da un problema si deve pur cominciare, ed è bene sia ricco di connessioni e possibilità. Se l’interesse comune compone, in una parte qualificante, la tela che si tesse attorno al lavoro, facciamo in modo che il suo diritto lo sappia e lo dica, costruendone il nerbo, invece di obliterarne o sottacerne l’esistenza37. Riacquistando la dimensione che al diritto del lavoro, accanto al conflitto di fondo, inerisce pure quel che tutti sanno – e cioè il profilo di una comunione-condivisione di interessi, sotteso a molte sue situazioni e istituti – viene a realizzarsi un indispensabile passaggio: l’integrazione in esso dei temi del diritto di impresa (Unternehmensrecht), attraverso una connessione vitale che emancipi l’operazione da ogni ipoteca corporativa. Tale passaggio è determinante, nonostante il ritardo con cui la lacuna viene colmata, perché è necessario improntare a qualche valido principio pure le sbrindellate forme nuove di lavoro, sempre più «dintorni» della subordinazione, in cui il lavoratore si trova ad avere per controparte un dato impersonale, cangiante, duplicato, indiretto, noleggiato, ecc. Nella temperie disseminata di queste realtà, in cui corre un continuo pericolo la stessa dignità del lavoro e in cui sono evanescenti persino le qualità di lavoratore e imprenditore, occorre tener conto di tutto quanto, sul piano organizzativo come su quello psicologico, costituisce sostrato di un rapporto sempre più inafferrabile e atipico: tanto che, per andare avanti, pare necessaria proprio la ragionevole idea di un interesse comune dei soggetti che un siffatto rapporto pongono in essere. Seppur affievolita, seppur compressa in brevi oriz-

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Nessuno potrà mai ragionevolmente negare l’opportunità che un dipendente abbia a cuore l’impresa in cui lavora e a lui convenga che essa funzioni bene e quindi ne accolga con soddisfazione i risultati positivi; né che, di contro, un imprenditore (vero, non farlocco) abbia a cuore il benessere e la soddisfazione del dipendente, grazie a cui si rafforzano il suo l’attaccamento e la sua dedizione all’impresa: se così non fosse, ci troveremmo di fronte, in entrambi i casi, a varianti del masochismo (in termini psichiatrici) o a difetti anche peggiori dal punto di vista dei vizi umani. L’esistenza di questi sentimenti, del resto, è tanto spesso sottostante alle valutazioni giuridiche, che neppur ce ne facciamo caso (e tanto meno ce ne fanno coloro che dovrebbero tenerli nella massima considerazione: imprenditori, sindacati e loro rispettivi mentori).

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zonti temporali, seppur ben poco fidelizzante, si tratta ancora dell’idea che il lavoratore intreccia col datore anche un legame che costituisce un loro comune interesse38. Non è quindi naturale né opportuno l’ostracismo ad un pensiero, semplice e intuitivo che, oltre all’inevitabile conflitto, in qualsiasi contratto di lavoro debba sempre esserci una co-operazione altrettanto inevitabile. Insistendo a nascondercelo e a vergognarcene, saremo alla lunga costretti a scoprire, come il fanciullo di Andersen, che «il re è nudo». In conclusione, «venuto meno l’obiettivo dell’Umsturz del sistema capitalistico»39, la credenza che, dal conflitto sorga qualcosa di indispensabile da perseguire, è forse tempo che cessi di costituire, non solo per la storia, ma anche per la cronaca, il supporto inerziale delle argomentazioni giuslavoristiche.

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Ripercorrendo e ribadendo questa scia, con argomentazioni, anche nuove, di esemplare chiarezza, si veda Ichino, L’intelligenza del lavoro, cit., specie cap. V. 39 Come, con elegante allusione, si esprime Ales, La «partecipazione decisionale» come obiettivo? Una riflessione a partire dallo Statuto dei lavoratori, di prossima pubblicazione negli “Studi in onore di Francesco Santoni”, 19 dattil.

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Il lavoro agile tra emergenza pandemica e riemersione della questione femminile*1 Sommario :

1. L’emergenza e il riordinamento lavoristico: ricominciamo dallo Statuto rinnovato. – 2. Il lavoro agile tra emergenza ed emersione. – 3. La ripresa “dispari” e la questione femminile.

Sinossi. Il contributo evidenzia come l’emergenza pandemia se, da un lato, alimenta preoccupazioni e disorientamenti, dall’altro, può fare emergere cambiamenti e nuove opportunità. In tale direzione, l’ampio ricorso al lavoro agile permette di indagare sulle caratteristiche del diritto del lavoro nella pandemia e sui possibili rischi di esclusione sociale del lavoro femminile. Abstract. The paper highlights the impact of the pandemic emergency. Although on the one hand, it provokes concerns and disorientation, on the other might open up new opportunities and changes. From this perspective, the large use of agile working allows us to focus on the main aspects of Labour Law in the pandemic and women’s risks of social exclusion. Parole Chiave: Emergenza pandemica – Lavoro a distanza – Lavoro agile – Questione femminile

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Il saggio è destinato agli studi in onore del professor Oronzo Mazzotta. La pubblicazione è riconducibile al progetto “Working poor needs: new equity, decent work and skills”, PI Marina Brollo, CUP G24I19002630001, finanziato dal programma PRIN 2017.


Marina Brollo

1. L’emergenza e il riordinamento lavoristico: ricominciamo

dallo Statuto rinnovato.

Questo contributo riprende e sviluppa le mie conclusioni alla seconda giornata dei “Dialoghi di diritto del lavoro”2, promossi da Labor e dal suo Direttore-fondatore, Oronzo Mazzotta, per festeggiare la promozione della rivista in classe A nella classifica Anvur. Con esso intendo guardare avanti, ragionando su un possibile impatto della pandemia, con la consapevolezza che le previsioni per il futuro sono figlie dei fatti attuali e delle scelte del presente. Riparto dal punto di arrivo della prima giornata di lavori, come mi pare sintetizzato da Adalberto Perulli: l’attuale emergenza pandemica, seppur costituisce una discontinuità, «non è una contingenza»; da qui procedo nella ricerca di piste destinate ad andare oltre la crisi e a far “riemergere” (come dall’azzeccato titolo del nostro incontro) cose nuove per far funzionare meglio l’eco-sistema sociale e ambientale. Le novità spesso sono in continuità con le cose vecchie, ma le direttrici possono essere differenti: non solo in avanti, ma a volte all’indietro; in tal caso le novità possono derivare pure da una sorta di riordinamento (la metafora digitale è quella del reset), eliminando regole inutili, sbagliate o divenute obsolete che possono ingolfare gli ingranaggi dell’ordinamento. In qualche caso, infine, il nuovo – per rimanere nel linguaggio pandemico – si presenta con veri propri “salti di specie”. Se così è, per misurare i cambiamenti in atto, è importante individuare il punto di partenza. Con una metafora, potremmo dire che nell’evoluzione del diritto del lavoro moderno, dal punto di vista formale, il “tempo zero” che tende all’infinito, espandendo la serie dei diritti e dei doveri, è dato dal varo della Costituzione. Ma, dal punto di vista sostanziale, il termine di paragone, per valutare le trasformazioni concrete e le dimensioni degli attuali processi sociali, va individuato nello Statuto dei lavoratori, difeso dagli interpreti con la penna e con il sangue. La famosa legge n. 300, come recita un fortunato slogan, «ha portato la Costituzione dentro i cancelli delle fabbriche», cioè ha riconosciuto importanti diritti di cittadinanza (individuali e collettivi) alla persona che lavora all’interno della formazione sociale rappresentata dall’impresa; è vero che nel corso del tempo lo Statuto è stato aggiornato, e in parte amputato, ma costituisce a tutt’oggi il nocciolo duro del diritto del lavoro italiano. La legge del 1970 compie quest’anno i suoi primi 50 anni e gran parte dell’Accademia la sta festeggiando – con eventi, per ora, a distanza – con una comprensibile e condivisibile nostalgia, per lo più di tipo propositivo per un rinnovamento. Da qui un anniversario non per rimpiangere il mondo di ieri, ma per ripensare criticamente il presente e progettare il cambiamento per il futuro del lavoro, nonché per ridisegnare il ruolo dei lavoratori e dei sindacati all’interno di modelli organizzativi complessi in rapida trasformazione.

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Le giornate, di Venezia (13 maggio 2020) e di Udine (27 maggio 2020), sono visibili sulla play list “E20 on line” del canale “Play UniUd” in https://www.youtube.com/channel/UC8C02IzhEFpfjIEMH8Lvp4g.

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Mezzo secolo dopo, però, la realtà economico-sociale è radicalmente cambiata sotto diversi aspetti: a) non rileva più la sola dimensione nazionale, anche a livello di fonti; b) non siamo più in un sistema economico (con una popolazione) in crescita lineare e quindi non possiamo essere indifferenti alle variabili economiche; c) stiamo entrando in un’era di rivoluzione digitale e di comunicazione diffusa, con salti tecnologici a ripetizione. Di più, nell’attuale fase – di pandemia da Corona Virus Disease (noto come Covid-19) – siamo catapultati in un futuro globale che credevamo improbabile, e quindi siamo del tutto impreparati e disorientati, con una drammatica esperienza di paure e preoccupazioni, dapprima sanitarie e poi economico-sociali, queste ultime ora prevalenti. Se ieri il legislatore statutario ha fornito risposte alla crescente “tensione” sociale, oggi le domande arrivano da una vera e propria “questione” sociale. Così accanto alla curva dei contagi ne monitoriamo altre due, con effetti anch’esse potenzialmente letali: la curva di resistenza dell’economia e quella della tenuta sociale del Paese. Inoltre, nel corso di dieci lustri, la stella polare dei regimi di protezione mostra il suo lato oscuro: non più la ricerca dell’eguaglianza lineare e compatta, ma la sfida di una valorizzazione dell’eguaglianza differente della singola persona che lavora. In tale orizzonte si attenua la prevalenza della colorazione omogenea della normativa e la dimensione collettiva delle fonti, con margini inediti per la varietà delle sfumature individuali. Da allora a oggi, il diritto del lavoro si nutre di leggi (e di atti amministrativi, visto il recente stillicidio di d.p.c.m.), sempre più “mal fatte”, mostruose, ravvicinate e stratificate in modo a-sistematico, a volte con sovrapposizioni, sostituzioni parziali, refusi e ambiguità lessicali. Se lo Statuto dei lavoratori può essere considerato la «tabellina del diritto del lavoro»3, anche per la facilità della sua conoscenza mnemonica, il diritto dell’emergenza pandemica – al di là delle etichette rassicuranti (per es. decreti “Cura Italia”, “Rilancio”) – appare come un groviglio di istruzioni caotiche e granulari. Nella mappa dei cambiamenti risalta soprattutto la grande accelerazione dell’innovazione tecnologica e della complessità della realtà socio-economica, con l’ambiguità dei suoi due volti: a volte amica (per es., i co-robot che rendono il lavoro meno faticoso o pericoloso), a volte nemica (per es., gli inquietanti software in grado di effettuare un pervasivo controllo in remoto dei lavoratori)4. La crisi pandemica – con la massiccia e spesso improvvisata sperimentazione del lavoro da remoto – ha reso del tutto evidente che il principale

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Così la suggestiva immagine di F. Carinci, Lo Statuto dei lavoratori. Un parto cesareo, in WP D’Antona, It., n. 422/2020. V. inoltre gli interventi al webinar organizzato anche da questa rivista, Mezzo secolo di statuto dei lavoratori: riflessioni e testimonianze, 10 giugno 2020. Sul mercato esistono già soluzioni in grado di controllare in remoto ciò che i dipendenti stanno facendo e come utilizzano il loro tempo lavorativo: per es. Hubstaff registra i tasti digitati sulla tastiera dal lavoratore, i movimenti del mouse e, ovviamente, la cronologia dei siti visitati; Time Doctor realizza video dello schermo per monitorare le attività; Enaible analizza e-mail, le sessioni su Zoom o le ricerche sul web; un algoritmo battezzato Trigger-Task-Time, è in grado di valutare, nel caso di attività ripetitive e quantificabili, il flusso di lavoro dei singoli dipendenti: cosa li attiva meglio e li rende più produttivi, per es. se una mail o una telefonata. Una volta effettuata questa analisi, fornisce un punteggio fra 0 e 100. Pure se i lavoratori fanno cose diverse e hanno responsabilità incomparabili. In tema v. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, 2019.

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fattore di trasformazione, quello che fa fare il salto di specie (anche) al mondo del lavoro, è dato dall’innovazione digitale e dalla sua concreta applicazione organizzativa5. La rete digitale, l’intelligenza artificiale, il cloud, l’iper-connessione, ecc. danno luogo ad una discontinuità inimmaginabile: il lavoro umano diventa immateriale nel senso che le attività e le conoscenze possono essere codificate in forma digitale con la possibilità di affrancarsi dai vincoli delle distanze. Ne deriva la fattibilità di una vera e propria separazione (una sorta di disallineamento spazio-temporale) tra un “dentro” e un “fuori”: l’obbligazione/risultato della prestazione lavorativa all’interno dei locali aziendali, l’esecuzione materiale dell’attività all’esterno dell’azienda. In questo frame di crescenti differenziazioni, con innovazioni di impresa a macchia di leopardo, è ovvio che la precedente affermazione è relativa, per cui non va confusa la parte per il tutto. Va da sé che non tutte le attività lavorative – per ragioni strutturali, tecnologiche, organizzative, ecc. – possono essere “informatizzabili”, cioé svolte in modalità fluida o non in presenza. Laddove l’attività lavorativa e l’organizzazione aziendale permettono una flessibilità esponenziale diventa possibile, ai sensi della l. n. 81/2017, uno scardinamento contemporaneo dei pilastri fondamentali del lavoro subordinato novecentesco: non più nel luogo di lavoro, entro il cemento del perimetro aziendale degli “uffici-fabbrica”; non più nell’orario, entro le sequenze temporali unitarie e sincronizzate, di lavoro e di non lavoro; non più nell’organizzazione tecnica e sociale dell’impresa o della fabbrica novecentesca. Al punto che l’organizzazione del lavoro – nel contesto delle trasformazioni dell’impresa – diventa una sorta di «piattaforma di connessioni»6. Se così è, il lavoro ubiquo, da poter svolgere ovunque anche “tra le nuvole” ovvero nel non-luogo di lavoro, perde i confini tradizionali che diventano più sfumati, per cui, ad es., il tradizionale campo di applicazione dei diritti dei lavoratori andrà ripensato, con un “dentro” e un “fuori” che non è più quello disegnato dal titolo dello Statuto per i diritti dei lavoratori rispetto ai classici “luoghi di lavoro”, con i limiti dimensionali dettati a misura dell’unità produttiva autonoma, di cui al noto art. 35. Ed ancora si sgretola la nozione classica di orario di lavoro facendo emergere una porosità dei tempi e una evaporazione delle modalità tradizionali del potere di controllo e disciplinare di cui alle norme statutarie.

2. Il lavoro agile tra emergenza ed emersione. Un fenomeno emblematico del modo innovativo di lavorare, al di fuori dello spaziotempo caratterizzante il classico lavoro subordinato assunto a referente dello Statuto, è costituito dalle varie forme di lavoro c.d. “a distanza”: dalle arcaiche tipologie di lavoro a domicilio, alle post-moderne ipotesi di telelavoro e soprattutto di lavoro agile (o, all’ital-in-

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F. Rullani, E. Rullani, Dentro la rivoluzione digitale. Per una nuova cultura dell’impresa e del management, Giappichelli, 2018. L’efficace immagine è di De Toni, Senza le basi non c’è l’altezza, in Il Friuli, 17 giugno 2020, 18: il titolo sintetizza la tesi che senza le basi dell’auto-organizzazione, bisogna scordarsi le altezze dello smart woking.

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glese, smart working)7 in cui l’attività di lavoro e di comunicazione a distanza è agevolata dagli artefatti tecnologici e promossa dal legislatore come strumento di flessibilità spaziotemporale della prestazione lavorativa di tipo “buono”, anche nel più ampio contesto delle misure incentivate di welfare aziendale e di incrementi di produttività. I dati statistici, tuttavia, segnalano un avvio lento e paziente del lavoro agile ordinario. Anticipato dalla contrattazione collettiva (per lo più aziendale o di gruppo) o dai regolamenti per lo più delle grandi multinazionali, il lavoro agile è stato introdotto in via generale – nel lavoro privato e pubblico (qui con qualche adattamento) – a seguito della regolamentazione con la l. n. 81/2017 (art. 18 e segg.) con una disciplina scarna ma trasversale che si interseca con i principali istituti del lavoro subordinato. La nuova modalità di esecuzione del rapporto di lavoro – «in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa» – ha un obiettivo di ordine privato di natura bilaterale: conciliare il tempo di lavoro con quello di vita privata e familiare e incrementare la competitività. Ai sensi della legge, la trasformazione del lavoro in modalità smart, assecondando una tendenza alla individualizzazione, si realizza con la leggerezza del mero patto (scritto) tra datore e singolo lavoratore, senza alcuna esplicita intermediazione della contrattazione collettiva. L’iniziale diffusione marginale del lavoro agile pare essere figlia non tanto delle insufficienti dotazioni e competenze tecnologiche aziendali e dei lavoratori8, quanto delle rigidità dei contesti organizzativi e delle resistenze culturali alla realizzazione di una sorta di scambio tra i lavoratori e la dirigenza tra autonomia e responsabilizzazione, con l’effetto di una tendenziale trasformazione della retribuzione di mezzi con quella di risultato. Come noto, l’accelerazione della forza delle cose – in questo caso, il confinamento casalingo dei primi mesi del 2020 – ha determinato una diffusione massiccia e coatta (nel pubblico) o altamente consigliata (nel privato) del lavoro agile (anche nel lavoro autonomo), come strumento di sicurezza sanitaria per il contenimento della pandemia all’insegna del minimo livello di attività lavorativa in presenza. Sull’onda dell’emergenza pandemica, la regolamentazione legale del lavoro agile (subordinato) è risultata in larga misura semplificata o meglio stravolta prescindendo – per ragioni di ordine pubblico (la difesa della salute e la salvaguardia di parte dell’economia) – in primis dalla conclusione dell’accordo individuale e dal mutamento sostanziale del contesto organizzativo. Da qui la previsione emergenziale – a colpi di ripetuti decreti legge e atti amministrativi (passibili di ulteriori proroghe e modifiche entro il 31 dicembre 2020) – di una versione molto «edulcorata»9 e, al contempo, forzata del lavoro agile patologico, con forti tratti di specialità (quale misura precauzionale e di prevenzione), che diviene molto simile ad un telelavoro domiciliare, con una prestazione esterna integrale (in molti casi, con la mera di-

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Per un’aggiornata bibliografia della ormai folta dottrina di commento alla normativa sul lavoro agile pre e post Covid–19 sia permesso rinviare a Brollo, Smart o Emergency Work? Il lavoro agile al tempo della pandemia, in LG, 2020, 553. Ad es. le tecnologie per la didattica a distanza erano disponibili da quasi 20 anni, visto che le università telematiche sono state istituite nel 2003: Brollo, Innovazioni nella didattica del diritto del lavoro, in ADL, 2020, 2, 345. Così F. Carinci, Il lavoro agile, dattil., in corso di pubblicazione.

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slocazione casalinga «di mansioni ripetitive, costruite a misura di un lavoro predeterminato nel suo spazio/tempo di svolgimento» svolto in via di normalità dal luogo di lavoro) che non risponde affatto alla ragione sottesa a quella genuina agilità di cui alla l. n. 81/2017. Ne deriva la consapevolezza che, dopo la difficile ma istruttiva prova dell’emergenza, il lavoro agile patologico dovrà mutare di nuovo, auspicabilmente recuperando la filosofia originaria di flessibilità ordinaria ex l. n. 81/2017, correlata ad una trasformazione della cultura del lavoro e dell’intera organizzazione del lavoro, eventualmente migliorata. Il lavoro agile, per es., potrebbe risultare arricchito di prospettive sociali e ambientali/territoriali inclusive: per es. per talune categorie di soggetti fragili o svantaggiati per ragioni di salute, di cura o di età (sul modello degli artt. 39 e 90, d.l. n. 18/2020, come modd. dalla l. n. 27/2020); per le periferie del Paese (per es. le zone di montagna o per le zone del Sud)10; per i lavoratori studenti; ecc. È ancora presto per valutare gli impatti dell’ampio ricorso patologico allo smart working determinati sia nel funzionamento delle organizzazioni (pubbliche e private), sia nella professionalità e socialità dei lavoratori, sia nell’ambiente esterno, sia negli ambiti ed equilibri socio-familiari. Con l’emergenza, tuttavia, qualcosa è già emerso in modo chiaro. Grazie alla più diffusa dotazione di tecnologie informatiche e all’adattamento di procedure organizzative e decisionali, tantissime attività (molte di più di quante si era ipotizzato) si possono svolgere da remoto, spesso con costi minori, a volte anche con risultati migliori; la modalità di lavoro a distanza sarà sempre più parte strutturale (alternativa e alternata) del lavoro ordinario, trasformandolo; il lavoro agile genuino richiede sia una revisione dell’organizzazione del lavoro, sia un cambiamento degli stili e della cultura del lavoro di dirigenti e lavoratori; il ricorso al lavoro da remoto modifica il design dell’organizzazione e degli spazi sia dell’azienda sia dell’abitazione; l’ampia sperimentazione dello smart working potrebbe indurre un ripensamento (verso un riequilibrio o maggior disequilibrio?) del ruolo di donne e uomini nel lavoro, nella famiglia e nella società. Inoltre è già tempo di denunciare che l’emergenza sta mettendo in luce e ricalcando le forti criticità del contesto Paese e ci chiede di attrezzarci per arginarle. In particolare, la sperimentazione pandemica del lavoro agile alimenta una viva preoccupazione sui rischi di aumento delle diseguaglianze e discriminazioni dei gruppi di soggetti che si trovano in una condizione di svantaggio sul mercato del lavoro, in primis (anche in termini quantitativi) della manodopera femminile, specie delle madri di figli minori.

3. La ripresa “dispari” e la questione femminile. Come anticipato, per andare avanti a volte occorre guardare indietro. La traiettoria scelta per ragionare sulle misure da allestire per l’occupazione alle soglie del terzo decennio

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Zilli, Il lavoro agile dopo la pandemia Covid-19 tra riscatto delle zone remote e South Working, dattil., in corso di pubblicazione.

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del nuovo secolo prende le mosse dal DNA dello Statuto. Da esso deriva la spinta verso una grande opera di civilizzazione che include l’ambiziosa scommessa (correlata alla sua anima “costituzionale”) di combattere le diverse forme di discriminazione sul/nel lavoro, in primis quelle basate sulle diseguaglianze fondate sul sesso. Come noto, dal modello dell’art. 15 st. lav. è gemmata un’articolata e corposa normativa antidiscriminatoria a largo raggio. Tuttavia, in merito all’effettività delle condizioni di parità femminile resta un grande lavoro da fare, a cominciare dall’analisi scientifica in una prospettiva di genere, ancora piuttosto trascurata. In Italia – Paese con gravi problemi demografici e di ricambio generazionale – le donne sono la maggioranza della popolazione (più del 51%), hanno un’aspettativa di vita più lunga e le giovani sono più istruite dei loro coetanei. La forza lavoro femminile, in pratica, potrebbe costituire una sorta di prezioso lievito per aumentare la torta dell’occupazione globale, migliorando la situazione del mercato del lavoro. Per autorevoli fonti istituzionali (fra le quali, la Banca d’Italia) non c’è dubbio: la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è una misura essenziale per la crescita del reddito e del benessere, e quindi anche per la ripresa. Da qui la consapevolezza della necessità di un’analisi di genere delle conseguenze provocate dalla pandemia da Covid-1911 correlata alla più generale ipotesi di possibile futuro aggravamento delle diseguaglianze economiche e sociali pre-esistenti12. Se è vero che l’emergenza per scongiurare il pericolo del virus, per un verso, accelera il passaggio all’economia digitale (che potrebbe agevolare una serie di cambiamenti ed opportunità per l’emancipazione femminile), per altro verso, rischia di accrescere gli ostacoli alla parità di genere, con il risultato di un peggioramento delle diseguaglianze. In quest’ultima direzione riemerge con forza una criticità tutta italiana: l’inaccettabile spreco di risorse femminili che potrebbero migliorare la quantità e qualità del capitale umano nel mondo del lavoro. Dopo il rassicurante slogan #andràtuttobene, è tempo di fare i conti con le preoccupazioni e le incertezze della realtà e di affrontarne le sfide strutturali per condividere l’idea di quale Paese vogliamo ricostruire. Se questa è di un eco-sistema sostenibile, equilibrato e inclusivo, come suggerisce la nota Agenda ONU 2030 (v. il goal n. 5 sulla parità di genere e il recente “Manifesto” dei colleghi Caruso, Del Punta e Treu), le cose devono cambiare.

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Il tema della sicurezza sul lavoro, essendo strettamente correlato alla c.d. medicina di genere (rectius: genere-specifica), potrebbe divenire l’avamposto per analisi giuridiche connesse alle differenze di genere. Per un’interessante indagine v. Nunin, Lavoro femminile e tutela della salute e della sicurezza: nuovi scenari per una prospettiva di genere dopo il d. lgs. n. 81/2008, in LD, 2011, 387; Sclip (a cura di), Sicurezza accessibile. La sicurezza sul lavoro in una prospettiva di genere, EUT, 2019: Lazzari, Sicurezza sul lavoro e Covid-19. Appunti per una prospettiva di genere, in DSL, 2020, 1, 6 ed ivi ulteriori indicazioni. Più in generale v., da ultimo, Scarponi (a cura di), Diritto e genere. Temi e questioni, Editoriale scientifica, 2020, open access. 12 Cfr., nella letteratura economica, Franzini, Il Covid-19 e le diseguaglianze economiche, in QG, 2020, in https://www.questionegiustizia. it/articolo/il-covid-19-e-le-disuguaglianze-economiche_08-04-2020.php; e, più in generale, Franzini, Raitano, Il mercato rende uguali? La disuguaglianza dei redditi in Italia, Il Mulino, 2018. Per i primi dati sullo smart working emergenziale si rinvia all’indagine ISTAT, Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19 e alla rielaborazione della Fondazione Studi Consulenti del lavoro, Tempo di bilanci per lo smart working. Tra rischio retrocessioni e potenzialità inespresse, diponibilie on line. V. anche i risultati della prima analisi INAPP, Gli effetti indesiderabili dello smart working sulla disuguaglianza dei redditi in Italia, in Inapppolicybrief, n. 20 – luglio 2020.

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Nei 50 anni post-Statuto la questione della condizione delle donne nel mercato del lavoro è riassumibile nella narrazione di una crescita costante del tasso sia di partecipazione sia di occupazione femminile, avvenuta senza “rubare” il posto agli uomini (come attestano le statistiche)13. In avanti, dunque, ma con un ritmo troppo lento, per cui resta grave la situazione di svantaggio delle italiane nell’accidentato percorso verso la parità e le pari opportunità, specie in campo economico. E, per effetto della pandemia, il divario rischia di accentuarsi, specie nel mercato del lavoro. Durante la fase 1 dell’emergenza, le donne hanno dato un contributo fondamentale, quali lavoratrici in prima linea nella sanità (mediche, infermiere, farmaciste, ecc.) o nei servizi essenziali non sospesi (cassiere, colf, badanti, ecc.). Nella successiva fase di gestione più ordinaria della pandemia, però, arrancano proprio i settori economici a maggior presenza femminile: il commercio, il turismo, la ristorazione, la comunicazione, le attività di intrattenimento e artistiche, i trasporti, ecc.14. Le prime indagini istituzionali sulle ricadute occupazionali dell’emergenza epidemiologica già segnalano che aumentano i fattori di vulnerabilità delle occupate15, con il rischio di far pagare alle donne il prezzo più alto, aggravando ancor di più le diseguaglianze esistenti. Insomma, sarà dura per molti, per le donne lo sarà ancor di più. La preoccupazione interroga la Politica e l’intera Comunità che deve agire per curvare le tendenze verso una solida ripresa “alla pari”; quella “dispari”, senza le donne, sarebbe di per sé fragile. Nella situazione attuale, non è certo se le donne abbiano una maggior tenuta biologica nei confronti del virus16, è certo, invece, che la ripresa è piena di incognite e rischi di esclusione per il lavoro femminile, specie per le lavoratrici madri con figli in età scolare. Il fattore di maggior criticità per il lavoro delle donne risiede, infatti, nell’aumento delle difficoltà di conciliazione (o meglio di condivisione con gli uomini) tra tempi di vita professionale e tempi di vita familiare e privata. Difficoltà, queste, che riflettono le croniche diseguaglianze fra donne e uomini, fra madri e padri, all’interno della famiglia. Ai tempi del coronavirus, le indagini mostrano una realtà scoraggiante, specie nelle percezioni femminili.

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Cfr. i vari e illuminanti Rapporti Istat in www.istat; l’indice sull’eguaglianza di genere dell’Istituto europeo per l’eguaglianza di genere (EIGE) per il 2019 in mh0319021itn_002.pdf; il Global Gender Gap Report del World Economic Forum (WEF). 14 V. Casarico, Lattanzio, La demografia del lockdown, 2020, in www.lavoce.info. 15 Inail, Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione, aprile 2020, in https://www.inail.it/cs/internet/docs/alg-pubbl-rimodulazione-contenimento-covid19sicurezza-lavoro.pdf; Istat, Affare assegnato riguardante le ricadute occupazionali dell’epidemia da Covid-19, azioni idonee a fronteggiare le situazioni di crisi e necessità di garantire la sicurezza sanitaria nei luoghi di lavoro (atto n. 453), Audizione dell’Istituto nazionale di statistica in https://www.istat.it/it/files//2020/05/Istat_Audizione-Commissione-Lavoro_28maggio2020_EC.pdf. V. anche Ferrario, Profeta, COVID: un Paese in bilico tra rischi e opportunità: Donne in prima linea, 2020, in http://laboratoriofuturo.it. V. inoltre le Audizioni in merito a recenti proposte di legge (AA.C. 522, 615, 1320, 1345, 1675, 1732, 1925 e 2338), ISTAT, Audizione di Sabbadini, in https://www.istat.it/it/files//2020/02/Memoria_Istat_Audizione-26-febbraio-2020.pdf; CNEL, Audizione di Treu, in CNEL_ Audizione_gap_genere_27feb2020.pdf. Anche il World Economic Forum, ritiene che le conseguenze economiche e sociali saranno più pesanti per le donne in https://www.weforum.org/agenda/2020/03/the-coronavirus-fallout-may-be-worse-for-women-than-menheres-why/. 16 Il profilo occupazionale delle donne potrebbe spiegare le differenze di contagio fra uomini e donne oppure questi potrebbero dipendere da ipotesi di tipo biologico, genetico, epidemiologico o comportamentale: Bertocchi, Ma davvero le donne sono più resistenti al Covid-19? 2020, in www.lavoce.info.

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Con la chiusura delle scuole e la didattica a distanza, sulle spalle delle donne è ricaduta – oltre al lavoro produttivo – la maggior parte del lavoro famigliare extra: di insegnante per i figli, di lavoro domestico, di attività di cura di bambini e anziani. L’alto livello di multitasking di queste vite indaffarate determina un frenetico sovraccarico lavorativo e cognitivo, con un crescente malessere, con il rischio che la sottile e complessa rete di equilibrismi delle lavoratrici – specie delle madri (o delle figlie) – si possa rompere costringendo alla tragica scelta “o il lavoro o i figli”17. Le contro-misure messe in campo non sono sufficienti, anzi (incluso il d.d.l. “Family Act” e il Piano Colao) sembrano non tener conto delle indicazioni dell’Unione europea (dir. 2019/1158 “relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza”, Comunicazione della Commissione “Towards a gender equal Europe” sulla Strategia per l’eguaglianza di genere 2020-2025)18. E lo smart working pandemico, praticato con una sorta di eterogenesi dei fini rispetto a quello ordinario, non è la soluzione19. In assenza di un incisivo intervento pubblico di sostegno al welfare familiare, si rischia di riportare le donne fuori dal mercato del lavoro, come se le lancette dell’orologio viaggino pericolosamente all’indietro. La perdita lascerebbe un segno indelebile per lo sviluppo economico, sociale e culturale, con un danno per la società da risanare che non è solo una questione femminile: è interesse e vantaggio di tutti, per una società democratica di uomini e donne, «senza distinzioni di sesso» come recita la nostra Costituzione e come ha riconosciuto lo Statuto dei lavoratori (e delle lavoratrici).

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Aa.Vv., Le equilibriste. La maternità in Italia 2020, in https://s3.savethechildren.it/public/files/uploads/pubblicazioni/le-equilibristela-maternita-italia-nel-2020.pdf. Preoccupano i numeri delle dimissioni “volontarie” delle lavoratrici madri italiane: Ispettorato Nazionale del Lavoro, Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri ai sensi dell’art. 55 del decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151, Anno 2019, in https://www.ispettorato.gov.it/it-it/ studiestatistiche/Documents/Relazione-Convalida-Dimissioni-anno-2019.pdf. 18 Per una prima lettura critica v. Scarponi, Genitorialità, Family Act, Direttiva europea 1158/2019 “work-life balance”, www.ingenere. it. Meno critica Saraceno, Family Act, un punto di partenza, in www.lavoce.info. V. anche il Documento della Task force del DPO, “Donne per un nuovo rinascimento”, 2020, in http://www.pariopportunita.gov.it/wp-content/uploads/2020/05/DEF.pdf. 19 Per una stimolante lettura critica della funzione conciliativa (con o senza aggettivi) attribuita al lavoro agile si rinvia a Tinti, Il lavoro agile e gli equivoci della conciliazione virtuale, in WP D’Antona, It., n. 419/2020.

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Giurisprudenza commentata



Giurisprudenza Corte di C assazione , sentenza 27 marzo 2020, n. 7566; Pres. Di Cerbo – Est. Negri Della Torre – P.M. Celeste (concl. conf.) – N.C. (avv. Gambardella) c. T.H.S. - DIVISIONE CATERING S.R.L. (avv. Barbato). Conferma App. Napoli, sent. n. 8138/2017. Licenziamenti – Licenziamento per giusta causa – Assenza per motivi di salute superiore a 60 giorni – Visita medica preventiva – Ripresa del lavoro – Obbligo del lavoratore di presentarsi sul luogo di lavoro – Assegnazione provvisoria a mansioni diverse – Legittimità.

Fermo l’obbligo datoriale di sottoporre a visita medica preventiva il dipendente rimasto assente dal lavoro per motivi di salute per un periodo superiore a 60 giorni, detta visita deve precedere la ripresa del lavoro, ossia la concreta assegnazione del lavoratore alle medesime mansioni già svolte in precedenza, ben potendo il datore, in via provvisoria e in attesa dell’espletamento della visita medica, disporre una diversa collocazione del proprio dipendente all’interno della organizzazione aziendale. Grava sul dipendente l’obbligo di presentarsi in azienda venuto meno il titolo giustificante l’assenza. Licenziamenti – Periodo di comporto – Richiesta di fruizione ferie – Incondizionata facoltà di conversione del titolo dell’assenza – Insussistenza.

Il lavoratore assente per malattia può presentare richiesta di fruizione delle ferie per evitare il superamento del periodo di comporto, ma a ciò non corrisponde un’incondizionata facoltà di conversione del titolo dell’assenza, essendo rimessa al datore la decisione circa la concessione delle ferie, armonizzando le esigenze dell’impresa con gli interessi del lavoratore. Svolgimento del processo. 1. Con sentenza n. 8138/2017, depositata il 27/11/2017, la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza, con cui il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva respinto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato a N.C. dalla T.H.S. – Divisione Catering S.r.l., con lettera in data 23 settembre 2014, a motivo di assenze ingiustificate dal lavoro per più giorni consecutivi. 2. La Corte di appello ha osservato a sostegno della propria decisione che la lavoratrice si era collocata autonomamente in ferie alla scadenza del periodo di comporto, senza formulare alcuna richiesta di autorizzazione al loro godimento; né poteva ritenersi che la società datrice di lavoro si fosse resa inadempiente all’obbligo di sorveglianza sanitaria, nell’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 41, comma 2, lett. e-ter) (obbligo di “visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”), dovendo la visita medica effettuarsi, in tale ipotesi, prima della concreta assegnazione del lavoratore alle mansioni, che è momento non coincidente con la ripresa del lavoro e cioè

con la formale presentazione nel luogo di lavoro: in sostanza, ha precisato la Corte, il lavoratore, dopo un periodo di malattia protratto per oltre sessanta giorni, può, in assenza di visita medica, legittimamente rifiutarsi, ex art. 1460 c.c., di eseguire le mansioni incompatibili con il suo stato di salute, posto che l’omissione della visita medica costituisce grave e colpevole inadempimento del datore di lavoro, ma non può rifiutarsi di ritornare al lavoro e continuare ad assentarsi, come invece era accaduto nella specie. 3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la lavoratrice con tre motivi, assistiti da memoria, cui ha resistito la società con controricorso. Motivi della decisione. Omissis. 2. Con il secondo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1 nonché della L. n. 300 del 1970, art. 7 la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte erroneamente qualificato le assenze come “ingiustificate”, nonostante che la condotta posta in essere dalla lavoratrice integrasse chiaramente l’ipotesi del rifiuto legittimo della prestazione ex art. 1460 c.c., stante l’omessa sottoposizione della stessa, da parte


Giurisprudenza

del datore di lavoro, a visita medica preventiva, con conseguente insussistenza del fatto contestato sotto il profilo della sua antigiuridicità. 3. Con il terzo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione degli artt. 2119 e 1460 c.c. e del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 41, comma 2, lett. e-ter, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto che presupposto per l’applicazione di tale ultima disposizione fosse la presenza in azienda del lavoratore, mentre dal tenore letterale di essa era dato chiaramente desumere che il reingresso nel sistema produttivo del dipendente, che per motivi di salute fosse rimasto assente per un periodo di oltre sessanta giorni continuativi, dovesse essere necessariamente preceduto dall’effettuazione della visita medica. – Omissis. 8. il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 41 (“Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”) prevede, tra gli strumenti della “sorveglianza sanitaria” (comma 2) anche l’effettuazione di una “visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare la idoneità alla mansione” (lett. e-ter). 9. La norma va letta – secondo un’interpretazione conforme tanto alla sua formulazione letterale come alle sue finalità – nel senso che la “ripresa del lavoro”, rispetto alla quale la visita medica deve essere “precedente”, è costituita dalla concreta assegnazione del lavoratore, quando egli faccia ritorno in azienda dopo un’assenza per motivi di salute prolungatasi per oltre sessanta giorni, alle medesime mansioni già svolte in precedenza, essendo queste soltanto le mansioni, per le quali sia necessario compiere una verifica di “idoneità” e cioè accertare se il lavoratore possa sostenerle senza pregiudizio o rischio per la sua integrità psicofisica. 10. Ne deriva che, ove nuovamente destinato alle stesse mansioni assegnategli prima dell’inizio del periodo di assenza, egli può astenersi ex art. 1460 c.c. dall’eseguire la prestazione dovuta, posto che l’effettuazione della visita medica prevista dalla norma si colloca all’interno del fondamentale obbligo imprenditoriale di predisporre e attuare le misure necessarie a tutelare l’incolumità e la salute del prestatore di lavoro, secondo le previsioni della normativa specifica di pre-

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venzione e dell’art. 2087 c.c.; sicché la sua omissione, integrando un inadempimento della parte datoriale di rilevante gravità, risulta tale da determinare una rottura dell’equilibrio sinallagmatico e da conferire, pertanto, al prestatore di lavoro una legittima facoltà di reazione. 11. Non è invece consentito al prestatore di astenersi anche dalla presentazione sul posto di lavoro, una volta venuto meno il titolo giustificativo della sua assenza (come nella specie, la ricorrente avendo superato il periodo di comporto): presentazione che – come rilevato esattamente nella sentenza impugnata – è momento distinto dall’assegnazione alle mansioni, in quanto diretto a ridare concreta operatività al rapporto e ben potendo comunque il datore di lavoro, nell’esercizio dei suoi poteri, disporre, quanto meno in via provvisoria e in attesa dell’espletamento della visita medica e della connessa verifica di idoneità, una diversa collocazione del proprio dipendente all’interno della organizzazione di impresa. 12. È, d’altra parte, consolidato il principio (Cass. n. 5521/2003; conforme, fra altre, n. 21385/2004), secondo il quale “il lavoratore assente per malattia non ha incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale titolo della sua assenza, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto, ma il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di conversione dell’assenza per malattie in ferie, e nell’esercitare il potere, conferitogli dalla legge” (art. 2109 c.c., comma 2), di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell’ambito annuale armonizzando le esigenze dell’impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore in quanto esposto, appunto, alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto; tuttavia, un tale obbligo del datore di lavoro non è ragionevolmente configurabile allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto ed in particolare quando le parti sociali abbiano convenuto e previsto, a tal fine, il collocamento in aspettativa, pur non retribuita – Omissis. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso – Omissis.


Silvia Ortis

La nozione di «ripresa del lavoro» e la fruizione delle ferie fra diritti e obblighi del lavoratore allo scadere del periodo di comporto Sommario : 1. La vicenda in esame. – 2. La sorveglianza sanitaria e il concetto di «ripresa del lavoro». – 3. La malattia e il licenziamento per superamento del periodo di comporto: tratti di peculiarità della fattispecie risolutiva del rapporto. – 4. Scadenza del periodo di comporto e fruizione delle ferie.

Sinossi. Traendo spunto dalla sentenza in esame, il commento, dapprima, ricostruisce la nozione di «ripresa del lavoro», rilevante ai fini dell’obbligo datoriale di sorveglianza sanitaria in ipotesi assenza del dipendente per motivi di salute superiore a 60 giorni. In secondo luogo, analizza le peculiarità del licenziamento per superamento del periodo di comporto e i limiti del diritto del dipendente di chiedere la fruizione delle ferie, in continuità con la malattia, al fine di evitare il superamento del periodo di comporto e la risoluzione del rapporto di lavoro. Abstract. Taking its cue from the judgment in question, the commentary first reconstructs the notion of «resumption of work», which is relevant to the employer’s obligation to carry out health surveillance in the event that the employee is absent for health reasons of more than 60 days. Secondly, it analyses the peculiarities of dismissal for exceeding the respite period and the limits of the employee’s right to ask for leave, in continuity with the illness, in order to avoid exceeding the respite period and termination of the employment relationship.

1. La vicenda in esame. La sentenza in commento costituisce un’interessante occasione di riflessione ed approfondimento dell’ampia tematica inerente ai reciproci diritti ed obblighi sussistenti in capo alle parti del contratto di lavoro in ipotesi di assenza prolungata del dipendente per motivi di salute. Il contenzioso trae origine da un ricorso presentato dinnanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con il quale una lavoratrice aveva impugnato il proprio licenziamento per giusta causa, irrogato in ragione delle assenze ingiustificate dal lavoro per più giorni consecutivi, chiedendone l’annullamento. In entrambi i gradi di merito, il ricorso d’impugnativa veniva rigettato, osservando, da ultimo la Corte d’Appello di Napoli, che alla scadenza del periodo di comporto la lavoratrice si era collocata in ferie autonomamente, senza formulare alcuna preventiva richiesta al datore sul punto e, dunque, in assenza di

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autorizzazione. Di fatto, la lavoratrice aveva omesso di presentarsi in servizio al termine del periodo di assenza per malattia. La lavoratrice proponeva, dunque, ricorso per Cassazione articolato in tre motivi di diritto. Tralasciando il primo, irrilevante ai fini della presente analisi, con il secondo motivo la lavoratrice contestava l’arresto sostenendo che la Corte napoletana avesse ritenuto erroneamente ingiustificate le assenze addebitate, poiché, a sua detta, dovevano ritenersi motivate dal legittimo rifiuto all’esecuzione della prestazione lavorativa opposto dalla dipendente, ai sensi dell’art. 1460 c.c., in ragione del mancato adempimento da parte della Società di sottoporla alla visita medica preventiva rispetto al rientro al lavoro. Con il terzo motivo, invece, la ricorrente censurava la sentenza per l’interpretazione fornita dalla Corte in ordine agli obblighi incombenti in capo al datore all’atto della ripresa dell’attività lavorativa dopo un’assenza per motivi di salute superiore ai sessanta giorni. Le questioni giuridiche sottese alla pronuncia in commento possono essere ricondotte entro l’alveo di due macro quesiti, cui corrispondono due diverse tematiche, seppur contigue. In particolare, la Corte di Cassazione ha dapprima ricostruito gli obblighi datoriali in materia di sorveglianza sanitaria laddove l’assenza per malattia si prolunghi per oltre sessanta giorni continuativi. In secondo luogo, la Corte ha delineato i contorni e i limiti della facoltà della lavoratrice di chiedere, in tal caso, la fruizione di un periodo di ferie al fine di evitare il superamento del periodo di comporto, e dunque la risoluzione del rapporto di lavoro, analizzando il perimetro delle speculari prerogative imprenditoriali sul punto.

2. La sorveglianza sanitaria e il concetto di «ripresa del lavoro».

Come noto, in ipotesi di assenza del lavoratore per motivi di malattia per una durata continuativa maggiore ai sessanta giorni, grava in capo al datore di lavoro l’adempimento di particolari oneri che, per quel che rileva ai fini della causa oggetto della pronuncia in commento, sono puntualmente prescritti dall’art. 41, comma 2, lettera e)-ter, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Testo Unico in materia di salute e sicurezza), i quali si inseriscono nel novero del più ampio obbligo datoriale in materia di sorveglianza sanitaria, come identificato dalla stessa rubrica legis della citata norma. Nello specifico, in tali casi la disposizione impone al datore di lavoro di sottoporre il lavoratore interessato ad una «visita medica precedente alla ripresa del lavoro (…) al fine di verificare l’idoneità alla mansione». Il dato normativo è dunque chiaro nell’imporre, da un lato, la natura preventiva di detta visita e, dall’altro, la finalità della stessa, volta a verificare la capacità del dipendente a svolgere le mansioni cui era adibito, potendo esser stata compromessa nel corso e a causa della malattia. Ciò che, tuttavia, la norma non chiarisce è la nozione di «ripresa del lavoro», che definisce temporalmente l’obbligo datoriale e, per l’effetto, anche la sua portata.

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La Cassazione, con la pronuncia in commento, ha preso posizione sul punto, fornendo un’esegesi condivisibile del dato normativo, seppur non in linea con la tesi offerta dalla ricorrente e che si apprezza, soprattutto, per il ragionamento di carattere sistematico. In particolare, la Corte ha distinto il concetto di «ripresa del lavoro», il cui presupposto logico e giuridico è l’espletamento della visita medica preventiva, dalla formale presentazione del dipendente presso il luogo di lavoro, differenziandoli sul triplice piano semantico, sostanziale e temporale. Secondo la ricostruzione della Corte, infatti, la nozione di «ripresa del lavoro» sarebbe intimamente connessa, e per tal motivo anche perimetrata, con le mansioni svolte dal dipendente prima del periodo di assenza dal lavoro. Con la conseguenza che la visita medica preventiva di cui all’art. 41, comma 2, lettera e)-ter d.lgs. 81/2008 costituirebbe un presupposto indefettibile solo ai fini della concreta assegnazione del lavoratore alle medesime mansioni già svolte in precedenza e non già ad altre e diverse mansioni. In quest’ultimo caso, infatti, secondo la ricostruzione offerta dalla Cassazione, la visita medica preventiva non spiegherebbe la finalità a cui è istituzionalmente preposta, in quanto volta a verificare l’idoneità del dipendente, in termini di capacità attuale, a svolgere i medesimi compiti allo stesso attribuiti prima del periodo di assenza, senza che lo svolgimento di dette mansioni gli rechi un pregiudizio o metta a rischio la sua integrità psico-fisica. Il concreto portato della pronuncia in commento implica dunque che, al termine del periodo di malattia, il lavoratore sia comunque tenuto a presentarsi al lavoro e che il datore, in attesa della sottoposizione del dipendente alla visita medica preventiva – che deve, appunto, precedere la «ripresa del lavoro» quale ripresa delle precedenti mansioni svolte – possa adibire il lavoratore a compiti differenti, nell’ottica di rinvenire temporaneamente una diversa e proficua collocazione del proprio dipendente all’interno della organizzazione aziendale, nell’esercizio dei suoi poteri imprenditoriali. Certo è che si deve necessariamente trattare di una collocazione provvisoria, limitata nel tempo, in quanto, diversamente, tale occasione potrebbe essere strumentalizzata dal datore di lavoro per un esercizio dello ius variandi non rispettoso dei limiti di cui all’art. 2103 c.c. e della disciplina volta a tutelare il dipendente in ipotesi di sopravvenuta inidoneità, parziale o totale, all’esecuzione della prestazione lavorativa. In tal modo, la presentazione del dipendente sul posto di lavoro potrebbe essere, in thesi, cronologicamente anteriore all’effettiva ripresa del lavoro e potrebbe comportare, in via temporanea, anche l’assegnazione a mansioni differenti da quelle di pregressa attribuzione e rispetto alle quali (e limitatamente alle quali) deve esser svolta la visita medica di idoneità. Ricostruita in tali termini la nozione di «ripresa del lavoro», è dunque evidente che il dipendente, terminato il periodo di malattia e in attesa dello svolgimento della visita medica, non possa astenersi dal presentarsi sul posto di lavoro, equivalendo la mancata presentazione ad un’assenza ingiustificata e, come tale, disciplinarmente rilevante e sanzionabile. Il tutto, infatti, si inserisce nell’alveo del sinallagma contrattuale e delle reciproche obbligazioni ed è alla luce di dette coordinate di diritto che devono essere valutate le condotte del datore e del dipendente. Da un lato, la sottoposizione del lavoratore alla visita medica costituisce adempimento necessario a cui il datore è tenuto in via preventiva alla ripresa del lavoro, in virtù dell’ob-

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bligo di predisporre ed adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’incolumità e la salute del proprio personale; obbligo che trova specifico fondamento nell’art. 2087 c.c. Dall’altro lato, tuttavia, il dipendente non può nemmeno inopinatamente sottrarsi a detta visita, dovendo comunque cooperare per consentire la concreta ripresa del rapporto. La violazione del sopra citato obbligo datoriale di sorveglianza sanitaria costituisce infatti una grave omissione, tale da determinare ipoteticamente una rottura dell’equilibrio sinallagmatico e da legittimare, al ricorrere di determinati presupposti, anche il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa quale eccezione di inadempimento in applicazione del più generale principio civilistico di cui all’art. 1460 c.c. Tuttavia, alla luce della ricostruzione del concetto di «ripresa del lavoro» offerta dalla Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, il rifiuto del lavoratore, esercitato ai sensi dell’art. 1460 c.c., sarà legittimo nella misura in cui il datore di lavoro, senza il preventivo espletamento della visita medica di idoneità, lo abbia assegnato proprio alle medesime mansioni di precedente attribuzione. Ne segue che costituiscono un comportamento disciplinarmente rilevante non solo la mancata presentazione del lavoratore alla visita medica di idoneità, bensì anche la mancata presentazione sul posto di lavoro al termine del periodo di assenza giustificata (per malattia), nonché il rifiuto di esecuzione della prestazione lavorativa laddove, in quest’ultimo caso, abbia ad oggetto mansioni differenti da quelle a cui era ordinariamente adibito prima dell’assenza dal servizio e tale assegnazione sia avvenuta in via provvisoria, in attesa dello svolgimento della citata visita. Pertanto, ineccepibile appare sul punto la decisione della Corte territoriale, come confermata in sede di legittimità, che ha stigmatizzato il comportamento della ricorrente che, venuto meno il titolo giustificativo dell’assenza, aveva discrezionalmente deciso di non presentarsi in servizio. Nel caso di specie, peraltro, non poteva validamente addursi nemmeno un’omissione datoriale dell’obbligo di visita medica preventiva, in quanto non vi era stata nemmeno la materiale possibilità di adempimento dello stesso. Dunque, l’eccezione di inadempimento sollevata dalla lavoratrice ex art. 1460 c.c. era del tutto illegittima in quanto contrapposta ad un asserito inadempimento datoriale, in realtà mai concretizzatosi.

3. La malattia e il licenziamento per superamento del

periodo di comporto: tratti di peculiarità della fattispecie risolutiva del rapporto. Nell’affrontare il secondo e terzo motivo di diritto formulati dalla ricorrente, la Corte di Cassazione ha poi svolto un’interessante digressione avente ad oggetto l’analisi degli strumenti normativi e contrattuali a disposizione della lavoratrice, in ipotesi di prolungata assenza per malattia, al fine di scongiurare il superamento del periodo di comporto e, per l’effetto, la risoluzione del rapporto contrattuale di lavoro. Al vaglio della Cassazione vi era infatti il comportamento della lavoratrice ricorrente, la quale, al termine del periodo di malattia, aveva deciso di fruire, in continuità, di un periodo di ferie al fine di evitare il superamento del periodo di comporto, senza tuttavia presentare alcuna formale ed espressa domanda al proprio datore di lavoro. Quest’ultimo,

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infatti, le aveva poi contestato l’assenza ingiustificata ed irrogato il licenziamento per giusta causa oggetto di impugnazione. Nella vicenda in esame, l’accertamento della legittimità del recesso datoriale ha implicato la duplice e preliminare valutazione circa la sussistenza o meno di una facoltà della lavoratrice di ottenere la conversione del titolo giustificativo dell’assenza da malattia a ferie e, in caso positivo, circa gli eventuali limiti di detta facoltà, dovendo necessariamente coordinarsi con i contrapposti interessi in gioco di cui era portatrice la Società controricorrente, alla luce del combinato disposto degli artt. 2109 e 2110 c.c. Lo stato di malattia del prestatore di lavoro subordinato, come noto, comporta la sospensione del rapporto contrattuale per il periodo di comporto, stabilito a livello normativo o contrattual-collettivo, e, per la medesima durata, la conservazione del posto di lavoro, ad eccezione del caso in cui ricorra una giusta causa ex art. 2119 c.c. In virtù di tale diritto alla conservazione del posto, è pacifico che l’eventuale licenziamento per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) intimato durante il periodo di malattia, pur non essendo sanzionato con la nullità, sia temporalmente inefficace, in applicazione del principio di conservazione dei contratti di cui all’art. 1367 c.c.: in tali casi, l’estinzione del rapporto è sospensivamente condizionata alla cessazione della malattia e si produce automaticamente, senza necessità di un’ulteriore comunicazione datoriale, una volta terminato lo stato morboso1. Tuttavia, la malattia e, in particolare, il superamento del periodo di comporto possono costituire un legittimo motivo di licenziamento, tale da prevalere sulle causali generali previste dalla normativa di cui all’art. 3 l. 604/1966: si tratta di un’ipotesi speciale di recesso datoriale, precostituita per legge e integrata dal semplice superamento del periodo di comporto, quale periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di assenza per malattia2. Tuttavia, è necessario che la comunicazione del licenziamento venga effettuata una volta che il periodo di comporto sia già spirato; un eventuale licenziamento motivato per superamento del periodo di comporto ma comunicato prima della sua scadenza, è radicalmente nullo e non già solo temporalmente inefficace, come di recente affermato dalle Sezioni Unite, in quanto si pone in violazione del limite di tollerabilità individuato dalla legge e/o dalla contrattazione collettiva3. In tal modo, le Sezioni Unite hanno composto il conflitto interpretativo esistente in seno alla Corte di Cassazione fra un primo orientamento, prevalente e a cui hanno aderito, che sanzionava in termini di nullità il licenziamento intimato solo per il protrarsi delle assenze dal lavoro, ma prima che il periodo di comporto

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Ex multis Cass., 7 gennaio 2005, n. 239. Per un approfondimento del rapporto con le causali ordinarie di licenziamento, si rinvia a Stolfa, Licenziamento per superamento del periodo di comporto e regole formali di cui alla l. n. 604/1966: il cerchio si chiude, in RIDL, 2005, II, 399. Cass., sez. un., 22 maggio 2018, n. 12568, con commento di Pasqualetto, Il licenziamento per preteso (ma non realizzato) superamento del periodo di comporto: il duplice paradosso di una sentenza a sezioni unite... non troppo utile, in DRI, 2018, n. 4, 1218. Sempre in dottrina, a commento dell’ordinanza interlocutoria del 19 ottobre 2017, n. 24766 e di rimessione alle Sezioni Unite, si veda Tempesta, Il licenziamento per il “futuro” superamento del periodo di comporto: nullità o temporanea inefficacia? la parola alle S.U., in RIDL, 2018, n. 1, II, 75, il quale sottolinea che, qualora il recesso sia basato sul periodo di comporto e lo stesso non è ancora spirato, il licenziamento risulta fondato su un fatto non (ancora) esistente ed è dunque privo di giustificazione.

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risulti scaduto 4 e la diversa opzione ermeneutica secondo cui detto licenziamento sarebbe già validamente disposto con l’unico limite del mero differimento dell’efficacia del recesso fino a quando non si sia consumato il periodo massimo di comporto. Tuttavia, come puntualizzato dalle Sezioni Unite, il contrasto era fittizio e non già reale, in quanto le uniche pronunce nelle quali la giurisprudenza di legittimità ha fatto cenno alla sanzione della mera inefficacia5 riguardavano ipotesi di recesso datoriale ove alla base vi era un motivo diverso e autonomo dal mero protrarsi della malattia; in tali casi, il perdurante stato di malattia fungeva piuttosto da elemento estrinseco rispetto alla reale ragione del licenziamento e idoneo soltanto a differire l’efficacia del licenziamento. In ragione delle specialità che lo connotano e che non consentono di ricondurlo nel genus del recesso per giustificato motivo oggettivo, il licenziamento per superamento del periodo di comporto non è nemmeno soggetto alla preventiva procedura di cui all’art. 7 l. n. 604/1966. Addirittura, il datore di lavoro non è nemmeno onerato di preavvertire il lavoratore circa l’imminente scadenza del periodo di comporto6. La fattispecie risolutiva in parola presenta poi delle peculiarità anche sotto il profilo temporale e, in particolare, dello spatium deliberandi concesso al datore di lavoro per computare, nel complesso, la sequenza di eventi morbosi e, non da ultimo, per valutare se residuino in concreto dei margini di ricollocazione del lavoratore all’interno dell’assetto aziendale. A differenza, infatti, del licenziamento disciplinare, con riferimento al quale, di sovente, la contrattazione collettiva individua un termine entro il quale, dalla conoscenza dei fatti, il datore deve elevare la contestazione disciplinare ed un ulteriore termine entro cui irrogare la sanzione, nel caso del licenziamento per superamento del periodo di comporto la valutazione della tempestività si traduce in un giudizio di congruità da svolgersi caso per caso7. Infatti, ferma restando la facoltà datoriale di recedere non appena terminato il periodo di comporto, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il datore può anche attendere il rientro al lavoro del dipendente per svolgere una prognosi di compatibilità della presenza in servizio del lavoratore in rapporto agli interessi aziendali, senza che da tale comportamento datoriale possa trarsi la deduzione di una rinuncia

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Cass., 18 novembre 2014, n. 24525; Cass., 31 dicembre 2012, n. 1404;Cass., 26 ottobre 1999, n. 12031; Cass. 21 settembre 1991, n. 9869. In dottrina si veda Bellocchi, La nullità del licenziamento nel decreto legislativo n. 23/2015, in DRI, 2018, n. 1, 145, che ricava la conferma della sanzione della nullità virtuale dalla formulazione dell’art. 18 st. lav., come novellata nel 2012. L’Autrice, seppur nel silenzio della legge, ritiene che la medesima sanzione operi anche in caso di licenziamento assoggettato al regime di cui al d.lgs. 23/2015. Nel medesimo senso, in ordine al regime del contratto di tutele crescenti, anche Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra costituzione e diritto europeo, in RIDL, 2016, n. 1, I, 111.  Contra, Cester, Le tutele, in Gragnoli, (a cura di), L’estinzione del rapporto di lavoro subordinato, Cedam, 2017, 1105, secondo cui l’ipotesi di illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto non è sussumibile nei casi di cui all’art. 2 d.lgs. 23/2015, perché non si tratta di un caso di nullità «espressamente prevista dalla legge». Cass., 10 febbraio 1993, n. 1657; Cass., 4 luglio 2001, n. 9037. Cass., 24 febbraio 2016, n. 3645. In dottrina, si veda Leverone, Il tempo non conta nel licenziamento per superamento del periodo di comporto, in D&G, 2016, n. 25, 40; Timellini, Il difficile equilibrio tra spatium deliberandi e tempestività della comunicazione del licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto, in RIDL, 2012, 3, II, 676; Riccio, Principio di «tempestività» e ruolo del «tempo» nella giurisprudenza in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, in DRI, 2009, 1073.

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all’esercizio del proprio potere di recesso8. Potrà infatti dedursi un comportamento oggettivamente sintomatico della volontà datoriale di rinunciare al potere di licenziamento solo in caso di sua prolungata inerzia, al rientro in servizio del dipendente, con conseguente legittimo affidamento di quest’ultimo circa la prosecuzione del rapporto di lavoro9. Non da ultimo, le peculiarità del licenziamento per superamento del periodo di comporto si dispiegano anche sul piano motivazionale. Il datore di lavoro, a differenza di quanto accade in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo o giusta causa, ove devono essere dettagliate sin dall’inizio le ragioni disciplinari o aziendali che motivano il recesso, non deve nemmeno specificare dettagliatamente i diversi periodi morbosi che, cumulati, hanno dato luogo al superamento del periodo di comporto, essendo sufficiente l’indicazione del loro numero totale, salvo l’onere, in sede giudiziaria, di provare i fatti costitutivi del potere risolutivo esercitato10. Ciò è conseguenza del punto di equilibrio, normativamente tipizzato nell’art. 2110, comma 2 c.c., che, da un lato, pone a carico del datore il rischio dell’insorgenza di una malattia del dipendente tale da comportare la sospensione del rapporto, pur riconoscendo in capo al lavoratore il diritto alla conservazione dello stesso e, dall’altro lato, esime il datore, decorso detto periodo, dalla previa contestazione e dalla comunicazione delle diverse assenze.

4. Scadenza del periodo di comporto e fruizione delle ferie. Dinnanzi alla prospettata scadenza del periodo di comporto, il lavoratore il cui stato di salute fosse ancora precario e tale da non consentire la ripresa dell’attività lavorativa, ha a propria disposizione alcuni strumenti legali e contrattuali per scongiurare il superamento del comporto, prima fra tutti la fruizione delle ferie, maturate e non ancora godute, o di un periodo di aspettativa non retribuita, ove riconosciuta dalla contrattazione collettiva. In entrambi i casi, infatti, viene a determinarsi una parentesi che comporta una sospensione di tutte le obbligazioni sinallagmatiche, nonché del decorso del termine interno e, ove previsto, anche del termine esterno del periodo di comporto. Con la pronuncia in commento, la Cassazione, inserendosi nel solco del proprio consolidato orientamento, pur affermando la facoltà della lavoratrice di chiedere la fruizione di un periodo di ferie al termine del periodo di comporto, ha riaffermato l’insussistenza di un incondizionato diritto della dipendente di domandare ed ottenere la conversione del titolo giustificativo della propria assenza (da malattia a ferie) per sottrarsi all’esercizio del potere risolutivo datoriale.

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Cass. 4 luglio 2017, n. 16392; Cass., 24 febbraio 2016, n. 3645, quest’ultima con commento di Dulio, Licenziamento intimato dopo un determinato intervallo di tempo dal superamento del periodo: legittimo se rientra nei limiti di ragionevolezza, in D&G, 2016, 1, 15. 9 Cass. 2 luglio 2017, n. 16392; Cass. 23 maggio 2016, n. 10666, con commento di Leverone, Il tempo non conta nel licenziamento per superamento del periodo di comporto, in D&G, 2016, n. 25, 40; Cass. 31 luglio 2015, n. 16267; Cass. 25 novembre 2011, n. 24899. 10 Cass. 5 aprile 2017, n. 8834; Cass. 10 luglio 2012, n. 11549.

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Giurisprudenza

A tal proposito, infatti, in via generale e sulla base di una ricostruzione sistematica del diritto vivente sviluppatosi sul punto, se è pur vero che al dipendente è riconosciuta la citata facoltà per sospendere le reciproche obbligazioni contrattuali ed anche il decorso del periodo di comporto, è altrettanto vero che permane in capo al datore il diritto alla determinazione della collocazione e distribuzione delle ferie, come disposto dall’art. 2109 c.c. Dunque, il dipendente non ha alcun diritto incondizionato; non vi è alcun automatismo fra la richiesta di fruizione delle ferie e il loro effettivo godimento, in quanto manca in radice, nel nostro ordinamento giuridico, un principio generale di convertibilità del titolo giustificativo dell’assenza11. Specularmente, non vi è alcun obbligo in capo al datore di accogliere l’istanza del proprio dipendente, soprattutto ove il lavoratore abbia la possibilità di beneficiare di altri strumenti di regolamentazione di fonte legale o contrattuale (come per esempio l’aspettativa) che gli consentano egualmente di sospendere il decorso del periodo di comporto. Dunque, l’eventuale diniego, ove motivato, non potrà essere censurato nemmeno sotto il profilo di un’asserita violazione del principio di buona fede e correttezza, a condizione che le motivazioni aziendali siano genuine ed effettive. Lo scrivente ritiene infatti che, in mancanza di un obbligo di natura normativa, detto principio di carattere generale possa essere invocato e la sua inosservanza possa costituire fonte di responsabilità datoriale solo laddove il diniego opposto alla richiesta di fruizione delle ferie non risulti motivato da valide ragioni aziendali. In altri termini, il diniego potrà essere censurato solo laddove pretestuoso ed aprioristico. Certo è che, in ossequio al principio di cui all’art. 2109, comma 2 c.c., il datore, come ricordato nella sentenza qui in commento, dovrà attuare una ponderazione atta a bilanciare gli interessi contrapposti in gioco, dimostrando, in caso di diniego, di aver tenuto conto, nell’assumere la decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare la perdita del posto di lavoro, rispetto al quale le prerogative imprenditoriali, di matrice eminentemente aziendale, potrebbero soccombere. Inoltre, il diritto del lavoratore è non solo subordinato alla volontà datoriale, ma necessariamente assoggettato ad alcuni vincoli procedurali, dovendo il dipendente formulare una richiesta di fruizione delle ferie per iscritto e, soprattutto, tempestiva, prima della scadenza del periodo di comporto, a nulla rilevando le eventuali condizioni di confusione mentale dovute alla malattia a causa della quale il dipendente è assente dal lavoro12. Nella vicenda di cui è stata investita la Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, la lavoratrice non aveva formulato al proprio datore alcuna preventiva richiesta di fruizione delle ferie, in continuità con il periodo di malattia. Pertanto, il datore di lavoro non poteva dirsi nemmeno investito della necessaria valutazione di bilanciamento fra l’interesse della ricorrente alla conservazione del posto di lavoro e le esigenze aziendali. In difetto di adeguata e preventiva richiesta scritta, veniva radicalmente a mancare, anche astrattamente, l’autorizzazione datoriale alla fruizione delle ferie. In altri termini, nel caso

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Cass. 4 aprile 2018, n. 8372. Cass. 4 aprile 2018, n. 8372; Cass. 5 aprile 2017, n. 8834, con commento di Dulio, Vana la domanda di ferie se è ormai scaduto il periodo massimo di conservazione del posto, in D&G, 2017, n. 62, 11; Cass. 1° agosto 2014, n. 17538; Cass. 27 ottobre 2014, n. 22753.

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di specie, il diritto della ricorrente alla conversione del titolo giustificativo dell’assenza non solo doveva ritenersi non incondizionato, bensì, soprattutto, era da reputarsi insussistente, con la conseguenza che l’assenza dal posto di lavoro non poteva dirsi giustificata né dalla malattia, né dal godimento delle ferie. Corrette sono state quindi le argomentazioni spese dai giudici di merito e riconfermate poi dalla Corte di Cassazione per destituire di fondamento la prospettazione della lavoratrice, non vantando, quest’ultima, alcuna valida motivazione che potesse rendere giustificata la propria assenza dal lavoro e come tale non rilevante disciplinarmente né punibile con la sanzione espulsiva irrogata. Del resto, a prescindere dai profili inerenti alla pregressa assenza per malattia e all’esigenza della dipendente di sospendere il decorso del periodo di comporto, la pronuncia in commento si pone in linea con il consolidato insegnamento della Cassazione secondo il quale la fruizione delle ferie deve essere sempre preventivamente autorizzata. Motivo per cui, in mancanza di espressa autorizzazione, il comportamento della lavoratrice che non si presenti sul posto di lavoro può costituire un’assenza ingiustificata e, ove protratta per un certo numero di giorni, può integrare un’ipotesi di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento13, difettando in capo al lavoratore un diritto all’arbitraria auto assegnazione del periodo di ferie desiderato, ancorché, per ipotesi, comunicato alla parte datoriale. In sintesi, è legittimo il licenziamento della lavoratrice, assente dal lavoro per motivi di salute per un periodo superiore ai sessanta giorni, che si astenga dal presentarsi sul posto di lavoro al termine del periodo di malattia, decidendo autonomamente e senza alcuna autorizzazione datoriale di beneficiare di un periodo di ferie allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto. Silvia Ortis

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Ex multis Cass., 16 ottobre 2014, n. 21918.

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Giurisprudenza Tribunale

di

Bologna , decreto 23 aprile 2020; g.l. E. Cosentino – XX. c. XX

Lavoro (rapporto di) – Emergenza sanitaria – Assistenza a familiare disabile – Lavoro agile – Diritto – Sussistenza – Condizioni.

Accertata la compatibilità della modalità agile del lavoro con le caratteristiche della prestazione da svolgere, che si ricava dai mezzi usati (telefono e strumenti informatici) e dalla adibizione a tale modalità di alcuni dei colleghi della richiedente (familiare di persona disabile in condizione di gravità e ella stessa invalida), può essere ordinato al datore di lavoro inaudita altera parte di assegnarla allo Smart Working, dotandola degli strumenti necessari oppure concordando l’uso di quelli personali.

Omissis

ma con l’indicazione che sarebbe stata in cassa inte-

Risulta, da quanto la ricorrente assume e/o docu-

grazione per la settimana successiva

menta che: – è dipendente della società convenuta dal 11.1.2001 con impiegata di secondo livello ccnl commercio, addetta al settore fiscale –con mail del 25.03.2020 chiedeva “di poter usufruire della formula lavorativa in Smart Working in questo periodo di

Omissis – La figlia disabile è nelle condizioni di cui all’art. 3, comma 3, della legge 104/92; – l’azienda sta utilizzando la modalità Smart Working per taluni dipen-

emergenza Covid 19” allegando certificazione del suo

denti omissis dell’ufficio fiscale al quale è addetta la

stato di invalida in misura del 60% – l’azienda con mail

ricorrente.

di risposta in pari data, non rispondeva positivamente,

Tribunale

di

Omissis

Grosseto , ordinanza 23 aprile 2020; g.l. G. Grosso – N.C. c. E. S.p.a

Lavoro (rapporto di) – Emergenza sanitaria – Ferie non maturate – Potere datoriale di fruizione coattiva – Insussistenza – Invalido civile – Lavoro agile – Diritto – Sussistenza – Condizioni.

Accertata la sussistenza delle condizioni per ricorrere al lavoro agile, il datore di lavoro non può agire in maniera immotivatamente discriminatoria nei confronti di questo o quel lavoratore, dovendo il datore di lavoro tener conto anche delle condizioni di salute del lavoratore richiedente. L’utilizzo delle ferie è ipotesi subordinata e comunque limitata alle sole ferie maturate.


Giurisprudenza

Omissis

incomprensibili a fronte della già attuata misura in fa-

N.C. … lamentava che il datore di lavoro aveva

vore degli altri dipendenti del medesimo reparto del

illegittimamente rifiutato di adibirlo al lavoro cd. agile

ricorrente e dei, ragionevolmente, circoscritti interventi

nonostante tutti i colleghi del suo reparto lo fossero

necessari per mettere in condizioni il C. di lavorare da

già stati. Evidenziava che, nell’attuale periodo di cri-

remoto. Tutto ciò tenuto altresì conto che, già in data

si sanitaria connessa ai noti problemi della diffusione

17.3.2020, il ricorrente aveva rappresentato all’azienda

del Covid19, avrebbe avuto diritto ad essere preferito

di aver provveduto all’installazione di una rete wi-fi

nell’assegnazione alla modalità di lavoro agile in ragio-

mobile presso il proprio domicilio, chiedendo di poter

ne della previsione di cui all’art. 39, co. 2, D.l. 18/2020

ritirare il pc aziendale appositamente configurato (doc.

in quanto portatore di patologia da cui era derivato

6 ric.); richiesta reiterata in data 20.3.2020 (venerdì),

il riconoscimento di un’invalidità civile con riduzione

al termine del periodo di malattia ed in previsione del

della sua capacità lavorativa. L’azienda invece si era li-

ritiro per il successivo lunedì.

mitata a prospettargli il ricorso alle ferie “anticipate” da

È pertanto priva di pregio giustificatorio l’invocata

computarsi su un monte ferie non ancora maturato, in

contingenza secondo cui la resistente avrebbe prov-

alternativa alla sospensione non retribuita del rapporto

veduto a collocare in smart working solo i dipendenti

fino alla cessazione della lamentata incompatibilità (e,

che erano a lavoro nella settimana dal 9 al 13 marzo,

quindi, quantomeno fino al 30.4.2020, data della previ-

periodo in cui il C. si trovava in malattia, poiché E.

sta nuova visita medica).

ben avrebbe potuto adottare per tempo le misure orga-

Omissis

nizzative invocate dal ricorrente in previsione del suo

La resistente affida le motivazioni della presunta

rientro, laddove è pacifico che l’azienda ha adottato la

impossibilità di soddisfare la richiesta del C. di asse-

modalità di lavoro agile per i tutti i colleghi di reparto

gnazione al lavoro agile a vaghe, quanto poco plau-

del ricorrente. Né la resistente società ha indicato le

sibili, difficoltà di carattere organizzativo ed ai con-

ragioni per le quali - oltre quelle organizzative, non

seguenti costi che la predisposizione dei mezzi per

apprezzabili, appena accennate - non avrebbe potuto

il lavoro da remoto sul pc aziendale del ricorrente

fare a meno della presenza fisica in azienda del solo C.

avrebbe comportato; motivazioni, legate a costi e dif-

(e non anche degli altri colleghi di reparto che stanno

ficoltà, che, per un’importante società per azioni ope-

lavorando da casa) o non avrebbe potuto, in ipotesi,

rante nel settore della fornitura di energia elettrica e

prevedere criteri turnari tra il personale.

gas sul territorio nazionale, appaiono pretestuose ed

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Omissis


Anna Zilli

Il lavoro agile per Covid-19 come “accomodamento ragionevole” tra tutela della salute, diritto al lavoro e libertà di organizzazione dell’impresa* Sommario : 1. Il lavoro agile nella crisi pandemica. – 2. Lavorare smart tra scelta del datore e condizioni del prestatore: una misura di “accomodamento ragionevole”. – 3. L’onere della prova. – 4. Quale eredità dall’emergenza Covid?

Sinossi. Il commento, dopo aver inquadrato il lavoro agile espresso nella normativa precedente e poi relativa alla pandemia Sars Covid-19, individua nel lavoro da remoto una forma di accomodamento ragionevole tra esigenze diverse, con alcune riflessioni sulla portata, in prospettiva, degli effetti della emergenza in corso. Abstract. The essay, describing remote work before and in the Sars Covid-19 related-legislation, identifies remote work as an arrangement of reasonable accommodation among different needs, with some reflections on the extent, in perspective, of the effects of the emergency in progress.

1. Il lavoro agile nella crisi pandemica. Se non fosse in atto la pandemia ex Sars Covid-191, il lavoro agile (o, all’ital-inglese, smart working2) sarebbe probabilmente rimasto un fenomeno lavorativo ancora marginale nel nostro Paese. Nel 2016 gli smart workers nel settore privato erano (solo) 250.000 (il 7 per cento delle forze di lavoro), collocati per lo più nelle grandi multinazionali (che per 30 per cento avevano realizzato progetti di lavoro agile). Per le PMI si era trattato di esperienze assai

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2

La presente pubblicazione è stata realizzata nell’ambito del progetto PRID 2018 “(Dis)organizzazione del lavoro e danno alla persona, anche in una prospettiva di genere”. Il 30 gennaio 2020, in seguito alla segnalazione da parte della Cina (31 dicembre 2019) di un cluster di casi di polmonite ad eziologia ignota nella città di Wuhan, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale l’epidemia di coronavirus in Cina. Il giorno successivo il Governo italiano ha proclamato lo stato di emergenza. Si opta per l’utilizzo delle espressioni “lavoro agile” e “smart working” come sinonimi, nella consapevolezza delle annotazioni critiche di M. Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, in WP D’Antona, It. n. 335/2017, relativamente alla traduzione (traslazione) del termine, su cui si v. in particolare la nota n. 42.

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Giurisprudenza

limitate, che avevano coinvolto soltanto il 5 per cento delle imprese. Neppure nelle amministrazioni pubbliche, per le quali sin dalla l. delega n. 124/2015 si era prevista una «sperimentazione, anche al fine di tutelare le cure parentali, di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa» che coinvolgesse «almeno il 10 per cento dei dipendenti, ove lo richiedano», il lavoro da remoto era decollato. Anche a seguito dell’introduzione di una regolamentazione con la l. n. 81/2017, l’incremento era rimasto timido, tanto che, alla vigilia del lockdown del 10 marzo scorso, erano appena 600.000 i lavoratori che avevano sperimentato qualche forma di lavoro a distanza3. Benché ci si aspettasse una immensa crescita, stimando che un quarto delle attività lavorative potessero essere prestate in modalità agili, al di fuori dei tempi e luoghi tradizionali di lavoro4, le resistenze al cambiamento si erano, invece, rivelate notevoli. Da un lato, il lavoro agile scontava i pregiudizi sul telelavoro, che non aveva mai sfondato, né nel settore pubblico né in quello privato. Per le pp.aa., ove era rigidissimo e iper-normato (art. 4, l. n. 191/1998 e d.P.R. n. 70/19995), il telelavoro era stato definito come prestazione di lavoro eseguita da un lavoratore subordinato «in qualsiasi luogo ritenuto idoneo, collocato al di fuori della sede di lavoro, dove la prestazione sia tecnicamente possibile, con il prevalente supporto di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che consentano il collegamento con l’amministrazione cui la prestazione stessa inerisce»6, al fine di razionalizzare l’organizzazione del lavoro e di realizzare economie di gestione, attraverso l’impiego flessibile delle risorse umane. In tale ottica, l’Accordo quadro del 23 marzo 20007 prefigurava per tutti i comparti di contrattazione un telelavoro “argonautico”8, da declinarsi secondo diverse ipotesi, quali «lavoro a domicilio, lavoro mobile, decentrato in centri-satellite, servizi in rete o altre forme flessibili anche miste, ive comprese quelle in alternanza, comunque in luogo idoneo, dove sia tecnicamente possibile la prestazione “a distanza”, diverso dalla sede dell’ufficio al quale il dipendente è assegnato» (art. 5, comma 1). La traduzione in pratica dell’istituto, affidata alla contrattazione collettiva, finì però per trascurare il telelavoro quale prassi organizzativa innovativa per le pubbliche amministrazioni, venendo a creare il solo telelavoro domestico o reso in una sede decentrata presso un altro ente pubblico, affinché

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8

Secondo gli ultimi dati Eurostat, relativi al 2019, l’Italia si collocava in coda fra i Paesi dell’Unione europea per l’impiego del lavoro telematico da casa. Sono i dati e le proiezioni elaborati dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, in http://www.osservatori.net/it_it/ osservatori/osservatori/smart-working. Gaeta, Pascucci, Poti (a cura di), Il telelavoro nelle pubbliche amministrazioni, Il Sole 24 Ore, 1999. Gottardi, Telelavoro, in DDP comm., 2003, 911 ss. Poti, Cordella, Contrattazione collettiva e Corte dei conti: la certificazione non positiva dell’ipotesi di accordo quadro nazionale sul telelavoro, in LPA, 1999, 1318 ss. L’espressione è di Gaeta, La nozione, in Gaeta, Pascucci (a cura di), op. cit., 36, dove profeticamente descrive il lavoro «argonautico: con un computer portatile e un telefono cellulare esso può effettuarsi anche su una panchina del parco»; adesivamente Casillo, La subordinazione “agile”, in DLM, 2017, 529 ss., spec. 535; suggestivo il «caleidoscopio di modalità» di Sartori, Il lavoro agile nella pubblica amministrazione, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, Cedam, 2018, 471 ss., spec. 475.

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Anna Zilli

fosse possibile il controllo (non sulla prestazione resa ma) rispetto alla mera presenza del lavoratore al terminale. Sicché, mentre il telelavoro avrebbe potuto essere, sin dagli albori, non solo una fonte di risparmi, ma anche (e soprattutto) uno strumento per migliorare il livello qualitativo dei servizi resi ai cittadini dalla pubblica amministrazione, aggredendo anche la piaga dell’assenteismo9 e valorizzando il merito, esso si scontrò con la mancanza di una cultura della responsabilità e del risultato rispetto a quella del tempo di lavoro, nonché con l’avanzata età media dei dipendenti pubblici, ampiamente superiore ai cinquant’anni d’età10. Nel settore privato, l’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2004 aveva definito il telelavoro come «una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa» (art. 1). Ma “al di fuori dei locali dell’impresa” tele-lavorava, in modo fisso, solo il 3,6% dei lavoratori dipendenti del settore privato (tecnicamente, lavoratori a domicilio) e, alternando “casa” e “bottega”, un misero 1,2%11. Questo scarsissimo appeal poteva, in parte, essere ricondotto alle insufficienti dotazioni tecnologiche aziendali e dei lavoratori, incomplete e con notevoli differenze sul territorio (nel 2019, in Italia, il 76,1% delle famiglie disponeva di un accesso a Internet, di queste il 74,7% di una connessione a banda larga; nelle aree metropolitane il 78,1%, nei comuni fino a 2mila abitanti tale quota scendeva al 68,0% e al Sud in media il 60%12). Ma la dottrina ha spesso suggerito come il lavoro a distanza possa diffondersi solo in contesti organizzativi di fiducia tra i lavoratori e la dirigenza, orientati più al risultato che alla continuità della prestazione13, evidentemente carenti nel panorama nazionale. Proprio sul punto, d’altro canto, la disciplina introdotta nel 2017 non aveva agevolato un cambiamento di mentalità e di costumi. Nella l. 22 maggio 2017, n. 81, c.d. “Statuto dei lavori”, recante «Misure (…) volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato»14 ed entrata

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Problema vecchio quasi come il mondo, per il quale si v. Roda, Un caso di assenteismo nei quadri della burocrazia imperiale alla fine del IV secolo d.C., in Index, 1987, 15, 367. Con riferimento alle questioni della p.a. italiana, il tema appare fondamentale sin dagli anni Settanta, come può vedersi in Moneti, Questo assenteismo, in Il ponte, 1973, 11, 1623 e, per una prospettiva di auspicato superamento, Piu, Pubblica amministrazione: oltre l’assenteismo, ivi, 1982, 4, 333. Sul tema sia consentito il rinvio a Zilli, Alla ricerca della efficienza delle pp.aa., tra concretezza, milleproroghe e bilancio, in LG, 2020, 226 e ss. 10 V. www.contoannuale.mef.gov.it/ext/Documents/DISTRIBUZIONE%20PER%20ETA’.pdf 11 Eurostat, How usual is it to work from home?, 2019, serie statistica, in https://ec.europa.eu/eurostat/web/products-eurostat-news/-/ DDN-20200424-1 12 Rapporto Istat 2019, Cittadini e ICT, in https://www.istat.it/it/files//2019/12/Cittadini-e-ICT-2019.pdf. 13 Eurofound and the International Labour Office, Working anytime, anywhere: The effects on the world of work, Publications Office of the European Union, Luxembourg, and the International Labour Office, 2017; Eurofound, New forms of employment, Publications Office of the European Union, 2015. 14 D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera del lavoro: autonomo – agile – occasionale, Adapt University Press, 2018, 345 ss.; Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, Cedam, 2018, 461 ss.; Perulli, Fiorillo (a cura di), Il Jobs Act del lavoro autonomo e del lavoro agile, Giappichelli, 2018, 165 ss.; Spinelli, Tecnologie digitali e lavoro agile, Cacucci, 2018; Signorini, Il diritto del lavoro nell’economia digitale, Giappichelli, 2018; Occhino, Il lavoro e i suoi luoghi, Vita e pensiero, 2018, 125 ss.; G. Ricci, La nuova disciplina del ‘lavoro agile’, in NLCC, 2018, n. 3; Dagnino, Menegotto, Pelusi, Tiraboschi, Guida pratica al lavoro agile dopo la legge n. 81/2107, ADAPT University Press, 2017.

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Giurisprudenza

in vigore il successivo 14 giugno 2017, il capo II regola, il lavoro agile, individuato come «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato» che può essere «stabilita mediante accordo tra le parti» (art.18 e ss.). Rispetto all’impostazione del d.d.l. n. 2229/2016, si è dunque scelto di confinare il lavoro in modalità agile all’area della subordinazione15, nell’ambito della «destandardizzazione» della disciplina16. Attraverso il patto (scritto) tra datore e lavoratore17 si realizza la trasformazione del lavoro in modalità smart (art. 18, comma 1, l. n. 81/201718), prevedendosi la possibilità di risolvere l’accordo senza obbligo di giustificazione, salvo il preavviso (art. 19, comma 2, l. n. 81/2017). È dunque la volontà delle parti a dosare l’agilità «in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva»19, anche nell’ottica del riparto di oneri in tema di salute e sicurezza (art. 22, l. n. 81/2017). Gli accordi disciplinano anche l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali e individua le condotte, connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari (art. 21, l. n. 81/2017), riportando l’attenzione sul controllo piuttosto che sulla promozione di un nuovo (e auspicabilmente migliore) modo di lavorare. Poscia, più che ‘l dolor poté ‘l digiuno. La crisi pandemica, con la forza e l’accelerazione che solo i disastri sanno imprimere alla realtà (anche normativa), si è dimostrata, etimologicamente, la svolta o il cambiamento che, con un improvviso balzo, ha catapultato il mondo del lavoro (dipendente e autonomo) nel più grande esperimento mai condotto di attività da casa20, che ha (s)travolto anche il nostro Paese, interessando da 6 a 8 milioni di lavoratori21. Sin dal d.l. 23 febbraio 2020, n. 6 (convertito in l. n. 13/2020) recante «Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19», si è previsto che le attività lavorative «che possono essere svolte in modalità domiciliare» seguano le previsioni del d.p.c.m. 23 febbraio 2020, con applicazione della disciplina del lavoro agile «in via automatica» e «provvisoria … anche in assenza degli accordi individuali …ad ogni

15

Perulli, Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile: come cambiano i concetti di subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, in WP D’Antona, It. n. 341/2017. 16 Santoro Passarelli, Lavoro eterorganizzato, coordinato, agile e il telelavoro: un puzzle non facile da comporre in un’impresa in via di trasformazione, in WP D’Antona, It. n. 327/2017. 17 Malzani, Il lavoro agile tra opportunità e rischi per il lavoratore, in DLM, 2018, 17 ss.; Franza, Lavoro agile: profili sistematici e disciplina del recesso, in DRI, 2018, 773 ss.; Donini, Nuova flessibilità spazio temporale e tecnologie: l’idea di lavoro agile, in Tullini (a cura di), Web e lavoro. Profili evolutivi e di tutela, Giappichelli, 2017, 87 ss. 18 Martone, Lo smart working nell’ordinamento italiano, in Aa.Vv., G. Santoro Passarelli, Giurista della contemporaneità. Liber amicorum, Giappichelli, Tomo II, 2018, 1026 ss.; Proia, L’accordo individuale e le modalità di esecuzione e di cessazione della prestazione di lavoro agile, in Perulli, Fiorillo (a cura di), op. cit., 179 ss. 19 Per il tentativo di ricavare dal rimando il perduto rinvio alla dimensione collettiva del lavoro agile: Recchia, Lavoro agile e autonomia collettiva, in Garofalo D. (a cura di), op. cit., 380 ss. 20 Banjo e altri, Coronavirus Forces World’s Largest Work-From-Home Experiment, in https://www.bloomberg.com/news/ articles/2020-02-02/coronavirus-forces-world-s-largest-work-from-home-experiment. 21 Si v. ancora https://www.osservatori.net/it_it/osservatori/smart-working.

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Anna Zilli

rapporto di lavoro subordinato» (art. 3), inizialmente nei soli Comuni siti nelle c.d. “zone rosse” di rischio, in via provvisoria per «quattordici giorni» (art. 5). Appena due giorni dopo, il d.p.c.m. 25 febbraio ha esteso la previsione ai «datori di lavoro aventi sede legale o operativa nelle Regioni Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria, e per i lavoratori ivi residenti o domiciliati che svolgano attività lavorativa fuori da tali territori, a ogni rapporto di lavoro subordinato … anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti» (artt. 2, 4, comma 1, lett. a). In capo a una settimana, il d.p.c.m. 1° marzo ha allargato il raggio d’azione del lavoro agile per Covid22 all’intero territorio nazionale per la durata dello stato di emergenza (ad oggi, sino al 31 luglio), come ribadito nei successivi d.p.c.m. del del 4 marzo (art. 1, comma 1, lett. n), 8 marzo (art. 2, comma 1, lett. r), 11 marzo 2020 (art. 1, comma 7, lett. a e 10), 22 marzo 2020 (art. 1, comma 1, lett. a, c), 25 marzo (art. 1, lett. ff), 10 aprile (art. 1, lett. gg e ii), infine 26 aprile (art. 1, lett. gg e ii). Si è quindi raccomandato «il massimo utilizzo (…) di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza» sia nel settore privato che nella p.a.23, prima lentissima nell’avviare il lavoro da casa (Direttive n. 1 del 25 febbraio, n. 2 del 12 marzo e n. 3 del 4 maggio) come «modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa» (art. 87, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 c.d. “Cura Italia”, convertito, con modd., nella l. 24 aprile 2020, n. 27) 24 e ora restia a riprendere l’attività in presenza25. Il d.p.c.m. 26 aprile ha rafforzato per le attività sospese la possibilità di «proseguire se organizzate in modalità a distanza o lavoro agile» (art. 2, comma 2); la preferenza per la modalità di lavoro agile («può essere applicata (…) a ogni rapporto di lavoro subordinato») nel rispetto dei principi della l. n. 81/2017 (art. 1 comma 1, lett. gg) ; raccomandando «in ordine alle attività professionali … che sia attuato il massimo utilizzo di modalità di lavoro agile » (art. 1 comma 1, lett. aa). Da ultimo, il d. l. 19 maggio 2020, n. 34, recante «Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19», si occupa ancora di lavoro agile, riconfermando per lavoro pubblico privato le previsioni “semplificate” del lavoro agile del d.l. n. 18/2020 (conv. in l. n. 27/2020) fino alla fine dell’emergenza (31 luglio) e anche oltre nelle pp.aa. (31 dicembre).

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Brollo, Smart o emergency work? Il lavoro agile al tempo della pandemia, in LG, 2020, 6. Ampissimo sul teleworking per la p.a. L. Zoppoli, Dopo la digi-demia: quale smart working per le pubbliche amministrazioni italiane?, in WP D’Antona, It. n. 421/2020; Cataudella M.C., Lo smart working “emergenziale” nelle Pubbliche Amministrazioni, in Pileggi (a cura di), Il diritto del lavoro dell’emergenza epidemiologica, LPO, e-book, 2020, 35 ss. 24 http://www.funzionepubblica.gov.it/lavoro-agile-e-covid-19/monitoraggio-lavoro-agile. 25 Rimangono molti dubbi circa l’effettivo impatto del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, sia in termini quantitativi che qualitativi, in manca di una puntuale rilevazione, iniziata a giugno 2020, come segnalato in www.funzionepubblica.gov.it/articolo/ ministro/08-06-2020/smart-working-al-la-consultazione-su-partecipa, e di cui si attende la conclusione il 7 luglio 2020 (http://www. funzionepubblica.gov.it/articolo/ministro/27-05-2020/smart-working-nella-pa-al-il-monitoraggio). Per una condivisibile critica si v. Ichino, Sette domande alla ministra Dadone sullo smart work pubblico, in https://www.pietroichino.it/?p=56057. 23

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Giurisprudenza

2. Lavorare smart tra scelta del datore e condizioni del

prestatore: una misura di “accomodamento ragionevole”.

I provvedimenti “gemelli” (entrambi del 23 aprile 2020) in commento riguardano l’ambito del lavoro privato e offrono un perfetto quadro di sintesi delle diverse visioni ed esigenze in gioco. In entrambi i casi, i lavoratori chiedono di poter lavorare in modalità agile domestica come alternativa 1) alla messa in cassa integrazione, da parte di una lavoratrice disabile con figlia convivente anch’ella destinataria dei benefici ex l. n. 104/1992 (Trib. Bologna); 2) alla fruizione di ferie non ancora maturate, da parte di un lavoratore con grave patologia, destinatario della priorità ex 2 dell’art. 39, d.l. n. 18/2020 (Trib. Grosseto). Sebbene le pronunce siano riferite a casi-limite (e cioè di lavoratori invalidi civili con diminuzione della capacità lavorativa, per i quali sussistono specifiche protezioni, in generale, e nella normativa Covid, in particolare) non v’è dubbio che queste decisioni possano fungere da casi-guida nell’affrontare problematiche anche di carattere più ampio. Nel caso felsineo, il giudice condanna il datore di lavoro, inaudita altera parte, ad un fare assai complesso: impone cioè di assegnare la lavoratrice ricorrente allo «Smart Working» (così, in inglese, nel decreto in commento), nonché di dotarla degli strumenti necessari oppure concordare con la stessa l’uso di quelli personali per adempire all’obbligazione di lavoro. Il contesto (soggettivo come sopra descritto, ma anche oggettivo, in cui alcuni dipendenti dell’ufficio a cui la lavoratrice è addetta sono impegnati in modalità agile) è il giusto terreno in cui collocare questa pioniera pronuncia che, nel contemperamento tra le ragioni dell’impresa ex art. 41 Cost., e la tutela della salute e del lavoro (artt. 32 e 35 Cost.) propende per la protezione della lavoratrice, anche quando si tratta di imporre al datore di lavoro non di allestire e mantenere un ambiente di lavoro salubre e sicuro, ma di organizzare la propria attività, nei limiti del possibile, in modo che la prestazione possa essere resa. Se nella decisione bolognese il confronto tra la situazione della ricorrente (che si trovava a casa malata al momento della chiusura aziendale e che, a detta del datore, per questo motivo non avrebbe potuto essere adibita alla modalità agile della prestazione, una volta “rientrata” al lavoro) e quella dei colleghi è dirimente quanto alla prova della possibilità della trasformazione (su cui v. oltre), nella pronuncia del tribunale di Grosseto il percorso si interseca espressamente con la repressione di condotte discriminatorie. Infatti, una volta che il giudice abbia accertata la sussistenza delle condizioni per ricorrere al lavoro agile, il datore di lavoro non può agire in maniera immotivatamente discriminatoria nei confronti di questo o quel lavoratore, dovendo il datore di lavoro tener conto anche delle condizioni di salute del lavoratore richiedente. L’assegnazione coatta delle ferie (che, si specifica, in ogni caso sono solo quelle maturate) diviene extrema ratio, confinata all’ipotesi in cui non sia possibile riorganizzare l’attività e ricevere la prestazione da remoto. Quel che il legislatore suggerisce è che sussiste primariamente il diritto a lavorare, conservando reddito, capacità professionale e dignità personale, ogni qual volta ciò sia possibile (anche, in questo caso, da casa). Si tratta, a parere di chi scrive, di una forma estesa

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di “accomodamento ragionevole” che, dalla tutela dei disabili26, si muove verso un diverso bilanciamento degli interessi in gioco. Sin dal 2003 il legislatore europeo ha individuato quali “soluzioni ragionevoli” «i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione» (art. 5, Dir. 78/2003) e le «misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento» (Considerando 20), previsioni queste recepite tardivamente e non senza richiami dal nostro legislatore nazionale (art. 9, comma 4-ter, d.l. n. 76/2013, conv. con mod. in l. n. 99/2013). Le soluzioni da adottare possono comportare la rimozione di barriere fisiche o organizzative e vanno individuate in relazione alla concreta situazione della persona con disabilità e del contesto lavorativo in cui è inserita. Nel contesto “normale” pre-Coronavirus, questa valutazione si sarebbe svolta (con grande fatica) solo per il personale con disabilità e a rischio di perdere il posto di lavoro. Invece, nella situazione Covid, il legislatore ha chiesto ai datori di lavoro di rimuovere, nei limiti del possibile, le barriere che impediscono alle persone di lavorare agilmente, sia che si tratti di scogli tecnologici, sia di impedimenti organizzativi. Imprenditori e dirigenti sono stati obbligati a compiere per tutti i lavoratori e tutti i processi produttivi una riflessione complessiva sulla fattibilità, in concreto, della mutazione smart. Si tratta, a ben guardare, di un pendolo che oscilla tra le ragioni dell’impresa e le esigenze del lavoratore. Nella forma “pura”, il lavoro agile è una scelta, un accordo tra le parti in ordine a tempo, luogo e modo della prestazione (art. 18, l. n. 81/2017), in cui addirittura il legislatore non si preoccupa di indagare se il consenso del lavoratore sia genuino. Nella prima legislazione dell’emergenza Covid, lo smart working è una «ulteriore misura per contrastare e contenere l’imprevedibile emergenza epidemiologica». (art. 1, comma 1, numeri da 6 a 10, d.p.c.m. 11 marzo 2020). Sicché il lavoro agile può essere applicato «anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti» (art. 2, lettera r), d.p.c.m. 8 marzo 2020). Per le pp.aa. diviene la «via ordinaria … per tutte le attività indifferibili da rendere in presenza», mentre per le attività produttive e professionali si impone ai datori di lavoro privati «il massimo utilizzo» del lavoro agile per le attività che possono essere svolte a distanza e si spinge per la fruizione di ferie e congedi (tenuto conto anche della chiusura delle scuole di ogni ordine e grado)27. Il datore di lavoro del settore privato, la cui attività non sia sospesa, può scegliere tra la trasformazione agile, se possibile, ovvero l’attivazione di uno strumento di ammortizzatori sociali (cassa integrazione, FIS, …) una volta godute dal lavoratore le ferie già maturate (ma non i permessi, che non rientrano nella disponibilità padronale). Nel caso in cui il datore non abbia inteso innescare gli strumenti previsti, ovvero nel caso in cui l’attività non sia stata sospesa ex lege ma solo da datore in via unilaterale, la regola generale do-

26 27

Si v. per tutti D. Garofalo, La tutela del lavoratore disabile nel prisma degli accomodamenti ragionevoli, in ADL, 6, 2019, 21 ss. D.p.c.m. 4 marzo 2020.

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Giurisprudenza

vrebbe comportare la corresponsione della retribuzione, a meno che il datore di lavoro non provi, nel caso concreto, di aver sospeso l’attività per motivi di sicurezza (ad esempio, nell’ipotesi di un focolaio interno all’azienda): ipotesi questa che potrebbe determinare la sospensione delle retribuzioni (salva la possibilità di sostegno al reddito). Per converso, quando sia il lavoratore, per prudenza o per timore, a rifiutare di recarsi al lavoro, non avrebbe diritto alla retribuzione, rischiando anche di incorrere in conseguenze disciplinari, salva la prova di una incompatibilità tra l’esposizione generica al rischio di contagio e le sue peculiari condizioni di salute, debitamente certificata. Ma nella seconda fase della pandemia, quando le attività lavorative sono via via riprese, il pendolo si è spostato. Nella p.a. la distanza è diventata regola e la presenza eccezione. Nel settore privato, da un lato, si è introdotto apertis verbis l’accomodamento ragionevole e smart per i lavoratori disabili in condizione di gravità ai sensi dell’art. 3, comma 3, della l. 104 del 1992 o per coloro che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona disabile in condizione di gravità, introducendo il diritto alla trasformazione del lavoro in modalità agile (art. 39, comma 1, d.l. n. 18/2020), ove sia «compatibile con le caratteristiche della prestazione» e venga richiesto entro il 30 aprile 2020. Dall’altro, per tutti i lavoratori si è caldeggiato il «massimo utilizzo» del lavoro agile, secondo la formula per cui, se non è il datore a imporlo o offrirlo, ben può essere il prestatore a richiederlo. Qualora il datore di lavoro, pur sussistendone i presupposti, si rifiuti di assegnare al lavoratore le modalità di lavoro agile, il lavoratore, nella ipotesi di assenza nei locali aziendali di adeguate misure di tutela della salute oppure di impossibilità di raggiungimento della sede di lavoro con mezzi sicuri, potrà infine opporre ex art. 1460 c.c. il rifiuto a svolgere la propria attività. Nella situazione emergenziale l’eccezione di inadempimento può rappresentare un adeguato strumento di autotutela da parte del lavoratore, permettendogli la legittima sospensione della prestazione conservando il diritto alla retribuzione qualora il suo rifiuto di presentarsi sul luogo di lavoro sia giustificato dall’inottemperanza, anche parziale, del datore di lavoro agli obblighi di sicurezza ex art. 2087 c.c.

3. L’onere della prova. Se il lavoratore chiede, è il datore che deve spiegare perché la trasformazione agile non sia possibile. Entrambi i provvedimenti in commento risolvono la questione probatoria nell’ambito del giudizio antidiscriminatorio, ove l’attore ha soltanto l’onere di fornire elementi di fatto, anche di carattere statistico, idonei a far presumere l’esistenza di una discriminazione, ma non è affatto previsto che i dati statistici debbano assurgere ad autonoma fonte di prova; conseguentemente, qualora il dato statistico fornito dal ricorrente indichi una condizione di svantaggio per un gruppo di lavoratori, è onere del datore di

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Anna Zilli

lavoro dimostrare che le scelte sono state invece effettuate secondo criteri oggettivi e non discriminatori28. Nei casi in questione, i giudici hanno 1) dedotto la possibilità fattuale del lavoro agile dalla trasformazione smart che aveva interessato i colleghi dei ricorrenti, adibiti alle stesse attività; 2) ritenuto (espressamente o implicitamente) discriminatoria la condotta datoriale che concedeva ad altri, ma non anche ai ricorrenti, la possibilità di lavorare da casa. Quanto più la scelta è discrezionale, tanto più ampiamente il datore dovrà spiegare perché concede ad alcuni ciò che nega ad altri. Nell’ipotesi di compiti tecnologici o almeno informatizzati, o comunque in tutte le ipotesi in cui sussistono de facto le condizioni per lo svolgimento del lavoro a / da casa, graverà sul datore di lavoro l’onere di provare la circostanza che si tratta di mansioni lavorative incompatibili con lo svolgimento da remoto o comportanti accomodamenti irragionevoli (v. sopra). Si tratta di uno snodo importantissimo, di cui potrebbe farsi ampio ministero. Ad esempio, di fronte alla richiesta di flessibilità da parte del prestatore, il rifiuto del datore di lavoro potrebbe essere vagliato dal giudice, confrontato con l’atteggiamento tenuto nei confronti di altri lavoratori, sino a verificare se il diniego sia discriminatorio.

4. Quale eredità dall’emergenza Covid? L’emergenza ha messo e sta mettendo in luce le forti criticità del contesto-Paese, ma anche le notevoli capacità di attivazione, la spinta (non gentile) verso l’innovazione e dell’arte dell’ingegnarsi, intesa nel senso etimologico di inventare, disporre, operare. Il lavoro emergenziale da remoto lascerà dunque molti effetti. Il primo risultato, estremamente positivo, è la consapevolezza che “si può fare”. La trasformazione è stata un vero choc sistemico, soprattutto per quelle numerosissime imprese e lavoratori che mai, sino ad oggi, avevano provato o anche solo immaginato di lavorare anytime, anywhere. L’esperienza Covid ha dimostrato che il cambiamento è possibile, sia pure con le (limitate) strumentazioni in essere. La seconda osservazione è che si può fare “meglio”. Certamente (s)travolto dall’emergenza, il lavoro svolto a / da casa non è stato affatto agile: per molti si è trattato di una obbligata collocazione domestica con orari fissi e spesso molto dilatati (complice anche l’inesperienza di manager e lavoratori nel lavoro da remoto), oltretutto resa difficile, soprattutto per le donne, dalla contemporanea sospensione scolastica, con figli minori a casa impegnati nella difficile prova della didattica a distanza29. Dopo l’emergenza, il lavoro agile dovrà mutare di nuovo, auspicabilmente con passi avanti e non indietro. Il terzo punto di riflessione è che si può fare “per tutti”, utilizzando il lavoro finalmente e veramente agile per includere i soggetti sfavoriti dal e nel lavoro tradizionalmente reso. Il

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Ex multis, Cass., 2 gennaio 2020, n. 1. Brollo, Innovazioni nella didattica del diritto del lavoro, in ADL, 2020, 2.

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Giurisprudenza

lavoro (magari parzialmente) da remoto potrebbe infatti sostenere le persone con disabilità, i genitori (rectius, le madri) di figli piccoli, ma anche i lavoratori adulti e anziani, quale misura di invecchiamento attivo30. Si tratta di tutti coloro i quali chiedono un bilanciamento tra le proprie esigenze personali, anche mutevoli nella carriera, e nelle diverse fasi della vita lavorativa e che, rispetto ad un mercato del lavoro a misura di “wasp”, si collocano ai margini, se non proprio fuori da esso. La normativa e l’esperienza Covid-19 consegnano anche la consapevolezza che l’agilità della prestazione si può fare solo “con” tutti, cioè attraverso strumenti – auspicabilmente anche contrattual-collettivi – che siano in grado di contemperare i bisogni dei soggetti coinvolti in una prospettiva dinamica, di continuo cambiamento a fronte sia delle necessità organizzative di imprese e pp.aa., sia delle persone che lavorano, portatrici delle proprie istanze di dignità, salute e riconoscimento sociale in un mondo del lavoro che, senza rete di protezione, si trova spinto avanti di un’era in un batter d’ali. Anna Zilli

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Filì, L’invecchiamento da esclusione ad inclusione, in ADL, 2020, 2.

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