Labor 5/2018

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ABOR Il lavoro nel diritto

issn 2531-4688

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settembre-ottobre 2018

Rivista bimestrale

D iretta da Oronzo Mazzotta

www.rivistalabor.it

IN EVIDENZA Prestazioni di lavoro e imprese in contratto di rete Ilario Alvino

I nuovi confini della responsabilità solidale Ester Villa

Mobilità volontaria del lavoratore pubblico e dipendenti di prima nomina Roberto Maurelli

Giurisprudenza commentata Niccolò Rossi, Giulio Centamore, Matteo Borzaga, Elena Gramano

Pacini



Indici

Saggi Ilario Alvino, La condivisione delle prestazioni di lavoro tra imprese stipulanti il contratto di rete.... p. 517 Ester Villa, I nuovi confini della responsabilità solidale.................................................................» 539 Roberto Maurelli, Ipotesi di mobilità volontaria del lavoratore pubblico e criticità applicative per i dipendenti di prima nomina...................................................................................................» 553

Giurisprudenza commentata Niccolò Rossi, “Wilder Streik” ed effetti dell’azione collettiva nei rapporti tra l’imprenditore e i terzi...................................................................................................................................................» 565 Giulio Centamore, Osservazioni in tema di ripetibilità delle somme corrisposte a seguito di un ordine (non ottemperato) di reintegrazione....................................................................................» 577 Matteo Borzaga, Le conseguenze sanzionatorie in caso di illegittimità del licenziamento economico per mancato rispetto dell’obbligo di repêchage.............................................................» 591 Elena Gramano, Dalla eterodirezione alla eterorganizzazione e ritorno. Un commento alla sentenza Foodora.............................................................................................................................» 603


Indice analitico delle sentenze Diritto di sciopero – Sciopero selvaggio nel settore aereo – Cancellazione del volo – Responsabilità del vettore – Sussistenza (C. giust., 17 aprile 2018, C-195/17 et al., con nota di Rossi) Lavoro (rapporto di) – Collaborazioni etero-organizzate – Applicazione della disciplina della subordinazione – Sottoposizione al potere direttivo – Necessità (Trib. Torino, 11 aprile 2018, con nota di Gramano) – Lavoro dei ciclo-fattorini – Obbligo di effettuare la prestazione – Insussistenza – Potere direttivo – Esclusione – Subordinazione – Insussistenza (Trib. Torino, 11 aprile 2018, con nota di Gramano) Licenziamenti – Giustificato motivo oggetto – Obbligo di repêchage – Violazione – Manifesta insussistenza – Reintegrazione – Ammissibilità (Cass., 2 maggio 2018, n. 10435, con nota di Borzaga) – Reintegrazione – Ordine giudiziale – Datore di lavoro ottemperante – Datore di lavoro inottemperante – Disparità di trattamento – Insussistenza (C. cost., 23 aprile 2018, n. 86, con nota di Centamore) – Reintegrazione attenuata – Indennità risarcitoria – Natura risarcitoria – Illegittimità costituzionale – Infondatezza (C. cost., 23 aprile 2018, n. 86, con nota di Centamore) Indice cronologico delle sentenze Giorno

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Autorità 2018 Aprile Trib. Torino C. giust., C-195/17 et al. C. cost., n. 86 Maggio Cass., n. 10435

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Notizie sugli autori

Ilario Alvino – professore aggregato nell’università di Roma Tre Matteo Borzaga – professore associato nell’Università degli Studi di Trento Giulio Centamore – assegnista di ricerca nell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Elena Gramano – ricercatrice nella Goethe University di Francoforte Roberto Maurelli – dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Niccolò Rossi – dottorando di ricerca nell’Università Cattolica del Sacro Cuore Ester Villa – assegnista di ricerca nell’Università degli Studi di Trieste


Saggi



Ilario Alvino

La condivisione delle prestazioni di lavoro tra imprese stipulanti il contratto di rete Sommario : 1. La considerazione del fenomeno della rete di imprese nella legislazione italiana. – 2. Il distacco del lavoratore tra le imprese della rete. – 3. Codatorialità e assunzioni congiunte. – 4. Le regole applicabili al contratto di lavoro codatoriale. – 5. Collaborazione in rete e autonomia collettiva.

Sinossi. Il contributo analizza le regole deputate a disciplinare i rapporti di lavoro dei lavoratori impiegati da imprese che abbiano stipulato un contratto di rete. Dopo un approfondimento delle finalità che hanno stimolato la promulgazione di regole specifiche in materia, l’Autore esamina le problematiche interpretative e applicative poste dalle regole dettate in materia di distacco, codatorialità e assunzioni congiunte. Il saggio si conclude con una valutazione del ruolo che la contrattazione collettiva potrebbe svolgere per favorire la diffusione del contratto di rete e sopperire alla scarna e insufficiente regolazione legislativa. Abstract. The essay examines the rules regulating the employment relationships between workers and companies joined into a network contract. The Author analyses, first, the ratio of the legal regulation, and, then, the interpretative and applicative problems posed by the rules about labour sharing between the companies joined into a network contract. In the final part, the essay examines the role that collective relationships could play to promote the network contract. Parole

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chiave:

Contratto di rete – Distacco – Codatorialità – Contratto collettivo di prossimità.

Il testo riprende e sviluppa la relazione svolta dall’autore al Seminario Internazionale Impacto laboral de las redes empresariales che si è tenuto presso l’Università di Salamanca nei giorni 9 e 10 novembre 2017 ed i cui atti sono in corso di pubblicazione con il titolo Redes empresariales y derechos laborales a cura di Wilfredo Sanguineti Raymond e Juan Bautista Vivero Serrano.


Ilario Alvino

1. La considerazione del fenomeno della rete di imprese

nella legislazione italiana.

Ormai da quasi una decina d’anni, il legislatore italiano ha rivolto una specifica attenzione al fenomeno delle reti di imprese1, varando una nuova tipologia di contratto, il contratto di rete2, pensato con la finalità di offrire alle imprese, soprattutto quelle piccole e piccolissime3, uno strumento negoziale duttile, utilizzabile per costituire e disciplinare rapporti di collaborazione duraturi, salvaguardando la rispettiva autonomia – giuridica, economica ed organizzativa – dei soggetti stipulanti. Il legislatore ha successivamente varato alcune disposizioni finalizzate ad incentivare il ricorso a tale tipologia contrattuale4, vedendo nella collaborazione duratura tra imprese un fenomeno da stimolare, poiché suscettibile di produrre effetti positivi tanto per l’economia nazionale in generale, quanto per il miglioramento dell’occupazione, più nello specifico5. Tra gli interventi volti a favorirne la stipulazione assumono una grande importanza le disposizioni, varate nel 20136, destinate ad offrire alle imprese retiste strumenti per realizzare una gestione flessibile ed eventualmente “condivisa” della prestazione dei lavoratori impiegati nella rete.

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Per maggiori approfondimenti sulle caratteristiche del fenomeno reticolare e sulle relazioni fra lo stesso e il sistema di regole del diritto del lavoro, sia consentito il rinvio a Alvino, Il lavoro nelle reti di imprese: profili giuridici, Giuffrè, 2014. L’art. 3, d.l. 10 febbraio 2009, n. 5 (convertito in l. 9 aprile 2009, n. 33) definisce il contratto di rete come quel contratto con il quale “più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa”. Presso la dottrina italiana del diritto civile, l’opinione che ravvisa nel contratto di rete una nuova tipologia contrattuale non è pacifica. Alcuni autori sostengono infatti che il contratto di rete assumerebbe piuttosto i caratteri di una tipologia “trans-tipica”, alla quale troverebbero applicazione le regole delle diverse tipologie contrattuali alle quali sarebbero di volta in volta riconducibili gli accordi sottoscritti dalle parti. Per una ricostruzione del dibattito v. D’Auria, La causa ed il ruolo dell’autonomia contrattuale, in Cuffaro (a cura di), Contratto di rete di imprese, Giuffrè, 2016, 95. Indagini anche recenti hanno confermato che oltre il 90% delle imprese italiane impiegato alle loro dipendenze meno di nove lavoratori, anche se una percentuale importante dei lavoratori dipendenti in Italia è impiegato nella residua percentuale di imprese più grandi. I dati sul numero dei contratti di rete sono molto elevati e confermano che le imprese hanno accolto con favore il nuovo strumento contrattuale. In base ai dati aggiornati al 3 luglio 2018, risultano essere stati stipulati n. 4.776 contratti di rete che coinvolgono 29.803 imprese (dati consultabili su http://contrattidirete.registroimprese.it/reti/). Per una indagine di impronta sociologica sulla diffusione del contratto di rete in Italia e sulla tipologia di attività imprenditoriali interessate v. Negrelli, Pacetti (a cura di), I contratti di rete. Pratiche di capitale sociale tra le imprese italiane, Il Mulino, 2016. Da ultimo v. anche Maio, Sepe (a cura di), Profili giuridici ed economici della contrattazione di rete, Il Mulino, 2017 e Cabigiosu, Moretti (a cura di), Il contratto di rete: caratteristiche, genesi, ed efficacia dello strumento, Pearson, 2018. Il tema delle reti di imprese e la necessità di adottare un approccio nuovo nello studio di questo fenomeno nella prospettiva giuslavoristica rispetto all’impostazione propria degli studi sui fenomeni interpositori si è imposta negli ultimi anni, anche sulla scorta degli stimoli provenienti dalla legislazione e dalla dottrina italiane, nel dibattito tra gli studiosi del diritto del lavoro spagnolo. Sul tema v. in particolare Sanguineti Raymond, Redes empresariales y Derecho del Trabajo, Editorial Comares, 2016. Con il d.l. 28 giugno 2013, n. 76 (convertito in l. 9 agosto 2013, n. 99), il legislatore ha introdotto regole specifiche in materia di distacco, codatorialità e assunzione congiunta per le imprese che stipulino un contratto di rete, modificando gli artt. 30 (nel quale è stato inserito un nuovo comma 4-ter) e 31 (nel quali sono stati inseriti i nuovi commi da 3-ter a 3-quinquies).

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Prima di esaminare tali disposizioni, è però necessario porre in evidenza il particolare approccio che il legislatore italiano ha deciso di assumere con riferimento alla gestione dei rapporti di lavoro all’interno della organizzazione costituita tramite un contratto di rete. Il tema della interazione fra le forme di collaborazione inter-imprenditoriale e l’applicazione delle regole poste a tutela dei lavoratori subordinati ha, infatti, sempre rivestito un ruolo centrale nel diritto del lavoro italiano, ma nella disciplina riguardante i lavoratori impiegati nella realizzazione di un programma di rete esso viene trattato in maniera originale. In passato, l’attenzione a tale argomento è stata orientata principalmente dalla necessità di contrastare pratiche imprenditoriali finalizzate a consentire al datore di lavoro effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa di sottrarsi alle proprie responsabilità nei confronti del lavoratore. Da un primo punto di vista, invero, l’interprete è chiamato a valutare se la collaborazione posta in campo dalle imprese abbia inciso, alterandola, sull’imputazione formale del rapporto di lavoro. Qui il principio fondamentale al quale bisogna affidarsi è quello per cui il rapporto di lavoro deve essere imputato al soggetto che abbia concretamente utilizzato la prestazione lavorativa esercitando il potere direttivo sul lavoratore subordinato7. Da un secondo punto di vista, preso atto che le operazioni imprenditoriali destinate al decentramento produttivo sono fisiologiche all’interno della moderna economia, il legislatore ha introdotto alcune norme volte a riversare su soggetti estranei alla relazione di lavoro subordinato alcune delle responsabilità proprie del datore di lavoro formale. Si pensi, per far un esempio, alle regole in materia di responsabilità solidale per i crediti retributivi e contributivi del lavoratore posti in capo al committente nei confronti dei lavoratori impiegati dall’appaltatore8 o dal vettore9 per l’esecuzione dell’incarico, rispettivamente, oggetto dell’appalto o del trasporto10. L’origine e la funzione di tali regole è almeno duplice.

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Sui contenuti e la latitudine di questo principio, anche per i necessari riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, sia consentito rinviare a Alvino, L’appalto e i suoi confini, in Aimo, Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, Utet, 2014, 5. 8 Il riferimento è all’art. 29, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, che istituisce un regime di responsabilità solidale fra committente ed appaltatore in ordine al pagamento dei crediti retributivi e contributivi dei lavoratori impiegati dall’appaltatore nell’esecuzione dell’appalto. 9 L’art. 83-bis, commi 4-bis e ss., del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (convertito in l. 6 agosto 2008, n. 133), come da ultimo modificato dall’art. 1, comma 248, lettera b), l. 23 dicembre 2014, n. 190, prevede che, al fine di garantire l’affidamento del trasporto a vettori in regola con l’adempimento degli obblighi retributivi, previdenziali e assicurativi, il committente è tenuto a verificare preliminarmente alla stipulazione del contratto tale regolarità. 10 È importante qui ricordare che da ultimo la Corte costituzionale ha esteso l’ambito di applicazione della responsabilità solidale oltre i confini dell’appalto (Corte cost., 6 dicembre 2017, n. 254). Nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale sollevato con riferimento all’asserita disparità di trattamento che la limitazione dell’ambito di applicazione della responsabilità solidale prevista dall’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, a vantaggio dei soli lavoratori impiegati dall’appaltatore creerebbe nei confronti dei dipendenti del subfornitore, la Consulta ha rigettato la censura di incostituzionalità ammettendo l’applicabilità in via analogica della citata disposizione anche al contratto di subfornitura. La conclusione espressa nella sentenza appena ricordata ha però una portata più ampia poiché, dalla motivazione della stessa, sembra potersi evincere una potenziale applicazione in via analogica della regola censurata a tutti i rapporti commerciali che diano luogo ad una “utilizzazione indiretta del lavoro”. Per un’analisi critica di tale sentenza sia consentito rinviare a Alvino, Appalto, subfornitura, lavoro indiretto: la Corte costituzionale amplia l’ambito di applicazione della responsabilità solidale, in RIDL, 2018, II, 242. Una parte della dottrina, già prima della sentenza della Consulta, aveva argomentato la possibilità di applicare il regime della solidarietà previsto dall’art. 29, d.lgs. n. 276/2003, oltre i confini dell’appalto sulla base di argomenti diversi. V. in particolare: Villa, La responsabilità solidale come tecnica di tutela del lavoratore, BUP, 2017; Mollo, Articolo

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Da un lato, l’ordinamento prende atto del fatto che dalla prestazione del lavoratore trae un vantaggio anche un soggetto terzo rispetto alla relazione di lavoro e su di esso decide dunque di porre specifiche responsabilità nei confronti del lavoratore. D’altro lato, tramite tale tipologia di regole, l’ordinamento mira a stimolare un utilizzo virtuoso degli strumenti negoziali di collaborazione imprenditoriale, evitando che gli stessi siano scelti con il solo scopo di ridurre il costo del lavoro. Rispetto alla ratio appena ricordata, invece, con le regole dedicate alla disciplina dei rapporti di lavoro nell’ambito di una collaborazione realizzata attraverso la stipulazione del contratto di rete, il nostro legislatore manifesta un’impostazione per molti versi inedita. L’obiettivo primario delle norme citate in esordio non è, infatti, quello di assicurare una particolare tutela ai lavoratori impiegati nella rete (come in prima battuta potrebbe far immaginare l’introduzione della fattispecie della codatorialità), quanto piuttosto conferire alle imprese strumenti per la gestione del lavoro che siano maggiormente confacenti agli obiettivi della collaborazione reticolare. In altri termini, il legislatore mostra di identificare nel lavoro un fattore della cooperazione imprenditoriale realizzata tramite il contratto di rete e fornisce strumenti finalizzati a realizzare un più semplice ed efficace coordinamento della prestazione lavorativa alle esigenze dell’organizzazione reticolare. La prospettiva regolativa sposata dal legislatore trova la propria giustificazione nella particolare natura del fenomeno delle reti e nelle caratteristiche proprie dell’organizzazione strutturata in forma reticolare. Il fenomeno imprenditoriale al quale il legislatore destina il contratto di rete è, infatti, quello nel quale due o più imprese, economicamente e giuridicamente autonome, decidono di instaurare rapporti stabili di collaborazione in vista del perseguimento di obiettivi condivisi. Nell’ambito di tali forme di collaborazione, suscettibili di dar luogo a modalità di coordinamento fra le rispettive organizzazioni più o meno intense, la prestazione resa dal singolo lavoratore può costituire un fattore importante per realizzare tale coordinamento. Si pensi, per fare un esempio, all’ipotesi in cui il coordinamento fra le imprese renda necessaria la condivisione di un macchinario e sia necessario quindi che il lavoratore, in possesso di specifiche competenze, sia impiegato presso i vari imprenditori per assicurare la concreta utilizzazione da parte di questi ultimi dello stesso macchinario. O ancora si pensi all’ipotesi in cui la rete sia creata per sviluppare una nuova tecnologia e sia necessario condividere la prestazione resa da lavoratori in possesso delle cognizioni scientifiche e tecniche necessarie a tale sviluppo. O, infine, si consideri l’eventualità di imprese di piccole dimensioni che vogliano attuare una collaborazione per esportare i propri prodotti in un mercato straniero, ma ciascuna non abbia le disponibilità economiche per assumere, da

29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 e contratto di trasporto: una deroga discutibile, in ADL, 2015, 113. Per una ricostruzione dei diversi orientamenti sul problema dell’ambito di applicazione della solidarietà in materia di appalto v. da ultimo: Izzi, Appalti e responsabilità solidale, in Aimo, Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, Utet, 2014, 51; Lamberti, Il contratto di appalto, in Aa. Vv., Vicende ed estinzione del rapporto di lavoro, Giuffrè, 2018, 133.

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sola, un lavoratore da impiegare nel coordinamento dell’attività delle varie imprese e nella direzione delle strategie ed attività necessarie a penetrare il nuovo mercato. Nelle ipotesi evocate, la creazione di relazioni di tipo reticolare può allora costituire una fonte di vantaggi anche dal punto di vista dei lavoratori che siano impiegati presso le imprese della rete. Diverse sono le ragioni che inducono a questa conclusione. La creazione di un’organizzazione di tipo reticolare può, in primo luogo, comportare un incremento delle attività produttive della singola impresa coinvolta. Attraverso la stipulazione del contratto di rete, le imprese possono accedere a mercati che altrimenti non sarebbero in grado di aggredire autonomamente oppure possono migliorare il proprio sviluppo tecnologico eseguendo investimenti altrimenti non possibili, ecc. Da questo primo punto di vista, la cooperazione imprenditoriale che si instaura tramite la creazione della rete costituisce uno strumento per l’incremento dell’occupazione, favorito dall’accrescimento delle opportunità produttive che essa concretizza per le imprese che ne fanno parte. In secondo luogo, la rete può essere letta come un “mercato interno del lavoro”11, nel quale il lavoratore può trovare occasione di formazione o di ricollocazione in caso di perdita del posto di lavoro, eventualmente dovuta ad una crisi economica nella quale possa venirsi a trovare il datore di lavoro. L’impiego degli strumenti sopra citati, tramite i quali è consentito alle imprese legate dal contratto di rete di condividere a determinate condizioni la prestazione del lavoratore, non si realizza dunque a danno dei lavoratori, i quali possono invece trarre occasioni di crescita professionale e di vantaggio occupazionale dalla possibilità di “circolare” fra le imprese della rete. Gli strumenti destinati a favorire l’impiego dell’istituto del distacco nella rete o a consentire l’assunzione congiunta o l’impiego in regime di codatorialità dei lavoratori trovano, dunque, la loro ragione principale nell’offrire alle imprese strumenti per una gestione flessibile delle prestazioni lavorative funzionali alla realizzazione del programma di rete, nella consapevolezza che l’instaurazione di forme di collaborazione reticolare è suscettibile di produrre effetti positivi anche sul piano occupazionale e del miglioramento delle condizioni di lavoro.

2. Il distacco del lavoratore tra le imprese della rete. L’obiettivo di favorire un più agevole coordinamento dell’attività lavorativa alle esigenze dell’organizzazione reticolare viene perseguito dal legislatore italiano in primo luogo,

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Cfr. in questo senso anche Treu, Trasformazioni delle imprese: reti di imprese e regolazione del lavoro, in Merc. Conc. Reg., 2012, 1, 20.

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come anticipato, attraverso una semplificazione delle regole che disciplinano l’impiego di un istituto collaudato del diritto del lavoro qual è il distacco. Al riguardo, il nuovo art. 30, comma 4-ter, d.lgs. n. 276/2003 stabilisce che “qualora il distacco di personale avvenga tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa che abbia validità ai sensi del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 aprile 2009, n. 33, l’interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete, fatte salve le norme in materia di mobilità dei lavoratori previste dall’articolo 2103 c.c.”. Con la norma riportata, l’ordinamento solleva dunque le imprese, distaccante e distaccataria, dall’onere di fornire la prova di uno dei due elementi, previsti dal primo comma dell’art. 30 d.lgs. n. 276/2003, dai quali dipende la legittimità dell’ordine di distacco: 1) la sussistenza di un interesse del distaccante e 2) la temporaneità del distacco medesimo. Com’è noto, unitamente alla somministrazione di lavoro, il distacco costituisce l’unico strumento espressamente previsto dall’ordinamento italiano come idoneo a rendere possibile una scissione, almeno parziale, tra titolarità formale del rapporto di lavoro ed esercizio del potere direttivo. Avvalendosi di tale istituto, il datore di lavoro ha, infatti, facoltà di ordinare al lavoratore di rendere la propria prestazione lavorativa presso un altro imprenditore, purché, al fine di contrastare l’abuso di tale strumento, siano rispettate le due condizioni appena menzionate. Con riferimento al primo di tali requisiti, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il distacco è tale in quanto non alteri la causa del contratto di lavoro, cosicché l’ordine impartito al lavoratore di andare a svolgere una determinata attività presso il distaccatario è legittimo in quanto possa essere qualificato come un atto organizzativo del distaccante, poiché volto a soddisfare l’interesse dello stesso al coordinamento della prestazione del lavoratore per il perseguimento dei propri obiettivi produttivi12. Affinché il distacco sia legittimo è, però, necessario che lo stesso abbia carattere temporaneo, nel senso di dover essere soddisfatto entro un lasso temporale determinato o determinabile13. L’interesse del distaccante può anche non essere necessariamente economico, purché il distacco sia realmente ed inequivocabilmente diretto ad assicurare il raggiungimento delle legittime finalità del distaccante, senza prestarsi a vanificare la tutela dei lavoratori inserendoli in via definitiva nell’organizzazione utilizzatrice con lo scopo di evitare l’assunzione diretta da parte di quest’ultima14.

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Cfr., in tal senso, tra le tante: Cass., 7 giugno 2000, n. 7743, in NGL, 2000, 769; Cass., 18 agosto 2004, n. 16165, in Banche dati FI; Cass., 17 giugno 2004, n. 11363, in Banche dati FI; Cass., 17 febbraio 2004, n. 3097, in Banche dati FI; Cass., 3 agosto 2001, n. 10771, in AC, 2002, 50. Per una ricostruzione degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia v. da ultimo: Ciucciovino, Comando e distacco, in Aa. Vv., Vicende ed estinzione del rapporto di lavoro, Giuffrè, 2018, 115; Esposito, La Cassazione disegna i confini (mobili) dell’impresa: nuove e vecchie frontiere della dissociazione datoriale, in DLRI, 2016, 749. 13 La giurisprudenza e la dottrina hanno sempre attribuito rilevanza preponderante al requisito dell’interesse del distaccante rispetto all’ulteriore elemento della temporaneità, declinando quest’ultimo come un attributo del primo (cfr.: Cass., 25 novembre 2010, n. 23933, in DML, 2010, 557; Cass., 13 giugno 1995, n. 6657, in NGL, 1995, 675). 14 Cfr. Cass., 17 gennaio 2001 n. 594, in RIDL, 2002, II, 407, con nota di M.T. Carinci. Secondo il Ministero del Lavoro il distacco può essere legittimato da qualsiasi interesse produttivo del distaccante che non coincida con quello alla mera somministrazione di lavoro

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Il distacco è quindi legittimo se costituisce un atto organizzativo dell’impresa che lo dispone, tale da realizzare una mera temporanea modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa15. Calando la disposizione relativa all’impiego del distacco all’interno di una rete di imprese, si può osservare che la stessa non elimina il requisito della destinazione del distacco alla soddisfazione di un interesse del distaccante. Essa piuttosto sancisce una presunzione assoluta circa la sua sussistenza, sollevando il distaccante dall’onere di fornirne la prova ed impedendo alla controparte di un eventuale giudizio o agli ispettori del lavoro di fornire la prova contraria: ossia la prova che la realizzazione del programma della rete non rientri nella nozione di interesse del distaccante richiesto dall’art. 30, d.lgs. n. 276/2003, quale condizione di legittimità del distacco16. Ciò non può però significare che il lavoratore possa essere liberamente impiegato alle dipendenze di tutte le imprese stipulanti il contratto di rete, poiché ai fini della legittimità del distacco rimane necessario che il lavoratore svolga la propria attività in mansioni funzionali alla realizzazione del programma della rete. Laddove tale coerenza non vi sia e il lavoratore venga impiegato in attività che nulla hanno a che fare con la realizzazione del programma di rete, il distacco dovrà essere considerato irregolare, non potendo trovare applicazione, in questa ipotesi, la presunzione assoluta prevista dalla disposizione in parola. Il comma 4-ter dell’art. 30, d.lgs. n. 276/2003, lascia poi inalterati gli altri requisiti prescritti dagli altri commi di tale disposizione ai fini della regolarità del distacco17. Cosicché, posto che l’interesse del distaccante coincide, per espressa previsione legislativa, con l’interesse della rete così come evincibile dal programma di rete, il datore di lavoro sarà comunque tenuto a provare il carattere temporaneo del distacco. Temporaneità che può coincidere, a mio parere, con la durata del contratto di rete stesso, proprio perché il contrasto all’abuso dello strumento è garantito dall’ancoraggio della durata del distacco alla realizzazione del programma della rete18. Inoltre, sarà necessario il consenso del lavoratore nel caso in cui il distacco richieda l’adibizione del lavoratore a mansioni differenti, purché ovviamente siano almeno riconducibili allo stesso livello di inquadramento, come anche confermato dal richiamo contenuto nel comma 4-ter dell’art. 30, d.lgs. n. 276/2003, in verità pleonastico, al rispetto dei limiti posti dall’art. 2103 c.c.

altrui e che si protragga per tutto il periodo di durata del distacco: Circ. 15 gennaio 2004, n. 3. Così espressamente Cass., 23 aprile 2009, n. 9694, in LG, 2010, 42, con nota di Lattanzio. 16 In questo senso si è espressa anche la Suprema Corte, tramite obiter dicta, in due recenti pronunce: Cass., 22 gennaio 2015, n. 1168; Cass., 21 aprile 2016, n. 8068, in RIDL, 2016, II, 757. 17 In tal senso è anche l’opinione di Perulli, Contratto di rete, distacco, codatorialità, assunzioni in agricoltura, in Fiorillo, Perulli (a cura di), La riforma del mercato del lavoro, Giappichelli, 2014, 483. 18 In senso contrario v. però le osservazioni di Nogler, Mono e multi-datorialità tra debito e garanzie patrimoniali dei crediti di lavoro, in corso di pubblicazione in ADL, 2018. V. sul punto anche le osservazioni di Scarpelli, Il distacco nei gruppi di imprese, tra interesse della distaccante e interesse del gruppo, in DRI, 2017, 193, qui 200 ss. 15

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3. Codatorialità e assunzioni congiunte. L’elemento di maggiore novità della disciplina dedicata alla gestione dei rapporti di lavoro in una rete di imprese è però costituito dall’introduzione della disposizione che ammette “la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete” (parte finale del comma 4-ter dell’art. 30, d.lgs. n. 276/2003). Tale norma deve essere letta insieme con quanto stabilito dal comma 3-ter dell’art. 31 d.lgs. n. 276/2003, il quale prescrive che “l’assunzione congiunta di cui al precedente comma 3-bis può essere effettuata anche da imprese legate da un contratto di rete, quando almeno il 40% di esse sono imprese agricole”. Il testo delle disposizioni richiamate è piuttosto scarno e pone non pochi problemi interpretativi. Si tratta, in ogni caso, di disposizioni la cui portata è sicuramente dirompente, poiché per la prima volta troviamo in un testo normativo, sia l’utilizzo del termine “codatorialità”, sia il riferimento alla possibilità di una “assunzione congiunta” dello stesso lavoratore da parte di più di un datore di lavoro. Al riguardo è utile, infatti, sottolineare che il termine codatorialità aveva trovato in precedenza alcuni riscontri solo in una parte della giurisprudenza, la quale, anche sulla scorta di alcuni orientamenti dottrinali anche risalenti, ha affermato che, a determinate condizioni, sarebbe possibile ammettere la contestuale imputazione del rapporto di lavoro a più datori di lavoro (di qui l’impiego del termine codatorialità). Secondo questo orientamento, il principio della unicità del datore di lavoro19, sul quale si regge il diritto del lavoro italiano, troverebbe un’eccezione nelle ipotesi in cui le varie imprese coinvolte abbiano dato luogo ad un’impresa unitaria. In particolare, la giurisprudenza ricordata ha affermato tale principio con riferimento al fenomeno dei gruppi di impresa rilevando che sarebbe giuridicamente ammissibile imputare il rapporto del lavoratore impiegato nell’impresa unitaria contestualmente a tutte le società facenti parte del gruppo che, in questa prospettiva, diverrebbero tutte formalmente datrici di lavoro del prestatore impiegato nell’impresa unitaria. Ciò sarebbe possibile nell’ipotesi in cui tra le imprese facenti parte del gruppo sia stata costituita un’organizzazione produttiva unitaria connotata delle seguenti caratteristiche: a) l’unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il relativo interesse comune; c) il coordinamento tecnico e amministrativo – finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore di vari imprenditori20.

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Principio affermato esplicitamente da Cass., Sez.Un., 26 ottobre 2006, n. 22910, in ADL, 2007, 1011, con nota di M.T. Carinci. Per una critica alla configurabilità nel nostro ordinamento di una simile regola v. Nogler, Mono e multi-datorialità tra debito e garanzie patrimoniali dei crediti di lavoro, cit. 20 Per una ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali sul punto v. Razzolini, Lavoro e decentramento produttivo nei gruppi

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La Cassazione ha così affermato che in una simile ipotesi è giuridicamente concepibile “un’impresa unitaria che alimenta varie attività formalmente affidate a soggetti diversi, il che non comporta sempre la necessità di superare lo schermo della persona giuridica, né di negare la pluralità di quei soggetti, ben potendo esistere un rapporto di lavoro che veda nella posizione del lavoratore un’unica persona e nella posizione del datore di lavoro più persone”21. Il filone giurisprudenziale citato sembra dunque ammettere la contestuale imputazione del medesimo rapporto ad una pluralità di datori di lavoro (costituiti dalle società facenti parte del gruppo) in ragione del contestuale esercizio del potere direttivo e dell’inserimento della prestazione lavorativa nella impresa di gruppo. L’orientamento sommariamente ricostruito è comunque rimasto minoritario, atteso che la giurisprudenza prevalente correttamente conclude che nel caso in cui il gruppo dia luogo ad un’impresa unitaria in presenza dei requisiti sopra ricordati, deve essere superato il principio dell’autonomia giuridica dei soggetti che ne fanno parte e il lavoratore ha diritto alla imputazione del rapporto alla capogruppo22. In altre parole, nel caso in cui il gruppo si venga a configurare come un centro unico di imputazione dei rapporti di lavoro in ragione della sussistenza delle condizioni sopra ricordate, si è in presenza di una simulazione o di una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra ai vari soggetti del collegamento economico-funzionale. Al di là del merito della questione della ammissibilità della contestuale imputazione del rapporto di lavoro alle società facenti parte di un gruppo che realizzi un’impresa unitaria, dal confronto con il fenomeno delle reti di imprese emergono due importanti indicazioni utili anche per l’interpretazione delle norme in materia di rete di imprese qui in esame. La prima è data dalla necessità di muovere dalla diversità del fenomeno dei gruppi rispetto a quello delle reti alle quali il legislatore ha destinato le norme promulgate nel 2013. Mentre il primo si caratterizza per il fatto di realizzare una organizzazione sostanzialmente unitaria governata dalla capogruppo, il secondo si configura in presenza di imprese distinte ed autonome sul piano giuridico ed economico tra le quali si instaurano rapporti di collaborazione duratura che il contratto di rete è destinato a regolare. La seconda indicazione da considerare riguarda il fatto che le disposizioni che ammettono la codatorialità tra le imprese stipulanti il contratto di rete sono destinate a fornire alle medesime imprese uno strumento di gestione più flessibile della prestazione di lavoro. La codatorialità si qualifica, dunque, come uno strumento del quale le imprese possono volontariamente avvalersi per perseguire in maniera più efficace gli obiettivi del programma della rete, laddove nella giurisprudenza citata in materia di gruppi la codatorialità assume invece una valenza sanzionatoria, volta a riversare le responsabilità datoriali anche su soggetti diversi dal titolare formale del contratto di lavoro.

d’imprese, in Aimo, Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, Utet, 2014, 678. Cass., 24 marzo 2003, n. 4274, in LG, 2003, 1033. 22 In questo senso è l’orientamento giurisprudenziale maggioritario: v. Cass., 10 gennaio 2012, n. 88, in NGL, 2012, 149. 21

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Poste tali premesse, la prima questione che deve essere affrontata è se le norme dedicate al contratto di rete intendono conferire alle imprese stipulanti la possibilità di assumere un lavoratore nell’ambito di un contratto di lavoro subordinato con pluralità di datori di lavoro oppure se le stesse vadano interpretate in modo diverso. Inoltre, è necessario capire se i termini “codatorialità” ed “assunzione congiunta” vadano intesi come sinonimi oppure vadano interpretati come riferiti a concetti diversi. Al riguardo una parte della dottrina sostiene che il termine “codatorialità” non debba essere interpretato come destinato a codificare una specifica tipologia di contratto di lavoro caratterizzata dalla pluralità dei datori di lavoro23. Piuttosto con il termine “codatorialità” la nuova norma introdurrebbe un’ipotesi ulteriore rispetto a quelle già previste dall’ordinamento della somministrazione e del distacco, nella quale è data la possibilità a più imprenditori di condividere l’esercizio del potere direttivo senza che ciò dia luogo ad un’ipotesi di somministrazione irregolare. Analogamente, altri hanno ritenuto che la codatorialità andrebbe ricostruita come un’ipotesi peculiare di distacco nella quale la veste di distaccatario verrebbe contestualmente assunta da più imprese24. Nonostante il fugace richiamo al concetto della codatorialità e alla possibilità dell’assunzione congiunta, la funzione che le nuove norme mirano a realizzare e la loro formulazione induce però a ritenere che con le stesse il legislatore non si sia limitato ad ammettere una nuova ipotesi di legittima interposizione nelle prestazioni di lavoro o una fattispecie speciale di distacco, ma che piuttosto abbia inteso far riferimento alla facoltà, così conferita alle parti di un contratto di rete, di stipulare un contratto di lavoro subordinato nel quale la posizione di datore di lavoro sia congiuntamente rivestita da più imprese della rete. In questa prospettiva, si può anche affermare che il legislatore abbia inteso utilizzare i termini “codatorialità” e “assunzione congiunta” come riferiti entrambi all’ipotesi di un rapporto di lavoro nel quale la posizione di datore di lavoro sia assunta congiuntamente da più imprese della rete. A deporre in tal senso è innanzitutto la funzione che le citate nuove disposizioni sono destinate ad assolvere. Funzione che va identificata, come più sopra dimostrato, nell’obiettivo di incentivare l’impiego del contratto di rete fornendo alle imprese stipulanti uno

23

In questo senso si è espressa anche la Suprema Corte, tramite obiter dicta, in due recenti pronunce: Cass., 22 gennaio 2015, n. 1168; Cass., 21 aprile 2016, n. 8068, cit. 24 Numerose sono le voci che si sono espresse sul problema interpretativo indicato nel testo. V., tra gli altri: Maio, Contratto di rete e rapporto di lavoro: responsabilità disgiunta, derogabilità dello statuto protettivo e frode alla legge, in Maio, Sepe (a cura di), Profili giuridici ed economici della contrattazione di rete, Il Mulino, 2017, 63; M.T. Carinci, Processi di ricomposizione e di scomposizione dell’organizzazione: verso un datore di lavoro “à la carte”?, in DLRI, 2016, 733; Razzolini, Le reti Gucci ed Esaote: un’analisi di diritto del lavoro, in DLRI, 2016, 105; M.T. Carinci (a cura di), Dall’impresa a rete alle reti d’impresa, Giuffrè, 2015; Chieco, Integrazione orizzontale tra imprese: distacco, assunzione congiunta e codatorialità, in Aa.Vv., Studi in memoria di Mario Giovanni Garofalo, Cacucci, 2015, vol. I, 205; Sitzia, Il problema della codatorialità nel sistema del contratto di rete, in ADL, 2015, I, 585; Ciucciovino, Il rapporto di lavoro nel mercato: la frattura del rapporto binario lavoratore/datore di lavoro, in Corazza, Romei (a cura di), Diritto del lavoro in trasformazione, Il Mulino, 2014, 159; Perulli, Contratto di rete, distacco, codatorialità, assunzioni in agricoltura, cit.; Biasi, Dal divieto di interposizione alla codatorialità: le trasformazioni dell’impresa e le risposte dell’ordinamento, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Contratto di rete e diritto del lavoro, Cedam, 2014, 20; Greco, Distacco e codatorialità nelle reti di impresa, in ADL, 2014, I, 397.

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strumento idoneo a consentire una gestione del personale più efficace in vista della realizzazione del programma di rete. Programma di rete che, come già evidenziato, può spingere le imprese ad attuare forme di collaborazione che possono richiedere una integrazione più o meno intensa fra le rispettive organizzazioni. Non a caso, la disposizione, anche sul piano letterale, configura la fattispecie come un’eccezione alla regola generale della natura necessariamente bilaterale del contratto di lavoro25. La codatorialità è dunque prevista nel contratto di rete non come tecnica di tutela dei lavoratori impiegati per la realizzazione del programma di rete, quanto piuttosto come istituto specificamente destinato a rendere più efficace il coordinamento della prestazione lavorativa in funzione della realizzazione degli obiettivi della rete. Se si leggono le disposizioni in esame muovendo da tale prospettiva risulta chiaro che la “assunzione congiunta” e la “codatorialità” servono a conferire alle imprese stipulanti il contratto di rete la titolarità di tutti i poteri tipici del datore di lavoro. Le disposizioni non hanno infatti come obiettivo primario istituire un regime di responsabilità datoriali congiunte a vantaggio del lavoratore. La condivisione delle responsabilità nei confronti dei lavoratori sarà piuttosto un effetto del conferimento della qualità di datore di lavoro e dei relativi poteri alle imprese stipulanti il contratto di rete. Lo stesso termine “codatorialità”, collocato nell’ambito della disposizione dedicata al distacco, appare destinato ad identificare una fattispecie diversa dal distacco medesimo. L’art. 30 d.lgs. n. 276/2003, invero, dopo aver stabilito che l’interesse del distaccante “sorge automaticamente in forza dell’operare della rete”, afferma che è “inoltre” ammessa la codatorialità dei “dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso”. La “codatorialità” richiama, allora, una fattispecie diversa dal distacco che non può che essere quella nella quale la posizione di datore di lavoro di lavoro venga posta congiuntamente in capo a più imprese. D’altronde tale conclusione è confermata dallo stesso impiego del termine “codatore”. Sarebbe altrimenti stato effettivamente sufficiente valorizzare il solo distacco, espressamente aggiungendo la possibilità di condividere la posizione di distaccatario che, com’è noto, non può essere considerato un datore di lavoro in senso tecnico; veste quest’ultima che rimane in capo al distaccante. Una volta dimostrato che con il termine codatorialità il legislatore ha inteso conferire alle parti del contratto di rete la possibilità di attribuire contestualmente la qualifica di datore di lavoro a più imprese, bisogna chiedersi se “codatorialità” e “assunzione congiunta” siano, o meno, sinonimi.

25

Sulla possibilità di ammettere fattispecie di codatorialità solo nelle ipotesi in cui le stesse siano espressamente previste dal legislatore v. da ultimo Ciucciovino, Il rapporto di lavoro nel mercato: la frattura del rapporto binario lavoratore/datore di lavoro, cit., la quale correttamente rileva che in assenza di una espressa previsione normativa non è possibile ammettere una condivisione della posizione di datore di lavoro argomentando a partire dalla destinazione della prestazione medesima ad avvantaggiare anche un terzo estraneo alla relazione di lavoro. Per ulteriori approfondimenti sulla natura necessariamente binaria del rapporto di lavoro subordinato e sulla natura eccezionale della fattispecie della codatorialità, sia consentito ancora una volta il rinvio a Alvino, Il lavoro nelle reti di imprese: profili giuridici, cit., 129.

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La formulazione dei commi che contengono il riferimento alla “codatorialità” e alla “assunzione congiunta” fanno ritenere che le due fattispecie considerate siano solo in parte coincidenti. In tal senso depone innanzitutto la scelta del legislatore di riferire la fattispecie più chiara della assunzione congiunta solo all’ipotesi, prevista dall’art. 31, commi 3-bis e 3-ter, d.lgs. n. 276/2003, in cui la stessa sia operata da “imprese agricole, ivi comprese quelle costituite in forma cooperativa, appartenenti allo stesso gruppo di cui al comma 1, ovvero riconducibili allo stesso proprietario o a soggetti legati tra loro da un vincolo di parentela o di affinità entro il terzo grado”, ovvero all’ipotesi in cui sia “effettuata anche da imprese legate da un contratto di rete, quando almeno il 40 per cento di esse sono imprese agricole”. Il riferimento puntuale all’assunzione congiunta e la limitazione della possibilità di operare la stessa solo nei casi esattamente delimitati dalle norme riportate induce ad interpretare le stesse come norme “autorizzatorie” che, in deroga alla regola generale, consentono solo ai soggetti e nelle ipotesi previste di assumere congiuntamente il lavoratore26. In questa ipotesi tutte le imprese della rete assumono anche formalmente la veste di datore di lavoro del lavoratore che deve dunque considerarsi inserito nelle organizzazioni di tutte le parti del contratto di rete. Il termine “codatorialità” utilizzato nel comma 4-ter dell’art. 30, d.lgs. n. 276/2003, appare allora possedere una portata più ampia, all’interno della quale è possibile ricondurre due fattispecie diverse. La prima è quella della assunzione congiunta, così che anche per le imprese che non siano agricole è ammessa la possibilità della stipulazione di un contratto pluridatoriale. Non si vede d’altronde per quale motivo la libertà negoziale delle imprese della rete debba essere limitata al punto di escludere la possibilità di ricorrere ad uno strumento che realizza la condizione di maggior tutela possibile per i lavoratori che sono appunto così riconosciuti contestualmente dipendenti da tutte le imprese della rete. Il termine codatorialità sembra però ammettere anche la possibilità di realizzare una fattispecie, parzialmente diversa, qual è quella nella quale il lavoratore sia assunto dall’organo comune della rete o da una delle imprese della rete, ma estendendo la possibilità di esercitare i poteri datoriali da parte di tutte le imprese della rete. All’interno di questa diversa fattispecie, a differenza di quanto si verifica nel caso dell’assunzione congiunta, il rapporto (che di seguito per comodità chiameremo “rapporto di lavoro codatoriale”) rimane strutturalmente binario e quindi intercorrente fra il lavoratore e l’organo comune (o l’impresa della rete), ma i poteri e le responsabilità del datore di lavoro vengono poste in capo anche alle imprese parti del contratto di rete. All’interno del contratto di lavoro, il datore di lavoro assume, dunque, i caratteri di una parte complessa nella quale andranno incluse tutte le imprese della rete (o solo alcune, secondo quanto previsto dal contratto di rete), alle quali saranno conferiti i poteri e le responsabilità del datore di lavoro.

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Per i profili di gestione amministrativa del rapporto di lavoro legati all’ipotesi dell’assunzione congiunta v. il Decreto del Ministero del lavoro 27 marzo 2014.

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Così chiarito il significato del concetto di codatorialità e prima di passare ad approfondire i complessi problemi di disciplina del rapporto codatoriale, vale la pena di sottolineare che l’utilizzo di questo particolare strumento può consentire di risolvere molti dei problemi che altrimenti potrebbero derivare dall’impiego di altri strumenti utili al perseguimento del fine del coordinamento della prestazione lavorativa alla realizzazione degli obiettivi della rete. La scelta di assumere congiuntamente il lavoratore consente di scongiurare ab origine l’eventualità che si configurino fenomeni interpositori sia rispetto alla posizione del lavoratore assunto congiuntamente, sia nei confronti dei lavoratori che siano eventualmente diretti dal lavoratore condiviso. Da quest’ultimo punto di vista, infatti, se il lavoratore condiviso assume il potere di impartire direttive alle strutture dei diversi datori di lavoro, tali direttive potranno essere sempre considerate espressione del potere direttivo del titolare di quella struttura evitando che si possa realizzare una confusione delle rispettive organizzazioni. D’altro canto, il nuovo rapporto di lavoro codatoriale consente di valorizzare appieno le potenzialità della prestazione lavorativa sia come fattore di coordinamento della rete sia come risorsa che può essere utilizzata dalle imprese della rete per realizzare il relativo programma. Sotto il primo profilo, è interessante richiamare quanto previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro per i dirigenti di aziende del terziario della distribuzione e dei servizi27, il quale ha codificato la figura del dirigente temporaneo, definendola come figura di dirigente che può essere assunta per operare all’interno di reti di imprese. Pur trattandosi di una previsione limitata ad incentivare l’occupazione dei dirigenti attraverso specifici sgravi alla contribuzione della previdenza complementare, la disposizione è interessante poiché individua nel dirigente la figura che può assolvere al compito del coordinamento delle attività svolte in rete. Tale previsione fornisce la conferma che uno dei più efficienti fattori di coordinamento delle attività di competenza dei vari nodi della rete può essere proprio la prestazione lavorativa resa da un lavoratore investito dell’incarico di governare la collaborazione28. Sotto il secondo profilo, è possibile immaginare un’utilità dell’assunzione con contratto di lavoro codatoriale anche nel caso in cui essa interessi lavoratori impiegati nella rete con mansioni non dirigenziali. Gli strumenti dell’assunzione congiunta o del rapporto codatoriale potrebbero rivelarsi, infatti, di grande interesse laddove con essi la rete voglia avvantaggiarsi della prestazione di un lavoratore dotato di particolari competenze di cui le singole imprese non siano dotate e che siano invece funzionali alla realizzazione del

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Cfr. art. 11 dell’accordo di rinnovo, del CCNL per i dirigenti di aziende del terziario della distribuzione e dei servizi, siglato il 27 settembre 2011 fra la Confederazione Generale Italiana del Commercio, del turismo, dei servizi, delle professioni e delle P.M.I. – Confcommercio – Imprese per l’Italia e ManagerItalia 28 Indagini empiriche recenti sul fenomeno di rete hanno confermato un interesse delle imprese per questa figura, che viene normalmente conferita a lavoratori dotati di una specifica professionalità, tale da consentirgli di operare in condizione di elevata autonomia allo scopo di garantire una gestione imparziale alle imprese della rete: cfr. sul tema V. Cafaggi, Iamiceli, Politiche industriali e collaborazione tra imprese nel contesto toscano, Il Mulino, 2012.

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programma di rete. Si pensi, per fare un esempio, alle imprese della rete che vogliano instaurare un procedimento di certificazione della qualità dei rispettivi processi produttivi e vogliano dotarsi delle professionalità necessarie a tale attività. In questa prospettiva, peraltro, la condivisione del rapporto di lavoro potrebbe incentivare investimenti specifici nella formazione del lavoratore, ripartendo i relativi costi fra i datori di lavoro, con l’obiettivo di far acquisire al lavoratore le conoscenze utili alla collaborazione avviata con la creazione della rete. Rendere la condivisione della posizione di datore di lavoro il frutto di una decisione delle imprese stipulanti il contratto di rete appare dunque una scelta saggia, poiché idonea a valorizzare l’efficace inserimento della prestazione del lavoratore nel contesto della collaborazione reticolare, garantendo al contempo una gestione trasparente dei rapporti di lavoro tramite una chiara attribuzione delle responsabilità proprie del datore di lavoro. Chi scrive ha peraltro avuto modo di appurare di persona il reale interesse di alcune imprese italiane impegnate in alcuni contratti di rete in occasione di alcune interviste che è stato possibile somministrare grazie all’impegno di due primarie organizzazioni datoriali italiane29. Le imprese intervistate hanno manifestato un grande interesse per la possibilità di poter condividere lavoratori ai fini di una più efficace ed efficiente organizzazione delle attività funzionali alla realizzazione del programma comune di rete. La possibilità di poter ingaggiare un lavoratore in regime di codatorialità è vista dalle imprese anche come una possibilità di condivisione del costo del lavoro collegato all’impiego di una risorsa che può essere molto specializzata o comunque di alto profilo professionale. Ancora, la possibilità di poter impiegare congiuntamente il lavoratore è considerata uno strumento utile di coordinamento delle rispettive attività, per una migliore realizzazione del programma comune di rete. All’interesse manifestato dalle imprese per lo strumento non ha però fatto seguito, nella stragrande maggioranza dei casi, il ricorso allo strumento della codatorialità, principalmente a causa delle difficoltà interpretative poste dalle disposizioni sin qui esaminate; difficoltà che induce gli operatori ad evitare il ricorso alla codatorialità per non dover farsi carico dei rischi connessi, preferendo sopperire alle esigenze di mobilità del lavoratore, laddove si pongano, tramite il ricorso all’istituto del distacco.

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Le organizzazioni datoriali italiane alle quali si fa riferimento nel testo sono la Confindustria e RetImpresa. Colgo l’occasione per ringraziare l’avv. Massimo Marchetti (Confindustria) e il dott. Fulvio D’Alvia (Retimpresa) che si sono fatti promotori ed organizzatori degli incontri con le imprese durante i quali è stato possibile acquisire le informazioni riportate nel testo.

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4. Le regole applicabili al contratto di lavoro codatoriale. Come appena anticipato, uno dei maggiori ostacoli all’impiego del contratto di lavoro subordinato con pluralità di datori di lavoro può essere costituito dalla difficoltà di definire quale sia la disciplina da applicare a tale rapporto. Tale questione non è infatti di agevole soluzione se si tiene conto, com’è noto, che tutte le regole dedicate ai rapporti di lavoro subordinato nel nostro ordinamento sono costruite immaginando un rapporto binario fra un unico datore di lavoro ed un lavoratore. Problema che rimane di difficile soluzione anche nel caso in cui si ipotizzi l’assunzione del lavoratore da parte del solo organo comune o di un’impresa della rete. Lo sforzo che è necessario compiere è, dunque, quello di capire in che modo le regole del rapporto di lavoro subordinato debbano essere adeguate all’eventualità in cui il creditore della prestazione lavorativa non sia un unico soggetto, ma siano due o più. Problema che riguarda non solo l’esercizio dei poteri datoriali e la speculare delimitazione del contenuto delle obbligazioni gravanti sul lavoratore, ma anche i diritti del lavoratore e la ripartizione delle responsabilità datoriali fra i soggetti codatori. Prima di addentrarci brevemente nell’analisi di tali regole appare necessario chiedersi se il rapporto di lavoro codatoriale possa essere costituito solo con un lavoratore specificamente assunto dopo la stipulazione del contratto di rete, ovvero se possa essere impiegato in regime di codatorialità un lavoratore già dipendente di una delle imprese della rete. Laddove si opti per questa seconda soluzione ci si dovrà poi chiedere se sia necessario acquisire il consenso del lavoratore. La norma non fornisce indicazioni chiare per risolvere tale quesito, ma può essere di aiuto la scelta di impiegare il verbo “ingaggiare”, a prima vista improprio. Si può infatti ritenere che la scelta del verbo ingaggiare non sia casuale o frutto di una scarsa perizia tecnica del legislatore, ma piuttosto sia stata motivata proprio dalla volontà di ammettere che l’impiego in regime di codatorialità possa riguardare un lavoratore che sia già dipendente da una delle imprese della rete. In questa prospettiva, il corollario necessario è però che tale “ingaggio” possa verificarsi solo acquisendo il consenso del lavoratore in considerazione del fatto che in virtù di tale mutamento viene modificata la posizione di debito del lavoratore, in capo al quale sorge l’obbligazione di adempiere la prestazione lavorativa anche nei confronti di uno o più soggetti diversi dal datore di lavoro con il quale il contratto era stato inizialmente stipulato. Venendo all’esame delle regole del rapporto di lavoro, deve essere subito osservato che le norme dedicate alla codatorialità e all’assunzione congiunta fra le imprese stipulanti il contratto di rete contengono previsioni scarne e non uniformi. In particolare, come già anticipato, l’art. 30, d.lgs. n. 276/2003, rinvia per la definizione delle regole del rapporto di lavoro codatoriale alle previsioni contenute nel contratto di rete. Una regola diversa è invece dettata dall’art. 31 del medesimo decreto che, si ricorda, trova applicazione all’assunzione congiunta del lavoratore da parte di imprese legate da un contratto di rete, i cui partecipanti siano, per il 40% almeno, imprese agricole. La disposizione citata, diversamente da quanto stabilito dall’art. 30, non opera alcun rinvio al contratto di rete, ma sancisce esplicitamente la responsabilità solidale dei datori di lavoro

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per l’adempimento delle obbligazioni contrattuali, previdenziali e legali connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa (cfr. comma 3-quinquies). Dal confronto delle due norme sembra potersi desumere che la solidarietà costituisce un effetto inevitabile dell’assunzione congiunta operata ai sensi dell’art. 31 d.lgs. n. 276/2003, mentre può essere esclusa nell’ipotesi in cui la condivisione del lavoratore avvenga in forza dell’art. 30 d.lgs. n. 276/2003, laddove il contratto di rete in questa seconda ipotesi disciplini in maniera diversa e peculiare la ripartizione degli obblighi in capo ai datori di lavoro30. Le norme che hanno istituito la fattispecie del rapporto di lavoro codatoriale non forniscono dunque indicazioni chiare sulla disciplina del rapporto di lavoro, che deve dunque essere desunta ragionando innanzitutto sui principi generali. Per avviare tale riflessione si deve partire dalla constatazione che la nuova disposizione sembra conferire alla funzione organizzativa propria del contratto di lavoro un significato specifico, derivante dal fatto che l’organizzazione nella quale la prestazione lavorativa viene inserita non è quella riferibile ad uno specifico imprenditore, trattandosi piuttosto di una struttura che deriva dal coordinamento dell’attività di organizzazioni distinte e reciprocamente autonome e che è stata costituita per la realizzazione di un obiettivo specifico individuato all’interno del programma di rete. Tale constatazione deve indurre innanzitutto a riflettere se il collegamento che si instaura al momento dell’assunzione tra contratto di lavoro e programma di rete comporti una funzionalizzazione del primo alla realizzazione degli obiettivi produttivi indicati dal secondo. La soluzione di questo primo quesito appare necessaria per capire, ad esempio, se il lavoratore assunto congiuntamente possa essere impiegato solo in attività funzionali alla realizzazione del programma di rete, ovvero per definire in che modo le obbligazioni tipiche del rapporto di lavoro reagiscano al fatto che il lavoratore si impegna con la stipulazione del contratto a rendere la propria prestazione alle dipendenze di più datori di lavoro. Ebbene, non sembra possibile configurare una funzionalizzazione del rapporto di lavoro, e dunque dei diritti e degli obblighi assunti dalle parti con la sua costituzione, al perseguimento degli obiettivi individuati dal programma di rete. Questa possibilità appare preclusa dal fatto che il nostro ordinamento non consente di funzionalizzare l’assunzione a tempo indeterminato alla realizzazione di uno specifico obiettivo produttivo. Con la stipulazione del contratto di lavoro il lavoratore assume, infatti, l’obbligo di porre la propria prestazione a disposizione del datore di lavoro che la dirigerà conformemente alle proprie esigenze organizzative e produttive, che, però, non possono assumere alcuna

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Questa era l’interpretazione inizialmente formulata dal Ministero del lavoro con la circolare del 29 agosto 2013 n. 35, destinata a dettare indicazioni operative al personale ispettivo riguardo l’interpretazione da dare alle disposizioni introdotte con il d.l. n. 76/2013 (convertito in l. n. 99/2013), nella quale si legge che la solidarietà degli imprenditori della rete nei confronti dei lavoratori assunti congiuntamente non costituisce un effetto “automatico”. Una conclusione diversa è però stata successivamente espressa dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro nella circolare n. 7/2018, più sopra già ricordata, nella quale, sulla scorta di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 254/2017, si afferma che trova applicazione il principio generale della responsabilità solidale di cui all’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 tra tutti i datori di lavoro firmatari del contratto di rete. Sul tema v. infra.

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rilevanza nella definizione dei contenuti della posizione obbligatoria del lavoratore, il quale non diviene in alcun modo responsabile della effettiva realizzazione di quegli obiettivi. Una prova di tale conclusione è fornita dalla disciplina limitativa dei licenziamenti che autorizzano il datore di lavoro ad interrompere il rapporto di lavoro, non quando sia eventualmente realizzato lo scopo produttivo per il quale il lavoratore è stato assunto, ma soltanto nel caso in cui l’imprenditore sia in grado di dimostrare di non poter impiegare il lavoratore in una mansione diversa, o in mancanza inferiore, rispetto a quella per la quale era stato assunto e che sia stata soppressa. Tale fondamentale regola dimostra che con la stipulazione del contratto di lavoro il lavoratore entra a far parte della struttura organizzativa del datore di lavoro, essendo irrilevante nella disciplina del rapporto la finalità produttiva per la quale quella prestazione venga impiegata. Il contesto produttivo nel quale la prestazione è inserita assume, infatti, una rilevanza giuridica esterna alla prestazione lavorativa condizionando l’esercizio dei poteri datoriali in funzione della protezione di beni fondamentali della persona del lavoratore come la tutela dell’occupazione, della dignità o della professionalità del lavoratore. Essa però non consente di collegare la sussistenza del rapporto e i contenuti dello stesso agli obiettivi produttivi perseguiti dall’imprenditore. Il corollario di tali ragionamenti è che, nelle ipotesi in cui è consentita l’assunzione congiunta, il lavoratore sarà inserito nelle rispettive organizzazioni delle imprese della rete, cosicché la risoluzione del rapporto di lavoro potrà avvenire solo a seguito di un licenziamento congiunto, o di separati provvedimenti di licenziamento, che, nel caso in cui siano fondati su di una motivazione oggettiva, dovranno dar conto della non impiegabilità del lavoratore in mansioni equivalenti o inferiori presso le organizzazioni di ciascuno dei datori di lavoro. Nell’ipotesi in cui il lavoratore sia stato assunto dall’organo comune della rete (o da una delle sue imprese), sarà quest’ultimo a dover licenziare il lavoratore, mentre qualche perplessità desta la delimitazione dell’ambito entro il quale deve essere valutata la possibilità di collocare il lavoratore in mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento o, in mancanza, inferiori. Nell’assenza di una espressa previsione normativa, la soluzione da preferire appare quella di operare il repêchage su tutte le imprese della rete, atteso il vantaggio, almeno indiretto, che le stesse traggono dalla destinazione della prestazione lavorativa alla realizzazione del programma di rete al quale sono tutte interessate. La seconda questione che deve essere affrontata riguarda il contenuto dell’obbligo di obbedienza del lavoratore nel caso in cui sia destinatario di direttive tra di loro contrastanti provenienti dai diversi datori di lavoro. La disciplina non offre strumenti per rispondere a tale quesito. Poiché il lavoratore non assume la responsabilità della realizzazione del risultato produttivo dell’organizzazione nella quale è inserito, si può affermare che, essendo obbligato esclusivamente ad adempiere diligentemente e correttamente alla propria prestazione, questi sarà adempiente agli obblighi contrattuali laddove abbia eseguito una delle direttive impartite da uno dei suoi datori di lavoro, anche se in tale ipotesi abbia in concreto disatteso il contrastante comando proveniente da uno degli altri. La natura inderogabile delle disposizioni dettate dal nostro ordinamento a tutela del lavoratore subordinato non consente, in conclusione, di ammettere che il contratto di lavoro possa essere funzionalizzato alla realizzazione degli obiettivi produttivi della rete e,

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conseguentemente, limita molto gli ambiti entro i quali il contratto di rete, nell’ipotesi del rapporto di lavoro codatoriale, ha la possibilità di dettare regole relative alla disciplina del rapporto di lavoro. Questa, con i dovuti temperamenti resi necessari dal fatto che il datore di lavoro non è unico, rimarrà la disciplina generale propria dei rapporti di lavoro subordinato attesa la natura inderogabile della stessa. Tra le aree di intervento sembrerebbe esservi il regime delle responsabilità dei codatori nei confronti del lavoratore condiviso. Il confronto sopra svolto fra le previsioni contenute negli artt. 30 e 31 d.lgs. n. 276/2003 sembrerebbe infatti indicare che le imprese coinvolte in un rapporto codatoriale possano escludere la loro responsabilità solidale per i crediti del lavoratore, mentre ciò non sarebbe consentito nell’ipotesi dell’assunzione congiunta. Anche tale conclusione non sembra però condivisibile laddove si consideri l’eventualità, verosimile, che non sia possibile valutare caso per caso quale tra le imprese della rete sia quella che si avvantaggia direttamente della prestazione resa dal lavoratore. Piuttosto in ogni caso in cui la prestazione resa sia funzionale alla attuazione del programma di rete non potrà che concludersi che essa risponda all’interesse organizzativo per cui il contratto di lavoro è stato stipulato, fondando così una responsabilità diretta di ciascuna delle imprese della rete nei confronti del lavoratore che le stesse hanno scelto di condividere e della cui prestazione in ultima analisi si avvantaggiano31. Il rinvio al contratto di rete per la definizione della disciplina del rapporto di lavoro appare allora una previsione dai limitati effetti pratici, che al più potrà risultare utile per definire alcuni problemi gestionali complicati proprio dall’esistenza di una pluralità di datori di lavoro. Per esempio, la costituzione di un rapporto con pluralità di datori di lavori pone il problema della identificazione della regolazione collettiva applicabile al rapporto e rende difficile identificare l’inquadramento previdenziale che deve essere attribuito al lavoratore nell’ipotesi in cui i datori di lavoro applichino contratti collettivi diversi e svolgano attività produttive appartenenti a differenti settori merceologici. Mentre il primo problema può essere agevolmente risolto individuando il contratto collettivo applicabile proprio all’interno del contratto di rete (o eventualmente all’interno del contratto individuale di lavoro codatoriale), la soluzione del secondo problema si scontra con il fatto che il nostro ordi-

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Ad una soluzione analoga è recentemente pervenuto anche l’Ispettorato Nazionale del Lavoro nella circolare n. 7 del 29 marzo 2018, ma sulla base di argomenti diversi, scarsamente condivisibili. L’INL ha infatti affermato, peraltro in evidente contrasto con quanto espresso in una precedente circolare del Ministero del lavoro (n. 35/2013), che l’operatività del meccanismo della solidarietà tra le imprese della rete nei confronti dei lavoratori impiegati nella stessa deriverebbe dall’applicazione del principio generale della solidarietà affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 257/2017. In realtà, come già messo in evidenza, la Consulta nella sentenza citata non ha affatto affermato l’esistenza di un principio generale di solidarietà ma si è limitata ad ammettere l’applicazione in via analogica del secondo comma dell’art. 29 d.lgs. n. 276/2003 a tipologie contrattuali diverse nelle quali siano ravvisabili gli estremi della “utilizzazione indiretta di lavoro”. Nel caso del contratto di rete il ragionamento non può essere esportato innanzitutto poiché il tema della responsabilità solidale è oggetto di una specifica regolamentazione all’interno degli artt. 30 e 31 d.lgs. n. 276/2003, cosicché manca il presupposto necessario perché possa operare l’analogia: ossia la lacuna normativa. Anche nel caso in cui, come sostenuto nel testo, si debba concludere per l’operatività della responsabilità solidale tra le imprese della rete ciò deriva dal fatto che le singole imprese traggono tutte vantaggio diretto, e non già indiretto, dalla prestazione lavorativa, così da dover essere ritenute, proprio per questo, responsabili in via diretta nei confronti del lavoratore e non già in forza di un inesistente principio generale di responsabilità solidale.

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namento definisce l’ambito di applicazione di alcune norme in materia previdenziale in relazione all’attività svolta dal datore di lavoro, senza ovviamente considerare l’eventualità che i datori di lavoro siano più d’uno. Una possibile soluzione di quest’ultimo problema potrebbe essere quella di fare riferimento al settore di attività nella quale il lavoratore sia impiegato in maniera prevalente, in relazione alle mansioni che lo stesso debba assolvere o quella di considerare la sola attività del soggetto che assume direttamente il lavoratore. Legato a questo tema è l’ulteriore rilevantissima questione connessa all’applicazione della disciplina di tutela contro gli infortuni sul lavoro che, com’è noto, si fonda su una determinazione del premio assicurativo che è commisurato tenendo conto del rischio proprio della categoria merceologica di attività del datore di lavoro e del rischio specifico che l’impresa in questione può vantare anche tenendo conto della “storia infortunistica” dell’azienda. In questi casi, una soluzione al problema, nell’ipotesi ricorrente in cui le imprese della rete svolgano attività produttive appartenenti a settori diversi e che comunque abbiano una connotazione del rischio infortunistico diversa, appare essere quella di una determinazione da parte dell’INAIL di una sorta di “tariffa di rete” che sia costruita allo scopo di tenere conto delle peculiari condizioni di rischio nelle quali può venirsi a trovare un lavoratore che sia chiamato a svolgere la propria prestazione presso le diverse imprese facenti parte della rete. In conclusione, si può osservare come la portata fortemente innovativa delle norme poc’anzi esaminate avrebbe richiesto ben altro sforzo regolatorio da parte del legislatore. Di fronte ad uno strumento assolutamente inedito come quello di un contratto di lavoro nel quale la qualità e i poteri del datore di lavoro sono posti in capo a più soggetti contemporaneamente, sarebbe stato opportuno fornire una disciplina più analitica. Non può ritenersi, invero, sufficiente il mero rinvio alla regolamentazione che può essere dettata dal contratto di rete, in assenza di una precisazione dei limiti che le imprese sono tenute a rispettare nella regolazione del nuovo tipo di rapporto. In assenza di regole esplicite al riguardo, si deve infatti ritenere che il contratto di rete non possa dettare regole che si pongano in contrasto con la normativa inderogabile posta dal nostro ordinamento a tutela del lavoratore subordinato.

5. Collaborazione in rete e autonomia collettiva. A conclusione del discorso, non si può omettere di dedicare alcune riflessioni al ruolo che può svolgere l’autonomia collettiva nella regolamentazione dei rapporti di lavoro all’interno della rete. Una riflessione che merita di essere compiuta nonostante non vi sia notizia, al momento, della stipulazione di accordi collettivi fra imprese legate da un contratto di rete e le organizzazioni sindacali dei lavoratori dalle stesse impiegate. Se infatti il numero dei contratti di rete ad oggi stipulati risulta considerevole, in nessun caso l’accordo reticolare è stato accompagnato da un coinvolgimento delle organizzazioni sindacali. Fra le ragioni di tale mancanza rientra senza dubbio il fatto che le imprese coinvolte nei fenomeni reticolari qui in esame sono normalmente di dimensioni piccole o piccolissime e dunque sono normalmente prive al loro interno di una rappresentanza sindacale.

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Ciò non toglie che una riflessione, sia pure solo di prospettiva, merita di essere svolta per le importanti potenzialità che può avere una contrattazione collettiva al livello della rete32. La considerazione della rete di imprese come un mercato interno del lavoro induce ad individuare nel contratto collettivo di rete uno strumento utile a soddisfare sia l’interesse delle imprese retiste, sia dei lavoratori che siano impegnati nella realizzazione del programma della rete. Dal punto di vista dell’impresa, un contratto collettivo che identificasse nella rete il suo ambito di applicazione potrebbe intervenire su quei profili del rapporto di lavoro che potrebbero essere plasmati per soddisfare le esigenze di coordinamento dei vari nodi della rete. Il contratto collettivo potrebbe, per esempio, dettare una articolazione specifica delle mansioni dei lavoratori impiegati all’interno della organizzazione reticolare che può prevedere il coinvolgimento di attività produttive di natura diversa, colmando in questa prospettiva l’inadeguatezza delle catalogazioni previste dalla contemporanea contrattazione collettiva. Catalogazioni che, com’è noto, nella maggior parte dei casi sono il frutto di elaborazioni risalenti nel tempo e dunque in molti casi non adatte ad incasellare le attività in contesti produttivi moderni, come sicuramente possono essere ad esempio le reti create per lo sviluppo di nuove tecnologie. Ma anche dal punto di vista dei lavoratori, la condizione dell’impiego presso imprese legate da stabili rapporti di collaborazione reticolare consente di individuare un unitario interesse collettivo, analogo a quello che possiamo identificare pensando ai lavoratori impiegati alle dipendenze del medesimo datore di lavoro formale. I lavoratori impiegati nella rete saranno infatti tutti interessati a che, ad esempio, nella rete venga rispettato un livello minimo di trattamento economico e normativo oppure che si prevedano strumenti di salvaguardia del posto di lavoro che consentano una ricollocazione del lavoratore in altre imprese della rete in caso di crisi del datore di lavoro formale, ovvero anche meccanismi che prevedano la condivisione delle responsabilità datoriali fra più imprese della rete. Riconosciuta la sua potenziale utilità, è possibile immaginare due livelli ai quali può dispiegarsi la contrattazione collettiva: a) un livello interaziendale (ossia del contratto collettivo di livello aziendale, ma stipulato con la partecipazione delle imprese della rete e delle organizzazioni sindacali rappresentative degli interessi collettivi dei lavoratori impiegati nella rete); b) un livello territoriale (laddove la rete sia localizzata nell’ambito di una specifica area del territorio nazionale). La negoziazione collettiva a livello interaziendale si rivela maggiormente praticabile laddove le imprese della rete siano di dimensioni medie e presentino al loro interno una adeguata presenza sindacale. In questa eventualità, l’esperienza maturata con riferimento a reti produttive costruite con strumenti giuridici diversi dal contratto di rete dimostra che la contrattazione collettiva si sviluppa a livello interaziendale soprattutto nei contesti di reti

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In tal senso v. anche le riflessioni di Zilio Grandi, La contrattazione collettiva nella rete di imprese, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Contratto di rete e diritto del lavoro, Cedam, 2014, 163.

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verticali che si caratterizzino come reti di subfornitura in ragione della presenza di una impresa leader che esercita nei confronti delle imprese dipendenti un’azione di stimolo per la definizione di standard uniformi di trattamento e di regolazione dei rapporti di lavoro. Una contrattazione di tipo interaziendale potrebbe essere agevolata laddove all’interno della rete sia stato costituito un soggetto dotato dei poteri di rappresentanza delle impresenodo e di un’autonoma personalità giuridica. In questo caso, invero, l’organo comune potrà costituire il soggetto al quale le organizzazioni sindacali dei lavoratori potranno rivolgere le azioni volte al miglioramento dei trattamenti dei lavoratori impiegati nell’esecuzione del programma di rete33. Lo strumento del contratto collettivo interaziendale si rileva, però, come anticipato, difficilmente impiegabile nelle ipotesi in cui la rete sia costituita fra imprese piccole o piccolissime, per la tradizionale difficoltà del sindacato di penetrare efficacemente in tali realtà. Difficoltà derivanti sia dalla attuazione problematica di forme di aggregazione dei lavoratori intorno alla definizione di un interesse collettivo da tutelare, sia dalla scarsa attenzione che il nostro legislatore dedica alla piccola impresa nell’ambito della legislazione di sostegno all’attività sindacale, impostata sulla costruzione della rappresentanza nella singola unità produttiva e nella fissazione di una soglia occupazionale ad essa riferita. La frequente assenza di interlocutori sindacali nell’ambito delle imprese facenti parte della rete induce allora a considerare con particolare attenzione lo strumento del contratto collettivo stipulato a livello territoriale, soprattutto nelle ipotesi nelle quali la rete abbia un forte legame con il territorio. Il livello territoriale della contrattazione collettiva offre la possibilità di valicare alcuni ostacoli che, per le caratteristiche che contraddistinguono i sistemi di produzione in rete, rendono difficoltosa la strada della contrattazione collettiva interaziendale. Il contratto collettivo territoriale assume così la veste di una fonte potenzialmente deputata a disciplinare in senso ampio la posizione e la mobilità del lavoratore nella rete e nel territorio, qualificandosi come lo strumento, almeno sulla carta, dotato delle maggiori potenzialità per sviluppare quella particolare prospettiva, sin qui emersa, che guarda alla rete come ad un autonomo mercato del lavoro. Calibrare la contrattazione collettiva sul territorio consente di superare i confini fisici e giuridici della singola impresa per considerare, e fare oggetto di specifica regolazione, la

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Un esempio interessante di contrattazione collettiva di rete (anche se in tali ipotesi la rete è stata costruita con strumenti giuridici diversi dal contratto di rete) è quello sperimentato in Toscana nell’ambito di una serie di accordi sindacali sottoscritti da Gucci con le RSU e le organizzazioni sindacali più rappresentative del settore. Tramite tali accordi collettivi Gucci e i sindacati hanno varato dei meccanismi, riconducibili nell’alveo della responsabilità sociale di impresa, volti a conciliare efficienza e flessibilità della produzione con il miglioramento delle condizioni complessive di lavoro. L’obiettivo di tali accordi è quello di attuare un sistema di stabile controllo dell’intera filiera produttiva, assicurandosi che il livello dei trattamenti economici e normativi riconosciuti ai lavoratori non scendano mai al di sotto di una certa soglia, e financo segnando un confine al decentramento. Il riferimento è al: “Protocollo d’intesa sindacale in materia di responsabilità sociale dell’impresa” sottoscritto il 10 giugno 2004; “Verbale di accordo sindacale in materia di certificazione sociale ed ambientale” dell’8 settembre 2004; “Protocollo d’intesa in materia di sostenibilità della filiera Gucci” del 16 settembre 2009. Tutti e tre gli accordi sono stati sottoscritti da Gucci con le RSU e con le organizzazioni sindacali di categoria: FILTEA-CGIL, FEMCA-CISL, UILTUCS-UIL e UGL. Su tale esperienza v. anche le osservazioni di Sciarra, Uno sguardo oltre la Fiat. Aspetti nazionali e transnazionali nella contrattazione collettiva della crisi, in RIDL, 2011, III, 180 e di Razzolini, Le reti Gucci ed Esaote: un’analisi di diritto del lavoro, in DLRI, 2016, 105.

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rete come modalità specifica di svolgimento dell’attività di impresa. In questa prospettiva il contratto collettivo territoriale di rete può costituire fonte delle regole volte a strutturare l’organizzazione della rete; valorizzando così quella funzione organizzatoria di cui è dotato il contratto collettivo34. Le potenzialità connesse alla dimensione territoriale della contrattazione collettiva sono destinate a scontrarsi però con il limitato sviluppo che questo livello di contrattazione conosce nel nostro Paese, nel quale le parti sociali hanno impostato il sistema di contrattazione collettiva nel binomio nazionale-aziendale. A conclusione delle riflessioni sin qui svolte vanno poi ricordate le potenzialità delle quali è stato dotato il c.d. contratto collettivo di prossimità dall’art. 8, d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (convertito in l. 14 settembre 2011, n. 148). Com’è noto, tale disposizione consente ai contratti collettivi, stipulati a livello aziendale o territoriale dai soggetti collettivi selezionati dalla norma medesima, di stabilire regole derogatorie rispetto alle tutele costruite dalla legge e dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, con riferimento ad alcune materie elencate al comma secondo del medesimo articolo. Il riferimento al livello aziendale e territoriale evidenzia immediatamente l’importanza della norma con riferimento al fenomeno delle reti. Per quanto riguarda il livello aziendale si può concludere, infatti, che il contratto interaziendale possa essere pienamente equiparato ad un contratto aziendale puro, dal quale si differenzia solo per il contestuale coinvolgimento nella stipulazione di più imprese e dei rappresentanti dei lavoratori di imprese diverse. Accertata la rilevanza ai nostri fini dell’ambito di applicazione dell’art. 8, l. n. 148/2011, si può affermare che tale norma apre interessanti possibilità alla contrattazione di prossimità come strumento di regolazione dei rapporti di lavoro all’interno della rete, soprattutto per la sua capacità di adeguare le regole legali alle esigenze di flessibilità poste dalla organizzazione della produzione in rete. Ciò, ovviamente, laddove le parti sociali si prestino ad impiegare tale strumento superando le comprensibili resistenze, non solo ideologiche, manifestate dalle principali organizzazioni sindacali e datoriali italiane.

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Su tale funzione v. Romei, L’autonomia collettiva nella dottrina giuslavoristica: rileggendo Gaetano Vardaro, in DLRI, 2011, 181.

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I nuovi confini della responsabilità solidale Sommario : 1. Breve introduzione al tema. – 2. Corte Costituzionale e responsabilità solidale. – 3. Il caos dopo la tempesta. – 4. L’art. 29, comma 2 si tramuta in regola generale. – 5. Considerazioni conclusive.

Sinossi. La Consulta ha ridefinito i confini dell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 che, interpretato secondo Costituzione, è applicabile a qualsivoglia contratto commerciale cha abbia ad oggetto prestazioni di fare. L’estensione della norma si giustifica perché in tutti questi casi il soggetto diverso dal datore di lavoro trae un’analoga utilità indiretta dalle prestazioni dei dipendenti altrui. La pronuncia lascia qualche margine di incertezza sul ragionamento per pervenire a tale conclusione, che si affronta e risolve nel saggio. Abstract. The Constitutional Court has redefined the boundaries of the art. 29, paragraph 2, d.lgs. n. 276/2003 which, interpreted according to the Constitution, is applicable to any commercial contract which as has an object an activity of do. The extension of the rule is justified because in all these cases the person different from the employer obtain a similar indirect benefit from the services of others’ employees. The pronunciation leaves some margin of uncertainty on the reasoning to arrive at this conclusion, which is resolved in the essay. parole chiave:

Responsabilità solidale – Appalti – Subfornitura – Contratti commerciali di fare – Utilità indiretta prestazione dipendenti altrui.

1. Breve introduzione al tema. Il contratto d’appalto rappresenta la tipologia contrattuale prevalentemente impiegata per sostituire il make con il buy: il committente rinuncia, infatti, a realizzare direttamente l’opera o il servizio e si avvale, a tal fine, di un’organizzazione di mezzi e persone di un altro soggetto1. L’appaltatore si obbliga ad una prestazione di fare a favore del committen-

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Cfr., De Luca Tamajo, Diritto del lavoro e decentramento produttivo in una prospettiva comparata: scenari e strumenti, in RIDL, 2007,


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te, per effetto della quale quest’ultimo, pur non ottenendo un’utilità diretta ed immediata dalle prestazioni dei dipendenti dell’appaltatore, trae comunque un’utilità indiretta dalle stesse2. Siffatta utilità giustifica la scelta, compiuta nell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, di corresponsabilizzare il committente del pagamento di retribuzioni, contributi previdenziali e premi assicurativi che spettano ai dipendenti dell’appaltatore. Questi ultimi possono, pertanto, domandare il pagamento di somme maturate in esecuzione del contratto d’appalto non solo al proprio datore di lavoro, ma anche all’appaltante. La trasformazione delle imprese da tecnostrutture integrate a «reti semiautonome o autonome con forme elastiche di coordinamento» è andata di pari passo con l’incremento delle tipologie contrattuali impiegate per realizzare operazioni di decentramento produttivo3. In molti casi si tratta di contratti attraverso i quali il soggetto diverso dal datore di lavoro trae dalle prestazioni dei dipendenti altrui un’utilità indiretta analoga a quella che il committente ottiene dall’attività dei lavoratori dell’appaltatore: basti pensare a quanto si verifica in presenza di una subfornitura, di un contratto di servizi di logistica o di un trasporto. Nonostante abbiano esigenze di protezione analoghe a quelle dei dipendenti di un appaltatore o di un subappaltatore, i lavoratori impiegati nell’ambito di tali contratti commerciali non disponevano di una norma di tutela analoga all’art. 29, comma 2 e non potevano nemmeno fruire di quest’ultimo, che era considerato norma eccezionale, perché derogava al principio generale secondo il quale il datore di lavoro è l’unico obbligato del pagamento di retribuzioni, contributi previdenziali e premi assicurativi4. A fronte dei profondi mutamenti avvenuti nel contesto produttivo, si è, tuttavia, messo in discussione il carattere eccezionale dell’art. 29, comma 25, dal momento che tale regola, al pari di qualsivoglia altra dell’ordinamento, «va sentita e vissuta in riferimento ai problemi […] del tempo presente»6.

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I, 4. Così facendo, le imprese adottano un modello organizzativo dinamico per rendersi più competitive nel mercato globale. Cfr., Boltanski, Chiapello, The new spirit of capitalism, Verso, 2007, 167 ss. e Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino, 2006, 34. Valorizzano l’ottenimento di un’utilità indiretta dalle prestazioni dei dipendenti altrui Loriga, La disciplina giuridica del lavoro in appalto, Giuffré, 1965, 213 e, più recentemente, M.T. Carinci, Il concetto di appalto rilevante ai fini delle tutele giuslavoristiche e la distinzione da fattispecie limitrofe, in M.T. Carinci, Cester, Mattarolo, Scarpelli (a cura di), Tutela e sicurezza del lavoro negli appalti privati e pubblici. Inquadramento giuridico ed effettività, Utet, 2011, 27. De Luca Tamajo, op. loc. ultt. citt. Cfr., da ultimo, App. Venezia, ordinanza, 13 luglio 2016, in Labor, 2017, 99 ss.; in dottrina Alvino, L’appalto e i suoi confini, in Aimo, Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, Utet, 2014, 3 ss.; M.T. Carinci, Utilizzazione e acquisizione indiretta del lavoro: somministrazione e distacco, appalto e subappalto, trasferimento d’azienda e di ramo. Diritto del lavoro e nuove forme di organizzazione dell’impresa, Giappichelli, 2013, 161; Ferrante, Bricchi, Solidarietà e responsabilità del committente nella disciplina dell’appalto alla luce della più recente giurisprudenza, in RGL, 2012, I, 463. Per quanto attiene ad un esame di come «il diritto del lavoro si adatti, ovvero reagisca, alle tumultuose dinamiche delle nuove realtà: economica, aziendale, tecnologica e sociale» si vedano, da ultimo, D. Garofalo, Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative, in Frammentazione organizzativa e lavoro: rapporti individuali e collettivi, Giornate di Studio AIDLASS, Cassino, 18 – 19 maggio 2017, Giuffré, 2018, 19 ss.; Basenghi, Decentramento organizzativo e autonomia collettiva, in Frammentazione organizzativa e lavoro: rapporti individuali e collettivi, cit., 220 ss. e, anche per la citazione, Esposito, Il diritto del lavoro tra post-modernità e passato: tutele e garanzie al di là del decentramento e delle codatorialità, in Frammentazione organizzativa e lavoro: rapporti individuali e collettivi, cit., 476. Nogler, La subordinazione nel D.Lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’«autorità del punto di vista giuridico», in ADL, 2016, 72, riferisce tale affermazione alla subordinazione.

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2. Corte Costituzionale e responsabilità solidale. I dipendenti di un subfornitore, addetti al montaggio di cappe aspiranti prodotte dall’impresa committente, a seguito dell’inadempimento del proprio datore di lavoro, hanno domandato il pagamento delle retribuzioni loro spettanti al committente sulla base dell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003. Secondo la Corte d’Appello di Venezia, chiamata a decidere la controversia7, il contratto di subfornitura si differenzia dall’appalto, perché mentre nel primo l’attività del subfornitore è svolta sulla base di progetti e direttive tecniche del committente8, nel secondo «l’appaltatore è chiamato […] ad una prestazione rispondente ad autonomia non solo organizzativa ed imprenditoriale, ma anche tecnico-esecutiva»9. Se, quindi, si considera che è norma eccezionale, perché deroga al principio generale secondo il quale l’unico obbligato del pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali è il datore di lavoro, l’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 non può essere applicato in via analogica ai dipendenti del subfornitore. Questi ultimi si trovano, tuttavia, in una situazione assimilabile a quella dei lavoratori di un appaltatore: tanto il contratto di subfornitura, quanto l’appalto sono strumenti attraverso i quali si realizza il decentramento produttivo e in entrambi il committente ottiene un’utilità analoga dalle prestazioni dei dipendenti altrui. Poiché, pertanto, è irragionevole che i dipendenti del subfornitore siano privati di una garanzia della quale godono invece i lavoratori dell’appaltatore, la Corte d’Appello ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 per asserito contrasto con l’art. 3 Cost. La Corte Costituzionale ha rigettato tale questione10: se, infatti, la corresponsabilizzazione dell’appaltante si giustifica perché quest’ultimo trae, attraverso il contratto d’appalto, un’utilità indiretta dalle prestazioni dei dipendenti dell’appaltatore, per non porsi in contrasto con l’art. 3 Cost., l’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 deve applicarsi in tutti i casi in cui un soggetto diverso dal datore di lavoro ottenga un’utilità analoga dalle prestazioni dei dipendenti altrui11. Il ragionamento del Giudice delle Leggi estende la portata applica-

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Si veda App. Venezia, ordinanza, 13 luglio 2016, cit., 99 ss. La subfornitura è definita dall’art. 1, l. n. 192/1998 come quel contratto con cui un imprenditore si impegna ad effettuare lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime di proprietà del committente (c.d. subfornitura di lavorazione) oppure a fornire a quest’ultimo prodotti o servizi destinati ad essere utilizzati nella sua attività economica, anche per la produzione di un bene complesso (c.d. subfornitura di prodotto). Le prestazioni del subfornitore devono essere eseguite in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dal committente. 9 App. Venezia, ordinanza, 13 luglio 2016, cit., 101. 10 C. cost., 6 dicembre 2017, n. 254, in Il giuslavorista.it, con nota di Alvino, La Corte Costituzionale estende la responsabilità solidale negli appalti alla subfornitura. 11 Secondo la C. cost., 6 dicembre 2017, n. 254, cit., «la ratio dell’introduzione della responsabilità solidale del committente – che è quella di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento, e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto commerciale – non giustifica una esclusione (che si porrebbe, altrimenti, in contrasto con il precetto dell’art. 3 Cost.) della predisposta garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento». Alvino, La Corte Costituzionale estende la responsabilità solidale negli appalti alla subfornitura, cit., è critico rispetto all’impiego della formula “lavoro indiretto”. Secondo tale Autore, infatti, «quella di lavoro indiretto è un’espressione che può avere un’utilità sul piano descrittivo e didattico per rappresentare le ragioni alla base della istituzione della regola della solidarietà in alcune tipologie contrattuali come l’appalto e il trasporto. Ma non può costituire a sua volta criterio di selezione delle fattispecie, poiché un 8

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tiva della norma oltre l’appalto e la subfornitura, a qualsivoglia contratto commerciale che abbia ad oggetto prestazioni di fare12. Se è chiara la conclusione della Corte, lo è di meno il ragionamento giuridico seguito per pervenire ad essa. Prima di addentrarsi nella questione centrale, la Consulta ha chiarito di non ignorare la duplicità di opzioni interpretative intorno alla natura del contratto di subfornitura. Secondo taluni, infatti, data l’ampiezza della definizione contenuta nell’art. 1, l. n. 192/1998, la subfornitura non potrebbe essere considerata un nuovo e autonomo tipo, ma la relativa disciplina opererebbe in modo trasversale su figure contrattuali preesistenti, nel senso che inciderebbe, per gli aspetti disciplinati, su qualsiasi rapporto sussumibile nella definizione di cui all’art. 1, l. n. 192/199813. Nel caso descritto in precedenza la subfornitura sarebbe riconducibile all’appalto, perché il subfornitore si era impegnato ad eseguire un servizio a favore del committente. Alla luce di un diverso orientamento, invece, la subfornitura sarebbe nata come sottotipo dell’appalto, ma si sarebbe distaccata dal medesimo per le peculiarità rispetto al modello base, via via accentuatesi14. Ad avviso della Corte tale problematica non va sopravvalutata, perché «ciascuno degli orientamenti […] è comunque aperto, e non chiuso, all’estensione della responsabilità solidale del committente ai crediti di lavoro dei dipendenti del subfornitore»15. L’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 è, infatti, applicabile alla subfornitura per forza propria, qualora si ritenga tale contratto un sotto-tipo dell’appalto, oppure in via analogica, se la si considera un autonomo tipo contrattuale. In particolare, la norma che corresponsabilizza il committente può essere estesa in via analogica alla subfornitura, perché «l’eccezionalità della responsabilità del committente è tale rispetto alla disciplina ordinaria della responsabilità civile – che esige di correlarsi alla condotta di un soggetto determinato – ma non lo è più se riferita all’ambito, ove pur distinto, ma comunque omogeneo in termini di lavoro indiretto, dei rapporti di subfornitura»16. Alla luce dell’argomentazione della Corte, la regola della corresponsabilizzazione del committente sembra mantenere carattere eccezionale, almeno rispetto alla disciplina ordi-

vantaggio indiretto può desumersi in qualunque rapporto fra imprese». In presenza, invece, di un contratto commerciale che ha ad oggetto prestazioni di dare, come la vendita o la somministrazione, il soggetto diverso dal datore di lavoro trae dalle prestazioni dei lavoratori occupati presso il venditore o il somministratore un’utilità meno diretta di quella che il committente di un contratto commerciale avente ad oggetto obblighi di fare ottiene dall’attività lavorativa dei dipendenti della sua controparte contrattuale. Non si giustifica, pertanto, alcuna corresponsabilizzazione del soggetto diverso dal datore di lavoro. 13 Cfr., Cuffaro, Art. 1. Definizione, in Lipari (a cura di), Commentario alla Legge 18 giugno 1998, n. 192. Disciplina della subfornitura nelle attività produttive, in NLCC, 2000, 371. 14 Cfr., sul punto, Palazzi, Il contratto di subfornitura: nozioni e distinzioni, in Sposato, Coccia (a cura di), La disciplina del contratto di subfornitura nella legge n. 192 del 1998, Giappichelli, 1999, 15; Berti, Grazzini, Art. 1. Definizione, in Berti, Grazzini (a cura di), La disciplina della subfornitura nelle attività produttive, Giuffré, 2005, 1 ss. In giurisprudenza cfr., Cass., 25 agosto 2014, n. 18186, in www.iusexplorer.it; cfr., altresì, App. Venezia, ord., 17 luglio 2016, cit., 99 ss.; Trib. Catania, 9 luglio 2009, in FI, 2009, 2813; Trib. Bari, sez. II, 13 luglio 2006, in Il merito, 2007, 6, 37. 15 C. cost., 6 dicembre 2017, n. 254, cit. 16 C. cost., 6 dicembre 2017, n. 254, cit. 12

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naria della responsabilità civile. Se così fosse, tuttavia, la stessa non sarebbe suscettibile di estensione analogica: per quanto anche le norme eccezionali abbiano la loro ratio e sia possibile, seppur entro limiti molto ristretti, individuare casi per i quali potrebbe valere lo stesso motivo di eccezionalità17, l’art. 14 preleggi esiste e non può essere inteso se non «come divieto rivolto ai giudici di muovere alla ricerca della ratio delle leggi eccezionali e di trarne tutte le conseguenze che di solito se ne traggono, tra le quali l’estensione della disposizione legislativa a casi in essa espressamente non contemplati»18. La Corte potrebbe aver considerato l’art. 29, comma 2 norma speciale rispetto alla disciplina ordinaria della responsabilità civile: se, infatti, le regole speciali aggiungono alla disciplina di una fattispecie una regolamentazione ulteriore, diversamente da quelle eccezionali che invece si sostituiscono alla regola generale19, l’art. 29, comma 2 può essere considerato norma speciale, dal momento che si affianca ai normali meccanismi della responsabilità civile. Poiché la norma speciale, diversamente da quella eccezionale, è suscettibile di applicazione analogica, si spiegherebbe perché la Consulta abbia utilizzato questo strumento per estendere il campo di applicazione della regola della corresponsabilizzazione del committente oltre l’appalto. La possibilità di distinguere norme speciali e norme eccezionali è, tuttavia, fortemente discussa in dottrina, dal momento che, tanto il venir meno della disciplina speciale, quanto di quella eccezionale produce il medesimo risultato: in entrambi i casi si (ri)espande la norma generale. Per questo motivo tale distinzione è considerata solo un escamotage per sottrarre le prime al divieto di estensione analogica valevole, invece, per le seconde20. Si potrebbe allora ritenere che la Corte abbia attribuito carattere generale alla regola di cui all’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003: in tal caso, tuttavia, non si spiegherebbe perché si sia fatto ricorso all’analogia per applicare tale norma oltre l’appalto. La conclusione del Giudice delle Leggi, con la quale sono stati ridefiniti i confini della responsabilità solidale dell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, è chiara. Meno limpida è, invece, l’argomentazione per addivenire ad essa che presenta elementi di contraddittorietà, comunque la si legga.

3. Il caos dopo la tempesta. Con l’obiettivo di far chiarezza sui nuovi confini della responsabilità solidale dopo la pronuncia della Corte Costituzionale, l’ispettorato nazionale del lavoro ha emanato due circolari21: nella prima ha precisato che l’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 sarebbe appli-

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Come ha giustamente sottolineato Bobbio, Analogia, in NDI, 1957, vol. I, 606, se una norma è davvero eccezionale «sarà molto più difficile, e nei casi estremi di privilegium impossibile, che si verifichino casi aventi l’eadem ratio». 18 Bobbio, op. loc. ultt. citt. 19 Modugno, Norme singolari, speciali, eccezionali, in ED, 1978, vol. XXVIII, 506 ss. 20 Modugno, op. loc. ultt. citt. 21 Cfr., circ. INL n. 6 e 7 del 29 marzo 2018, consultabili in www.ispettorato.gov.it.

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cabile nei rapporti fra consorzio e consorziata, nel distacco (ex art. 30, d.lgs. n. 276/2003) e nel distacco transnazionale (di cui al d.lgs. n. 136/2016); nella seconda ne ha argomentato l’estensione alla codatorialità nelle reti di imprese. Per comprendere se le conclusioni dell’ispettorato del lavoro siano condivisibili, è opportuno distinguere le diverse fattispecie richiamate. Per quanto attiene al rapporto consorzio/consorziata, ci si domanda se, qualora un consorzio abbia stipulato un contratto d’appalto e ne abbia affidato l’esecuzione ad una consorziata, i dipendenti di quest’ultima possano chiedere il pagamento delle retribuzioni non solo al committente, ma anche al consorzio. Diversamente da quanto sembra emergere dalla circolare, la soluzione della questione non è mutata in conseguenza della pronuncia della Consulta: bisogna, infatti, distinguere l’ipotesi in cui il consorzio abbia stipulato il contratto d’appalto come mandatario della consorziata, da quello in cui lo abbia concluso come parte. Nel primo caso, il committente e la consorziata sono obbligati in solido ai sensi dell’art. 29, comma 2, perché solo queste ultime due sono parti del contratto d’appalto22; nel secondo caso, invece, poiché il consorzio è parte del contratto d’appalto, l’affidamento dell’esecuzione del contratto alla consorziata è qualificabile come subcontratto23. Il lavoratore della consorziata potrà, pertanto, domandare il pagamento delle retribuzioni non solo al proprio datore di lavoro, ma anche al committente e al consorzio, obbligati in solido ai sensi dell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003. Diversamente da quanto affermato nella circolare, non è invece in alcun modo possibile applicare l’art. 29, comma 2 al distacco di cui all’art. 30, d.lgs. n. 276/2003. Anzitutto, in caso di distacco, per espressa previsione di legge, il datore di lavoro è l’unico responsabile del trattamento economico e normativo del lavoratore distaccato24. Questa scelta si giustifica perché il distacco, diversamente, ad esempio, dalla somministrazione di lavoro, deve sempre avere carattere temporaneo e rispondere ad un interesse non meramente economico del datore di lavoro distaccante. In secondo luogo, il distaccatario trae dalle prestazioni del lavoratore distaccato un’utilità diversa da quella che l’appaltante ottiene dai lavoratori dell’appaltatore. In presenza di un distacco si ha, infatti, una dissociazione fra chi assume il lavoratore e chi ne utilizza le prestazioni, nel corso della quale il datore di lavoro distaccante delega al distaccatario l’esercizio dei poteri datoriali per consentirgli di inserire il lavoratore nella propria organizzazione produttiva25. Proprio per questo motivo, il soggetto diverso dal datore di lavoro

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Cfr., sul punto, Trib. Milano, 9 ottobre 2014, Trib. Milano, 30 ottobre 2014 e Trib. Milano, 15 dicembre 2014, tutte in www.leggiditalia. it. e Cass., 7 marzo 2008, n. 6208, in RCDL, 2008, 623; in dottrina Venturi, Responsabilità solidale e regolazione nei processi di esternalizzazione, in DRI, 2011, 846. 23 Cfr., Trib. Bologna, 20 aprile 2015, n. 368, inedita a quanto consta, nella quale il giudice ha affermato che «è infondata anche l’eccezione di CO.MA.CO. Società Cooperativa Consortile, inerente un’asserita inapplicabilità della disciplina di cui all’art 29 comma 2 D.lgs. n. 276/03, ai rapporti tra società consorziate, attesa la pacifica assimilazione al subappalto dell’affidamento dei lavori all’impresa consorziata, costituendo ciò un fenomeno di sub-derivazione del contratto d’appalto e, in definitiva, di sostanziale subappalto». In senso contrario, App. Bologna, 4 novembre 2014, n. 1577, inedita a quanto consta, secondo la quale quando il Consorzio stipula in proprio il contratto d’appalto e, successivamente, lo affida ad una consorziata, non è dato qualificare tale rapporto come subappalto. 24 Art. 30, comma 2, d.lgs. n. 276/2003. 25 Perulli, Contratto di rete, distacco, codatorialità, assunzioni in agricoltura, in Fiorillo, Perulli (a cura di), La riforma del mercato del lavoro, Giappichelli, 2014, 477 ss., sottolinea che nel caso del distacco permane l’unicità del rapporto di lavoro in capo al distaccante,

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ottiene dalle prestazioni del lavoratore distaccato un’utilità più diretta ed immediata di quella che l’appaltante trae dall’attività lavorativa dei dipendenti dell’appaltatore. Ciò conferma ulteriormente l’impossibilità di estendere il ragionamento della Corte Costituzionale al distacco. La corresponsabilizzazione del committente non è nemmeno applicabile in via generale al distacco transnazionale, diversamente da quanto sembra dedursi dalla circolare dell’ispettorato del lavoro. La conclusione di quest’ultimo è condivisibile in tutti i casi in cui il distacco sia riconducibile ad un appalto transnazionale o a qualsivoglia altro contratto commerciale che realizzi un’utilizzazione indiretta di forza lavoro analoga a quella dell’appalto26. Nelle altre ipotesi comprese nella nozione di distacco transnazionale, come la somministrazione di lavoro e il trasporto merci, sono invece previsti specifici regimi di corresponsabilizzazione dei soggetti diversi dal datore di lavoro: nella prima opera il regime di responsabilità solidale e di parità di trattamento di cui all’art. 35, commi 1 e 2, d.lgs. n. 81/201527, nel secondo, invece, quello di cui all’art. 83-bis, commi da 4-bis a 4-sexies, d.l. n. 112/2008, conv. l. n. 133/2008, come modificato dalla l. n. 190/201428. Per poter, infine, prendere posizione sulle modalità di ripartizione degli obblighi datoriali nella codatorialità nelle reti di imprese, è necessario chiarire in che cosa essa consista29. Per quanto le opinioni sul punto siano tutt’altro che univoche, la codatorialità si ritiene sinonimo di contitolarità del medesimo contratto di lavoro fra più datori di lavoro: i codatori possono, pertanto, utilizzare in modo promiscuo il medesimo lavoratore esercitando sullo stesso i tipici poteri datoriali30. La codatorialità è, pertanto, diretta espressione della concezione realistica del datore di lavoro: se il rapporto di lavoro deve essere imputato a chi effettivamente utilizza il prestatore, in presenza di un impiego promiscuo del lavoratore tutti i soggetti che ne dirigono ed organizzano la prestazione devono essere considerati datori di lavoro31.

il quale continua ad esercitare il potere direttivo sul lavoratore distaccato, anche se può delegarlo al distaccatario, perché quest’ultimo possa inserire il lavoratore distaccato nella propria organizzazione produttiva. In tema di distacco si veda anche Zoli, Articolo 30. Distacco, in Pedrazzoli (coordinato da), Il nuovo mercato del lavoro. D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Zanichelli, 2004, 329 ss. 26 Tale soluzione è, peraltro, desumibile dal combinato disposto dell’art. 1, comma 1 e 4, comma 4, d.lgs. n. 136/2016. Ai sensi dell’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 136/2016, infatti, si ha distacco transnazionale, tra le altre ipotesi, quando, «nell’ambito di una prestazione di servizi, un’impresa distacca in Italia uno o più lavoratori di cui all’articolo 2, comma 1, lettera d), in favore di un’altra impresa […] a condizione che durante il periodo del distacco, continui a esistere un rapporto di lavoro con il lavoratore distaccato». In questi casi l’art. 4, comma 4 prevede che fra le imprese interessate si applichi l’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003. 27 È l’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 136/2016 a prevedere che in tal caso operi il regime previsto in generale per la somministrazione di lavoro dall’art. 35, commi 1 e 2, d.lgs. n. 81/2015. 28 Cfr., l’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 136/2016. 29 L’art. 30, comma 4 ter, d.lgs. n. 276/2003 prevede che per le imprese legate da un contratto di rete è ammessa la codatorialità. 30 Aderiscono a questa impostazione Nogler, Mono e multi-datorialità tra debito e garanzie patrimoniali dei crediti di lavoro, in ADL, 2018, 650 ss. e M.G. Greco, Il rapporto di lavoro nell’impresa multidatoriale, Giappichelli, 2017, 178 ss. Ritengono, invece, che la codatorialità consenta solo un esercizio condiviso del potere direttivo fra una molteplicità di datori di lavoro, ferma la titolarità del rapporto in capo ad un unico soggetto, Sitzia, Il problema della codatorialità nel sistema del contratto di rete, in ADL, 2015, I, 585 ss. e Maio, Contratto di rete e rapporto di lavoro: responsabilità disgiunta, derogabilità dello statuto protettivo e frode alla legge, in ADL, 2016, I, 780 ss. 31 Nogler, op. ult. cit., 651, sottolinea che «dalla regola del datore di lavoro effettivo non discende automaticamente quella del datore di lavoro unico». Cfr. anche M.T. Carinci, Processi di ricomposizione e di scomposizione dell’organizzazione: verso un datore di

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Una volta accolta tale ricostruzione, non è possibile sostenere che i codatori siano obbligati in solido solo del pagamento di retribuzioni, contributi previdenziali e premi assicurativi ai sensi dell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003. Anzitutto, così argomentando, si porrebbe il problema di individuare quale codatore sia tenuto per tutti gli obblighi datoriali e quale o quali, invece, solo nei limiti dell’art. 29, comma 2. La soluzione sarebbe peraltro irragionevole: se tutti i codatori fruiscono della prestazione del lavoratore, perché solo uno dovrebbe essere obbligato in relazione a tutti gli obblighi datoriali, mentre gli altri rispondere limitatamente al pagamento di retribuzioni, contributi previdenziali e premi assicurativi? In secondo luogo, i codatori traggono un’utilità diretta ed immediata dalle prestazioni del lavoratore, dal momento che tutti organizzano e dirigono l’attività lavorativa. Non si giustifica, quindi, un’applicazione del ragionamento della Consulta a questo caso. Infine, ma non certo per importanza, nella codatorialità l’obbligazione discende dal medesimo titolo – lo stesso contratto di lavoro subordinato – per tutti i datori di lavoro. Si ha, quindi, un’obbligazione soggettivamente complessa, nella quale i condebitori sono obbligati in solido ai sensi dell’art. 1294 c.c.32: la responsabilità solidale copre tutti gli obblighi datoriali ed è più estesa di quella di cui all’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003. Per concludere, se le circolari si proponevano di far chiarezza sul campo di applicazione dell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 dopo la pronuncia della Corte Costituzionale, tale obiettivo non sembra essere stato conseguito.

4. L’art. 29, comma 2 si tramuta in regola generale. Per superare i problemi lasciati aperti dalla pronuncia della Corte Costituzionale, si intende prospettare un diverso ragionamento che conduce anch’esso ad estendere il campo di applicazione dell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/200333. La corresponsabilizzazione del soggetto diverso dal datore di lavoro è più limitata in presenza di un appalto, dove non è dato ravvisare alcuna gestione promiscua dei rapporti di lavoro. La responsabilità solidale del committente nel pagamento di retribuzioni, contributi previdenziali e premi assicurativi che spettano ai dipendenti dell’appaltatore, limitata da un termine di decadenza, si giustifica, come sostenuto anche dalla Consulta, perché il soggetto diverso dal datore di lavoro trae un’utilità indiretta dalle prestazioni di tali la-

lavoro “à la carte”, in DLRI, 2016, 152, 736, secondo la quale «una piana applicazione del principio di prevalenza del datore di lavoro “sostanziale” dovrebbe, tuttavia, portare in questi casi a riconoscere come codatori tutti i soggetti partecipi dell’organizzazione nel cui ambito sia inserito il lavoratore. In effetti questa posizione – sostenuta da una parte della dottrina – è stata accolta da alcune pronunce rese con riferimento all’utilizzazione congiunta del lavoratore nell’ambito di una «impresa di gruppo» e cioè realizzata con il concorso delle diverse società del gruppo». 32 M.G. Greco, op. cit., 194 ss.; Razzolini, Lavoro e decentramento produttivo nei gruppi di imprese, in Aimo, Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, cit., 677 ss.; Nogler, op. loc. ultt. citt. 33 Sia consentito rinviare per tale ricostruzione a Villa, La responsabilità solidale come tecnica di tutela del lavoratore, BUP, 2017.

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voratori34. Attraverso la responsabilità solidale è conferita rilevanza giuridica a tale utilità proprio per porre alcuni obblighi tipicamente datoriali in capo ad un soggetto diverso dal datore di lavoro. La responsabilità solidale, discende, inoltre, da due titoli diversi per l’appaltante e per l’appaltatore: mentre per il primo dipende dal contratto d’appalto ed è diretta conseguenza della previsione contenuta nell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, per il secondo deriva dalla stipulazione del contratto di lavoro subordinato con i propri dipendenti. Si ha, quindi, un’obbligazione solidale ad interesse unisoggettivo, nella quale il committente svolge la funzione di garante del pagamento di un debito altrui35. Nella somministrazione di lavoro il contratto commerciale e quello di lavoro sono negozialmente collegati per realizzare un’operazione economica complessiva. Per effetto di tale collegamento, l’utilizzatore dirige e controlla i dipendenti dell’agenzia in vista della realizzazione di un suo interesse produttivo. Di conseguenza, la prestazione del lavoratore dell’agenzia non soddisfa solo un interesse diretto di quest’ultima, ma anche dell’utilizzatore. Ciò giustifica, da un lato, una corresponsabilizzazione di quest’ultimo più ampia di quella dell’appaltante, la quale, tuttavia, non si traduce in un’estensione dell’oggetto della responsabilità solidale, che concerne sempre il pagamento di retribuzioni, contributi previdenziali e premi assicurativi, ma nella disapplicazione del termine di decadenza entro il quale la responsabilità del soggetto diverso dal datore di lavoro deve essere fatta valere36. Dall’altro lato, spiega la ragione per la quale alla responsabilità solidale si affianchi un principio di parità di trattamento fra i dipendenti dell’agenzia e quelli dell’utilizzatore37. Proprio perché l’utilizzatore dirige e controlla le prestazioni dei lavoratori dell’agenzia, «la vicinanza fra i dipendenti dell’utilizzatore e quelli somministrati non è solo logistica, né si tratta di mera contiguità produttiva, ma nella generalità dei casi i due gruppi sono destinati a coordinarsi, ad integrarsi e, comunque, ad essere parte di una sola organizzazione unitaria»38. La responsabilità solidale dell’utilizzatore per il pagamento di retribuzioni e contributi previdenziali spettanti ai dipendenti dell’agenzia prescinde, tuttavia, dal collegamento negoziale: l’utilizzatore, al pari dell’appaltante, è garante del pagamento di un debito dell’agenzia39. Tale conclusione è coerente sia con il fatto che il compenso pagato dall’utilizza-

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In caso di subappalto, la corresponsabilizzazione di committente e appaltatore si giustifica perché il secondo trae utilità indiretta dalla prestazione resa dai dipendenti del subappaltatore. Anche il primo, tuttavia, beneficia di tale utilità e si giustifica, quindi, la sua corresponsabilizzazione. 35 Ciò implica che, nei rapporti interni fra debitori, la parte di debito del committente è pari a zero, mentre l’intero debito grava sul datore di lavoro/appaltatore. In caso di subappalto, sono il committente e l’appaltatore ad essere garanti del pagamento di un debito altrui. Nei rapporti interni fra debitori il peso del debito grava integralmente sul subappaltatore. 36 Art. 35, comma 1, d.lgs. n. 81/2015. 37 Art. 35, comma 2, d.lgs. n. 81/2015. 38 De Luca Tamajo, Paternò, Appalto, in De Luca Tamajo, G. Santoro Passarelli (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro. Commentario al D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 («Riforma Biagi»), Cedam, 2007, 439. 39 Zappalà, Lavoro temporaneo e regime sanzionatorio: gli improbabili effetti del collegamento negoziale, in GC, 2003, 1794, la quale si riferisce ancora alla disciplina della fornitura di lavoro temporaneo di cui alla l. n. 196/1997. Le sue considerazioni possono, tuttavia, essere estese anche alla somministrazione di lavoro. In giurisprudenza si veda Cass., 27 febbraio 2003, n. 3020, in GC, 2003, 1794 ss.

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tore per la somministrazione di lavoro comprende anche i costi che l’agenzia sostiene per questi dipendenti, sia con la causa del contratto di somministrazione, alla luce della quale spetta all’agenzia la gestione normativa e amministrativa del rapporto di lavoro e tutte le connesse responsabilità. Nei gruppi e nelle reti di imprese, nei quali l’integrazione fra le società si fa più stretta, alcune prestazioni lavorative possono essere destinate a realizzare l’interesse comune del gruppo o della rete40. Qualora queste ultime siano dirette ed organizzate in modo promiscuo dalle imprese del gruppo o della rete, si ha un rapporto di lavoro che vede nella posizione di lavoratore un’unica persona e in quella di datore di lavoro una molteplicità di soggetti41. In questo caso, i codatori ottengono un’utilità diretta dalla prestazione del lavoratore. Come evidenziato nel precedente paragrafo, i codatori sono legati al lavoratore dal medesimo titolo, lo stesso contratto di lavoro subordinato. Si ha, quindi, diversamente dai due casi precedentemente considerati, un’obbligazione soggettivamente complessa alla quale l’ordinamento collega automaticamente l’effetto solidale ai sensi dell’art. 1294 c.c.42. Il lavoratore potrà, pertanto, far valere qualsivoglia pretesa che sorga dal rapporto di lavoro verso uno qualunque dei codatori. In tal caso, quindi, il vincolo solidale raggiunge la sua massima estensione. Una volta affiancate le diverse norme che imputano gli obblighi datoriali ad una molteplicità di soggetti, assume concreto spessore l’idea che nell’ordinamento lavoristico esista un “sistema” di responsabilità solidali “a geometria variabile”, nel quale il vincolo solidale fra i soggetti coinvolti è tanto più esteso ed intenso, quanto più diviene “promiscua” la gestione dei rapporti di lavoro fra le stesse: si va dall’appalto, dove la responsabilità solidale è meno estesa ed intensa, si passa attraverso la somministrazione di lavoro, per arrivare fino alla “codatorialità”, dove tale forma di corresponsabilizzazione raggiunge la sua massima ampiezza. Ciascuna fattispecie si inscrive nel suddetto sistema, ponendosi in uno specifico rapporto con le altre.

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L’interesse di gruppo coincide con il disegno strategico condiviso dalla pluralità delle società. Cfr., sul punto, Montalenti, Conflitto di interessi nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in GC, 1995, I, 710 ss. Se per Razzolini, Impresa di gruppo, interesse di gruppo e codatorialità dell’era della flexicurity, in RGL, 2013, I, 39 ss., per aversi codatorialità è necessario non solo che la prestazione sia gestita in modo promiscuo da più società del gruppo, ma anche che la stessa sia preordinata a perseguire l’interesse comune delle società che compongono il gruppo, per De Simone, I gruppi di imprese, in Brollo (a cura di), Il mercato del lavoro, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da Persiani, F. Carinci, Cedam, 2012, vol. VI, 1541 ss., è invece sufficiente il primo elemento. Per quanto attiene, invece, le imprese retiste, queste ultime si impegnano a perseguire uno scopo comune che consiste «nell’accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato», secondo quanto espressamente previsto dall’art. 3, comma 4 ter, d.l. n. 5/2009, conv. nella l. n. 33/2009. 41 Come si è avuto modo di accennare nel paragrafo precedente, nelle reti di imprese l’art. 30, comma 4-ter, d.lgs. n. 276/2003 prevede espressamente la possibilità di ricorrere alla codatorialità. Nei gruppi, invece, la codatorialità è stata riconosciuta in via giurisprudenziale in alcuni casi in cui le imprese del gruppo avevano gestito in modo promiscuo i rapporti di lavoro. Cfr., sul punto, gli obiter dicta di Cass., 29 novembre 2011, n. 25270, in RIDL, 2012, II, 375 ss. e Cass., 24 marzo 2003, n. 4274, in RIDL, 2003, II, p. 740. Cfr., inoltre, Trib. Cagliari, 6 giugno 2013, n. 23, in www.dejure.it e Trib. Monza, 28 aprile 2004, in RIDL, 2004, II, pp. 540 ss. 42 Diversamente dalle precedenti obbligazioni solidali nelle quali taluni obbligati in solido (il committente nell’appalto e l’utilizzatore nella somministrazione) svolgono la funzione di meri garanti del pagamento di un debito altrui, nel caso di specie tutti i soggetti sono condebitori. Per questo motivo, il datore che ha adempiuto l’obbligazione, avrà azione di regresso pro quota nei confronti degli altri obbligati in solido.

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L’esistenza di un sistema di responsabilità solidali, valutata insieme ad altri elementi, ha specifiche ripercussioni43. Come si è avuto modo di sottolineare, le disposizioni che introducono forme di corresponsabilizzazione del soggetto diverso dal datore di lavoro sono state tradizionalmente considerate eccezionali, dal momento che derogherebbero alla regola generale secondo la quale dell’obbligazione retributiva e contributiva risponde solo il datore di lavoro44. Quello di “norma eccezionale” è, tuttavia, un concetto storicamente condizionato: «determinate norme, in determinati momenti da considerare come eccezionali, potranno diventare in un momento successivo normali […], in rapporto alla sempre maggiore rilevanza e consistenza sociale dei rapporti da esse contemplati, oppure in rapporto alla eventuale modificazione degli stessi principi dell’ordinamento»45. Entrambi gli elementi in grado di far transitare una norma dal campo dell’“eccezionalità” a quello della “normalità” sono presenti nel caso di cui ci si sta occupando. Da un lato, in un contesto produttivo nel quale «la fabbrica si rende sempre più molecolare o modulare» hanno assunto maggiore rilevanza e consistenza sociale le situazioni nelle quali un determinato soggetto trae utilità dalle prestazioni di dipendenti altrui e con esse anche le forme di corresponsabilizzazione di tali soggetti in relazione ad alcuni obblighi datoriali46. Dall’altro lato, la possibilità di collocare a sistema le norme che imputano alcuni obblighi datoriali in capo ad una molteplicità di soggetti, unita alla maggiore rilevanza delle stesse, dà forza all’idea del superamento del carattere generale della regola secondo la quale dell’obbligazione retributiva e contributiva risponde solo il datore di lavoro47, in tutti i casi in cui dell’utilità delle prestazioni dei dipendenti si “approprino” anche altri soggetti. Queste considerazioni aprono la strada alla possibilità di attribuire un’ampiezza inedita alle forme di corresponsabilizzazione dei soggetti diversi dal datore di lavoro, le quali diverrebbero espressione di un principio generale applicabile in tutti i casi in cui la gestione dei rapporti di lavoro si svolga in forme analoghe. L’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, interpretato estensivamente alla stregua di norma di carattere generale, non si limita a regolare l’impiego dei lavoratori nell’ambito di un appalto, ma di qualsivoglia contratto commerciale che abbia ad oggetto una prestazione di fare. In tutti questi casi, infatti, il committente trae un’utilità indiretta dalla prestazione dei dipendenti altrui, del tutto assimilabile a quella che l’appaltante ottiene dai dipendenti dell’appaltatore. Nell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 si menziona, pertanto, invece del

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In senso contrario Alvino, La Corte Costituzionale estende la responsabilità solidale negli appalti alla subfornitura, cit., secondo il quale proprio la presenza di una molteplicità di regimi di responsabilità solidale sarebbe dimostrazione del fatto che «la regola della solidarietà ha carattere eccezionale. Una regola, cioè, che trova applicazione solo per le fattispecie espressamente previste dalla legge ed entro i limiti, non a caso diversi da materia a materia, previsti dalle disposizioni che le istituiscono». 44 Cfr., sul punto, Alvino, L’appalto e i suoi confini, cit., 43; M.T. Carinci, Utilizzazione e acquisizione indiretta del lavoro: somministrazione e distacco, appalto e subappalto, trasferimento d’azienda e di ramo. Diritto del lavoro e nuove forme di organizzazione dell’impresa, cit., 161; Ferrante, Bricchi, op. cit., 463. 45 Cfr., Caiani, Analogia (teoria generale), in ED, 1958, II, 368 ss. 46 Cfr., Basenghi, Decentramento produttivo e autonomia collettiva, cit., 218. 47 Bobbio, Analogia, cit., 606.

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risultato economico – utilizzazione indiretta di lavoro tramite un contratto commerciale –, il tipo contrattuale – appalto – che più frequentemente produce quel risultato48. Analogo ragionamento vale per l’art. 35, commi 1 e 2, d.lgs. n. 81/2015 che prevede la corresponsabilizzazione dell’utilizzatore nel pagamento di retribuzioni e contributi previdenziali ed il principio di parità di trattamento fra i dipendenti dell’agenzia e quelli dell’utilizzatore. Tale norma, collocata a sistema e divenuta espressione di un principio generale, è applicabile in presenza di qualsivoglia contratto commerciale che realizzi un risultato economico assimilabile a quello ottenuto con la somministrazione di lavoro, con un’unica precisazione: poiché quest’ultima rappresenta una deroga al divieto di interposizione di mere prestazioni di lavoro, per introdurre una fattispecie analoga è necessaria un’espressa previsione di legge49. In presenza della codatorialità, infine, è per effetto dell’art. 1294 c.c., ai sensi del quale “i condebitori sono tenuti in solido”, che gli obblighi datoriali incombono su tutti codatori50. Questi ultimi, infatti, sono condebitori perché l’obbligazione deriva per tutti dal medesimo titolo, ovvero lo stesso contratto di lavoro subordinato. Le regole dettate per le diverse “fattispecie” – appalto, somministrazione e codatorialità – divengono norme generali applicabili in tutti i casi in cui la gestione dei rapporti di lavoro si svolga in forme analoghe51. In tal modo, da un lato, sembrano superati i dubbi

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Il ragionamento è sovrapponibile a quello svolto in relazione all’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 276/2003: «la portata della definizione in essa contenuta trascende la tipologia contrattuale tipica richiamata ed assume piuttosto le caratteristiche di una definizione il cui obiettivo finale non è solo quello di definire in che cosa consista il contratto di appalto, quanto piuttosto di individuare gli elementi che caratterizzano l’attività imprenditoriale, nella specifica prospettiva dell’individuazione dell’imprenditore – datore di lavoro e, dunque, della imputazione del rapporto di lavoro». «Il risultato che si vuole colpire è l’attività di messa a disposizione dei lavoratori e il legislatore fa riferimento allo schema contrattuale usualmente utilizzato per celare tale attività». Cfr., sul punto e fra i tanti, Alvino, Il lavoro nelle reti di imprese: profili giuridici, Giuffré, 2014, 86 e 88 e M.T. Carinci, Il concetto di datore di lavoro alla luce del sistema: la codatorialità e il rapporto con il divieto di interposizione, in M.T. Carinci (a cura di), Dall’impresa a rete alle reti d’impresa. Scelte organizzative e diritto del lavoro, Giuffrè, 2015, 14 ss. 49 Indiretta conferma di quanto si sta affermando si ha nel distacco, che realizza uno schema giuridico in parte assimilabile alla somministrazione di lavoro: anche nel distacco vi è una dissociazione fra chi assume il lavoratore e chi ne utilizza le prestazioni, seppur, diversamente da quanto avviene nella somministrazione, per rispondere ad esigenze solo temporanee e per soddisfare un interesse non meramente economico del distaccante. Quest’ultimo può delegare al distaccatario l’esercizio dei tipici poteri datoriali per consentirgli di inserire il lavoratore nella propria organizzazione produttiva. La parziale assimilabilità di somministrazione e distacco avrebbe potuto giustificare l’applicazione al secondo delle forme di tutela previste per la prima. Per le prestazioni rese durante il distacco, il lavoratore distaccato, oltre a poter fruire dello stesso trattamento dei dipendenti del distaccatario, avrebbe potuto domandare il pagamento di retribuzioni e contributi previdenziali al distaccatario, quale obbligato in solido con il distaccante. Per escludere che si producesse tale risultato, e a conferma della ricostruzione prospettata, il legislatore ha dovuto prevedere espressamente che “in caso di distacco il datore di lavoro rimane (l’unico) responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore” (art. 30, comma 2, d.lgs. n. 276/2003). 50 Non si può condividere sul punto quanto affermato da D. Garofalo, Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative, cit., 105, secondo il quale «l’ultima obiezione, opponibile alla teoria della codatorialità, di carattere sistematico, è l’inerenza alla stessa della responsabilità solidale che si fonda su disposizioni eccezionali, in quanto tali insuscettibili di applicazione estensiva o analogica, […] il che osta ad una codatorialità elevata a sistema». Diversamente da quanto afferma tale Autore, la codatorialità non è elevabile a sistema se si ritiene regola generale quella dell’unicità del datore di lavoro. Una volta che vi sia “codatorialità” e che la stessa sia declinata come rapporto di lavoro con parte (quella datoriale) plurisoggettiva, diretta conseguenza è l’imputabilità di tutti gli obblighi datoriali ai diversi codatori per effetto di una norma di carattere generale, quale è, appunto, l’art. 1294 c.c. 51 Nel contesto produttivo attuale nel quale le imprese si organizzano abitualmente come entità autonome con forme elastiche di coordinamento, la soluzione prospettata discende anche da un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme considerate: in tale mutato contesto, infatti, se, ad esempio, fosse riferito solo all’appalto, l’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. per l’ingiustificata disparità di trattamento che si creerebbe fra i dipendenti dell’appaltatore e/o

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interpretativi lasciati aperti dalla pronuncia della Corte Costituzionale, dall’altro lato, in conseguenza della “messa a sistema” delle diverse forme di solidarietà non si attribuisce carattere generale solo all’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, ma anche alle altre norme che imputano gli obblighi datoriali in capo ad una molteplicità di soggetti.

5. Considerazioni conclusive. Il tempo in cui la disciplina della responsabilità solidale del committente per il pagamento di retribuzioni, contributi previdenziali e premi assicurativi era da considerare eccezionale, è definitivamente tramontato. Una volta scandagliate le contraddizioni della regola “tradizionale” è emersa «la possibilità del nuovo»52: l’art. 29, comma 2 si è tramutato in norma generale applicabile in tutti i casi in cui si abbia un’utilizzazione indiretta di forza lavoro assimilabile a quella che si realizza in presenza di un appalto. Rimane ancora un “tassello” fuori posto: in caso di trasporto merci l’art. 83-bis, d.l. n. 112/2008, conv. l. n. 133/2008, come modificato dalla l. n. 190/2014, prevede un regime di corresponsabilizzazione del soggetto diverso dal datore di lavoro in parte differente da quello dell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/200353, nonostante il committente tragga dalle prestazioni dei dipendenti del vettore un’utilità indiretta analoga a quella che l’appaltante ottiene dalle prestazioni dei lavoratori dell’appaltatore54. Anche il trasporto merci, al pari dell’appalto, è, infatti, un contratto commerciale avente ad oggetto una prestazione di fare. Ciò pone due ordini di problemi: da un lato, ci si deve domandare in che rapporto si pongano l’art. 83-bis, d.l. n. 112/2008, conv. l. n. 133/2008 e l’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, una volta affermato il carattere generale del secondo. Dall’altro lato, ci si deve chiedere se sia giustificato il diverso trattamento cui sono sottoposti i dipendenti di un vettore o subvettore rispetto ai lavoratori impegnati nell’esecuzione di qualsivoglia altro contratto commerciale che abbia ad oggetto una prestazione di fare.

subappaltatore e quelli impiegati in qualsivoglia altro contratto commerciale avente ad oggetto prestazioni di fare. Attraverso la messa a sistema delle diverse forme di solidarietà è, tuttavia, possibile individuare anche la ratio delle norme che imputano alcuni o tutti gli obblighi datoriali ad una molteplicità di soggetti e i casi analoghi a quelli espressamente disciplinati nei quali si giustifica l’applicazione di siffatte disposizioni. Si vedano, al riguardo, le osservazioni di Nogler, Mono e multi-datorialità tra debito e garanzie patrimoniali dei crediti di lavoro, cit., 651 ss. 52 Nogler, La subordinazione nel D.Lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’«autorità del punto di vista giuridico», cit., 73. 53 Per quanto attiene al regime della responsabilità solidale nel trasporto merci per conto terzi, cfr. Villa, op. cit., 169 ss. e Gamberini, Venturi, La responsabilità solidale nel settore dei trasporti: commento alla circolare del Ministero del lavoro n. 17/2012, in DRI, 2012, 859 ss. I crediti garantiti dall’art. 83-bis sono in larga parte sovrapponibili a quelli tutelati tramite l’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003; diverso è invece il termine di decadenza (di un anno invece che di due) entro il quale far valere la corresponsabilizzazione del soggetto diverso dal datore di lavoro. Nel trasporto merci è, inoltre, previsto un meccanismo di esonero dalla responsabilità solidale per il committente, che non ha alcun equivalente nell’appalto. 54 La presenza dell’art. 83-bis, d.l. n. 112/2008, conv. l. n. 133/2008, potrebbe essere considerata la conferma del carattere eccezionale dell’art. 29, comma 2, ma anche la risposta del legislatore dinanzi ad un orientamento consolidato che negava la possibilità di applicare l’art. 29, comma 2 ai dipendenti di vettori e subvettori per l’asserito carattere eccezionale di quest’ultima norma.

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Per quanto attiene alla prima questione, se la regola eccezionale è quella che limita la forza qualificatoria di quella generale, l’art. 83-bis è norma eccezionale rispetto all’art. 29, comma 2: in assenza della prima si riespanderebbe, infatti, la seconda. Per quanto concerne il secondo interrogativo, poiché rappresenta un “diritto non eguale”, la norma eccezionale deve giustificarsi per qualche elemento peculiare che spieghi il trattamento diversificato dalla generalità. Se si considera che la prestazione dei dipendenti del vettore produce nella sfera giuridica del soggetto diverso dal datore di lavoro la stessa utilità che l’attività dei lavoratori dell’appaltatore realizza in quella del committente, il diverso trattamento delle due fattispecie non pare giustificato. Una volta mutata la prospettiva dalla quale si osserva l’art. 29, comma 2 – quale norma generale e non più eccezionale – cambia anche la relazione fra quest’ultima e l’art. 83-bis. In questo “rapporto invertito” è l’art. 83-bis ad essere in contrasto con l’art. 3 Cost., per il diverso e ingiustificato trattamento cui sottopone i dipendenti di vettore e sub-trasportatore rispetto agli altri lavoratori impiegati nell’ambito di analoghi contratti commerciali. A fronte di questo “capovolgimento di prospettiva” si attende con interesse un’eventuale pronuncia della Corte Costituzionale sulla responsabilità solidale in tema di trasporto merci.

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Ipotesi di mobilità volontaria del lavoratore pubblico e criticità applicative per i dipendenti di prima nomina Sommario : 1. Premessa. – 2. L’assegnazione temporanea ex art. 42-bis del d.lgs. n. 151/01. – 3. (Segue): Le agevolazioni ex art. 33 della l. n. 104/92. – 4. Il vincolo della permanenza quinquennale nella sede di prima destinazione: problemi e soluzioni.

Sinossi. Lo scritto si occupa di tematiche relative alla mobilità dei dipendenti pubblici, con particolare riferimento alle ipotesi dell’assegnazione temporanea presso altra amministrazione (art. 42, d.lgs. n. 151/01) e della scelta della sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere portatrice di handicap in situazione di gravità (art. 33 della l. n. 104/92), verificando la compatibilità di tali istituti con il vincolo di permanenza quinquennale nella sede di prima destinazione (art. 35, comma 5-bis, del d.lgs. n. 165/01). Abstract. The paper deals with issues related to the mobility of public employees, with particular reference to the hypothesis of temporary assignment to another administration (art. 42, d.lgs. n. 151/01) and to the choice of the work station closest to domicile of the person to be assisted in the event of serious disability (art. 33, l. n. 104/92), verifying the compatibility of these institutions with the five-year permanence restriction in the place of first destination (art. 35, comma 5-bis, del d.lgs. n. 165/01). Parole chiave: Pubblico impiego contrattualizzato – Mobilità – Trasferimento – Distacco – Assegnazione temporanea – Assistenza al disabile – Vincolo di permanenza quinquennale nella sede di prima destinazione.


Roberto Maurelli

1. Premessa. Il diritto comune prevede che la prestazione debba essere eseguita nel luogo determinato dal contratto o dagli usi o che si può desumere dalle circostanze e specialmente dalla natura della prestazione1, che, a sua volta, deve corrispondere all’interesse del creditore2. Nel rapporto di lavoro, il creditore persegue questo suo interesse impartendo le disposizioni per l’esecuzione della prestazione3; sicché la determinazione del luogo in cui va resa l’attività lavorativa rientra tipicamente nell’ambito del potere direttivo e di conformazione; e ciò a prescindere dalla natura pubblica o privata del rapporto e salvo che le parti non abbiano espressamente concordato un patto di inamovibilità. A fronte del suddetto potere, il dipendente è posto in una posizione di soggezione; ad esempio egli non può né rifiutare un trasferimento già comunicato, né modificarne le condizioni, né imporre al datore un trasferimento che quest’ultimo non intende disporre. Discorso analogo vale anche per gli istituti della trasferta e del distacco che, pur tendenzialmente temporanei, comportano anch’essi una modifica del luogo di lavoro e, nel caso del distacco, perfino l’inserimento in una diversa organizzazione. Tanto è vero che il legislatore, consapevole delle implicazioni pratiche derivanti dall’esercizio di un potere così invasivo, vi pone alcuni limiti, sia nel settore privato che in quello pubblico, ad esempio imponendo regole di giustificazione necessaria4 ovvero sancendo divieti assoluti di trasferimento5. Radicalmente diverso è, invece, il caso “atipico” in cui il mutamento del luogo di lavoro corrisponde ad un interesse del debitore, e cioè del prestatore di lavoro, il quale, in alcune ipotesi ritenute particolarmente meritevoli di tutela, può lui stesso “sollecitare” un trasferimento ovvero un distacco, ciò che per comodità definiamo “mobilità volontaria”, Questo ultimo fenomeno, di cui ci si occuperà più specificamente nel prosieguo, è tipico del rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato e pone all’attenzione dell’interprete una serie di questioni che scaturiscono dall’inevitabile tensione tra il diritto e/o l’interesse del dipendente, per come tutelato dal legislatore, da un lato, e, dall’altro, la residua discrezionalità lasciata all’Amministrazione nell’esercizio del proprio potere. In questa tensione si inserisce, inoltre, il principio dell’inamovibilità del dipendente pubblico di prima nomina sancito dall’art. 35, comma 5-bis, del d.lgs. n. 165/01, che sembra anch’esso incompatibile con le suddette ipotesi di mobilità volontaria.

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Cfr. art. 1182 c.c. Cfr. art. 1174 c.c. Cfr. art. 2104, comma 2, c.c. Cfr. art. 2103 c.c. Cfr. art. 56 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151.

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2. L’assegnazione temporanea ex art. 42-bis del d.lgs. n. 151/01.

Una prima ipotesi di mobilità volontaria è contenuta nel testo unico in materia di sostegno alla genitorialità, ove si prevede espressamente che «Il genitore con figli minori fino a tre anni di età, dipendente di amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, può essere assegnato, a richiesta, anche in modo frazionato e per un periodo complessivamente non superiore a tre anni, ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione. L’eventuale dissenso deve essere motivato e limitato a casi o esigenze eccezionali. L’assenso o il dissenso devono essere comunicati all’interessato entro trenta giorni dalla domanda». La ratio della suddetta disposizione risiede nella tutela dei valori costituzionalmente garantiti dell’unità familiare e della cura della prole, consentendo ai bambini di poter godere nei primi anni di vita della presenza costante di entrambi i genitori6. Tutto ciò in linea anche con quanto stabilito dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata con l. n. 176/1991, secondo cui «Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati»7. L’istituto che pure è stato qualificato dalla dottrina come “trasferimento temporaneo”8, in realtà, del trasferimento non ha praticamente nulla, poiché, nella specie, la durata della modifica del luogo di lavoro è già predeterminata dal legislatore in complessivi tre anni, differentemente da quanto avviene per il trasferimento disciplinato dall’art. 2013 cod. civ., che è tendenzialmente definitivo. Semmai, a voler costruire delle analogie, l’istituto in parola è molto più vicino ad un distacco, dal quale, però, si discosta in ragione dell’interesse sotteso al mutamento di sede, che nel nostro caso è prevalentemente del lavoratore e non del datore. Inoltre, come si è in premessa anticipato, qui non si tratta dell’esercizio del tipico potere datoriale di trasferire il dipendente da un’unità produttiva all’altra, bensì di un’iniziativa dello stesso dipendente che, per accedere al beneficio, ha l’onere di formulare apposita richiesta, indicando i requisiti per l’applicazione della norma. Tali requisiti sono: a) l’essere genitore con figlio di età inferiore a tre anni; b) lo svolgimento da parte del coniuge di

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Cons. Stato, ord. 26 febbraio 2016, n. 685, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, 14 aprile 2015, n. 2426, in www.giustiziaamministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, 25 maggio 2017, n. 1181, inedita; Trib. Lanciano, 8 maggio 2017, inedita; Trib. Busto Arsizio, 12 novembre 2014, inedita; Trib. Siracusa, 29 ottobre 2012, inedita; Trib. Bari, 20 marzo 2012, inedita; Trib. Novara, 29 giugno 2009, inedita; Tar Catania, 22 aprile 2016, inedita. Cfr. art. 3, comma 1, della Legge 27 maggio 1991, n. 176. Gottardi, La tutela della maternità e della paternità, in Zatti, Lenti (a cura di), Trattato di diritto di famiglia, Vol. VI, Tutela civile del minore e diritto sociale della famiglia, Milano, 2012, 536 ss.

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una qualsiasi attività lavorativa in altra provincia o regione. Inoltre, pur non essendovi altri requisiti espressamente previsti dalla norma, la giurisprudenza di merito ha valorizzato ulteriori aspetti quali, ad esempio, la separazione fra i coniugi ed il grave stato di salute del figlio che, all’occorrenza, sembra opportuno vengano specificati dal dipendente che intenda accedere al beneficio9. Mentre non sembra necessario indicare le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, in quanto la norma non differenzia la disciplina in ragione della natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro del coniuge. Nel campo di applicazione soggettivo della norma sono ricompresi anche i genitori affidatari o adottivi10. In tal caso, la richiesta andrà effettuata nei primi tre anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età dello stesso. Sicché, in questa ipotesi la finalità perseguita dal legislatore è anche quella del miglior inserimento del minore nel nuovo nucleo familiare, esigenza, questa, che giustifica la concessione del beneficio anche qualora il bambino affidato o adottato sia di età superiore a tre anni, senza remore per eventuali disparità di trattamento. Anzi, la suddetta estensione del campo di applicazione è stata introdotta dal d.lgs. n. 119/11, proprio al fine di evitare un’irragionevole disparità di trattamento tra i genitori con figli legittimi o naturali e quelli con figli in affidamento o adozione, criticità, questa che la Corte costituzionale aveva già riconosciuto e superato con la nota sentenza del 1° aprile 2003, n. 1041111, in relazione ai riposi ex artt. 39, 40 e 41 del d.lgs. n. 151/01. Sempre in tema di campo di applicazione soggettivo, è controverso in giurisprudenza se la disposizione sia applicabile ai dipendenti della Polizia di Stato12, al personale militare13 e ai magistrati14, mentre è sicura l’esclusione per il personale della Guardia di Finanza15 e dei Carabinieri16. Si discute se la locuzione «figli minori fino a tre anni» vada interpretata nel senso che, in caso di dipendente con più figli, la richiesta possa essere inoltrata solo se tutti questi hanno età inferiore a tre anni. La tesi meno rigorosa, tuttavia, nel dubbio sul tenore letterale, sembra preferibile alla luce di un’interpretazione teleologica, posto che l’esigenza di cura può sussistere anche in relazione ad uno solo dei figli. Ancora, altro aspetto problematico della norma è che essa non precisa se il figlio debba essere già nato al momento in cui il dipendente formula la propria richiesta al datore di lavoro pubblico. La lacuna, in realtà, sembra agevolmente superabile, anche qui in base ad un’interpretazione teleologica, in quanto, posto che la finalità della norma, come si è visto, è quella di garantire la cura della prole, nonché l’unità familiare, dovrebbe propendersi

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Si veda, in questo senso, Tar Lazio – Roma, 15 gennaio 2018, n. 423, inedita. Cfr. art. 45, comma 2-bis, del d.lgs. n. 151/01. 11 Corte cost., 1 aprile 2003, n. 104, in D&G, 2003, 18, con nota di Garufi, che ha sancito la parziale illegittimità dell’art. 45, comma 1, del d.lgs. n. 151/01 nella parte in cui prevedeva che il diritto a fruire dei riposi di cui agli art. 39, 40 e 41 potesse essere esercitato solo entro il primo anno di vita del bambino, escludendo di fatto i genitori adottivi o affidatario il cui figlio avesse più di un anno. 12 In senso affermativo, tra le tante, Tar Roma, 3 maggio 2011, n. 3760, in FA, 2010, 7-8, 2471, che ravvisa nella mancata applicazione della previsione una incostituzionale discriminazione; Contra, tra le tante, Tar Firenze, 1° marzo 2011, in FA, 2011, 3, 800. 13 Tra le tante, Tar Bologna, 16 aprile 2014, n. 415, in FA, 2014, 4, 1198. 14 Tra le tante, Tar Roma, 4 gennaio 2006, n. 57, in D&G, 2006, 56, con nota di Santalucia. 15 Cons. Stato, 10 luglio 2007, n. 3876, in www.giustizia-amministrativa.it. 16 Cons. Stato, 28 dicembre 2005, n. 7472, in FA, 2005, 3625. 10

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per la necessità che il figlio sia già nato e non meramente concepito. Inoltre, sembrerebbe far propendere per questa tesi anche un’interpretazione sistematica, tenuto conto che, nel periodo della gravidanza vige un periodo di astensione obbligatoria dal lavoro di cinque mesi, che può essere ulteriormente prorogato in caso di astensione facoltativa, con la conseguenza che, in tale periodo, le esigenze di cura del nascituro possono essere integralmente soddisfatte senza bisogno di ricorrere all’istituto dell’assegnazione temporanea. Non può, tuttavia, escludersi che, in alcuni casi, vi sia un interesse del dipendente ad anticipare la richiesta di assegnazione temporanea, come, ad esempio, qualora la lavoratrice madre intenda “agganciare” il periodo di astensione per maternità con quello di assegnazione temporanea, al fine di evitare il rientro in servizio in un luogo di lavoro troppo distante dall’abitazione familiare. In queste ipotesi, pur residuali, una richiesta di assegnazione temporanea ad altra amministrazione formulata già in corso di gravidanza sembra comunque coerente con le finalità dell’art. 42-bis cit. Inoltre la soluzione appare ragionevole anche da un punto di vista sistematico, considerato che l’ordinamento si muove nel senso del progressivo riconoscimento in favore del concepito dei diritti attribuiti al bambino già nato17. Tutto ciò fermo restando, ovviamente, che l’assegnazione temporanea ad altra pubblica amministrazione sarà comunque vincolata all’effettiva nascita del bambino. Non si tratta di diritto sottoposto a condizione risolutiva, come avviene, ad esempio, ai sensi dell’art. 462 cod. civ., secondo cui il concepito può essere titolare di diritti successori mortis causa solo subordinatamente all’evento nascita18, in quanto la condizione opera rispetto ad un diritto di cui è titolare il concepito stesso; nella specie, invece, si tratta, più semplicemente, del venir meno di uno dei requisiti indispensabili ai fini della concessione del beneficio dell’assegnazione temporanea in capo al dipendente “genitore”, come si è visto in precedenza. Infine, non è chiaro se il limite di tre anni di età del bambino valga solo come termine ultimo entro cui effettuare l’istanza, ovvero indichi il termine massimo entro il quale deve necessariamente concludersi l’assegnazione provvisoria. Un’interpretazione letterale dell’art. 42-bis cit. dovrebbe far propendere per la prima soluzione, in quanto la norma in parola fa riferimento all’assegnazione, non alla permanenza in servizio del dipendente presso la nuova amministrazione; sicché il limite dei tre anni dovrebbe essere riferito esclusivamente alla prima e non a quest’ultima e, dunque, anche successivamente al compimento dei tre anni da parte del bambino, la durata della prestazione lavorativa presso la nuova amministrazione dovrebbe restare quella originariamente richiesta. Maggiori perplessità potrebbero aversi in caso di richiesta di godimento frazionato, qualora le ultime frazioni cadano nel periodo in cui il minore ha già compiuto i tre anni; in tal caso, tuttavia, la scelta se concedere o no queste frazioni ulteriori di assegnazione ad altra amministrazione ricadrà esclusivamente sul datore di provenienza, il quale «può» esaudire la richiesta del proprio dipendente anche per periodi inferiori a quelli da lui proposti.

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Cass., Sez. III, 10 marzo 2014, n. 5509, in D&R, 2014, 837, con nota di Crusco, Essere o non essere soggetto di diritto: il dilemma da superare per la tutela del concepito?; Cass., Sez. I, 8 agosto 2014, n. 17811, in Riv. not., 2014, p. 970; Cass., Sez. III, 3 maggio 2011, n. 9700, in NGCC, 2011, I, 1270 ss., con nota di Palmerini, Il concepito e il danno non patrimoniale. 18 Ferri, Disposizioni generali sulle successioni (Artt. 465-511), in Scialoja, Branca (diretto da), Comm. cod. civ., Bologna-Roma, 1997, 151; Bianca, Diritto Civile, Vol. II., Milano, 1985, 402.

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Il legislatore sembra mostrare un certo favor per l’istituto in parola, vista la brevità del termine, trenta giorni, entro cui il dipendente deve ricevere comunicazione dell’assenso o del dissenso delle amministrazioni di provenienza e di destinazione. Si tratta, comunque, di termine meramente acceleratorio, e non perentorio, considerata l’assenza di sanzioni per la sua violazione; sicché le eventuali conseguenze per il lavoratore potranno essere fatte valere esclusivamente sul piano risarcitorio. A ciò si aggiunge che la motivazione de “l’eventuale dissenso” deve essere espressa19, non potendosi ritenere congrua argomentazione motivazionale il generico richiamo a gravi carenze di organico20. D’altronde la novella apportata dalla l. n. 124/2015, che ha introdotto, alla fine del secondo periodo del primo comma, le parole «e limitato a casi o esigenze eccezionali» è nel senso di rafforzare ulteriormente l’obbligo per l‘Amministrazione di un più stringente onere motivazionale nel caso in cui l’istanza sia rigettata21. In alcune occasioni in cui il datore non aveva motivato il diniego o, comunque, non aveva dimostrato l’assenza di posti vacanti o disponibili in organico, la giurisprudenza di merito si è spinta fino a disporre d’ufficio il mutamento del luogo di lavoro, addirittura in sede di ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c., verso la sede desiderata dal dipendente22. Va segnalato tuttavia che, fra i validi motivi di dissenso, vi è l’assenza di posti «vacanti e disponibili» presso l’Amministrazione di destinazione e nella corrispondente posizione retributiva; sicché il beneficio può essere negato in considerazione non solo delle esigenze di servizio della struttura di provenienza, ma anche di quella di destinazione23, da valutare comunque in concreto, e cioè alla luce delle piante organiche dell’Ente ed anche in relazione alle disponibilità pubblicate sul sito istituzionale di cui all’art. 30 del d.lgs. n. 165/01 cit., eventualmente da acquisire mediante accesso agli atti24. Al riguardo, sembra corretto affermare che la sussistenza di un posto vacante è elemento idoneo, ma non sufficiente, per la concessione del beneficio, come suggerisce un’interpretazione letterale della norma, basata sul criterio della non ridondanza del legislatore, che impone di attribuire un senso compiuto alla locuzione «vacanti e disponibili»; sicché, ad esempio, il beneficio potrebbe essere negato perché l’Amministrazione, pur avendo un posto vacante, non è disponibile a coprirlo per ragioni di spesa ovvero perché intende far fronte alla mancanza mediante riorganizzazione delle piante organiche, e quant’altro.

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In tal senso, si vedano Cons. Stato, 5 dicembre 2014, n. 6031, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, 10 aprile 2006, n. 1964, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, 4 giugno 2004, n. 3164; Cons. Stato, 30 maggio 2005, n. 2831, in www.giustiziaamministrativa.it; Tar Catania, 22 aprile 2016, n. 1166, in FA, 2016, 4, 1098; Trib. Roma, 11 giugno 2015, n. 62107, inedita; Trib. Roma, 24 febbraio 2015, inedita; Trib. Busto Arsizi, o 12 novembre 2014, in RIDL, 2015, II, 447, con nota di Falsone; Trib. Novara, 29 giugno 2009, in Il civilista, 2010, 6, 83; Tar Abruzzo, Pescara, 22 maggio 2003, n. 536, inedita; Tar Sicilia, Palermo, 11 febbraio 2003, n. 169, inedita. 20 Tar Puglia, Bari, 26 gennaio 2018, n. 108, inedita. 21 Cons. Stato, 1° aprile 2016, n. 1317, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Emilia Romagna, Bologna, 2 novembre 2017, n. 713, inedita; Tar Lombardia, Milano, 11 agosto 2017, n. 1757, inedita; Tar Lazio, Roma, sez. I quater, 3 marzo 2017 n. 3091, inedita. 22 Trib. Milano, 16 aprile 2014, in Giustiziacivile.com, 15 aprile, con nota di De Simone; Trib. Reggio Calabria, 20 dicembre 2010, inedita. 23 Cons. Stato, 18 maggio 2017, n. 2352, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, 3 agosto 2015, n. 3805, in www.giustiziaamministrativa.it; Cons. Stato, 5 dicembre 2014, n. 6031, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Veneto 16 febbraio 2018, n. 185, inedita; Tar Veneto 4 agosto 2016 n. 941, inedita; Tar Lazio, Roma, 3 ottobre 2014, n. 10184, inedita. 24 Tar Sicilia – Catania, 29 marzo 2017, n. 667, inedita.

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Ipotesi di mobilità volontaria del lavoratore pubblico e criticità applicative per i dipendenti di prima nomina

Il tenore testuale della norma («corrispondente posizione retributiva») pare escludere categoricamente la configurabilità di un trasferimento con adibizione a mansioni diverse, superiori o inferiori, a quelle precedentemente svolte. In realtà, a ben vedere, non si vede per quale motivo, in caso di accordo fra dipendente e Pubblica Amministrazione, quest’ultima non possa modificare le mansioni di assunzione, pur con il limite, tipico del pubblico impiego, dell’inapplicabilità della promozione automatica in caso di assegnazione a mansioni superiori25. Ovviamente la questione andrebbe rimessa alla Corte costituzionale, in quanto la norma, per come è scritta attualmente, sembrerebbe precludere l’autonomia delle parti nel perseguimento dei propri fini, ostacolando, da un lato, l’interesse del dipendente ad ottenere la ricongiunzione familiare, dall’altro, quello dell’Amministrazione di destinazione a reperire una risorsa necessaria, anche se non per adibirla alle mansioni di provenienza. Senza dire che, in caso di assegnazione a mansioni superiori vi sarebbe altresì l’interesse del dipendente, anch’esso rilevante, all’acquisizione di un bagaglio di competenze di maggior rilievo professionale.

3. (Segue) Le agevolazioni ex art. 33 della l. n. 104/92. Una seconda ipotesi di mobilità volontaria è quella prevista dall’art. 33, comma 5, della l. 5 febbraio 1992, n. 104, secondo cui «Il lavoratore di cui al comma 3 (e cioè «Il lavoratore dipendente, pubblico o privato che assiste persona con handicap in situazione di gravità», ndr.), ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere». La persona con handicap in situazione di gravità deve essere il coniuge, ovvero un parente, ovvero un affine entro il secondo grado, ovvero ancora entro il terzo grado qualora il genitore o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti26. Tale disciplina si applica «anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto»27 e, comunque, quando sia il lavoratore stesso ad usufruire per sé dei benefici della l. n. 104/92. Ai fini dell’accoglimento della richiesta, è necessario, dunque, che il disabile si trovi in condizioni di gravità, e cioè che, ai sensi dell’art. 3, comma 3, della l. n. 104/92, abbia subito «una minorazione singola o plurima che abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione». Pertanto, vista l’inequivocità del tenore testuale della norma, non paiono condivisibili quelle tesi che vorrebbero riconoscere il beneficio anche qualora la situazione di handicap

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In questo senso Vallauri, in De Luca Tamajo, Mazzotta, Commentario breve alle leggi sul lavoro, 2018, 1567. Cfr. art. 33, comma 3, Legge 5 febbraio 1992, n. 104. 27 Cfr. art. 20 della Legge 8 marzo 2000, n. 53. 26

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Roberto Maurelli

non presenti il suddetto requisito della gravità, applicando alla fattispecie concreta in parola un orientamento giurisprudenziale28, formatosi in tema di divieto di trasferimento29. Tanto è vero che questo isolato orientamento giurisprudenziale, per controbilanciare la suddetta interpretazione estensiva, è costretto ad introdurre un limite non previsto dal legislatore, e cioè quello dell’effettività ed urgenza delle esigenze aziendali di mutamento del luogo di lavoro, in presenza delle quali tornerebbe ad essere necessario un handicap in situazione di gravità, restando esclusa la concessione del benefico in caso di mero handicap non grave. Sembra invece coerente con le finalità dell’istituto ritenere che la scelta della sede possa essere effettuata anche in un momento successivo a quello del manifestarsi dell’handicap in situazione di gravità30, in quanto il legislatore non ha voluto che il momento dell’insorgenza della malattia, o comunque della sua diagnosi, faccia da sbarramento ad una successiva istanza del lavoratore che intenda accedere al beneficio. Nonostante la terminologia utilizzata dal legislatore («ha diritto») l’inciso «ove possibile» configura, anche in questo caso, la posizione del dipendente come interesse legittimo, in quanto subordinato a valutazione discrezionale dell’Amministrazione31. Invero, anche in questa ipotesi, l’Amministrazione può rifiutare la richiesta avanzata dal dipendente, purché tale rifiuto sia motivato con ragioni oggettive attinenti all’organizzazione del lavoro e, secondo parte della giurisprudenza, perfino preceduto da preavviso di rigetto ai sensi dell’art. 10 della l. n. 241/9032; l’onere di provare la sussistenza di ragioni organizzative, tecniche e produttive che impediscono l’accoglimento delle richieste del dipendente grava sulla parte datoriale33. Nel silenzio della norma, la giurisprudenza ha chiarito quali siano le esigenze organizzative da prendere in considerazione, ravvisandole nella circostanza che, presso la sede richiesta, vi sia una collocazione compatibile con lo «stato» del dipendente, e che l’assegnazione possa, dunque, avvenire nel limite delle posizioni organiche previste per il ruolo e il grado34. Sempre in via interpretativa è stato altresì chiarito che l’eventuale diniego dell’Amministrazione deve essere espressamente motivato, in quanto «Il trasferimento ai sensi dell’art. 33, comma 5, l. n. 104 del 1992 può essere negato solo se ne conseguano effettive e ben individuate criticità per l’Amministrazione, la quale ha l’onere di indicarle in maniera compiuta per rendere percepibile di quali reali pregiudizi risentirebbe la sua azione»35. Né sarebbe sufficiente un diniego basato su motivazioni di scarso rilievo o comunque relative a difficoltà facilmente superabili da parte dell’Amministrazione36, configurandosi

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Cass. 12 dicembre 2016, n. 25379, in GLav, 2017, 45, 23 ss., con nota di Cherubini, Trasferimento di lavoratore che assiste un disabile; Cass. 7 giugno 20120, n. 9201, in MGC, 2012, 6, 751. 29 Cfr. art. 33, comma 5, secondo periodo, l. n. 104/92. 30 Cass., 18 febbraio 2009, n. 3896, in GD, 2009, 12, 55. 31 In questo senso anche Tar Lombardia – Milano, 8 agosto 2017, n. 1751, inedita. 32 Tar Toscana – Firenze, 11 luglio 2017, n. 926, in www.giustizia-amministrativa.it. 33 Cass., 11 ottobre 2017, n. 23857, in www.cortedicassazione.it; Cass., 19 maggio 2017, n. 12729, in www.cortedicassazione.it; Cass., 27 marzo 2008, n. 7945, in DF, 2009, 1, 39. 34 Cons. Stato, 16 febbraio 2018, n. 987, in www.giustizia-amministrativa.it. 35 Tar Lombardia – Milano, 11 gennaio 2018, n. 59, inedita. 36 Cons. Stato, 20 dicembre 2017, n. 5983, in www.dirittoegiustizia.it.

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Ipotesi di mobilità volontaria del lavoratore pubblico e criticità applicative per i dipendenti di prima nomina

altrimenti l’agire del datore di lavoro come elusione della normativa di favore per il dipendente. In sostanza, come per il rapporto di lavoro privato, la condotta datoriale deve comunque essere improntata ai canoni di buona fede e correttezza, che qui, peraltro, vanno valutati con particolare rigore, sia perché si tratta di soggetti pubblici, sia perché gli interessi in gioco coinvolgono diritti costituzionalmente tutelati, di rango superiore all’efficienza ed al buon andamento della pubblica amministrazione. Non è previsto un termine massimo per la durata del trasferimento, ma è insito nella ratio dell’istituto che esso sia comunque temporaneo in quanto legato alle esigenze di cura dell’invalido. Tanto è vero che in caso di decesso dell’assistito il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima la revoca del provvedimento37. Ovviamente per tutto il periodo di mobilità si applica altresì il divieto al trasferimento presso altra sede senza il consenso del dipendente, ai sensi dell’art. 33, comma 5, secondo periodo, della l. n. 104/9238.

4. Il vincolo della permanenza quinquennale nella sede di prima destinazione: problemi e soluzioni.

Quanto detto finora in tema di mobilità del lavoratore pubblico sembrerebbe trovare un ostacolo, per i dipendenti di prima nomina, nell’art. 35, comma 5-bis, del d.lgs. n. 165/01, inserito ad opera della l. n. 266/05, il quale prevede che «I vincitori dei concorsi devono permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi». Preliminarmente va chiarito che il divieto non è assoluto già solo perché la norma consente una deroga a livello individuale, avendo escluso tale derogabilità in favore del dipendente solo al livello della contrattazione collettiva. Inoltre va sottolineato che l’art. 1, comma 29, del d.l. n. 138/11, convertito in l. n. 148/11, ha ormai riaffermato il principio generale della mobilità dei dipendenti in presenza di esigenze tecniche, organizzative e produttive, senza distinguere fra personale di prima nomina e personale già in servizio da oltre cinque anni. La norma in parola, infatti, prevede espressamente che «I dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, esclusi i magistrati, su richiesta del datore di lavoro, sono tenuti ad effettuare la prestazione in luogo di lavoro e sede diversi sulla base di motivate esigenze, tecniche, organizzative e produttive con riferimento ai piani della performance o ai piani di razionalizzazione, secondo criteri ed ambiti regolati dalla contrattazione collettiva di comparto».

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Cons. Stato, 6 novembre 2017, n. 5125; Cons. Stato, 9 ottobre 2017, n. 4671, entrambe in www.dirittoegiustizia.it. In questo senso si veda Cass., 12 ottobre 2017, n. 24015, in www.cortedicassazione.it, che ha affermato addirittura il diritto all’inamovibilità in relazione allo spostamento nella medesima unità produttiva, che non costituirebbe neppure trasferimento.

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Sicché il legislatore ha ribadito, con norma successiva rispetto all’art. 35 cit., che, anche nel pubblico impiego contrattualizzato, si applicano, a prescindere dall’anzianità di servizio dei dipendenti, i medesimi criteri di cui all’art. 2103 cod. civ., secondo cui la mobilità del lavoratore è subordinata, appunto, a «comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive». Tale principio è stato ulteriormente ribadito dall’art. 16 della l. n. 183/11, il quale prevede la ricollocazione del personale in soprannumero presso altre amministrazioni, fornendo, in sostanza, una tipizzazione legale delle ragioni tecniche, organizzative e produttive, qui consistente, appunto, nell’eccedenza di personale. Senza dire che un obbligo di permanenza nella sede di prima destinazione non è previsto neppure dal successivo comma 5-ter dell’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001, il quale prevede che l’amministrazione può richiedere come requisito di partecipazione alla procedura pubblica selettiva la residenza dei partecipanti in una determinata zona geografica del Paese (c.d. “territorializzazione”). Tutto ciò peraltro è in linea con quanto previsto dall’art. 1, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 165/01, che pone il principio dell’applicazione ai rapporti di pubblico impiego di condizioni uniformi rispetto al lavoro privato, nonché dall’art. 2, comma 2, del d.lgs. cit., secondo cui tali rapporti sono disciplinati dal Capo I del Titolo II, del Libro V del Codice civile, tra cui figura anche l’art. 2103 cod. civ. Pertanto si ritiene che, nella specie, le ipotesi di mobilità volontaria che si sono viste sopra sub parr. 2 e 3, siano configurabili anche in relazione ai dipendenti di prima nomina, posto che l’esistenza di posti vacanti presso altra amministrazione, da occupare ai sensi dell’art. 42-bis del d.lgs. n. 151/01 ovvero dell’art. 33 della l. n. 104/92, è certamente idonea ad integrare l’esigenza tecnica, organizzativa e produttiva da porre a base del provvedimento di trasferimento/distacco ai sensi dell’art. 1, comma 29, del d.l. n. 138/11 cit. Tale provvedimento consentirebbe, infatti, non solo la copertura dei suddetti posti vacanti, ma anche una migliore organizzazione complessiva degli uffici, consentendo che la dotazione organica degli stessi sia composta da dipendenti in condizione di conciliare al meglio le esigenze di vita con quelle lavorative, così contrastando anche il fenomeno del falso assenteismo, dietro cui spesso si celano situazioni personali difficili attinenti alla cura e assistenza di familiari e/o minori. A voler ragionare diversamente, l’art. 35 del d.lgs. n. 165/01, sarebbe costituzionalmente illegittimo, poiché imporrebbe un’inammissibile discriminazione fra personale appartenente ai medesimi uffici in ragione esclusivamente dell’anzianità di servizio. Il che peraltro sarebbe anche palesemente irragionevole, posto che il personale con minore anzianità di servizio è anche quello che ha una minore conoscenza del singolo ufficio cui è stato adibito in prima destinazione; sicché non vi è alcuna ragione organizzativa che faccia propendere per una sua inamovibilità da tale ufficio. Inoltre la medesima disparità di trattamento si avrebbe tra personale assunto per concorso, per il quale vigerebbe l’inamovibilità per cinque anni, e personale assunto in via diretta. A ciò si aggiungerebbe, infine, un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale consistente nella violazione degli interessi costituzionalmente tutelati alla cura e all’assistenza della famiglia e dei minori, valori questi che, come si è visto sopra, sono preminenti rispetto al principio dell’efficienza e del buon andamento della pubblica amministrazione.

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Giurisprudenza commentata



Giurisprudenza C orte di giustizia UE, sentenza 17 aprile 2018; cause riunite C-195/17, da C-197/17 a C-203/17, C-226/17, C-228/17, C-254/17, C-274/17, C-275/17, da C-278/17 a C-286/17 e da C-290/17 a C-292/17; Pres. Bay Larsen – Rel. Šváby – Avv. Gen. E. Tanchev – H.K. e altri (avv.ti Degott, Kleinmann, Kleinmann, Diekmann, Weist, Michel, Lucar-Jung, Steding) c. TUIfly GmbH (avv.ti Kauffmann, Witt). Diritto di sciopero – Sciopero selvaggio nel settore aereo – Cancellazione del volo – Responsabilità del vettore – Sussistenza.

L’assenza spontanea di una parte del personale di volo, non legittimata dal diritto nazionale (“sciopero selvaggio”), non rientra automaticamente tra le “circostanze eccezionali” che, ai sensi dell’art. 5, par. 3 del Reg. (CE) n. 261/2004, esonerano il vettore aereo dall’obbligo di corrispondere ai passeggeri la compensazione pecuniaria dovuta in caso di cancellazione del volo. (Fattispecie relativa a un vettore aereo tedesco che, in seguito alla diffusione dell’avviso di un’imminente ristrutturazione aziendale, era stato costretto a cancellare i voli inizialmente programmati, a causa dell’astensione dal lavoro di numerosi membri del personale, non preceduta da alcuna valida proclamazione sindacale). 1. Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’articolo 5, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato e che abroga il regolamento (CEE) n. 295/91 (GU 2004, L 46, pag. 1). 2. Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie tra taluni passeggeri e la TUIfly GmbH, un vettore aereo, in merito al rifiuto di quest’ultimo di versare una compensazione a tali passeggeri, i cui voli hanno subito un ritardo prolungato o sono stati cancellati. – Omissis. 6. I ricorrenti in via principale hanno tutti effettuato presso la TUIfly delle prenotazioni di voli che dovevano essere effettuati da tale vettore tra il 3 e l’8 ottobre 2016. 7. Come risulta dalle decisioni di rinvio, tali voli sono stati cancellati o hanno subito un ritardo pari o superiore a tre ore rispetto all’orario di arrivo a causa di un numero eccezionale di assenze del personale della TUIfly giustificate per malattia, conseguenti alla comunicazione, il 30 settembre 2016, di piani di ristrutturazione da parte della direzione di tale vettore aereo al suo personale. 8 Risulta altresì da tali decisioni che, mentre abitualmente la percentuale di assenze del personale per malattia relativa al personale della TUIfly è di circa il 10%, la percentuale tra il 1° ottobre 2016 e il 10 ottobre 2016 è stata soggetta ad un significativo aumento tra il 34% e l’89% quanto ai piloti e tra il 24% e il 62% quanto all’equipaggio di cabina.

9. Di conseguenza, a decorrere dal 3 ottobre 2016, la TUIfly abbandonava completamente il suo piano dei voli originario, stipulava accordi di subnoleggio con altre compagnie aeree e disponeva il rientro del personale in ferie. 10. Tuttavia, a causa di dette assenze del personale, il 3 ottobre 2016, 24 voli hanno subito un notevole ritardo. Il 4 ottobre 2016, 29 voli hanno subito parimenti un notevole ritardo e 7 voli sono stati cancellati. Dal 5 ottobre 2016 veniva cancellata gran parte dei voli. Il 7 e l’8 ottobre 2016 venivano cancellati dalla TUIfly tutti i voli in partenza dalla Germania. 11. La sera del 7 ottobre 2016, la direzione della TUIfly ha informato il proprio personale che era stato trovato un accordo con i rappresentanti di quest’ultimo. 12. Tenuto conto di tale situazione che essa ha qualificato come “circostanze eccezionali”, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004, la TUIfly ha rifiutato di corrispondere ai ricorrenti in via principale la compensazione prevista dall’articolo 5, paragrafo 1, lettera c), iii), e dall’articolo 7 del medesimo regolamento, come interpretati dalla Corte. – Omissis. il giudice del rinvio, l’Amtsgericht Hannover (Tribunale circoscrizionale di Hannover, Germania), osserva che, secondo la giurisprudenza tedesca, lo stato di malattia di un membro dell’equipaggio, almeno qualora non sia stato causato dall’esterno ad opera di terzi attraverso un atto di sabotaggio, e il fatto che sia necessario procedere alla sua sostituzione non costituiscono “circostanze eccezionali” ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004.


Giurisprudenza

14 Pur interrogandosi sulla possibilità di qualificare le circostanze di fatto che hanno dato luogo alle controversie di cui è investito quali “circostanze eccezionali”, poiché tali situazioni riguardano una percentuale di assenze che non si riscontra nell’ambito del normale esercizio dell’attività di un vettore aereo, bensì, come sostenuto dalla convenuta principale, segnatamente in caso di “sciopero selvaggio” o di un appello al boicottaggio diffuso dal personale stesso, tale giudice ritiene tuttavia che si debba concludere nel caso di specie che non sussistono “circostanze eccezionali”. 15. Infatti, da un lato, detto giudice sottolinea il fatto che il vettore aereo di cui trattasi in via principale ha potenzialmente contribuito al verificarsi di tale percentuale di assenze annunciando misure di ristrutturazione dell’impresa. Dall’altro, anche se la maggioranza dei giudici tedeschi riconosce l’esistenza di “circostanze eccezionali” in caso sia di sciopero interno che esterno, nelle controversie di cui è investito l’Amtsgericht Hannover (Tribunale circoscrizionale di Hannover), l’assenza del personale sarebbe il risultato di un appello che invitava taluni membri del personale del vettore aereo interessato a porsi in congedo di malattia e non proverrebbe quindi ufficialmente da un sindacato. Un siffatto movimento sociale si distinguerebbe pertanto da uno sciopero ufficiale e dovrebbe essere qualificato come “sciopero selvaggio”, al quale non si applicherebbe il diritto alla libertà sindacale. – Omissis. 18. Ciò premesso, l’Amtsgericht Hannover (Tribunale circoscrizionale di Hannover) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: “1) Se l’assenza per malattia di una parte – rilevante ai fini dell’effettuazione dei voli – del personale del vettore aereo operativo costituisca [“circostanze eccezionali”] ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, del [regolamento n. 261/2004]. In caso di risposta affermativa alla prima questione, quanto elevata debba essere la percentuale di assenze per riconoscere [siffatte circostanze]. 2) In caso di risposta negativa alla prima questione: se l’assenza spontanea di una parte – rilevante ai fini dell’effettuazione dei voli – del personale del vettore aereo operativo, in ragione di una sospensione del lavoro non legittimata dalla normativa in materia di lavoro e dai contratti collettivi (“sciopero selvaggio”) rappresenti [“circostanze eccezionali”] ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, del [regolamento n. 261/2004]. In caso di risposta affermativa alla seconda questione, quanto elevata debba essere la percentuale di assenze per riconoscere [siffatte circostanze]. 3) In caso di risposta affermativa alla prima o alla seconda questione, se [le circostanze eccezionali debbano essersi verificate] proprio in relazione al volo cancellato o se il vettore aereo operativo pos-

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sa predisporre un nuovo piano dei voli per considerazioni di carattere economico. 4) In caso di risposta affermativa alla prima o alla seconda questione, se ai fini dell’evitabilità assuma [no rilievo le circostanze eccezionali] o piuttosto le conseguenze del [loro] verificarsi”. – Omissis. 32. Possono essere considerati “circostanze eccezionali”, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004 gli eventi che, per la loro natura o la loro origine, non sono inerenti al normale esercizio dell’attività del vettore aereo in questione e sfuggono all’effettivo controllo di quest’ultimo (sentenza del 4 maggio 2017, Pešková e Peška, C-315/15, EU:C:2017:342, punto 22 e giurisprudenza citata). 33. Ai sensi del considerando 14 di detto regolamento siffatte circostanze possono, in particolare, ricorrere nel caso di scioperi che si ripercuotono sull’attività di un vettore aereo operativo. 34. A tale proposito la Corte ha già avuto modo di precisare che le circostanze previste in tale considerando non sono necessariamente e automaticamente cause di esonero dall’obbligo di compensazione pecuniaria di cui all’articolo 5, paragrafo 1, lettera c), del regolamento n. 261/2004 (v., in tal senso, sentenza del 22 dicembre 2008, Wallentin-Hermann, C-549/07, EU:C:2008:771, punto 22) e che, di conseguenza, occorre valutare, caso per caso, se esse soddisfino le due condizioni cumulative ricordate al punto 32 della presente sentenza. 35. Infatti, emerge dalla giurisprudenza della Corte che non ogni evento inaspettato deve necessariamente essere qualificato come “circostanz[a] eccezional[e]”, nel senso di cui al punto precedente, bensì si può considerare che siffatto evento inaspettato sia inerente al normale esercizio dell’attività del vettore aereo in questione (v., in tal senso, sentenza del 17 settembre 2015, van der Lans, C-257/14, EU:C:2015:618, punto 42). 36. Inoltre, considerati l’obiettivo del regolamento n. 261/2004, che consiste, come emerge dal suo considerando 1, nel garantire un elevato livello di protezione per i passeggeri e il fatto che l’articolo 5, paragrafo 3, di tale regolamento, deroga al principio del diritto in capo ai passeggeri alla compensazione pecuniaria in caso di cancellazione o ritardo significativo di un volo, la nozione di “circostanze eccezionali”, ai sensi di quest’ultimo paragrafo, va interpretata restrittivamente (v., in tal senso, sentenza del 22 dicembre 2008, Wallentin-Hermann, C-549/07, EU:C:2008:771, punto 20). 37. È alla luce di tali elementi che occorre stabilire se uno “sciopero selvaggio”, come quello di cui trattasi in via principale, possa essere qualificato come “circostanz[a] eccezional[e]”, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004. 38. Nel caso di specie, risulta dal fascicolo sottoposto alla Corte che lo “sciopero selvaggio” di parte del personale del vettore aereo in questione trae origine dall’annuncio a sorpresa da parte di quest’ultimo


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di una ristrutturazione dell’impresa. Tale annuncio ha fatto sì che, per circa una settimana, la percentuale di assenze del personale di volo è stata particolarmente elevata, a seguito di un appello diffuso non dai rappresentanti dei dipendenti dell’impresa, bensì spontaneamente dai dipendenti stessi che si sono messi in congedo di malattia. 39. Pertanto, è pacifico che tale “sciopero selvaggio” è stato avviato dal personale della TUIfly al fine di manifestare le sue rivendicazioni, nel caso di specie relative alle misure di ristrutturazione annunciate dalla direzione di tale vettore aereo. 40. Orbene, come giustamente rileva la Commissione europea nelle sue osservazioni scritte, le ristrutturazioni e le riorganizzazioni di imprese fanno parte delle normali misure di gestione delle stesse. 41. Pertanto, i vettori aerei possono normalmente trovarsi ad affrontare, nell’esercizio della loro attività, divergenze o conflitti con i membri del loro personale o con una parte di tale personale. 42. Pertanto, nel rispetto delle condizioni di cui ai punti 38 e 39 della presente sentenza, i rischi derivanti dalle conseguenze sociali che accompagnano siffatte misure devono essere considerati inerenti al normale esercizio dell’attività del vettore aereo in questione. 43. Inoltre, lo “sciopero selvaggio” di cui trattasi nella causa principale non può essere considerato come una circostanza che sfugge all’effettivo controllo del vettore aereo interessato. 44. Oltre al fatto che tale “sciopero selvaggio” trova la sua origine in una decisione di detto vettore aereo, occorre rilevare che, nonostante la percentuale di assenze elevata menzionata dal giudice del rinvio, tale “sciopero selvaggio” è cessato a seguito di un accordo di detto vettore con i rappresentanti dei dipendenti. 45. Pertanto, uno sciopero simile non può essere qualificato come “circostanz[a] eccezional[e]”, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004, idonea a liberare il vettore aereo operativo dall’obbligo di compensazione pecuniaria su di esso

incombente a norma dell’articolo 5, paragrafo 1, lettera c), e dell’articolo 7, paragrafo 1, di tale regolamento. 46. Tale considerazione non può essere rimessa in discussione dal fatto che il suddetto movimento sociale dovrebbe essere qualificato, ai sensi delle disposizioni in materia sociale applicabili, come “sciopero selvaggio”, in quanto non è stato ufficialmente proclamato da un sindacato. 47. Infatti, procedere alla distinzione tra gli scioperi che, sulla base del diritto nazionale applicabile, sarebbero leciti e quelli che non lo sarebbero per determinare se debbano essere considerati “circostanze eccezionali”, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004, implicherebbe la conseguenza di far dipendere il diritto alla compensazione pecuniaria dei passeggeri dalle disposizioni in materia sociale di ciascuno Stato membro, pregiudicando così gli obiettivi del regolamento n. 261/2004, previsti nei considerando 1 e 4 dello stesso, di garantire un elevato livello di protezione per i passeggeri nonché condizioni armonizzate di esercizio dell’attività di vettore aereo nel territorio dell’Unione. 48. Alla luce di quanto precede, occorre rispondere alle due prime questioni nelle cause C-195/17, da C-197/17 a C-203/17, C-226/17, C-228/17, C-274/17, C-275/17, da C-278/17 a C-286/17, C-290/17 e C-291/17, nonché alle questioni nella causa C-292/17, dichiarando che l’articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004, letto alla luce del considerando 14 di quest’ultimo, deve essere interpretato nel senso che l’assenza spontanea di una parte significativa del personale di volo (“sciopero selvaggio”), come quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che trae origine dall’annuncio a sorpresa da parte di un vettore aereo operativo di una ristrutturazione dell’impresa, a seguito di un appello diffuso non dai rappresentanti dei dipendenti dell’impresa, bensì spontaneamente dai dipendenti stessi, i quali si sono messi in congedo di malattia, non rientra nella nozione di “circostanze eccezionali” ai sensi di tale disposizione. – Omissis.

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“Wilder Streik” ed effetti dell’azione collettiva nei rapporti tra l’imprenditore e i terzi Sommario : 1. “Sciopero selvaggio” e inadempimento del contratto di trasporto aereo. – 2. Il contesto nazionale di riferimento: brevi cenni sullo sciopero nell’ordinamento tedesco. – 3. Sciopero e impossibilità sopravvenuta. – 4. Conclusioni.

Sinossi. Prendendo spunto dall’esame della decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea, il contributo analizza alcuni dei principi che regolano il conflitto collettivo nel sistema giuridico tedesco, soffermandosi in particolare sulle questioni più strettamente connesse al tema dei c.d. “scioperi selvaggi”. I principali argomenti affrontati dalla Corte sono poi approfonditi attraverso il riferimento alle soluzioni offerte, nell’ordinamento italiano, al problema degli effetti dello sciopero nei rapporti tra l’imprenditore e i terzi.

1. “Sciopero selvaggio” e inadempimento del contratto di

trasporto aereo.

Pronunciandosi in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza in commento, ha dovuto chiarire se le società di trasporto aereo sono tenute a corrispondere ai propri clienti la compensazione pecuniaria prevista dal Reg. (CE) n. 261/2004 per il caso di ritardo o cancellazione del viaggio, anche quando questi siano dovuti a scioperi o ad altre azioni collettive del personale di volo. La questione si è posta nel corso di numerose controversie esaminate dai Tribunali circoscrizionali (Amtsgerichte) di Hannover e di Düsseldorf, tutte vertenti sulle medesime vicende. In seguito alla diffusione dell’avviso di un’imminente ristrutturazione aziendale, una compagnia aerea tedesca era stata costretta a fare fronte a un elevato numero di assenze dei propri dipendenti, formalmente giustificate da ragioni di malattia. A causa della ridotta disponibilità di personale, la società aveva dovuto modificare l’originaria programmazione dei voli e aveva cercato di arginare i disservizi stipulando accordi con altre imprese e disponendo il rientro dei lavoratori in ferie. Nonostante le misure adottate, tuttavia, gran parte degli aerei in partenza dalla Germania aveva subito considerevoli ritardi e molte prenotazioni erano state cancellate. Tale situazione, che si era protratta per circa una settimana, era cessata soltanto nel momento in cui la direzione aziendale era riuscita a raggiungere un accordo con i rappresentanti dei lavoratori. Qualificando i fatti accaduti come «circostanze eccezionali» ex art. 5, par. 3 del citato Regolamento, la società aveva rifiutato di pagare ai passeggeri degli aerei coinvolti l’in-

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dennità contemplata dagli artt. 5, par. 1 e 7 dello stesso testo normativo1. In particolare, ad avviso della compagnia di volo, la condotta tenuta dai propri dipendenti costituiva uno “sciopero selvaggio” (“wilder Streik”), ossia un’astensione collettiva dal lavoro realizzata in assenza di un formale intervento dei sindacati e giudicata illegittima nell’ordinamento tedesco. Conseguentemente, essa avrebbe dovuto essere considerata un evento straordinario e non evitabile, tale da eliminare ogni responsabilità imprenditoriale per la cancellazione dei voli. In favore di questa conclusione, sembrava deporre anche il considerando 14 del Regolamento europeo che, tra le ipotesi in grado di precludere il diritto alla compensazione, ricomprende anche gli «scioperi che si ripercuotono sull’attività di un vettore aereo operativo». Non convinti da tali argomentazioni, i giudici aditi hanno sottoposto il problema all’attenzione della Corte di Giustizia, la quale ha affermato che l’assenza spontanea di una parte dei piloti e del personale di cabina, non legittimata dal diritto nazionale, non rappresenta una causa di esonero dall’obbligo della società datrice di lavoro di indennizzare i passeggeri dei voli cancellati. Accogliendo le indicazioni provenienti da precedenti pronunce, questa decisione si basa sul rilievo per cui la nozione di circostanze eccezionali, evocata nel corso delle cause principali, si riferisce soltanto ad avvenimenti che a) «per la loro natura o la loro origine, non sono inerenti al normale esercizio dell’attività del vettore aereo» e b) «sfuggono all’effettivo controllo di quest’ultimo»2. Tali presupposti non ricorrono automaticamente ogni volta che si verifica uno dei casi elencati dal considerando 14 appena menzionato, ma devono essere accertati in concreto, alla luce delle caratteristiche della fattispecie considerata3. Questa conclusione trova conferma in una lettura in chiave teleologica delle disposizioni del Reg. n. 261/2004, il cui obiettivo consiste nel «garantire un elevato livello di protezione per i passeggeri»4. Poiché anche la compensazione pecuniaria risponde a questo fine, le previsioni che la escludono costituiscono delle eccezioni e, perciò, devono essere interpretate restrittivamente5. Seguendo questa impostazione, la Corte ha negato la possibilità di ricondurre nell’ambito delle circostanze eccezionali lo “sciopero selvaggio” che aveva avuto luogo nel caso di specie. Esso, infatti, era stato posto in essere dai lavoratori per protestare contro l’«annuncio a sorpresa» del vettore aereo di procedere a una ridefinizione del proprio assetto organizzativo. Pertanto, l’azione collettiva poteva essere annoverata tra i rischi che una società è normalmente tenuta ad affrontare là dove decida di attuare operazioni di questo tipo, che attengono pur sempre all’esercizio dell’attività d’impresa. D’altro canto, è stato evidenziato che la condizione di conflitto non fuoriusciva dalla sfera di controllo

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Su cui v. da ultimo Pepe, Inadempimento e compensazione pecuniaria nel trasporto aereo, in RDC, 2017, VI, 1639. In questo senso, v. ad es. C. giust., 4 maggio 2017, causa C-315/15, Pešková e Peška, in DM, 2018, I, 112 nota di Bussani. Analogamente, cfr. C. giust., 22 dicembre 2008, causa C-549/07, Wallentin-Hermann, in RDT, 2009, III, 801, con nota di Corona; C. giust., 17 settembre 2015, causa C-257/14, van der Lans, in D&G, 17 settembre 2015. Così il considerando 1 del Reg. (CE) n. 261/2004, che aggiunge: «andrebbero inoltre tenute in debita considerazione le esigenze in materia di protezione dei consumatori in generale». Per tale conclusione, oltre alla sentenza in commento, v. C. giust., 22 dicembre 2008 cit.

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del datore di lavoro, giacché, oltre a esser stata causata da una scelta imprenditoriale, era cessata non appena i vertici aziendali avevano accettato le richieste dei dipendenti. Così decidendo, i giudici di Lussemburgo hanno ribadito i principi già enunciati in altre differenti occasioni, nelle quali è andato emergendo un orientamento tendenzialmente sfavorevole alle società di trasporto aereo. In effetti, sulla base delle argomentazioni ora illustrate, il diritto all’indennità per la cancellazione del volo è stato riconosciuto anche quando questa era stata determinata da un improvviso problema tecnico, non imputabile a difetti di manutenzione6. Una soluzione di segno opposto, viceversa, è stata ammessa in presenza di accadimenti praticamente ineludibili come, ad esempio, la collisione del velivolo con un volatile7. Le pretese avanzate nei confronti del vettore, infine, sono state ritenute giustificate anche nella diversa ipotesi in cui esso aveva impedito a un passeggero di imbarcarsi su un volo successivo a quello prenotato, che era stato annullato a causa di uno sciopero del personale di un aeroporto8.

2. Il contesto nazionale di riferimento: brevi cenni sullo sciopero nell’ordinamento tedesco.

Come si è detto, la decisione della Corte di Giustizia ha ad oggetto una peculiare forma di azione collettiva che, nell’ordinamento giuridico tedesco, viene generalmente ritenuta contraria ad alcuni principi essenziali che informano il sistema di relazioni industriali, sui quali dunque può essere utile soffermarsi. In mancanza di leggi specificamente rivolte a disciplinare il conflitto sindacale, in Germania la materia è soggetta quasi esclusivamente a regole di matrice giurisprudenziale. Ciò vale soprattutto per il diritto di sciopero che, non trovando fondamento esplicito in alcuna previsione costituzionale, viene pacificamente ricondotto nel novero delle prerogative derivanti dal diritto di associazione sindacale, sancito dall’art. 9, par. 3 della Costituzione (Grundgesetz, di seguito GG)9. Osservato da questo punto di vista, lo sciopero è stato gradualmente sottoposto a una serie di limiti storicamente ispirati all’idea della necessaria complementarietà tra l’attività di protesta e i compiti tipici del sindacato. Più precisamente, secondo l’opinione tradizionale, l’astensione collettiva dal lavoro in tanto è legittima in quanto è funzionale alla contrattazione collettiva, che rientra senza dubbio tra le principali manifestazioni della libertà sindacale10.

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C. giust., 17 settembre 2015, cit. C. giust., 4 maggio 2017, cit. 8 C. giust., 4 ottobre 2012, causa C-22/11, Finnair Oyj, in FI, 2012, XI, 484. 9 Weiss, Schmidt, Labour Law and Industrial Relations in Germany, Kluwer, 2008, 199-200; Corti, La partecipazione dei lavoratori. La cornice europea e l’esperienza comparata, Vita e Pensiero, 2012, 127. 10 Cfr. Weiss, Schmidt, op. cit., 199-200. 7

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Da ciò consegue, innanzitutto, che i lavoratori possono ricorrere allo sciopero soltanto per promuovere e difendere condizioni economiche e di lavoro, e cioè per pervenire a risultati che possono essere lecitamente raggiunti attraverso la stipulazione di un contratto collettivo11. Per questa ragione, sono state reputate illegittime iniziative dirette a conseguire finalità diverse, come lo sciopero politico o quello indirizzato alla risoluzione di una controversia giuridica12. Del pari, un atteggiamento di sostanziale chiusura è stato adottato, in passato, anche nei confronti dello sciopero di solidarietà (Unterstützungsstreik) che, tra l’altro, essendo posto in essere per sostenere un’azione primaria, coinvolge un datore di lavoro che normalmente non può porre fine al conflitto, accettando le rivendicazioni della propria controparte negoziale13. Su questo versante, peraltro, la più recente giurisprudenza della Corte federale del lavoro (Bundesarbeitsgericht) è andata temperando la sua posizione originaria, aprendo in parte alle azioni collettive a sostegno di altri scioperi, sulla base di una rilettura dell’art. 9, par. 3 GG, oramai giudicato capace di offrire tutela anche a espressioni della libertà sindacale ulteriori rispetto a quelle includibili nel nucleo minimo definito dalla c.d. formula dell’ambito essenziale (Kernbereichsformel)14. Un’impostazione più rigorosa permane, invece, con riguardo a un altro requisito di legittimità dello sciopero, anch’esso ricavato in via interpretativa dalla tendenziale connessione tra il conflitto industriale e la contrattazione. Invero, indipendentemente dagli scopi concretamente perseguiti, l’astensione dal lavoro deve obbligatoriamente essere promossa e organizzata dai sindacati legittimati a concludere accordi collettivi e non può, quindi, essere intrapresa spontaneamente dai lavoratori, i quali uti singuli non possono partecipare alla negoziazione sindacale15. Ciò non significa, tuttavia, che – come si potrebbe arguire in maniera affrettata – nell’ordinamento tedesco soltanto i sindacati sono titolari del diritto di sciopero. Al contrario, non diversamente da quanto avviene nel nostro sistema giuridico, la facoltà di decidere se astenersi o meno dal lavoro spetta in ogni caso ai singoli lavoratori16. Questi, però, potranno legittimamente prender parte allo sciopero solo quando esso sia stato regolarmente indetto da un sindacato. Di conseguenza, oggi si sostiene comunemente che lo sciopero è un diritto a doppia titolarità, insieme individuale e sindacale17. Da tale conclusione deriva che, una volta intervenuta una valida proclamazione (Aufruf) del conflitto, anche i lavoratori non iscritti al sindacato sono autorizzati ad aderir-

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Kirchner, Goedecke, Labour Conflicts, in Kirchner, Kremp, Magotsch (eds.), Key Aspects of German Employment and Labour Law, Springer, 2018, 259. 12 Corti, op. cit., 160-161. 13 Cfr. Vascello, Nuovi orientamenti del Bundesarbeitsgericht in tema di sciopero, in DRI, 2008, IV, 1241-1242. 14 BAG, 19 giugno 2007, 1 AZR 396/06, in DRI, 2008, VI, 1240, con nota di Vascello. 15 Kirchner, Goedecke, op. cit., 258. 16 Cfr. Nogler, Ripensare il diritto di sciopero?, in DLRI, 2012, II, 315, che, citando Gamillsheg, Kollectives Arbeitsrecht, I, Beck, 1997, osserva che «la tesi, sostenuta in passato dal Grossen Senat della Corte federale del lavoro (BAG), secondo cui la sospensione del rapporto è direttamente collegabile alla decisione collettiva di indire l’azione conflittuale, ricorda più un’opera di Wagner che una lucida analisi giuridica». 17 Cfr. Corti, op. cit., 160-161; Nogler, op. cit., 315.

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vi18. Nondimeno, in questo caso, essi non potranno beneficiare dei vantaggi strettamente collegati all’iscrizione al sindacato, come, per esempio, il diritto di percepire da questo la c.d. indennità di sciopero (Streikgeld) che compensa parzialmente la retribuzione non corrisposta a causa della mancata prestazione del lavoro19. Interpretando le prescrizioni del Tarifvertragsgesetz (e specialmente § 2), i giudici tedeschi hanno poi chiarito che la capacità di stipulare contratti collettivi dev’essere riconosciuta solamente in capo alle coalizioni che presentino determinate caratteristiche20. In estrema sintesi, si richiede a questo fine che l’organizzazione, oltre ad avere la volontà di divenire parte dell’accordo, sia dotata della competenza a negoziare dalle disposizioni del relativo statuto, sia in grado di realizzare il suo proposito, esercitando pressione sulla controparte, e riconosca come vincolanti le regole sul conflitto21. Questi requisiti, ovviamente, si aggiungono a quelli che sono più intimamente connessi alla definizione stessa di associazione sindacale che si evince dall’art. 9, par. 3 GG, tra i quali possono essere ricordati l’indipendenza e l’esistenza di una struttura interna a base democratica22. Là dove – come è accaduto nel caso deciso dalla pronuncia in commento – l’astensione collettiva dal lavoro non sia preceduta da una valida indizione, proveniente da un soggetto che possieda i caratteri ora indicati, ricorre uno “sciopero selvaggio” che, per i motivi sin qui illustrati, è solitamente considerato illegittimo23. Essendo poste in essere da gruppi di lavoratori non abilitati ad accedere alla contrattazione, queste azioni conflittuali non possono sfociare in una regolazione pattizia delle condizioni di lavoro provvista dell’efficacia normativa e inderogabile che contraddistingue gli accordi collettivi24. D’altra parte, anche se nella pratica hanno giocato un ruolo importante, soprattutto nei territori dell’ex Repubblica democratica, esse non ricadono nell’alveo delle garanzie ricavabili dall’art. 9, par. 3 GG25. Parimenti esclusi dalla sfera delle azioni lecite sono anche gli scioperi che, pur essendo stati correttamente proclamati da un sindacato, non rispettino alcuni criteri ulteriori che sono stati elaborati dalla giurisprudenza in aggiunta a quelli esposti. Tra questi assume fondamentale rilevanza il principio di proporzionalità (Verhältnismäßigkeitsprinzip) che implica, tra l’altro, l’osservanza degli obblighi di pace sindacale sanciti dal contratto collettivo e la configurabilità del conflitto come ultima ratio26. La violazione dei menzionati limiti di ammissibilità può esporre sia le associazioni sindacali che i lavoratori alle conseguenze che vengono usualmente riconnesse all’attuazione di uno sciopero illegittimo. Per quanto riguarda i singoli lavoratori, queste possono in

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Kirchner, Goedecke, op. cit., 258. Cfr. Weiss, Schmidt, op. cit., p. 214; Kirchner, Goedecke, op. cit., 264. 20 Weiss, Schmidt, op. cit., 183 ss. 21 Cfr. Kirchner, Kremp, Unions and Collective Bargaining, in Kirchner, Kremp, Magotsch (eds.), op. cit., 244, 248; Nogler, op. cit., 316. 22 Weiss, Schmidt, op. cit., 166-170, 183-185. 23 Sebbene la giurisprudenza non escluda la possibilità che un sindacato legittimato a concludere contratti collettivi possa “fare proprio”, anche con effetto retroattivo, lo “sciopero selvaggio”. Sul tema v. Nogler, op. cit., 317. 24 Cfr. § 4, co.1 del Tarifvertragsgesetz, su cui v. in generale Corti, op. cit., 162 ss. 25 Weiss, Schmidt, op. cit., 200, 202. 26 In argomento v. amplius Corti, op. cit., 161. 19

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astratto comprendere il risarcimento dei danni cagionati dal comportamento illecito ed eventualmente anche il licenziamento27. Nell’ipotesi in cui lo sciopero sia stato organizzato da un sindacato, comunque, i prestatori di lavoro, il più delle volte, dovrebbero poter confidare nella regolarità dell’iniziativa e, dunque, difficilmente incorrono nel rischio di subire queste sanzioni28. Viceversa, le probabilità sono maggiori qualora essi aderiscano a uno “sciopero selvaggio”, benché, anche in tal caso, i giudici abbiano sottolineato la necessità di valutare il grado di partecipazione di ciascun lavoratore e il ruolo svolto nella promozione del conflitto29.

3. Sciopero e impossibilità sopravvenuta. Pur ammettendo che – per le ragioni appena indicate – lo “sciopero selvaggio” verificatosi nella vicenda sottoposta al suo esame non dovrebbe risultare conforme al diritto tedesco, la Corte di Giustizia non attribuisce importanza a questo profilo e perviene alla sua decisione unicamente sulla base della qualificazione del comportamento dei lavoratori alla luce delle norme europee che regolano la responsabilità del vettore aereo nei confronti dei passeggeri. Il tema della rilevanza dello sciopero nei rapporti obbligatori tra l’imprenditore e i terzi non è ignoto al nostro ordinamento e, anzi, sin da tempi non recenti, si è imposto all’attenzione degli interpreti, stimolando vivaci discussioni. Effettivamente, già durante la vigenza del codice civile del 1865, molto dibattuta era la questione della riconducibilità dell’azione collettiva dei dipendenti tra le circostanze che esimono il datore di lavoro dal rispondere del mancato adempimento delle obbligazioni assunte verso altri contraenti. Nel contesto normativo dell’epoca, il problema riguardava frequentemente la possibilità di considerare o meno lo sciopero come causa di forza maggiore o caso fortuito, con funzione liberatoria del debitore ai sensi dell’art. 1226 c.c. del 186530. Entrato in vigore il codice del 1942, la materia è stata in breve attratta nell’orbita della riflessione sui limiti della responsabilità per inadempimento risultanti dalla regola generale dell’art. 1218 c.c. L’analisi si è così sviluppata prevalentemente lungo i binari segnati dall’interpretazione delle due condizioni che esonerano il debitore dall’obbligo risarcitorio, e cioè la presenza di una sopravvenuta impossibilità della prestazione e la dipendenza dell’impedimento da una causa non imputabile allo stesso debitore. In questa prospettiva, alcune opinioni sono state non di rado influenzate, più o meno apertamente, dalla concezione tradizionale secondo cui soltanto l’impossibilità assoluta o naturalistica può libe-

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Kirchner, Goedecke, op. cit., 263-264; Weiss, Schmidt, op. cit., 214. Cfr. Kirchner, Goedecke, op. cit., 264; Weiss, Schmidt, op. cit., 214. 29 Weiss, Schmidt, op. cit., 214-215. 30 Sul tema, v. Barassi, Se e quando lo sciopero sia forza maggiore ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., addizione a Baudry-Lacantinerie, Wahl, Trattato teorico pratico di diritto civile. Del contratto di locazione, II, 2, Vallardi, s.d., 455. In giurisprudenza, v. Cass. Roma, 17 gennaio 1911, in RDC, 1911, II, 102, con nota di Sraffa; Cass. Torino, 24 aprile 1911, in RDC, 1911, II, 478 con nota di Vidari. 28

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rare l’obbligato31. Accogliendo questa chiave di lettura, lo sciopero economico quasi mai potrebbe sciogliere l’imprenditore dal vincolo della prestazione, giacché costituirebbe un ostacolo in linea di massima eliminabile attraverso l’accettazione delle richieste dei lavoratori32. In altre parole, l’impedimento sarebbe collegabile a una scelta del datore di lavoro, il quale non potrebbe poi fare cadere sul suo creditore le conseguenze pregiudizievoli delle sue decisioni. Discostandosi da tale conclusione, autorevole dottrina ha peraltro sottolineato l’opportunità di riservare maggiori spazi alla valutazione giudiziale, onde garantire soluzioni coerenti alla più moderna elaborazione civilistica in tema di responsabilità del debitore33. Pur avvertendosi i rischi insiti nell’ampliamento della discrezionalità del giudicante, si è quindi affermato che occorrerebbe «accertare se le rivendicazioni dei lavoratori potevano essere ragionevolmente accolte in termini di economicità, senza mettere a repentaglio le sorti dell’impresa»34. In quest’ottica, l’agitazione dovrebbe esser ritenuta senz’altro evitabile, qualora lo sciopero si concluda vittoriosamente per i lavoratori. L’esito positivo dell’azione collettiva, cioè, comproverebbe che essa avrebbe potuto essere impedita sin dall’inizio, mediante l’accordo con i prestatori35. All’opposto, il giudizio diviene più difficile nelle diverse ipotesi in cui le rivendicazioni del personale vengano respinte completamente oppure siano accolte solo in parte. In queste situazioni, i giudici dovrebbero «spingere più a fondo la loro indagine, valutando nel merito circa la ragionevolezza della resistenza dell’imprenditore»36. Da una diversa angolazione, del resto, altra parte della dottrina ha evidenziato che, nel sistema degli artt. 1218-1256 c.c., l’impossibilità oggettiva della prestazione dovrebbe essere commisurata al contenuto complessivo dell’obbligazione dedotta in contratto37. Ciò significa che se, da un lato, occorre prescindere dalle attitudini personali del debitore rispetto al compimento degli atti dovuti, dall’altro, «l’impossibilità dello scopo dell’obbligazione (risultato dovuto) deve valutarsi relativamente ai mezzi che, secondo

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Su cui v. Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in RTDPC, 1954, 593. Cfr. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Giuffrè, 1950, II, par. II, 227. In senso critico, v. Pera, Lo sciopero e le obbligazioni dell’imprenditore verso i terzi, in RGL, 1962, I, 374, che osserva come, aderendo a questa impostazione, lo sciopero potrebbe esonerare da responsabilità «solo eccezionalmente […] quando la pretesa degli scioperanti è tale che per definizione non può trovare accoglimento da parte dell’imprenditore che si trova innanzi all’astensione di massa dal lavoro completamente disarmato, come si verifica, ad es., nello sciopero politico vero e proprio». 33 Pera, op. cit., 375 e successivamente Id., Le responsabilità in seguito allo sciopero, in LSS, 1967, III, 415 ss., ora in Id., Scritti di Giuseppe Pera, II, Diritto sindacale, 1271-1272 (da cui sono tratte le successive citazioni). Sulle principali teorie riguardanti il rapporto tra l’art. 1176 c.c. e l’art. 1218 c.c., v. in sintesi Ferrante, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato, Giappichelli, 2004, 242, nt. 8. 34 Pera, Lo sciopero e le obbligazioni, cit., 385-386. Cfr. sul punto Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm SB, ZanichelliIl Foro italiano, 1967, p. 128, che, riflettendo sui limiti entro i quali la resistenza allo sciopero risulta giustificata, ritiene che «lo sforzo diligente del debitore-imprenditore non giunge al punto di imporgli anche il sacrificio della sua organizzazione e che, in definitiva, l’obbligazione d’impresa s’intende comunemente assunta nell’implicito riconoscimento che tale sacrificio non rientra nell’impegno dell’obbligato». 35 Pera, Lo sciopero e le obbligazioni, cit., 386-387; Id., Le responsabilità, cit., 1272. 36 Pera, Lo sciopero e le obbligazioni, cit., 387. 37 Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi» (Studio critico), in RDC, 1954, I, 280 ss., ora in Id., Scritti, Castronovo, Albanese, Nicolussi (a cura di), II, Obbligazioni e negozio, 176 (da cui sono tratte le successive citazioni), che pertanto afferma che «l’impossibilità della prestazione, prevista dagli artt. 1218-1256, è sinonimo di impossibilità dell’adempimento (arg. ex art. 1307)». Dello stesso A. v. anche L’oggetto della obbligazione, in Jus, 1952, II, 156 ss. 32

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buonafede, sono ricompresi nella sfera dell’obbligo»38. Così, si dovrebbe ritenere che l’industriale sia sicuramente tenuto a rispondere dell’eventuale ritardo provocato da uno sciopero già in corso nel momento della stipulazione del contratto. Ma se l’azione collettiva viene intrapresa dopo l’assunzione del vincolo negoziale e per causa non imputabile all’imprenditore, «la responsabilità sarà esclusa ancorché fosse disponibile altra manodopera, ove si dimostri che l’impiego di essa avrebbe importato il pericolo di gravi rappresaglie degli scioperanti contro i “crumiri” o i macchinari dell’azienda»39. L’analisi del problema è stata invece impostata in termini del tutto differenti da chi ha suggerito di spostare la riflessione dal terreno dell’art. 1218 c.c. a quello dell’art. 1228 c.c. il quale, com’è noto, stabilisce che, salva diversa volontà delle parti, il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di ausiliari «risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro»40. Distinguendo la sfera giuridica dell’imprenditore, nella sua qualità di debitore verso i terzi, e quella in cui egli riveste il ruolo di datore di lavoro, questa opzione interpretativa ritiene che, nei rapporti con i terzi, lo sciopero debba essere considerato fatto doloso che rende imputabile l’adempimento in base alla norma ora citata41. In questo modo, si è reputato di potere superare l’obiezione secondo cui l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito impedirebbe di configurare in capo agli scioperanti gli estremi del dolo o della colpa42. Secondo la tesi in discorso, infatti, l’azione dei dipendenti sarebbe coscientemente indirizzata a fare «pressione sull’imprenditore causandogli un danno consistente appunto, fra l’altro, nella sopravvenuta impossibilità di adempiere ai propri impegni»43. Questa ipotesi ricostruttiva, tuttavia, è stata perlopiù rifiutata dalla giurisprudenza che ha preferito muoversi sul piano più sicuro dell’interpretazione dell’art. 1218 c.c. Sebbene negli ultimi anni la Cassazione si sia occupata raramente del tema, anche le più recenti sentenze hanno ribadito tale impostazione. Su queste basi, si è dunque affermato che «se uno sciopero dei lavoratori, nazionale ovvero locale, ma relativo a più aziende, in quanto non può essere impedito dal singolo imprenditore, costituisce di regola esimente dall’eventuale inadempimento di questo nei contratti da lui conclusi, l’astensione dal lavoro in una controversia solo aziendale è invece liberatoria dalla responsabilità per la mancata esecuzione della prestazione contrattuale solo se

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Mengoni, op. cit., 176, che, in questo senso, osserva che «la buona fede, in quanto è la misura del contenuto del rapporto, è anche misura dell’impossibilità sopravvenuta». 39 Mengoni, op. cit., 180, secondo cui, più in generale, «si può dire […] che l’obbligazione rimane estinta o sospesa qualora, per eventi successivi non imputabili all’obbligato, la soddisfazione dell’interesse del creditore non sia possibile se non attraverso una attività illecita ovvero incompatibile con interessi “più alti” del debitore». 40 Visintini, La responsabilità dell’imprenditore per lo sciopero dei dipendenti, in DE, 1965, III, 335 ss. Sul tema, v. più recentemente Barbarisi, La responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari, in OC, 2012, IV, 289 ss. 41 Cfr. Visintini, La responsabilità contrattuale, Jovene, 1979, 364, nt. 50. Di contrario avviso, Mengoni, Lo sciopero e la serrata nel diritto italiano, in Aa. Vv., Sciopero e serrata, C.E.C.A., 1961, 308-309, il quale osserva che l’art. 1228 c.c. «presuppone che il fatto dannoso sia stato compiuto dagli ausiliari durante l’esercizio delle mansioni cui sono adibiti, e quindi in una situazione di effettiva soggezione al controllo e alla direzione dell’imprenditore, il che non accade durante lo sciopero». 42 Cfr. F. Santoro Passarelli, Irrisarcibilità dei danni dipendenti da sciopero legittimo, in DG, 1950, III, 340 e, in giurisprudenza, App. Milano, 14 settembre 1963, in FI, 1963, I, 2325. 43 Visintini, La responsabilità dell’imprenditore, cit., 358-359.

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si dimostri che essa è illecita o per la sua proclamazione o per il modo in cui è stata realizzata»44.

4. Conclusioni. A differenza da quanto stabilito dalla Cassazione, la Corte di Giustizia, nel caso analizzato, sostiene chiaramente che la decisione sulla responsabilità del vettore aereo ai sensi del Reg. (CE) n. 261/2004 non può essere influenzata da valutazioni relative alla liceità dello sciopero alla luce «delle disposizioni in materia sociale applicabili». Questa conclusione, peraltro, non discende dalla volontà di evitare giudizi sulle dinamiche interne alle controversie collettive, né tampoco da considerazioni concernenti la rilevanza attribuita allo sciopero nell’ordinamento europeo. Per converso, l’affermazione della Corte è determinata dalla preoccupazione di non indebolire la tutela predisposta dal diritto dell’Unione europea in favore dei passeggeri-consumatori, per il tramite di apprezzamenti dipendenti dal diritto nazionale. È per questo motivo che la sentenza esaminata ritiene irrilevante la violazione delle regole che, in Germania, riservano al sindacato la proclamazione degli scioperi. Non lasciando alcun dubbio in proposito, i giudici osservano che «procedere alla distinzione tra gli scioperi che, sulla base del diritto nazionale applicabile, sarebbero leciti e quelli che non lo sarebbero per determinare se debbano essere considerati “circostanze eccezionali” […] implicherebbe la conseguenza di far dipendere il diritto alla compensazione pecuniaria dei passeggeri dalle disposizioni in materia sociale di ciascuno Stato membro, pregiudicando così gli obiettivi del regolamento n. 261/2004». Pertanto, solo in apparenza la pronuncia in commento può essere accostata a quelle che più direttamente hanno affrontato il problema del bilanciamento tra diritti sociali e libertà economiche nel sistema europeo45. Invero, in questa occasione, la Corte ha seguito un ragionamento interamente basato sulle più classiche logiche che regolano il funzionamento del mercato interno, senza interessarsi dei possibili risvolti che esse possono comportare per i lavoratori subordinati46. E se, nella fattispecie, la soluzione della controversia è stata di fatto sfavorevole all’impresa, ciò è dipeso dalla necessità di non compromettere la protezione dei diritti dei consumatori, che è strettamente connessa ai tradizionali meccanismi di promozione della concorrenza.

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Cass., 2 maggio 2006, n. 10139, in DeJure; v. anche Cass., 11 giugno 1986, n. 3858, in AC, 1986, 958. Sulle quali v. da ultimo Corti, L’Unione europea tra promozione della concorrenza e contrasto del dumping sociale. Un difficile equilibrio, in Ferrante (a cura di), Economia ‘informale’ e politiche di trasparenza. Una sfida per il mercato del lavoro, Vita e Pensiero, 2017, 203 ss. 46 Analogamente anche Centamore, «Sciopero selvaggio» nel settore aereo e risarcimento dei danni ai passeggeri, in www.rivistalabor.it, 27 giugno 2018. 45

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Giurisprudenza C orte Costituzionale, sentenza 23 aprile 2018, n. 86 – Pres. Lattanzi – Rel. Morelli – M. S. c. Cassa rurale di Trento. Licenziamenti – Reintegrazione attenuata – Indennità risarcitoria – Natura risarcitoria – Illegittimità costituzionale – Infondatezza.

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 4, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92, sollevata in riferimento all’art. 3, comma 1, Cost., nella parte in cui attribuisce natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente tra il licenziamento e la ripresa dell’attività lavorativa a seguito della pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro. Licenziamenti – Reintegrazione – Ordine giudiziale – Datore di lavoro ottemperante – Datore di lavoro inottemperante – Disparità di trattamento – Insussistenza.

Non sussiste violazione dell’art. 3, comma 1, Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento tra il datore di lavoro che adempia all’ordine di reintegrazione (e che non potrà ripetere le somme versate) ed il datore di lavoro che non vi ottemperi, scommettendo sulla riforma del provvedimento. Si tratta di situazioni non omogenee e non suscettibili per ciò di entrare in comparazione, atteso che il datore di lavoro ottemperante all’ordine del giudice ottiene, infatti, quale corrispettivo dell’esborso retributivo, una controprestazione lavorativa, che manca invece al datore di lavoro inadempiente. Ritenuto in fatto. – Omissis. 1. Nel corso di un giudizio di opposizione – proposto da una lavoratrice avverso il decreto ingiuntivo con il quale la Cassa rurale sua datrice di lavoro, le aveva richiesto la restituzione dell’indennità corrispostale per il periodo intercorrente tra la data del licenziamento e la data della sentenza che aveva riformato l’ordinanza di annullamento del licenziamento per giusta causa intimatole e di reintegrazione nel posto di lavoro, emessa a conclusione della fase sommaria – l’adito giudice monocratico del Tribunale ordinario di Trento, sezione lavoro, premessane la rilevanza e ritenutane la non manifesta infondatezza, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, ha sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 (Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo), quarto comma, della L. 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b), della L. 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), «nella parte in cui ... attribuisce, irragionevolmente, natura

risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro provvisoriamente esecutiva fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o fino alla pronuncia di riforma della prima». Secondo il rimettente, la qualificazione legislativa delle somme in questione in termini risarcitori contrasterebbe, appunto, con l’art. 3, primo comma, Cost. Per effetto dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento e della conseguente condanna del datore di lavoro alla riassunzione del lavoratore, vi sarebbe, infatti, un pronto ripristino del rapporto lavorativo (in base alla riaffermata vigenza della lex contractus), con il correlato diritto del lavoratore a percepire il trattamento retributivo spettante, quale obbligazione primaria e finale con valenza corrispettiva, e ciò anche quando il datore di lavoro non adempia (come nella specie) all’obbligo di riammissione in servizio e corrisponda, invece, la relativa indennità, poiché, in tal caso, si realizzerebbe «un’ipotesi di mora accipiendi (... con correlativa equiparazione, ai fini della spettanza della


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retribuzione, della mera utilizzabilità delle energie lavorative del dipendente all’effettiva utilizzazione)». Diversamente, se «solo l’effettiva riammissione del lavoratore in servizio fosse in grado di mutare da risarcitoria a retributiva la natura del titolo di corresponsione delle somme (commisurate alle retribuzioni maturate) versate dal datore successivamente alla pronuncia di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro», si determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento, sotto il profilo della ripetibilità delle somme corrisposte a tale titolo, tra il datore di lavoro che ottemperi all’ordine di reintegra e il datore di lavoro inadempiente rispetto a tale ordine, che si limiti a versare la retribuzione a titolo risarcitorio, “scommettendo” con ciò sulla sua ripetibilità. Ove, dunque, fosse riconosciuta la “natura retributiva” dell’indennità (sostitutiva) versata dal datore di lavoro nel periodo successivo alla ordinanza di reintegrazione, ne conseguirebbe - conclude il giudice a quo - che la situazione venutasi a creare dopo tale pronuncia assumerebbe «i tratti della fattispecie (di diritto sostanziale e non già processuale) prevista dall’art. 2126 cod. civ., come già ritenevano le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. S.U. n. 2925/1988) nella vigenza dell’originario art. 18 L. n. 300 del 1970». 2. Si è costituita in questo giudizio la parte opponente nel procedimento principale, la quale ha preliminarmente precisato di non contrastare la richiesta di restituzione delle somme percepite per il periodo dalla data del licenziamento a quella dell’ordine di reintegrazione, e di contestare la debenza delle sole somme relative al successivo periodo intercorrente dall’ordine di reintegrazione alla riforma dello stesso: somme, queste, «da parificarsi ad una retribuzione per prestazione di fatto, svolta in regime di mora creditoris in capo alla datrice di lavoro», che non aveva ritenuto di avvalersi della prestazione lavorativa di essa dipendente. Ha concluso, quindi, per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma denunciata dal giudice a quo. In subordine, ne ha prospettato una possibile lettura adeguatrice, nel senso che la prevista indennità risarcitoria sia non già alternativa o specificativa, ma “aggiuntiva” rispetto all’effetto reintegratorio, che darebbe titolo alla retribuzione per il periodo successivo alla reintegrazione. 3. È anche intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità (per difetto di chiarezza del petitum e carenza di motivazione sulla rilevanza) e, in subordine, per la non fondatezza della questione. Secondo l’interveniente, che ha anche presentato successiva memoria, il denunciato quarto comma dell’art. 18 della L. n. 300 del 1970, nella sua attuale formulazione, «contempla a carico del datore di lavoro due sole obbligazioni, aventi entrambe natura risarci-

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toria, alternative tra loro in via di gradata subordinazione, e costituite, la principale, da un facere, la reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato dal lavoratore illegittimamente licenziato – risarcimento in forma specifica –, e, la subordinata, da un dare, operante in caso di inadempimento della prima, rappresentato dal pagamento di un’indennità sostitutiva, predeterminata dalla legge nella misura e nella durata – risarcimento per equivalente». Con la conseguenza che, in caso di mancata reintegra, il diritto al risarcimento mediante il pagamento dell’indennità sostitutiva non potrebbe cumularsi, come prospettato dalla difesa della lavoratrice, con il diritto alla retribuzione, che presuppone l’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa. Considerato in diritto. – 1. L’art. 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300 – Omissis –, con riguardo alle ipotesi (diverse da quelle, più gravi, di cui al primo comma, riferibili ai datori di lavoro di cui al successivo comma ottavo) in cui si accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, al suo comma quarto testualmente dispone che «il giudice ... annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione». Ed aggiunge che «in ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto». 2. Il giudice monocratico del Tribunale ordinario di Trento, sezione lavoro, dubita che tale disposizione sia compatibile con il precetto di cui all’art. 3, primo comma, della Costituzione., nella parte in cui «irragionevolmente», a suo avviso, attribuisce «natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro provvisoriamente esecutiva fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o fino alla pronuncia di riforma della prima». Il rimettente ritiene, infatti, che alla indennità (sostitutiva) corrisposta, al dipendente, dal datore di lavoro inadempiente all’ordine di reintegrazione, vada attribuita natura retributiva, in applicazione della lex contractus riaffermata dal provvedimento reintegratorio e della così ripristinata continuità del rapporto di lavoro, con la correlativa equiparazione alla effettiva utilizzazione delle energie lavorative del dipendente, della mera utilizzabilità di esse, in relazione alla disponibilità del lavoratore a riprendere servizio.


Giulio Centamore

Diversamente, la subordinazione della natura retributiva delle somme versate all’effettiva riammissione in servizio del lavoratore violerebbe il principio di uguaglianza tra la posizione del datore che fornisca la collaborazione necessaria al proficuo utilizzo della prestazione lavorativa e la posizione del datore che si limiti a versare le somme dovute ma non riammetta in servizio il lavoratore, rendendosi così inadempiente al suddetto obbligo di collaborazione, poiché in tal modo verrebbe premiata la condotta di quest’ultimo, il quale così conserverebbe la facoltà di ripetere gli importi corrisposti nell’ipotesi di riforma della pronuncia di annullamento del licenziamento. 3. La questione così sollevata, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, sarebbe inammissibile, poiché dalla lettura dell’ordinanza e, in particolare, dal suo dispositivo non sarebbe dato comprendere «quale tipo di intervento» chieda il giudice a quo, e perché non parrebbe sussisterne la rilevanza. 3.1. Tali eccezioni, che vanno preliminarmente esaminate, non colgono nel segno. È ben chiaro, infatti, quel che il rimettente richiede ai fini della auspicata reductio ad legitimitatem della disposizione censurata: e, cioè, una pronuncia “sostitutiva”, che sostanzialmente ripristini l’originario contenuto precettivo dell’art. 18 della L. n. 300 del 1970, per il quale il datore di lavoro, non ottemperante all’ordine di reintegrazione, «è tenuto inoltre a corrispondere al lavoratore», per il periodo dalla data stessa di tale provvedimento e fino alla reintegrazione, non già, come nel testo attuale, «un’indennità risarcitoria», bensì «le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro». Retribuzioni che, ai fini della rilevanza della questione, il giudice a quo ritiene, appunto, irripetibili in caso di riforma della pronuncia di annullamento del licenziamento, in applicazione dei principi posti dall’art. 2126 cod. civ., secondo l’orientamento espresso dalle sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza 13 aprile 1988, n. 2925. 4. Nel merito, la questione non è fondata. 4.1. Antecedentemente alle modifiche apportate dalla L. 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali) e poi dall’art. 1, comma 42, lettera b), della L. n. 92 del 2012, l’art. 18 della L. n. 300 del 1970, nella sua formulazione originaria, oltre a riconoscere al lavoratore «il diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento di cui sia stata accertata la inefficacia o la invalidità», poneva a carico del datore di lavoro, che non avesse ottemperato all’ordine di reintegrazione, l’obbligo ulteriore di «corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli» in virtù, e dalla data, della sentenza di annullamento del licenziamento e «fino a quella della reintegrazione». 4.1.1. In sede di esegesi del riferito testo originario della norma in esame, il risalente precedente della Corte di legittimità richiamato dal giudice a quo (sezioni unite civili, sentenza 13 aprile 1988, n. 2925) –

nell’escludere che, in caso di successiva riforma della sentenza dichiarativa della inefficacia o della invalidità del licenziamento, il datore di lavoro potesse ripetere le «retribuzioni» corrisposte al lavoratore non reintegrato nel posto di lavoro – motivava tale irripetibilità facendo applicazione della disposizione di cui all’art. 2126 cod. civ. Detta norma – per cui (la nullità o) l’annullamento del contratto di lavoro (cui era appunto ricondotta l’ipotesi del licenziamento giudizialmente confermato) «non produce effetto» (e quindi non travolge le retribuzioni corrisposte) «per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione» – era, appunto, considerata riferibile anche alla fattispecie della mancata ottemperanza del datore di lavoro all’ordine di reintegrazione del lavoratore. E ciò sul presupposto che la (manifestata) disponibilità del dipendente a riprendere servizio fosse equiparabile alla effettiva prestazione dell’attività lavorativa e, quindi, ad intervenuta «esecuzione del rapporto». 4.1.2. Tale premessa ermeneutica – oltreché superata dal nuovo testo dell’art. 18 della L. n. 300 del 1970, introdotto dalla L. n. 108 del 1990 – è risultata, comunque, non più in linea con la successiva, e poi consolidatasi, giurisprudenza della stessa Corte di cassazione, a tenore della quale il rapporto di lavoro affetto da nullità può rientrare nella sfera di applicazione dell’art. 2126 cod. civ. unicamente nel caso, e per il periodo, in cui il rapporto stesso abbia avuto «materiale esecuzione» (ex plurimis, sezione lavoro, sentenze 21 novembre 2016, n. 23645; 30 giugno 2016, n. 13472; 25 gennaio 2016, n. 1256; 3 febbraio 2012, n. 1639; 11 febbraio 2011, n. 3385). Il che è in linea con la nozione di retribuzione ricavabile dalla Costituzione (art. 36) e dal codice civile (artt. 2094, 2099), per cui il diritto a percepirla sussiste solo in ragione (e in proporzione) della eseguita prestazione lavorativa. 4.2. Se è pur vero, quindi, che l’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato ripristina, sul piano giuridico, la lex contractus, ciò non è vero anche sul piano fattuale, poiché la concreta attuazione di quell’ordine non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro, avendo ad oggetto un facere infungibile. Per cui, ove il datore di lavoro non ottemperi all’ordine di reintegrazione, tale suo comportamento, riconducibile ad una fattispecie di illecito istantaneo ad effetti permanenti, perpetuerebbe le conseguenze dannose del licenziamento intimato contra ius, da cui propriamente deriva una obbligazione risarcitoria del danno stesso da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato. 4.3. La disposizione di cui al novellato quarto comma dell’art. 18 della L. n. 300 del 1970 – con il prevedere che il datore di lavoro, in caso di inottemperanza all’ordine (immediatamente esecutivo) del giudice, che lo condanni a reintegrare il dipendente nel posto di

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lavoro, sia tenuto a corrispondergli, in via sostitutiva, una «indennità risarcitoria» – non è dunque «irragionevole», come sospetta il rimettente, bensì coerente al contesto della fattispecie disciplinata, connotata dalla correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del datore di lavoro e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente. Né è sostenibile che una tale qualificazione risarcitoria della suddetta indennità sia contraddetta dalla prevista sua commisurazione «all’ultima retribuzione globale di fatto», e che ciò appunto inneschi un contrasto della disposizione censurata con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza. Come correttamente, infatti, osservato dall’Avvocatura generale dello Stato, il ragguaglio dell’indennità sostitutiva all’ultima retribuzione percepita dal lavoratore è, a sua volta, coerente alla qualificazione risarcitoria della fattispecie in esame. Viene, in tale contesto, in rilievo il “lucro cessante” – il mancato guadagno, cioè, subito dal lavoratore per effetto, prima, del licenziamento illegittimamente intimato e, poi, della mancata riassunzione – e tale voce di danno è coerentemente rapportata a quanto il dipendente avrebbe percepito se, senza il licenziamento, avesse continuato a lavorare e poi se, dopo l’annullamento di questo, fosse stato riassunto in esecuzione dell’ordine di reintegrazione imposto dal giudice. Ed è appunto (e solo) in tale prospettiva risarcitoria (ed in applicazione del principio della compensatio lucri cum damno) che si spiega e si giustifica l’ulteriore previsione della detrazione, dall’indennità dovuta dal datore di lavoro a titolo di risarcimento del danno, di quanto il lavoratore abbia percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché di quanto il medesimo avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.

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4.4. Neppure sussiste l’ulteriore vulnus all’art. 3, primo comma, Cost., che il rimettente sospetta arrecato dalla disposizione censurata per il profilo della disparità di trattamento che, a suo avviso, ingiustificatamente ne deriverebbe (nel quadro della sequenza tra annullamento del licenziamento e successiva sua riforma) tra il datore di lavoro che, medio tempore, adempia all’ordine di reintegrazione del dipendente e il datore di lavoro che, “scommettendo” su quella riforma, viceversa non vi ottemperi, limitandosi a corrispondere al lavoratore l’indennità risarcitoria. È pur vero, infatti, che il primo non avrà titolo a ripetere le retribuzioni corrisposte al dipendente all’interno del periodo in questione, mentre il secondo potrà ripetere l’indennità risarcitoria versatagli una volta accertata la legittimità del licenziamento ed escluso, quindi, che abbia agito contra ius. Ma si tratta di due situazioni non omogenee e non suscettibili per ciò di entrare in comparazione nell’ottica dell’art. 3 Cost. Il datore di lavoro ottemperante all’ordine del giudice ottiene, infatti, quale corrispettivo dell’esborso retributivo, una controprestazione lavorativa, che manca invece al datore di lavoro inadempiente. 4.4.1. Va poi considerato che il datore di lavoro, ove messo in mora, dal lavoratore, ai fini dell’adempimento del suo obbligo di ottemperanza all’ordine del giudice, nel contesto della disciplina lavoristica ispirata al favor praestatoris, può andare, a sua volta, incontro alla richiesta risarcitoria che, secondo i principi generali delle obbligazioni (artt. 1206 e 1207, secondo comma, cod. civ.), nei suoi confronti, formuli il lavoratore medesimo, per il danno conseguente al mancato reinserimento nell’organizzazione del lavoro, nel periodo intercorrente dalla statuizione di annullamento del licenziamento a quello della sua successiva riforma. 4.5. Da qui la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente. – Omissis.


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Osservazioni in tema di ripetibilità delle somme corrisposte a seguito di un ordine (non ottemperato) di reintegrazione Sommario : 1. Introduzione. – 2. La vicenda, l’ordinanza di rimessione e i passaggi essenziali della sentenza. – 3. Sul titolo delle somme corrisposte dal datore di lavoro al lavoratore a seguito dell’ordine di reintegrazione e sulla loro ripetibilità. – 4. Critica.

Sinossi. A partire dalla sentenza n. 86/2018 della Corte costituzionale, l’autore si confronta con uno dei temi più discussi, in dottrina e in giurisprudenza, tra quelli sollevati, fin dall’emanazione nel 1970 dello Statuto dei lavoratori, dall’art. 18: la ripetibilità delle somme corrisposte dal datore di lavoro al lavoratore a seguito di un provvedimento giudiziale che ordina la reintegrazione nel posto di lavoro, nel caso in cui tale provvedimento rimanga non ottemperato dal datore di lavoro mediante ripristino funzionale del rapporto e sia, in seguito, riformato. Con la sentenza in epigrafe, la Corte costituzionale si pone sulla scia della propria precedente giurisprudenza del 1998 e di un consolidato orientamento di legittimità, che da anni (il leading case è del 2000) afferma la natura risarcitoria (e non retributiva) di tali somme e, perciò, la loro ripetibilità, da parte del datore di lavoro, in caso di riforma. Restano, tuttavia, alcune criticità di fondo, che, ad avviso dell’autore, l’orientamento in questione non riesce a superare, neanche a seguito della posizione assunta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 86.

1. Introduzione. Con la sentenza n. 86/2018, la Corte costituzionale parrebbe aver chiuso del tutto una delle questioni più dibattute, in giurisprudenza e in dottrina – ove non ci si è fatti mancare, almeno inizialmente, toni accesi e polemiche serrate –, tra le molte sorte con l’entrata in vigore dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori1: si tratta, in particolare, della ripetibilità,

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Come noto, la letteratura sul tema è sterminata; senza pretesa di esaustività, e con riferimento ai primi anni di vigenza dello Statuto, si richiamano: Ghezzi, I licenziamenti dalla penale alla reintegra, in PD, 1971, 305 ss.; Alleva, L’evoluzione della disciplina dei licenziamenti individuali dalla legge 15 luglio 1966, n. 604 allo statuto dei lavoratori, in RDL, 1971, 104 ss.; Persiani, La tutela dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, in Nuovo Trattato di diritto del lavoro diretto da L. Riva Sanseverino e G. Mazzoni, Cedam, 1971; Mancini, Sub art. 18, in Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori: art. 1-41, Zanichelli-Società editrice del Foro Italiano, 1972, 253 ss.; Ballestrero, I licenziamenti, Franco Angeli, 1975; M.G. Garofalo, Sub art.

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in caso di mancato ripristino funzionale del rapporto, delle somme corrisposte dal datore di lavoro al lavoratore, per il periodo di tempo compreso tra il provvedimento giudiziale (non ottemperato) che ordina la reintegrazione e la sua riforma2. Per vero, in subiecta materia, il condizionale è d’obbligo: benché la giurisprudenza di legittimità sia ferma, da quindici anni, nel considerare ripetibili (anche)3 tali somme – giusta la loro qualificazione in termini di risarcimento del danno: v. infra nn. 2-3 –, e vi sia ora l’avallo della Consulta4, tale ricostruzione non è, a ben vedere, priva di criticità, come la dottrina non ha mancato, anche di recente, di mettere in luce (v. infra n. 4). È ancora il caso di segnalare, in apertura, che la sentenza n. 86/2018, pur confrontandosi con il testo dell’art. 18 (spec. c. 4), come modificato dall’art. 1, c. 42, lett. b), l. n. 92/2012, affronta una questione i cui termini di diritto positivo sono, in sostanza, invariati sin dalla l. n. 108/1990 (v. infra n. 3)5; è inteso che, a seguito della riforma Fornero, il discorso concerne i casi di invalidità del licenziamento ai quali sia applicabile il rimedio della reintegrazione6.

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18, in Giugni (diretto da), Lo Statuto dei lavoratori, Giuffrè, 1979, 249 ss.; D’Antona, La reintegrazione nel posto di lavoro: art. 18 dello Statuto dei lavoratori, Cedam, 1979; Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Franco Angeli, 1980. Per quanto attiene al giudizio di merito, il tema si è tradizionalmente svolto attorno alla dialettica tra sentenze rese dal giudice di prime cure (Pretore e in seguito Giudice del lavoro) e sentenze (di riforma) rese in secondo grado dalle Corti di appello; con l’introduzione del rito speciale per i licenziamenti, ad opera dell’art. 1, c. 47 ss., l. n. 92/2012, esso si ripropone, invariato nei suoi termini sostanziali (come si suol dire, è «tutto interno» all’art. 18, a maggior ragione a seguito della modifica dell’art. 336, c. 2, c.p.c.), nella dialettica tra ordinanze rese dal giudice di prime cure, a conclusione della c.d. prima fase (sommaria), e sentenze rese, in alternativa, in sede di opposizione da parte di un Giudice monocratico del Tribunale, o in sede di reclamo da parte di Giudici collegiali delle Corti di appello. Si tenga presente che la ripetibilità delle somme corrisposte per il periodo c.d. intermedio (compreso tra la data del licenziamento e l’intervento del primo giudice che ordina la reintegrazione), in caso di riforma del provvedimento, è pacifico da decenni; v., per alcuni riferimenti, infra nota n. 9. Invero, anni prima, la Corte costituzionale si era già espressa in favore della qualificazione, in termini di risarcimento del danno, delle somme dovute dal datore di lavoro al lavoratore a seguito di un provvedimento giudiziario che dispone la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 st. lav., dando la stura all’orientamento giurisprudenziale che riterrà pienamente applicabili le disposizioni dettate dal codice civile in tema di danno: v. C. cost., 23 dicembre 1998, n. 420, in FI, 1999, I, c. 3135, DL, 1999, II, 473, con nota di Sigillò Massara. In termini, Mazzotta, Diritto del lavoro, VI ed., Giuffrè, 2016, 704 e 706. Il perché di questa puntualizzazione è presto detto; all’indomani della pubblicazione della sentenza n. 86/2018, sono apparse, anche su siti internet (apparentemente) curati da addetti ai lavori, comunicazioni del seguente tenore: «la prima sentenza della Corte costituzionale sul Jobs act»; è evidente, invece, e fa quasi specie doverlo ribadire, che (per una volta) il Jobs act non c’entra nulla; di esso, se si accetta la semplificazione giornalistica Jobs act = contratto a tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015), la Corte si è poi occupata con la pronuncia del settembre 2018, con i risultati che (sia pure, nel momento in cui queste note vanno in stampa, nell’attesa della motivazione) sono ormai a tutti noti. S’invita il lettore più diffidente ad effettuare su Google una ricerca che abbia ad oggetto i riferimenti della sentenza in commento e le parole Jobs act. Tema, questo, a sua volta non poco controverso; per alcuni riferimenti essenziali, in una letteratura (già) vastissima, cfr.: Del Punta, La riforma italiana: i problemi del nuovo art. 18, in Pedrazzoli (a cura di), Le discipline dei licenziamenti in Europa, Franco Angeli, 2014, 13 ss.; Tullini, Il contrappunto delle riforme nella disciplina dei licenziamenti individuali, in ADL, 2015, 789 ss.; Mazzotta, Fatti e misfatti nell’interpretazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in RIDL, 2016, II, 102 ss.; Pagni, L’effettività della tutela in materia di lavoro, in RIDL, 2016, I, 209 ss.; Carinci, I recenti orientamenti della Corte di Cassazione in materia di licenziamento ex art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300 “versione Fornero”, in ADL, 2017, 924 ss.; Cester, Le tutele, in Gragnoli (a cura di), Estinzione del rapporto di lavoro subordinato, in Persiani, Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Cedam, 2017, 726 ss.; Zoli, I licenziamenti nelle più recenti riforme… ricordando Sergio Magrini, in Labor, 2018, 5 ss.

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2. La vicenda, l’ordinanza di rimessione e i passaggi essenziali della sentenza.

La sentenza trae origine da un giudizio di opposizione, proposto davanti al Tribunale di Trento, avverso un decreto ingiuntivo, con il quale la Cassa rurale del Trentino aveva chiesto ad una lavoratrice (già sua dipendente) la restituzione delle somme corrispostele per il periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sentenza, che aveva riformato l’ordinanza (favorevole alla lavoratrice, con applicazione dell’art. 18, c. 4, st. lav.) resa a conclusione della fase sommaria del rito. Per vero, sembra di poter trarre dalla lettura della sentenza n. 86/2018, che la lavoratrice si fosse in realtà opposta alla restituzione di quanto erogatole per il periodo (più circoscritto) compreso tra la pubblicazione dell’ordinanza e quella della sentenza di opposizione; comprensibilmente, solo di tali somme si provava a sostenere la natura retributiva e, per l’effetto, l’irripetibilità. Per singolare che possa sembrare, anziché trincerarsi dietro un robusto orientamento di legittimità, che afferma – pacifico – l’integrale ripetibilità di tali somme, senza che si abbia a distinguere tra un «pre» e un «post» provvedimento del giudice di prime cure (v. infra n. 3), il magistrato trentino, posta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione, ha promosso un interessante giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18, c. 4, cit., per rischio di collisione con l’art. 3, c. 1, Cost. In particolare, per il giudice a quo, sarebbe irragionevole attribuire «natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro provvisoriamente esecutiva fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o fino alla pronuncia di riforma della prima»; più esattamente, sarebbe irragionevole che la natura (melius, il titolo) di tali somme possa mutare per effetto di una scelta del datore di lavoro, al quale, in definitiva – e come noto7 –, compete di decidere se riammettere il prestatore alle attività di lavoro. Prosegue, il giudice, con l’osservare che si verrebbe, in tal modo, a creare un’«ingiustificata disparità di trattamento, sotto il profilo della ripetibilità delle somme corrisposte a tale titolo, tra il datore di lavoro che ottemperi all’ordine di reintegra e il datore di lavoro inadempiente rispetto a tale ordine, che si limiti a versare la retribuzione a titolo risarcitorio, “scommettendo” con ciò sulla sua ripetibilità». Come dire che il soggetto indifferente all’ordine del giudice finirebbe per essere «premiato», in caso di riforma; (anche) ad avviso di chi scrive, ciò si risolve in un inaccettabile lascia condotto volto ad eludere, nelle cause di licenziamento, gli ordini impartiti, a favore dei lavoratori, dai giudici della Repubblica. Eppure, la Corte costituzionale ha avuto, per così dire, gioco facile, nel disattendere lo scarno impianto argomentativo del giudice a quo8 ed escludere così qualsivoglia lesione

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Per il dibattito circa la concreta attuabilità dell’ordine di reintegrazione, cfr. Boscati, I regime di tutela contro il licenziamento illegittimo, in Mainardi (coord. da), Il rapporto individuale di lavoro: estinzioni e garanzia dei diritti, in Carinci (a cura di), Il lavoro subordinato, in Trattato di diritto privato diretto da Mario Bessone, Giappichelli, 2007, 230 ss., spec. 315 ss. Si precisa, a scanso di equivoci, che non si è avuto modo di consultare il testo completo dell’ordinanza, e che la conoscenza delle

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del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., da parte dell’art. 18, c. 4, cit. I passaggi essenziali della pronuncia sono sintetizzabili come di seguito (v. infra nn. 3-4, per un’esposizione leggermente più articolata delle questioni sottostanti). a) La Corte prende le mosse dalla novella del 1990, che, come noto, ha riconciliato le somme dovute in relazione ai due periodi, «pre» e «post» sentenza di primo grado (ora: ordinanza della fase sommaria), sotto il titolo risarcitorio. b) Si precisa che il «salvagente» dell’art. 2126 c.c. può essere adoperato, in accordo con la recente giurisprudenza di legittimità (v. il testo della sentenza per i riferimenti), solo se una prestazione di lavoro sia effettivamente resa (i.e. il rapporto abbia avuto «materiale esecuzione»); al riguardo, la Corte osserva che, anche in base alla nozione di retribuzione ricavabile dall’art. 36 Cost. e dagli artt. 2094 e 2099 c.c., il diritto ad esigere la stessa sorge in virtù della «eseguita prestazione lavorativa». c) Si prende, quindi, atto del consolidato principio, per il quale l’ordine di reintegrazione non può essere eseguito senza la collaborazione del datore di lavoro, atteso che esso consta di un obbligo di fare (infungibile). [Si presti attenzione ai prossimi due passaggi:]. d) Ne segue che, qualora il datore non ottemperi, tale «comportamento, riconducibile ad una fattispecie di illecito istantaneo ad effetti permanenti, perpetuerebbe le conseguenze dannose del licenziamento intimato contra ius, da cui propriamente deriva una obbligazione risarcitoria del danno stesso da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato» (corsivo mio). e) È coerente – e non ne muta il titolo – che il risarcimento del danno sia ragguagliato alla retribuzione che il lavoratore avrebbe percepito «se, senza il licenziamento, avesse continuato a lavorare e poi se, dopo l’annullamento di questo, fosse stato riassunto in esecuzione dell’ordine di reintegrazione imposto dal giudice» (corsivo mio). f) Che l’art. 18 abbia sposato la linea del risarcimento del danno, e per converso espunto quella della retribuzione, prosegue la sentenza, è confermato (dopo la riforma Fornero) dalla previsione espressa della detraibilità dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum (quest’ultimo, invero, solo nell’ipotesi ex c. 4) dal quantum del risarcimento, in applicazione degli artt. 1223 e 1227 c.c. g) In conclusione, non vi sarebbe ingiustificata disparità di trattamento tra i datori di lavoro che, in ipotesi, ottemperino, o meno, all’ordine di reintegrazione, atteso che, per il primo, la non ripetibilità delle somme pagate scaturisce dall’aver effettivamente fruito della prestazione lavorativa, mentre, per il secondo, la ripetibilità delle stesse deriva dall’aver corrisposto un risarcimento del danno il cui titolo sarebbe, in seguito, venuto

argomentazioni proposte dal giudice a quo è tratta dai richiami presenti nella sentenza della Corte costituzionale; quest’ultima sembra confrontarsi, comunque, puntualmente con le argomentazioni del giudice remittente.

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meno; le due situazioni sarebbero, pertanto, «non omogenee e non suscettibili per ciò di entrare in comparazione nell’ottica dell’art. 3 Cost.». h) Da ultimo, la Corte precisa che la situazione che si viene a creare, a seguito dell’ordine di reintegrazione, per effetto del rifiuto del datore di lavoro di accettare l’offerta del prestatore, consiste in una (o, converge nella) mora del creditore, ex art. 1206 ss. c.c.; perciò, il lavoratore che abbia messo in mora il datore, potrà, se del caso, formulare una richiesta risarcitoria «per il danno conseguente al mancato reinserimento nell’organizzazione del lavoro, nel periodo intercorrente dalla statuizione di annullamento del licenziamento a quello della sua successiva riforma».

3. Sul titolo delle somme corrisposte dal datore di lavoro al

lavoratore a seguito dell’ordine di reintegrazione e sulla loro ripetibilità. Come si anticipava (retro, n. 1), la (doppia) questione del titolo (o della natura) delle somme corrisposte dal datore di lavoro al lavoratore, a seguito dell’ordine di reintegrazione, e della loro ripetibilità, in caso di mancato ottemperamento e successiva riforma del provvedimento, è stata vivacemente discussa in dottrina e in giurisprudenza sin dalla promulgazione dello Statuto dei lavoratori9. Il relativo dibattito, che avrebbe potuto avviarsi ad una certa stabilità dopo un duplice intervento delle sez. un. (ed alcune pronunce della sez. lav.) della Cassazione negli anni ’8010, è stato riaperto dalla novella del 1990, alla quale si deve la (ideale) riconciliazione

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È noto che, nella sua formulazione originale, l’art. 18 st. lav. distingueva, ai fini delle conseguenze patrimoniali dell’ordine di reintegrazione, il periodo compreso tra il licenziamento e la sentenza da quello successivo a tale provvedimento; a tal fine, la lettera della legge lasciava intendere che al lavoratore fosse dovuto, in relazione al primo periodo, un risarcimento del danno, mentre, in relazione al secondo, il datore di lavoro avrebbe dovuto corrispondere le retribuzioni dovute in virtù del rapporto di lavoro. Ciononostante, in dottrina e in giurisprudenza si dibatté energicamente circa il titolo cui ricondurre entrambe le attribuzioni patrimoniali: ricostruiscono, da angolazioni diverse, tale dibattito: Valentini, Reintegrazione nel posto di lavoro e riforma della sentenza in appello, in ADL, 2004, 161 ss.; Boscati, op. cit., 324 ss.; Ballestrero, L’estinzione del rapporto, in Vallebona (a cura di), I contratti di lavoro, in Trattato dei contratti diretto da Pietro Rescigno ed Enrico Gabrielli, Utet, 2009, 1867 ss., ma spec. 1959 ss.; Cester, op. loc. cit. 10 Si riprenderanno solo i due «storici» interventi del 1982 e del 1988. Il primo è Cass., Sez. Un., 15 marzo 1982, n. 1669, in FI, 1982, I, 985, per la quale, in caso di riforma in appello della sentenza pretorile, il datore di lavoro che avesse riammesso alle attività il prestatore (o gli stesse, in alternativa, versando la retribuzione) avrebbe dovuto attendere il passaggio in giudicato della pronuncia di appello, per estromettere nuovamente il prestatore o interrompere il versamento delle retribuzioni; in entrambi i casi, sarebbero state comunque irripetibili le somme a tale titolo versate fino al passaggio in giudicato; la pronuncia enfatizzava la funzione compulsoria della sentenza pretorile che contiene un ordine di reintegrazione (sulla molteplicità di funzioni ricoperte da tali provvedimenti, v. Mazzotta, Il risarcimento dei danni per licenziamento illegittimo tra «sanzione» e «adempimento», in FI, 1978, I, 2165) (più in generale, a distanza di alcuni anni dalle sez. un. del 1982, v. gli scritti di Dell’Olio, Mazziotti, D’Antona, Magrini, Sassani, in DLRI, 1987, 423 ss., 491 ss., 607 ss., 615 ss., 622 ss.). Tale orientamento muterà con Cass., Sez. Un., 13 aprile 1988, n. 2925, in FI, 1988, I, 1493, con nota di Proto Pisani e in GC, 1988, I, 1426, con nota di Luiso, Vaccarella; la pronuncia – «in un’ottica tutta e solo proprietaria, insensibile ai valori nuovi e diversi affermatisi nell’ordinamento» (dalla nota di Proto Pisani) – per un verso, afferma che, a seguito della riforma della sentenza pretorile, il datore di lavoro potrà immediatamente estromettere il prestatore o interrompere il versamento delle retribuzioni (nel

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delle somme dovute dal datore di lavoro, in relazione ai due periodi, sotto l’unico titolo del risarcimento del danno. Anche in tal caso, e fin dai primi commenti al testo11, non vi fu, tuttavia, consenso circa la soluzione da dare alla questione de qua; troppe, infatti, e assai articolate, erano le questioni a monte, sulle quali si continuava a discutere, perché quello offerto dalla l. n. 108 non apparisse, ai più, che un mero ripiego12. Di fatti, per un decennio, la giurisprudenza di legittimità è rimasta ferma sulle posizioni pre-novella, sulla scia delle sez. un. del 1988. È significativo che si sia rinvenuto, anche nel nuovo (allora) testo della norma, elementi tali da ribadire la distinzione tra le conseguenze patrimoniali dell’ordine di reintegrazione nei periodi pre e post sentenza13. Punto fermo di tale orientamento è l’assunto che l’indennità risarcitoria «non ha più titolo nell’illegittimità del licenziamento […], ma dall’inottemperanza all’ordine di reintegrazione»; il legislatore avrebbe «usato la qualificazione di “risarcimento” dell’indennità in senso atecnico, attesa la funzione sanzionatoria e compulsoria dell’obbligo di corrispondere la retribuzione dopo l’ordine di reintegrazione»14. Il revirement della giurisprudenza di legittimità ha luogo nel 200015: con un’importante sentenza, la Corte esclude che l’indennità versata dopo l’ordine di reintegrazione possa avere (anche solo) «nella sostanza natura retributiva»; sul punto, infatti, non solo la lettera della legge, ma anche la ratio della novella del 1990 sarebbero inequivocabili (ma sul punto si nutrono dubbi)16. Le conseguenze patrimoniali sono ricondotte funditus alla

caso in cui non lo avesse riammesso al lavoro); ma per altro verso, conferma che le retribuzioni versate al lavoratore per il periodo successivo alla sentenza pretorile non saranno ripetibili, atteso che l’obbligo di corrisponderle «si fonda sulla riaffermata vigenza della lex contractus e sulla ininterrotta continuità del rapporto di lavoro con la correlativa equiparazione, alla effettiva utilizzazione delle energie lavorative del dipendente, della mera utilizzabilità di esse, in relazione alla disponibilità del lavoratore, ove richiesto, a riprendere servizio». 11 Non si potrebbe essere più chiari di Ghezzi, La nuova disciplina dei licenziamenti individuali: analisi e prospettive di evoluzione, in PD, 1991, 206: «sembra più corretto discernere ancor oggi: in effetti, per il periodo che va fino alla sentenza, il risarcimento riguarda danni già prodotti, e dunque esattamente quantificabili in termini di mancate retribuzioni; invece, per il periodo successivo alla sentenza e fino alla reintegrazione effettiva, la condanna al risarcimento riguarda un danno che […] deriva non tanto dal licenziamento illegittimo, quanto dalla protrazione nel tempo di una comportamento illecito (la mancata ottemperanza all’ordine di reintegrazione)»; cfr. altresì, sia pure senza pretese di esaustività, Ferraro (a cura di), I licenziamenti individuali: commento alla legge 11 maggio 1990, n. 108, ESI, 1990; Sandulli, Vallebona, Pisani (a cura di), La nuova disciplina dei licenziamenti individuali, Cedam, 1990; Pera, Le novità nella disciplina dei licenziamenti individuali, Cedam, 1993; D’Antona, La tutela reale del posto di lavoro, in EGT, XXXI, 1994, 6 ss. 12 Per riprendere le parole di Cester, op. cit., 832 (che sintetizza il punto in modo efficace), «il nesso con i meccanismi ricostruttivi del rapporto e le sofisticate indagini circa le posizioni giuridiche di volta in volta assegnate alle parti, hanno portato a spiegazioni e soluzioni ben più complesse» [rispetto a quella, offerta dal legislatore del 1990, del «mero» risarcimento del danno]. Amplius, circa le posizioni assunte dalla dottrina prima e dopo la novella del 1990, v. Boscati, op. cit., 312-315 e 324 ss. 13 Cass., 21 dicembre 1995, n. 13047, in MGL, 1996, 76, con nota di Mannacio; Cass., 5 dicembre 1997, n. 12366, in RIDL, 1998, II, 351, con nota di Zoli. 14 Così, Cass., 14 maggio 1998, n. 4881, in MGL, 1998, 671, con nota di Mannacio, in RIDL, 1999, II, 156, con nota di Cattani; v. altresì Cass., 24 novembre 1997, n. 11731, in GCM, 1997, 2254; Cass., 10 dicembre 1999, n. 13854, in RGL, 2000, II, 489 ss., con nota di Zaccherini, RIDL, 2000, II, 565 ss., con nota di Lazzeroni, che chiarisce ulteriormente come l’ordine di reintegrazione ristabilisca in pieno la lex contractus: ne deriva «l’equiparazione della mera utilizzabilità delle energie lavorative del dipendente alla effettiva utilizzazione di esse». 15 Cass., 17 giugno 2000, n. 8263, in FI, 2000, I, 3516, con nota di Amoroso, in DL, 2001, II, 338, con nota di Cerreta, in MGL, 2001, 110, con nota di Centofanti. 16 A parte quanto si dirà infra nel testo, memoria storica vorrebbe – rileva Amoroso, Sugli effetti della riforma in appello dell’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, in FI, 2000, I, 3516 (in nota a Cass., n. 8263/2000, cit.) – che non si sottovalutasse la circostanza che il legislatore del 1990 «è intervenuto sulla sollecitazione indiretta di un’iniziativa referendaria volta

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disciplina comune del risarcimento del danno17, ancorando apertamente (e senza distinzioni di sorta tra i due intervalli di tempo) il risarcimento «al danno ingiusto subito dal lavoratore per l’illegittimo licenziamento» (corsivo mio). Nel tempo, questo orientamento si è consolidato18: si ripete in modo tralatizio che l’illecito per il quale è dovuto il risarcimento del danno al lavoratore è sempre «derivante dall’illegittimità del licenziamento, e non dall’inosservanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di reintegra»19; una volta rimosso dall’ordinamento l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento cade, con esso, anche il titolo del risarcimento del danno20; la natura risarcitoria di tutte le somme corrisposte dal datore di lavoro è definita «innegabile», e non vi sarebbe, perciò, ragione di distinguere tra di esse «quanto alla loro ripetibilità»21.

a generalizzare l’area della tutela reale e quindi, per evitare la consultazione popolare, non poteva che muoversi in sintonia con le istanze di ampliamento delle tutele contro il licenziamento illegittimo individuale e non già in contrapposizione con queste depotenziando l’ordine di reintegrazione per il fatto di privarlo della sua funzione di astreinte quale in precedenza riconosciuta dalla giurisprudenza». 17 Beninteso, ferme le previsioni speciali della disciplina statutaria, con riferimento alla «penale» minima di cinque mensilità (oggi, come noto, circoscritta alle ipotesi di licenziamento ex art. 18 cc. 1-3) ed al fatto che il lavoratore-danneggiato non è tenuto a fornire la prova del danno effettivamente subito, che la legge stessa àncora alla misura delle retribuzioni perse (oggi, nell’art. 18, c. 4, entro il tetto delle dodici mensilità). Ma, per il resto, la riconduzione di tale fattispecie di danno alla «originale» matrice codicistica spiega pienamente i propri effetti, e porta, segnatamente, con sé, alcuni corollari (tra i quali i seguenti): per un verso, se si eccettua il minimo delle cinque mensilità (oggi: ove applicabili), il datore di lavoro che abbia licenziato, sia pure illegittimamente, ma senza colpa o dolo, non potrà essere condannato, in aggiunta alla reintegrazione, ad alcun risarcimento del danno (v. C. cost. n. 420/1998, cit.; Cass., 17 febbraio 2004, n. 3114, in OGL, 2004, I, 201; Cass., 15 luglio 2002, n. 10260, in ADL, 2003, 837 ss., con nota di Orlandi; di recente, ciò ha portato a dare applicazione all’art. 18, c. 4, st. lav. nel senso di ordinare la reintegrazione di una lavoratrice illegittimamente licenziata, ma senza alcun risarcimento del danno: v. App. Bologna 6 maggio 2016, n. 514, in RIDL, 2017, II, 3, con nota di Centamore; mentre queste note erano in bozze, si è potuto visionare il testo di Trib. Firenze 13 settembre 2018 (dott. Consani), inedita, che offre una interpretazione dell’art. 18 c. 4 giusta la quale il risarcimento del danno sarebbe limitato nel tetto massimo di 12 mensilità “anche per il successivo periodo che va dall’emissione dell’ordine di reintegra al giorno (...) della sua eventuale effettiva attuazione”; insomma, secondo questa lettura della norma – che a chi scrive pare criticabile negli esiti e destituita di fondamento nel diritto positivo – non vi sarebbe in sostanza nessun diritto al risarcimento del danno per il periodo successivo all’ordine giudiziale); per altro verso, in applicazione degli artt. 2123 e 2127 c.c. si riteneva (anche prima della riforma Fornero) che l’ammontare del risarcimento potesse essere ridotto, in ragione, da un lato, dell’applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, nel caso in cui il lavoratore abbia trovato un altro impiego nel periodo di estromissione dal lavoro (v., per un’analisi di più ampio respiro ed i casi in cui la compensatio non trova applicazione: Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i «principi» costituzionali, in DLRI, 2007, 664-668; Boscati, op. cit., 338 ss.), e dall’altro lato, del comportamento del lavoratore successivo al licenziamento, che abbia contribuito alla produzione del danno o non abbia tenuto una condotta diligente tale da limitarlo (v. sempre Boscati, op. cit., spec. 343 ss.). È bene precisare che, nel testo vigente dell’art. 18, st. lav., è prevista la detraibilità dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum in relazione al risarcimento del danno ex c. 4, mentre il rimedio di cui al c. 2 contempla solo la detraibilità dell’aliunde perceptum (sul tema, cfr. Mazzotta, Diritto del lavoro, cit., 703 ss.). 18 Cass., 27 giugno 2000, n. 8745, in GCM, 2000, 1418; Cass., 1 aprile 2003, n. 4943, in RGL, 2004, II, 44, MGL, 2003, 554, con nota di Baglioni; Cass., 13 gennaio 2005, n. 482, in RIDL, 2006, II, 142 ss., con nota di Mosca, T. Genova, 22 settembre 2005, ivi, 149 ss., con nota di Mariani, in MGL, 2001, 110, con nota di Centofanti; Cass., 30 marzo 2006, n. 7543, in LG, 2006, 916, Cass., 13 dicembre 2006, n. 26627; Cass., 19 ottobre 2009, n. 22105; Cass., civ., sez. VI, 3 luglio 2014, n. 15251 (ord.). 19 Così, Cass., n. 15251/2014, cit. 20 Così, Cass., n. 482/2005, cit. 21 Così, Cass., n. 8745/2000, cit.

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4. Segue: critica. Quello descritto, sia pure per grandi linee, è il quadro complessivo in cui coonestare il problema della ripetibilità delle somme versate dal datore di lavoro al lavoratore, in relazione al periodo successivo all’ordinanza della fase sommaria che ordina la reintegrazione, nel caso in cui questa rimanga priva di riscontro da parte datoriale e sia successivamente riformata; se si tiene presente che, già alcuni anni fa, il discorso (interno al diritto vivente) sembrasse sostanzialmente chiuso22, potrebbe considerarsi, in conclusione di queste note, che la sentenza n. 86/2018 ha apposto il sigillo definitivo ad un certo modo di intendere il tema de quo. Eppure, non ci si può a questo punto esimere dal segnalare che, a dispetto della (raggiunta) compattezza di questo orientamento, permangono gravi dubbi di coerenza e di logicità sul ragionamento che lo sostiene. Del resto, gli stessi autori che ne condividono gli esiti, avvertono che la «riunificazione in un unico periodo» è stata, da più parti, messa in dubbio, «non senza una qualche ragione, posto che il contenuto della sentenza di condanna sembra doversi inevitabilmente diversificare a seconda che sia riferito al periodo passato, per il quale il danno è già maturato ed è perciò oggetto di individuazione precisa, o sia riferito al futuro, periodo per il quale il danno medesimo è solo frutto di una valutazione prognostica»23; è «indubbio – si è scritto, ancora, – che sul piano logico e fattuale le situazioni antecedenti e successive al licenziamento non siano omogenee e che vi siano significative differenze anche per quanto concerne il fondamento del risarcimento del danno»24. Si condivide, perciò, la considerazione per la quale esigenze (quantomeno) di chiarezza imporrebbero di tenere distinti i due intervalli di tempo, ai fini delle loro implicazioni patrimoniali25. Se è indubbio che il danno del lavoratore derivi prima facie dal licenziamento illegittimo, non è fuori luogo ipotizzare che la situazione possa in seguito mutare, per effetto del mancato ottemperamento all’ordine di reintegrazione; a ben vedere, la stessa sentenza n. 86/2018, in due passaggi, lo lascia intendere (o, si conceda, almeno supporre), quando afferma (a) che il danno subito dal lavoratore è un effetto «prima, del licenziamento illegittimamente intimato e, poi, della mancata riassunzione» (corsivo mio), (b) che il comportamento del datore di lavoro che non ottemperi all’ordine è «riconducibile ad una fattispecie di illecito istantaneo ad effetti permanenti, [la quale] perpetuerebbe le conseguenze dannose del licenziamento intimato contra ius» (corsivo mio). È una contraddizione dalla quale l’orientamento in questione non riesce a sfuggire; la distinzione tra i due

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Una delle più autorevoli penne che si sono (negli anni, a più riprese) cimentate con il tema de quo, scriveva, nel 2009, che «forse è ancora troppo presto per dire se la “storia infinita” degli effetti della riforma in appello della sentenza di reintegrazione sia conclusa (almeno sul versante della giurisprudenza); ma il contesto complessivo nel quale si inserisce il revirement rende la risposta positiva altamente probabile» (Ballestrero, op. ult. cit., 1967). 23 Così Cester, op. cit., 836, sulle orme di Ghezzi (v. retro nota 11). 24 Così Boscati, op. cit., 347. 25 Ballestrero, op. ult. cit., 1961.

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periodi – si direbbe, parafrasando Giuseppe Pera – «è nelle cose»; come lo è la funzione (sia pure indirettamente) compulsiva dell’ordine di reintegrazione26. Concedendo pure che l’attribuzione patrimoniale sia dovuta, per il secondo periodo, a titolo risarcitorio (e sia quindi ripetibile in caso di riforma), resta il fondato dubbio che il titolo sul quale essa si fonda sia diverso27. Se ne potrebbe desumere qualche conseguenza sul regime giuridico. In particolare, recuperando, in parte, l’impostazione di Massimo D’Antona, si può sostenere che il quantum dovuto non sia più suscettibile «di alcuna deduzione in base ai principi che regolano il risarcimento del danno»28; o, in altri termini, che rispetto alle somme versate al lavoratore, per il periodo successivo all’ordine giudiziale, non si applichi la compensatio lucri cum damno (i.e. detraibilità dell’aliunde perceptum). In tal senso, depongono una serie di elementi. In primo luogo, se si concorda sul fatto che la riunificazione dei due periodi non è in grado di spiegare appieno i propri effetti sul regime del risarcimento (come logica vuole, e la sentenza n. 86/2018 lascia supporre), dalla lettera dell’art. 18 si ricava che il giudice stabilisce un’indennità (ex c. 2) o condanna al pagamento di un’indennità (ex c. 4), dedotto quanto percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative: il riferimento espresso alla deducibilità dell’aliunde perceptum opererebbe, quindi, con riferimento al primo segmento risarcitorio, atteso che il giudice non è in grado di determinare il risarcimento del danno futuro, (ipoteticamente) subito dal lavoratore in caso di mancato ripristino funzionale del rapporto. In secondo luogo, rispetto alle regole comuni del codice (spec. art. 1223 c.c.), l’eterogeneità tra le poste patrimoniali del danno (causato al lavoratore dal mancato ottemperamento della sentenza) e del lucro (reddito derivante da un secondo impiego) impedirebbe di portarle in compensazione29. Si tenga presente che, affinché le relative poste siano pareggiabili, è necessario che il danno ed il lucro siano conseguenza del medesimo fatto illecito; detto altrimenti, deve sussistere, tra di essi, un rapporto di causalità diretto ed immediato30. Tuttavia, tale nesso eziologico, per il lucro che il lavoratore ricaverebbe da un altro impiego, permarrebbe con l’illecito originario (il licenziamento illegittimo), ma verrebbe meno con l’illecito istantaneo ad effetti permanenti (nelle parole della Consulta), integrato dal mancato ottemperamento all’ordine di reintegrazione. Solo la prima fattispecie di illecito (il licenziamento illegittimo) è quella

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Osserva Speziale, Processo del lavoro, certezza del diritto ed effettività delle tutele, in WP D’Antona, It., n. 215/2014, 10: «nel caso di licenziamento ingiustificato nell’ambito della stabilità reale disciplinata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e qualora il datore di lavoro non adempia spontaneamente all’ordine giudiziario di reintegrazione, la legge stabilisce la condanna al pagamento a favore del lavoratore di un risarcimento commisurato alla retribuzione, con un diritto che matura anche in assenza dell’effettivo svolgimento della prestazione. In questa ipotesi il danno svolge una funzione di astreinte ed è una forma di coazione indiretta ad ottemperare all’ordine del giudice per garantire al dipendente la effettiva possibilità di riprendere a lavorare». 27 Nogler, op. cit., 667, nella cui articolata costruzione, «un risarcimento non si giustifica più in base all’illecito contrattuale legato all’uso illegittimo del potere di licenziamento, bensì all’eventuale ritardo nell’adempimento dell’obbligo di far lavorare il lavoratore». 28 D’Antona, La tutela reale, cit., 8. 29 Sul tema, che si pone al cuore della dottrina della compensatio lucri cum damno, cfr. di recente Giusti, Compensatio lucri cum damno, in DDP civ, 2011. 30 Cfr. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni: art. 1218-1229, II ed., Zanichelli-Società ed. del Foro italiano, 1979, 544. In giurisprudenza il principio è pacifico (per quanto la sua applicazione in concreto sia problematica: v. Scognamiglio, In tema di “compensatio lucri cum damno”, in FI, 1952, I, 637), ex plurimis, v. Cass., sez. II civ., 17 luglio 1999, n. 7612, in DR, 2000, 516; Cass., 21 agosto 1998, n. 8321, in GCM, 1998, 1746; per maggiori riferimenti, cfr. Giusti, op. cit., passim.

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che può produrre (anche) un vantaggio eventuale, per il caso in cui il lavoratore trovi un diverso impiego (ed è pacifico che le relative poste siano pareggiabili); diversamente, tra la seconda fattispecie di illecito (il mancato ottemperamento all’ordine giudiziale), alla quale è ricollegabile il successivo segmento risarcitorio, ed il lucro derivante da un (eventuale) altro impiego, v’è un rapporto di mera occasionalità, a nulla rilevando il fatto che la (nuova) fonte di reddito da lavoro contribuisca ad alleviare materialmente le conseguenze dannose del primo illecito31. Ad avviso di chi scrive, tale proposta ricostruttiva, risponde ad elementari esigenze di giustizia, nel dare applicazione alla dottrina della compensatio lucri cum damno, la quale, è bene ricordarlo, emerge nel diritto vivente per ragioni (in senso lato) equitative; ciò, si badi, imporrebbe di guardarsi da applicazioni che possano, all’opposto (come nel nostro caso), incoraggiare condotte illecite, come quella del datore di lavoro che sceglie di proposito di non dare seguito ad un ordine giudiziale32. Giulio Centamore

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Per Cass., 30 luglio 1987, n. 6624, in GI, 1989, I, con nota di Petrelli, «in tema di risarcimento del danno il principio della compensatio lucri cum damno è operante soltanto quando il pregiudizio e l’incremento patrimoniale discendano entrambi, con rapporto diretto ed immediato, dallo stesso fatto, sicché se ad alleviare le conseguenze dannose dell’infortunio subentra una circostanza che trae origine da un titolo diverso ed indipendente dal fatto illecito generatore del danno, di tale circostanza non può tenersi conto nella liquidazione del danno stesso, sussistendo in tal caso un rapporto di mera occasionalità che non può giustificare alcuna compensazione». 32 Possono tornare utili, anche se fuori contesto, le osservazioni che Giusti (op. cit.) riprende da P.G. Monateri (Gli usi e la ratio della dottrina della compensatio lucri cum damno. È possibile trovarne un senso?, in Q, 1990, 388): «poiché il permettere al danneggiante di dedurre il lucro che la vittima può ricavare da decisioni allocative necessitate dalla stessa attività del danneggiante significherebbe proprio lasciare la vittima alla mercé delle decisioni prese dal danneggiante, la dottrina pura della compensatio dovrebbe applicarsi solo quando vantaggi e benefici per la vittima del danno derivano direttamente dall’azione del danneggiante senza postulare una nuova decisione allocativa necessitata dall’azione di quest’ultimo».

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Giurisprudenza C orte di C assazione , sentenza 2 maggio 2018, n. 10435 – Pres. Di Cerbo – Est. Boghetich – P.M. Sanlorenzo (concl. conf.) – E.L. (avv.ti Antonini e Alleva) c. Fiere di Parma S.P.A. (avv.ti Belli e Giovati). Conferma App. Bologna sent. n. 744/2016. Licenziamenti – Giustificato motivo oggetto – Obbligo di repêchage – Violazione – Manifesta insussistenza – Reintegrazione – Ammissibilità.

La verifica del requisito della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo concerne entrambi i presupposti di legittimità di quest’ultimo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. Tale requisito va riferito, in particolare, ad una evidente – e facilmente verificabile sul piano probatorio – assenza dei suddetti presupposti, a fronte della quale il giudice può applicare la disciplina di cui all’art. 18, comma 4 della l. n. 300 del 1970 (c.d. tutela reintegratoria attenuata) ove il relativo regime sanzionatorio non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro. Fatti di causa. – 1. Con sentenza dell’8.7.2016 la Corte d’appello di Bologna, in sede di reclamo ex art. 1, comma 58 della legge n. 92 del 2012, ha confermato la sentenza del Tribunale di Parma ed ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo il 26.3.2014 dalla società Fiere di Parma s.p.a. a E. L. inconsiderazione del mancato assolvimento dell’obbligo di repechage, con conseguente applicazione della tutela risarcitoria di cui all’art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92 del 2012. 2. La Corte territoriale, ritenuta dimostrata l’esigenza di riorganizzazione aziendale in diretta connessione con i dati di bilancio sensibilmente negativi sin dal 2013 (nella specie, esternalizzazione a studi grafici e stampatori esterni delle attività commerciali collegate alle manifestazioni fieristiche), ha ritenuto insufficientemente assolto l’onere probatorio relativo all’obbligo di repechage in considerazione delle diverse assunzioni effettuate dalla società negli anni 2012-2014 e – respinto il carattere ritorsivo del licenziamento per carenza di elementi probatori nonché la domanda di risarcimento di danno non patrimoniale per coincidenza dei fatti costitutivi con l’impugnativa del licenziamento – ha applicato la tutela indennitaria condannando la società al pagamento di quindici mensilità della retribuzione globale di fatto tenuto conto delle dimensioni dell’azienda e dell’anzianità di servizio della lavoratrice. 3. La L. ha proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a quattro motivi illustrati da memoria. La società ha depositato controricorso. Ragioni della decisione. – 4. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 (ex art. 360, pri-

mo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che l’esternalizzazione di funzioni da parte di una società non configura la soppressione di un posto di lavoro, dovendo inoltre, il datore di lavoro dimostrare l’avvenuto risparmio di spesa. 5. Il motivo è infondato. Questa Corte ha già affermato, con ampia argomentazione che il collegio intende in questa sede ribadire, che la ragione inerente all’attività produttiva (art. 3 legge n. 604 del 1966) è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali (cfr. Cass. n. 25201 del 2016, Cass. n. 10699 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017). La modifica della struttura organizzativa che legittima l’irrogazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere colta sia nella esternalizzazione a terzi dell’attività a cui è addetto il lavoratore licenziato, sia nella soppressione della funzione cui il lavoratore è adibito sia nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze (Cass. n. 21121 del 2004, Cass. n. 13015 del 2017, Cass. n.24882 del 2017) sia nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto sia nel perseguimento della migliore efficienza gestionale o produttiva o dell’incremento della redditività, fermo restando, da una parte, la non sindacabilità dei profili di congruità ed opportunità delle scelte datoriali (come previsto dall’art. 30, comma 1, della legge n. 183 del 2010, nonché, con lo stesso fine, dagli artt. 27, comma 3, e 69, comma 3, del decreto legislativo n. 276 del 2003 e dall’art. 1, comma 43, della legge n. 92 del 2012) ma, dall’altra, il controllo sulla effettività e


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non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso nonché sul nesso causale tra l’accertata ragione e l’intimato licenziamento. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha accertato la ricorrenza di una ristrutturazione organizzativa determinata dall’esigenza di esternalizzare un’attività aziendale che comportava l’incremento di oneri economici negativi per l’andamento dell’impresa e tale da integrare legittimamente il presupposto dettato dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966. 6. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 3 della legge n. 604 del 1966 e 18, commi 4 e 7, della legge n. 300 del 1970 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) non avendo, la Corte, adeguatamente valutato le conseguenze della mancata osservanza, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo di repechage che – rappresentando l’altra faccia della medaglia della causa economica con la quale configura una fattispecie unitaria – impone l’applicazione della tutela reintegratoria. 7. Il motivo è infondato. Secondo orientamento consolidato di questa Corte, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l’esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall’altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repechage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa (cfr. ex plurimis, Cass. n. 4460 del 2015, Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017). Con riferimento all’obbligo di repechage si è ritenuto, in particolare, che, trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro abbia sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale. In sostanza, sul datore di lavoro incombe l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (cfr. Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017). Ebbene, l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stata riscontrata, nel caso di specie, dalla Corte distrettuale per inottemperanza del datore di lavoro all’obbligo di repechage e, trattandosi di recesso sottoposto alla disciplina dettata dall’art. 18, comma 7, della legge n. 300 del 1970 come novellata dalla legge n. 92 del 2012, è stato applicato il regime

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sanzionatorio indennitario di cui al comma 5 in considerazione della riferibilità della nozione di “fatto posto a base del licenziamento” esclusivamente alla “modifica prodotta nella realtà dalla decisione aziendale” e al fine di scongiurare un’interpretazione della novella legislativa di “sostanziale abrogazione della previsione di applicabilità della tutela indennitaria”. L’esame del secondo motivo di ricorso impone di verificare la portata applicativa del comma 7 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 e di individuare, in particolare, l’eventuale sussistenza di ipotesi, sia pur residuali (come questa Corte ha già affermato, cfr. Cass. n. 14021 del 2016), di operatività della tutela reintegratoria con particolare riguardo al caso in cui il datore di lavoro dimostri l’effettività della soppressione del posto di lavoro ma venga accertata l’esistenza di altri posti ove poter utilizzare il dipendente. 7.1. Posto che nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientra, come precedentemente osservato, sia l’esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore, il riferimento legislativo alla “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie. Invero, a fronte della espressione lessicale utilizzata dal legislatore, il “fatto”, sganciata da richiami diretti ed espliciti alle “ragioni” connesse con l’organizzazione del lavoro o l’attività produttiva previste dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966, il riferimento normativo deve intendersi effettuato alla nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo così come elaborata dalla giurisprudenza consolidata. Quindi, una volta accertata l’ingiustificatezza del licenziamento per carenza di uno dei due presupposti (e, in particolare, nel caso di specie, per inottemperanza all’obbligo del repechage), il giudice di merito, ai fini dell’individuazione del regime sanzionatorio da applicare, deve verificare se sia manifesta ossia evidente l’insussistenza anche di uno solo degli elementi costitutivi del licenziamento, cioè della ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa che causalmente determini un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa, ovvero della impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse. Il concetto di “manifesta insussistenza” dimostra che il legislatore ha voluto limitare ad ipotesi residuali il diritto ad una tutela reintegratoria; non potendosi che far riferimento al piano probatorio sul quale il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966, deve cimentarsi, esso va riferito ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso, accertamento


Matteo Borzaga

di merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità. 7.2. Il sistema legislativo di graduazione delle sanzioni applicabili prevede, inoltre, che il giudice che ritenga evidente la carenza di uno degli elementi costitutivi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro. Nello schema legislativo è previsto, infatti, che il licenziamento fondato su fatti manifestamente insussistenti “può” essere assoggettato a sanzioni diverse, la reintegrazione nel posto di lavoro (comma 4 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970) oppure il risarcimento del danno (comma 5 della medesima norma), e la soluzione esegetica da privilegiare non può prescindere dal tenore lessicale della disposizione, non potendosi condividere interpretazioni (cfr. Cass. n. 17528 del 2017) che privino di significato il dato letterale. L’applicazione della tutela reale richiede, quindi, un ulteriore vaglio giudiziale. La legge non fornisce nessuna indicazione per stabilire in quali occasioni il giudice possa attenersi al regime sanzionatorio più severo o a quello meno rigoroso ma dovendo, la scelta di tale alternativa, essere motivata dal giudice, si impone all’interprete lo sforzo esegetico di individuare i criteri in base ai quali il potere discrezionale possa essere esercitato. Il criterio che consenta al giudice di esercitare, secondo principi di ragionevolezza, il potere discrezionale attribuito dal legislatore può essere desunto dai principi generali forniti dall’ordinamento in materia di risarcimento del danno, e, in particolare, dal concetto di eccessiva onerosità al quale il codice civile fa riferimento nel caso in cui il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica (art. 2058 cod. civ., applicabile anche ai casi di responsabilità contrattuale, cfr. Cass. n. 15726 del 2010, Cass. n. 4925 del 2006, Cass. n. 2569 del 2001, Cass. n. 582 del 1973) ovvero di diminuire l’ammontare della penale concordata tra le parti (art. 1384 cod. civ.). Il ricorso ai principi generali del diritto civile permette di configurare un parametro di riferimento per l’esercizio del potere discrezionale del giudice, consentendogli di valutare – per la scelta del regime sanzionatorio da applicare – se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa. Una eventuale accertata eccessiva onerosità di ripristinare il rapporto di lavoro può consentire, dunque, al giudice di optare – nonostante l’accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento – per la tutela indennitaria. 8. Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha accertato la ricorrenza di una ristrutturazione organizzativa determinata dall’esigenza di esternalizzare un’attività aziendale ma ha riscontrato l’inadempimento datoriale all’obbligo di repechage.

Ritenendo, dunque, illegittimo il licenziamento irrogato per carenza di uno degli elementi costitutivi, ha, peraltro, rilevato una situazione di “insufficienza probatoria” in ordine alla insussistenza di posti ove potesse essere utilmente collocabile la L. essendo “rimaste incerte” circostanze di fondamentale importanza ai fini della ricostruzione dell’organico aziendale, concernenti, in particolare, i livelli di inquadramento e le tipologie contrattuali dei nuovi assunti e le trasformazioni di contratti di apprendistato e a termine (ad orario pieno e part time) effettuate nel periodo antecedente il recesso. Il giudice di appello – a seguito di ampia ed approfondita istruttoria – ha optato per il regime indennitario non ritenendo compreso, nel “fatto posto a base del licenziamento” il requisito dell’’impossibilità di repechage. Seppur la scelta del regime sanzionatorio deve ritenersi corretta, va modificata la motivazione dovendosi ritenere giustificata l’opzione a favore del regime indennitario in considerazione della “insufficienza probatoria” concernente l’adempimento dell’obbligo di repechage. 9. Ai sensi del primo comma dell’art. 384 cod. proc. civ., in funzione nomofilattica, essendo stata affrontata per la prima volta da questa Corte la questione di particolare importanza concernente la portata applicativa del comma 7 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92 del 2012, va enunciato il seguente principio di diritto: la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. La “manifesta insussistenza” va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti a fronte della quale il giudice può applicare la disciplina di cui al comma 4 del medesimo art. 18 ove tale regime sanzionatorio non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro. Omissis 14. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità sono compensate in considerazione della novità della questione trattata. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13 marzo 2018.

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Le conseguenze sanzionatorie in caso di illegittimità del licenziamento economico per mancato rispetto dell’obbligo di repêchage Sommario : 1. Premessa: i fatti di causa. – 2. I presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. – 3. Mancato rispetto dell’obbligo di repêchage, manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento economico ed applicabilità della tutela reintegratoria attenuata: la Suprema Corte interpreta l’art. 18, comma 7 della l. n. 300 del 1970. – 4. Riflessioni conclusive.

Sinossi. Dopo aver brevemente ripercorso gli itinerari giurisprudenziali relativi ai presupposti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il commento si concentra sulla parte più innovativa della sentenza presa in esame, ovvero sulle conseguenze sanzionatorie del mancato rispetto dell’obbligo di repêchage da parte del datore di lavoro. Poiché infatti l’art. 18, comma 7 della l. n. 300 del 1970 (nuovo testo) consente al giudice di merito di scegliere, in proposito, tra la tutela reintegratoria attenuata e quella indennitaria forte, senza conformare in alcun modo il relativo potere discrezionale, la Corte di Cassazione utilizza le categorie del diritto civile per poter affermare (in termini innovativi, per l’appunto) che la prima può applicarsi soltanto laddove non appaia eccessivamente onerosa in quanto incompatibile con la struttura organizzativa assunta dall’impresa (ai sensi dell’art. 2058, secondo comma, c.c.).

1. Premessa: i fatti di causa. Con l’interessante decisione in commento la Corte di Cassazione si pronuncia sulle conseguenze sanzionatorie del mancato rispetto dell’obbligo di repêchage nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, offrendo un’interpretazione innovativa dell’art. 18, comma 7 della l. n. 300 del 1970, nella versione modificata dalla c.d. “Riforma Monti-Fornero” (l. n. 92 del 2012), ed in particolare del concetto, in esso contenuto, di “manifesta insussistenza del fatto” posto alla base della relativa decisione datoriale. Prima di entrare nel merito di tale interpretazione e del percorso argomentativo che ad essa ha condotto, vale la pena di ripercorrere brevemente i fatti di causa. I giudici di legittimità, infatti, si sono trovati a dover prendere posizione in merito ad una sentenza con la quale, nell’estate del 2016, la Corte d’Appello di Bologna (in sede

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di reclamo, alla stregua di quanto previsto dall’art. 1, comma 58 della l. n. 92 del 20121), facendo proprie le conclusioni del Tribunale di Parma di circa due anni prima, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento economico intimato da Fiere di Parma S.p.A. nei confronti di una dipendente proprio per non aver assolto all’obbligo di repêchage, ovvero per non aver tentato di ricollocarla altrove. Alla luce di siffatta pronuncia di illegittimità, il giudice di secondo grado aveva ritenuto di applicare, sotto il profilo sanzionatorio, la c.d. tutela indennitaria forte di cui all’art. 18, comma 5 della l. n. 300 del 1970, così come modificato dalla c.d. “Riforma Monti-Fornero”, già richiamata poco sopra. Più nel dettaglio la Corte d’Appello, pur ravvisando, in concreto, la necessità di una riorganizzazione aziendale – dovuta, tra l’altro, a bilanci che negli ultimi anni erano stati assai problematici, e realizzatasi con l’esternalizzazione di alcune attività – si era espressa negativamente in ordine al rispetto dell’obbligo di repêchage per il fatto che, nel medesimo lasso temporale, l’impresa datrice di lavoro aveva proceduto a diverse nuove assunzioni. Di qui, dopo aver reputato non sussistente la natura ritorsiva del licenziamento, la medesima Corte d’Appello, tenuto conto delle dimensioni aziendali e dell’anzianità di servizio della lavoratrice, aveva calcolato l’indennità risarcitoria in quindici mensilità della retribuzione globale di fatto. Non concordando, evidentemente, con le valutazioni dei giudici tanto di primo quanto di secondo grado, la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione contro la decisione della Corte d’Appello di Bologna, fondandolo su quattro ordini di motivi. I giudici di legittimità si sono concentrati, in particolare, sul secondo di detti motivi, ripercorrendo anzitutto gli itinerari giurisprudenziali relativi ai presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e proponendo, successivamente, l’innovativa interpretazione dell’art. 18, comma 7 della novellata l. n. 300 del 1970 cui si accennava in apertura. Di entrambi i citati aspetti si darà conto, dettagliatamente, nei paragrafi che seguono.

2. I presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato

motivo oggettivo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Per quanto concerne, anzitutto, i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, va detto che i supremi giudici se ne occupano nel prendere posizione sia sul primo che su parte del secondo motivo di ricorso (ritenendoli entrambi infondati). Essi infatti si esprimono, in primo luogo, sulla portata dell’espressione “ragione inerente all’attività produttiva”, di cui all’art. 3 della l. n. 604 del 1966 e, coerentemente con la propria consolidata giurisprudenza, ne danno un’interpretazione ampia, sganciando la

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Una disposizione, quest’ultima, che si inserisce nel c.d. “rito Fornero”, in merito al quale si rinvia, tra i molti, a Curzio, Il nuovo rito per i licenziamenti, WP D’Antona, It., n. 158/2012, 1 ss.

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decisione datoriale di ridimensionare il personale dalla sussistenza di problemi economici o da una vera e propria crisi aziendale2. Ne consegue che la modifica organizzativa connessa a siffatta decisione datoriale ed in grado di legittimare l’irrogazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo può assumere fattezze assai diversificate. Rientrano, infatti, nel concetto di “ragione inerente all’attività produttiva” (oltre, ovviamente, ad eventuali crisi aziendali), una serie di situazioni di cui la giurisprudenza, anche di legittimità, ha avuto modo di occuparsi in numerose occasioni. Si tratta, a titolo di esempio, del caso in cui il licenziamento economico sia dovuto all’esternalizzazione delle attività alle quali il lavoratore che si intende licenziare è addetto, oppure alla vera e propria soppressione del relativo posto di lavoro, oppure ancora alla redistribuzione, tra i colleghi del lavoratore medesimo, delle mansioni svolte da quest’ultimo, nonché, infine, all’innovazione tecnologica che rende il suo apporto all’organizzazione aziendale del datore di lavoro non può necessario3. A ciò deve aggiungersi che la giurisprudenza – in ossequio al principio dell’insindacabilità delle scelte datoriali, invocato da tempo dalla dottrina pressoché unanime e dalla medesima giurisprudenza4, ma ribadito anche, più di recente, dal legislatore5 – ammette la possibilità di ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo pure laddove il datore di lavoro voglia migliorare l’efficienza della propria impresa o incrementarne la produttività. Acclarata, in tal modo, la portata dell’espressione “ragione inerente all’attività produttiva”, la Corte di Cassazione non si esime dal ribadire gli ulteriori (e del tutto consolidati) presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo6, che si estrinsecano, come noto, nel controllo sull’effettività della modifica tecnico-organizzativa che il datore di lavoro ha deciso di adottare, sul nesso di causalità tra la suddetta modifica ed il licenziamento concretamente intimato nonché, da ultimo, proprio sul rispetto, da parte del datore di lavoro medesimo, dell’obbligo di repêchage7.

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In proposito si cfr., da ultimo, Cass., 20 ottobre 2017, n. 24882, disponibile al sito web www.cortedicassazione.it e Cass., 3 maggio 2017, n. 10699, in RIDL, 2017, II, 743, con nota lunga di Pallini, La “irrilevanza” dei motivi dell’impresa nel sindacato di legittimità del licenziamento economico. Si v., altresì, Brun, Il licenziamento economico tra esigenze dell’impresa e interesse alla stabilità, Cedam, 2012, 33 ss. e M. T. Carinci, L’obbligo di «ripescaggio» nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs Act, in RIDL, 2017, I, 203 ss., spec. 209 ss. V., sul punto, Cass., 24 maggio 2017, n. 13015, in RIDL, 2017, II, 743, con nota lunga di Pallini, cit. (relativa alla redistribuzione delle mansioni svolte dal lavoratore licenziato) e Cass., 4 novembre 2004, n. 21121, in D&G, 2004, 45, 120 (concernente, più in generale, l’insindacabilità della decisione datoriale di procedere ad una riorganizzazione della propria impresa, alla quale era conseguito il licenziamento economico). Cfr., sul punto, Brun, op. cit., 18 ss. Ci si riferisce, in particolare, all’art. 30, comma 1 della l. n. 183 del 2010, sul quale si rinvia a M. T. Carinci, Clausole generali e limiti al sindacato del giudice. A proposito dell’art. 30, l. n. 183/2010, in Marinelli, Nogler (a cura di), La riforma del mercato del lavoro. Commento alla legge 4 novembre 2010, n. 183, Utet, 2012, 216 ss. Si v., in proposito, M. T. Carinci, L’obbligo di «ripescaggio» nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs Act, cit., 209 ss.; Varva, Il licenziamento economico. Pretese del legislatore e tecnica del giudizio, Torino, 2015, 29 ss. Cfr., su questo punto, Ferraresi, Recenti sviluppi del dibattito sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in DRI, 2018, 531 ss., nonché Id., Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Dalla legge 604 del 1966 al contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2016.

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Se sui primi due dei suddetti presupposti i supremi giudici decidono di non soffermarsi, non essendo essi rilevanti, in effetti, ai fini della decisione, è il terzo che viene invece attentamente sviscerato. Volendo dunque, in secondo luogo, approfondire quanto affermato, sul punto, nella sentenza che si sta commentando, va messo luce come, in generale, la giurisprudenza di legittimità reputi tale presupposto di grande importanza ai fini della valutazione della legittimità o meno del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui si tratta. La Corte di Cassazione, del resto, ritiene che tale legittimità presupponga, da un lato, l’esigenza di soppressione di un determinato posto di lavoro (corredata delle diverse forme di controllo sull’operato del datore di lavoro di cui si è detto poc’anzi, verrebbe da aggiungere) e, dall’altro, l’impossibilità di collocare il lavoratore che si intende licenziare, alla luce della professionalità maturata, in un’altra posizione analoga a quella soppressa, mettendole di fatto sullo stesso piano8. In altri termini, e richiamando in proposito una serie di proprie precedenti decisioni9, i giudici di legittimità asseriscono che l’obbligo di repêchage costituisce un elemento strutturale del giustificato motivo oggettivo di licenziamento inteso come limite interno, ovvero causale, dell’atto di recesso, alla stregua di quanto sostenuto, anche di recente, da autorevole dottrina10. In tale prospettiva, il fatto che il datore di lavoro assolva o meno il suddetto obbligo consente «di valutare ulteriormente, questa volta in una prospettiva negativa, se esiste effettivamente, nel caso concreto, uno stringente nesso causale fra licenziamento e nuova organizzazione disposta dal datore di lavoro»11 medesimo. Laddove l’obbligo di repêchage non venga adempiuto, il licenziamento eventualmente irrogato non può cioè ritenersi legittimo perché non sorretto dalla modifica tecnico-organizzativa addotta per giustificarlo. Una presa di posizione, quest’ultima, che appare particolarmente significativa, specie se si rammenta che il suddetto obbligo non trova il proprio fondamento in interventi di matrice legislativa, ma ha natura prettamente giurisprudenziale. Il fatto che l’obbligo di repêchage possa essere inteso quale elemento strutturale del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, da leggersi tra l’altro in una prospettiva negativa, pare essere ulteriormente confermato da quanto i giudici di legittimità hanno di recente iniziato ad asserire in merito alla ripartizione del relativo onere della prova. Modificando, in proposito, il proprio precedente orientamento, essi ritengono, attualmente, che il suddetto onere della prova incomba non già sul lavoratore, come affermato in passato, bensì al contrario sul datore di lavoro, cui spetta dunque convincere il giudice dell’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore licenziato12. Secondo l’autorevole dottrina poco

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V., in particolare, l’incipit del punto 7 della decisione in esame. Cfr., a titolo di esempio, Cass., 13 giugno 2016, n. 12101, in DRI, 2016, 842, con nota di Ferraresi e Cass., 5 marzo 2015, n. 4460, in www.cortedicassazione.it. 10 Si cfr., in particolare, M. T. Carinci, L’obbligo di «ripescaggio» nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs Act, cit., 212 ss. 11 Così, testualmente, M. T. Carinci, L’obbligo di «ripescaggio» nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs Act, cit., 215 s. 12 Cfr., sul punto, tra le molte, Cass., 22 novembre 2017, n. 27792, in www.cortedicassazione.it, Cass., 20 ottobre 2017, n. 24882, cit., Cass., 19 aprile 2017, n. 9869, in GD, 2017, 20, 82 e Cass., 5 gennaio 2017, n. 160, in RIDL, 2017, II, 12 con nota di Colella. Si v., altresì, 9

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sopra citata, sarebbe proprio la ritrovata unitarietà in merito alla ripartizione dell’onere della prova, ribadita anche dalla decisione in commento, a confermare seppure indirettamente la bontà della ricostruzione proposta: tale unitarietà – consistente nella circostanza di accollare integralmente al datore di lavoro il suddetto onere, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966 – dimostrerebbe che l’obbligo di repêchage fa strutturalmente parte della nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, anch’essa da intendersi, dunque, in termini unitari13.

3.

Mancato rispetto dell’obbligo di repêchage, manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento economico ed applicabilità della tutela reintegratoria attenuata: la Suprema Corte interpreta l’art. 18, comma 7 della l. n. 300 del 1970. Ricostruiti, in tal modo, i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e messa in luce l’importanza che, tra questi, la Corte di Cassazione ha inteso attribuire all’obbligo di repêchage (tanto nella sentenza in esame, quanto nei numerosi precedenti ad esso dedicati), è il caso, ora, di analizzare nel dettaglio la parte forse più interessante della decisione che si sta commentando, quella nella quale i giudici di legittimità si pronunciano sulle conseguenze sanzionatorie del mancato rispetto, da parte del datore di lavoro, di siffatto obbligo. Il percorso argomentativo seguito da questi ultimi, del resto, consente loro di dare un’interpretazione per molti versi innovativa dell’art. 18, comma 7 della l. n. 300 del 1970, proprio con riguardo alle suddette conseguenze sanzionatorie. Come già si accennava in precedenza, il fulcro del relativo ragionamento è costituito dalle argomentazioni che la Suprema Corte enuclea nel prendere posizione sul secondo motivo di ricorso. Tale motivo di ricorso riguarda proprio le conseguenze sanzionatorie del mancato rispetto dell’obbligo di repêchage: la Corte d’Appello di Bologna aveva infatti ritenuto che esse fossero di tipo risarcitorio, mentre la ricorrente sosteneva, al contrario, che nel caso di specie dovesse applicarsi la tutela reintegratoria14. Ebbene, al fine di potersi pronunciare in proposito, i giudici di legittimità decidono di approfondire la questione, soffermandosi, in particolare, sulla portata applicativa del (nuovo) art. 18, comma 7, della l. n. 300 del 1970. Ciò significa – vale la pena di ribadirlo – che il ragionamento effettuato nella decisione in commento riguarda soltanto i lavoratori cui

Ianniruberto, Licenziamento e repêchage: allegazione e prova, in RIDL, 2017, I, 397 ss. Si cfr. M. T. Carinci, L’obbligo di «ripescaggio» nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs Act, cit., 217 ss. 14 V., in proposito, il punto 6 della sentenza che si sta commentando. 13

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tale disposizione si applica, non, dunque, coloro che sono stati assunti ai sensi del d.lgs. n. 23 del 2015, ovvero con il c.d. contratto a tutele crescenti15. Entrando ora nel merito del suddetto ragionamento, va posto preliminarmente in luce come la Corte di Cassazione ribadisca, in generale, la fondamentale importanza del rispetto, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo di repêchage, per il fatto che tale obbligo rientra, insieme all’esigenza della soppressione del posto di lavoro, nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Si tratta, a ben vedere, di presupposti che, a quanto pare di poter evincere dalle affermazioni dei giudici di legittimità, si pongono sul medesimo piano, hanno cioè pari dignità16. Ciò detto, gli stessi giudici di legittimità si addentrano nell’analisi dell’art. 18, comma 7 della l. n. 300 del 1970, il quale come noto riguarda le conseguenze sanzionatorie che gravano sul datore di lavoro nel caso in cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo concretamente irrogato si riveli illegittimo. Si tratta di situazioni a fronte delle quali trova applicazione, in generale, la c.d. tutela risarcitoria forte (di cui all’art. 18, comma 4 della medesima l. n. 300 del 1970). Va peraltro messo in luce come tale regola patisca una serie di eccezioni, legate da un lato alla violazione di specifiche norme di legge17 e relative dall’altro ad ipotesi ulteriori che, per come è stata formulata la disposizione, sollevano non pochi dubbi interpretativi. Laddove si verifichino tali eccezioni sarà applicabile (ovvero, come si avrà modo di dire più precisamente tra un momento, potrà in certi casi applicarsi) la c.d. tutela reintegratoria attenuata. Venendo, allora, alla categoria di eccezioni che come detto si rivelano più problematiche, va anzitutto posto in luce come esse siano disciplinate da quella parte del comma 7 dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970, ai sensi della quale il giudice «può altresì applicare la predetta disciplina (quella relativa alla tutela reintegratoria attenuata) nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo»18. Dalla disposizione in esame emergono quanto meno due diversi ordini di problemi interpretativi. In primo luogo, lo si accennava già poco sopra, a differenza di quanto accade con riguardo alle eccezioni legate alla violazione di specifiche norme di legge, nel caso in esame il giudice non è tenuto ricorrere alla tutela reintegratoria attenuata, ma può decidere

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Su tale provvedimento normativo e le sue caratteristiche cfr., a titolo esemplificativo, Magnani, Correzioni e persistenti aporie del regime sanzionatorio dei licenziamenti: il cd. contratto a tutele crescenti, WP D’Antona, It., n. 256/2015, 1 ss. 16 V., in particolare, il punto 7.1. della decisione in esame. 17 Stabilisce infatti la prima parte dell’art. 18, comma 7 della l. n. 300 del 1970 che «il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo (e cioè la tutela reintegratoria attenuata) nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile». 18 Cfr., in proposito, le riflessioni critiche di Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in RIDL, 2012, I, 521 ss., spec. 558 ss. nonché, Id., La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e giurisprudenza, WP D’Antona, It., n. 190/2013, 1 ss., spec. 34 ss.

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di farlo. Ne consegue la necessità di comprendere se il giudice medesimo possa operare del tutto discrezionalmente, ovvero se debbano, in proposito, essere applicati determinati criteri e/o rispettati determinati limiti. In secondo luogo, ed ancor più significativamente, si pone il problema di capire che cosa debba intendersi con l’espressione “manifesta insussistenza del fatto” su cui si fonda la decisione datoriale di irrogare il licenziamento economico e che consente il ricorso alla tutela reintegratoria attenuata. La Corte di Cassazione si sofferma, anzitutto, sul secondo di tali problemi interpretativi, asserendo che la suddetta espressione, ed in particolare la parola “fatto” in essa contenuta, va riferita alla nozione di giustificato motivo complessivamente intesa, per come cioè è stata elaborata, nel tempo, dalla giurisprudenza. Secondo i supremi giudici, del resto, “l’insussistenza del fatto” di cui all’art. 18, comma 7 della l. n. 300 del 1970 si sostanzia nell’ingiustificatezza del licenziamento irrogato perché carente di uno dei due presupposti che lo legittimano, ovvero l’esigenza della soppressione di un posto di lavoro e/o l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. Si tratta di una affermazione assai rilevante, perché apre potenzialmente la strada all’applicazione della tutela reintegratoria attenuata anche nel caso in cui vi sia stata una violazione dell’obbligo di repêchage che, come si è già avuto modo di dire in precedenza, non ha fondamento legislativo19. Chiarito in tal modo che cosa debba intendersi per “fatto”, la Corte di Cassazione concentra secondariamente la propria attenzione sul concetto di “manifesta insussistenza” di esso: un concetto la cui importanza è fondamentale proprio per capire se possa astrattamente applicarsi o meno, nel caso di specie, la tutela reintegratoria attenuata. In proposito, i supremi giudici fanno propria un’interpretazione restrittiva, affermando che la “manifesta insussistenza” consiste in «una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso»20. Si tratta, a ben vedere, di un’interpretazione che può ritenersi senz’altro corretta, stante il ruolo del tutto marginale che il legislatore del 2012 ha voluto assegnare alla reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato per motivi economici21. È proprio con riferimento ai casi (residuali, come si accennava) in cui il fatto posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in concreto intimato sia ritenuto manifestamente insussistente che il giudice di merito può prendere la decisione di applicare la tutela reintegratoria attenuata (ma non è, evidentemente, tenuto a farlo, potendo anche preferire quella risarcitoria forte). Una possibilità, quest’ultima, che induce la Corte di Cassazione a tentare di elaborare una soluzione in merito al primo dei problemi interpretativi che si sono segnalati, concernente la natura e le caratteristiche di siffatta decisione22. Del resto, stanti la laconicità del passaggio dell’art. 18, comma 7 della l. n. 300

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Su questo punto si v., tra i molti, Ferraresi, Recenti sviluppi del dibattito sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento, cit. È quanto affermato, testualmente, dalla Suprema Corte al punto 7.1 della sentenza che si sta commentando. 21 A questo proposito si v., ad esempio, Mazzotta, Diritto del Lavoro, Giuffrè, 2016, 713 ss.; per approfondimenti critici si cfr. altresì Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e giurisprudenza, cit., 34 ss. 22 V., in particolare, il punto 7.2 della decisione in esame. 20

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del 1970 che si sta esaminando e l’obbligo di motivazione cui è sottoposto il medesimo giudice di merito nel momento in cui opti per l’una o per l’altra alternativa, appare necessario individuare una serie di criteri e/o di limiti all’esercizio del relativo potere discrezionale da parte di quest’ultimo. A giudizio di chi scrive, quella relativa all’enucleazione di tali criteri e/o limiti costituisce la parte più interessante della decisione in commento, attesa, soprattutto, la sua innovatività. In proposito, la Suprema Corte mette in luce come, in mancanza di indicazioni provenienti del legislatore, il giudice di merito debba esercitare il proprio potere discrezionale, secondo il canone della ragionevolezza, alla stregua dei principi generali dell’ordinamento giuridico in materia di risarcimento del danno. Principi generali che, secondo la Suprema Corte medesima, troverebbero espressione, in particolare, nel concetto di eccessiva onerosità di cui all’art. 2058, comma 2, c.c., ai sensi del quale, come noto, qualora la reintegrazione in forma specifica richiesta dal danneggiato risulti, per l’appunto, eccessivamente onerosa per il debitore, il giudice può disporre che il risarcimento avvenga soltanto per equivalente. Trattandosi di disposizione applicabile anche ai casi di responsabilità contrattuale23, la Corte di Cassazione la ritiene in grado di costituire un criterio e/o limite capace di conformare il potere discrezionale del giudice di merito con riguardo al regime sanzionatorio da applicare nel caso concreto. Qualora cioè il ricorso alla tutela reintegratoria attenuata assuma i caratteri dell’eccessiva onerosità in quanto difficilmente compatibile con l’attuale struttura organizzativa dell’impresa datrice di lavoro, il medesimo giudice di merito sarà legittimato prediligere quella risarcitoria forte, e ciò nonostante sia stata accertata la manifesta insussistenza di uno dei due presupposti di legittimità del licenziamento.

4. Riflessioni conclusive. Volendo, a questo punto, trarre qualche conclusione da quanto si è detto nelle pagine precedenti, pare il caso di rammentare, anzitutto, che con la decisione in commento la Suprema Corte fa molto opportunamente chiarezza con riguardo alla nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ritenendo che l’assolvimento dell’obbligo di repêchage faccia strutturalmente parte della suddetta nozione. Ciò le consente, ulteriormente, di affermare che la violazione del suddetto obbligo determina la “manifesta insussistenza del fatto” posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo concretamente irrogato e, di conseguenza, la possibilità di ricorrere, sul piano sanzionatorio, alla tutela reintegratoria attenuata. Si tratta di una presa di posizione che, come già si

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Come affermato da Cass. civ., Sez. III, 2 luglio 2010, n. 15726, in RCP, 2011, 9, 1796, con nota di Musolino e da Cass., 21 febbraio 2001, n. 2569, in MGL, 2001, 730, con nota di Figurati.

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accennava in precedenza, assume notevole rilevanza, sia in generale, sia per il fatto di riguardare una questione sulla quale sia la dottrina che la giurisprudenza appaiono divise24. Inoltre, la Corte di Cassazione individua nell’eccessiva onerosità della prestazione di cui all’art. 2058, comma 2, c.c. il criterio e/o limite in base al quale il giudice di merito deve orientare la propria decisione con riguardo al regime sanzionatorio da applicare nel caso di specie. Si tratta, a ben vedere, di una soluzione al tempo stesso innovativa e tradizionale: innovativa perché, nel silenzio della legge, finisce col limitare efficacemente il potere discrezionale del medesimo giudice di merito; tradizionale perché, come accaduto in molte altre occasioni, a fronte di una disciplina giuslavoristica lacunosa, è il ricorso alle categorie del diritto privato in funzione di supplenza a dare indicazioni utili a risolvere eventuali problemi interpretativi. Matteo Borzaga

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Per il suddetto dibattito dottrinale e giurisprudenziale si cfr., da ultimo, M. T. Carinci, L’obbligo di «ripescaggio» nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs Act, cit., 237 ss. (ed in particolare la nota 110).

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Giurisprudenza Tribunale di Torino, sentenza 11 aprile 2018, n. 778; Giud. Buzano – A. A. (avv.ti Bonetto, Druetta) c. Digital Services XXXVI Italy S.r.l. (avv.ti Tosi, Lunardon, Realmonte). Lavoro (rapporto di) – Lavoro dei ciclo-fattorini – Obbligo di effettuare la prestazione – Insussistenza – Potere direttivo – Esclusione – Subordinazione – Insussistenza.

Sono da qualificarsi come lavoratori autonomi i ciclo-fattorini sui quali non grava l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa. Questa caratteristica del rapporto può essere considerata di per sé determinante ai fini di escludere la subordinazione perché è evidente che, se il datore di lavoro non può pretendere dal lavoratore lo svolgimento della prestazione lavorativa, non può neppure esercitare il potere direttivo e organizzativo. Lavoro (rapporto di) – Collaborazioni etero-organizzate – Applicazione della disciplina della subordinazione – Sottoposizione al potere direttivo – Necessità.

La disposizione di cui all’art. 2 del d.lgs. 81/2015 non ha un contenuto capace di produrre nuovi effetti giuridici sul piano della disciplina applicabile alle diverse tipologie di rapporti di lavoro, essendo necessario, ai fini dell’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, che il lavoratore sia sottoposto al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro e non essendo sufficiente che tale potere si estrinsechi soltanto con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Motivi della decisione I ricorrenti hanno convenuto in giudizio la Digital Services XXXVI Italy s.r.l. (Foodora) deducendo di avere prestato la propria attività lavorativa a favore della convenuta con mansioni di fattorino in forza di contratti di collaborazione coordinata e continuativa a tempo determinato prorogati fino al 30.11.2016 e chiedendo l’accertamento della costituzione tra le parti di un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con condanna della convenuta: – alla corresponsione delle somme a loro dovute a titolo di differenze retributive dirette e indirette e competenze di fine rapporto in forza dell’inquadramento nel V livello del CCNL logistica o nel VI livello del CCNL terziario; – al ripristino del rapporto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento (30.11.2016) a quella dell’effettivo ripristino, previo accertamento della nullità, inefficacia o illegittimità del licenziamento; – al risarcimento del danno subito per la violazione da parte del datore di lavoro della normativa in materia di privacy, sia per quanto concerne l’accesso ai dati personali che per quanto concerne il controllo a distanza; – al risarcimento del danno subito per la violazione da parte del datore di lavoro delle disposizioni di

cui all’art. 2087 c.c. e per la mancanza di un’adeguata tutela antinfortunistica. Si è costituita in giudizio la convenuta contestando in fatto e in diritto il fondamento delle domande. Dopo avere autorizzato il deposito di memorie sulle deduzioni istruttorie, il giudice ha interrogato liberamente i ricorrenti e il legale rappresentante della convenuta e ha ammesso alcuni dei numerosi capitoli di prova testimoniale dedotti dalle parti. Assunte le prove, all’udienza di discussione dell’11.4.2018 il giudice ha deciso la causa come da dispositivo. Premessa La controversia ha per oggetto esclusivamente la domanda di accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti (con le connesse domande di corresponsione delle differenze retributive e di accertamento della nullità, inefficacia o illegittimità del licenziamento), oltre ad alcune domande accessorie relative alla violazione delle norme sulla privacy, sul controllo a distanza e sulla tutela antinfortunistica. In questa sentenza non verranno quindi prese in considerazione le questioni relative all’adeguatezza del compenso e al presunto sfruttamento dei lavoratori da parte dell’azienda, né tutte le altre complesse problematiche della cd. Gig Economy. La volontà delle parti


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I ricorrenti hanno tutti sottoscritto dei contratti di “collaborazione coordinata e continuativa” nei quali si è dato atto che “il collaboratore agirà in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo di subordinazione, potere gerarchico o disciplinare, ovvero a vincoli di presenza o di orario di qualsiasi genere nei confronti della committente” (doc. 6 dei ricorrenti). È quindi chiaro che le parti hanno inteso dar vita a un rapporto di lavoro autonomo, sia pure a carattere coordinato e continuativo. È peraltro noto che “ai fini della determinazione della natura autonoma o subordinata di un rapporto di lavoro, la formale qualificazione operata dalle parti in sede di conclusione del contratto individuale, seppure rilevante, non è determinante, posto che le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, potrebbero avere simulatamente dichiarato di volere un rapporto autonomo alfine di eludere la disciplina legale in materia” (Cass. 19.8.2013 n. 19199; Cass. 8.4.2015 n. 7024; Cass. 1.3.2018 n. 4884). Occorre pertanto prendere in considerazione le concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. La prestazione lavorativa La prestazione lavorativa dei ricorrenti si è svolta a grandi linee nel modo seguente. Dopo avere compilato un formulario sul sito di Foodora (doc. 12 ricorrenti), venivano convocati in piccoli gruppi presso l’ufficio di Torino per un primo colloquio nel quale veniva loro spiegato che l’attività presupponeva il possesso di una bicicletta e la disponibilità di uno smartphone; in un secondo momento veniva loro proposta la sottoscrizione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, dietro versamento di una caparra di Euro 50, venivano loro consegnati i dispositivi di sicurezza (casco, maglietta, giubbotto e luci) e l’attrezzatura per il trasporto del cibo (piastra di aggancio e box). Il contratto che veniva sottoscritto aveva le seguenti caratteristiche (risultanti dallo stesso doc. 6 dei ricorrenti): – era un contratto di “collaborazione coordinata e continuativa”; – era previsto che il lavoratore fosse “libero di candidarsi o non candidarsi per una specifica corsa a seconda delle proprie disponibilità ed esigenze di vita”; – il lavoratore si impegnava ad eseguire le consegne avvalendosi di una propria bicicletta “idonea e dotata di tutti i requisiti richiesti dalla legge per la circolazione”; – era previsto che il collaboratore avrebbe agito “in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo di subordinazione, potere gerarchico o disciplinare, ovvero a vincoli di presenza o di orario di qualsiasi genere nei confronti della committente”, ma era tuttavia “fatto salvo il necessario coor-

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dinamento generale con l’attività della stessa committente”; – era prevista la possibilità di recedere liberamente dal contratto, anche prima della scadenza concordata, con comunicazione scritta da inviarsi a mezzo raccomandata a/r con 30 giorni di anticipo; – il lavoratore, una volta candidatosi per una corsa, si impegnava ad effettuare la consegna tassativamente entro 30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, pena applicazione a suo carico di una penale di 15 Euro; – il compenso era stabilito in Euro 5,60 al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali per ciascuna ora di disponibilità; – il collaboratore doveva provvedere ad inoltrare all’INPS “domanda di iscrizione alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995 n.335” e la committente doveva provvedere a versare il relativo contributo; – la committente doveva provvedere all’iscrizione del collaboratore all’INAIL ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. 23 febbraio 2000 n. 38; il premio era a carico del collaboratore per un terzo e della committente per due terzi; – la committente doveva affidare al collaboratore in comodato gratuito un casco da ciclista, un giubbotto e un bauletto dotato dei segni distintivi dell’azienda a fronte di un versamento di una cauzione di Euro 50. Al contratto era allegato un foglio contenente l’informativa sul trattamento dei dati personali e la prestazione del consenso. La gestione del rapporto avveniva attraverso la piattaforma multimediale “Shyftplan” e un applicativo per smartphone (inizialmente “Urban Ninjia” e poi “Hurrier”), per il cui uso venivano fornite da Foodora delle apposite istruzioni (doc.14 e 15 ricorrenti). L’azienda pubblicava settimanalmente su Shyftplan gli “slot”, con indicazione del numero di riders necessari per coprire ciascun turno. Ciascun rider poteva dare la propria disponibilità per i vari slot in base alle proprie esigenze personali, ma non era obbligato a farlo. Raccolte le disponibilità, il responsabile della “flotta” confermava tramite Shyftplan ai singoli riders l’assegnazione del turno. Ricevuta la conferma del turno, il lavoratore doveva recarsi all’orario di inizio del turno in una delle tre zone di partenza predefinite (Piazza Vittorio Veneto, Piazza Carlo Felice o Piazza Bernini), attivare l’applicativo Hurrier inserendo le credenziali (user name e password) per effettuare l’accesso (login) e avviare la geolocalizzazione (GPS). Il rider riceveva quindi sulla app la notifica dell’ordine con l’indicazione dell’indirizzo del ristorante. Accettato l’ordine, il rider doveva recarsi con la propria bicicletta al ristorante, prendere in consegna


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i prodotti, controllarne la corrispondenza con l’ordine e comunicare tramite l’apposito comando della app il buon esito della verifica. A questo punto, posizionato il cibo nel box, il rider doveva provvedere a consegnarlo al cliente, il cui indirizzo gli era stato nel frattempo comunicato tramite la app; doveva quindi confermare di avere regolarmente effettuato la consegna. Autonomia o subordinazione? Sono innumerevoli le sentenze che si sono occupate della distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, ma il criterio principale elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione è quello secondo cui “costituisce requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative” (tra le tante, Cass. 8.2.2010 n. 2728). Ci sono poi altri criteri che hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria come quelli relativi all’osservanza di un determinato orario, all’inserimento della prestazione nell’organizzazione aziendale, all’assenza di rischio per il lavoratore o alla forma della retribuzione. Occorre quindi stabilire se i ricorrenti fossero o meno sottoposti al potere direttivo, organizzativo e disciplinare di Foodora (quella che viene comunemente chiamata “eterodirezione” della prestazione). Sottoposizione al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro

Il rapporto di lavoro intercorso tra le parti era caratterizzato dal fatto che i ricorrenti non avevano l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa e il datore di lavoro non aveva l’obbligo di riceverla. È infatti pacifico che i ricorrenti potevano dare la propria disponibilità per uno dei turni indicati da Foodora, ma non erano obbligati a farlo; a sua volta Foodora poteva accettare la disponibilità data dai ricorrenti e inserirli nei turni da loro richiesti, ma poteva anche non farlo. Questa caratteristica del rapporto di lavoro intercorso tra le parti può essere considerata di per sè determinante ai fini di escludere la sottoposizione dei ricorrenti al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro perché è evidente che se il datore di lavoro non può pretendere dal lavoratore lo svolgimento della prestazione lavorativa non può neppure esercitare il potere direttivo e organizzativo. Si tratta di un profilo che era stato già messo in rilievo dalla Corte di Cassazione tanti anni fa, quando si era pronunciata in merito a una vicenda che presentava una certa analogia con quella attuale perché riguardava la consegna di plichi effettuata da lavoratori

qualificati come autonomi: la Corte aveva allora affermato che proprio la “non obbligatorietà” della prestazione lavorativa escludeva in radice la subordinazione perché “la configurabilità della ‘eterodirezione’ contrasta con l’assunto secondo cui la parte che deve rendere la prestazione può, a suo libito, interrompere il tramite attraverso il quale si estrinseca il potere direttivo dell’imprenditore” (Cass. 7608/1991 e 811/1993). Il discorso potrebbe chiudersi già qui, ma facciamo un passo ulteriore. Si potrebbe infatti sostenere che il datore di lavoro – pur essendo privo del potere di pretendere dal lavoratore l’esecuzione della prestazione – può in concreto cominciare ad esercitare il potere direttivo e organizzativo dal momento in cui i lavoratori vengono inseriti in un certo turno di lavoro, a seguito della disponibilità da loro manifestata. Bisogna allora verificare se da tale momento il potere direttivo e organizzativo sia stato effettivamente esercitato dalla società Foodora. A questo scopo è necessario affrontare il delicato problema della distinzione tra “coordinamento” e “subordinazione”. Coordinamento e subordinazione È lo stesso legislatore a chiarire che si tratta di due concetti diversi perchè può esserci coordinamento senza subordinazione. Nell’art. 409 c.p.c. il legislatore ha infatti previsto al n. 3) l’applicabilità delle disposizioni sulle controversie individuali di lavoro ai “rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. Nel corso degli anni il legislatore ha poi emanato diverse disposizioni di legge con le quali ha previsto e disciplinato varie forme di collaborazioni coordinate e continuative non subordinate, dalla legge “Biagi” alla legge “Fornero” e ai decreti del “Jobs Act” (di cui avremo modo di parlare in seguito). Ma quale è la differenza tra coordinamento e subordinazione? Lo abbiamo già detto prima, quando abbiamo citato la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro “discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative”. È chiaro che una volta la cosa era più semplice perché gli “ordini specifici” venivano dati direttamente in officina dal capo reparto al capo squadra e dal capo squadra agli operai. Nella società attuale è indubbio che gli ordini possono essere impartiti con altri strumenti che prescindono dalla presenza fisica nello stesso luogo di chi dà gli ordini e di chi li riceve: possono essere dati via e-mail o via internet o anche con l’utilizzo di apposite “app” dello smartphone.

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Bisogna allora verificare se in concreto questi nuovi strumenti di comunicazione siano stati utilizzati da Foodora per impartire ai ricorrenti degli ordini specifici e per sottoporli a un’assidua attività di vigilanza e controllo. I ricorrenti sostengono che Foodora avrebbe loro impartito delle direttive tecniche dettagliate in ordine all’intero iter relativo alla consegna attraverso: – la determinazione del luogo e dell’orario di lavoro (punti di partenza e fasce orarie); – la verifica della presenza dei riders nei punti di partenza e dell’attivazione del loro profilo sull’applicazione; – il richiamo dei lavoratori che tardavano ad accettare l’ordine; – la necessità, in caso di impossibilità di svolgere la prestazione lavorativa, di inoltrare ai superiori la richiesta di riassegnazione dell’ordine; – l’obbligo di effettuare la consegna dei prodotti in tempi prestabiliti, seguendo il percorso suggerito attraverso il GPS dalla stessa applicazione; – lo svolgimento di attività promozionali del brand Foodora; – l’esercizio del potere di controllo e di vigilanza, attraverso il monitoraggio della produttività dei singoli lavoratori. Ritiene il giudice che le circostanze sopra indicate in parte non abbiano trovato conferma nelle risultanze processuali e in parte non siano determinanti ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato. La determinazione del luogo e dell’orario di lavoro non veniva imposta unilateralmente dall’azienda che si limitava a pubblicare su Shiftplan gli slot con i turni di lavoro; i ricorrenti avevano la piena libertà di dare o meno la propria disponibilità per uno dei turni indicati dall’azienda. La verifica della presenza dei riders nei punti di partenza e dell’attivazione del loro profilo sull’applicazione rientra a pieno titolo nell’ambito del “coordinamento” perché è evidente che Foodora aveva la necessità di sapere su quanti riders poteva effettivamente contare per le consegne, anche in considerazione del fatto che un non trascurabile numero di lavoratori dopo l’inserimento nel turno non si presentava a rendere la prestazione senza alcuna comunicazione preventiva (cd. “no show”, di cui si parlerà ampiamente in seguito). I ricorrenti sottolineano il fatto che non avevano la possibilità di rifiutare la consegna perché c’era soltanto un tasto per accettare l’ordine che se non veniva premuto continuava a suonare. Si tratta di un elemento irrilevante. In primo luogo bisogna considerare che i contratti sottoscritti dai ricorrenti (a differenza di quelli stipulati in epoca successiva in cui era stabilito un pagamento a consegna) prevedevano la corresponsione di un compenso orario (Euro 5,60 lordi all’ora): è quindi logico

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che i ricorrenti fossero tenuti a fare le consegne che venivano loro comunicate nelle ore per le quali ricevevano il compenso. Comunque dalle testimonianze assunte è risultato che se c’era qualche problema i riders potevano chiamare il centralino e spiegare il motivo per cui non potevano fare l’ordine (teste omissis...) o che era il dispatcher a contattare il rider per sapere perchè non aveva accettato l’ordine (teste omissis...): è evidente che si tratta di un problema di “coordinamento” (e non di subordinazione) perché l’azienda ha la necessità di effettuare le consegne in un ristretto periodo di tempo per venire incontro alle esigenze del cliente e deve pertanto sapere se il rider accetta o meno l’ordine per provvedere eventualmente ad assegnare l’ordine a qualcun altro. È poi provato che i ricorrenti fossero liberi di scegliersi il percorso, come hanno confermato i testi. È vero invece che i ricorrenti potevano ricevere delle telefonate di sollecito durante l’effettuazione della consegna perché il sistema consentiva di vedere dove si trovava il rider in un determinato momento e di verificare quindi se era in ritardo (testi (omissis...) e (omissis...)): ma una telefonata di sollecito non può essere certo considerata l’emanazione di un ordine specifico né può costituire “esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative” (come richiesto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione ai fini del riconoscimento della subordinazione), mentre rientra a pieno titolo nelle esigenze di coordinamento dettate dalla necessità di rispetto dei tempi di consegna. Bisogna infatti considerare che il rispetto dei tempi di consegna era un elemento qualificante della prestazione richiesta ai riders, tanto da essere espressamente previsto dal contratto, anche mediante l’irrogazione di una penale da detrarre dal compenso. Né si può parlare di un costante monitoraggio della prestazione perché il sistema consentiva soltanto di fotografare la posizione del rider in maniera statica e non di seguirne l’intero percorso in modo dinamico. Non appare poi rilevante il fatto che, in caso di accettazione di un ordine a ridosso della fine del turno, ai ricorrenti potesse essere chiesto di effettuare la consegna anche dopo l’orario predefinito: è infatti risultato che in questo caso veniva chiesta la disponibilità dei riders a prolungare l’orario (dietro pagamento del compenso per il maggior tempo impiegato) e che l’azienda abbia dovuto addirittura cancellare degli ordini perché nessuno era disponibile a prolungare l’orario (testi omissis...). Quato allo svolgimento di attività “promozionale”, si tratta di una prestazione del tutto accessoria e secondaria che non può incidere sulla qualificazione del rapporto di lavoro. Si deve pertanto escludere che i ricorrenti fossero sottoposti al potere direttivo e orga-


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nizzativo del datore di lavoro, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. Sottoposizione al potere disciplinare I ricorrenti sostengono di essere stati sottoposti al potere disciplinare di Foodora che si sarebbe concretizzato nel richiamo verbale e nell’esclusione temporanea o definitiva dalla chat aziendale o dai turni di lavoro. Questa affermazione non ha trovato riscontro nelle risultanze processuali. È infatti chiaramente emerso che i ricorrenti potevano revocare la loro disponibilità su un turno già confermato dalla società utilizzando la funzione cd. “swap” e potevano anche non presentarsi a rendere la prestazione senza alcuna comunicazione preventiva (cd. “no show): – “capitava spesso che dei riders non si presentassero senza dire niente: percentualmente nel 20% dei casi...se un rider non vuole più fare un turno per il quale si è prenotato, può utilizzare la funzione swap cliccando sul tasto dello shyftplan e revocare la sua disponibilità” (teste omissis...); – “i riders possono revocare la propria disponibilità mediante la funzione swap e possono farlo fino ad inizio del turno... può capitare che qualcuno non si presenti senza avvisare soprattutto durante i week end... non abbiamo mai adottato alcuna penalizzazione per i riders che abbiano fatto utilizzo della funzione swap o che non si siano presentati” (teste omissis...); – “se uno dopo essersi prenotato per un turno, ma prima che iniziasse, voleva togliere la propria disponibilità, doveva utilizzare la funzione swap inoltrando una richiesta, a questo punto bisognava aspettare una risposta che arrivava via e-mail... poteva capitare che qualcuno non si presentasse; in questo caso veniva richiamato dal sistema ed eventualmente escluso dal turno” (teste omissis...). Non è risultato che in tali ipotesi l’azienda adottasse delle sanzioni disciplinari. I ricorrenti sostengono peraltro che l’esclusione dalla chat aziendale o dai turni di lavoro sarebbe avvenuta anche soltanto per sanzionare insubordinazioni o lamentele o comunque comportamenti non graditi all’azienda. Le prove testimoniali non hanno confermato l’esistenza di questo tipo di provvedimenti, ma soltanto la predisposizione per un limitato periodo di tempo di una “classifica” per premiare i più meritevoli (testi omissis...). Ed è evidente che una classifica diretta a premiare i più meritevoli è cosa del tutto diversa dall’uso del potere disciplinare. In linea di diritto si deve comunque escludere che il tipo di provvedimenti indicati dai ricorrenti (esclusione temporanea o definitiva dalla chat aziendale o dai turni di lavoro) possa costituire una sanzione disciplinare.

Quali sono infatti le caratteristiche delle sanzioni disciplinari? Le sanzioni disciplinari applicate ai lavoratori subordinati – sulla base dell’art. 7 della L.300/70 e delle disposizioni dei contratti collettivi – hanno come caratteristica comune quella di privare in via temporanea o definitiva i lavoratori dei loro diritti: – la multa priva il lavoratore di un certo numero di ore di retribuzione; – la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione priva il lavoratore in via temporanea del diritto di effettuare la prestazione lavorativa e di ricevere la retribuzione; – il licenziamento priva il lavoratore in via definitiva del diritto di lavorare e di ricevere la retribuzione. Nella fattispecie che stiamo esaminando tutto questo non si verifica per il semplice fatto che i ricorrenti potevano dare la loro disponibilità per un determinato turno, ma l’azienda era libera di non accettare la loro disponibilità e di non chiamarli. L’esclusione dalla chat aziendale o dai turni di lavoro non può quindi essere considerata una sanzione disciplinare perché non priva i lavoratori di un loro diritto: i ricorrenti non avevano infatti diritto né ad essere inseriti nella chat aziendale, né ad essere inseriti nei turni di lavoro. Anche sotto il profilo della sottoposizione al potere disciplinare del datore di lavoro si deve pertanto escludere che il rapporto oggetto di causa possa essere qualificato come rapporto di lavoro subordinato. Le disposizioni del decreto Jobs Act 81/2015 I ricorrenti hanno anche invocato in via subordinata l’applicazione della norma di cui all’art. 2 del D.Lgs. 81/2015 secondo cui “a far data dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Forse nelle intenzioni del legislatore la norma avrebbe dovuto in qualche modo ampliare l’ambito della subordinazione, includendovi delle fattispecie fino ad allora rientranti nel generico campo della collaborazione continuativa. Ma così non è stato. Come ha giustamente rilevato la difesa dell’azienda, infatti, la disposizione di cui all’art. 2 del D.Lgs. 81/2015 non ha un contenuto capace di produrre nuovi effetti giuridici sul piano della disciplina applicabile alle diverse tipologie di rapporti di lavoro. La norma dispone infatti che sia applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro: è quindi necessario che il lavoratore sia pur sempre sottoposto al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro e non è sufficiente che tale potere

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si estrinsechi soltanto con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro perché deve al contrario riguardare anche i tempi e il luogo di lavoro. Così come è stata formulata, la norma viene quindi ad avere addirittura un ambito di applicazione più ristretto di quello dell’art. 2094 c.c. Senza considerare poi il fatto che appare difficile parlare di organizzazione dei tempi di lavoro in un’ipotesi come quella oggetto di causa in cui i riders avevano la facoltà di stabilire se e quando dare la propria disponibilità ad essere inseriti nei turni di lavoro. La domanda di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato deve essere pertanto respinta. Le altre domande a) Differenze retributive La domanda di corresponsione delle differenze retributive derivanti dall’inquadramento nel V livello del CCNL logistica o nel VI livello del CCNL terziario deve essere respinta perché presuppone il riconoscimento della subordinazione. Occorre soltanto rilevare che l’accoglimento di questa domanda avrebbe comportato la corresponsione di una retribuzione rapportata a un contratto di lavoro subordinato a tempo pieno (non potendo essere riconosciuto il part-time in mancanza di un’espressa pattuizione), a fronte di una prestazione lavorativa dei ricorrenti di circa 10-20 ore alla settimana. b) Licenziamento Anche le domande di nullità, inefficacia e illegittimità del licenziamento non possono essere accolte perché presuppongono il riconoscimento della subordinazione. Il rapporto intercorso tra le parti si è risolto perché i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, prorogati fino al 30.11.2016, non sono stati rinnovati alla scadenza. c) Risarcimento del danno per la violazione dell’art. 2087 c.c. Anche questa domanda presuppone la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Deve essere infatti condivisa la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui “ai rapporti di lavoro autonomo non si applicano le norme speciali antinfortunistiche, che, di regola, presuppongono l’inserimento del prestatore di lavoro nell’impresa del soggetto destinatario della prestazione, né l’art. 2087 cod. civ., il quale, integrando le richiamate leggi speciali, riguarda esclusivamente i rapporti di lavoro subordinato” (Cass. 21.3.2013 n.7128). Erano pertanto i ricorrenti a dovere controllare l’idoneità e l’efficienza della bicicletta utilizzata per le consegne, come espressamente previsto nel contratto. Quanto all’attrezzatura fornita dall’azienda in comodato (casco, giubbotto e box), non risulta che non avesse i requisiti antinfortunistici di legge, né i ricor-

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renti hanno dedotto o provato di avere subito un danno a causa dell’utilizzo di tale attrezzatura. Occorre peraltro rilevare che i ricorrenti non erano del tutto privi di tutela previdenziale perché erano iscritti alla gestione separata dell’INPS di cui all’art. 2, comma 26, della legge 335/95 e all’INAIL (ai sensi dell’art.5 D.Lgs. 38/2000) e perché era contrattualmente previsto che i contributi venissero in parte versati anche dall’azienda. d) Risarcimento del danno per violazione della normativa in materia di privacy Con riferimento a questa domanda il discorso è un po’ più complesso. I ricorrenti lamentano la violazione della normativa in materia di privacy, sia per quanto concerne l’accesso ai dati personali che per quanto concerne il controllo a distanza, con riferimento all’art.4 della L. 300/70 e agli artt. 7, 11 e 171 del codice della privacy. Il richiamo dell’art. 4 della L. 300/70 appare nel complesso poco pertinente perché si tratta comunque di norma direttamente applicabile soltanto al rapporto di lavoro subordinato (anche se richiamata dall’art. 114 del codice della privacy). Alla fattispecie oggetto di causa sarebbe comunque eventualmente applicabile l’art. 4 nella nuova formulazione determinata dalle modifiche introdotte dall’art. 23 del D.Lgs. 151/2015: “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali deriva anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere istallati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali (...) La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003 n.196”. Ora, non c’è dubbio che le applicazioni dello smartphone venivano utilizzate dai ricorrenti per rendere la prestazione lavorativa e, in quanto tali, non richiedevano il preventivo accordo con le rappresentanze sindacali. Per quanto riguarda la violazione del codice della privacy, i ricorrenti lamentano genericamente di non avere ricevuto un’informativa chiara e completa sulla natura dei dati trattati, sulle caratteristiche del dispositivo e dei controlli e sulle ipotesi in cui era consentita la disattivazione della funzione di localizzazione nel corso dell’orario di lavoro.


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Dallo stesso contratto prodotto dai ricorrenti come doc. 6 risulta peraltro che veniva data un’informativa sul trattamento dei dati personali e che i lavoratori prestavano il loro consenso al trattamento dei dati. Né si può dire che l’informativa fosse generica perché riguardava le finalità e le modalità del trattamento, la natura del conferimento, la comunicazione e diffusione dei dati e i diritti dell’interessato. Non risulta pertanto violata in modo specifico la normativa sulla privacy.

Occorre comunque rilevare che i ricorrenti non hanno dedotto né provato di avere subito un danno dal presunto illegittimo utilizzo dei dati personali e si sono limitati a chiedere un risarcimento di Euro 20.000 per ciascuno, senza indicare alcun parametro utile alla quantificazione del danno subito. Anche questa domanda deve essere pertanto respinta. Spese di giudizio L’assoluta novità della questione trattata giustifica la compensazione integrale delle spese di giudizio.

Dalla eterodirezione alla eterorganizzazione e ritorno. Un commento alla sentenza Foodora Sommario : 1. Il caso. – 2. Tra subordinazione e coordinamento. – 3. L’interpretazione dell’art. 2, d. lgs. n. 81/2015, offerta dalla sentenza. – 4. Conclusioni.

Sinossi. La sentenza affronta la questione della qualificazione del rapporto di lavoro di chi collabora con piattaforme digitali. La vertenza nasce dal ricorso proposto da un gruppo di fattorini al Tribunale di Torino al fine di vedere accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la convenuta Foodora. Il giudice rigetta il ricorso ritenendo che la circostanza per cui i ricorrenti fossero pienamente liberi di decidere se e quando rendersi disponibili per svolgere la prestazione sia determinante ai fini di escludere la subordinazione, essendo evidente che, se il datore di lavoro non può pretendere dal lavoratore lo svolgimento della prestazione lavorativa, non può neppure esercitare il potere direttivo e organizzativo.

1. Il caso. La sentenza in commento1 è la prima, nell’ordinamento italiano, ad affrontare la delicata questione della qualificazione del rapporto di lavoro di chi collabora con piattaforme

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Già commentata da Del Conte, Razzolini, La gig economy alla prova del giudice: la difficile reinterpretazione della fattispecie e degli

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digitali. Non solo: è tra le prime ad essere chiamata ad applicare e ad offrire un’interpretazione dell’art. 2, d. lgs. 15 giugno 2015, n. 812. Per queste ragioni merita una particolare attenzione. La vertenza nasce dal ricorso proposto da un gruppo di lavoratori al Tribunale di Torino, al fine di vedere accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la società Digital Services XXXVI Italy s.r.l. La convenuta aveva stipulato con ciascuno dei ricorrenti, adibiti a mansioni di fattorini, un contratto di collaborazione coordinata e continuativa a tempo determinato, scaduto alla data stabilita e non rinnovato. Il contratto specificava che i fattorini avrebbero prestato la propria attività «in piena autonomia, senza essere soggett[i] ad alcun vincolo di subordinazione». Tuttavia, il rapporto si era svolto alla luce di pratiche che potevano far dubitare della genuina autonomia dei lavoratori: era la convenuta a stabilire i turni di lavoro dei fattorini; a determinare i tempi e i luoghi delle consegne; a stabilirne i ritmi, riservandosi di effettuare telefonate di sollecito nel caso di ritardi; a monitorare la posizione dei fattorini mediante GPS; a reagire ai ritardi o alle mancate consegne con l’esclusione temporanea dei lavoratori dalle chat comuni tramite cui i turni di lavoro venivano ripartiti, e/o tramite la mancata assegnazione dei turni. Dall’altro lato, i fattorini erano pienamente liberi di decidere se e quando rendersi disponibili per svolgere la prestazione e la stessa convenuta era libera di assegnare i turni ai lavoratori, senza alcun obbligo di garantire a tutti la possibilità di effettuare le consegne. Il caso, dunque, presentava diversi elementi di complessità. Non a caso, proprio le nuove modalità di offerta dei servizi sul mercato e di organizzazione del lavoro mediante le piattaforme digitali sono da tempo all’attenzione della dottrina giuslavorista, italiana e straniera. Esse, infatti, sembrano avere messo in crisi i tradizionali canoni legali di qualificazione3, di fronte a rapporti di lavoro connotati dalla volontarietà della prestazione singola, dalla estrema frammentazione delle attività produttive e dalla apparente assenza di organizzazione gerarchica4. A questo proposito, è degna di nota l’affermazione con cui il giudicante apre la motivazione della decisione. Il giudice scrive che oggetto della controversia è l’accertamento della natura del rapporto intercorso tra le parti, se autonomo o subordinato, specificando che non sono prese in considerazione «tutte le altre complesse problematiche della c.d. Gig economy». L’affermazione può apparire strana, ma trova la propria ragion d’essere proprio

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indici denotativi, prossimo alla pubblicazione in DLRI, 2018; e da Recchia, Gig economy e dilemmi qualificatori: la prima sentenza italiana, in LG, 2018, 7, 721. Vedi anche Trib. Cuneo, 13 dicembre 2017, n. 280, citata da Recchia, op. cit., 726, nota 37. Perulli, Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile: come cambiano i concetti di subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve allo Statuto de lavoro autonomo e del lavoro agile, Cedam, 2018, 45; Tullini, Digitalizzazione dell’economia e frammentazione dell’occupazione. Il lavoro instabile, discontinuo, informale: tendenze in atto e proposte d’intervento, in RGL, 2016, 4, 748; Weiss, Digitalizzazione: sfide e prospettive per il diritto del lavoro, in DRI, 2016, 3, 652; Ichino, Le conseguenze dell’innovazione tecnologica sul diritto del lavoro, in RIDL, 4, 2017, 525; Lai, Evoluzione tecnologica e tutela del lavoro: a proposito di smart working e di crowd working, in DRI, 4, 2017, 985. Di straordinaria attualità, su questo tema, le parole di Ferraro, Dal lavoro subordinato al lavoro autonomo, in DLRI, 1998, 429.

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nel fatto che il dibattito giuslavoristico degli ultimi anni ha dedicato moltissimo spazio alle questioni legate alla gig economy, all’economia dei lavoretti. Il modello aziendale delle piattaforme prevede la compartecipazione di tre soggetti: l’utente o cliente di un certo servizio, che si rivolge alla piattaforma al fine di ottenerlo; il lavoratore che si offre di rendere tale servizio; infine, la piattaforma che, almeno in apparenza5, mette in collegamento utente e lavoratore affinché domanda e offerta del servizio si incontrino nel modo più efficiente e rapido possibile. La piattaforma funziona, dunque, grazie a due fondamentali meccanismi: da un lato, essa si rivolge a un vasto bacino di potenziali utenti mediante strumenti di connessione immediata (app o siti internet), consentendo un facile accesso ad un certo servizio (trasporti in auto, consegne di pasti, piccoli lavori domestici, ecc.); dall’altro, la piattaforma sottoscrive con un numero variabile di lavoratori un contratto in forza del quale vengono regolati i rapporti di collaborazione, quasi sempre qualificati come di lavoro autonomo. La dottrina6 si è lungamente interrogata su diverse questioni legate al lavoro in favore delle piattaforme, tra cui anche il problema della qualificazione del rapporto di chi collabora con esse, fornendo molteplici spunti di riflessione che variano a seconda degli approcci metodologici e degli ordinamenti presi a riferimento7.

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Altrove, si è tentato di sostenere che, spesso, l’attività delle piattaforme non è affatto di pura intermediazione tra domanda e offerta di un certo servizio, v. Gramano, Riflessioni sulla qualificazione del rapporto di lavoro nella gig-economy, in ADL, 3, 2018, 731. E, in alcuni Paesi, anche la giurisprudenza: O’Connor v. Uber Technologies, Inc., No C-13-3826 EMC, 2015; Cotter v. Lyft, Inc., 60 F. Supp. 3d 1067; London Employment Tribunal, 28 ottobre 2016, Aslam & Farrar v. Uber B.V., in DRI, 2017, 2, 575, con nota di Cabrelli, Uber e il concetto giuridico di “worker”: la prospettiva britannica; sul caso anche: Prassl, Pimlico plumbers, uber drivers, cycle couriers, and court translators: who is a worker?, in Oxford Legal Studies Research, Paper 25/2017. Per un approfondimento: Cherry, Beyond misclassification, in CLL&PJ, 37, 3, 2016, 577; Crank, O’Connor v. Uber Technologies, Inc.: The Dispute Lingers-Are Workers in the On-Demand Economy Employees or Independent Contractors?, in Am. J. Trial Advoc., 39, 2015-2016, 609; Treu, Rimedi e fattispecie a confronto con i lavori della Gig economy, WP D’Antona, It., n. 136/2017, 4; Donini, Regole della Concorrenza e attività di lavoro nella on demand economy: brevi riflessioni sulla vicenda Uber, in RIDL, 2016, 1, 46; Recchia, op. cit., 729; Auriemma, Impresa, lavoro e subordinazione digitale al vaglio della giurisprudenza, in RGL, 2017, 2, 281; Pacella, Lavoro e piattaforme: una sentenza brasiliana qualifica subordinato il rapporto tra Uber e gli autisti, in RIDL, 2017, 3, 560. Il tema è stato affrontato, tra gli altri, da: De Stefano, The Rise of The Just-In-Time-Workforce: On-Demand Work, Crowdwork, and Labor Protection in the “Gig-Economy”, in CLL&PJ, 2016, 37, 471; Waas, W.B. Liebman, Lyubarsky, Kezuka, Crowdword. A comparative Law perspective, Bund Verlag, 2017, passim; Davidov, The Status of Uber Drivers: A Purposive Approach, in Spanish Labour Law and Employment Relations Journal, 2017; Prassl, Risak, Uber, Taskrabbit, & co: platforms as employers? Rethinking the legal analysis of crowdwork, in CLL&PJ, 2016, 37, 620; Treu, Rimedi e fattispecie a confronto con i lavori della Gig economy, op. cit., 4; Tullini, Economia digitale e lavoro non standard, in LLI, 2016, 2; Ichino, Le conseguenze dell’innovazione tecnologica sul diritto del lavoro, op. cit., 525; Voza, Il lavoro e le piattaforme digitali: the same old story?, in WP D’Antona, It., n. 336/2017, 7; Perulli, Lavoro e tecnica al tempo di Uber, in RGL, 2017, 2, 197; Loi, Il lavoro nella gig economy nella prospettiva del rischio, in RGL, 2017, 2, 261; Bavaro, Questioni in diritto sul lavoro digitale, tempo e libertà, in RGL, 2018, 1, 35; Biasi, Dai pony express ai riders di Foodora, L’attualità del binomio subordinazione-autonomia (e del relativo metodo di indagine) quale alternativa all’affannosa ricerca di inedite categorie, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve allo Statuto de lavoro autonomo e del lavoro agile, op. cit., 67; Menegatti, On demand workers by application: autonomia o subordinazione?, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve allo Statuto de lavoro autonomo e del lavoro agile, op. cit., 93; Dagnino, Il lavoro nella on-demand economy: esigenze di tutela e prospettive regolatorie, in LLI, 2015, 1, 90; Donini, Il lavoro digitale su piattaforma, in LLI, 2015; Ead., Mercato del lavoro sul web: regole e opportunità, in DRI, 2015, 2, 433; Aloisi, Il lavoro “a chiamata” e le piattaforme online della collaborative economy: nozioni e tipi legali in cerca di tutele, in LLI, 2016, 2; Ratti, Online Platforms and Crowdwork in Europe: A Two-Step Approach to Expanding Agency Work Provisions, in CLL&PJ, 38, 2017, 512; Cherry, Aloisi, “Dependent contractors” in the gig economy: a comparative approach, in American University Law Review, 2017, 66, 635; W.B. Liebman, Debating the Gig economy, Crowdwork and new forms of work, in Soziales Recht, 2017, 6, 221; Gramano, op. cit., 731.

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Giurisprudenza

Nella sentenza in esame il giudice chiarisce che oggetto della decisione è la qualificazione del rapporto tra le parti litiganti: tiene così a esplicitare che nessuna fascinazione proveniente dal descritto dibattito, anche di tipo sociologico, ha influito sulla decisione del caso. Nella motivazione, infatti, il giudice risponde a due principali domande: se i ricorrenti possano qualificarsi come lavoratori subordinati, ai sensi dell’art. 2094 c.c. (pure non espressamente menzionato nella sentenza8); se, alternativamente, la disciplina del rapporto di lavoro subordinato possa dirsi applicabile ai sensi dell’art. 2, d. lgs. n. 81/2015.

2. Tra subordinazione e coordinamento. Nel procedere con l’accertamento della sussistenza dei requisiti della subordinazione, il giudice dichiara in apertura del proprio ragionamento di aderire alla giurisprudenza secondo cui «costituisce requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative»9. Alla luce di questa scelta ermeneutica, il giudice conduce la propria operazione di accertamento della natura del rapporto andando alla ricerca di ordini specifici, direttive puntuali, comandi diretti, meccanismi di controllo pervasivi e costanti, senza trovarne. Questo primo passaggio argomentativo può già destare qualche perplessità10. Il giudice, senza indugi e, come detto, senza neppure evocare il riferimento normativo fondamentale (art. 2094 c.c.), fa proprio un orientamento giurisprudenziale che, pure largamente condiviso11, non esaurisce le sfumature che i giudici del lavoro hanno elaborato nel tempo in materia di subordinazione. In particolare, egli omette del tutto, e senza darne ragione, di considerare quel filone giurisprudenziale che ritrova la eterodirezione anche in direttive programmatiche e in comandi generici, laddove la natura particolarmente complessa della prestazione o, per contro, la natura elementare e ripetitiva delle mansioni non richiedono che il datore reiteri gli ordini e le istruzioni o ne specifichi oltremodo il contenuto (c.d. subordinazione attenuata)12.

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Come già notato da Del Conte, Razzolini, op. cit. Il giudice cita Cass., 8 febbraio 2010, n. 2728, pubblicata in ADL, 2010, 943, con nota di Caponetti; nello stesso senso anche Cass., 21 luglio 2017, n. 18018, in RFI, 2017, Lavoro (rapporto), n. 558; Cass., 19 febbraio 2016, n. 3303, in FI, 2016, parte I, col. 1246; Cass., 28 luglio 1999, n. 8187, in OGL, 1999, 1, 645. Questo orientamento è stato avallato anche dalla Corte Cost., 7 maggio 2015, n. 76, in LG, 2016, 3, 221, con nota di Ferraro; e in GI, 2016, 1, 131, con nota di Bini. V. anche le osservazioni di Nogler, La subordinazione nel d. lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, in ADL, 2016, 1, 47. 10 Si vedano sul punto le riflessioni già elaborate da Del Conte, Razzolini, op. cit.; più in generale si mostra critico nei confronti di questo orientamento giurisprudenziale, Marazza, Collaborazioni organizzate e subordinazione: il problema del limite (qualitativo) di intensificazione del potere di istruzione, in ADL, 2016, 6, 1170. 11 V. nota 9. 12 Cass., 28 marzo 2017, n. 7925, in FI, 2017, parte I, col. 1575; Cass., 10 maggio 2016, n. 9463, in RFI, 2016, Lavoro (rapporto), n. 9

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Il giudice è risoluto nell’affidarsi alla riportata nozione di subordinazione, nonostante che le caratteristiche del caso concreto – tutt’altro che di facile inquadramento – richiedessero quantomeno un approccio maggiormente articolato13. Proprio nell’esercizio di un potere direttivo che si concretizza in ordini specifici e in un’assidua attività di vigilanza, il giudice rinviene, invece, la distinzione tra subordinazione e coordinamento. Anche qui, la sentenza manca di menzionare l’art. 15, legge n. 81/2017, che, modificando l’art. 409, n. 3, c.p.c., ha specificato che «la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa»14, e ignora del tutto il mutamento interpretativo (o, a seconda delle prospettive, il chiarimento) che la nuova formulazione della norma impone in ordine alla nozione di coordinamento15. Sul punto, la dottrina può dirsi pressoché compatta16 nel dire che il coordinamento non è (più) compatibile con l’esercizio del potere unilaterale da parte del committente, ma impone il consenso delle parti circa le modalità del coordinamento reciproco17. La sentenza, invece, passa in rassegna tutte le forme di ingerenza della convenuta nella sfera dell’adempimento dei fattorini ricorrenti, per giustificarle alla stregua di fisiologiche esigenze aziendali compatibili con il concetto di coordinamento. Quasi che, appunto, la distinzione tra coordinamento (e, quindi, autonomia) e subordinazione (e, anche, eterorganizzazione – ma v. infra) stia nel fatto che vi sia o non vi sia una esigenza aziendale alla base delle determinazioni del committente di ingerirsi nella attività prestata dal lavoratore: un discrimen senza alcun fondamento normativo. Di contro, la sentenza manca del tutto di accertare se tali modalità di coordinamento siano state espressamente18 negoziate tra le parti o se, invece, siano state unilateralmente imposte nell’esercizio di un potere che, per quanto non qualificabile come potere direttivo a tutti gli effetti, non è in ogni caso compatibile con il coordinamento19. Invero, questo passaggio della sentenza è coerente con la lettura che essa offre dell’art. 2 d. lgs. n. 81/2015, su cui si tornerà tra breve (v. infra).

914; Cass., 15 maggio 2012, n. 7517, in OGL, 2012, 1, 263; tra le prime: Cass. 22 gennaio 1980, n. 532, in GCM, 1980, 1. Per una ricognizione della giurisprudenza più recente, D’Ascola, Non solo autonomia e subordinazione: uno sguardo alla giurisprudenza sulla qualificazione del contratto di lavoro, in ADL, 2017, 1, 277. In dottrina, Ghera, Subordinazione, statuto protettivo e qualificazione del rapporto di lavoro, in DLRI., 2006, 1, 6. 13 Del Conte, Razzolini, op. cit. 14 Sul nuovo art. 409, n. 3, c.p.c.: Voza, La modifica dell’art. 409, n. 3, c.p.c., nel disegno di legge sul lavoro autonomo, in WP D’Antona, It., n. 318/2017; Giubboni, Il Jobs act del lavoro autonomo: commento al capo I della legge n. 81/2017, in DLRI, 2017, 3, 480; Borghesi, La l. n. 81/2017 inserisce nell’art. 409 c.p.c. una norma omeopatica, in LG, 2017, 8-9, 737. 15 Perulli, Il nuovo art. 409, n. 3, c.p.c. (art. 15, l. 22 maggio 2017, n. 81), in Fiorillo, Perulli (a cura di), Il Jobs act del lavoro autonomo e del lavoro agile, Giappichelli, 2018, 141; per ulteriori riferimenti v. infra nota 38. 16 Ma si vedano le osservazioni di Pisani, Le collaborazioni coordinate e continuative a rischio estinzione, in RIDL, 2018, 1, 52. 17 Perulli, Le collaborazioni organizzate dal committente, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni. Decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, Giappichelli, 2015, 279; Id., Il nuovo art. 409, n. 3, c.p.c., op. cit., 143; Id., Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile, op. cit., 61; Razzolini, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, in Zilio Grandi, Biasi, Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Cedam, 2016, 560; Magnani, Autonomia, subordinazione, coordinazione nel d. lgs. n. 81/2015, in WP D’Antona, It., n. 294/2016, 15. 18 Perulli, Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile, op. cit., 61 e 63; Voza, La modifica dell’art. 409, n. 3, c.p.c., op. cit., 10. 19 Perulli, Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile, op. cit., 61.

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Giurisprudenza

Nel procedere con l’analisi delle modalità di esecuzione della prestazione al fine – come detto – di verificare se esse fossero puntualmente eterodirette e assiduamente monitorate, il giudice parte da un dato che egli ritiene deporre certamente nel senso dell’autonomia: la circostanza che i fattorini fossero liberi di mettersi o meno a disposizione della convenuta per vedersi assegnati i turni i lavoro e che la stessa società fosse libera nell’assegnazione dei turni; che non sussistesse, dunque, alcun obbligo delle parti, rispettivamente, di offrire e ricevere la prestazione. Sul punto, la sentenza richiama espressamente la pronuncia con cui la Corte di cassazione ha posto fine alla nota controversia Mototaxi s.r.l. vs Tombolini, relativa a un caso che presentava evidenti analogie con quello in esame20. Com’è noto, nel caso Mototaxi già la sentenza di appello aveva accertato la natura autonoma del rapporto di lavoro21 proprio a fronte del rilievo, ritenuto assorbente, dell’assenza in capo al lavoratore di un obbligo di rendere la prestazione22. Tale decisione venne confermata dalla Cassazione e seguita da numerose sentenze successive23. È sicuramente questo il punto di maggiore complessità del caso in questione. È infatti chiaro – come dimostrato anche dalle recenti riforme, su cui si tornerà a breve – che nell’ordinamento italiano non hanno fatto ingresso fattispecie che collegano le tutele a forme di dipendenza economica24. Laddove, dunque, l’assetto negoziale del rapporto delle parti è improntato alla piena libertà reciproca di offrire/ricevere la prestazione, viene a mancare l’essenza stessa della subordinazione. L’impressione è che il giudice, una volta formato il proprio convincimento, alla luce di questo valido argomento, della autonomia dei ricorrenti, non abbia voluto arrestarsi a ciò – nonostante, come egli stesso ammette, la questione potesse «chiudersi già qui» –, ma abbia inteso cercare a ogni costo altri appigli, affidandosi, come visto, a un concetto particolarmente restrittivo della subordinazione e ignorando del tutto l’evoluzione della nozione di coordinamento, che egli considera invece compatibile con forme di esercizio unilaterale di potere.

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Voza, Il lavoro e le piattaforme digitali, op. cit., 7; Biasi, Dai pony express ai riders di Foodora, op. cit., 72. Riformando, così, la sentenza di primo grado: Pret. Milano, 20 giugno 1986, in RIDL, 1987, 2, 70, con nota di Ichino. Sul caso si veda anche Ichino, Il percorso tortuoso del diritto del lavoro tra emancipazione dal diritto civile e ritorno al diritto civile, in RIDL, 2012, 1, 59; Nogler, Metodo e casistica nella qualificazione dei rapporti di lavoro, in DRI, 1991, 120. 22 Il ricorrente, infatti, così come gli altri pony express, era pienamente libero di decidere se presentarsi o meno presso la committente e, in definitiva, se assumere o meno l’obbligo di rendere la prestazione. Trib. Milano 10 ottobre 1987, in RIDL, 1987, 2, 688, con nota di Ichino. 23 Cass. 10 luglio 1991, n. 7608, in RIDL, 1992, 1, 103; Cass., 20 gennaio 2011, n. 1238, in RFI, 2011, Lavoro (rapporto), n. 721; Trib. Torino, 25 maggio 1998, in RFI, 1999, Lavoro (rapporto), n. 674; Pret. Torino, 10 gennaio 1995, in RFI, 1995, Lavoro autonomo, n. 5; Pret. Napoli, 21 agosto 1991, in RIDL, 1997, 2, 290; Pret. Milano, 20 dicembre 1988, in RIDL, 1989, 2, 207; Trib. Milano, 15 marzo 1991, in DL, 1992, 2, 109. Non mancano, tuttavia, pronunce in senso contrario: Cass. 21 marzo 1989, in FI, 1989, parte II, col. 462; Pret. Milano, 6 aprile 1987, in OGL, 1987, 2, 609; Pret. Milano, 7 ottobre 1988, in FI, 989, parte I, col. 2908; Pret. Torino, 28 marzo 1990, in RIDL, 1991, 2, 342. 24 Nonostante numerose sollecitazioni da parte della dottrina: Perulli, Costanti e varianti in tema di subordinazione e autonomia, in LD, 2015, 2, 262; Id., Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, in DRI, 1, 2015, 109; Id., Il lavoro autonomo tradito e il perdurante equivoco del lavoro a progetto, in RIDL, 2013, 1; Pallini, Il lavoro economicamente dipendente, Cedam, 2013, cap. I; in senso critico, Razzolini, Lavoro economicamente dipendente e requisiti quantitativi nei progetti di legge nazionali e nell’ordinamento spagnolo, in DLRI, 2011, 631; Ead., La nozione di subordinazione alla prova delle nuove tecnologie, in DRI, 2014, 4, 974. 21

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3. L’interpretazione dell’art. 2, d. lgs. n. 81/2015, offerta

dalla sentenza.

Le perplessità non diminuiscono di fronte all’interpretazione che la sentenza fornisce dell’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015, a mente del quale, «a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro». La disposizione non brilla certo per chiarezza. Prova ne è la varietà delle elaborazioni dottrinali in materia, le quali – accomunate dallo sforzo di collocare sistematicamente una norma che, pur non modificando l’art. 2094 c.c., ha determinato un piccolo sisma nelle categorie fondamentali del diritto del lavoro25 – sono approdate a soluzioni interpretative diametralmente opposte, eppure fondate su argomenti rigorosi e logicamente validi26. Da un lato si collocano coloro i quali ritengono, pur attraverso percorsi argomentativi differenti, che l’art. 2 abbia determinato una estensione dell’ambito di applicazione della disciplina del lavoro subordinato. In questo filone si inserisce quella parte della dottrina secondo la quale la norma ha sostanzialmente ampliato la fattispecie del lavoro subordinato per ricomprendervi anche le ipotesi in cui la prestazione di lavoro è esclusivamente personale, continuativa ed eterorganizzata27. Da altra parte della dottrina si è invece sostenuto che l’art. 2 è «una disposizione di “normalizzazione” volta ad estendere la disciplina del lavoro subordinato ad aree limitrofe frequentemente inquadrate nelle collaborazioni coordinate e continuative ancorché di fatto assimilabili al lavoro dipendente»28. L’intervento legislativo avrebbe, così, prodotto l’effetto di allargare o, quantomeno, aggiornare la nozione di subordinazione29, attraendo all’alveo della sua disciplina tutte quelle collaborazioni fino a ieri collocate nell’area grigia a cavallo tra autonomia e subordinazione, ma evidentemente già più vicine a quest’ultima. Su un fronte opposto si collocano gli autori che sostengono, invece, che il lavoro eterorganizzato costituisca una fattispecie a sé, distinta e non sovrapponibile a quella della

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Perulli, Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile, op. cit., 43; Ciucciovino, Le «collaborazioni organizzate dal committente» nel confine tra autonomia e subordinazione, in RIDL, 3, 2016, 321. 26 Si vedano i numerosi contributi in Vallebona (a cura di), Il lavoro parasubordinato organizzato dal committente. Colloqui giuridici sul lavoro, in MGL Suppl., 2015, 12. 27 Razzolini, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente, op. cit., 565; Treu, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, in DLRI, 2015, 2, 162 e 164; Pallini, Dalla eterodirezione alla eterorganizzazione: una nuova nozione di subordinazione?, in RGL, 2016, 1, 66. Secondo Tiraboschi, Il lavoro etero-organizzato, in DRI, 2015, 4, 979, l’art. 2 avrebbe introdotto una presunzione relativa di subordinazione; diversamente, secondo Nogler, La subordinazione nel d. lgs. n. 81 del 201, op. cit., 55, si tratterebbe di una presunzione assoluta; condivide Persiani, Note sulla disciplina di alcune collaborazioni coordinate, in ADL, 2015, 6, 1259. 28 Ferraro, Collaborazioni organizzate dal committente, in RIDL, 2016, 1, 53; nello stesso senso Mariucci, Il diritto del lavoro ai tempi del renzismo, in LD, 2015, 25. 29 Nuzzo, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, in WP D’Antona, It., n. 280/2015, 6 e 9.

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Giurisprudenza

subordinazione, cui l’ordinamento riconduce però i medesimi effetti giuridici30 (l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, in tutto o in parte31). La norma avrebbe così ad oggetto un sottotipo del lavoro autonomo32, in quanto tale escluso dall’ambito di applicazione dell’art. 2094 c.c.,33 caratterizzato dal fatto che il committente è titolare di un potere giuridico34 (come tale unilaterale) che, pure non qualificandosi come potere direttivo35, è idoneo a organizzare, appunto, la prestazione del collaboratore36 anche nelle sue dimensioni spaziale e temporale37. Le richiamate impostazioni condividono l’opinione per cui, oggi, il confine tra l’ambito di applicazione della disciplina del lavoro subordinato e quello della disciplina del lavoro autonomo vada tracciato tra eterorganizzazione, da un lato, e coordinamento dall’altro38. In particolare, e al di là del fatto che la prima abbia allargato la fattispecie del lavoro subordinato o abbia, invece, individuato una sottocategoria del lavoro autonomo, eterorganizzazione e coordinamento differiscono in quanto quest’ultimo impone che il consenso esplicito delle parti si estenda alle modalità di coordinamento, mentre la prima implica, come detto, l’esercizio di un potere del committente sulla sfera di adempimento del lavoratore39. Parrebbe così definitivamente superata la tesi che il coordinamento sarebbe com-

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Perulli, Le collaborazioni organizzate dal committente, op. cit., 279; Id., Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile, op. cit., 52; Pessi, Il tipo contrattuale: autonomia e subordinazione dopo il Jobs Act, in WP D’Antona, It., n. 282/2015, 11; Filì, Le collaborazioni organizzate dal committente nel d. lgs. n. 81/2015, in LG, 2015, 12, 1091. 31 Ritengono che la disciplina del rapporto di lavoro subordinato non sia integralmente estendibile anche alle collaborazioni eterorganizzate: A. Zoppoli, La collaborazione eterorganizzata: fattispecie e disciplina, in DLM, 2016, 1, 47; Ciucciovino, op. cit., 325; Pessi, op. cit., 15; Voza, La modifica dell’art. 409, n. 3, c.p.c., op. cit., 4; contra Pallini, Dalla eterodirezione alla eterorganizzazione, op. cit., 66; Giubboni, op. cit., 479, nota 21; Pisani, op. cit., 53; Ferraro, Collaborazioni organizzate dal committente, op. cit., 56; G. Santoro Passarelli, Interventi lavoro etero-organizzato, coordinato, agile e telelavoro: un puzzle non facile da comporre nell’impresa in via di trasformazione, in DRI, 3, 2017, 771; Zilio Grandi, Sferrazza, Le collaborazioni organizzate dal committente, in ADL, 2016, 4-5, 759. Nel senso della integrale applicabilità della disciplina del lavoro subordinato si è espresso il Ministero del Lavoro, con circolare n. 3 del 1 febbraio 2016. Per un commento, Persiani, Ancora note sulla disciplina di alcune collaborazioni coordinate, in ADL, 2016, 2, 313; Santoro, Collaborazioni etero-organizzate e “riqualificazione” ispettiva nell’interpretazione del Ministero del lavoro, in DRI, 2016, 2, 596. 32 Ciucciovino, op. cit., 323, secondo la quale si può «riconoscere all’art. 2 una valenza specificativa del tipo contrattuale di cui all’art. 2222 c.c.»; secondo Perulli, Le collaborazioni organizzate dal committente, op. cit., 284, la collaborazione eterorganizzata “costituisce una diversa figura, gravitante nella soglia tra subordinazione e autonomia, che viene ricondotta per l’effetto nell’area della subordinazione, senza che essa sia tipologicamente inquadrabile come tale”; così anche, Voza, La modifica dell’art. 409, n. 3, c.p.c., op. cit., 3; Santoni, Autonomia e subordinazione nel riordino delle tipologie contrattuali del lavoro non dipendente, in DML, 2016, 3, 516; Zilio Grandi, Sferrazza, op. cit., 757; Marazza, op. cit., 1168; contra, Treu, In tema di Jobs Act, op. cit., 163. 33 Così Perulli, Le collaborazioni organizzate dal committente, op. cit., 285; Pessi, op. cit., 11; contra Ferraro, Collaborazioni organizzate dal committente, op. cit., 57. 34 Perulli, Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile, op. cit., 60; Ciucciovino, op. cit., 325. 35 Perulli, Le collaborazioni organizzate dal committente, op. cit., 281. 36 Sebbene non delle modalità di esecuzione della prestazione, salvo ricadere nuovamente nella eterodirezione così svuotando di significato la norma: così, Ciucciovino, op. cit., 325. 37 A. Zoppoli, op. cit., 33. 38 Razzolini, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente, op. cit., 562; A. Zoppoli, op. cit., 37; Ferraro, Collaborazioni organizzate dal committente, op. cit., 53; Magnani, op. cit., 14; Voza, La modifica dell’art. 409, n. 3, c.p.c., op. cit., 7; Pallini, Dalla eterodirezione alla eterorganizzazione, op. cit., 67. 39 Perulli, Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile, op. cit., 62; G. Santoro Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409, n. 3, cod. proc. civ., in ADL, 2015, 6, 1133; Giubboni, op. cit., 480; Razzolini, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente, op. cit., 562; Magnani, op. cit., 15; A. Zoppoli, op. cit., 50; Persiani, Note sulla disciplina di alcune collaborazioni coordinate, op. cit., 1258; Ciucciovino, op. cit., 328; Nogler, La subordinazione nel d. lgs. n. 81 del 2015, op. cit., 50; Voza, La modifica dell’art. 409, n. 3, c.p.c., op. cit., 7. Diversa la posizione di

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patibile con forme di potere di conformazione della prestazione da parte del committente solo quantitativamente diverso dal potere direttivo tipico del datore di lavoro40. In una prospettiva ancora differente si pone un’altra parte della dottrina, la quale – calando la disposizione dell’art. 2 nel contesto della giurisprudenza che da decenni si affatica sulla subordinazione – ha di molto ridimensionato la portata innovativa della norma41, finanche arrivando ad escluderne in radice un qualsiasi effetto precettivo. In particolare, secondo un Autore «se sul piano della speculazione teorica è forse possibile costruire, sulla base dell’art. 2094 Cod. Civ. e dell’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015, due fattispecie distinte, esse tuttavia non avrebbero in concreto una differenziata capacità qualificatoria»42. L’art. 2 si configurerebbe, quindi, come una norma apparente43, mediante la quale il legislatore avrebbe, tutt’al più, codificato approdi già raggiunti dalla giurisprudenza per il tramite del metodo qualificatorio per approssimazione al tipo. Non solo: dal momento che la norma richiede che il committente organizzi anche i tempi e il luogo della prestazione al fine dell’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, essa di fatto ne restringerebbe l’ambito rispetto all’art. 2094 c.c.44. Questa tesi è condivisa da altri Autori, i quali evidenziano la mera apparenza dell’innovazione, che sarebbe stata determinata dall’introduzione dell’art. 245. La sentenza in esame, con un passaggio particolarmente sintetico, aderisce a questa prospettiva. Il giudice, infatti, esclude in radice che l’art. 2 possa trovare applicazione perché, nonostante gli intendimenti del legislatore, esso «non ha un contenuto capace di produrre nuovi effetti giuridici sul piano della disciplina applicabile alle diverse tipologie di

Treu, In tema di Jobs Act, op. cit., 173, secondo il quale «il coordinamento riguarderebbe i casi in cui i rapporti fra le parti, e i vincoli di luogo e di tempo, in capo al collaboratore sono solo quelli necessari al raggiungimento del risultato oggetto della collaborazione; mentre viceversa, nelle prestazioni organizzate dal committente, le modalità di esecuzione e i relativi vincoli di tempo e di luogo richieste al collaboratore, sono quelli più generali e per certi versi indeterminati propri di chi partecipa a un’organizzazione». 40 Così Nogler, La subordinazione nel d. lgs. n. 81 del 2015, op. cit., 52. Sul tema: Pedrazzoli, Opera (prestazioni coordinate e continuative), in AppNDI, V, Torino, 1984, 475; Persiani, Autonomia, subordinazione e coordinamento nei recenti modelli di collaborazione lavorativa, in DL, 1998, 1, 209; De Luca Tamajo, Profili di rilevanza del potere direttivo del datore di lavoro, in ADL, 2005, 476. Diversamente, ma coerentemente con la propria linea argomentativa, la sentenza si sofferma sulla distinzione tra coordinamento e subordinazione, tralasciando completamente di interrogarsi sul confine tra coordinamento ed eterorganizzazione. Ciò trova la propria giustificazione proprio nell’affermazione secondo cui la eterorganizzazione starebbe dentro alla subordinazione, senza allargarne le maglie dell’ambito applicativo, ma, anzi, individuandone una sottospecie cui si applica la medesima disciplina. 41 Secondo G. Santoro Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente, op. cit., 1133, e Id., Interventi lavoro eteroorganizzato, coordinato, agile e telelavoro, op. cit., 771, la norma avrebbe positivizzato gli indici già elaborati da giurisprudenza. Così anche Pessi, op. cit., 11. 42 Tosi, L’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015: una norma apparente?, in ADL, 2015, 6, 1120; Id., Il diritto del lavoro all’epoca delle nuove flessibilità – Le collaborazioni eterorganizzate, in GI, 2016, 3, 737. 43 Tosi, op. loc. ultt. citt. 44 Secondo Tosi, L’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015, op. cit., 1121, l’art. 2 non avrebbe valore precettivo ma «al più, esso si risolve ini un intervento di sostegno, a latere dell’art. 2094 Cod. Civ., dell’approccio pragmatico della giurisprudenza improntato alla prudente valutazione della ricorrenza nel caso concreto degli indici della soggezione del lavoratore ad un pieno potere organizzativo del datore di lavoro»; così anche Pisani, op. cit., 44. 45 Mazzotta, Lo strano caso delle «collaborazioni organizzate dal committente», in Labor, 2016, 1-2, 9 parla di una «scelta solo all’apparenza innovativa (…). La disposizione si colloca entro lo spazio coperto proprio dall’art. 2094 c.c.» e «collega ad una fattispecie preesistente gli effetti che le sono propri»; condivide Ferrante, Il lavoro etero-organizzato e la parabola della subordinazione, in Quaderni del CEDRI, 2015, 2.

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rapporti di lavoro. La norma dispone infatti che sia applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro: è quindi necessario che il lavoratore sia pur sempre sottoposto al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro e non è sufficiente che tale potere si estrinsechi soltanto con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro perché deve al contrario riguardare anche i tempi e il luogo di lavoro». Invero, le tesi elaborate dalla dottrina implicano una lettura aperta ed evoluta del concetto di subordinazione, confermandone la funzione di «contenitore talmente ampio da ricomprendere al proprio interno sia l’attività dell’umile manovale che quella dell’alto dirigente»46. E, tuttavia, proprio la pronuncia in esame smentisce che questo sia l’approccio dominante. Al contrario, il Tribunale di Torino aderisce alla ricostruzione ermeneutica proposta da questi Autori quanto all’interpretazione dell’art. 2 quale norma priva di alcun effetto precettivo ma, al contempo, si rifà ad una nozione particolarmente restrittiva della subordinazione, esclusa ogniqualvolta il lavoratore non è sottoposto a ordini specifici ed a forme di controllo assidue da parte del datore di lavoro.

4. Conclusioni. La sentenza esaminata affronta un caso tutt’altro che semplice, da tempo oggetto di discussione da parte della dottrina giuslavorista e, pertanto, caricatosi di significati che vanno forse oltre la soluzione della vicenda concreta. Essa si apprezza certamente per la linearità dell’argomentazione e la chiarezza della ricostruzione dei fatti di causa, ma desta parecchi dubbi con riferimento ad alcuni passaggi essenziali. Invero, la sensazione (già anticipata sopra) che si prova leggendo il provvedimento, è che il giudice abbia ritenuto dirimente nel senso della autonomia dei ricorrenti la circostanza che questi fossero pienamente liberi di decidere se e quando rendere la prestazione. Si badi bene, non si tratta di una mera questione di flessibilità dell’orario di lavoro, ma dell’esistenza stessa di un obbligo contrattuale di offrire la prestazione, a prescindere dal come e dal quando. Altrove si è cercato di argomentare che l’assenza di un obbligo siffatto, talvolta, è solo apparente47, a fronte del fatto che spesso (ma non sempre) i contratti conclusi tra lavoratori e piattaforme digitali contengono clausole in forza delle quali i primi, al fine di conservare l’accesso alla piattaforma e, dunque, il proprio rapporto con essa, sono tenuti a svolgere un numero minimo di prestazioni e/o a restare a disposizione per un certo tem-

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Mazzotta, op. cit., 10. Gramano, op. cit., 735.

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po48. In alcuni casi, poi, vi sono rigide limitazioni circa la possibilità di revocare la propria disponibilità una volta accettato di effettuare il servizio. Tali clausole «mettono in una luce molto diversa la presunta libertà del collaboratore di decidere se e quando lavorare»49. Nel caso affrontato dal giudice di Torino, almeno da quel che si apprende dal testo della sentenza, sembra invece che non vi fosse alcuna clausola né alcuna prassi che subordinasse allo svolgimento di un numero minimo di ore di lavoro la possibilità per i fattorini di candidarsi per i turni delle consegne. Comprensibilmente, dunque, il giudice si è orientato nel senso dell’autonomia dei fattorini, in linea con la giurisprudenza formatasi sul caso dei pony express (v. supra). È molto discutibile, invece, la scelta di avere avallato tale decisione, dapprima mediante il riferimento a una nozione di subordinazione particolarmente restrittiva, poi mediante una interpretazione dell’art. 2, d.lgs. n. 81/2015, che, pure confortata da autorevole dottrina, era stata da questa validamente giustificata alla luce di una lettura della nozione della subordinazione ampia ed evoluta. Questa interpretazione non regge, però, se collocata nel contesto di un orientamento giurisprudenziale quasi anacronistico nella sua ricerca di manifestazioni puntuali e assidue dell’esercizio dei poteri datoriali. Se questo è il contesto, il senso dell’art. 2 potrebbe essere recuperato come disposizione che, pur con una tecnica normativa senz’altro discutibile, nondimeno ha inteso allargare l’ambito di applicazione della disciplina del lavoro subordinato, potendo almeno fungere da appiglio normativo per la giurisprudenza al fine di liberarsi dalla stretta della eterodirezione e abbracciare, invece, una nozione di subordinazione più elastica, tale da ricomprendere anche i casi in cui il datore di lavoro si limiti a (etero)organizzare la prestazione con riferimento alle modalità di coordinamento del lavoratore con la propria organizzazione (sotto il profilo temporale, ma anche sotto quello spaziale), senza necessariamente impartire direttive puntuali e ordini specifici50.

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Per una ricca ricostruzione delle clausole utilizzate dalle piattaforme nei rapporti con i lavoratori: De Stefano, The Rise of The Just-InTime-Workforce, op. cit., 471. 49 Prassl, Risak, Uber, Taskrabbit, & co, op. cit., 620 (traduzione dall’inglese mia). Scrive Perulli, Lavoro e tecnica al tempo di Uber, op. cit., 203: «Si tratta di forme ibride che (…) subiscono ambigui meccanismi di controllo e condizionamento, attraverso regolamenti generali e condizioni d’uso che stabiliscono unilateralmente le condizioni negoziali». 50 Perulli, Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile, op. cit., 55: «ai fini qualificatori, il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo del datore – inteso nell’accezione più rigorosa – diviene, con l’evolversi dei sistemi di organizzazione non gerarchici e con l’estendersi di forme di esternalizzazione di intere fasi del ciclo produttivo, sempre meno significativo della subordinazione. In sua assenza, forme altrimenti qualificabili come autonomo o parasubordinate, vengono attratte nell’orbita disciplinare della subordinazione grazie al disposto dell’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81 del 2015»; secondo Nogler, La subordinazione nel d. lgs. n. 81 del 2015, op. cit., 52, sul fronte giurisprudenziale la norma può «giocare un ruolo di consolidamento dei nuovi e più innovativi orientamenti di questi ultimi anni (…) ed, al contempo, esercitare un effetto di facilitazione probatoria ed argomentativa a favore di chi agisce per vedere riconosciuta la subordinazione»; Magnani, op. cit., 12: «è probabile che il legislatore muova dalla, assolutamente dominante, concezione della subordinazione come eterodirezione ed intenda allargare lo statuto protettivo del lavoro subordinato anche a tutti i casi in cui il prestatore, pur non essendo assoggettato al potere direttivo, è comunque assoggettato al “potere organizzativo” del committente “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”».

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