2019 LABOR 5
L
ABOR Il lavoro nel diritto
issn 2531-4688
5
settembre-ottobre 2019
Rivista bimestrale
D iretta da Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
IN EVIDENZA La ritrovata dignità del lavoro autonomo Domenico Garofalo
L’inoppugnabilità delle rinunzie e delle transazioni ai sensi dell’art. 2113 c.c. Giovanni Piglialarmi
Giurisprudenza commentata Maria Luisa Vallauri, Valeria Filì, Alessia Matteoni, Luca Busico, Chiara Tomiola
Pacini
Indici
Saggi Domenico Garofalo, La ritrovata dignità del lavoro autonomo (prima parte)....................................p. 481 Giovanni Piglialarmi, L’inoppugnabilità delle rinunzie e delle transazioni ai sensi dell’art. 2113, comma 4, c.c.: gli orientamenti giurisprudenziali e i dissensi della dottrina...................................... » 505
Giurisprudenza commentata Maria Luisa Vallauri, Sulla natura del credito del lavoratore non riammesso in servizio a seguito dell’accertata illegittimità del trasferimento di azienda........................................................................ » 523 Valeria Filì, La condizione del permesso di soggiorno prevista per le madri straniere configura secondo la Cassazione una discriminazione......................................................................................... » 541 Alessia Matteoni, Cassazione: anche i soci lavoratori di cooperativa nel computo dei dipendenti ai fini dell’applicazione della tutela reale................................................................................................... » 565 Luca Busico, La stabilizzazione dei precari delle P.A.: una storia infinita............................................ » 575 Chiara Tomiola, La “conversione” a tempo indeterminato dei contratti a termine ai fini dell’applicazione del d.lgs. n. 23/2015, tra atto, evento ed effetto......................................................... » 585
Indice analitico delle sentenze Lavoro (rapporto di) – Contratto a tempo determinato – Conversione giudiziale – Inapplicabilità dell’art. 1 comma 2, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (Trib. Parma, 18 febbraio 2019, con nota di Tomiola) – Trasferimento d’azienda illegittimo – Mancata ricostituzione del rapporto da parte del cedente – Natura retributiva del credito – Illegittimità costituzionale – Insussistenza (C. cost., 28 febbraio 2019, n. 29, con nota di Valluri) Licenziamenti – società cooperativa – art. 18 l. n. 300/1970 – requisito dimensionale – computo dei soci lavoratori – inclusione (Cass., 11 marzo 2019, n. 6947, con nota di Matteoni) Previdenza sociale – Assegno di maternità di base – Cittadine extracomunitarie – Necessità del permesso unico di soggiorno – Disparità di trattamento - Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta infondatezza (Cass., 17 giugno 2019, n. 16163, con nota di Filì) – Assegno di natalità – Cittadine extracomunitarie – Necessità del permesso unico di soggiorno – Disparità di trattamento – Questione di legittimità costituzionale – Rilevanza e non manifesta infondatezza (Cass., 17 giugno 2019, n. 16164, con nota di Filì) Pubblico impiego – Costituzione del rapporto di lavoro – Modalità alternative all’assunzione per concorso – Natura eccezionale – Presupposti (Tar Sicilia – Catania, 17 aprile 2019, n. 903, con nota di Busico) – Stabilizzazione ex art. 20 d.lgs. n. 75/2017 – Requisiti di partecipazione – Applicazione restrittiva (Tar Sicilia – Catania, 17 aprile 2019, n. 903, con nota di Busico) Indice cronologico delle sentenze Giorno
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Autorità 2019 Febbraio Trib. Parma Corte cost., n. 29 Marzo Cass., n. 6947 Aprile Tar Sicilia – Catania, n. 903 Giugno Cass., n. 16163 Cass., n. 16164
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Notizie sugli autori
Luca Busico – coordinatore presso la Direzione del personale dell’Università di Pisa Domenico Garofalo – professore ordinario nell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro Valeria Filì – professoressa ordinaria nell’Università degli Studi di Udine Alessia Matteoni – collaboratrice di cattedra nell’Università di Pisa Chiara Tomiola – docente a contratto nell’Università degli Studi di Padova Giovanni Piglialarmi – assegnista presso il Centro Studi DEAL - Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Maria Luisa Vallauri – professoressa associata nell’Università degli Studi di Firenze
Saggi
Domenico Garofalo
La ritrovata dignità del lavoro autonomo* Sommario:
1. Premessa. – 2. Il campo di applicazione. – 2.1. Le fattispecie incluse. – 2.2. Le fattispecie escluse. – 3. Le tutele accordate al lavoratore autonomo. – 4. Le tutele nel contratto. – 5. Le tutele nel mercato. – 5.1. Il significato sistemico dell’estensione al lavoratore autonomo delle tutele introdotte a favore dell’impresa “economicamente dipendente”. – 5.2. Le condotte abusive. – 5.3. L’apparato rimediale in favore del LAED. – 5.4. Alcune considerazioni sulle tutele accordate dalla l. n. 81 al LAED.
Sinossi. Attraverso l’esame della normativa introdotta con la l. n. 81/2017, l’A. mette in evidenza come il lavoro autonomo sia cominciato ad uscire dalla storica anomia che lo ha caratterizzato, pur se le tutele più incisive introdotte nel 2017 costituiscono l’estensione di quelle già adottate anni addietro in favore dell’impresa economicamente dipendente. Nello specifico è stato mutuato il concetto di dipendenza economica, senza che ne venga fornita una definizione specifica per il lavoratore autonomo. Il pacchetto di tutele è inoltre completato dalla riproposizione di misure già previste per le abrogate collaborazioni a progetto. La valutazione dell’intervento è positiva pur con riserva di verifica della sua ricaduta effettiva. Abstract. The A. analyses the Law No. 81/2017 to point out how autonomous work started being in the area of concern of the Legislator at last. However, the most effective protection was the extension of the one granted years ago in support of economically dependent enterprises. In particular, the concept of economic dependence was borrowed from corporate Law without a specific definition for autonomous workers. Furthermore, the package of protection measures was completed by the reproposal of the same measures set up for the now repealed project collaborations. The A. appreciates the above mentioned regulatory intervention subject to verification of its positive and effective impact. Parole
*
chiave:
Lavoro autonomo – Dipendenza economica – Collaborazioni
La seconda parte del contributo sarà pubblicata sul n. 6/2019.
Domenico Garofalo
1. Premessa. La l. n. 81/2017 dedica una parte importante dell’articolato (artt. 1 – 17) alla disciplina del lavoro autonomo (per tale motivo dai più denominata “Jobs Act degli autonomi”), sebbene quella che regolamenta il lavoro agile (artt. 18 ss.) ha maggiormente attratto l’interesse della dottrina. L’intervento del 2017 a tutela del lavoro autonomo paradossalmente ha ufficializzato il pregresso e diffuso disinteresse per tale (pur) rilevante manifestazione del lavoro umano1. L’obiettivo di fondo della legge in esame – da tenere ben distinto da quello sottostante all’art 2, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 812 che si occupa di lavoro coordinato – conferma l’idea di un lavoro autonomo dai contorni sempre più sfumati, lontano dall’antico stereotipo social-tipico di un lavoratore economicamente autosufficiente, forte e paritario nei rapporti contrattuali con la controparte3. In linea con quanto detto innanzi è la valorizzazione della dipendenza economica del lavoro autonomo4, verso cui si registra la presa di coscienza anche delle istituzioni europee5. Quindi l’interesse del legislatore nazionale per il lavoro autonomo in quanto tale si accompagna al riconoscimento di una «condizione di debolezza contrattuale ed economica6 che colpisce anche molti iscritti ad albi professionali»7, in modo ormai preoccupante attratti nell’area dei c.d. working poor8.
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E. Ghera, Il campo di applicazione della tutela del lavoro autonomo nella l. n. 81/2017, in Giuseppe Santoro Passarelli. Giurista della contemporaneità. Liber Amicorum, Giappichelli, 2018, Tomo I, 487 ss., spec. 491. 2 Parla delle disposizioni sulla tutela del lavoro autonomo come «controcanto» rispetto a quella sub art. 2, d.lgs. n. 81/2015, Paolitto, Le collaborazioni organizzate dal committente nel prisma della subordinazione, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera del lavoro autonomo – agile – occasionale, Adapt University press, 2018, 260 ss. 3 Cfr. Dagnino, Occupazione e progresso tecnologico nel mondo del lavoro del XXI secolo: tra sostituzione, creazione, localizzazione e forme, in Dagnino, Nespoli, Seghezzi (a cura di), La nuova grande trasformazione del lavoro, Adapt e-Book, n. 62/2017, Adapt University press, 96 ss., spec. 100, che si sofferma sui riflessi dei mutamenti epocali che stanno caratterizzando il mondo del lavoro e sulla loro incidenza sulla prestazione di lavoro «che richiede, in molti casi, competenze, autonomia e collaborazione, distaccandosi dal modello fordista di lavoro. Se la figura del lavoratore subordinato, esecutore di una prestazione che si integra in un processo ben delineato ed etero diretto ha caratterizzato il mondo del lavoro del XX secolo, oggi le pratiche di gestione della prestazione comportano l’erosione di questo predominio e più ampi spazi di diffusione del lavoro autonomo». 4 Ampia e articolata è stata la riflessione in materia da parte di G. Santoro Passarelli, di recente rievocata da Cairoli, Lavoro subordinato e l’«altro da sé»: confini, senso e attualità di una dicotomia, in Giuseppe Santoro Passarelli. Giurista della contemporaneità. Liber Amicorum, cit., 426 ss., in cui l’A. mette bene in evidenza come il pensiero di Santoro Passarelli in ordine alla nozione di debolezza del lavoratore autonomo è andato evolvendo nel corso degli anni con l’evolversi della legislazione in materia. Ancor prima, alla riflessione di G. Santoro Passarelli aveva dedicato belle pagine M.T. Carinci, Il dialogo fra Pino Santoro Passarelli e la dottrina. Dalla parasubordinazione al lavoro economicamente dipendente: la rivincita di un’idea, in ADL, 2007, 906 ss. Infine, una citazione va fatta allo studio di Voza, Interessi collettivi, diritto sindacale e dipendenza economica, Cacucci 2004, per l’attenzione dedicata al profilo collettivo. 5 Cfr. Libro Verde «Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo» COM(2006) 708 definitivo; «Pilastro Europeo dei diritti sociali» proclamato a Göteborg il 17 novembre 2017 e la precedente Raccomandazione della Commissione UE 2017/761 del 26 aprile 2017; v. Ratti, Il pilastro europeo per i diritti sociali nel processo di rifondazione dell’Europa sociale, in Chiaromonte, M.D. Ferrara (a cura di), Bisogni sociali e tecniche di tutela giuslavoristica, Franco Angeli, 2018, 17 ss. 6 G. Santoro Passarelli, Civiltà giuridica e trasformazioni sociali nel diritto del lavoro, in DRI, 2019, 417 ss., spec. 435. 7 Così Corti, Sartori, La legge sul lavoro autonomo e lo smart working. La quarta riforma del pubblico impiego. Le linee guida sui tirocini, in RIDL, 2017, III, 91 ss., spec. 93. 8 Cartina di tornasole può essere rappresentata dal fenomeno dell’over-education che sta caratterizzando la partecipazione agli ultimi concorsi pubblici. Su tutti si veda il concorso bandito con d.m. Giust. 18 novembre 2016 (Concorso pubblico a n. 800 posti a tempo indeterminato per il profilo professionale di Assistente giudiziario, area funzionale II, fascia economica F2, nei ruoli del personale
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L’«autonomia attenuata», che caratterizza molti dei destinatari della l. n. 81/2017, rappresenta lo scrimen ideologico che sembra aver ispirato il legislatore del Jobs Act degli autonomi, preferendosi un’estensione ai lavoratori autonomi delle tutele tipiche del lavoro subordinato e di quello imprenditoriale (si pensi all’esplicito richiamo alla l. n. 192/1998 ed al d.lgs. n. 231/20029), piuttosto che fare ricorso alla c.d. fictio, com’è accaduto con l’art. 2, d.lgs. n. 81/201510. La l. n. 81/2017 non reca una definizione di lavoro autonomo11 economicamente dipendente12, nonostante gli auspici della dottrina13, estendendo ad esso la nozione dettata dal legislatore nel ’98 per la subfornitura «in quanto compatibile»14. Rinvio della cui portata si discute potendosi ritenere sia che esso si limiti ad importare nella disciplina del lavoro autonomo solo la funzione prescrittiva del divieto di abuso di dipendenza economica oppure che abbia una portata ben più ampia, qualificatoria di una nuova fattispecie, cioè il lavoro autonomo economicamente dipendente (d’ora in poi LAED per brevità), porta di accesso ad uno statuto protettivo15.
del Ministero della giustizia), per il cui accesso è sufficiente il diploma quinquennale di licenza media superiore ed al quale hanno partecipato giovani liberi professionisti (avvocati, commercialisti…) che aspirano al c.d. “posto fisso” (come nel film “Quo vado” interpretato dal noto attore comico pugliese Luca Medici, alias Checco Zalone) piuttosto che restare incagliati nelle secche di una attività libero professionale, che molto spesso consente a malapena di coprire le spese. 9 Cfr. Perulli, Il lungo viaggio del lavoro autonomo dal diritto dei contratti al diritto del lavoro, e ritorno, in LD, 2017, 2, 269 ss., secondo il quale il provvedimento «si pone quindi in perfetta linea di continuità con gli interventi legislativi che nel corso dell’ultimo ventennio hanno caratterizzato la tutela del contraente debole sul mercato, e volti a valorizzare non tanto le caratteristiche oggettive dell’attività esercitata ma i riflessi soggettivi di tale esercizio». In termini v. ancora Perulli, Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile: come cambiano i concetti di subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, in WP D’Antona, It., n. 341/2017, spec. 11 e Id., Il Jobs Act degli autonomi: nuove (e vecchie) tutele per il lavoro autonomo non imprenditoriale, in RIDL, 2017, 2, 181 ss.; adde, Razzolini, Il d.d.l. sul lavoro autonomo: dalla tutela della dipendenza alla tutela della persona, in nelmerito.it, 2016. In parziale assonanza v. Martelloni, I rimedi nel “nuovo” diritto del lavoro autonomo, in LD, 2017, 517, ss., spec. 520 e 529 ss., secondo il quale la l. n. 81/2017 opererebbe una secca cesura col passato, atteso che, pur estendendo ai lavoratori autonomi alcune tutele di matrice welfaristica, seguendo una direttrice consolidata dell’ultima normativa giuslavoristica, ricorre a modelli normativi propri di altre branche giuridiche, si pensi al sistema delle nullità parziali, normalmente impiegato per invalidare condizioni contrattuali di squilibrio tra imprese. Di diversa opinione sembra essere Fiorillo, Un diritto del lavoro per il lavoro che cambia: primi spunti di riflessione, in WP D’Antona, It., n. 368/2018, spec. 11, che parla di «progressiva attrazione delle attività di lavoro autonomo «nel nucleo di matrice protettiva proprio del diritto del lavoro» 10 V. le lucide, ma sempre astratte, considerazioni di Ciucciovino, Le «collaborazioni organizzate dal committente» nel confine tra autonomia e subordinazione, in RIDL, 2016, I, 321 ss., spec. 338. 11 Failla, Sulla disciplina del lavoro autonomo, in LG, 2017, 729 ss., spec. 733. Per una critica sulla delimitazione del campo di applicazione della l. n. 81/2017, in relazione all’impiego della locuzione «lavoro autonomo», v. Perulli, La legge di tutela del lavoro autonomo: profili introduttivi, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Il Jobs Act del lavoro autonomo e del lavoro agile, Giappichelli, 2018, 3 ss., spec. 7, che ritiene «criticabile il riferimento generico al “lavoro autonomo”, che costituisce un universo assai composito, esteso dalle forme contrattuali più deboli, perché coordinate, all’esercizio dell’impresa». 12 Su cui v. Perulli, Lavoro autonomo e dipendenza economica, in RGL, 2003, I, 221 ss.; M. Pallini, Il lavoro economicamente dipendente, Cedam, 2013; adde, da ultimo, Cavallini, Il divieto di abuso di dipendenza economica e gli strumenti del “nuovo” diritto civile a servizio del lavoro autonomo, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, Wolters Kluver – Cedam, 2018, 285 ss., spec. 292 ss.; F. Ferraro, Prime osservazioni sulle tutele civilistiche del lavoro autonomo non imprenditoriale, in Giuseppe Santoro Passarelli, cit., 460 ss. spec. 486; Cairoli, Giuseppe Santoro Passarelli e la tutela del lavoro autonomo debole: un cammino lungo quasi quarant’anni (in sei fasi), ibidem, 425 ss. 13 Cfr. Perulli, Un Jobs Act per gli autonomi: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, in WP D’Antona, It., n. 235/2015, spec. §§ 6 e 7.1. 14 V. art. 3, comma 4, l. n. 81/2017. Sulla dipendenza economica nelle relazioni tra imprese v. ancora R. Voza, Interessi collettivi, cit., 189 ss. 15 È l’interrogativo che si pone I. Zoppoli, Abuso di dipendenza economica e lavoro autonomo: un microsistema di tutele in difficile
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La risposta all’interrogativo sembra essere alquanto agevole, se non quasi scontata, nel senso che se la tutela contro la dipendenza economica dell’impresa, introdotta nel 1998, non ha inciso sulla nozione di quest’ultima, sarebbe arduo, se non proprio scorretto sul piano metodologico, sostenere la valenza qualificatoria della dipendenza economica esportata nell’area del lavoro autonomo16. L’estensione conferma, piuttosto, la vicinanza del lavoro autonomo all’impresa (ma sul punto v. infra). In ultima analisi la l. n. 81 – come si legge nella relazione di accompagnamento –si limita a prevedere la costruzione «anche per i lavoratori autonomi (di) un sistema di diritti e di welfare moderno, capace di sostenere il loro presente e di tutelare il loro futuro», rientrando «a pieno titolo nella garanzia offerta dall’art. 35 Cost. al lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”»17: assicura così una tutela minima18 dalla doppia anima alla «galassia del lavoro autonomo»19, estendendo ai lavoratori autonomi garanzie già previste in favore dell’impresa20. A quest’ultimo riguardo fa specie constatare come l’esigenza di tutelare la dipendenza economica sia stata avvertita dall’ordinamento all’inizio in favore dell’impresa e solo di recente per il lavoratore autonomo, anche se un simile atteggiamento poteva ricavarsi già dal sistema di sicurezza sociale che solo nel 1995 ha previsto una tutela pensionistica in favore degli autonomi, con l’istituzione della Gestione separata Inps, dopo aver introdotto molti anni prima la tutela in favore di artigiani, commercianti e agricoli, che compongono la galassia del mondo piccolo imprenditoriale21. Non meraviglia, pertanto, l’esclusione dal campo di applicazione della l. n. 81/2017 della piccola impresa in quanto già tutelata (su cui vedi infra.). Un’ultima notazione introduttiva riguarda la struttura della normativa sul lavoro autonomo di cui si discute. Ebbene, il legislatore ha dovuto fare i conti con una realtà nella quale
equilibrio, in RIDL, 2019, I, 97 ss. Invero il dubbio non ha ragione d’essere ove si condivida la posizione di E. Ghera, Diritto del lavoro, Cacucci, 2002, 65, il quale, all’esito di un articolato ragionamento, al quale si rinvia, conclude asserendo che «Non la situazione di sottoprotezione sociale – esterna al rapporto e comune ad altre categorie di soggetti – ma la collaborazione del prestatore di lavoro nell’impresa qualifica la subordinazione come vincolo finalizzato all’obiettivo dell’organizzazione del lavoro sotto il controllo e la responsabilità dell’imprenditore e funge da criterio per la identificazione della causa del contratto». 17 Così la relazione di accompagnamento alla l. n. 81/2017. In dottrina, Giubboni, Prime osservazioni sul disegno di legge del Governo in materia di lavoro autonomo non imprenditoriale, in MGL, 2016, 244 ss., spec. 250; Perulli, Il lungo viaggio del lavoro autonomo dal diritto dei contratti al diritto del lavoro, e ritorno, in LD, 2017, 251 ss., spec. 269; G. Santoro Passarelli, Il lavoro autonomo non imprenditoriale, il lavoro agile e il telelavoro, in RIDL, 2017, I, 369 ss., spec. § 1. 18 Sulla l. n. 81/2017, quale «nuova regolamentazione del lavoro autonomo, con la previsione di alcune garanzie minime di tutela in tema di transazioni commerciali», cfr. Marini, Le forme plurali del lavoro indipendente alla luce del nuovo Statuto degli Autonomi, in Boll. Adapt, 19 giugno 2017, spec. 2; adde, Razzolini, Jobs Act degli autonomi e lavoro esclusivamente personale. L’ambito di applicazione della legge n. 81/2017, in Fiorillo, Perulli (a cura di), op. cit., 13 ss. 19 Cfr. Loi, Il lavoro autonomo nella prospettiva del rischio, in Carabelli, Fassina (a cura di), Il lavoro autonomo e il lavoro agile alla luce della legge n. 81/2017, Ediesse, 15 ss., spec. 20 ss., secondo la quale «l’originale monoliticità del lavoro autonomo, coincidente sostanzialmente con la prestazione d’opera ex art. 2222 c.c., non corrisponde più alla realtà. Il legislatore nel corso del tempo ha dato forma a diverse fattispecie di lavoro autonomo, in risposta ai mutamenti delle tecniche organizzative e produttive dell’impresa. Pertanto la fattispecie definita in tale norma può essere considerata come genus, accanto al quale si pongono diverse species del lavoro autonomo». 20 F. Ferraro, op. cit., 484, parla di «vocazione para-imprenditoriale del lavoro autonomo». 21 Sul punto v. Cairoli, Giuseppe Santoro Passarelli, cit., 444. 16
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convivono tre specie: le collaborazioni coordinate e continuative (art. 409, n. 3, c.p.c.), il lavoro autonomo c.d. puro (artt. 2222-2228 c.c.) e il lavoro libero-professionale (artt. 22292238 c.c.). Detta tripartizione caratterizza la disciplina introdotta dalla l. n. 81/2017, ivi reperendosi non una disciplina unitariamente riferibile all’autonomia nella sua accezione codicistica, bensì tre distinte discipline per ciascuna delle tre specie prima richiamate, così perpetuando un distinguo già reperibile nel codice civile (artt. 2222 – 2230 c.c.), accentuatosi con la regolamentazione delle co.co.co.22. Il quadro testé delineato si è recentemente complicato a seguito della introduzione della tutela dei lavoratori tramite piattaforma digitale (c.d. riders), tramite il d.l. 3 settembre 2019, n. 101, ultimo atto normativo del Governo Conte 1. Quest’ultimo, con l’art. 1 comma 1, lett. c), introduce nel d.lgs. n. 81/2015 il Capo V-bis,(artt. 47-bis, 47-ter e 47-quater), con una vacatio di 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione. Si tratta di un mini statuto protettivo per questa, tanto discussa, categoria di lavoratori. Restringendo il discorso al profilo qualificatorio, l’Esecutivo, in modo alquanto discutibile, collega la qualificazione come autonomi di questi lavoratori alla tipologia di lavoro svolto, traslando nell’area dell’autonomia un criterio decisamente rifiutato, salvo qualche rara eccezione, dalla giurisprudenza nell’area della subordinazione. Le modalità di esecuzione della prestazione incidono, viceversa, sulla determinazione del corrispettivo (v. art. 47-bis comma 3). Tale realtà ha impedito di ideare un paradigma di tutela ritagliato sulla fattispecie optandosi per l’estensione di tutele tipiche della subordinazione ovvero, più di recente, di quelle riservate all’impresa: non sarebbe ultroneo parlare di una tutela perennemente a rimorchio (!). Tale dato devalorizza molto l’esclusione degli imprenditori, anche piccoli, dal campo di applicazione della l. n. 81/2017, in quanto destinatari già da molti anni delle tutele oggi accordate agli autonomi (si pensi alla dipendenza economica della l. n. 192/1998 e al ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali del d.lgs. n. 231/2002). Siffatta scelta legislativa ben spiega la mancata definizione di lavoro autonomo economicamente dipendente ancora una volta proponendo una “definizione per sottrazione”: è LAED tutto ciò che non è riconducibile alla subordinazione ovvero all’impresa economicamente dipendente.
2. Il campo di applicazione. Questi brevi cenni introduttivi conducono al primo profilo: il campo di applicazione della l. n. 81/2017 il cui art. 1 si caratterizza per una formulazione bivalente in quanto il comma 1 ha una formulazione “al positivo” dalla quale principiare per la ricognizione
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La riconduzione alla l. n. 533/1973 del primo intervento legislativo sulle co.co.co., molto diffusa nella riflessione scientifica in materia, è notoriamente errata visto che è già presente nella legge Vigorelli, l. n. 741/1959.
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delle fattispecie di lavoro autonomo23 alle quali si applicano le disposizioni del «capo I»24; al contrario, il comma 2 è formulato “al negativo”, escludendo dall’applicazione in modo esplicito gli imprenditori, ivi compresi i piccoli imprenditori di cui all’art. 2083 c.c.25, così dando fiato alla tesi maggioritaria che vuole lavoro autonomo e piccola impresa come figure concettualmente distinte e non sovrapponibili (infra)26. 2.1. Le fattispecie incluse. Tra le fattispecie di lavoro autonomo, rientranti nel campo di applicazione della nuova disciplina, la disposizione in esame riconduce in primis i rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro quinto del codice civile, cioè quelli posti in essere ai sensi degli artt. 2222 c.c. (contratto d’opera) e 2230 c.c. (contratto di prestazione d’opera intellettuale). La particolare ampiezza dell’art. 2222 c.c.27 produce rilevanti effetti sulla determinazione del campo di applicazione della l. n. 81/2017, poiché è sufficiente rinvenire gli elementi tipici del contratto d’opera per attrarre la fattispecie presa in considerazione al Jobs Act del lavoro autonomo. Discorso analogo può svolgersi anche in relazione all’art. 2230 c.c., in ragione dell’ampiezza della nozione di prestazione d’opera intellettuale. In secondo luogo, l’art. 1, comma 1, l. n. 81/2017, include nell’ambito applicativo i rapporti di lavoro che hanno una disciplina particolare ai sensi dell’art. 2222 c.c., con un rinvio foriero di criticità interpretative28. Infatti, il riferimento alla «disciplina particolare», presente testualmente nell’art. 2222 c.c., viene collegato ai rapporti che abbiano una disciplina particolare nel Libro IV (del codice civile). Di conseguenza, una prima opzione interpretativa potrebbe essere quella di limitare l’applicazione del capo I della l. n. 81/2017 a questi rapporti; l’opzione alternativa è quella
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Valorizza la declinazione al plurale fatta dal legislatore («rapporti di lavoro autonomo»), Razzolini, Jobs Act degli autonomi e lavoro esclusivamente personale. L’ambito di applicazione della legge n. 81/2017, cit., 18 ss. 24 Come già detto, critica la scelta “indifferenziata” del legislatore, Perulli, Un Jobs Act per gli autonomi: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, cit., 11, secondo il quale «una specifica e peculiare attenzione avrebbe dovuto riservarsi alle collaborazioni di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., o ai c.d. prestatori a partita IVA economicamente dipendenti, specie se operanti in regime di monocommittenza o di committenza ristretta». 25 Secondo Corti, Sartori, op. cit., 93, l’esclusione sarebbe giustificata dalla sufficiente protezione assicurata dalla legislazione vigente loro applicabile, sebbene non vada esclusa de iure condendo la possibilità di estendere gli istituti di sicurezza sociale anche agli imprenditori, come avviene in Scandinavia. In realtà una siffatta estensione già esiste attraverso le gestioni Inps riservate ad artigiani, commercianti ed agricoli, alle quali si aggiunge l’obbligatoria iscrizione alla gestione separata dei componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società di capitali. 26 Perulli, Il lavoro autonomo tradito e il perdurante equivoco del “lavoro a progetto”, in DRI, 2013, 1 ss., spec. nt. 13. Contra Bigiavi, La “piccola impresa”, Giuffrè, 1947, 91 ss., secondo il quale sarebbe possibile sovrapporre lavoratore autonomo e piccolo imprenditore, riconoscendo minor importanza all’elemento dell’organizzazione. Riflettendo sulla esclusione della piccola impresa F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 465, sottolinea come il confine tra lavoro autonomo e piccola impresa sia inafferrabile nella realtà fenomenica, donde l’inopportunità dell’esclusione. 27 V. Razzolini, Jobs Act degli autonomi e lavoro esclusivamente personale. L’ambito di applicazione della legge n. 81/2017, cit., spec. 19, che identifica la fattispecie di cui all’art. 2222 c.c. quale nucleo sostanziale della disposizione. 28 Ma sulla funzione del rinvio di cui all’art. 2222 c.c. v. G. Santoro Passarelli, Dal contratto d’opera al lavoro autonomo economicamente dipendente, attraverso il lavoro a progetto, in RIDL, 2004, I, 543 ss., spec. § 1, secondo il quale le discipline dei tipi contrattuali cui fa rinvio l’art. 2222 c.c. «regolano il profilo della continuità della prestazione e del rapporto, ma hanno oggetti specifici: la conclusione di contratti o il compimento di atti giuridici»; sulla continuità, quale elemento strutturale comune tra lavoro subordinato e autonomo, v. Loi, op. cit., 22 ss.
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di ricomprendere anche i rapporti disciplinati dalla legislazione speciale, ovvero i negozi giuridici comunque riconducibile all’area dell’autonomia. Nella prima ipotesi sarebbero attratti alla l. n. 81/2017 esclusivamente i contratti disciplinati nel Libro IV del codice civile29, e cioè quelli di appalto, trasporto, agenzia, mediazione, deposito e comodato, sempre che non siano esercitati in forma di impresa a prescindere dalle dimensioni (infra). Del pari rientrerebbero nel campo di applicazione della nuova disciplina tutte le ipotesi richiamate dall’art. 2, comma 2, lett. a, b, c, d, d-bis e d-ter, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, da ultimo modificato dalla l. n. 96/2018, alle quali non trovando applicazione la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, come previsto dal precedente comma 1 in ordine alle collaborazioni organizzate dal committente30, non potrebbe che applicarsi quella del lavoro autonomo o libero professionale31. Trattasi rispettivamente a) delle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore32; b) delle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali; c) delle attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni; d) delle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall’art. 90, l. 27 dicembre 2002, n. 28933; e) delle collaborazioni prestate nell’ambito della produzione e della realizzazione di spettacoli da parte delle fondazioni di cui al d.lgs. 29 giugno 1996, n. 367, nonché f) delle società sportive dilettantistiche lucrative; ed infine g) delle collaborazioni degli operatori che prestano le attività di cui alla l. 21 marzo 2001, n. 74.
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Cfr. Pallini, Gli incerti confini dell’ambito di applicazione dello statuto del lavoro autonomo, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 229 ss., spec. 239. 30 Cfr. Ciucciovino, op. cit., spec. 323 ss., che si sofferma sull’avvenuta rottura della inscindibile simmetria tra tipo contrattuale ed effetti di disciplina conseguenti, atteso che alla fattispecie di cui all’art 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, sostanzialmente riconducibile al lavoro autonomo, il legislatore ha deciso di applicare la disciplina di un diverso tipo contrattuale (il lavoro subordinato). Perulli, Un Jobs Act per gli autonomi: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, cit., spec. 9-10, a proposito del percorso normativo seguito dal legislatore in relazione all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, opta per la tesi della «giuridificazione di un indice (eteroorganizzazione) finalizzato ad attrarre figure diverse dal lavoro subordinato standard, gravitanti nella soglia tra subordinazione e autonomia, che vengono ricondotte per l’effetto nell’area della subordinazione». 31 Failla, op. cit., 19-20, a meno che non sia deducibile comunque una prestazione d’opera. 32 Sul punto giova evidenziare che secondo l’interpello Min. lav. 15 dicembre 2015, n. 27, l’esclusione di cui all’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 81/2015, opererebbe in relazione alle sole collaborazioni che trovano puntuale disciplina in accordi sottoscritti da associazioni sindacali in possesso del maggior grado di rappresentatività determinata all’esito della valutazione comparativa degli indici summenzionati. Di conseguenza, l’eventuale applicazione di un diverso contratto collettivo non impedirà l’applicazione dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015. 33 V. anche l’interpello Min. lav. 27 gennaio 2016, n. 6, che ritiene attratte alla disciplina del lavoro autonomo, ex art. 2, comma 2, lett. d, d.lgs. n. 81/2015, non solo le collaborazioni coordinate e continuative rese in favore delle Associazioni sportive e delle Società sportive dilettantistiche ma anche quelle rese in favore del CONI, delle Federazioni Sportive nazionali, delle discipline associate e degli Enti di promozione sportiva.
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Nella seconda ipotesi, invece, l’applicazione del capo I della l. n. 81/2017 opererebbe a tutto campo (e non solo per le fattispecie codicistiche, ma anche per quelle extra codice, basti pensare al contratto di franchising di cui alla l. n. 129/2004), conferendo al Jobs Act del lavoro autonomo i crismi di provvedimento a vocazione generale, mentre le singole ipotesi contrattuali specifiche assumerebbero una posizione di specialità rispetto alla disciplina introdotta dalla l. n. 81/201734. Infatti, sebbene l’art. 1, l. n. 81/2017, preveda l’applicazione delle disposizioni del capo I ai rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro quinto del codice civile, ivi inclusi quelli che hanno una disciplina particolare ai sensi dell’art. 2222 c.c., la portata dell’intervento non si palesa «quale organico statuto del lavoro autonomo, quanto come una forma di regolazione – quadro, volta a introdurre alcune essenziali misure protettive e promozionali di carattere generale e comuni a tutti i rapporti di lavoro autonomo»35, peraltro limitata ad alcune disposizioni e non a tutte, vista la presenza di numerose deleghe al Governo (tutte scadute…), anch’esse orientate alla tutela del lavoro autonomo36. Inoltre, alcune delle disposizioni comprese nel capo I potrebbero non attagliarsi a talune prestazioni di lavoro autonomo. In particolare, si possono considerare immediatamente applicabili al lavoro autonomo, ai sensi dell’art. 1, l. n. 81/2017: l’art. 2, sulla tutela del lavoratore autonomo nelle transazioni commerciali37; l’art. 3, sulle clausole e condotte abusive 38; l’art. 4, sugli apporti originali e invenzioni del lavoratore 39; l’art. 9, sulla deducibilità fiscale di taluni oneri con-
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Cfr. Failla, op. cit., 734, secondo il quale «il legislatore opta, quindi, per l’adozione di una disciplina di generale applicazione, estesa a tutte le forme di lavoro autonomo così come definite dall’art. 2222 e ss. del codice civile, comprendendovi anche le professioni intellettuali, ordinistiche e non ordinistiche, la prestazione d’opera, anche nella forma della collaborazione coordinata e continuativa». In senso analogo Perulli, Il Jobs Act degli autonomi: nuove (e vecchie) tutele per il lavoro autonomo non imprenditoriale, cit., 177. 35 Giubboni, Il Jobs act del lavoro autonomo: commento al capo I della legge n. 81/2017, cit., spec. 483. 36 Su cui Filì, Nuove sfide, tutele e opportunità per i professionisti nelle deleghe della l. n. 81/2017, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., 332 ss.; ma anche P.P. Ferraro, Le deleghe sulle professioni organizzate in ordini e collegi e le proposte in discussione in materia di tariffe professionali e Del Torto, La delega al governo per la semplificazione della normativa in tema di salute e sicurezza degli studi professionali, entrambi in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., rispettivamente 321 ss. e 389 ss. 37 In argomento v. Di Noia, La tutela “civilistica” del lavoratore autonomo nelle transazioni commerciali, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., 134 ss., nonché F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 476 ss. Adde v. Corti, Sartori, op. cit., 94, secondo i quali «stante la definizione assai ampia di “imprenditore” contenuta nel d.lgs. n. 231/2002 (art. 2, co. 1, lett. c), la disciplina ivi contenuta risultava già in precedenza applicabile ai lavoratori autonomi»; della stessa opinione è Perulli, La legge di tutela del lavoro autonomo: profili introduttivi, in Fiorillo, Perulli (a cura di), op. cit., 27 ss., spec. 31; ritiene invece che il d.lgs. n. 231/2002 «non sia integralmente e immediatamente applicabile al lavoro autonomo, richiedendo correzioni e adeguamenti da parte dell’interprete», Mattioni, La tutela del lavoro autonomo nelle transazioni commerciali (art. 2) e le clausole e le condotte abusive (art. 3, commi 1-3), in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 265 ss. 38 Cfr. Giubboni, Prime osservazioni sul disegno di legge del Governo in materia di lavoro autonomo non imprenditoriale, cit., 252; Id., Il Jobs act del lavoro autonomo: commento al capo I della legge n. 81/2017, cit., 485, secondo il quale la ratio al fondo della disposizione se ricorre nelle co.co.co. «non altrettanto può dirsi nel caso di contratti di prestazione d’opera intellettuale stipulati con chi eserciti una professione liberale». 39 V. C. Garofalo, Apporti originali e invenzioni del lavoratore autonomo, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., 167 ss., secondo la quale «l’art. 4, l. n. 81/2017, seppur ha il pregio di aver introdotto per la prima volta una disciplina in tema di invenzioni del lavoratore autonomo, si è di fatto limitato a normativizzare principi già applicati convenzionalmente, ed in particolare quello secondo cui i diritti morali e patrimoniali dell’invenzione spettano al creatore tranne quando l’attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto e per tale motivo remunerata»; adde, Corti, Sartori, op. cit., 95, che attribuiscono alla disposizione valore puramente ricognitivo, confermando «l’attribuzione al lavoratore autonomo dei diritti di utilizzazione economica di opere dell’ingegno quando l’attività inventiva non sia prevista come oggetto del contratto di lavoro e a tal fine compensata»; sulla «(modesta) portata innovativa
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nessi alla formazione professionale 40; l’art. 10, sull’accesso alle informazioni sul mercato e servizi personalizzati di orientamento, riqualificazione e ricollocazione41; l’art. 12, sulle informazioni e l’accesso agli appalti pubblici e ai bandi per l’assegnazione di incarichi e appalti privati42. Come si può notare le disposizioni e gli istituti innanzi richiamati rappresentano solo una parte della complessa disciplina che regolamenterebbe in linea astratta le fattispecie dal punto di vista generale, precisandosi che le previsioni di cui al capo I della l. n. 81/2017, non incidono sull’efficacia delle disposizioni specifiche eventualmente presenti nella regolamentazione delle singole fattispecie, che in quanto speciali non sarebbero derogabili da norme di carattere generale, quali quelle di cui agli artt. 1-17 (recte, gli artt. 2, 3, 4, 10, 12) della l. n. 81/2017, applicabili solo in assenza delle prime. In verità, i rapporti tra la disciplina di carattere generale e quelle speciali non sono così lineari, come si evince, ad esempio, dall’esame degli effetti potenziali dell’applicabilità del capo I della l. n. 81/2017 al rapporto di agenzia, che corre il rischio di penalizzare le specificità di questa fattispecie, soprattutto con riferimento alla disciplina recata dagli accordi economici collettivi (c.d. AEC)43; basti pensare alle ricadute applicative dell’art. 3, l. n.
dell’art. 4 l. n. 81 del 2017» v. D’Ascola, Gli apporti originali e le invenzioni del lavoratore autonomo, in. Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 301 ss., spec. 312 ss. e Martone, Gli apporti originali e le invenzioni del lavoratore autonomo, in Fiorillo, APerulli (a cura di), op. cit., 43 ss., spec. 48. 40 Sul tema cfr. Lamonaca, Agevolazioni fiscali per i lavoratori autonomi vecchie (rivisitate) e nuove, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., 201 ss., anche per alcuni esempi di attività formative meglio incentivate dall’attuale disciplina rispetto a quella previgente; inoltre v. Giubboni, Prime osservazioni sul disegno di legge del Governo in materia di lavoro autonomo non imprenditoriale, cit., 252 ss., secondo cui la deducibilità interesserà probabilmente le categorie alle quali la legge impone particolari obblighi di aggiornamento professionale; per alcune riflessioni sulla peculiarità della formazione in materia di lavoro autonomo e sugli effetti dell’art. 9, l. n. 81/2017 v. Passalacqua, Gli incentivi alla formazione e al collocamento del lavoratore autonomo, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 369 ss., spec. 377 ss.; Viotto, Le disposizioni fiscali, la deducibilità delle spese e l’accesso del lavoratore autonomo alla formazione permanente, in Fiorillo, Perulli (a cura di), op. cit., 73 ss., spec. 80 ss. 41 Su cui v. A. Olivieri, Industria 4.0 e tutele nel mercato per i lavoratori autonomi: un progetto effettivamente promozionale?, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., 215 ss.; Montanari, I servizi per l’impiego per il lavoratore autonomo, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 379 ss. e Cagnin, Art. 10, l. 22 maggio 2017, n. 81 ed il nuovo sportello di servizi al lavoro per i lavoratori autonomi: funzioni, soggetti coinvolti e criticità contestuali, in Fiorillo, Perulli (a cura di), op. cit., 85 ss. Sulla riconducibilità della disposizione all’allegato alla prima stesura del pilastro europeo dei diritti sociali (COM (2016) 127 final) «Per avvalersi nel modo migliore del cambiamento tecnologico e delle rapide trasformazioni dei mercati del lavoro è necessario un sostegno migliore e rapido ai cambiamenti di lavoro e professione», cfr. Marini, op. cit., 2-3. Per un giudizio negativo sulla clausola di invarianza finanziaria relativa agli adempimenti di cui all’art. 10, l. n. 81/2017, v. Giubboni, Prime osservazioni sul disegno di legge del Governo in materia di lavoro autonomo non imprenditoriale, cit., 252, che riconduce la disposizione alle c.d. «norme manifesto, destinate con ogni probabilità a restare flatus vocis». In generale, sulla (sicura) incapacità dei centri per l’impiego di offrire servizi qualitativamente adeguati ai lavoratori autonomi v. Perulli, Il lungo viaggio del lavoro autonomo dal diritto dei contratti al diritto del lavoro, e ritorno, cit., 277. Sugli effetti e sulla ricorrenza della clausola di invarianza finanziaria in tutta la riforma del mercato del lavoro del Jobs Act si rinvia a E. Ghera, D. Garofalo (a cura di), Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro nel Jobs Act 2, Cacucci, 2016. 42 In argomento v. Caffio, Il sostegno alla maggiore inclusione dei micro e dei piccoli operatori nel mercato degli appalti pubblici e privati, in D. Garofalo (a cura di), Appalti e lavoro. Disciplina pubblicistica, Giappichelli, 2017, I, 370 ss.; Id., La protezione “nel mercato” per i lavoratori autonomi: accesso alle informazioni e nuove forme di aggregazione, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., 227 ss., nonché Varva, Informazioni e accesso agli appalti pubblici, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 399 ss.; Montini, Informazioni e accesso agli appalti pubblici ed ai bandi, in Fiorillo, Perulli (a cura di), op. cit., 117 ss. 43 Sul punto G. Santoro Passarelli, Dal contratto d’opera al lavoro autonomo economicamente dipendente, attraverso il lavoro a progetto, cit., § 2, evidenzia la peculiarità del contratto di agenzia, «unico fra quelli di lavoro autonomo, (ad essere) tutelato anche da una copiosa disciplina collettiva contenuta in numerosi accordi economici collettivi». Riconduce l’agente «a una figura caratteristica del lavoro autonomo» Putaturo Donati, Agenti e Jobs act degli autonomi: contraddittorietà sistemiche e incertezze applicative, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 253 ss., spec. 255, cui si rinvia per alcune riflessioni sul rapporto tra contratto di agenzia e l. n.
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81/2017, in tema di clausole e condotte abusive, sulle disposizioni relative alle variazioni unilaterali contenute in alcuni AEC44 che, coerentemente rispetto agli orientamenti giurisprudenziali di legittimità, hanno disciplinato condizioni e modalità utilizzate dal mandante per procedere a variazioni unilaterali. Altro punctum dolens del rapporto tra contratto di agenzia e l. n. 81/2017 è rappresentato dalla disciplina dei termini di pagamento, solitamente trimestrali, contenuta sempre negli AEC, a dispetto del divieto di pattuizione di termini di pagamento superiori a 60 giorni di cui all’art. 3, comma 1, l. n. 81/2017. La disciplina degli AEC a sua volta è coerente alle disposizioni contenute nel regolamento Enasarco, relative ai termini di scadenza per il pagamento della contribuzione da parte degli agenti, con l’effetto di destabilizzare anche il nesso temporale tra provvigioni e contribuzioni. Di conseguenza, l’estensione anche al contratto di agenzia del capo I della l. n. 81/2017 potrebbe produrre «una significativa alterazione degli equilibri negoziali raggiunti»45, salvaguardandoli solo mediante una apposita deroga a favore degli AEC46, la cui assenza nel testo di legge, però, lascia senza alcuna soluzione i problemi innanzi evidenziati47. Il provvedimento sembra rivelare una contraddizione di fondo, e cioè una sorta di tensione dei professionisti ora verso la disciplina del lavoro subordinato, ora verso l’imprenditoria vera e propria, così determinando di riflesso un atteggiamento ondivago del legislatore. Paradigmatiche di tale approccio normativo sembrano essere, da un lato, le disposizioni inerenti l’accesso alle informazioni sul mercato e servizi personalizzati di orientamento, riqualificazione e ricollocazione, di cui all’art. 10, l. n. 81/2017, che impongono ai centri per l’impiego e agli organismi autorizzati alle attività di intermediazione in materia di lavoro, di dotarsi di uno sportello dedicato al lavoro autonomo, con l’effetto di ampliare le competenze degli organismi storicamente competenti nella gestione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro subordinato48; dall’altro lato, quelle sull’equiparazione dei professionisti alle imprese in materia di informazioni ed accesso ad appalti pubblici e bandi per l’assegnazione di incarichi e appalti privati, di cui all’art. 12, l. n. 81/201749.
81/2017; adde F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 486. Profilo questo stigmatizzato in modo significativo durante l’audizione informale di Confindustria alla Camera dei Deputati, innanzi alla XI Commissione Lavoro pubblico e privato, avvenuta il 10 gennaio 2017, sul d.d.l. AC 4135, recante «Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato», spec. § 3. 45 Questa è la posizione espressa da Confindustria (v. supra nota 44). 46 Questa è la soluzione proposta da Confindustria (v. supra nota 44). 47 Secondo Putaturo Donati, Agenti e Jobs act degli autonomi: contraddittorietà sistemiche e incertezze applicative, cit., 260-261, l’art. 3, comma 1, l. n. 81/2017. non sarebbe applicabile al contratto di agenzia, «dovendo riconoscersi la perdurante cogenza della inderogabilità a svantaggio dell’agente delle regole che presiedono le modalità di liquidazione delle poste provvigionali», conclusione coerente rispetto all’art. 1749, comma 4, c.c., disposizione a sua volta direttamente attuativa della dir. CE 86/653/CEE. 48 Sulla novità rappresentata dal raggruppamento unitario dei servizi personalizzati di riqualificazione e ricollocazione per i lavoratori subordinati ed autonomi v. Casano, La riforma del mercato del lavoro nel contest della “nuova geografia del lavoro”, in DRI, 2017, 634 ss. spec. 665 ss., che teme la creazione di incoerenti “corsie separate” tra le due categorie, in assenza di meccanismi integrativi, auspicabilmente appannaggio dell’ANPAL. V. anche D. Garofalo, La tutela del lavoratore autonomo nel mercato del lavoro dopo la l. n. 81/2017, in VTDL, 2018, 3, 645 ss. 49 In tal senso Confindustria (supra nota 44, spec. § 2), secondo cui il provvedimento «sembra proseguire il percorso di equiparazione 44
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La scelta di politica del diritto al fondo della l. n. 81/2017 è stata criticata da chi, invece, auspica che il tema delle professioni, specie di quelle regolamentate, sia oggetto di distinta disciplina, «con un approccio organico, alla luce di un’attenta analisi di impatto regolatorio e dei benchmark europei»50, contestandosi una ingiustificata uniformità che non tiene conto delle possibilità di deregolamentazione e quindi di ragionevole equiparazione di alcuni professionisti alle imprese, a differenza di altri contesti ove sarebbe ragionevole la permanenza di un presidio ordinistico, espressione di ovvi interessi pubblici collegati. 2.2. Le fattispecie escluse. La scelta del legislatore di escludere dal campo di applicazione del capo I della l. n. 81/2017, gli imprenditori, ivi compresi i piccoli di cui all’art. 2083 c.c. (cioè le quattro categorie rappresentate da coltivatori diretti51, piccoli commercianti, artigiani e tutti coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio o dei componenti della famiglia)52, non convince una parte della dottrina, che specie con riferimento all’ultima categoria evidenzia la rilevanza dell’apporto lavorativo personale53, tanto da costituire «figure socio – economiche rientranti a pieno titolo nella garanzia offerta dall’art. 35 Cost. al lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”»54. Secondo altra parte della dottrina, la struttura imprenditoriale rappresenta il discrimen applicativo della l. n. 81/2017, nel senso che in presenza di essa ai contratti oggetto di particolare disciplina (anche codicistica) non potrebbero applicarsi le disposizioni di cui al capo I del Jobs Act degli autonomi55. Per comprendere se è applicabile il capo I della l. n. 81/2017 occorre procedere, pertanto, ad un’operazione qualificatoria56. In primo luogo, bisogna verificare se v’è impresa o piccola impresa, il che involge profili complessi, come dimostra quella giurisprudenza di legittimità che ammette la possibilità di qualificare come imprenditori anche soggetti la cui attività è solitamente riconducibile ad attività lavorativa non imprenditoriale, come quella svolta da uno studio legale o da un avvocato che presenti, in concreto, una organizzazione imprenditoriale57. Infatti, ove il professionista intellettuale rivesta la qualità di imprenditore commerciale per il fatto di
tra i professionisti e le imprese, già intrapreso in modo disomogeneo e “timido” nel nostro ordinamento (da ultimo dal c.d. ddl concorrenza)». 50 Così Confindustria (v. supra nota 44). 51 A riguardo v. Moscarini, Le nozioni di “coltivatore diretto”, “proprietario diretto coltivatore” e “imprenditore agricolo a titolo principale” nella disciplina dell’indennità espropriativa, in RTDPC, 2000, 357 ss. 52 Sulla natura distinta delle quattro categorie annoverate dall’art. 2083 c.c. v. F. Ferrara jr., F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Giuffrè, 2009, 48, spec. nt. 3. 53 Razzolini, Perché avviare una riflessione su piccolo imprenditore e lavoro prevalentemente personale, in DRI, 2013, 1080 ss., spec. § 1. 54 Cfr. Giubboni, Prime osservazioni sul disegno di legge del Governo in materia di lavoro autonomo non imprenditoriale, cit., 250; Perulli, Il lungo viaggio del lavoro autonomo dal diritto dei contratti al diritto del lavoro, e ritorno, cit., 269; G. Santoro Passarelli, Civiltà giuridica, cit., 439 ss. 55 Cfr. Failla, op. cit., 734, che esclude dall’ambito applicativo della l. n. 81/2017 «il contratto di appalto inteso in senso proprio (ossia di tipo imprenditoriale) ed il rapporto di agenzia (quando svolto in forma di impresa)». 56 Pallini, Gli incerti confini dell’ambito di applicazione dello statuto del lavoro autonomo, cit., 245. 57 A tal proposito v. gli artt. 16 ss., d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, sulle società tra avvocati, nonché l’art. 10, commi 3-11, l. 12 novembre 2011, n. 183, sulle società tra professionisti (c.d. STP), unica forma giuridica riconosciuta nel nostro ordinamento per lo svolgimento di attività professionale, come evidenziato dal Ministero dello sviluppo economico con parere 23 dicembre 2016, prot. n. 415099.
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esercitare la professione nell’ambito di un’attività organizzata in forma d’impresa, deve trattarsi di una distinta e assorbente attività che si differenzia da quella professionale per il diverso ruolo che riveste il sostrato organizzativo – il quale cessa di essere meramente strumentale – e per il differente apporto del professionista, non più circoscritto alle prestazioni d’opera intellettuale, ma involgente una prevalente azione di organizzazione, ossia di coordinamento e di controllo dei fattori produttivi, che si affianca all’attività tecnica ai fini della produzione del servizio. In tale evenienza l’attività professionale rappresenta una componente non predominante, per quanto indispensabile, del processo operativo, giustificandosi in tal caso la qualificazione imprenditoriale58. Tale orientamento giurisprudenziale, sebbene formatosi a margine del riconoscimento del diritto agli sgravi contributivi di cui all’art. 44, l. 28 dicembre 2001, n. 448, non può essere ignorato, fornendo un importante contributo ermeneutico; in ogni caso lo svolgimento dell’attività professionale in forma d’impresa è ipotesi già contemplata dall’art. 2238 c.c.59. Ancora, prendendo spunto da una riflessione svolta dalla dottrina a margine del contratto di agenzia, l’operazione di delimitazione “a negativis” del campo di applicazione potrebbe riflettere i propri effetti in modo decisamente pervasivo. Infatti, se è vero che il contratto di agenzia è un unicum nel panorama normativo, e non solo a livello codicistico, è anche vero che non tutti i rapporti di agenzia sono riconducibili all’art. 409, n. 3, c.p.c., fuoriuscendo da quest’ultima disposizione quello in cui il capitale investito e le prestazioni dei collaboratori assumano prevalenza rispetto all’attività personale dell’agente. La dottrina all’uopo ha affermato che «soltanto quando l’attività dell’agente (ma il discorso vale per ogni tipo di attività) sia svolta in forma di «piccola impresa» ai sensi dell’art. 2083 c.c., il rapporto tra agente e committente rientra tra quelli indicati dall’art. 409, n. 3, c.p.c.»; viceversa, quando «l’attività dell’agente sia svolta in forma di impresa, e cioè l’attività personale dell’agente non sia prevalente rispetto all’organizzazione dallo stesso predisposta, il rapporto di agenzia che intercorre tra agente e preponente non è soggetto al rito del lavoro». Se volessimo generalizzare la riflessione di Santoro Passarelli, allora ogni qual volta il capitale investito e l’apporto dei collaboratori appaia prevalente, saremmo di fronte ad attività imprenditoriale, con l’effetto di escludere questi operatori economici dal campo di applicazione del capo I della l. n. 81/2017. A ben guardare, la medesima dottrina, proprio in occasione dell’entrata in vigore del Jobs Act degli autonomi, ha sviluppato ulteriormente la propria riflessione, partendo dalla delimitazione delle due fattispecie sub artt. 2083 e 2222 c.c., atteso che «l’ampiezza effettiva dell’ambito di applicazione della legge dipende da come si interpreta la nozione di “piccolo imprenditore”»60. Infatti, l’eventuale coincidenza dell’operatore economico di cui all’art. 2083 c.c. con quello che stipula un contratto d’opera ex art. 2222 c.c., determine-
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Cass., 26 giugno 2013, n. 16092. Tale diversa qualificazione non incide sul regime di responsabilità solidale ex art. 29, comma 3-ter, d.lgs. n. 276/2003, che la esclude solo in favore della persona fisica-committente che non eserciti attività d’impresa o professionale. 59 Sul punto v. G. Santoro Passarelli, Il lavoro autonomo non imprenditoriale, il lavoro agile e il telelavoro, cit., § 1.1. 60 V. G. Santoro Passarelli, Op. ult. cit., § 2.
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rebbe l’esclusione di una vasta platea di contraenti, con il rischio di vanificare le finalità sottese alla l. n. 81/2017. A questo punto non può che privilegiarsi un’interpretazione funzionalistica, che consenta quindi al c.d. Jobs Act degli autonomi di spiegare la massima e migliore tutela, in linea con l’art. 35 Cost., e tale non potrebbe essere che quella che interpreta l’art. 1, comma 2, l. n. 81/2017, presupponendo che i piccoli imprenditori, «in coerenza col proprio nomen iuris, non siano lavoratori autonomi»61. Un provvedimento così importante dal punto di vista politico e giuridico quale è la l. n. 81/2017, non può non tener conto «della realtà economico sociale attuale nella quale esistono una miriade di lavoratori autonomi muniti di una micro-organizzazione che li distingue non soltanto sul piano quantitativo ma anche qualitativo da quella dei piccoli imprenditori», con l’effetto di dover rendere coerente l’interpretazione dell’art. 1, l. n. 81/2017 con il complesso humus socio – economico in cui il provvedimento è stato calato. A causa del progressivo avvicinamento tra lavoro autonomo e piccola impresa62, v’è un elevato rischio di confusione qualificatoria tra le due fattispecie63, direttamente proporzionale al contributo personale fornito dal “titolare”, e riconducibile altresì agli ostacoli normativi che impediscono l’assimilazione tra piccolo imprenditore e lavoratore autonomo, con l’effetto di rimettere all’autorità giudiziaria la definizione della corretta qualificazione giuridica dell’operatore, dovendo valutare dal punto di vista funzionale64 il contributo dell’entità organizzativa e delle modalità di svolgimento dell’attività da parte del lavoratore autonomo vs. piccolo imprenditore, nel senso che ad una modesta struttura organizzativa (si pensi all’antennista che opera a domicilio con l’aiuto di un apprendista)65 che non sopravanzi in termini economico-funzionali66 l’apporto del lavoro individuale, coniugata ad un’opera svolta essenzialmente in modo personale, dovrà negarsi la qualificazione di piccolo imprenditore67. Le ipotesi di ricostruzione sistematica proposte dalla dottrina che ha tentato di fornire una lettura degli artt. 2222 e 2083 c.c. come disposizioni non contrapposte, ma in parte sovrapponibili, avendo l’obiettivo di disciplinare il medesimo fenomeno economico da differenti prospettive, e cioè quella contrattuale e quella organizzativa68, per quanto possano
61
V. G. Santoro Passarelli, Op. ult. cit., § 2. Perulli, Il Jobs Act degli autonomi: nuove (e vecchie) tutele per il lavoro autonomo non imprenditoriale, cit., 180 ss. 63 Cfr. Perulli, Un Jobs Act per gli autonomi: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, cit., § 6; Id., La legge di tutela del lavoro autonomo: profili introduttivi, cit., 9, che richiama la tesi del personal work nexus (riconducibile a Freedland, Kountouris, The Legal Construction of Personal Work Relations, Oxford University Press, 2011), nella cui elencazione sarebbero comprese personal work relations of individual entrepreneurial workers, abbisognevoli di «un crescente bisogno di quella protezione sociale storicamente imputabile al lavoratore subordinato», atteso che «il piccolo imprenditore si caratterizza sempre più come “lavoratore”, portatore di “interessi anche non economici e bisogni esistenziali e umani”, quali “realizzare la propria personalità e garantirsi un reddito stabile e sufficiente”», con l’effetto di riesaminare «queste figure micro-imprenditoriali anche da un punto di vista giuslavoristico». 64 F. Ferrara jr., F. Corsi, op. cit., 49. 65 Contra Loi, op. cit., secondo la quale «Decisivo dovrebbe essere il fatto che il lavoratore autonomo abbia o meno altri dipendenti, fatto che anche a livello europeo è alla base di una distinzione tra le due categorie» di lavoratore autonomo e piccolo imprenditore. 66 F. Ferrara jr., F. Corsi, op. cit., 49. 67 Sul punto v. G. Santoro Passarelli, Il lavoro autonomo non imprenditoriale, il lavoro agile e il telelavoro, cit., § 3. 68 Razzolini, Il d.d.l. sul lavoro autonomo: dalla tutela della dipendenza alla tutela della persona, cit.; ancor prima Eadem, Piccolo imprenditore e lavoro prevalentemente personale, Giappichelli, 2012. 62
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apparire affascinanti, non elidono in modo assoluto il profilo contenzioso (supra), atteso che alla corretta qualificazione giuridica dell’operatore economico, svolta attraverso una sorta di actio finium regundorum incentrata sulla distinzione tra lavoro esclusivamente69 vs. prevalentemente personale70, sono sovente connesse importanti ricadute economiche e normative (es. sgravi, incentivi…). Il dato certo, come affermato da Ghera, è che «la linea di confine tra lavoro autonomo e impresa è molto più mobile di quanto si pensi, molto, se non tutto, dipendendo dal maggior o minor peso che ha nel singolo caso il lavoro prevalentemente proprio rispetto all’organizzazione dell’attività economica»71. Tutte le opzioni ermeneutiche avanzate dalla dottrina non possono non tener conto di questa riflessione. Di conseguenza, la tesi sostenuta da chi individua il lavoro autonomo tutelato nei rapporti che si caratterizzano per l’esecuzione di una prestazione d’opera con lavoro esclusivamente e non anche prevalentemente proprio del soggetto obbligato72, corre il rischio di impattare contro tre disposizioni che ricorrono al criterio distintivo della prevalenza del lavoro prestato e cioè gli artt. 2222 c.c. (criterio del «lavoro prevalentemente proprio»), 2232 c.c. (utilizzabilità di sostituti e ausiliari nella prestazione d’opera intellettuale) e 409 n. 3 c.p.c. (richiamo della prestazione d’opera prevalentemente personale anche per la co.co.co.)73, per cui «il criterio distintivo tra lavoro autonomo e piccolo imprenditore, includente per il primo ed escludente per il secondo, non può essere la prevalenza del lavoro proprio»74. Altra dottrina ricerca la distinzione tre le due figure nell’apporto di un complesso di beni materiali e immateriali (l’azienda ex art. 2555 c.c.), il cui utilizzo costituirebbe il dato insopprimibile della imprenditorialità del piccolo imprenditore, e paradigmatico del rischio contrattuale, non limitato alla sola prestazione personale, ma comprensivo dell’or-
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Sulla inclusione nella nozione di lavoro autonomo di cui all’art. 1, comma 1, l. n. 81/2017 del lavoro esclusivamente personale, v. Razzolini, Jobs Act degli autonomi e lavoro esclusivamente personale. L’ambito di applicazione della legge n. 81/2017, cit., 22 ss. 70 In tal senso v. Razzolini, Il d.d.l. sul lavoro autonomo: dalla tutela della dipendenza alla tutela della persona, cit.; nonché Eadem, Piccolo imprenditore e lavoro prevalentemente personale, cit., Cap. II. Invero, della complessità dell’operazione è convinta anche la stessa Autrice, secondo la quale «tracciare un confine fra lavoro esclusivamente e prevalentemente personale è complesso e si presta a facili manipolazioni». Razzolini mutua un criterio distintivo abbastanza risalente, ascrivendo al lavoro autonomo quello per la cui esecuzione sono utilizzati «strumenti “inespressivi”, inidonei a configurare una produttività eccedente il lavoro individuale»; per contro, il lavoro è riconducibile «nell’area dell’impresa quando tale livello viene superato per il concorso di strumenti aggiuntivi», a prescindere dal rapporto tra di essi e l’attività di lavoro del soggetto. Questo criterio, però, coglie la distinzione fra lavoro esclusivamente e prevalentemente personale, «ma non quella fra lavoro autonomo e impresa, per cui il lavoro esclusivamente personale sarebbe compatibile con l’utilizzo di strumenti della produzione inespressivi (come il laptop, il computer, il telefono), non invece con l’utilizzo di strumenti della produzione aggiuntivi (dei collaboratori, la proprietà o locazione di un ufficio). In questa seconda ipotesi, si ricade nell’area del lavoro prevalentemente personale (riferibile al piccolo imprenditore) nei limiti in cui l’opera o il servizio possano dirsi il risultato prevalente dell’attività materiale, esecutiva e organizzativa, del soggetto obbligato (articoli 2222 e 2083 c.c.); se tale limite viene a sua volta superato, si ricade nell’area della media o grande impresa (articolo 2082 c.c.). Si tratta di un giudizio “di prevalenza” che misura, in senso non solo quantitativo ma qualitativo, il ruolo e il peso dei diversi fattori produttivi (lavoro proprio, lavoro altrui, mezzi, capitali) nella produzione di un’opera o un servizio». 71 V. E. Ghera, Il campo di applicazione della tutela del lavoro autonomo nella legge n. 81/2017, cit., 488. 72 V. Razzolini , Jobs Act degli autonomi, cit., spec. 24. 73 V. Pallini, Gli incerti confini dell’ambito di applicazione dello statuto del lavoro autonomo, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 244. 74 V. E. Ghera, Il campo di applicazione della tutela del lavoro autonomo nella legge n. 81/2017, cit., 489.
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ganizzazione necessaria per l’adempimento contrattuale, per cui la distinzione tra le due figure avrebbe come dato dirimente proprio la presenza di una pur minima azienda75.
3. Le tutele accordate al lavoratore autonomo. Questa collocazione del lavoro autonomo tra l’impresa e la subordinazione aiuta a comprendere l’articolazione delle tutele introdotte o rivisitate dalla l. n. 81, teleologicamente differenziate pur se accumunate dalla debolezza dei soggetti riconducibili al “mondo di mezzo”. Per grossa approssimazione è possibile individuare nell’articolato del 2017 tre diverse tipologie di tutele che guardano al lavoratore autonomo nel contratto, nel mercato e in quanto soggetto che vive del proprio lavoro. Si tratta di tutele di matrice diversa, civilistica76 la prima, “mercatistica” la seconda, lavoristico-previdenziale l’ultima, ma con forti influenze ed interferenze reciproche, come si addice ad un corpus normativo di frontiera, per cui la tripartizione qui adottata risponde più ad esigenze di schematizzazione che non di vera e propria sistemazione categoriale.
4. Le tutele nel contratto. La prima tipologia di tutele, che insinua nella normativa sul lavoro autonomo la logica del contratto asimmetrico77, viene affidata a due disposizioni relative rispettivamente al ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali (art. 2) e alle clausole e condotte abusive (art. 3, commi 1, 2 e 3). Prima di esaminarle non può non condividersi l’opinione di Cairoli78, che mette in evidenza come «è significativo rilevare che questo rinvio operato dalla l. n. 81/2017 esprime bene la parallela evoluzione della disciplina civilistica, che ha saputo fare passi avanti nell’integrazione del canone della buona fede e nel recepimento delle tutele contro l’asimmetria tra parti contraenti, alla quale però non è evidentemente
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V. Pallini, Gli incerti confini, cit., 244-245, che non manca di rilevare come la distinzione sia comunque difficile non solo in concreto ma anche sul piano sistematico. Ma ancor prima v. G. Santoro Passarelli, Il lavoro autonomo, il lavoro agile e il telelavoro, in RIDL, 2017, I, 370 ss. nonché Perulli, Il Jobs Act degli autonomi: nuove e vecchie tutele per il lavoro autonomo non imprenditoriali, ibidem, 173 ss.. 76 Secondo A. Perulli, Il lavoro autonomo tra diritto dei contratti e del lavoro, in LD, 2017, 251 ss., spec. 267, il legislatore italiano avrebbe adottato «una prospettiva regolativa al contempo universalistica nelle finalità e civilistica nei contenuti, che allontana definitivamente il lavoro autonomo dal mondo regolativo del diritto del lavoro»; ma per una valutazione negativa sulle tutele introdotte dalla l. n. 81/2017, riempita «di norme in gran parte pletoriche o riassertive di quanto già previsto» v. Bronzini, Economia della condivisione e lavoro autonomo: una prospettiva europea, in Perulli (a cura di), op. cit., spec. 2. Sulla estensione dell’art. 634 c.p.c. si rinvia al contributo di Ficarella, L’estensione dell’art. 634, comma 2, c.p.c. ai «lavoratori autonomi», in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., 307 ss. Per alcune interessanti riflessioni in argomento cfr. G. Santoro Passarelli, Lavoro eterorganizzato e l’interpretazione autentica del lavoro coordinato ex art. 15 d.lgs. n. 81 del 2017, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 433 ss. 77 V. F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 464. 78 Cairoli, Giuseppe Santoro Passarelli, cit., 442.
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corrisposta una parallela evoluzione del diritto del lavoro, incapace di fornire strumenti adeguati, specifici e calibrati a tutte le tipologie di lavoratori, ed ancora eccessivamente vincolato al lavoro subordinato per l’attribuzione di tutele, tendenzialmente negate o limitate rispetto agli outsider». La prima tutela riguarda la lotta ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, da intendersi come «i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo». Sul punto l’art. 2, l. n. 81/2017, estende le disposizioni del d.lgs. n. 231/2002, «in quanto applicabili» e fatte salve «disposizioni più favorevoli» anche ai contratti stipulati tra lavoratori autonomi e imprese o PA, nonché tra gli stessi lavoratori autonomi79. Si cerca così di tutelare il contraente debole dalla deprecabile prassi dei ritardi di pagamento e dalla pattuizione di termini di pagamento spropositati, molto diffusi in ambito commerciale, vietando periodi di pagamento superiori ai trenta giorni80. Termini superiori sarebbero possibili «purché non siano gravemente iniqui per il creditore ai sensi dell’articolo 7»81, con l’avvertenza che la clausola in questione potrebbe essere qualificata come abusiva82 (sulla reiterazione del ritardo di pagamento ex art. 9, comma 3-bis, l. n. 192/1998, v. infra). Una disciplina ad hoc è contenuta nel d.lgs. n. 231/2002 con riferimento agli interessi moratori che decorrono «senza che sia necessaria la costituzione in mora, dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento»83, determinati «nella misura degli interessi legali di mora»84, ovverosia quella stabilita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e pubblicata «nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana nel quinto giorno lavorativo di ciascun semestre solare»85. È possibile concordare un tasso di interesse diverso, sempreché esso non sia gravemente iniquo in danno del creditore, atteso che in tal caso l’art. 7, d.lgs. n. 231/2002, oltre a “riempire di contenuti” il concetto di iniquità, ne prevede anche la nullità. L’eccezione alla regola è costituita dalla prova offerta dal debitore relativa
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Cfr. Di Noia, La tutela “civilistica” del lavoratore autonomo nelle transazioni commerciali, cit., 134 ss.; Mattioni, La tutela del lavoro autonomo nelle transazioni commerciali (art. 2) e le clausole e le condotte abusive (art. 3, commi 1-3), in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 268, parla di «un ambito di applicazione “multilivello”»; F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 464. 80 Art. 4, comma 1, d.lgs. n. 231/2002. Per le eccezioni v. il successivo comma 4. Detto termine ha decorrenze variabili a seconda di varie ipotesi; ed infatti, decorre dalla data «di ricevimento da parte del debitore della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente» o da quella «di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi, quando non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento» o, ancora, «dalla data di ricevimento delle merci o dalla prestazione dei servizi, quando la data in cui il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi» o, infine, «dalla data di accettazione o della verifica eventualmente previste dalla legge o dal contratto ai fini dell’accertamento della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali, qualora il debitore riceva la fattura o la richiesta equivalente di pagamento in epoca non successiva a tale data» 81 Art. 4, comma 3, d.lgs. n. 231/2002. 82 Mattioni, La tutela del lavoro autonomo nelle transazioni commerciali (art. 2) e le clausole e le condotte abusive (art. 3, commi 1-3), in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 278. 83 Art. 4, comma 1, d.lgs. n. 231/2002. 84 Art. 5, comma 1, d.lgs. n. 231/2002. 85 Art. 5, comma 3, d.lgs. n. 231/2002. Per il 1° semestre del 2018 questo tasso è pari allo zero (G.U. 22 gennaio 2018, n. 17).
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alla dimostrazione del ritardo nel pagamento del prezzo «determinato dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile»86. Quanto al risarcimento per le spese di recupero delle somme non corrisposte, il d.lgs. n. 192/2012, di modifica del d.lgs. n. 231/2002, prevede che al creditore spetti, senza che sia necessaria la costituzione in mora, «un importo forfettario di 40 euro a titolo di risarcimento del danno», sempreché egli non fornisca la prova «del maggior danno, che può comprendere i costi di assistenza per il recupero del credito»87. A questo risarcimento si può aggiungere anche quello derivante dalle c.d. prassi inique, cioè «relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori o al risarcimento dei costi di recupero, quando risultano gravemente inique per il creditore»88. Si tratta di una normativa di origine comunitaria (direttiva 2000/35/CE e direttiva di refusione 2011/7/UE), che riduce la libertà contrattuale sui termini di pagamento e prevede meccanismi risarcitori a vantaggio delle imprese creditrici danneggiate. Il dubbio se l’estensione fosse già possibile, in ragione della possibile applicazione del d.lgs. n. 231/2002 ai liberi professionisti89, è stato fugato da chi evidenzia che in sede di recepimento della direttiva n. 35/2000, si fa riferimento esclusivamente ad «ogni soggetto esercente un’attività economica organizzata o una libera professione», accogliendo una lettura più “restrittiva” delle tutele ipotizzate a livello europeo. Ne consegue che la l. n. 81/2017, superando detta impostazione, assume carattere innovativo. La seconda tutela si sostanzia nel divieto di clausole e condotte abusive ex art. 3, commi 1, 2 e 3, l. n. 81/2017. Nello specifico l’art. 3 contempla le clausole abusive al comma 1, mentre al comma 2 descrive una specifica condotta lesiva e cioè il rifiuto di stipulare il contratto in forma scritta. Al primo genere appartengono le clausole che attribuiscono al committente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto. La formulazione della disposizione, comparata con lo schema contrattuale civilistico dell’appalto, ha indotto la dottrina a ritenere che il divieto di ius variandi in questione faccia riferimento a qualsiasi tipo di modifica del contratto, anche sotto il profilo tecnico, necessitando il previo accordo tra le parti, soluzione confermata a fortiori dall’interpretazione combinata dell’art. 6, l. n. 192/1998, in materia di subfornitura. Appartenenti allo stesso genere sono anche le clausole che attribuiscono al committente la facoltà di recedere senza congruo preavviso (per i contratti di durata). Questa ipotesi richiama quella prevista in tema di subfornitura dall’art. 9, comma 2, della interruzione
86
Art. 3, d.lgs. n. 231/2002. Art. 6, comma 2, d.lgs. n. 231/2002. 88 Art. 7-bis, d.lgs. n. 231/2002. 89 Così Perulli, Le tutele civilistiche: il ritardo nei pagamenti; le clausole e condotte abusive (artt. 2 e 3), cit., 31 e, in termini, Id., Il lungo viaggio del lavoro autonomo dal diritto dei contratti al diritto del lavoro, e ritorno, cit., 271; Id., Il Jobs Act degli autonomi: nuove (e vecchie) tutele per il lavoro autonomo non imprenditoriale, cit., 182; Giubboni, Il Jobs act del lavoro autonomo: commento al capo I della legge n. 81/2017, cit., 484; Mattioni, La tutela del lavoro autonomo nelle transazioni commerciali (art. 2) e le clausole e le condotte abusive (art. 3, commi 1-3), cit., 266. 87
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arbitraria delle relazioni commerciali, ponendo il problema di quale rapporto intercorra tra le due disposizioni. Allo stato sono possibili tre letture: secondo la prima si tratterebbe della stessa fattispecie disciplinata autonomamente per i due contratti; la seconda lettura individua nell’art. 3 una norma speciale con un orientamento diverso rispetto all’art. 9, volto più a tutela della concorrenza; secondo la terza lettura si tratterebbe di fattispecie diverse che possono convivere90. Sempre con riferimento all’art. 3, comma 1, si registra un concorso con la previsione di cui all’art. 2227 c.c., in materia di recesso dal contratto d’opera senza preavviso; la differenza tra le due fattispecie è che la disposizione del 2017 costituirebbe una sorta di tutela specifica, affiancata a quella generica sub art. 2227 c.c. il che assicurerebbe una coesistenza pacifica tra i due istituti. Si discute poi se il recesso debba o meno essere motivato, ma il problema sembra essere insussistente nella misura in cui l’art. 3 punisce non il recesso ma l’omissione del preavviso, così legittimando un recesso immotivato ma con preavviso. Stessa appartenenza anche per quelle clausole che attribuiscono al committente la facoltà di determinare modalità di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data del ricevimento della fattura o della richiesta di pagamento. In questo caso si tratta di una tutela che si pone in perfetta continuità con quella prevista dal precedente art. 2, l. n. 81/2017. L’importanza degli effetti che derivano dalla dichiarazione di una clausola come abusiva inducono a sollevare la questione relativa alla tassatività o meno dell’elenco di cui all’art. 3, l. n. 81/2017, deponendo nel primo senso il tenore letterale della disposizione, mentre nel secondo senso va l’art. 33, comma 1, d.lgs. n. 206/2005. A ben guardare, l’operatività della nullità protettiva consente di optare per l’ipotesi della non tassatività dell’elenco. Gli effetti previsti dall’art. 3, l. n. 81/2017 sono di due tipi: l’inefficacia delle clausole, in forza della c.d. nullità protettiva o relativa, la clausola abusiva va considerata nulla, con salvezza della restante parte del contratto, che resta “in piedi”, dando un senso alla volontà del legislatore di riequilibrare i rapporti contrattuali; il diritto al risarcimento del danno a favore del lavoratore autonomo91. Con riferimento al rifiuto di stipulare il contratto in forma scritta, la locuzione va intesa non nel senso della istituzione di un vincolo formale, essendo comunque consentita una contrattazione orale valida ed efficace. Ciò che si punisce è la condotta negativa del committente, che oppone il suo rifiuto alla volontà del lavoratore autonomo di formalizzare il contratto, contrastando le eventuali malevoli intenzioni del committente di recare nocumento contrattuale al lavoratore autonomo. A ben guardare, però, la sinteticità della disposizione, che non indica il contenuto dell’onere formale, limitandosi a prevedere il risarcimento in conseguenza dell’opposizione alla formalizzazione, potrebbe essere foriera di problemi applicativi. Il collegamento tra l’azione negativa del committente ed il danno risarcibile, poi, va correttamente inteso, poiché trattandosi di una sanzione per la semplice condotta omissiva si può ritenere che essa sia irrogabile anche in assenza di effettivo pregiudizio, ricono-
90 91
I. Zoppoli, op. cit., 115; adde F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 468. F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 477.
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scendosi così alla previsione risarcitoria una polifunzionalità (riparatoria, sanzionatoria e deterrente)92. Alle tutele nel contratto è riconducibile quella prevista per gli apporti originali e le invenzioni del lavoratore. L’istituto è disciplinato dall’art. 4, l. n. 81/2017, disposizione caratterizzata da una formulazione normativa di dubbio pregio, prestandosi a due letture contrapposte, in base all’interpretazione del richiamo alla l. n. 633/1941 e al d.lgs. n. 30/2005 come applicazione o meno al lavoro autonomo della disciplina sulle invenzioni dettata dall’art. 64 di quest’ultimo provvedimento per il lavoro subordinato. Secondo la prima interpretazione, l’eventuale applicazione dell’art. 64 citato estenderebbe ai lavoratori autonomi le tutele già previste per i lavoratori subordinati, con l’unica differenza che nei casi di apporti originali e di invenzioni «fatti nell’esecuzione o nell’adempimento del contratto stesso», i relativi diritti di utilizzo economico spettano sempre al lavoratore autonomo e non al committente. Per converso, se il rinvio fosse inteso come applicazione generica della disciplina sulla protezione del diritto d’autore e del codice della proprietà industriale, e non del solo art. 64, si avrebbe una differente regolazione delle invenzioni nel lavoro subordinato ed in quello autonomo, limitando quest’ultima alla sola «invenzione di servizio», ovvero «prevista come oggetto del contratto di lavoro e a tale scopo compensata» e non anche a quelle «d’azienda» o «occasionali», prevedendosi, nei casi in cui l’invenzione si realizzi «nell’esecuzione del contratto», che il diritto di utilizzazione economica competa sempre al lavoratore autonomo. Se si valuta correttamente il profilo teleologico sotteso all’intera l. n. 81/2017, la conclusione più logica cui pervenire è quella che vede la prima ipotesi qualificarsi come condivisibile, in sostanziale continuità con quanto già previsto dall’art. 65, d.lgs. n. 276/2003, ferme restando alcune precisazioni. Infatti, ove l’attività inventiva costituisca l’oggetto della prestazione del lavoratore autonomo, del consulente o del professionista, i diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione nascono direttamente in capo al committente che l’abbia commissionata, giustificandosi tale soluzione in forza del principio secondo cui il committente acquista direttamente l’opera commissionata a titolo originario93. Di conseguenza, nel lavoro autonomo sono riprese analogicamente la ratio e la disciplina del comma 1 dell’art. 64 c.p.i., mentre non trovano alcuna applicazione le fattispecie di cui al secondo e al terzo comma. Dunque, l’art. 4, l. n. 81/2017, pur non avendo contenuto innovativo, non può essere norma inutiliter data, regolando una materia sino ad ora affidata all’autonomia individuale94. Per concludere la disamina delle tutele nel contratto va evidenziata l’assenza nella l. n. 81/2017 di norme sull’equo compenso del lavoratore autonomo, sulla falsariga dell’a-
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V. Mazzanti, Condizioni di contratto e condotte abusive, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., 149; F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 471. 93 Per la giurisprudenza di legittimità v. Cass., sez. pen., 9 maggio 2011, n. 1437; Cass., 30 maggio 1989, n. 2601; Cass., 7 giugno 1982, n. 3439; Cass., 23 ottobre 1979, n. 5527. Nel merito v. Trib Milano, 27 maggio 2014, n. 6964; Trib. Bologna, 29 ottobre 2010 n. 3683; Trib. Vicenza, 21 maggio 2002; App. Bologna, 28 dicembre 1984; Trib. Bologna, 17 settembre 1982. 94 Si condivide la posizione di D’Ascola, Gli apporti originali e le invenzioni del lavoratore autonomo, cit., 313 il quale con riferimento allo Statuto del lavoro autonomo sostiene che «anche se si trattasse di una mera positivizzazione di regole da tempo applicate, la disposizione avrebbe una sua, pur modesta, utilità».
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brogato art. 63 d.lgs. n. 276/2003, reperendosi altrove solo norme sull’equo compenso dei professionisti95, e sul compenso dei lavoratori “occupati con rapporti di lavoro non subordinato” attraverso piattaforme digitali (supra); si allude all’art. 47-bis, comma 3, d.lgs.n.81/2015, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. c), d.l.n.101/2019, che dopo aver enunciato il principio secondo cui il corrispettivo dei riders può essere determinato in base alle consegne effettuate “purché in misura non prevalente”, facultizza (“possono”) i contratti collettivi (senza enunciare alcun criterio selettivo) a “definire schemi retributivi modulari e incentivanti che tengano conto delle modalità di esecuzione della prestazione e dei diversi modelli organizzativi. Il corrispettivo orario è riconosciuto a condizione che, per ciascuna ora lavorativa, il lavoratore accetti almeno una chiamata.”. Mettendo da parte gli svariati problemi applicativi che pone questa norma, più permissiva che non prescrittiva, in attesa della sua conversione in legge e delle eventuali modifiche che potranno intervenire in sede parlamentare, anche per la diversa compagine governativa varata in questi giorni (Governo Conte 2), ma anche in ragione del lungo periodo di vacatio previsto (supra), la maggiore perplessità riguarda il campo di applicazione della stessa, circoscritto “alle attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore…attraverso piattaforme digitali”, non comprendendosi perché identica previsione non sia stata introdotta per gli operatori dei call center out bound e per i promoter pubblicitari che operano nella grande distribuzione, anch’essi utilizzati tramite piattaforme digitali.
5. Le tutele nel mercato. Il secondo tipo di tutele guarda al lavoratore autonomo nel mercato ed è condensato nel comma 4 dell’art. 3, l. n. 81/2017, secondo cui «ai rapporti contrattuali di cui al presente capo si applica, in quanto compatibile, l’art. 9, l. 18 giugno 1998, n. 192 in materia di abuso di dipendenza economica».
5.1. Il significato sistemico dell’estensione al lavoratore autonomo delle
tutele introdotte a favore dell’impresa “economicamente dipendente”.
Delimitato il proprio campo di applicazione, riaffermando l’ontologica separatezza tra lavoro autonomo e impresa (anche piccola), la l. n. 81 riavvicina le due realtà, estendendo al primo alcune tutele introdotte un ventennio prima a favore della seconda in presenza di abuso di “dipendenza economica”, con affinità normative e regolative rinvenibili nell’art.
95
Cataudella, Il corrispettivo del lavoratore autonomo, in Giuseppe Santoro Passarelli. Giurista della contemporaneità. Liber Amicorum, cit., I, 445 ss.; F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 480-485.
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33, d.lgs. n. 206/2005 (Codice del consumo); in tema, si pensi alla sproporzione nella distribuzione dei rischi e dei vantaggi, tipica dei contratti asimmetrici96. La l. n. 81/2017 tende a riportare equilibrio in questo genere di rapporti con un robusto apparato rimediale, e a colmare una evidente lacuna normativa, attingendo all’istituto della gross disparity97 di cui agli artt. 3.2.7 dei Principi Unidroit e 4:109 dei Principles of European Contract Law, che ricorre nel caso in cui un contratto o una sua clausola attribuiscano ad un soggetto un eccessivo vantaggio (es. dipendenza economica di una parte; approfittamento dello stato di bisogno, dell’imperizia o dell’inesperienza del partner debole)98. Prima di analizzare in dettaglio tali tutele, delimitate nella loro operatività dalla clausola di salvaguardia («in quanto compatibili»), v’è da chiedersi quale sia il significato sistemico dell’estensione, deducibile a mio parere già dalla collocazione della norma che la reca; si tratta infatti di una delle disposizioni di apertura del provvedimento attraverso la quale il legislatore ha voluto rimarcare la vicinanza del lavoro autonomo più al mondo delle imprese che non a quello del lavoro dipendente99, e da questo punto di vista poco importa se la disposizione sia orientata solo alla tutela della concorrenza (infra). A tale considerazione se ne aggiunge una ulteriore, e cioè che la l. n. 81/2017 – come giustamente rilevato da Ghera100 – finalmente si occupa del lavoro autonomo in quanto tale e non quale categoria residuale (è autonomo tutto ciò che non è subordinato o parasubordinato). Ciononostante, resta una categoria a rimorchio, destinataria di tutele non originariamente pensate per essa ma derivate e importate dai due mondi vicini tra i quali essa si interpone, e cioè il lavoro subordinato e l’impresa. Ma se dopo decenni di anomia questo è il massimo risultato possibile, evidentemente di più non era lecito aspettarsi o pretendere.
5.2. Le condotte abusive. Alle tutele nel mercato sono riconducibili le condotte abusive tipizzate dal legislatore con l’art. 9, l. n. 192/1998, come modificato dagli artt. 11, l. n. 57/2001 e 10, comma 2, l. n. 180/2011, per la subfornitura101 ma ritenute di carattere generale e quindi applicabili anche ad altri contratti di committenza102. Come correttamente sostenuto103 quest’ultima disposizione è coniugata “al negativo”, nel senso che non detta la nozione di “dipendenza economica” bensì quella di “abuso”,
96
Sul divieto di abuso di dipendenza economica nella l. n. 192/1998, vedi le acute osservazioni di Voza, Interessi collettivi, cit., 189 ss. Perulli, Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, in RIDL, 2015, 109 ss., spec. 119 ss. 98 Su tema da ultimo I. Zoppoli, op. cit., 102, e F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 473. 99 F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 484. 100 V. E. Ghera, Il campo di applicazione della tutela del lavoro autonomo nella l. n. 81/2017, cit., 490-491; dello stesso avviso sembra essere I. Zoppoli, op. cit., 120. 101 In argomento v. Mazzanti, op. cit., 149 ss., nonché Cavallini, op. cit., 287 ss. 102 Sulla scia di Cass., sez. un., 25 ottobre 2011, n. 24906, numerosi sono gli autori che optano per tale estensione; v. Capobianco, L’abuso di dipendenza economica. Oltre la subfornitura, in Concorrenza e Mercato, 2012, 620 ss. 103 Così G. Santoro Passarelli, Trasformazioni socio-economiche e nuove frontiere del diritto del lavoro, in DRI, 2019, 417 ss., spec. 439. 97
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anche se a ben guardare la prima rileva in funzione della seconda, essendo giuridicamente irrilevante una situazione di dipendenza economica in assenza di abuso104, ma anche il contrario105. L’abuso di dipendenza economica vietato e sanzionato ricorre esemplificativamente106 nei seguenti casi: a) se un’impresa è in grado di determinare nei rapporti commerciali con un’altra impresa un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi107; la stretta interazione tra abuso e dipendenza economica, a cui si è fatto riferimento poc’anzi, si coglie perfettamente nell’ultimo capoverso del comma 1 prevedendosi che «la dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti»108 per cui l’impresa o il lavoratore autonomo che abbia reperito una alternativa soddisfacente non è considerato “economicamente dipendente” e quindi non può essere destinatario di alcun abuso. Ancora, l’abuso può anche consistere: b) nel rifiuto di vendere o comprare; c) nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie; d) nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. Se v’è recidiva o reiterazione nei ritardi di pagamento specie nei confronti di una PMI, l’abuso si configura “a prescindere dalla dipendenza economica”. Siffatta previsione ha una importanza sistematica di rilievo, allorquando si trasla la disciplina dell’abuso nell’area del lavoro autonomo, per la sua naturale contiguità con le PMI, traendosi conferma che il lavoro autonomo è ontologicamente economicamente dipendente. La disciplina sostanziale dell’abuso della dipendenza economica si conclude sanzionandosi come nullo «il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica». Combinando tale previsione con quella sub art. 3, comma 1, l. n. 81/2017, che qualifica come «prive di effetto» le clausole abusive, si deduce che la tutela del lavoratore autonomo economicamente dipendente è assistita da inderogabilità assoluta, a ben guardare così realizzando una tutela più forte di quella accordata al lavoratore subordinato dall’art. 2113 c.c., che condiziona l’invalidazione del negozio dismissivo all’impugnazione tempestivamente azionata dal lavoratore.
5.3. L’apparato rimediale in favore del LAED. Nel caso di condotte abusive poste in essere in danno del lavoratore autonomo economicamente dipendente, la l. n. 81/2017, anche per effetto del rinvio all’art. 9, l. n. 192/1998, applicabile in quanto compatibile al lavoratore autonomo, predispone un robusto apparato rimediale che sotto certi aspetti sopravanza persino quello che tutela il
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Voza, Interessi collettivi, cit., 103. I. Zoppoli, op. cit., 103. 106 V. I. Zoppoli, op. cit., 103 e ivi ampi riferimenti dottrinali. 107 V. Mazzanti, op. cit., 149 ss. 108 Maugeri, Abuso di dipendenza economica ed autonomia privata, Giuffrè, 2003, 132 ss., spec. 139; V. Pinto, L’abuso di dipendenza economica «fuori dal contratto» tra diritto civile e diritto antitrust, in RDC, 2000, 389 ss., spec. 399. 105
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lavoratore subordinato. Nell’analisi di tale apparato rimediale convince la tripartizione prospettata da Irene Zoppoli109. Il primo tipo di tutela è quella c.d. invalidante. Ai sensi dell’art. 9, comma 3, l. n. 192/1998, «il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo»; ex art. 3, comma 1, l. 81/2017 sono «prive di effetto» le clausole abusive. Si discute del tipo di nullità, quindi se si tratta di “nullità di protezione” o di “nullità assoluta”110, optandosi per la prima soluzione alla luce della tutela risarcitoria prevista dal comma 3 dell’art. 3 cit. e dal comma 3 dell’art. 9 cit., pur se affiancata in quest’ultimo caso ai provvedimenti inibitori. Quest’ultima considerazione introduce al secondo tipo di tutela, cioè quella risarcitoria, di matrice contrattuale per violazione degli obblighi di protezione oppure degli obblighi di prestazione111. Ulteriori tutele recano i rimedi inibitori, in quanto è possibile attingere all’azione inibitoria in materia di concorrenza sleale ex art. 2599 c.c. (tutela anti trust), oppure a quella di carattere più generale ex art. 700 c.p.c. La prima azione dipende dalla qualificazione della condotta illecita e può comprendere anche obblighi di fare ovvero di risarcimento in forma specifica, quale l’ordine giudiziale di contrarre con l’effetto paradossale che a fronte di un recesso arbitrario da un contratto può esservi un ripristino del rapporto commerciale. Quindi il rinvio che l’art. 3, comma 4, l. n. 81/2017, fa all’art. 9, l. n 192/1998, rappresenta sicuramente il dato più innovativo112.
5.4. Alcune considerazioni sulle tutele accordate dalla l. n. 81 al LAED. Esaurita la disamina delle tutele sul piano negoziale accordate dalla l. n. 81/2017 al lavoratore autonomo economicamente dipendente, è possibile fare alcune considerazioni di carattere generale. La prima riguarda l’effetto di tale intervento del legislatore: se abbia dunque prodotto l’emersione di una nuova fattispecie, appunto il LAED, oppure costituisca la mera presa d’atto di una situazione che storicamente connota il lavoro subordinato, che si è rinvenuta nell’area dell’attività d’impresa per approdare ora in quella del lavoro autonomo. Attingendo, ancora una volta, agli insegnamenti del Maestro, la dipendenza economica costituisce un dato socio-economico, inidoneo a fungere da criterio qualificatorio, estraneo quindi alla causa contrattuale, rilevante solo in funzione di specifiche tutele da accordare al soggetto “economicamente dipendente”113.
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I. Zoppoli, op. cit., 110-119. I. Zoppoli, op. cit., 111 e ivi altri riferimenti bibliografici. 111 I. Zoppoli, op. cit., 113, evidenza la vantaggiosità della configurazione contrattuale sia in termini di regime probatorio sia per il più lungo termine di prescrizione. Di avviso contrario Fabbio, L’abuso di dipendenza economica, Giuffrè, 2006, 502, che opta per la configurazione extracontrattuale in ragione dell’ottica anticoncorrenziale che connota tale disciplina. 112 I. Zoppoli, op. cit., 119. 113 Così E. Ghera, Diritto del lavoro, cit., 65. 110
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La seconda considerazione riguarda la finalità perseguita dall’intervento del 2017, dovendoci interrogare se esso mira alla tutela del contraente ovvero a quella della concorrenza. Se si operasse un’equiparazione totale tra l’impresa economicamente dipendente e il LAED, visti i rinvii che il legislatore ha fatto per il secondo alla disciplina della prima, si potrebbe optare per la tutela della concorrenza. Invero l’art. 3 non è isolabile dall’intero articolato che punta alla tutela del lavoratore autonomo in quanto contraente, anche se – come si è sostenuto a proposito della l. n. 142/2001 sul socio di cooperativa114 – tutelando il lavoratore si tutela la concorrenza115 non dissimilmente da quanto accade anche nell’area della subordinazione. Una riflessione merita, poi, la nozione di dipendenza economica esportata dalla disciplina del rapporto tra imprese in quella del lavoro autonomo. Ampia è la letteratura sulla dipendenza economica e diversificati sono i criteri ai quali si è attinto per la sua misurazione: qualcuno opta per la dipendenza reddituale116, altri per quella organizzativa117, altri ancora parlano di dipendenza tecnica118. In una visione di sintesi, di recente, si è sostenuto che «ai fini dell’applicazione delle tutele previste dalla norma in esame [art. 3, comma 4, l. n. 81/2017], infatti, dovrà compiersi un’analisi in termini strutturali delle caratteristiche dei contenuti e del loro rapporto secondo parametri quantitativi e/o qualitativi»119.
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V. D. Garofalo, Introduzione, in D. Garofalo, Miscione (a cura di), La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, 2002, 3 ss. spec. 8-9. 115 Adesivamente I. Zoppoli, op. cit., 109. 116 Pallini, Gli incerti confini dell’ambito di applicazione dello Statuto del lavoro autonomo, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 229 ss. 117 V. sempre Pallini, op. cit., nonché Cavallini, op. cit., 285. 118 Barba, Studi sull’abuso di dipendenza economica, Cedam, 2018, 167. 119 I. Zoppoli, op. cit., 105 e ivi ampi riferimenti in tema di dipendenza economica.
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L’inoppugnabilità delle rinunzie e delle transazioni ai sensi dell’art. 2113, comma 4 c.c.: gli orientamenti giurisprudenziali e i dissensi della dottrina Sommario : 1. Introduzione: delimitazione del campo d’indagine. – 2. La conciliazione in sede sindacale: profili descritti del quadro normativo e i limiti impliciti derivanti dall’art. 39 Cost. – 3. I recenti orientamenti della giurisprudenza in materia di conciliazione sindacale. In particolare, sul requisito dell’effettiva assistenza del rappresentante sindacale. – 4. La conciliazione in sede sindacale tra procedura e sostanza. – 5. La recente pronuncia del Tribunale di Roma. – 6. Brevi considerazioni conclusive.
Sinossi. Il seguente contributo ha lo scopo di tracciare, attraverso l’analisi giurisprudenziale, le caratteristiche salienti della conciliazione in sede sindacale. Inoltre, verranno illustrate le procedure conciliative adottate da alcuni sistemi contrattuali e i riflessi applicativi, nonché la possibilità di esperire la conciliazione in sede sindacale qualora il contratto collettivo nulla disponga in merito. Infine, lo studio dedica un ampio spazio alla recente pronuncia del Tribunale di Roma in materia, analizzandone i punti di forza e le criticità sul piano interpretativo. Lo studio si conclude con alcune considerazioni sull’attuale quadro normativo. Abstract. The contribution analyzes, through jurisprudential guidelines, main features of conciliation in trade unions. Furthermore, the conciliation procedures laid down in some contractual systems and the application implications will be illustrated, as well as the possibility of conciliation in trade unions if the collective agreement doesn’t provide anything in this regard. Finally, the study deepens the recent sentence of Rome’s Court on the subject, analyzing its critical points of interpretation. The study concludes with some considerations on the current regulatory framework. Parole
chiave:
Conciliazione – Sindacato – Inoppugnabilità – Art. 2113 c.c. – Contratto collettivo
Giovanni Piglialarmi
1. Introduzione: delimitazione del campo d’indagine. Affrontare il tema delle rinunzie e delle transazioni significa, in un certo senso, impegnarsi nell’indagine di molteplici problematiche, a partire dal “cosa” e dal “come” negoziare la dismissione di determinati diritti. Tuttavia, per non incorrere in un’analisi parziale e incompleta, sembra corretto e utile delimitare l’oggetto del presente studio, circostanziando l’ambito che si intende approfondire al solo art. 2113, comma 4, c.c. laddove è previsto che il regime di impugnazione previsto dai commi precedenti non trova applicazione per le conciliazioni intervenute «ai sensi degli articoli 185, 410 e 411, 412-ter e 412 quater del codice di procedura civile». Più precisamente, obiettivo dello studio è quello di fotografare lo stato attuale del dibattito dottrinale e giurisprudenziale attorno al tema della conciliazione in sede sindacale. L’ultimo comma dell’art. 2113 c.c., in sostanza, sottrae le rinunzie e le transazioni sottoscritte in sede sindacale al regime dell’impugnazione previsto al precedente comma 2. Al ricorrere di determinati presupposti, infatti, qualora il lavoratore dismetta attraverso la sottoscrizione di un verbale di conciliazione i propri diritti, non potrà avere più nulla a pretendere nei confronti dell’altra parte del rapporto. Trattasi della c.d. inoppugnabilità. È un tema quello della conciliazione sindacale delicato e ampiamente esplorato dalla giurisprudenza, che nel tempo ne ha istituito dei veri e propri elementi costitutivi a causa dello scarno quadro normativo che presidia la materia. In questa prospettiva, saranno dapprima analizzate le disposizioni di legge che interessano la conciliazione sindacale, tendando di intravedere le ragioni di una così bassa intensità regolativa (par. 2); l’analisi, poi, proseguirà tracciando un quadro descrittivo degli orientamenti giurisprudenziali che hanno affrontato il tema della conciliazione sindacale (par. 3 e 4) in raccordo con la dottrina, per giungere a definire quelli che oggi sono i principi che governano la materia e gli eventuali dubbi che ancora permangono (par. 5).
2.
La conciliazione in sede sindacale: profili descritti del quadro normativo e i limiti impliciti derivanti dall’art. 39 Cost. La crisi della giustizia del lavoro, all’interno della più generale crisi della giustizia civile, è stato sempre un tema che ha attirato l’attenzione del legislatore; infatti, nelle più importanti riforme che hanno interessato la regolazione del mercato del lavoro, ricorrenti sono le disposizioni che introducono i c.d. strumenti deflattivi del contenzioso, nel tentativo di ridurre il numero dei processi. In questa prospettiva evolutiva, il percorso della giustizia del lavoro si è avvicinata molto a quella degli scambi commerciali, dove la giustizia negoziata è molto diffusa1. Dall’introduzione del processo del lavoro, avvenuta nel 1973, ad
1
Cfr. Napoli, Conciliazione e arbitrato: una via alternativa al processo del lavoro, in Vita e Pensiero, 2002, n. 3, 272 e ss.
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oggi, gli strumenti di cui può avvalersi il prestatore di lavoro sono innumerevoli e sarebbe oltremodo dispendioso, nell’economia di questo studio, poterli elencare tutti. Per questa ragione, ci limiteremo a rintracciare primariamente le norme che trattano di uno tra i tanti rimedi extra-processuali, e cioè la conciliazione in sede sindacale. Le norme in cui figura una esigua disciplina della conciliazione sindacale sono contenute nel codice di procedura civile e precisamente all’art. 411, comma 3, c.p.c. laddove è previsto che «se il tentativo di conciliazione si è svolto in sede sindacale» ad esso non si applicano le disposizioni di cui all’art. 410, ossia il procedimento di conciliazione davanti alla commissione dell’Ispettorato territoriale del lavoro. Tuttavia, la norma prosegue prevedendo che «il processo verbale di avvenuta conciliazione è depositato presso la Direzione provinciale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale. Il direttore, o un suo delegato, accertatane l’autenticità, provvede a depositarlo nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto». Peraltro, va anche ricordato, per mera completezza, che fino al 2010, questo procedimento, se intrapreso in pendenza di una lite giudiziaria, era sottoposto ad un termine (sessanta giorni) fissato dall’art. 410-bis c.p.c., poi abrogato con l’entrata in vigore del c.d. Collegato Lavoro (art. 31 della legge n. 183/2010)2. Come si può notare, dalla norma non emerge in modo esplicito quale procedura debba seguire la conciliazione in sede sindacale, tant’è che si fa riferimento solo alla “sede”, al “processo verbale” e alla funzione di accertamento della sua “autenticità”. Tuttavia, vi sono altre disposizioni che indirizzano i sindacati a dotarsi di una propria organizzazione. Mentre l’art. 410 c.p.c., ai fini della conciliazione presso l’Ispettorato territoriale del lavoro, detta delle regole volte a governare un determinato procedimento, applicando a questo anche i criteri di competenza di cui all’art. 413 c.p.c., per la conciliazione sindacale il legislatore si è limitato prima a rinviare «alle forme previste dai contratti e accordi collettivi»3 e successivamente, alle «sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative»4. Dunque, nel rispetto dell’art. 39, comma 1 Cost., il legislatore non ha vincolato il sindacato a delle forme prestabilite ma ha indirizzato le parti sociali a valorizzare la contrattazione collettiva quale fonte normativa anche per disciplinare le attività di conciliazione5. E non avrebbe potuto fare altrimenti stante la mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. Infatti, questa disposizione si limita a sancire la libertà di “organizzazione” per la realizzazione dell’autotutela degli
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3 4 5
Fino al 2010, il tentativo di conciliazione era condizione di procedibilità, come stabilito dall’art. 412-bis c.p.c., poi abrogato anch’esso dall’art. 31 della legge n. 183/2010. Questa formula era contenuta nell’art. 410-bis c.p.c., poi abrogato dalla legge n. 183/2010. Questa formula è contenuta nell’art. 412-ter c.p.c. introdotto dalla legge n. 183/2010. Sul punto v. Cass., 3 aprile 2002, n. 4730, secondo cui il codice di procedura civile non regolamenta «la composizione dell’organo di conciliazione sindacale, in quanto, per il principio di libertà dell’organizzazione ed attività sindacale, mentre il soggetto chiamato a partecipare all’attività conciliativa per conto delle organizzazioni sindacali è individuato in via autonoma dagli ordinamenti delle singole associazioni (per quel che riguarda la propria struttura interna), le modalità di composizione dell’organo conciliativo sono rimesse alla contrattazione collettiva (e, quindi, alla sede pattizia)».
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interessi collettivi; non si cura quindi della “forma” ma della “sostanza”6. L’organizzazione è, allora, sindacale in funzione dell’attività che svolge7 e non della veste giuridica che assume ai fini organizzativi. Conseguentemente, in piena linea con il principio della libertà sindacale, il legislatore ha rimesso alle organizzazioni sindacali una scelta autonoma di organizzazione delle procedure, dei soggetti e dei luoghi per la conciliazione8. È nella dinamica delle relazioni industriali, quindi, che vanno rintracciati gli elementi organizzativi per descrivere le principali caratteristiche della conciliazione sindacale. A tal proposito, ciò che va rilevato è la costante tendenza dell’ordinamento intersindacale a portare all’esterno dell’impresa tali procedure9. La spiegazione potrebbe risiedere nell’intenzione del sindacato di valorizzare la sua funzione di tutela senza condizionamenti, anche materiali, che potrebbero influenzare l’esito della conciliazione. A conferma di quanto appena detto, vi è il non trascurabile elemento di fatto che a seguire le procedure di conciliazione in sede sindacale sono nella maggior parte dei casi rappresentanti di strutture sindacali esterne all’impresa, seppur collegate sul piano politico alle rappresentanze sindacali operanti in azienda. In altri termini, è raro il caso in cui sia un rappresentante sindacale aziendale a svolgere la conciliazione in quanto questo indirizza il lavoratore sempre verso l’apparato sindacale territoriale esterno all’impresa, dotato di una rete di conciliatori esperti. Un esempio di procedura governato dalla contrattazione collettiva è quello relativo al settore del terziario e del turismo. Infatti, i verbali di conciliazione sottoscritti dalle aziende che applicano il CCNL per i dipendenti del settore del terziario, della distribuzione e servizi e il CCNL per i dipendenti del settore turismo hanno validità esclusivamente se siglati nelle sedi sindacali indicate dai contratti (e cioè le commissioni di conciliazione presso l’EBITER e l’EBTPE) e con le procedure definite dai contratti collettivi stessi. Si tratta di un procedimento che, oltre a trovare nella contrattazione collettiva il riferimento normativo
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Cfr. Prosperetti, La posizione professionale del lavoratore subordinato, ed. Giuffrè, 1958, 149, secondo cui il sindacato non è tale nella forma quanto negli obiettivi che persegue e negli strumenti scelti per ottenerli, avendo come scopo la tutela dell’interesse professionale mediante l’azione collettiva degli interessati nei confronti dell’altra parte del rapporto di lavoro: il datore di lavoro. V. anche Bellocchi, Libertà e pluralismo sindacale, ed. Cedam, Padova, 1998, 17 e spec. 20 sostiene che «quella sindacale è fondamentalmente attività qualificata dal fine cui essa si dirige, e quindi (prima ancora che dal risultato realizzato) dallo scopo perseguito: l’autotutela degli interessi di lavoro». V. anche Pera, Libertà sindacale (diritto vigente), in Enc. dir., 1974, vol. XXIV, 512; Pedrazzoli, Qualificazioni dell’autonomia collettiva e procedimento applicativo del giudice, in LD, 1990, 355 e ss.; Dell’Olio, L’organizzazione e l’azione sindacale in generale, in Dell’olio, Branca, L’organizzazione e l’azione sindacale, ed. Cedam, 1980, 13, secondo cui «non potendo l’organizzazione dirsi “libera”, anzi esistente come tale, se non quando lo sia nella sua azione esterna, che ne realizza il ciclo vitale, la norma che tale la dichiara non può non investire anche quest’ultima». Su questi aspetti, più di recente, v. Gabriele, I diritti sindacali in azienda, ed. Giappichelli, 2017, spec. cfr. cap. I; Tomassetti, Il lavoro autonomo tra legge e contrattazione collettiva, in VTDL, 2018, n. 3, spec. 730-731. V. anche Centamore, Contratti collettivi o diritto del lavoro «pirata»?, in VTDL, 2018, n. 2, spec. 483. Flammia, Contributo all’analisi dei sindacati di fatto. Autotutela degli interessi di lavoro, ed. Giuffrè, 1963; Mancini, Lo Statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, in PD, 1970, 192 e 193 che definisce il sindacato come «una species formale dell’ampio genus “autotutela degli interessi di lavoro”». In questo senso, v. A. Pessi, La conciliazione sindacale tra il rigore formalistico e la libertà della volontà assistita, in LG, 2004, n. 1, p. 59 e ss.; Ferrari, La conciliazione in sede sindacale, in GM, 1984, n. 1, 523 e ss. Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, 1990, ed. Giuffrè, 91, che rileva come nelle prime esperienze applicative nelle zone lombarde vi era la propensione a spostare il contenzioso sindacale fuori dall’azienda e quindi ad affidare ad organismi sindacali esterni il compito di amministrare le procedure conciliative.
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per la sua esplicazione, si svolge all’esterno dell’impresa, in chiara linea con quelle che sono sempre state le politiche sindacali in merito. Non mancano, tuttavia, accordi collettivi che, invece, si limitano ad inserire clausole più generiche, come ad esempio avviene nel CCNL per i dipendenti dell’industria metalmeccanica10. Un ulteriore requisito concernente le caratteristiche organizzative della conciliazione in sede sindacale individuato dal legislatore afferisce al grado di rappresentatività dell’organizzazione. Una questione annosa e per diversi anni dibattuta tanto in dottrina quanto in giurisprudenza e che ora sembra trovare un punto di svolta nell’intesa attuativa sottoscritta dall’Inps, dall’Inl, da Confindustria e dalle organizzazioni sindacali confederali Cgil, Cisl e Uil il 19 settembre 2019 ai fini dell’attuazione dei meccanismi di misurazione della rappresentatività stabiliti dal Testo Unico della Rappresentanza del 10 gennaio 2014. Tuttavia, nel rispetto che si deve all’oggetto dell’indagine, non è possibile dilungarsi sulla questione ma ci limitiamo ad osservare che attualmente i criteri previsti dal Testo Unico ai fini della misurazione della rappresentatività potranno spiegare effetti solo nei confronti delle organizzazioni sindacali che all’accordo abbiano aderito. Conseguentemente, per le organizzazioni che siano rimaste fuori dal perimetro dell’intesa, dovrebbero continuare a trovare applicazione i criteri che sovente la giurisprudenza e la prassi amministrativa hanno individuato: numero di iscritti, l’effettivo svolgimento di azione sindacale e di contrattazione, una apprezzabile presenza dell’organizzazione sindacale nei diversi settori produttivi e sul territorio11. Inoltre, la formula adottata dall’art. 412-ter c.p.c. è quella della “maggiore rappresentatività” e non della “maggiore rappresentatività comparata”. Il che lascerebbe spazi per argomentare circa la necessità dell’organizzazione sindacale di non rivestire un grado di rappresentatività assoluto ma apprezzabile, sufficiente a rendere affidabile il sindacato che si fa carico di tutelare gli interessi del lavoratore12. Sennonché, rileggendo questa disposizione nell’attuale assetto delle fonti che presidiano la regolazione del mercato del lavoro, non può essere trascurato il fatto che il legislatore abbia fatto un ampio uso del criterio selettivo della maggiore rappresentatività comparata, in quanto la nozione di maggiore rappresentatività non era più funzionale agli scopi che l’ordinamento statale voleva raggiungere e cioè porre un freno al dilagante fenomeno della contrattazione pirata. La mancata stabilizzazione sul piano interpretativo (e giudiziale) dei criteri13, infatti, aveva condotto la
10
Cfr. art. 7, Sez. IV, Titolo VII del CCNL per l’industria metalmeccanica. Ex multis, Cass., 1 marzo 1986, n. 1320; Cass., 10 luglio 1991, n. 7622; Cass., 22 agosto 1991, n. 9027; Cass., 27 aprile 1992, n. 5017. 12 Come osservato dalla Corte Costituzionale, la nozione di “maggiore rappresentatività” va solitamente declinata secondo una accezione inclusiva, in quanto “tale criterio non si riferisce ad una comparazione fra le varie confederazioni nazionali, sebbene ad una ‘effettività’ – che può essere sempre conseguita da ogni confederazione sindacale – della loro forza rappresentativa” (così Corte Cost., 6 marzo 1974, n. 54). Diversamente, il criterio della “maggiore rappresentatività comparata” impone una selezione delle associazioni sindacali, sulla base di una valutazione comparativa della effettiva capacità di rappresentanza di ciascuna di esse. E ciò al fine di commisurare il godimento di determinate prerogative alla effettiva capacità rappresentativa delle organizzazioni soggette al giudizio comparativo (così TAR Lazio, Sez. I, 8 febbraio 2018, n. 1522; Cons. St., Sez. IV, 22 gennaio 2019, n. 537). 13 I criteri ai quali la giurisprudenza ha fatto ricorso, tendenzialmente, sono rappresentati dalla consistenza del numero di iscritti, l’effettivo svolgimento di azione sindacale e di contrattazione, una apprezzabile presenza dell’organizzazione sindacale nei diversi settori produttivi e sul territorio. Sul punto, v. Cass., 10 luglio 1991, n. 7622; Cass., 22 agosto 1991, n. 9027; Cass., 27 aprile 1992, n. 11
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giurisprudenza di merito a riconoscere tale requisito anche a quei soggetti sindacali di più recente costituzione14, consentendo a questi ultimi di recepire nei propri contratti i rinvii che il legislatore, di fatto, disponeva nei confronti delle tre confederazioni storiche. Così, difronte alla crisi conclamata del sindacato “maggiormente rappresentativo” ed in assenza di un criterio efficiente in grado di governare il fenomeno, che poteva comportare ingenti danni anche all’equilibrio del sistema previdenziale15, il legislatore ha deciso di fare ricorso al criterio della comparazione, passando da una rappresentatività presunta ad una rappresentatività verificata16, derivante dalla prevalenza di un sistema contrattuale sull’altro in base al confronto degli indici dettati nel tempo dalla giurisprudenza17. In questa prospettiva, considerato che nell’attuale quadro normativo il rapporto tra legge e contratto collettivo è governato quasi esclusivamente dal criterio della rappresentatività comparata, bisogna concludere che l’ordinamento esprime un certo favor nei confronti di questa tecnica di tutela18. Pertanto, si potrebbe ritenere che laddove la legge faccia riferimento anche al sindacato maggiormente rappresentativo, questo debba essere inteso quale quello comparativamente più rappresentativo19.
5017. Tuttavia, non sono mancate pronunce che, in assenza di una norma di legge, hanno valutato anche altri indici tra i quali la presenza dell’organizzazione sindacale all’audizione presso le commissioni parlamentari. Ma la dottrina sul punto ha reagito con fondate critiche; Greco, La rappresentatività sindacale, ed. Giappichelli, 1996, 173, ha osservato che la possibilità di valutare la consultazione del sindacato da parte degli organismi e commissioni parlamentari come criterio qualitativo ai fini dell’accertamento della rappresentatività a carattere nazionale finirebbe per dare importanza ad «un indice cui non va attribuito soverchio credito. Tali consultazioni, infatti, avvengono di norma senza una preventiva e accurata indagine sulla rappresentatività degli interlocutori», finendo così per avvantaggiarsene le sole «organizzazioni collegate ad un partito politico». Inoltre, De Marco, La rappresentanza sindacale in organi collegiali della pubblica amministrazione tra criterio della maggiore rappresentatività e principio pluralistico, in DL, 1988, 3-4, 231 e ss., nella valorizzazione degli indici qualitativi, ha paventato il rischio di avvalorare una deriva che autorizzi il giudice ad utilizzare indici caratterizzati da «evidente labilità e discrezionalità». Sulla medesima problematica, sia consentito il rinvio anche a Piglialarmi, Costituzione della RSA e legittimazione ex art. 28l. n. 300 del 1970 tra fratture e ricomposizioni del sistema, in ADL, 2019, n. 2, 176-187. 14 Silvagna, Il sindacato comparativamente più rappresentativo, in DRI, 1999, n. 2, 212. 15 Agli inizi degli anni Novanta, il rischio era concreto in quanto con la tendenza a riconoscere la qualità della “maggiore rappresentatività” ad organizzazioni di più recente costituzione, si sarebbe finto per individuare la retribuzione ai fini imponibili anche prendendo a riferimento contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali di dubbia legittimità e negozianti salari al di sotto della media praticata di circa il 30%. Cfr. Liso, Autonomia collettiva e occupazione, in Atti del 12° Congresso nazionale di diritto del lavoro, Milano, 23-25 maggio 1997, ed. Giuffrè, 1998, 69-72. 16 Ferraro, L’efficacia soggettiva del contratto collettivo, in QFMB, Saggi, 2011, n. 2, 10. 17 Luciani, Santagata, Legittimazione dei soggetti sindacali ed efficacia del contratto collettivo, in Santucci, Zoppoli (a cura di), Contratto collettivo e disciplina dei rapporti di lavoro, ed. Giappichelli, 2004, 84 e ss.; Silvagna, Il sindacato comparativamente più rappresentativo, op. cit., 211. 18 Santoro, Il principio di “meritevolezza dei benefici normativi e contributivi” ed i sindacati comparativamente più rappresentativi, in DRI, 2015, n. 3, 859. 19 Anche il Ministero del Lavoro, con l’interpello n. 24 marzo 2015, n. 8 ha adottato questa interpretazione, seppure con riferimento agli incentivi occupazionali. Il Ministero osserva che, con specifico riferimento al settore agricolo, i benefici riconosciuti dal d.lgs. n. 375/1993 sono subordinati all’applicazione di generici ed inqualificati «contratti collettivi nazionali di categoria, ovvero dei contratti collettivi territoriali ivi previsti». Sennonché, con l’entrata in vigore della legge n. 296/2006, il legislatore adotta una nuova tecnica normativa per individuare la contrattazione collettiva idonea a svolgere funzioni integrative. L’art. 1, comma 1175, infatti, in virtù del suo rilevante obiettivo di contrasto alle forme non rappresentative di autonomia, non può essere ignorato, in particolare nel settore delle agevolazioni alle imprese. In questo contesto, la disposizione prevista dalla legge n. 296/2006 che individua quali contratti collettivi applicare, ossia di quelli «stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale […] appare di assoluto rilievo dal momento che introduce nell’ordinamento il principio secondo cui solo i datori di lavoro che garantiscono quelle tutele minime previste dalla contrattazione collettiva in questione sono “meritevoli” di godere di benefici “normativi e contributivi”».
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L’inoppugnabilità delle rinunzie e delle transazioni ai sensi dell’art. 2113, comma 4, c.c.
Sotto il profilo, invece, dei presupposti e di come la conciliazione sindacale debba in concreto articolarsi per raggiungere gli scopi prefissati dalle norme inderogabili di legge (e dunque la validità della stessa e la sua inoppugnabilità ai sensi dell’art. 2113, comma, c.c.) va riconosciuto alla giurisprudenza un ruolo di “supplenza” in quanto si è fatta carico di un’intensa attività interpretativa, sia pure caratterizzata da alcuni dissensi 20.
3.
I recenti orientamenti della giurisprudenza in materia di conciliazione sindacale. In particolare, sul requisito dell’effettiva assistenza del rappresentante sindacale. Lasciando alle organizzazioni sindacali la libertà di “organizzare” la procedura per la conciliazione, la giurisprudenza ha comunque svolto un ruolo “correttivo” di quella libertà espressione dell’art. 39, comma 1, Cost., tracciando così un percorso interpretativo coerente con la funzione della tutela sindacale (riequilibrare il potere contrattuale tra datore di lavoro e lavoratore in attuazione del principio generale di uguaglianza sostanziale previsto dall’art. 3, comma 2, Cost.)21 tale da risultare nei fatti vincolante ai fini dell’inoppugnabilità della conciliazione. Il principale contributo offerto dal diritto vivente è stato quello di tracciare le caratteristiche che deve avere l’assistenza sindacale nell’ambito della conciliazione di cui qui si tratta. Infatti, tanto la giurisprudenza di merito che di legittimità hanno sempre affermato che «le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi […] non sono impugnabili, a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali […] sia stata effettiva», intendendosi per tale quella che pone «il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura», nonché «l’oggetto della lite (in atto o potenziale) e le reciproche concessioni in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’art. 1965 cod. civ.»22. Sempre in materia di effettiva assistenza fornita dal sindacalista, la Suprema Corte ne ha provato a dare diverse definizioni nel tempo, nel tentativo di dare risalto alla ratio della funzione che la norma a questi assegna. Così essa è stata definita anche come «funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa» allo scopo di «ripristinare una […] reale parità [del lavoratore] con l’impresa, a tutela del suo consapevole consenso»23; o, ancora, quale garanzia di sostanziale libertà della manifestazione di volontà offerta dalle condizioni di stipula24 e quindi di tutela rispetto ad una possibile «coartazione della libera volontà del lavoratore»25.
20
Pessi, La conciliazione sindacale tra il rigore formalistico e la libertà della volontà assistita, op. cit., 59-60. Tomassetti, Il lavoro autonomo tra legge e contrattazione collettiva, op. cit., 731. 22 Ex multis, Cass., 23 ottobre 2013, n. 24024; nel merito, Trib. Roma, 13 novembre 2018, n. 8640. 23 Così Cass., 13 novembre 1997, n. 11248. 24 Cfr. Cass., 11 dicembre 1999, n. 13910. 25 Cass., 26 gennaio 1995, n. 908. 21
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Non sono mancate pronunce di merito che hanno provato a declinare in concreto il concetto di effettività dell’assistenza sindacale. Infatti, l’assistenza, per ritenersi tale, «non può limitarsi ad una mera presenza» del sindacalista nel luogo ove si tiene la conciliazione «ma deve concretizzarsi in una qualche forma di assistenza effettiva che possa sottrarre il lavoratore al metus nei confronti del datore di lavoro» Infatti, «prestare assistenza al lavoratore nell’espletamento della conciliazione non significa infatti limitarsi a sottoporgli una soluzione già definita chiedendogli di accettare o meno, bensì significa assisterlo nella scelta ponendolo in condizione di sapere a quale diritto rinuncia ed in quale misura, con quali vantaggi e rispetti a quali concessioni»26. A dare maggior rigore al criterio dell’effettività dell’assistenza sindacale, la giurisprudenza ha anche talvolta preteso che i rappresentanti dell’organizzazione sindacale devono essere indicati dal lavoratore27 o comunque provenire dalla propria organizzazione sindacale, cioè «quella alla quale egli ha ritenuto di affidarsi»28. Tuttavia, non sono mancate interpretazioni in dottrina, che hanno provato a mitigare questo principio giurisprudenziale. Infatti, sulla base di quell’orientamento giurisprudenziale che in ogni caso ha riconosciuto al giudice il compito di «accertare, sulla base di tutte le circostanze che caratterizzano il caso concreto e anche di quelle estrinseche all’accordo, precedenti o concomitanti alla sua conclusione, se la volontà di transigere del lavoratore sia, o no, genuina», vi è chi ha concluso per ritenere l’effettività dell’assistenza apportata dal sindacalista un requisito non necessario della fattispecie conciliativa di cui all’art. 2113, comma 4, c.c., tutte le volte in cui dall’accertamento dei fatti non emerga una posizione di debolezza e di soggezione del lavoratore29. Conseguentemente, in questi casi «la funzione di supporto assegnata al sindacato può ritenersi assolta anche ove la partecipazione sia stata meno intensa o, al limite, del tutto formale»30. Infine, sembrerebbe costante l’indirizzo della giurisprudenza nel negare la validità della conciliazione in sede sindacale ai fini dell’art. 2113, comma 4, c.c. qualora questa sia avvenuta non con l’assistenza di un rappresentante dell’organizzazione ma con quella dei propri avvocati. Le Corte di Cassazione, infatti, ha escluso che le due figure possano ritenersi equipollenti31. A parere della dottrina, invece, questa dovrebbe essere comunque consentita in quanto il lavoratore è assistito da un legale esperto della materia e ad esso
26
Così Cass., 22 maggio 2008, n. 13217. V. sempre Cass., 22 maggio 2008, n. 13217. 28 Cass., 3 settembre 2003, n. 12858. Nello stesso senso, v. Cass., 3 aprile 2002, n. 4730; Cass., 11 dicembre 1999, n. 13910. 29 A. Pessi, La conciliazione sindacale tra il rigore formalistico e la libertà della volontà assistita, op. cit., 61-62. 30 A. Pessi, La conciliazione sindacale tra il rigore formalistico e la libertà della volontà assistita, op. cit., 62. L’Autrice matura questa riflessione in un contesto fattuale del tutto peculiare. Infatti, dai fatti posti alla base della sentenza n. 4730 del 3 aprile 2002, la Corte di Cassazione osservava che, ai fini della validità della conciliazione, «fu lo stesso lavoratore a proporre i termini della definizione giuridica ed economica della sua posizione, la loro ratifica con una conciliazione sindacale, indicandone le modalità relative». Da qui sembra potersi trarre la conclusione che, secondo la Suprema Corte, l’effettività dell’assistenza prestata dal «proprio sindacalista» non è requisito indefettibile della fattispecie conciliativa, ma mero indice valutativo, potendo essere liberamente apprezzata dal giudice di merito, anche in virtù di circostanze di fatto ulteriori, la circostanza che la conciliazione sia espressione della libera volontà del lavoratore. 31 Cfr. Cass., 23 ottobre 2013, n. 24024. 27
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legato da un rapporto fiduciario32. Questa opzione dovrebbe essere oggi potenzialmente consentita se si ha riguardo al fatto che ad esempio, in materia di jus variandi, l’art. 3 del d.lgs. n. 81/2015 che modifica l’art. 2103 c.c. prevede che nelle sedi previste dall’art. 2113 c.c. il lavoratore possa farsi assistere, oltreché dal rappresentante dell’associazione sindacale, anche «da un avvocato o da un consulente del lavoro»33. Quindi, sarebbe anche possibile sostenere che vi sarebbe una divisione netta tra la sede individuata dal contratto collettivo e il mandato fiduciario per farsi rappresentare nella negoziazione; aspetti non necessariamente coincidenti. Non è detto, quindi, in base a questa lettura, che l’assistente del lavoratore debba essere obbligatoriamente appartenente all’organizzazione sindacale che sottoscrive il contratto collettivo. Tuttavia, la mancata equiparazione tra le due figure si spiega se si valuta che scopo del legislatore è forse quello di alleviare i costi derivanti da una procedura volta ad evitare la lite giudiziale, nella quale invece l’assistenza tecnica del legale è imposta dalla legge (e spesso onerosa)34. Inoltre, non riconoscere un ruolo esclusivo all’organizzazione sindacale nella conciliazione, avrebbe significato svilire una delle funzioni principali di cui questo si alimenta, sia sul piano politico, sia sul piano associativo. Infine, ulteriore aspetto critico passato al vaglio della giurisprudenza è stato quello di valutare la legittimità della conciliazione raggiunta altrove e ratificata innanzi alle commissioni di cui all’art. 2113 con il solo scopo di ottenerne l’inoppugnabilità. Sebbene parte della dottrina si sia sempre espressa contraria a questa procedura35, un orientamento giurisprudenziale ne ha ammesso la fattibilità36. Tuttavia, sul punto non è mancata l’opinione di chi ne ha riconosciuto la fattibilità ma solo in relazione a questioni giurisprudenziali già note e dibattute, che potrebbero portare ad esiti incerti il contenzioso. A ben vedere, però, anche chi ha sostenuto questa tesi, ha sempre ribadito che in ogni caso il rappresentante sindacale si dovesse fare carico di valutare nel complesso che la soluzione sia equa in favore del lavoratore37. Ma di queste valutazioni nei verbali, come dimostra la prassi, spesso non v’è traccia. Al contrario, essi sono spesso «prefabbricati», «del tutto muti o evasivi» sul procedimento logico-giuridico che le parti hanno seguito per il raggiungimento della conciliazione38. Per ovviare a queste pratiche, si è sostenuto che in realtà il verbale dovrebbe essere redatto
32
Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, op.cit., 79. Il riconoscimento del potere di assistenza a queste figure professionali è previsto anche in relazione alla presentazione delle dimissioni. Infatti, l’art. 26, comma 4 del d.lgs. n. 151/2015 prevede che la trasmissione dei moduli che raccolgono le volontà del lavoratore di dimettersi dal rapporto di lavoro può avvenire «anche per il tramite […] dei consulenti del lavoro». 34 Il legislatore aveva ideato un nuovo spazio operativo per il legale attraverso l’istituzione della negoziazione assistita in materia di lavoro, prevista d.l. n. 132/2014. A seguito della mancata conversione in legge, questo provvedimento ha avuto vita breve. Nelle more della conversione, si discuteva anche di estendere la competenza ai consulenti del lavoro a seguire le parti nella negoziazione assistita, per ampliare le sedi e i riferimenti nel mondo delle professioni ai fini della dismissione dei diritti; sul punto v. Ferraresi, L’incidenza della deontologia e dell’ordinamento forensi sulla transazione e la conciliazione in materia di lavoro, in DRI, 2016, n. 4, 1052 e ss. 35 Petino, Inoppugnabilità della conciliazione stragiudiziale e attività dei conciliatori, in MGL, 1987, 584 e ss. 36 In questo senso, v. Cass., 25 gennaio 1992, n. 827; Cass., 20 febbraio 1988, n. 1804; Cass., 13 maggio 1987, n. 4408. 37 Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, cit., 81. 38 Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, op.cit., 85. 33
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durante la seduta di conciliazione, nel quale devono essere riportate anche le osservazioni del mediatore e di chi vi presta assistenza alle parti. La precostituzione del documento, invece, è mirata anche ad evitare di versare maggiori somme agli enti pubblici interessati. Infatti, non è rara la casistica che vede erogate somme ad un titolo che non corrisponde al concreto oggetto della lite solo per evitare l’imposizione fiscale e contributiva39, sulla base di un tacito accordo delle parti40.
4. La conciliazione in sede sindacale tra procedura e sostanza.
La questione che ha spesso visto impegnati tanto la dottrina quanto la giurisprudenza riguarda la possibilità di considerare valida una conciliazione che, sebbene si sia svolta secondo le modalità e le condizioni tracciate dal diritto vivente (cfr. par. 3), non si sia altrettanto espletata sul piano procedurale secondo le modalità stabilite dalla contrattazione collettiva. Secondo parte della dottrina, la procedura stabilita dalla contrattazione collettiva è da ritenersi vincolante in quanto da questa ne deriva la garanzia della serietà e della genuinità della conciliazione41, mentre altre interpretazioni hanno ritenuto che tale aspetto sia del tutto irrilevante qualora nella sostanza la conciliazione sia stata spiegata con una concreta assistenza da parte del sindacato42. La questione è stata posta più volte anche all’attenzione del Ministero del Lavoro che, analizzando di recente un caso concreto, ha dato indicazioni rigorose ai propri uffici periferici in relazione all’attività di accertamento della conformità delle conciliazioni sindacali al quadro normativo di riferimento43. Secondo il Ministero del Lavoro, nella ratio del codice di procedura civile vi sarebbe un collegamento implicito tra l’art. 411, comma 3, c.p.c. e la precedente formulazione dell’art. 410 c.p.c. laddove il primo fa riferimento alla conciliazione in sede sindacale, mentre il secondo faceva riferimento anche alle conciliazioni avvenute «secondo le procedure previste da contratti o accordi collettivi». Sennonché, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 183/2010, l’art. 410 c.p.c. è stato completamente riscritto e l’attuale formulazione non contempla il riferimento alla contrattazione collettiva. Da questa modifica, a detta di alcune organizzazioni sindacali, ne sarebbe derivata la possibilità per le parti di conciliare in sede sindacale pur senza rispettare le procedure previste dalla contrattazione collettiva44, in quanto unico riferimento
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Ghezzi, Romagnoli, Il rapporto di lavoro, II edizione, ed. Zanichelli, 1987, 373. Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, op.cit., 85. 41 Stolfa, Conciliazione nel diritto del lavoro, in Digesto (voce), ed. IV, ed. Utet, vol. III, Torino, 1988; Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, op.cit., 94. 42 Perone, La conciliazione delle controversie di lavoro ed il ruolo del giudice in Italia, in Riv. dir. int. comp. del lavoro, 1978, 101 e ss. 43 Cfr. Nota del Ministero del Lavoro 16 marzo 2016, prot. n. 37/5199. 44 Questa è la tesi sostenuta dall’USI (Unione Sindacale Italiana) di Foggia, nel tentativo di provare che i verbali depositati presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro fossero legittimi, nonostante quanto raccomandato dalla circolare del Ministero del Lavoro n. 1138/G/77 del 17 marzo 1975. 40
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normativo rimasto a presidio della materia sarebbe stato l’art. 411, comma 3 c.p.c. Conseguentemente, la funzione dell’Ispettorato si sarebbe limitata ad accertare la sola autenticità del verbale sottoscritto ai fini del deposito. Tuttavia, il Ministero del Lavoro ha respinto questa ricostruzione non abbandonando l’indirizzo operato fornito già nella circolare n. 1138/G/77 del 17 marzo 1975 sebbene relativa al quadro normativo previgente, poiché l’art. 411, comma 3 c.p.c. – a seguito della modifica dell’art. 410 c.p.c. – trova un nuovo supporto nel dettato dell’art. 412-ter c.p.c. secondo cui «la conciliazione e l’arbitrato, nelle materie di cui all’articolo 409, possono essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative». Pertanto, il Ministero ritiene che a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 183 del 2010, «il collegamento fra il momento del deposito e quello di una verifica del rispetto delle procedure di fonte contrattual-collettiva, che la circolare del 1975 ricostruiva in via interpretativa, mantiene la sua validità anche in relazione all’attuale contesto ordinamentale, nel quale è stato espunto dall’art. 410 c.p.c. il richiamo esplicito alle “procedure di contratto o accordo collettivo”, risultando anzi tale collegamento, nel mutato contesto, maggiormente incisivo nel riferimento dell’art. 412-ter c.p.c. a sedi e modalità “previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”». In sostanza, parafrasando le conclusioni del Decastero, la modifica dell’art. 410 c.p.c. non ha fatto venire meno l’obbligo, in caso di conciliazioni in sede sindacale, di rispettare le procedure e le modalità previste dalla contrattazione collettiva in quanto quest’obbligo è traslato da una norma all’altra (l’art. 412-ter c.p.c.). E tale collegamento, secondo il Ministero, è rafforzato dal richiamo di questa norma, dalla struttura molto più incisiva, da parte dell’art. 2113, comma 4, c.c. che rinvia alle procedure, ove previste, prescritte dai contratti collettivi per garantire una maggiore “istituzionalizzazione” delle stesse, dato il notevole effetto che ne deriva, ovvero l’inoppugnabilità. Da ciò ne consegue che l’Ispettorato non può limitarsi a svolgere una mera funzione notarile ricevendo il verbale dalle parti ai fini del deposito. Deve invece espletare le opportune verifiche ai fini dell’accertamento del rispetto della procedura imposta dalla contrattazione collettiva laddove prevista e che l’organizzazione sindacale rivesta il necessario grado di rappresentatività richiesto dalla norma (cfr. par. 2). Sotto questo profilo, quella che svolge l’Ispettorato è una funzione “filtro” data la difficoltà dell’ordinamento giuridico italiano a contenere la proliferazione di soggetti sindacali di dubbia rappresentatività45. Come riporta la nota ministeriale n. 37/5199 del 16 marzo 2016, l’Ispettore può chiedere alle parti sindacali in fase di deposito di apporre sul verbale una dichiarazione che attesti il rispetto delle procedure previste dalla contrattazione collettiva, con la finalità così di consentire all’organo di vigilanza di fare i dovuti accertamenti. L’accertamento circa il rispetto delle procedure prescritte dall’autonomia collettiva è imposto all’Ispettorato anche dall’art. 7, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 124/2004 laddove prevede che l’attività di vigilanza si concentra anche «sulla corretta applicazione dei con-
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Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, cit., 94 e 98.
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tratti e accordi collettivi di lavoro»46. In questa fase, l’applicazione del contratto collettivo al rapporto di lavoro può essere desunta da diversi elementi, che vanno dalle comunicazioni obbligatorie al Centro per l’impiego47 ai fini dell’assunzione all’analisi della busta paga48. È però opportuno, tuttavia, precisare che, a parere della giurisprudenza, l’adempimento dell’obbligo di deposito del verbale non costituisce condizione di validità del verbale di conciliazione49, né l’avvenuto deposito è idoneo a sanare eventuali vizi dei quali sia affetto l’accordo conciliativo. In conclusione, sembrerebbe che il quadro normativo porti ad escludere che «ai fini della piena validità dell’atto dispositivo posto in essere dal lavoratore» in sede sindacale ai sensi dell’art. 2113, comma 4 cod. civ. «sia sufficiente l’assistenza di un rappresentante sindacale al quale il lavoratore abbia conferito mandato. In quest’ultima ipotesi, laddove non siano rispettate le procedure previste dai contratti collettivi individuati dall’art. 412-ter c.p.c., il verbale sarebbe dunque impugnabile ai sensi dei commi 2 e 3 dell’art. 2113 cod. civ.»50. E sarebbe questa l’interpretazione accolta dalla recente giurisprudenza di merito.
5. La recente pronuncia del Tribunale di Roma. Di recente, il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 4354 emessa l’8 maggio 2019 51, si è pronunciato proprio sulla portata applicativa dell’art. 412-ter c.p.c. La controversia è stata promossa da una lavoratrice che ha contestato principalmente la validità del verbale di conciliazione con la quale aveva rinunciato ad alcune rivendicazioni economiche relative al rapporto di lavoro e alla promozione di qualsiasi azione giudiziaria per l’accertamento dei diritti connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa. In particolare, la ricorrente eccepiva che il datore di lavoro l’aveva convocata presso la sala riunioni dell’azienda e, alla presenza di un consulente del lavoro e di un sindacalista, l’aveva invitata a sottoscrivere un documento intestato «verbale di conciliazione in sede sindacale» ricordandole che «la firma dello stesso era condizione per proseguire il rapporto» e che «in mancanza sarebbe finito in seduta stante».
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Questa disposizione non è di certo una novità nell’ordinamento italiano; infatti, con all’art. 4, comma 1, lett. b) della legge n. 628 del 1961, il legislatore aveva già affidato all’ispettorato del lavoro anche il compito di «vigilare sull’esecuzione dei contratti collettivi di lavoro». Per approfondimento, v. Santoro, La contrattazione collettiva nel diritto sanzionatorio del lavoro, ed. Adapt University Press, 2018. 47 Novella, Effettività del diritto alla retribuzione e attività di vigilanza, in RGL, 2019, n. 2, pp. 288-303, spec. 297. 48 Santoro, La contrattazione collettiva nel diritto sanzionatorio del lavoro, op. cit., 94. 49 Cfr. Cass., 23 aprile 1998, n. 4205. 50 Alvino, Conciliazione [dir. lav.], in Enciclopedia Treccani, www.treccani.it, 2016, par. 5.2. L’Autore sostiene tuttavia che l’art. 412-ter c.p.c. «non esclude ovviamente il diritto del lavoratore di farsi assistere nella sede conciliativa costituita secondo le regole previste dal contratto collettivo dal rappresentante sindacale al quale scelga di conferire il mandato, qualunque sia il sindacato di appartenenza di quest’ultimo. E dunque anche se il sindacato in questione non sia, in ipotesi, firmatario del contratto collettivo che disciplina la procedura conciliativa. In tal caso, l’assistenza sarà prestata dal sindacalista al lavoratore, ma nell’ambito della procedura prevista dal contratto collettivo applicato al rapporto». 51 V. pubblicata in Bollettino Adapt 17 giugno 2019, n. 23.
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In altre parole, la lavoratrice si era sentita costretta a sottoscrivere il documento per salvaguardare il proprio impiego. Il datore di lavoro, costituitosi in giudizio, prima di spiegare le proprie difese nel merito delle questioni sollevate, chiedeva di dichiarare l’inammissibilità del ricorso per intervenuta rinuncia all’esercizio del diritto a seguito della sottoscrizione, da parte della lavoratrice, del verbale di conciliazione. L’organo giudicante, nell’affrontare la questione preliminare, rileva che la conciliazione stragiudiziale può svolgersi facoltativamente o in sede amministrativa ai sensi dell’art. 410 c.p.c. (e precisamente davanti alle apposite commissioni dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro o dinanzi alle commissioni di certificazione di cui all’art. 76 del d.lgs. n. 276/2003) o in sede sindacale, ai sensi dell’art. 412-ter c.p.c. La conciliazione oggetto di contestazione da parte della ricorrente non si sarebbe svolta “in sede sindacale”, come eccepito invece dal datore di lavoro, in quanto la riunione era stata svolta presso i locali aziendali e pur essendo presente il sindacalista, quest’ultimo non avrebbe offerto una tutela difensiva adeguata come emerso dall’istruttoria, essendosi limitato «a presenziare, a dare lettura del verbale […] e a spiegare con la firma non sarebbe più stato possibile svolgere successive contestazioni», senza però illustrare «la portata della decisione di aderire alla conciliazione sul piano dei costi/benefici, limitandosi ad affermare l’irrevocabilità della scelta». In altri termini, essendo le rinunce particolarmente gravose, dall’istruttoria è emerso che il sindacalista non conosceva la vicenda lavorativa personale della ricorrente tale da consentirle l’esercizio di un consapevole consenso alla sottoscrizione. Il giudice, quindi, rivalutando il dato letterale dell’art. 412-ter c.p.c., ha ritenuto che per dare piena validità al verbale di conciliazione ai sensi dell’art. 2113, comma 4, c. c. e sottrarlo al termine dell’impugnativa di sei mesi previsto dal comma 2 del medesimo articolo, è necessario che dette conciliazioni debbano avvenire «con le modalità procedurali previste dai contratti collettivi e in particolare da quelli sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative». In questa prospettiva, a fronte del fatto che la contrattazione collettiva disciplini in modo organico la procedura di conciliazione, individuandone le modalità di esercizio ed anche le sedi entro le quali formalizzare la negoziazione, il giudice ha ritenuto che questa debba trovare piena applicazione in quanto la legge depone un espresso rinvio, di carattere eccezionale, all’autonomia collettiva. Di conseguenza, solo se la conciliazione in sede sindacale si realizza attraverso le norme del contratto collettivo potrà beneficiare del regime di inoppugnabilità di cui all’art. 2113 c.c., ultimo comma. A questa pronuncia ha mosso, di recente, critica M. Persiani per una serie di ragioni. Anzitutto, se l’interpretazione della norma consente di ritenere che qualora manchi una disposizione nel contratto collettivo che regolamenti la procedura di conciliazione in sede sindacale, questa debba ritenersi nulla, non sarebbe stato necessario espletare l’istruttoria volta a provare che non vi era stata l’effettiva assistenza del sindacalista. Sostiene M. Persiani sul punto che «tenendo conto del principio di economia dei giudizi» sarebbe bastata
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«una decisione in diritto», cioè una sentenza che riconoscesse il mancato rispetto delle procedure prescritte dalla contrattazione collettiva ai fini dell’inoppugnabilità52. Per altro verso, se dall’istruttoria era risultata la mancanza di un’effettiva assistenza sindacale, non sarebbe stato necessario richiamare il disposto dell’art. 412-ter c.p.c. in quanto la conciliazione sarebbe stata nulla per la mancanza dell’effettiva assistenza del rappresentante sindacale quale elemento costitutivo principale secondo il diritto vivente (cfr. par. 3). Insomma, secondo M. Persiani, la pronuncia celerebbe un’insanabile contraddizione argomentativa. Non solo. Per certi versi, infatti, secondo M. Persiani risulterebbe anche dubbia l’interpretazione dell’art. 412-ter c.p.c. fornita dal Tribunale di Roma in quanto dalla sentenza sembrerebbe emergere il principio di diritto in base al quale l’inoppugnabilità della conciliazione in sede sindacale si può ottenere solo se il contratto collettivo disciplina un’apposita procedura. Tuttavia, «l’abilitazione – osserva M. Persiani – [della contrattazione collettiva] a stabilire quelle modalità non significa che la validità delle conciliazioni sindacali è condizionata al fatto che sia state formalmente previste dalla contrattazione collettiva»53. In altri termini, la previsione nel contratto collettivo di una apposita procedura non è costitutiva del diritto ad ottenere l’inoppugnabilità ai sensi dell’art. 2113, comma 4 c.c. Infatti, obiettivo della norma sarebbe quello di verificare la tutela adeguata apportata al lavoratore. Garanzie che se non previste dal contratto collettivo, quale «punto di ponderata convergenza e composizione dei contrapposti interessi delle parti»54, possono essere comunque apprestate in base alla prassi adottate in concreto dalle organizzazioni sindacali55 o, tutt’al più, seguendo procedure previste da contratti affini. Sostanzialmente, contrariamente a quanto di recente sostenuto56, se il contratto collettivo applicato al rapporto non prescrive sedi e procedure ai fini della conciliazione ma rispetta una prassi interna volta a garantire un’effettiva assistenza al lavoratore, la conciliazione potrà beneficiare del regime di inoppugnabilità previsto dall’art. 2113, comma 4, c.c. E non si potrebbe giungere a conclusione diversa, salvo il caso in cui non venga modificata la norma57. Infatti, laddove l’art. 412-ter c.p.c. prevede che «la conciliazione e l’arbitrato, nelle materie di cui all’articolo 409, possono essere svolti altresì» secondo le
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Persiani, I limiti previsti dalla legge per la validità delle conciliazioni sindacali, in GI, 2019, n. 7, 1064 e ss. Persiani, I limiti previsti dalla legge per la validità delle conciliazioni sindacali, in GI, 2019, op. cit., 1066. 54 Così Trib. Roma, 8 maggio 2019, n. 4354, in Bollettino Adapt 17 giugno 2019, n. 23. 55 Spesso le conciliazioni in sede sindacale vengono gestite dalle organizzazioni sindacali attraverso l’istituzione di appositi uffici presso le segreterie territoriali. E l’indicazione dell’ufficio quale “sede sindacale” non è indicata dal contratto collettivo ma viene rispettato come tale perché è nella prassi che si è consolidata quella determinata procedura. 56 Oltre a Alvino, Conciliazione [dir. lav.], op. cit., anche Pelusi, Requisiti di validità delle conciliazioni in sede sindacale. Commento a Trib. Roma n. 4354/2019, in Bollettino della Commissione di certificazione dell’università di Modena e Reggio Emilia, 2019, n. 2, 4 sembrerebbe essere concorde con la pronuncia capitolina laddove afferma che «ogni verbale di conciliazione sottoscritto senza rispettare le sedi e le procedure previste dal CCNL applicato sfuggirà quindi al regime di inoppugnabilità e lo stesso avverrà anche nel caso in cui il contratto collettivo applicato in azienda non disciplini tali sedi e procedure per la conciliazione in sede sindacale». 57 Persiani, I limiti previsti dalla legge per la validità delle conciliazioni sindacali, op. cit., 1066, infatti ritiene che l’interpretazione fornita dal Tribunale di Roma sarebbe stata coerente se l’art. 412-ter c.p.c. avesse previsto che «le conciliazioni sindacali devono essere previste dai contratti collettivi stipulati da associazioni maggiormente rappresentative» oppure «i contratti collettivi stipulati da associazioni maggiormente rappresentative prevedono le conciliazioni sindacali stabilendone le sedi e le modalità». 53
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modalità stabilite dalla contrattazione, indica una possibilità, un’opzione alternativa, ma non certamente l’unica modalità nella quale la conciliazione in sede sindacale si esplica. Peraltro, se l’organizzazione sindacale è libera, come recita il primo comma dell’art. 39 Cost., lo è anche nella misura in cui può organizzare nel modo che ritiene più opportuno la procedura della conciliazione, anche (ma non solo) attraverso il contratto collettivo.
6. Brevi considerazioni conclusive. All’esito di questa indagine, che ha cercato di fare luce sulle posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza sui diversi aspetti riguardanti la conciliazione in sede sindacale, un dato che potremmo definire comune a qualsiasi argomentazione è incarnato dall’inevitabile partecipazione attiva al processo di conciliazione del rappresentante sindacale. Questo intervento deve mirare non a cerca una posizione di lite ma una conciliazione della controversia caratterizzata dalla sussistenza di una res dubia (e cioè una apprezzabile incertezza circa il rapporto giuridico sorto tra le parti in relazione ad una specifica materia), e nella dialettica tra contrapposte pretese e reciproche concessioni, questi deve tendere a conseguire il maggior vantaggio per il lavoratore nel rispetto della norma inderogabile di legge, purché queste abbiano una minima fondatezza tanto in fatto che in diritto58. È in questa prospettiva che l’assistenza del sindacalista riesce ad evitare che la sottoscrizione del verbale di conciliazione avvenga solo perché il lavoratore è «moralmente o economicamente costretto»59. Tuttavia, se questa assistenza effettiva dovesse mancare, si apre un percorso processuale – qualora il verbale di conciliazione venga impugnato – abbastanza gravoso per il lavoratore. Infatti, la recente giurisprudenza sembrerebbe essere orientata a non ritenere applicabile il regime ordinario dell’impugnazione previsto dall’art. 2113 c.c. ma, trattandosi di volontà, l’orientamento prevalente ritiene che l’azione esperibile è quella di annullamento per vizio del consenso prevista dall’art. 1441 c.c. poiché la funzione dell’assistenza sindacale è funzionale a far maturare nel lavoratore il giusto grado di consapevolezza60. È in questa prospettiva che allora (forse) potrebbero essere comprese interpretazioni di tipo restrittivo come quella fornita dal Tribunale di Roma, in quanto qualora il lavoratore ricorrente dovesse fallire sul piano probatorio circa la sussistenza dell’(in)effettiva assistenza fornita dal rappresentante sindacale, ben potrebbe argomentare in subordine il mancato rispetto previsto dalla contrattazione collettiva. Attraverso l’accertamento di un vizio procedurale, dunque, si potrebbe recuperare ciò che non è stato dimostrato sul piano sostanziale. Tuttavia, per mera completezza, pare opportuno ricordare che sebbene
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Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, op.cit., 77. D. Garofalo, La transazione in sede sindacale: i limiti sostanziali e processuali alla impugnabilità, in LG, 2014, n. 5, p. 475 e ss. V. anche Cosattini, Rinunzie e transazioni, in Miscione (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: garanzie del reddito, estinzione e tutela dei diritti, in F. Carinci (diretto da) Diritto del lavoro. Commentario, vol. III, 2007, 708 e ss. 60 In questo senso, v. Cass., 23 ottobre 2013, n. 24024. 59
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il contratto collettivo abbia ampliato la sua funzione, tanto da regolare non solo in modo preordinato i singoli rapporti di lavoro ma anche il loro divenire nell’esperienza, con l’obiettivo di garantire la più ampia tutela non solo nel momento genetico ma anche in quello patologico61, per potersi avvalere delle procedure da esso previste ai fini conciliativi queste vanno invocate dalla parte interessata; come è onere della parte interessata invocarne il mancato rispetto nella proposizione della domanda giudiziale e quindi allegarne anche la fonte di natura pattizia, pena il riconoscimento di una conciliazione in sede sindacale ritualmente costituita62.
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In questo senso, v. Pera, Sulla disponibilità sindacale dei diritti individuali, in RIDL, 1986, I, pp. 927-940, ora in Scritti di Giuseppe Pera, vol. II, ed. Giuffrè, 2007, 1603-1616. 62 Cfr. Cass., 3 aprile 2002, n. 4730 che sul punto osserva quanto segue: «in manca di specifica indicazione circa il corretto modello applicabile, deve, pertanto, ritenersi che il soggetto chiamato a svolgere l’attività conciliativa fosse realmente costituito». Sulle medesime posizioni, cfr. Cass., 3 settembre 2003, n. 12858.
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza C orte costituzionale , sentenza 28 febbraio 2019, n. 29 – Pres. Lattanzi – Est. Sciarra – Telecom Italia s.p.a. (Romei) c. A.F. (Bolognesi, Orlandi). Lavoro (rapporto di) – Trasferimento d’azienda illegittimo – Mancata ricostituzione del rapporto da parte del cedente – Natura retributiva del credito – Illegittimità costituzionale – Insussistenza.
Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c., sì come interpretato dalla sopravvenuta decisione delle Sezioni unite della Cassazione 7.2.2018, n. 2990, che, nel caso di accertata illegittimità del trasferimento di azienda, ha riconosciuto natura retributiva al credito maturato dal lavoratore non riammesso in servizio dal cedente messo in mora. Ritenuto in fatto – 1.- Con ordinanza depositata il 5 ottobre 2017 e iscritta al n. 13 del registro ordinanze 2018, la Corte d’appello di Roma, sezione lavoro, ha sollevato «questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c.», in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 1.1.- In punto di fatto, la Corte rimettente espone di dovere decidere sull’appello proposto da Telecom Italia spa contro la sentenza del Tribunale di Roma, che ha riconosciuto anche in capo alla società appellante l’obbligo di pagare le retribuzioni, pur già corrisposte dalla società cessionaria, subentrata in virtù di un atto di cessione di ramo di azienda dichiarato illegittimo. Il giudice a quo assume che l’accertamento dell’illegittimità del trasferimento del ramo di azienda, oramai passato in giudicato, determini la ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro alle dipendenze della società appellante e conferisca ai lavoratori il diritto di reclamare la retribuzione sia nei confronti della società cedente sia nei confronti della società cessionaria, che benefici della prestazione lavorativa in base all’art. 2126 del codice civile. L’obbligazione della società cedente, risarcitoria per il tempo che intercorre tra il trasferimento del ramo di azienda e la pronuncia che ne accerti l’illegittimità o l’inopponibilità, presenterebbe per contro natura retributiva per il periodo successivo a tale pronuncia. Non sarebbe risolutivo, in senso contrario, il fatto che il datore di lavoro non abbia ricevuto la prestazione lavorativa, in quanto tale circostanza sarebbe imputabile in via esclusiva al suo ingiustificato rifiuto. Non sarebbe decisiva neppure l’espressa qualificazione in termini risarcitori dell’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo anche per il periodo successivo alla pronuncia di reintegra. Tale qualifica-
zione, sancita dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), non soltanto sarebbe innovativa rispetto alla disciplina previgente, che qualificava in termini retributivi l’obbligazione del datore di lavoro per il periodo successivo alla sentenza di reintegra, ma sarebbe speciale e derogatoria. Il rimettente ricorda che, anche per il periodo successivo all’accertamento dell’illegittima apposizione del termine, il lavoratore ha diritto alle retribuzioni relative al rapporto di lavoro ricostituito ope iudicis, anche quando il datore di lavoro rifiuti di ricevere la prestazione lavorativa. Se il datore di lavoro che ha rifiutato arbitrariamente la prestazione offerta dal lavoratore ceduto non fosse obbligato a pagare la retribuzione, potrebbe rimanere «inottemperante ad libitum». In contrasto con l’art. 24 Cost., sarebbe così vanificata l’utilità dell’azione di accertamento della nullità o dell’inefficacia o dell’inopponibilità della cessione. La natura retributiva dell’obbligazione del datore di lavoro non consentirebbe neppure di invocare la compensatio lucri cum damno, quando sia già stata pronunciata la sentenza che ha accertato l’illegittimità della cessione del ramo di azienda e il datore di lavoro persista nell’inosservanza dell’ordine giudiziale di riammissione. 1.2.- Il rimettente osserva che l’orientamento oramai consolidato della giurisprudenza della Corte di cassazione nega al lavoratore ceduto, che non sia stato riammesso dopo l’accertamento definitivo dell’illegittimità della cessione e che sia stato già retribuito dal cessionario, il diritto di percepire la retribuzione da parte del cedente. Tale orientamento, che potrebbe indurre il cedente a «impedire sine die ai lavoratori ceduti di tornare alle sue dipendenze», frustrerebbe l’interesse ad agire del lavoratore ceduto e non sarebbe coerente né con la
Giurisprudenza
«natura retributiva del diritto del dipendente successivamente alla sentenza di merito», affermata dalla Corte di cassazione per le ipotesi di illegittima apposizione del termine, né con la struttura necessariamente trilaterale della cessione del contratto. Sarebbe indispensabile l’accordo di tutti gli interessati per perfezionare il negozio di cessione e il cedente non potrebbe essere liberato dall’obbligo retributivo, in mancanza del consenso del lavoratore ceduto. Il giudice a quo ribadisce che, in virtù del principio di corrispettività delle prestazioni, l’obbligo retributivo viene meno nel periodo che intercorre tra la cessione del ramo di azienda e la sentenza di merito che ne accerta l’inefficacia. Tuttavia, dopo l’accertamento del giudice, sarebbe ripristinata la lex contractus, che obbliga il lavoratore a riprendere a lavorare presso il cedente e il cedente a pagare la retribuzione. Secondo il rimettente, il datore di lavoro che persista nel rifiutare la prestazione del lavoratore, nonostante l’intimazione di riceverla (art. 1217 cod. civ.) racchiusa in un atto stragiudiziale anteriore o nel «ricorso introduttivo del giudizio volto alla declaratoria di inefficacia (o inopponibilità) del trasferimento di ramo d’azienda», è comunque tenuto, secondo la disciplina della mora credendi, a pagare la retribuzione (art. 1206 cod. civ.) e a risarcire i danni patiti dal lavoratore (art. 1207 cod. civ.). Il diritto vivente, per il periodo successivo alla sentenza di merito che abbia dichiarato nullo, inefficace o inopponibile il trasferimento del ramo di azienda, riconoscerebbe una responsabilità meramente risarcitoria del datore di lavoro moroso. La disciplina della mora del creditore, nell’interpretazione accreditata dal diritto vivente, contrasterebbe con l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe un’ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina di tutti i rapporti contrattuali diversi da quelli di lavoro subordinato e alla disciplina della nullità dell’apposizione del termine, per il periodo successivo alla sentenza. In entrambe le ipotesi, evocate come termine di raffronto, il creditore moroso sarebbe comunque obbligato a eseguire la propria prestazione e non solo a risarcire i danni arrecati dalla mora. La disciplina in esame sarebbe lesiva anche dell’effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), in quanto consentirebbe al datore di lavoro di «sottrarsi ad libitum alla sentenza (anche passata in giudicato) con cui sia stata dichiarata la nullità o l’inefficacia o l’inopponibilità del trasferimento di ramo d’azienda nei confronti del lavoratore». Sarebbe violata anche la garanzia costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), inscindibilmente connessa con l’effettività della tutela. Il giudice a quo denuncia il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, sul presupposto che un processo possa dirsi equo soltanto quando «consenta di ottenere la tutela specifica (ove
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giuridicamente possibile) e comunque più idonea a conseguire la concreta utilità che l’ordinamento riconosce sul piano del diritto sostanziale». 1.3.- Il rimettente reputa rilevanti le questioni di legittimità costituzionale, in quanto l’accertamento della conformità a Costituzione del diritto vivente condurrebbe all’accoglimento dell’appello proposto da Telecom Italia spa. 2.- Con atto depositato il 23 febbraio 2018, si è costituita Telecom Italia spa e ha chiesto di dichiarare inammissibile o, in subordine, infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’appello di Roma. In punto di ammissibilità, Telecom Italia spa evidenzia che la Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza 7 febbraio 2018, n. 2990, «si è posta in consapevole contrasto con i principi sino ad oggi contenuti nelle sentenze delle Sezioni Semplici» e che, pertanto, non può più essere considerato come diritto vivente l’indirizzo richiamato dalla Corte d’appello di Roma. In tale prospettiva, il mutamento dell’interpretazione delle disposizioni censurate «travolge la questione che è stata sollevata». L’inammissibilità della questione proposta si coglierebbe anche da un diverso punto di vista. Il rimettente lamenterebbe la mancanza di un rimedio equiparabile all’astreinte del diritto francese e demanderebbe al giudice delle leggi il compito di colmare questa lacuna, compito che, tuttavia, travalicherebbe i limiti del sindacato di costituzionalità. Il giudice a quo, inoltre, avrebbe potuto discostarsi dall’orientamento delle sezioni semplici della Corte di cassazione e interpretare le disposizioni censurate in maniera conforme a Costituzione, anche senza investire la Corte costituzionale della soluzione del dubbio di costituzionalità. Nel merito, la questione non sarebbe fondata. In punto di fatto, Telecom Italia spa deduce di avere riammesso tutti i lavoratori all’esito del passaggio in giudicato delle sentenze che hanno accertato l’illegittimità della cessione del ramo di azienda. Telecom Italia spa argomenta che i lavoratori non possono reclamare dalla società cedente la retribuzione, «inscindibilmente legata allo svolgimento di una prestazione di lavoro», e puntualizza che la prestazione è stata resa a favore della società cessionaria ed è stata dalla società cessionaria retribuita. Spetterebbe soltanto il risarcimento del danno, individuato nella differenza tra l’importo che i lavoratori avrebbero percepito continuando a lavorare alle dipendenze della società cedente e quello che hanno effettivamente già conseguito dalla società cessionaria. Il rimettente non dimostrerebbe che, secondo l’ordinaria disciplina civilistica, il creditore in mora sia obbligato all’esecuzione della prestazione. Peraltro, la nullità dell’apposizione del termine, evocata in chiave comparativa, presenterebbe tratti
Maria Luisa Vallauri
distintivi peculiari. Nella fattispecie della nullità della cessione del ramo di azienda, il lavoratore presterebbe nei confronti del cessionario «la stessa identica attività che avrebbe dovuto prestare» a favore della società cedente. Il giudice a quo muove dalla premessa che, «in funzione dissuasiva della mancata esecuzione dell’ordine giudiziale», il lavoratore ceduto abbia diritto a percepire due retribuzioni, anche quando ha continuato a svolgere la propria attività presso il cessionario. La soluzione auspicata dal rimettente, tuttavia, implicherebbe per il lavoratore «l’ingiusto vantaggio di una doppia retribuzione». Telecom Italia spa reputa infondate anche le censure di violazione dei princìpi del giusto processo (artt. 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU) e di effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.). L’orientamento censurato dal rimettente consentirebbe al lavoratore di ottenere una esaustiva tutela risarcitoria in relazione a tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, derivanti dalla mancata riammissione. Non verrebbe meno l’interesse ad agire del lavoratore per sentire dichiarare l’illegittimità o l’inefficacia della cessione, al fine di chiedere il risarcimento del danno e di ottenere una «elevata tutela», che corrisponde all’intera retribuzione, se il cessionario ha estromesso i lavoratori, o alla differenza tra quanto avrebbe percepito lavorando presso il cedente e quanto ha ottenuto in concreto dal cessionario. 3.- Con atto depositato il 27 febbraio 2018, si è costituito A.F., chiedendo di dichiarare costituzionalmente illegittimi gli artt. 1206, 1207, 1217 cod. civ., «in relazione agli art[t]. 3, 4, 24, 35, 111 Cost. e 117 Cost. (per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U.)», se interpretati nel senso di ritenere inapplicabile la disciplina della mora credendi «in favore dei dipendenti del cedente in un trasferimento di ramo d’azienda per il periodo successivo alla sentenza di merito che l’abbia dichiarato nullo, inefficace o inopponibile, persistendo solo un obbligo risarcitorio da inadempimento (art. 1218 c.c.)» oppure nel senso di limitare il contenuto precettivo di tale disciplina «al solo obbligo risarcitorio», sia per il periodo anteriore che per il periodo successivo «alla sentenza di merito che abbia dichiarato nullo, inefficace o inopponibile il trasferimento medesimo». La parte, nel richiamare i princìpi enunciati da questa Corte nella sentenza n. 303 del 2011, argomenta che, a decorrere dall’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro, il datore di lavoro è obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli in ogni caso le retribuzioni dovute, anche nell’ipotesi di mancata riammissione effettiva. Tali princìpi sarebbero stati ribaditi dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza n. 2990 del 2018. Per il periodo successivo alla declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera, sul datore
di lavoro che, pur messo in mora, rifiuti di ricevere la prestazione continuerebbe a gravare l’obbligazione retributiva. Non potrebbe dunque trovare applicazione la disciplina derogatoria dettata dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), che qualifica in termini risarcitori l’obbligazione del datore di lavoro derivante dal licenziamento illegittimo. In difetto di una disciplina di diverso tenore, si dovrebbe dunque applicare nella sua interezza la disciplina generale della mora del creditore, che equipara a ogni effetto una prestazione illegittimamente rifiutata a una prestazione effettivamente resa. La tutela risarcitoria, anche in base al disposto dell’art. 1453 cod. civ., si affiancherebbe alla tutela specifica, senza poterla sostituire. In contrasto con tali principi, l’orientamento censurato dalla Corte d’appello di Roma interpreterebbe in senso riduttivo, soltanto per i rapporti di lavoro, la disciplina generale della mora del creditore e precluderebbe al lavoratore la facoltà di agire per l’adempimento della controprestazione. Tale disparità di trattamento sarebbe priva di ogni giustificazione apprezzabile e, nell’indurre il datore di lavoro a non adempiere all’obbligo di ripristinare il rapporto, pregiudicherebbe l’effettività della tutela offerta dall’ordine del giudice, in violazione del diritto di agire in giudizio (art. 24 Cost.) e dei princìpi del giusto processo (artt. 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU). 4.- È intervenuto, con atto depositato il 27 febbraio 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale. L’interveniente ha eccepito, in linea preliminare, l’inammissibilità della questione per inesatta individuazione delle disposizioni censurate e ha osservato che non sono le disposizioni sulla mora del creditore (artt. 1206, 1207 e 1217 cod. civ.) a determinare le conseguenze lesive paventate dal rimettente. Tali conseguenze sarebbero imputabili alla disciplina dettata dall’art. 1223 cod. civ. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, un’ulteriore ragione di inammissibilità risiede nel fatto che il rimettente auspichi un intervento manipolativo, che sconfina nell’àmbito riservato alla discrezionalità del legislatore. Nel merito, la questione non sarebbe comunque fondata. L’art. 1207 cod. civ. contemplerebbe soltanto una tutela risarcitoria e si applicherebbe in generale tanto al lavoratore che non sia stato riassunto quanto a ogni altro debitore.
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La sentenza di questa Corte n. 303 del 2011, in merito alla nullità dell’apposizione del termine, riguarderebbe una normativa speciale, che persegue una eccezionale funzione sanzionatoria, e lascerebbe impregiudicata la questione della detrazione di quanto il lavoratore abbia percepito in virtù di un’altra occupazione. Non sussisterebbe neppure la denunciata violazione degli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU. I precetti richiamati, difatti, tutelerebbero il diritto di agire in giudizio e non riguarderebbero i profili sostanziali adombrati nell’ordinanza di rimessione. Il rimettente non avrebbe neppure illustrato per quali ragioni le disposizioni censurate inciderebbero «sulla astratta possibilità di avere accesso alla giurisdizione». La questione, pertanto, sarebbe sotto tale profilo inammissibile, perché motivata in modo generico, e sarebbe comunque infondata nel merito. 5.- In prossimità dell’udienza, hanno depositato memorie illustrative sia Telecom Italia spa sia A.F., per sentire accogliere le conclusioni già formulate. 5.1.- Telecom Italia spa ha osservato che il rimettente avrebbe dovuto applicare i princìpi enunciati dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza 7 febbraio 2018, n. 2990, in ordine alla natura retributiva dell’obbligo del datore di lavoro cedente, in caso di declaratoria di nullità della cessione del ramo di azienda. Il mutamento del diritto vivente, sul quale si fonda la questione di legittimità costituzionale, «travolge la questione che è stata sollevata». La Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione lavoro, con ordinanza 31 maggio 2018, n. 14019, avrebbe poi chiarito che, anche a volere ritenere che sul datore di lavoro cedente gravi l’obbligo di corrispondere la retribuzione, il lavoratore ceduto non ha diritto a una doppia retribuzione, in base ai princìpi del diritto comune delle obbligazioni e alle regole sull’adempimento del terzo (art. 1180 cod. civ.) e sull’indebito soggettivo (art. 2036 cod. civ.). Non sarebbe pertinente il richiamo alle disposizioni sulla mora del creditore, che si limitano a definire gli elementi costitutivi della fattispecie e a prevederne le conseguenze risarcitorie, senza specificarne la misura costituzionalmente necessaria. Anche sotto questo profilo, la questione sarebbe inammissibile. Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata, in quanto il lavoratore presterebbe nei confronti del cessionario la stessa attività che avrebbe dovuto prestare verso Telecom Italia spa e avrebbe diritto a una sola retribuzione. Anche le censure relative alla violazione dell’effettività della tutela giurisdizionale non sarebbero fondate, in quanto il lavoratore ceduto ben potrebbe chiedere l’accertamento della titolarità del rapporto di lavoro in capo al cedente e, in caso di mancata riammissione, potrebbe ottenere il risarcimento di tutti i danni patiti.
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5.2.- A.F., con riguardo all’eccepita aberratio ictus, replica che nel giudizio principale si discute della mora del datore di lavoro e che, pertanto, le censure a ragion veduta si indirizzano contro tale normativa. Dovrebbero essere disattese anche le eccezioni di inammissibilità sollevate da Telecom Italia spa e dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri in ragione della natura creativa dell’intervento richiesto a questa Corte, poiché si tratterebbe di applicare al rapporto di lavoro la disciplina generale della mora credendi. Quanto al merito, sarebbe ininfluente il fatto che il lavoratore continui a lavorare con la società cessionaria. Le prestazioni lavorative sarebbero diverse e non potrebbero pertanto essere ricondotte alla speciale disciplina dell’interposizione fittizia di manodopera che, a fronte della medesima prestazione lavorativa, sancisce l’efficacia liberatoria dei pagamenti effettuati dal somministratore (Cass., sez. un. civ., sentenza n. 2990 del 2018). In base alla disciplina generale sulla mora del creditore, il creditore dovrebbe anzitutto eseguire la propria prestazione e, in secondo luogo, risarcire i danni prodotti dalla mora. L’obbligo risarcitorio si aggiungerebbe, senza sostituirsi, all’obbligo di riammettere in servizio il lavoratore. Il lavoratore ceduto, pertanto, avrebbe diritto di ricevere la prestazione retributiva tanto dal cedente, in forza della disciplina sulla mora del creditore, quanto dal cessionario, in virtù della disciplina sui rapporti contrattuali di fatto. La disciplina derogatoria e speciale in tema di licenziamenti non potrebbe trovare applicazione, in quanto - nel caso di declaratoria di nullità della cessione del ramo d’azienda - il rapporto di lavoro non risulterebbe formalmente estinto. L’interpretazione censurata dal rimettente sarebbe foriera di un’arbitraria disparità di trattamento del rapporto di lavoro rispetto a tutti gli altri rapporti di diritto civile, che non potrebbe rinvenire una ragionevole giustificazione nella specialità del rapporto di lavoro. La questione di legittimità costituzionale non potrebbe neppure dirsi superata dal diritto vivente successivo all’ordinanza di rimessione, in quanto la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 14019 del 2018, ha ribadito l’orientamento tradizionale, in ragione dell’unicità della prestazione lavorativa. 6.- All’udienza dell’8 gennaio 2019, le parti hanno ribadito le conclusioni rassegnate nei rispettivi scritti difensivi; l’interveniente ha chiesto, in via preliminare, di restituire gli atti in ragione del sopravvenire di un diverso diritto vivente. Considerato in diritto. – 1.- La Corte d’appello di Roma, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale del «combinato disposto» degli artt. 1206, 1207 e 1217 cod. civ., per violazione degli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in
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relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. La Corte rimettente censura le citate disposizioni sulla mora del creditore, sul presupposto che limitino la tutela del lavoratore ceduto al risarcimento del danno, anche dopo la sentenza che abbia accertato l’illegittimità o l’inefficacia del trasferimento del ramo di azienda. Le disposizioni censurate, nell’interpretazione accreditata dal diritto vivente, sarebbero lesive del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) sotto un duplice profilo. Il giudice a quo ravvisa una «ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento» anzitutto rispetto alla disciplina della mora del creditore «in tutte le altre obbligazioni relative a rapporti contrattuali diversi da quelli di lavoro subordinato»; in secondo luogo, rispetto alla disciplina delle conseguenze della nullità del termine apposto al contratto di lavoro, per il periodo successivo alla sentenza che accerti tale nullità e converta il contratto a tempo determinato. In entrambe le ipotesi, evocate come termini di raffronto, il creditore in mora non soltanto sarebbe obbligato a risarcire i danni prodotti, ma sarebbe pur sempre obbligato a eseguire la controprestazione. La Corte rimettente denuncia anche il contrasto con l’art. 24 Cost., in quanto la disciplina censurata consentirebbe al cedente «di sottrarsi ad libitum alla sentenza (anche passata in giudicato) con cui sia stata dichiarata la nullità o l’inefficacia o l’inopponibilità del trasferimento di ramo d’azienda nei confronti del lavoratore». Il vulnus che tale disciplina recherebbe all’effettività della tutela giurisdizionale determinerebbe anche la violazione dell’art. 111 Cost., che «prevede la garanzia del “giusto processo”», inscindibilmente connessa con l’effettività della tutela. Sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU. La disciplina censurata, difatti, sacrificherebbe il diritto a un processo equo e, in particolare, il diritto «di ottenere la tutela specifica (ove giuridicamente possibile) e comunque più idonea a conseguire la concreta utilità che l’ordinamento riconosce sul piano del diritto sostanziale, in omaggio al carattere prettamente strumentale dei rimedi processuali rispetto alle situazioni giuridiche soggettive da tutelare». 1.1.- Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, pendente in appello. La società cedente ha opposto il decreto ingiuntivo emesso a favore del lavoratore ceduto per le retribuzioni relative al periodo da gennaio a dicembre 2011 e ha poi impugnato la sentenza di primo grado che ha rigettato l’opposizione. A sostegno del gravame, la società ha posto l’accento sul fatto che le retribuzioni sono state
già corrisposte dalla società cessionaria, subentrata in forza di cessione di ramo di azienda, successivamente dichiarata nulla con sentenza passata in giudicato. 2.- Occorre esaminare, preliminarmente, le eccezioni di inammissibilità formulate dalla difesa dello Stato e dalle parti. 2.1.- Ha priorità logica l’esame dell’eccezione di aberratio ictus. L’Avvocatura generale dello Stato - con argomentazione che anche Telecom Italia spa, nella memoria illustrativa depositata in vista dell’udienza, mostra di far propria - imputa al rimettente di avere sottoposto al vaglio di questa Corte disposizioni prive di ogni attinenza con la denunciata violazione dei precetti costituzionali. Secondo l’interveniente, sarebbe non la disciplina sulla mora del creditore, ma la disposizione dell’art. 1223 cod. civ. a determinare la censurata limitazione della tutela. L’eccezione non è fondata. Il contrasto con i parametri costituzionali evocati dal rimettente trae origine dalla disciplina della mora del creditore, considerata nel suo complesso. Il giudizio principale verte sull’inadempimento di un datore di lavoro che non ha eseguito l’ordine giudiziale di riassunzione e ha rifiutato senza alcun legittimo motivo (art. 1206 cod. civ.) la prestazione ritualmente offerta dal lavoratore, nel rispetto dell’art. 1217 cod. civ. Correttamente, pertanto, il giudice a quo richiede a questa Corte uno scrutinio unitario su quello che qualifica come il «combinato disposto» degli artt. 1206, 1207 e 1217 cod. civ., tutti chiamati a regolare la fattispecie controversa e suscettibili, pertanto, di produrre il vulnus che il rimettente ha denunciato. 2.2.- Telecom Italia spa e l’Avvocatura generale dello Stato hanno eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, in ragione del carattere manipolativo dell’intervento richiesto a questa Corte. L’eccezione non può essere accolta. Il giudice a quo si propone di applicare la disciplina generale della mora del creditore, che la Corte di cassazione in quest’àmbito specifico avrebbe interpretato in maniera restrittiva, qualificando in senso meramente risarcitorio le obbligazioni del datore di lavoro cedente che non riammetta nell’impresa il lavoratore ceduto. Si dovrebbe così riespandere, nell’àmbito dei rapporti di lavoro, la disciplina generale, che, a giudizio del rimettente, obbliga il creditore moroso a eseguire in ogni caso la controprestazione e non soltanto a risarcire il danno. Così prospettate, le questioni di legittimità costituzionale si sottraggono ai rilievi di inammissibilità incentrati sulla mancanza di “rime costituzionalmente obbligate”. 2.3.- Telecom Italia spa individua un ulteriore profilo di inammissibilità nel fatto che il rimettente solleciti alla Corte un avallo dell’interpretazione che ha pre-
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scelto. Dietro la parvenza di un dubbio di legittimità costituzionale, il giudice a quo ventilerebbe una mera questione interpretativa delle norme che è chiamato ad applicare. Neppure tale eccezione è fondata. Il rimettente muove dalla premessa che, sul carattere risarcitorio dell’obbligo del datore di lavoro cedente che non riammette il lavoratore ceduto nell’impresa, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sia oramai consolidato e assurga al rango di diritto vivente. Tale premessa è corretta ed è avvalorata da un indirizzo uniforme del giudice della nomofilachia (fra le molte, Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione lavoro, ordinanza 10 maggio 2017, n. 11402). Il rimettente, pur potendo privilegiare una diversa lettura del dato normativo, rispettosa dei precetti della Carta fondamentale, ben può scegliere di uniformarsi a un’interpretazione oramai radicata nella giurisprudenza di legittimità e richiederne, su tale presupposto, la verifica di conformità ai parametri costituzionali (sentenza n. 39 del 2018, punto 3.2. del Considerato in diritto). 2.4.- L’Avvocatura generale dello Stato lamenta la genericità delle censure di violazione degli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU. Da tale genericità conseguirebbe l’inammissibilità delle relative questioni. Neppure tale eccezione coglie nel segno. A sostegno della dedotta violazione del canone di effettività della tutela giurisdizionale, il rimettente ha svolto un’argomentazione adeguata, che ha posto in risalto il nesso inscindibile tra la situazione soggettiva sostanziale e la possibilità di ottenere in giudizio una tutela efficace. Anche da questo punto di vista, pertanto, le censure del rimettente superano il vaglio di ammissibilità demandato a questa Corte. 3.- Sgombrato il campo da tali eccezioni preliminari, le questioni possono essere scrutinate nel merito. Unitamente al merito devono essere vagliate anche le richieste e le eccezioni preliminari, formulate dall’interveniente e dalle parti sul presupposto dell’incidenza del diritto vivente sopravvenuto. Le questioni non sono fondate, nei termini di séguito esposti. 4.- Occorre, preliminarmente, delimitare il tema del decidere devoluto all’esame di questa Corte. Le censure del rimettente si appuntano sulla qualificazione in termini risarcitori dell’obbligo del datore di lavoro che non ottemperi all’ordine di riammettere il lavoratore nell’impresa, dopo l’accertamento della nullità, dell’inefficacia o dell’inopponibilità della cessione del ramo di azienda. Il giudice a quo assume che la configurazione in senso risarcitorio dell’obbligo del datore di lavoro moroso sia lesiva del principio di eguaglianza, tanto in
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riferimento alla disciplina degli altri rapporti obbligatori quanto con riguardo alla disciplina della nullità dell’apposizione del termine. Nel rapporto di lavoro, a differenza che negli altri àmbiti posti a raffronto, il creditore moroso sarebbe obbligato soltanto a risarcire i danni e non a eseguire la controprestazione. La limitazione della tutela del lavoratore ceduto al risarcimento dei danni comprometterebbe, in pari tempo, l’effettività della tutela giurisdizionale, secondo i molteplici parametri costituzionali evocati (artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU). 5.- Sul tema del decidere, così definito, incide la sentenza 7 febbraio 2018, n. 2990, pronunciata dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili. Le Sezioni unite sono state chiamate a dirimere la questione di massima di particolare importanza circa la natura retributiva o risarcitoria delle somme che spettano al lavoratore dopo l’accertamento dell’illecita interposizione di manodopera, nell’ipotesi in cui il lavoratore abbia invano messo a disposizione le proprie energie lavorative. In questa complessa opera ricostruttiva, le Sezioni unite hanno preso le mosse proprio dall’orientamento che si è dapprima formato in tema di conseguenze della nullità del trasferimento d’azienda, per essere successivamente esteso alla fattispecie dell’interposizione illecita di manodopera. La Corte di cassazione svolge un’analoga argomentazione per fattispecie che solo in apparenza sono tra loro distanti. Le Sezioni unite puntualizzano che la qualificazione risarcitoria dell’obbligazione del cedente, tanto consolidata da avere indotto la Corte d’appello di Roma a sollevare questioni di legittimità costituzionale della normativa così intesa, si fonda sul principio di corrispettività che permea di sé il contratto di lavoro. Alla stregua di tale principio, al di fuori delle eccezioni tassativamente previste dalla legge o dal contratto, il diritto alla retribuzione sorge soltanto quando la prestazione lavorativa sia stata effettivamente resa. In caso contrario, sussiste, in capo al datore di lavoro, soltanto un obbligo di risarcire il danno. Secondo le Sezioni unite, una prospettiva costituzionalmente orientata impone di rimeditare la regola della corrispettività nell’ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta. Il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe, difatti, l’efficacia dei rimedi che l’ordinamento appresta per il lavoratore. Sul datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l’accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continua dunque a gravare l’obbligo di corrispondere la retribuzione. Nella ricostruzione delle Sezioni unite la disciplina del licenziamento illegittimo, che ascrive all’area del
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risarcimento del danno le indennità dovute dal datore di lavoro, si configura in termini derogatori e peculiari. Acquistano per contro valenza generale le affermazioni contenute nella sentenza n. 303 del 2011 di questa Corte, relative alle conseguenze dell’illegittima apposizione del termine (art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante «Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro»). Infatti, come precisato nella suddetta pronuncia, per effetto della sentenza che rileva il vizio della pattuizione del termine e instaura un contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore, «in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in caso di mancata riammissione effettiva» (sentenza n. 303 del 2011, punto 3.3.1. del Considerato in diritto). Da tali princìpi le Sezioni unite evincono, con portata tendenzialmente generale, l’obbligo del datore di lavoro moroso di corrispondere le retribuzioni al lavoratore che non sia stato riammesso in servizio, neppure dopo la pronuncia del giudice che abbia ripristinato la vigenza dell’originario rapporto di lavoro. In questa prospettiva, riveste un ruolo primario l’accertamento del giudice, che ristabilisce la lex contractus, accertamento che non può essere sminuito nella sua forza cogente dal protrarsi dell’inosservanza. Al profilo processuale fa riscontro, sul versante sostanziale, la particolare pregnanza dei diritti riconosciuti al lavoratore a fronte della mora del datore di lavoro. Tali diritti non si esauriscono nel rimedio risarcitorio, ma includono anche il diritto alla controprestazione, in consonanza con i princìpi generali del diritto delle obbligazioni, che, pur con le peculiarità connaturate alla specialità del rapporto di lavoro, perseguono anche in quest’àmbito un’essenziale funzione di tutela. 6.- Sulle implicazioni della citata sentenza delle sezioni unite le valutazioni dell’interveniente e delle parti sono divergenti. 6.1.- All’udienza pubblica dell’8 gennaio 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha formulato, in ragione della novità sopravvenuta, una richiesta di restituzione degli atti. Tale richiesta non può essere accolta. Alla stregua del «principio di effettività della tutela giurisdizionale in sede costituzionale» (sentenza n. 186 del 2013, punto 3.3. del Considerato in diritto), la restituzione degli atti deve essere disposta allorché sopravvengono mutamenti del quadro normativo, che impongano al rimettente di rinnovare la valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni.
6.2. Questa ipotesi non ricorre nel caso di specie e non si ravvisano neppure le ragioni per dichiarare l’inammissibilità delle questioni, eccepita da Telecom Italia spa sulla base del rilievo che il nuovo orientamento della Corte di cassazione “travolgerebbe” le questioni di legittimità costituzionale. 6.3.- Il mutamento della giurisprudenza postula uno scrutinio di merito, anche per ragioni di economia ed efficienza del processo costituzionale. Dopo l’intervento delle Sezioni unite, le questioni sollevate permangono inalterate nei loro termini salienti e il sindacato di questa Corte, pertanto, non può arrestarsi in limine a un ordine di restituzione degli atti o al rilievo della inammissibilità delle questioni proposte. A tale riguardo, si deve rilevare che l’indirizzo interpretativo, indicato come diritto vivente allorché sono state proposte le questioni di legittimità costituzionale, risulta disatteso dalla suddetta pronuncia delle Sezioni unite, successiva all’ordinanza di rimessione. Tale pronuncia mira a ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro e consente di risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati. Invero, sul punto della qualificazione retributiva dell’obbligazione del datore di lavoro moroso, che rappresenta il fulcro delle questioni di legittimità costituzionale, si riscontra una piena convergenza tra le enunciazioni di principio delle Sezioni unite e l’assunto del rimettente (Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione lavoro, ordinanze 1° giugno 2018, n. 14136, e 31 maggio 2018, n. 14019, punto 5. delle rispettive motivazioni). Questa convergenza vale a privare di fondamento, nei termini indicati, le questioni di legittimità costituzionale, insorte sulla base di un’interpretazione di segno antitetico (ex plurimis, sentenza n. 56 del 1985, punto 4. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 233 del 2003, punto 3.4. del Considerato in diritto). 6.4.- Spetterà alla Corte rimettente rivalutare la questione interpretativa dibattuta nel giudizio principale, che investe il diritto del lavoratore ceduto, già retribuito dal cessionario, di rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente. P.Q.M. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del «combinato disposto» degli artt. 1206, 1207 e 1217 cod. civ. e, sollevate dalla Corte d’appello di Roma, sezione lavoro, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
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Sulla natura del credito del lavoratore non riammesso in servizio a seguito dell’accertata illegittimità del trasferimento di azienda Sommario : 1. La vicenda processuale e la questione sottoposta alla Corte costituzionale. – 2. Le sezioni unite della Cassazione mutano lo scenario. – 3. La decisione della Consulta. – 4. Le (immediate) ricadute della pronuncia sulla giurisprudenza successiva. – 4.1. La questione della (non) detraibilità dell’aliunde perceptum… – 4.2. … e quella dell’efficacia (sostanziale) della sentenza
Sinossi. L’A. commenta C. cost. 28 febbraio 2019, n. 29 che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c., sì come interpretato dalla sopravvenuta decisione delle sezioni unite della Cassazione 7 febbraio 2018, n. 2990, che, nel caso di accertata illegittimità di un trasferimento di azienda, ha riconosciuto natura retributiva al credito maturato dal lavoratore non riammesso in servizio dal cedente messo in mora.
1. La vicenda processuale e la questione sottoposta alla
Corte costituzionale.
Con la sentenza in epigrafe la Corte costituzionale appone il proprio sigillo sulla scelta nel frattempo compiuta dalle sezioni unite della Cassazione, di riconoscere natura retributiva al credito del lavoratore che non sia stato riammesso in servizio dal cedente in caso di accertata illegittimità del trasferimento di azienda1. Occorre riavvolgere il nastro per apprezzare fino in fondo la portata della decisione. Con ordinanza del 5 ottobre 2017 la Corte di appello di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c. con riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost. Più precisamente, il collegio rimettente ha chiesto alla Consulta di valutare la conformità alle menzionate norme costituzionali dell’interpretazione consolidatasi in giurisprudenza del suddetto combinato disposto2.
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Cass., sez. un., 7 febbraio 2018, n. 2990, in RIDL, 2018, II, 606, con nota di Sottile; in Ilgiuslavorista.it, 17 aprile 2018, con nota di Di Paola; in RGL, 2018, II, 330 con nota di Bologna; in ADL, 2018, 769, con nota di Cester; in LG, 2018, 699, con nota di Marinelli. 2 Per una ricostruzione delle posizioni della dottrina sull’applicabilità dell’istituto della mora del creditore al rapporto di lavoro v.
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Secondo tale lettura, infatti, il lavoratore ceduto che non sia stato riammesso in servizio dopo l’accertamento definitivo dell’illegittimità della cessione di azienda e che sia stato già retribuito dal cessionario non avrebbe diritto a percepire la retribuzione da parte del cedente, bensì avrebbe diritto a ottenere il risarcimento del danno subìto, consistente nella differenza fra l’importo delle retribuzioni corrisposte dal cessionario e l’importo di quelle che avrebbe percepito dal cedente3. Tale orientamento, cui la Corte d’appello di Roma si riferisce in termini di “diritto vivente”, poggia su due assunti. Il primo pertiene alla natura sinallagmatica del contratto di lavoro: la corresponsione della retribuzione in mancanza di lavoro costituisce un’eccezione che deve essere prevista dalla legge (è il caso delle ferie o del riposo settimanale, ad esempio); in assenza di una simile disposizione, il lavoratore cui il datore di lavoro non consenta lo svolgimento della prestazione non avrebbe diritto alla retribuzione, bensì al risarcimento del danno patito, eventualmente commisurato alle retribuzioni perdute; stante la carenza di una disciplina ad hoc, troverebbero applicazione i principi generali in tema di risarcimento del danno, in base ai quali la somma dovuta è determinata sottraendo l’aliunde perceptum, ovverosia quanto il lavoratore ha eventualmente percepito svolgendo un’altra attività4. Secondo questa lettura, la qualificazione in termini risarcitori del quantum dovuto dal datore di lavoro per il mancato ripristino del posto di lavoro illegittimamente perduto trovava conferma nella versione dell’art. 18 st. lav. successiva alla legge n. 108/1990, che riconduceva sotto l’ombrello di una medesima obbligazione risarcitoria tutte le somme dovute dal datore di lavoro a seguito della condanna alla reintegrazione del lavoratore, tanto quelle relative al periodo antecedente alla sentenza quanto quelle relative al periodo successivo e fino alla effettiva reintegrazione5. Il secondo assunto riguarda, invece, l’ipotesi più peculiare della cessione di contratto, quando si determina la sostituzione di una parte con un’altra, in un rapporto giuridico che rimane immutato nei suoi elementi oggettivi. Nel caso particolare del trasferimento di azienda, il contenuto della controprestazione datoriale è unico e consiste nella retribuzione, con la conseguenza che la messa in mora del cedente da parte del lavoratore determina, ai sensi dell’art. 1207 c.c., il sorgere della sola obbligazione risarcitoria, essendo quella retributiva adempiuta dal cessionario6.
Speziale, La mora del creditore nelle interpretazioni dei giuslavoristi, in DLRI, 2014, 440; ma anche, di recente, Bologna, Mora del creditore, esternalizzazioni fittizie e profili di legittimità costituzionale, in RGL, II, 2018, 330. Sull’opera fondamentale di Ghezzi v. Speziale, La mora del creditore nel rapporto di lavoro di Giorgio Ghezzi, in LD, 2016,501; Gragnoli, Un libro storico: Ghezzi, la mora del creditore nel rapporto di lavoro, in RGL, 2018, I, 3. 3 Fra le tante cfr. Cass., 17 luglio 2008, n. 19740, in DeJure; Cass., 16 settembre 2014, n. 19490, in DeJure. 4 Cass., 17 luglio 2008, n. 19740, in DeJure; Cass., 16 settembre 2014, n. 19490, in DeJure; Cass., ord. 10 maggio 2017, n. 11402, in DeJure; Trib. Bari, 28 febbraio 2019, in DeJure. In dottrina Ghezzi, La mora del creditore nel rapporto di lavoro, Giuffrè, 1965, 110 ss. e spec. 129. 5 V. ancora Cass., 16 settembre 2014, n. 19490, cit. C. cost., 23 aprile 2018, n. 86 (D&Gonline, 4 settembre 2018, con nota di Marino) ha confermato la natura risarcitoria dell’indennità dovuta ai sensi dell’attuale formulazione dell’art. 18, comma 4, St. lav. 6 Cass., 9 settembre 2014, n. 18955, in Ilgiuslavorista.it 16 febbraio 2015, con nota di D’Onofrio; Cass., 14 luglio 2014, n. 16095, in DeJure; Cass., 7 aprile 2015, n. 7281, in DeJure; Cass., 28 giugno 2015, n. 17184, in DeJure; Cass., 25 giugno 2018, n. 16694, in DeJure; Trib. Bari, 4 febbraio 2019, in DeJure.
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La Corte d’appello di Roma reputa che questa consolidata interpretazione del combinato disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c., maturata con riferimento al caso del trasferimento di azienda illegittimo (ma poi estesa anche alla fattispecie della illegittima interposizione di manodopera), si ponga in contrasto con alcuni principi della Costituzione. Innanzitutto essa determinerebbe un’ingiustificata e irragionevole disparità fra il trattamento riservato al lavoratore coinvolto in un trasferimento di azienda illegittimo, quello riservato ai rapporti contrattuali diversi dal contratto di lavoro subordinato e, in particolare, quello previsto in caso di accertata nullità del termine apposto al contratto per il periodo successivo alla pronuncia della relativa sentenza; in entrambi i casi, infatti, al creditore messo in mora è richiesto di eseguire la prestazione e non solo di risarcire il danno causato dall’inadempimento contrattuale. Siffatta lettura sarebbe, altresì, in contrasto con quanto previsto dall’art. 24 Cost. (ma anche con l’art. 111 che garantisce il giusto processo), poiché il creditore che ha rifiutato la prestazione potrebbe rimanere inadempiente ad libitum senza conseguenze di particolare rilievo, così vanificando l’utilità dell’azione di accertamento dell’illegittimità del trasferimento e privando la tutela di effettività. In questa prospettiva il giudice a quo, per il tramite dell’art 117 Cost., ravvisa anche una violazione dell’art. 6 Cedu, in base al quale il processo è equo se è capace di garantire la concreta utilità che l’ordinamento riconosce sul piano del diritto sostanziale. La Corte costituzionale ha ritenuto ammissibile la questione sollevata, in particolare superando la principale eccezione formulata da Telecom Italia spa, secondo la quale la Consulta sarebbe tenuta a pronunciarsi sulla conformità di disposizioni di legge al dettato costituzionale e non a sostituirsi nell’attività interpretativa del giudice a quo, tenuto ad offrire delle disposizioni una lettura conforme a Costituzione7. La Corte, in proposito, richiama quanto affermato a più riprese, a partire dagli anni ottanta8 e da ultimo nella decisione 1° marzo 2018, n. 399, circa l’ammissibilità delle “questioni interpretative” che abbiano ad oggetto un “diritto vivente”, ossia una consolidata lettura della disposizione che si ritenga essere in contrasto con il dettato costituzionale. Secondo la Corte, infatti, sebbene il giudice a quo sia libero di privilegiare una diversa lettura del dato normativo, è altrettanto libero di aderire all’interpretazione che assurge al rango di diritto vivente chiedendone lo scrutinio di costituzionalità. La Corte, dal canto proprio, è chiamata a giudicare la disposizione censurata nel significato a essa attribuito in modo uniforme e costante dai giudici di legittimità (o dal Consiglio di stato), senza proporre una propria interpretazione costituzionalmente orientata, ma dando vita ad un diritto vivente costituzionalmente compatibile10.
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Con riferimento all’orientamento che ritiene inammissibili le “questioni interpretative” si veda, per tutte, C. cost., 14 ottobre 1996, n. 365, in GC, 1996, 3096, con nota di Lamarque ove si legge che «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali». L’obbligo di interpretazione adeguatrice disatteso dal giudice di merito determina l’inammissibilità della questione. 8 C. cost., 27 luglio 1989, n. 456, in GC, 1989, 2086. 9 In GC 2018, 2, 473, con nota di Pessi. 10 Si v. in tema Cardone, Funzione di nomofilachia della Cassazione e pronunce della C. costituzionale, in GC, 2001, 2889.
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2. Le sezioni unite della Cassazione mutano lo scenario. A distanza di pochi mesi dal deposito dell’Ordinanza di rimessione, le sezioni unite della Cassazione sono intervenute per ridefinire l’interpretazione del combinato disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c.11. L’intervento delle sezioni unite è stato richiesto su istanza delle parti, che, nel contesto di una controversia avente ad oggetto la legittimità di un appalto di servizi e pur in assenza di un vero e proprio contrasto fra sezioni12, hanno rimarcato la particolare rilevanza della questione della natura retributiva o risarcitoria del credito del datore di lavoro derivante dalla mancata esecuzione dell’ordine giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro. La pronuncia, com’è noto, ha ribaltato l’assestata interpretazione delle suddette disposizioni, con la seguente argomentazione: non è possibile fondare la natura risarcitoria del credito sul richiamo in via analogica della disciplina dei licenziamenti, trattandosi di disposizioni speciali; occorre, invece, considerare quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza 11 novembre 2011, n. 30313, ove, con riguardo all’ipotesi di conversione di un contratto di lavoro a termine in un contratto a tempo indeterminato, si è stabilito che per il periodo successivo alla sentenza il lavoratore ha diritto a percepire per interno la retribuzione anche in caso di mancata riammissione effettiva (mentre per il periodo che corre tra la scadenza del termine e la sentenza che ne accerta la nullità spetta l’indennità di cui all’art. 32, comma 4 e 5, l. n. 183/2010, e ora all’art. 28, comma 2, d.lgs. n. 81/2015 che ha recepito anche la suddetta statuizione)14. Solo una simile lettura consente di dare attuazione al principio di effettività della tutela processuale, evitando che i lavoratori che abbiano offerto le loro prestazioni, ma non siano stati riammessi in servizio, debbano subire le conseguenze dell’inottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale. Al contempo essa assicura al sistema un meccanismo di deterrenza rispetto a comportamenti elusivi dell’obbligo di riammissione in servizio. Il principio così affermato, inoltre, offre una soluzione al fenomeno più generale dell’incoercibilità della cooperazione datoriale, e perciò può essere invocato tutte le volte in cui la soddisfazione del diritto del lavoratore dipenda da un comportamento del datore di lavoro.
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Cass., sez. un., 2 febbraio 2019, n. 2990, cit. Si è pronunciata in senso contrario all’orientamento dominante, a quanto costa, solo Cass., 30 agosto 2004, n. 17322, in DeJure. 13 In GC, 2012, 1, 553, con nota di Romei; in RIDL, 2012, II, 252, con nota di Zappalà e Di Paola; in DRI, 2011, 4, 1102, con nota di Bollani e Corvino. Sulle posizioni assunte, prima di tale sentenza, dalla giurisprudenza si v. Mariani, Le conseguenze economiche della ricostituzione ope iudicis del rapporto di lavoro, fuori dalle ipotesi disciplinate dall’art. 18 St. Lav., in RIDL, 2003, II, 581. 14 Così si esprime la Consulta: «Un’interpretazione costituzionalmente orientata della novella, però, induce a ritenere che il danno forfettizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo così detto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. A partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a immettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva. Diversamente opinando, la tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato sarebbe completamente svuotata» (corsivo mio). In tema, per tutti, Speziale, Lavoro a termine, in Annali ED, vol. IX, Giuffrè, 2016. 12
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Tali ragioni consentono di superare la regola della corrispettività del contratto di lavoro , quando essa finisca per ostacolare l’effettività della tutela16. 15
3. La decisione della Consulta. La pronuncia delle sezioni unite della Cassazione cambia, dunque, lo scenario nel quale la Corte d’appello di Roma ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 2016, 2017 e 2017 c.c. Più esattamente, essa prospetta alla Consulta la presenza di una norma diversa da quella individuata dal diritto vivente e convergente con gli assunti contenuti nell’ordinanza di rimessione. Occorre ricordare che il Giudice delle leggi, nella sentenza 18-21 marzo 1994, n. 86, ha chiarito che la “disposizione”17 rappresenta il veicolo di accesso della “norma” al suo giudizio, per cui la decisione si forma su una norma (significato), benché la pronuncia abbia ad oggetto una (o più di una) disposizione (significante). La Corte costituzionale, pertanto, oltre ad avere il monopolio sull’interpretazione delle disposizioni costituzionali, vaglia le letture offerte alle disposizioni portate alla propria attenzione per scegliere quella capace di evitare un contrasto con i principi enunciati nella Carta18. Nel caso in esame, la sentenza delle sezioni unite propone un’interpretazione, alternativa a quella consolidatasi fino a quel momento, che la Consulta ritiene capace non solo di «ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro», ma anche di «risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati» (punto 6.3). Perciò, il Giudice delle leggi pronuncia una sentenza interpretativa di rigetto19, che dichiarata infondata la questione sollevata e salva le disposizioni impugnate, la cui in-
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In dottrina erano giunti a questa conclusione, valorizzando il sinallagma genetico quale fonte dell’obbligo retributivo e la funzione sociale della retribuzione Suppiej, Il rapporto di lavoro (costituzione e svolgimento), in EGL, 1992, 16, A. Zoppoli, La corrispettività nel rapporto di lavoro, Esi, 1991, 314 ss. e Speziale, Mora del creditore e contratto di lavoro, Cacucci, 1992. In questo senso v. già Ghera, Liso, (voce) Mora del creditore (dir. lav.), in ED, Giuffrè, 1976 secondo i quali l’art. 1207 co. 1 c.c. è l’unica norma dalla quale è possibile ricavare le conseguenze della mora nei confronti delle obbligazioni corrispettive. Affermando che «Quando il creditore è in mora, è a suo carico l’impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa non imputabile al debitore…» la disposizione intende offrire una tutela particolare al debitore/lavoratore, il cui interesse non può che essere quello alla prestazione corrispettiva. La mora accipiendi consente di estinguere l’obbligazione della parte che ha proceduto all’offerta formale lasciando intatto il resto del rapporto, in deroga alla regola generale posta dall’art. 1463 c.c., secondo cui «la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione». L’unilateralità del comportamento che impedisce la prestazione lavorativa è idonea a giustificare che tale prestazione non avvenga, ma non a privare il lavoratore della diritto alla controprestazione retributiva. 16 Conclude la C., con riguardo al caso di specie, che questo ragionamento si arresta di fronte alla circostanza in cui il lavoratore somministrato illegittimamente abbia comunque ricevuto la retribuzione. In questa ipotesi, infatti, l’art. 27, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, applicato ratione temporis, prevede che «tutti i pagamenti effettuati dal somministratore a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale valgono a liberare il soggetto, che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione, dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata» (v. ora art. 38, comma 3, d.lgs. n. 81/2015). 17 Alla cui identificazione è tenuto il giudice rimettente ai sensi dell’art. 23 l. 11 marzo 1953, n. 87 su cui C. cost., 5 dicembre 1972, n. 176. 18 Crisafulli, Disposizione (e norma), in ED, Giuffrè, 1964. 19 La circostanza che sia sopravvenuta “solo” una nuova interpretazione del combinato disposto degli artt. 2106, 2107 e 2117 c.c. ha
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terpretazione – però – risulta condizionata a quanto espresso nella motivazione. Tale tipologia di sentenza, infatti, pur non avendo un’efficacia erga omnes, ma solo una forza persuasiva, per un verso impone al giudice a quo di decidere la controversia sulla base dell’interpretazione ivi prospettata (o quantomeno di non applicare la lettura dichiarata incostituzionale), per altro verso obbliga i giudici che intendano offrire alla disposizione un’interpretazione diversa da quella ritenuta costituzionalmente conforme di sollevare nuovamente la questione davanti alla Corte che, a quel punto, per il tramite del meccanismo della “doppia pronuncia”20, emetterà una sentenza interpretativa di accoglimento, questa sì vincolante per tutti, con la quale potrà dichiarare l’incostituzionalità di una delle interpretazioni offerte alla disposizione. La pronuncia è intesa in questi termini dalla Corte di appello di Roma, che la applica con sentenza del 3 giugno 2019 per decidere la controversia da cui è originata la questione di costituzionalità. Ivi, infatti, si sottolinea che la formula utilizzata nel dispositivo «nei sensi di cui in motivazione» è tipica delle pronunce con le quali la Corte costituzionale indica al giudice a quo che l’infondatezza della questione discende dalla rilevata possibilità di offrire alla disposizione un’interpretazione conforme a Costituzione; ma, soprattutto, si rileva che la decisione poggia sul nuovo “diritto vivente”, frutto del revirement delle sezioni unite della Cassazione, che consente di salvare la disposizione (rectius il combinato disposto) dalla pronuncia di incostituzionalità.
4. Le (immediate) ricadute della pronuncia sulla giurisprudenza successiva.
Come si è appena accennato, la Corte d’appello di Roma a distanza di pochi mesi dalla sentenza in epigrafe ha riassunto e deciso la causa, rivalutando – come chiesto dal Giudice delle leggi – «la questione interpretativa dibattuta nel giudizio principale che investe il diritto del lavoratore ceduto, già retribuito dal cessionario, di rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente». In particolare, è stata chiamata a pronunciarsi sulla detraibilità, dal quantum dovuto al lavoratore, dell’aliunde perceptum consistente nella retribuzione versata dal cessionario. Si registra, inoltre, a distanza di un mese dalla decisione della Corte di appello, una prima sentenza della Cassazione che ha applicato gli esiti della pronuncia della Corte costituzionale a un caso di trasferimento di azienda dichiarato illegittimo21.
consentito alla C. cost. di evitare la restituzione degli atti, che presuppone che sia intervenuta una modifica normativa che incide sulla questione prospettata dal giudice a quo, e ha consentito altresì di evitare una pronuncia di inammissibilità sul presupposto che la questione si fondi su un erroneo presupposto interpretativo, essendo nelle more mutata proprio la lettura delle disposizioni. 20 Ma si segnalano alcune sentenze interpretative di accoglimento che hanno prescisso da una precedente sentenza interpretativa di rigetto (C. cost., 16 marzo 2007, n. 78 e C. cost., 19 novembre 2008, n. 395). 21 Cass., 3 luglio 2019, n. 17784, in DeJure, che esprime il seguente principio di diritto: «In caso di cessione di ramo d’azienda, ove su
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Le due decisioni si snodano lungo un iter argomentativo similare.
4.1. La questione della (non) detraibilità dell’aliunde perceptum… Alla questione della detraibilità dell’aliunde perceptum dalla somma dovuta dal cedente al lavoratore a seguito della sua mancata riammissione in servizio, tanto la Corte d’appello quanto la Cassazione offrono una risposta di segno negativo sulla base di quattro argomenti. In prima battuta, l’affermata natura retributiva del credito del lavoratore porta i due Collegi a escludere in generale l’applicabilità dell’istituto della compensatio lucri cum damno, che consentirebbe la detraibilità del corrispettivo versato dal cessionario. L’istituto, infatti, trova applicazione solo alle ipotesi di risarcimento del danno, quando è possibile e necessario determinare il pregiudizio effettivamente subìto dal debitore22. In secondo luogo, viene esclusa la possibilità di ricorrere a quanto disposto, oggi, dall’art. 38, comma 3, d.lgs. n. 81/2015, che con riguardo alla somministrazione irregolare (nonché all’appalto illegittimo, per il tramite dell’art. 29, comma 3 bis, d.lgs. n. 276/2003) prevede che i pagamenti effettuati a titolo di retribuzione e contribuzione dal somministratore valgano a liberare l’utilizzatore che ha beneficiato della prestazione lavorativa. La suddetta disposizione, infatti, si presenta come norma speciale, non suscettibile di essere applicata in via di analogia a fattispecie diverse. Viene, poi, vagliata la possibilità di far ricorso a quanto disposto dall’art. 1180 c.c., a mente del quale «L’obbligazione può essere adempiuta da un terzo anche contro la volontà del creditore, se questi non ha interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione». Secondo i ricorrenti, la fattispecie in esame sarebbe riconducibile all’istituto dell’adempimento del terzo sul presupposto dell’unicità del rapporto giuridico, con la conseguenza che il cedente sarebbe liberato dall’obbligazione retributiva, una volta che essa sia stata soddisfatta dal cessionario. La Corte d’appello, tuttavia, rifiuta una simile prospettazione della quale non condivide proprio l’assunto di fondo. Secondo il Collegio, infatti, l’unicità del rapporto obbligatorio intercorrente fra lavoratore e cedente prima e fra lavoratore e cessionario poi, si verifica esclusivamente quando il trasferimento d’azienda sia legittimo; tutte le volte in cui il trasferimento presenta tratti di illegittimità, invece, l’unicità viene meno e il rapporto fra lavoratore e cessionario assume la forma del rapporto di fatto, governato dall’art. 2126 c.c. Del resto, è questa la posizione che la Cassazione ha assunto in modo prevalente (valutando l’incidenza di vicende risolutive del contratto con il cessionario, sul rapporto
domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa». 22 Per una critica al ricorso allo schema della compensatio lucri cum damno già Ghezzi, La mora, cit., 168; Alleva, L’evoluzione della disciplina dei licenziamenti individuali dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, allo statuto dei lavoratori, in RDL, 1971, I, 93; Ghera, Liso, (voce) Mora, cit.
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giuridico con il cedente quiescente per l’illegittima cessione)23, ribadito nella sentenza n. 17784/2019 e argomentato, benché a contrario, nella decisione n. 2990/2018 assunta a sezioni unite. Ivi, infatti, si fa riferimento all’effetto liberatorio del pagamento del terzo, datore di lavoro fittizio, ai sensi dell’art. 1180 c.c., con riguardo al caso di interposizione di manodopera illegittima, che ricade, si è visto, nella regola originariamente scritta nell’art. 27, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, ma alla quale non è riconducibile il caso del trasferimento d’azienda illegittimo. Nel caso dell’interposizione di manodopera, l’obbligazione è unica e consiste nella retribuzione dovuta per la prestazione lavorativa resa; il terzo che adempie l’obbligazione è il datore di lavoro fittizio (somministratore o appaltatore), mentre l’unico soggetto tenuto a corrispondere la retribuzione è colui che ha beneficiato della prestazione lavorativa (utilizzatore o appaltante); pertanto il pagamento del primo libera il secondo dall’unica obbligazione esistente. Nel caso del trasferimento di azienda illegittimo, invece, il cessionario non è il terzo che ha adempiuto l’obbligazione per il creditore, ma è esso stesso creditore del lavoratore della cui prestazione lavorativa ha beneficiato, mentre il cedente rimane creditore della retribuzione dovuta per la prestazione offerta dal lavoratore, ma non ricevuta. L’assetto così ricostruito consente alla Corte di appello di escludere anche l’applicabilità dell’art. 2036 c.c., e, dunque, la ripetibilità da parte del cessionario di quanto corrisposto al lavoratore. Nel caso del trasferimento di azienda illegittimo, infatti, il debito pagato dal cedente non è “altrui”, bensì proprio, ex art. 2126 c.c., quale beneficiario della prestazione lavorativa. In definitiva al lavoratore che, a seguito dell’accertata illegittimità del trasferimento d’azienda, continui a prestare la propria attività lavorativa in favore del cessionario senza che il cedente, al quale abbia offerto la propria prestazione, lo riammetta in servizio, spettano due retribuzioni: l’una - ex art. 2126 c.c. - dal cessionario (datore di lavoro di fatto) per la prestazione resa, l’altra - ai sensi del combinato disposto degli artt. 2016, 2017 e 2117 c.c. come interpretato dalle sezioni unite della Cassazione e dalla Corte costituzionale - dal cedente (datore di lavoro di diritto) per la prestazione offerta anche se non ricevuta. Per la Corte d’appello questa rigorosa, e condivisibile, conclusione ha un significato ben preciso, che viene espresso nella sentenza in modo articolato: assicurare l’effettività e l’autoritatività della tutela giurisdizionale (art. 24 e 111 Cost.), da cui dipende, nel caso di specie, il controllo della fattispecie “trasferimento d’azienda”. Imputare l’obbligazione retributiva in capo al cedente che non riammetta in servizio il lavoratore, infatti, consente di escludere che cedente e cessionario possano aggirare la sentenza che accerta l’illegittimità del trasferimento (ad esempio stringendo accordi capaci di neutralizzarne gli effetti) e ga-
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Da ultimo, ex plurimis, Cass., 12 marzo 2018, n. 5854, in DeJure. In senso contrario, però, cfr. Cass., 31 maggio 2018, n. 14019, in DeJure: «(…) una ed una sola essendo la prestazione lavorativa che il lavoratore svolge nel ramo (illegittimamente) ceduto, il pagamento della relativa retribuzione da parte del cessionario costituisce un pagamento consapevolmente effettuato da un soggetto che non è il vero creditore della prestazione, e dunque un adempimento del terzo, cui consegue la liberazione del vero obbligato, in applicazione del medesimo principio generale previsto dall’art. 1180 c.c., comma 1. Con la conseguenza che il lavoratore non potrà ottenere dal cedente la medesima retribuzione già corrispostagli dal cessionario, ma solo le differenze rispetto a quanto avrebbe percepito alle dipendenze del primo»; Cass., 1° giugno 2018, n. 14136, in DeJure. Sull’unicità del rapporto giuridico v. anche Cass., 9 settembre 2014, n. 18955, cit.
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rantisce che sia ripristinata la lex contractus, mettendo così al riparo «i valori costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.) da ogni altro potere, ivi compreso quello economico di una delle parti del processo».
4.2. …e quella dell’efficacia (sostanziale) anticipata della sentenza. A fronte di un così mutato assetto della tutela spettante al lavoratore coinvolto in un trasferimento d’azienda illegittimo, la Corte d’appello ritiene necessario intervenire anche sul termine a partire dal quale il cedente è tenuto a corrispondere la retribuzione, prendendo posizione sulla questione dell’efficacia (sostanziale) della sentenza che accerta la nullità della cessione d’azienda. La Corte muove dalla constatazione che, secondo l’orientamento consolidato di dottrina e giurisprudenza, la sentenza di accertamento non produce effetti sui rapporti giuridici interessati fino al suo passaggio in giudicato, non essendo suscettibile di efficacia anticipata ex art. 282 c.p.c.24. La ricostituzione del rapporto di lavoro in capo al cedente susseguente a una sentenza che accerti l’illegittimità del trasferimento avverrebbe, perciò, solo al momento del passaggio in giudicato della pronuncia, con la conseguenza che fino a quel momento il datore di lavoro sarebbe obbligato al solo risarcimento del danno per illegittimo allontanamento del lavoratore dal suo originario posto di lavoro, con ciò che ne consegue in termini di detraibilità dell’aliunde perceptum. La Corte d’appello ritiene di doversi discostare nel caso di specie da questa interpretazione, per combinare il regime processuale della sentenza di accertamento con la disciplina sostanziale della nullità. Perciò distingue «il momento in cui si produce l’effetto processuale della sentenza (dichiarativa), che è quello del suo passaggio in giudicato, dal momento di decorrenza dell’effetto sostanziale (di accertamento e ripristinatorio), che è quello del compimento dell’atto nullo», con la conseguenza che, con il passaggio in giudicato della sentenza, l’inefficacia conseguente alla nullità della cessione decorre ex tunc. Secondo la Corte, l’opposta soluzione interpretativa (applicata al caso di specie) sarebbe sospetta di incostituzionalità per contrasto con l’art. 3 Cost. La sentenza che accerta la nullità del trasferimento, infatti, presenta tratti di analogia sia con la sentenza che accerta la nullità del termine apposto al contratto, sia con la sentenza che accerta la irregolarità dell’appalto. Rispetto alla prima fattispecie, la Consulta – come già si è avuto modo di ricordare - ha precisato che la lettura conforme a Costituzione dell’art. 32, comma 5, legge n. 183/2010 (confermata dallo stesso legislatore con l’art. 1, comma 13, legge n. 92/2012, che ne fornisce l’interpretazione autentica) è quella che limita l’indennità risarcitoria al periodo c.d. intermedio che va dalla scadenza del termine fino alla sentenza, anche di
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Cfr. Cass., 25 maggio 2018, n. 19751, in DeJure; Cass., 15 novembre 2013, n. 25743, in DeJure; Cass., 26 marzo 2009, n. 7369, in FI, 2009, 10, I, 2699. V. anche Cass., 10 novembre 2004, n. 21367 (in Ilcivilista, 2011, 6, 65, con nota di Penuti) che, tuttavia, riconosce efficacia anticipata “per trascinamento” alle sentenze di accertamento che accedano a sentenze di condanna. In senso contrario Trib. Trani, 16 settembre 2008 e Trib. Bari, 3 luglio 2007 n. 1743 entrambe in DeJure.
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primo grado, che ne accerti la nullità, sorgendo per il periodo successivo – anche prima del passaggio in giudicato – l’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro25. Quanto al caso dell’appalto è stata la Cassazione a sezione unite, nella ricordata sentenza, a statuire che un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 29 vuole che l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni sorga dal momento della messa in mora con l’offerta della prestazione lavorativa26. La Corte, in definitiva, riconosce un’efficacia sostanziale anticipata anche alla sentenza che accerta l’illegittimità del trasferimento, lasciando che i suoi effetti decorrano fin dal momento della pronuncia, anziché dal suo passaggio in giudicato. Maria Luisa Vallauri
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C. cost., 11 novembvre 2011, n. 303, cit. Cass., sez. un., 7 febbraio 2018, n. 29, cit.
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Giurisprudenza C orte di Cassazione , ordinanza 17 giugno 2019, n. 16163; Pres. Manna – Est. D’Antonio – P.M. Visonà (concl. conf.) – INPS (avv. Coretti) c. A.S. Previdenza sociale – Assegno di maternità di base – Cittadine extracomunitarie – Necessità del permesso unico di soggiorno – Disparità di trattamento – Questione di legittimità costituzionale – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
Deve dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D. Lgs. n. 151 del 2001, art. 74, in relazione agli artt. 3 e 31 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nella parte in cui richiede ai soli cittadini extracomunitari, ai fini dell’erogazione dell’indennità di maternità, anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno, in applicazione della disposizione generale contenuta nel D. Lgs. n. 286 del 1998, art. 41. (1) C orte di Cassazione, ordinanza 17 giugno 2019, n. 16164; Pres. Manna – Est. D’Antonio – P.M. Visonà (concl. conf.) – INPS (avv. Coretti) c. G.F. (avv. Guariso). Previdenza sociale – Assegno di natalità – Cittadine extracomunitarie – Necessità del permesso unico di soggiorno – Disparità di trattamento – Questione di legittimità costituzionale – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
Deve dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, in relazione agli artt. 3 e 31 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nella parte in cui, ai fini dell’erogazione dell’assegno di natalità, richiede ai soli cittadini extracomunitari anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno, in applicazione della disposizione generale contenuta nel D. Lgs. n. 286 del 1998, art. 41. (2) (1) Rilevato in fatto. – 1. La Corte d’Appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale che aveva riconosciuto ad A.S., cittadina macedone residente a Firenze, l’assegno di maternità D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 74 per la nascita della bambina, cittadina italiana in quanto figlia di padre italiano. L’assegno era stato negato dall’INPS perchè in Italia A.S. aveva soltanto un permesso per motivi familiari di durata biennale e non la carta di soggiorno e non poteva neppure definirsi familiare di cittadino comunitario ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 2. Invece la Corte territoriale, ri-
levato che la A. era convivente con il padre italiano della bambina e iscritta all’anagrafe nella medesima famiglia, ha ricondotto tale situazione sotto la previsione di cui al cit. D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 2, lett. B) n. 2, relativa al “partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata”. Trattandosi di tutelare la maternità, secondo la Corte d’appello la norma citata doveva interpretarsi nel senso più ampio possibile e in modo tale da avere un significato nel nostro ordinamento; che, pertanto, nel caso concreto la A. al momento della domanda amministrativa aveva diritto alla carta di soggiorno per i familiari del cittadi-
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no comunitario, essendo irrilevante che detta carta non le fosse stata ancora rilasciata (il che era poi avvenuto il 19/5/2015) e che, per di più, tale carta le poteva essere rilasciata anche quale ascendente diretta di cittadina italiana. 2. Contro la sentenza ha proposto ricorso l’INPS con un solo motivo. La A. è rimasta intimata. La Procura generale ha concluso chiedendo sollevarsi questione di legittimità costituzionale. Ritenuto in diritto. – 3. Con l’unico motivo di ricorso l’INPS denuncia violazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 74 e del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 2 affermando sia l’inapplicabilità di tale ultima fonte al caso in esame sia l’infondatezza dell’interpretazione accolta dalla Corte territoriale con riferimento alla nozione di familiare. 4. Questa Corte ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 74 nella parte in cui, per gli stranieri extracomunitari, subordina il diritto a percepire l’indennità di maternità al possesso della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno UE per soggiornanti lungo periodo), violando tale precetto le disposizioni di cui agli artt. 3 e 31, nonchè art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione agli artt. 20,21,24,31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 5. In punto di rilevanza, si consideri che il tenore letterale di quest’ultima norma, là dove riconosce l’assegno di maternità anche alle madri cittadini di paesi extracomunitari purchè in possesso di carta di soggiorno ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 9, carta di soggiorno di cui la A. non disponeva all’epoca dei fatti per cui è causa, è tale da non consentire interpretazioni estensive costituzionalmente conformi. In proposito si tenga presente che la A., cittadina macedone residente a Firenze, titolare di permesso di soggiorno per motivi familiari, ha chiesto, quale genitore della minore S.M., nata a – Omissis. e cittadina italiana in quanto figlia di padre italiano, la concessione dell’assegno di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 74 documentando la propria posizione reddituale e dichiarando di non essere beneficiaria di trattamenti previdenziali di maternità a carico dell’INPS. L’Istituto le aveva negato la prestazione con comunicazione del 4/12/2013, in quanto non titolare di permesso per lungo soggiornanti, pur essendo invece in possesso degli altri requisiti e, in particolare, di quello reddituale. 6. La Corte territoriale ha accolto la domanda con argomenti che poggiano su un’interpretazione della norma non condivisibile in base alla quale la prestazione poteva essere riconosciuta alla ricorrente A. quale familiare di cittadino comunitario ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 1, lett. B). A prescindere dalla questione, solo ipotizzata da parte dell’INPS senza adeguata motivazione, dell’inapplicabilità del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 1, la fattispecie in esame non è riconducibile nè alla
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figura di familiare di cui al n. 2 nè a quella successiva di cui al n. 4) della disposizione citata. La prima si riferisce agli “ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lettera B”. La ricorrente, infatti, pur essendo ascendente di cittadina italiana la figlia come sopra detto è cittadina italiana- sicuramente non è carico di questa, considerato che trattasi di neonata. Nè è configurabile la seconda ipotesi di cui al n. 4, che individua “il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante”. La lettera della norma è chiara nel richiedere la presenza di un’unione registrata secondo la legislazione degli stati e, pertanto, la mera convivenza con il padre italiano della bambina non è riconducibile all’ipotesi ben specifica considerata dalla norma. 7. La questione di costituzionalità, come sopra prospettata, che qui si intende sottoporre all’esame della Corte Costituzionale è, pertanto, rilevante attesa la necessità di diretta applicazione della norma, come invocata dalla ricorrente A.. Non vi è dubbio, infatti, che qualora si dovesse fare applicazione della disposizione appena citata, la domanda della cittadina extracomunitaria dovrebbe essere rigettata perchè è pacifico che, pur essendo presenti gli ulteriori presupposti richiesti dalla norma per l’erogazione della prestazione, la A. non è titolare del permesso di lungo soggiorno D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 9, ma solo di permesso di soggiorno per motivi familiari – Omissis. 10. Circa la non manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale, va rilevato che l’indennità in esame costituisce prestazione assistenziale erogata dall’INPS, una tantum, in mancanza di altre prestazioni collegate alla maternità e in favore di situazioni familiari meno agiate. Ove il genitore sia cittadino extracomunitario, si richiede l’ulteriore requisito della titolarità del permesso di lungo soggiorno D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 9, con la conseguenza che la prestazione può essere erogata solo ai cittadini extracomunitari che, ai fini dell’ottenimento del permesso in questione, abbiano dimostrato di disporre di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 29, comma 3, lettera b), nonchè di un alloggio idoneo e di aver superato un test di conoscenza della lingua italiana. 11. A fronte di ciò, e segnatamente della limitazione dei possibili beneficiari in ragione della fruizione di redditi modesti o addirittura estremamente bassi, non pare seriamente dubitabile che la prestazione in esame costituisca un sostegno economico in un momento in cui le esigenze della persona sono maggiori, sostegno finalizzato a soddisfare bisogni essenziali collegati alla
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nascita o all’adozione di un bambino, in un contesto caratterizzato da redditi bassi, rappresentando un aiuto che può essere determinante al fine di evitare che una madre possa trovarsi, al momento del parto, in condizioni di povertà assoluta. 12. La disposizione suscita il dubbio di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza e della disparità di trattamento, dell’art. 31 Cost. e dell’art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione agli artt. 20,21,24,31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. 13. Sotto il profilo della possibile violazione dell’art. 3 Cost. la norma appare introdurre un’ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri, legalmente soggiornanti in Italia, prevedendo solo per i secondi l’ulteriore requisito di essere in possesso della carta di soggiorno, ora soggiornanti di lungo periodo, escludendo, contraddittoriamente, dalla fruizione della medesima prestazione sociale, pur a fronte di situazioni di parità di bisogno, intere categorie di soggetti, selezionati non in base all’entità o alla natura del bisogno, ma ad un criterio privo di ogni collegamento con questo, quale la titolarità del permesso di lungo soggiorno che presuppone una durata pregressa della residenza in Italia almeno quinquennale, un reddito comunque almeno pari all’importo dell’assegno sociale, un alloggio idoneo e la conoscenza della lingua italiana: determinando, con ciò, l’esclusione di chi si trovi in situazione di maggior bisogno rispetto a tale categoria e disparità di trattamento tra situazioni identiche o analoghe, lesive del principio di eguaglianza. Non appare, invero, sussistere alcuna ragionevole correlazione tra la residenza protratta nel tempo e la funzione della prestazione in esame avente il ruolo di sostegno economico volto a soddisfare bisogni immediati e indifferibili, a fronteggiare esigenze primarie legate alla nascita di un bambino o alla sua adozione, poco influenzati dalla sussistenza o meno del radicamento nel territorio dello stato. 14. Inoltre, la disposizione in esame non si raccorda in alcun modo con la previsione contenuta nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 41 (disposizione appartenente all’insieme di norme contenute nel t.u. che l’art. 1, comma 4, definisce “norme fondamentali di riforma economicosociale della Repubblica”) che, riconosce in linea generale parità di trattamento, rispetto ai cittadini italiani, in materia di assistenza sociale ai cittadini extracomunitari titolari di permesso di soggiorno e di lavoro validi per almeno un anno. Si osservi che, comunque, la previsione dell’art. 41 citato, nel prevedere una permanenza almeno annuale, esclude eventuali timori di erogazione dell’assegno anche a favore di stranieri solo del tutto momentaneamente in Italia. 15. Neppure le considerazioni svolte nella recente sentenza della Corte Costituzionale n. 50 del 2019, in tema di legittimità costituzionale della L. n. 388 del
2000, art. 80, comma 19, nella parte in cui subordina il diritto a percepire l’assegno sociale, per gli stranieri extracomunitari alla titolarità della carta di soggiorno (ora permesso di lungo soggiorno) pare possa risolvere il dubbio di costituzionalità relativo alla norma in esame. Infatti, in tale occasione, il soddisfacimento di tale condizione per il solo straniero extracomunitario è stata ritenuta non irragionevole in base al fatto che l’assegno sociale è misura che, rivolgendosi a chiunque abbia compiuto 65 anni di età, persegue finalità peculiari e diverse rispetto a quelle proprie delle misure di assistenza legate a specifiche esigenze di tutela sociale della persona che non tollerano discriminazioni, come nel caso delle invalidità psicofisiche. Ha, in particolare, affermato la Corte Costituzionale, nella sentenza da ultimo citata, citata che “ (...) Tali persone ottengono infatti, alle soglie dell’uscita dal mondo del lavoro, un sostegno da parte della collettività nella quale hanno operato (non a caso il legislatore esige in capo al cittadino stesso una residenza almeno decennale in Italia), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.)”. Nella citata pronuncia si è, tuttavia, specificato che “la Costituzione impone di preservare l’uguaglianza nell’accesso all’assistenza sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini extracomunitari dall’altro, soltanto con riguardo a servizi e prestazioni che, nella soddisfazione di “un bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale” (sentenza n. 222 del 2013), riflettano il godimento dei diritti inviolabili della persona. Per questa parte, infatti, la prestazione non è tanto una componente dell’assistenza sociale (che l’art. 38 Cost., comma 1, riserva al “cittadino”), quanto un necessario strumento di garanzia di un diritto inviolabile della persona (art. 2 Cost.)”. Sembra invero che la tutela della maternità anche sotto il profilo del sostegno economico al momento della nascita possa rientrare nella definizione di cui sopra, cui secondo la Corte Costituzionale, deve essere subordinata la parità di trattamento. Decisiva risulta essere, a riguardo, la considerazione che la maternità gode di una diretta tutela costituzionale. 16. Il profilo di irragionevolezza appena illustrato e la disparità di trattamento che ne consegue, in definitiva, dovrebbero condurre alla declaratoria di incostituzionalità, per violazione dell’art. 3 Cost., della L. n. 151 del 2001, art. 74 nella parte in cui richiede ai soli cittadini extracomunitari ai fini dell’erogazione dell’indennità di maternità anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anzichè la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno in applicazione della disposizione generale contenuta nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 41, norma che rappresenta l’equilibrato bilanciamento tra il diritto dell’extra comunitario di fruire, a parità di trattamento con i cittadini italiani, delle misure di assistenza sociale ed il riscontro di una
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presenza dello stesso non temporanea nè episodica sul territorio nazionale. 17. La norma in esame deve essere valutata anche in relazione all’art. 31 Cost. giacchè l’irragionevole disparità di trattamento, che genera la norma denunciata nei riguardi dei cittadini extracomunitari, produce anche l’effetto di violare i diritti protetti dall’art. 31 Cost., laddove la Repubblica si è fatta carico di agevolare con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e di proteggere la maternità e l’infanzia. La maternità, in quanto oggetto di specifica tutela costituzionale, non può restare priva di ogni forma di tutela come avverrebbe per le ipotesi a cui si riferisce l’art. 74 in esame, da inserirsi nel quadro dei diritti fondamentali della persona. E’ evidente, infatti, che la richiesta della titolarità del permesso di lungo soggiorno per l’erogazione di un sostegno economico al momento della nascita del bambino o della sua adozione impedisce di fatto e irrimediabilmente la realizzazione della garanzia costituzionale per quei figli e per quelle famiglie in cui nessuno dei genitori è in possesso del permesso di lungo soggiorno, pur trovandosi le stesse famiglie in modo non episodico o temporaneo a risiedere in territorio nazionale e vivendo nelle medesime, se non peggiori, condizioni economiche. L’effetto, inevitabile, pare essere quello di negare per tali nuclei familiari e per i loro nuovi nati, in radice e irrimediabilmente, la realizzazione del diritto sancito dalla Costituzione con effetti disgreganti del tessuto sociale della nazione nel nucleo originario ed essenziale della famiglia. 18. Quanto ai profili comunitari va rilevato che la norma in esame pare violare anche l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione agli artt. 20, 21, 24, 33 e 34 CDFUE, che, rispettivamente, enunciano il principio di uguaglianza e il divieto di discriminazioni, anche per cittadinanza, riconoscono il diritto dei bambini “alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere”, garantiscono “la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale” nonchè riconoscono “il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione”. Non è invece qui richiamabile, come prima si è precisato, la direttiva 2011/98 – Omissis.
(2) Rilevato in fatto. – 1. La Corte d’appello di Brescia ha confermato l’ordinanza emessa dal Tribunale, ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, che aveva dichiarato la natura discriminatoria della condotta tenuta dall’Inps, il quale aveva negato a G.F., cittadina extracomunitaria titolare di permesso di soggiorno per motivi familiari, il diritto all’assegno di natalità previsto dalla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, in quanto non soggiornante di lungo periodo, come richiesto dalla norma. La Corte ha esposto che l’art. 12 della direttiva comunitaria del 2011/98- volta a garantire la parità di trat-
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tamento ai cittadini di paesi terzi ammessi in uno stato membro a fini diversi dal lavoro ai quali è consentito lavorare nonchè ai cittadini dei paesi terzi ammessi in uno stato membro a fini lavorativi con i lavoratori cittadini dello stato membro in cui soggiornano – non aveva trovato attuazione nel termine fissato agli stati membri per adeguarsi e che, tuttavia, la norma era di portata chiara ed incondizionata dovendo, pertanto, trovare diretta applicazione con conseguente disapplicazione della norma nazionale con essa contrastante. La Corte, quindi,richiamato il citato art. 12 della direttiva, in particolare per quanto concerneva il settore della sicurezza sociale come definito nel regolamento CE n. 883/2004, (lett. e) nonchè le ipotesi in cui gli stati membri potevano limitare la parità di trattamento (art. 12, n. 2),ha esposto che la prestazione in oggetto ricadeva nell’ambito della sicurezza sociale, oggetto del regolamento comunitario richiamato dalla direttiva, perchè diretta a tutelare economicamente la maternità e la paternità ed era corrisposta in modo automatico senza discrezionalità, nè la ricorrente rientrava tra le eccezioni previste alla parità di trattamento di cui al punto 2 della norma comunitaria. La Corte territoriale ha concluso, pertanto, ritenendo discriminatorio il comportamento dell’Inps che aveva negato l’assegno pur sussistendo gli altri requisiti previsti dalla norma ai fini dell’erogazione del beneficio. 2. Avverso la sentenza ricorre l’Inps con un motivo. Resiste la G.F.. Entrambe le parti hanno depositate memorie ex art. 378 c.p.c. – Omissis. Considerato in diritto. – 1. Ritiene il Collegio, dovendosi escludere che il ricorso sia inammissibile per difetto di specificità del motivo in ragione della piena idoneità dei vizi di violazione di legge prospettati ad incrinare la ricostruzione giuridica seguita dalla sentenza impugnata, che la questione prospettata importi innanzi tutto la necessità di verificare la legittimità costituzionale della L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, in relazione agli artt. 3 e 31 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, quest’ ultimo in relazione agli artt. 20,21,24,31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 2. Il testo della L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, prevede: “Al fine di incentivare la natalità e contribuire alle spese per il suo sostegno, per ogni figlio nato o adottato tra il 1 gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 è riconosciuto un assegno di importo pari a 960 Euro annui erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione. L’assegno, che non concorre alla formazione del reddito complessivo di cui all’art. 8 del testo unico di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, è corrisposto fino al compimento del terzo anno di età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione, per i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione Europea o di cittadini di Stati extracomunitari con per-
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messo di soggiorno di cui all’art. 9 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, residenti in Italia e a condizione che il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l’assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), stabilito ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159, non superiore a 25.000 Euro annui. L’assegno di cui al presente comma è corrisposto, a domanda, dall’INPS, che provvede alle relative attività, nonchè a quelle del comma 127, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. Qualora il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l’assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell’ISEE, stabilito ai sensi del citato regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013, non superiore a 7.000 Euro annui, l’importo dell’assegno di cui al primo periodo del presente comma è raddoppiato”. 3. Rilevanza della questione di costituzionalità. Il presente giudizio è stato introdotto dall’attuale controricorrente denunciando la natura oggettivamente discriminatoria della negazione, da parte dell’INPS, dell’assegno di natalità di cui sopra in ragione del possesso del permesso unico di lavoro anzichè di quello di lungo soggiorno D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 9. In particolare, è stato fatto valere il dritto a beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato italiano per quanto concerne l’erogazione dell’assegno di cui alla L. n. 190 del 2014, art. 1, commi 125 - 129, in applicazione del disposto dell’art. 12, paragrafo 1, lett. e) della direttiva UE 2011/98, con richiesta di non applicazione del disposto della norma il cui testo, invece, la esclude, ritenendola incompatibile con il diritto Europeo. 4. E’ evidente che il chiaro tenore testuale della L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, dimostra che il carattere in sè lesivo del diritto a non subire disparità di trattamento è da verificare innanzi tutto nella previsione di legge che ha introdotto l’assegno di natalità, selezionando i beneficiari in ragione di requisiti diversi a seconda della nazionalità, essendo la condotta dell’INPS solamente applicativa di tale disposto. 5. Inoltre, avendo la G.F. chiesto la condanna dell’INPS all’erogazione dell’assegno di natalità quale concreta misura idonea ad eliminare gli effetti della discriminazione ed avendo, in sede di legittimità, il ricorrente denunciato vizio di violazione di legge incentrato sulla affermata erronea interpretazione di tale disposizione in relazione alle previsioni della direttiva UE 2011/98, la concreta rilevanza della questione di legittimità costituzionale che la involge è evidente, non potendo la Corte di cassazione fare a meno di vagliare la L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, al fine di risolvere la questione oggetto di giudizio.
6. Non vi è dubbio, inoltre, che qualora si dovesse fare applicazione della disposizione appena citata, la domanda della cittadina extracomunitaria sarebbe rigettata perchè è pacifico che, pur essendo presenti gli ulteriori presupposti richiesti, la G.F. non è titolare del permesso di lungo soggiorno D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 9. Nè l’inequivocabile tenore letterale della L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, – che per i cittadini extracomunitari espressamente condiziona il diritto all’assegno de quo, fra gli altri requisiti, al permesso di soggiorno di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 9, – è suscettibile di estensione in via di interpretazione costituzionalmente conforme (donde la necessità di investire il giudice delle leggi). 7. Detta rilevanza, peraltro, non è impedita dalla pur concreta possibilità di procedere alla disamina del motivo di ricorso privilegiando la finalità, perseguita dai giudici di merito, diretta esclusivamente alla verifica di compatibilità della norma denunciata con la previsione dell’art. 12, paragrafo 1 lett. e), della direttiva UE 2011/98, che impone la parità di trattamento in favore dei “lavoratori dei paesi terzi di cui all’art. 3 paragrafo 1, lett. b) e c)” e che, ove l’incompatibilità si evidenzi anche previo ricorso pregiudiziale alla CGUE, conduce all’inapplicabilità alla fattispecie in esame del disposto della L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, in ragione del principio di prevalenza del diritto Eurounitario sul diritto nazionale. 8. Va infatti osservato che l’interpretazione della citata disposizione, sollecitata, ancor prima che dal motivo di ricorso per cassazione, dalla stessa denuncia degli effetti discriminatori insiti nella disposizione formulata dalla ricorrente in primo grado, importa la necessaria disamina della conformità a Costituzione della disposizione in esame che richiama, testualmente, il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 9, e, quindi, il sistema normativo che disciplina la materia dei permessi di soggiorno e dei diritti riguardanti i cittadini stranieri delineato dal citato testo unico che, attraverso le modifiche apportate dai due articoli del D.Lgs. n. 40 del 2014, ha pure recepito la direttiva UE 2011/98. 9. Nel caso di specie, ritiene il Collegio che il peculiare meccanismo di funzionamento della non applicazione della disposizione contenuta nella L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, ovviamente limitato all’inciso che richiede per cittadini extra comunitari anche il possesso di permesso di lungo soggiorno, non possa realizzare effetti analoghi a quelli derivanti dalla pronuncia di incostituzionalità per violazione degli artt. 3 e 31 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, quest’ ultimo in relazione agli artt. 20,21,24,31 e 34, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE). 10. Solo in sede di giudizio costituzionale è possibile, infatti, valutare la ragionevolezza della scelta discrezionale legislativa, frutto di bilanciamento dei contrapposti interessi e considerare, come si dirà più approfonditamente in sede di giudizio di non manifesta
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infondatezza, gli indici normativi che avrebbero dovuto condurre il legislatore a riconoscere quale unico criterio selettivo giustificato e ragionevole il possesso della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 41, quale espressione di un principio generale, al fine di riconoscere ai titolari la piena equiparazione ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale. 11. Ad avviso del Collegio, per tali ragioni legate ai diversi effetti che potrebbero derivare dalla pronuncia della Corte Costituzionale rispetto al sistema al cui interno si colloca la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale, l’applicabilità alla fattispecie della direttiva UE 2011/98 non determina l’irrilevanza della questione di costituzionalità e la stessa va subito sollevata. 12. Ciò è in sintonia con quanto affermato dalla più recente giurisprudenza costituzionale (Corte Costituzionale n. 63 del 2019), secondo la quale “(...) ove il giudice a quo ha inteso formulare in termini chiari e definitivi le questioni sottoposte all’esame di questa Corte, occorre in questa sede ribadire - sulla scorta dei principi già affermati nelle sentenze n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019 - che a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia per il tramite dell’art. 11 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, - alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e - ricorrendone i presupposti - di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta (..). Laddove però sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con l’art. 11 Cost., e art. 117 Cost., comma 1), con conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione”. 13. Non manifesta infondatezza. La L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, riferito ai nuovi nati o adottati tra il primo gennaio 2015 ed il 31 dicembre 2017, è una misura che concorre a formare il sistema dei sostegni sociali alla genitorialità. 14. Il beneficio consiste nell’erogazione di un assegno, da parte dell’Inps, nell’arco dei primi tre anni di vita per ciascun figlio nato o adottato da genitori residenti
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sul territorio nazionale che abbiano redditi non superiori ad Euro 25000 secondo gli indicatori ISEE. Laddove, però, i genitori siano cittadini extra comunitari, si richiede l’ulteriore requisito della titolarità del permesso di lungo soggiorno D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 9, con la conseguenza che la prestazione può essere erogata solo ai cittadini extracomunitari, che ai fini dell’ottenimento del permesso in questione, abbiano dimostrato di disporre di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 29, comma 3, lett. b), nonchè di un alloggio idoneo e di aver superato un test di conoscenza della lingua italiana. 15. L’onere finanziario relativo all’erogazione dell’assegno è esclusivamente a carico dello Stato e, come afferma la stessa disposizione, la misura persegue la finalità di “incentivare la natalità” e di “contribuire alle spese per il suo sostegno”. 16. A fronte di ciò, e segnatamente della limitazione dei possibili beneficiari in ragione della fruizione di redditi modesti o addirittura estremamente bassi, non pare seriamente dubitabile che si tratti di misura soprattutto tesa al sostegno delle famiglie in condizioni economiche non agiate (qualora non si superi il tetto di 25000 Euro annui) o addirittura in stato di bisogno (per l’ipotesi di redditi non superiori a 7000 Euro annui). 17. Peraltro, il D.P.C.M. 27 febbraio 2015, art. 5, emanato per dare attuazione alla misura, prevede la decadenza dal beneficio in ragione della perdita, durante il triennio, dei requisiti economici posseduti al momento di presentazione della domanda, di decesso del figlio o di perdita della responsabilità genitoriale. 18. In altri termini si tratta di prestazione di assistenza sociale di contenuto economico realizzante uno degli interventi finalizzati alla valorizzazione ed al sostegno delle responsabilità familiari, così come previsto, in applicazione dei principi costituzionali fissati dagli artt. 2 e 3 Cost., dalla L. n. 328 del 2000, all’art. 16. 19. La disposizione si caratterizza per l’adozione di un criterio di selezione dei beneficiari affidato a ragioni di nazionalità e di contemporanea presenza di condizioni economico-sociali peculiari - compendiate nel rinvio al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 9 - relative ai soli cittadini extracomunitari, essendo invece comuni a cittadini Europei ed extracomunitari gli ulteriori requisiti dell’attualità della residenza in Italia e della percezione di redditi non superiori alle modeste soglie sopra indicate. 20. In sostanza, la fruizione dell’assegno risulta, per testuale previsione di legge e senza che possa sperimentarsi alcuna diversa interpretazione che eviti l’oggettiva disparità di trattamento, esclusa nei confronti dei nati o degli adottati tra il primo gennaio 2015 ed il 31 dicembre 2017 da genitori cittadini extracomunitari che fruiscono di redditi non superiori ad Euro 7000 o ad Euro 25000, sono legalmente residenti in Italia in base ad idoneo permesso di soggiorno e lavoro, ma non risulta-
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no titolari del permesso di lungo soggiornanti di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 9. 21. Inoltre, la disposizione in esame non si raccorda in alcun modo con la previsione contenuta nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 41, (disposizione appartenente all’insieme di norme contenute nel t.u. che l’art. 1, comma 4, definisce “norme fondamentali di riforma economicosociale della Repubblica”) che riconosce in linea generale parità di trattamento, rispetto ai cittadini italiani, in materia di assistenza sociale ai cittadini extracomunitari titolari di permesso di soggiorno e di lavoro validi per almeno un anno. 22. La disposizione suscita il dubbio di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza e della disparità di trattamento, dell’art. 31 Cost., dell’art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione agli artt. 20,21,24,31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. 23. Thema decidendum. I profili della questione sono i seguenti. Quanto alla possibile violazione dell’art. 3 Cost., pare in contrasto con il principio di ragionevolezza prevedere dapprima - e correttamente - che l’erogazione dell’assegno di natalità debba essere uguale a parità di bisogno, e poi escludere contraddittoriamente dalla medesima prestazione sociale, rilevante perchè a contenuto economico, intere categorie di soggetti, selezionati non in base all’entità o alla natura del bisogno, ma ad un criterio privo di ogni collegamento con questo, quale la titolarità del permesso di lungo soggiorno che presuppone una durata pregressa della residenza almeno quinquennale, un reddito comunque almeno pari all’importo dell’assegno sociale, un alloggio idoneo e la conoscenza della lingua italiana: determinando, con ciò, l’esclusione di chi si trova in situazione di maggior bisogno rispetto a tale categoria e disparità di trattamento tra situazioni identiche o analoghe, con conseguente lesione del principio di eguaglianza. 24. La Corte Costituzionale ha già ritenuto illegittime disposizioni simili a quella denunciata, sul rilievo che una disciplina del tipo considerato introduce un elemento di distinzione arbitrario, proprio perchè non vi è alcuna ragionevole correlazione tra la residenza protratta nel tempo e i requisiti di bisogno e di disagio della persona che costituiscono il presupposto di fruibilità di una provvidenza sociale (sentenza n. 40 del 2011). 25. Peraltro, si tratta di prestazione sociale erogata in occasione della nascita di un figlio o della sua adozione, da fruire nell’arco di tre anni e, quindi, relativa a bisogni essenziali del nucleo familiare da soddisfare nei limiti di durata contenuta in tale arco temporale e destinata a non essere più erogata nell’ipotesi in cui venga meno qualcuno dei presupposti necessari durante il decorso del triennio. Sia avendo riguardo alla funzione di incentivo all’incremento demografico che alla funzione di sostegno economico, non si comprende in che relazione possano stare tali finalità con le circostanze di vita pregressa che costituiscono i presupposti per ottenere
il permesso di lungo soggiorno di cui alla D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 9. 26. Nè a giustificare la pretesa giovano considerazioni legate alla particolare finalità di incentivare la natalità nel territorio nazionale che legittimerebbe l’imposizione della titolarità del permesso di lungo soggiorno, quale dimostrazione del particolare radicamento del richiedente nel territorio nazionale. Infatti, sebbene il permesso di lungo soggiorno dimostri tale radicamento e lasci presagire un progetto di continuità in tal senso, è altrettanto vero che tali considerazioni non risultano logicamente correlate con l’assegno di natalità di cui si discute, che non ha solo funzione di incentivo all’innalzamento demografico ma, soprattutto, riveste il ruolo di sostegno economico, limitato solo al primo triennio di vita del bambino o del suo inserimento in famiglia in caso di adozione, alle famiglie meno agiate i cui bisogni sono immediati ed indifferibili e certamente poco influenzati dai progetti di vita a lungo termine. 27. Non è, dunque, rilevante in questa sede quanto ha affermato la Corte Costituzionale a proposito della legittimità costituzionale di misure definite “assegni di natalità” istituite da talune Regioni e che non avevano nessuna funzione di sostegno alla famiglie bisognose perchè erogate a prescindere da limiti reddituali (vedi Corte Costituzionale n. 222 del 2013 in relazione alla L.R. Friuli Venezia Giulia n. 16 del 2011, art. 3). 28. Anzi, va ricordato che Corte Costituzionale n. 141 del 2014, nel giudicare la conformità all’art. 3 Cost., della legge regionale della Campania n. 4 del 2011, istitutiva di un “bonus bebè” erogato a prescindere dal reddito familiare e solo sulla base della residenza biennale sul territorio regionale, ha affermato: “La questione - che, con riguardo al cosiddetto bonus bebè, investe propriamente il solo prescritto requisito della permanenza biennale sul territorio regionale - non è fondata, poichè non è irragionevole la previsione regionale che si limiti a favorire la natalità in correlazione alla presenza stabile del nucleo familiare sul territorio, senza che vengano in rilievo ulteriori criteri selettivi concernenti situazioni di bisogno o disagio, i quali non tollerano di per sè discriminazioni (così, tra le altre, le sentenze n. 222, n. 178, n. 4 e n. 2 del 2013)”. 29. Va aggiunta l’ulteriore considerazione che neppure rilevano, in senso contrario, valutazioni relative alla necessità di limitare l’erogazione di prestazioni di natura economica eccedenti quelle essenziali in ragione della limitatezza delle risorse disponibili, posto che ciò non esclude “che le scelte connesse alla individuazione dei beneficiari - necessariamente da circoscrivere in ragione della limitatezza delle risorse disponibili - debbano essere operate sempre e comunque in ossequio al principio di ragionevolezza” come statuito da Corte Costituzionale n. 40 del 2011 e n. 4:32 del 2005. 30. A questo fine, la giurisprudenza costituzionale, sempre in materia di misure di assistenza sociale da garantire ai cittadini extracomunitari in possesso di titoli
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validi di soggiorno ma non della carta di soggiorno, ora permesso di lungo soggiorno, ha precisato la necessità che, fermi gli ulteriori presupposti richiesti per la fruizione delle misure di assistenza sociale, “(...) nell’ottica della più compatibile integrazione sociale e della prevista equiparazione, per scopi assistenziali, tra cittadini e stranieri extracomunitari, di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 41, (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) - il soggiorno di questi ultimi risulti, oltre che regolare, non episodico nè occasionale” (Corte Cost. n. 230 del 2015). 31. Neppure le considerazioni svolte nella recente sentenza della Corte Costituzionale n. 50 del 2019, in tema di legittimità costituzionale della L. n. 388 del 2000, art. 80, comma 19, nella parte in cui subordina il diritto a percepire l’assegno sociale, per gli stranieri extracomunitari, alla titolarità della carta di soggiorno (ora permesso di lungo soggiorno) pare possa risolvere il dubbio di costituzionalità relativo alla norma in esame. Infatti, il soddisfacimento di tale condizione per il solo straniero extracomunitario è stata ritenuta non irragionevole in virtù del fatto che l’assegno sociale è misura che, rivolgendosi a chiunque abbia compiuto 65 anni di età, persegue finalità peculiari e diverse rispetto a quelle proprie delle misure di assistenza legate a specifiche esigenze di tutela sociale della persona che non tollerano discriminazioni, come nel caso delle invalidità psicofisiche. Ha, in particolare, affermato la Corte Costituzionale, nella sentenza da ultimo citata, che “(...) Tali persone ottengono infatti, alle soglie dell’uscita dal mondo del lavoro, un sostegno da parte della collettività nella quale hanno operato (non a caso il legislatore esige in capo al cittadino stesso una residenza almeno decennale in Italia), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.)”. 32. Il profilo di irragionevolezza appena illustrato e la disparità di trattamento che ne consegue, in definitiva, dovrebbero condurre alla declaratoria di incostituzionalità - per violazione dell’art. 3 Cost. - della L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, nella parte in cui richiede ai soli cittadini extracomunitari ai fini dell’erogazione dell’assegno di natalità anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anzichè la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno in applicazione della disposizione generale contenuta nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 41, norma che rappresenta l’equilibrato bilanciamento tra il diritto dell’extracomunitario di godere, a parità di trattamento con i cittadini italiani, delle misure di assistenza sociale e il riscontro di una presenza dello stesso non temporanea nè episodica sul territorio nazionale. 33. Altro profilo di denuncia, conseguente a quello appena illustrato, è quello relativo all’art. 31 Cost., giacchè l’irragionevole disparità di trattamento ai danni dei cittadini extracomu-
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nitari prodotta dalla norma denunciata determina anche l’effetto di violare i diritti protetti dall’art. 31 Cost., in forza del quale la Repubblica si fa carico di agevolare con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e di proteggere la maternità e l’infanzia. 34. E’ evidente, infatti, che la richiesta della titolarità del permesso di lungo soggiorno per l’erogazione di un sostegno economico finalizzato ad incentivare le nascite e ad alleviare il peso economico del mantenimento del nuovo nato impedisce di fatto ed irrimediabilmente la realizzazione della garanzia costituzionale per quelle famiglie e per quei figli in cui nessuno dei genitori è in possesso del permesso di lungo soggiorno, pur trovandosi le stesse famiglie in modo non episodico o temporaneo a risiedere in territorio nazionale e vivendo nelle medesime, se non peggiori, condizioni economiche. 35. L’effetto, inevitabile, pare essere quello di negare per tali nuclei familiari e per i loro nuovi nati, in radice ed irrimediabilmente, la realizzazione del diritto sancito dalla Costituzione, con effetti disgreganti del tessuto sociale della nazione nel nucleo originario ed essenziale della famiglia. 36. La L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, inoltre, pare violare anche l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione agli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 CDFUE, che, rispettivamente, enunciano il principio di uguaglianza ed il divieto di discriminazioni, anche per cittadinanza, riconoscono il diritto dei bambini “alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere”, garantiscono “la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale” nonchè riconoscono “il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione”. 37. Il diniego dell’assegno di natalità di cui alla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, pare integrare, difatti, una discriminazione a causa della nazionalità, come pure espressamente vietato dall’art. 12, lett. e), della Direttiva 2011/98 (applicabile ai cittadini di Paesi terzi, titolari del permesso unico di soggiorno come la G.F.), che espressamente prevede il diritto dei lavoratori di cui all’art. 3, paragrafo 1 lettere b) e c), di beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne - fra l’altro - i settori della sicurezza sociale definiti nel Regolamento (CE) n. 883/2004. 38. In particolare, va ricordato che la giurisprudenza Europea che ha avuto modo di esaminare la direttiva in questione sotto il profilo dei diritti sociali per cui va garantita la parità di trattamento (CGLIE 21 giugno 2017 C-4491/2016) ha avuto modo di precisare che “(...) la distinzione fra prestazioni escluse dall’ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004 e prestazioni che vi rientrano è basata essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua attribuzione, e non sul fatto che essa sia o no qualificata come prestazione di sicurezza sociale da una normativa nazionale
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(v., in tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C-78/91, EU:C:1992:331, punto 14; del 20 gennaio 2005, Noteboom, C-101/04, EU:C:2005:51, punto 24, e del 24 ottobre 2013, Lachheb, C-177/12, EU:C:201.3:689, punto 28). Una prestazione può essere considerata come una prestazione di sicurezza sociale qualora sia attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita per legge, e si riferisca a uno dei rischi espressamente elencati nell’art. 3, paragrafo 1, del regolamento n. 883/2004 (v. in tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C-78/91, EU:C:1992:331, punto 15; del 15 marzo 2001, Offermanns, C-85/99, EU:C:2001:166, punto 28, nonchè del 19 settembre 2013, Hliddal e Bornand, C-216/12 e C-217/12, EU:C:2013:568, punto 48)”. Inoltre, la stessa sentenza ha affermato che “(...) l’espressione “compensare i carichi familiari” deve essere interpretata nel senso che essa fa riferimento, in particolare, a un contributo pubblico al bilancio familiare, destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli
(v., in tal senso, sentenza del 19 settembre 2013, Hliddal e Bornand, C-216/12 e C-217/12, EU:C:2013:568, punto 55 e giurisprudenza ivi citata)”. Pertanto, la sentenza ha concluso affermando che l’art. 12 della direttiva 2011/98 prevede “(...) un diritto alla parità di trattamento, che costituisce la regola generale, ed elenca le deroghe a tale diritto che gli Stati membri hanno la facoltà di istituire. Tali deroghe possono dunque essere invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle stesse (v., per analogia, sentenza del 24 aprile 2012, Kamberaj, C-571/10, EU:C:2012:233, punti 86 e 87)” e che “(...) l’art. 12 della direttiva 2011/98 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale, in base alla quale il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’art. 2, lett. c), di tale direttiva, non può beneficiare di una prestazione come l’ANF, istituito dalla L. n. 448 del 1998“ – Omissis.
La condizione del permesso di soggiorno prevista per le madri straniere configura secondo la Cassazione una discriminazione Sommario : 1. I fatti di causa e le ordinanze di rimessione alla Corte costituziona-
le. – 2. I dubbi di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3 e 31 Cost. – 3. L’art. 117, comma 1, Cost., la Carta di Nizza e la direttiva 2011/98/UE. – 4. Il difficile bilanciamento dei diritti fondamentali con il requisito del radicamento territoriale. – 5. Errare humanum est, perseverare...
Sinossi. La Corte di cassazione solleva questione di legittimità costituzionale relativamente a due norme sospettate di introdurre una discriminazione tra le madri cittadine italiane e le madri straniere, seppur legalmente soggiornanti in Italia, prevedendo per le seconde un ulteriore requisito per l’accesso alle prestazioni: la carta di soggiorno di cui all’art. 9 del D.Lgs. n. 286/1998. L’analisi delle argomentazioni contenute nelle ordinanze consente all’A. di sviluppare alcune riflessioni in tema di diritti fondamentali, radicamento territoriale e rapporti tra diritto nazionale ed eurounitario.
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1. I fatti di causa e le ordinanze di rimessione alla Corte
costituzionale.
Dopo che quattro giudici di merito hanno ritenuto di fornire una interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata di due norme poste a tutela della maternità, la Corte di cassazione, nell’affermare che il tenore letterale delle disposizioni in questione è, viceversa, tale da non consentire interpretazioni estensive costituzionalmente conformi, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale e disposto la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Si tratta di ordinanze sostanzialmente gemelle, scritte dalla medesima mano e strutturate secondo lo stesso schema di ragionamento. L’ordinanza n. 16163/2019 concerne il diritto all’«assegno di maternità di base» di cui all’art. 74 del D. Lgs. n. 151/2001, il quale, al comma 1, prevede che «per ogni figlio nato dal 1 gennaio 2001, o per ogni minore in affidamento preadottivo o in adozione senza affidamento dalla stessa data, alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie o in possesso di carta di soggiorno ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, che non beneficiano dell’indennità di cui agli articoli 22, 66 e 70 del presente testo unico, è concesso un assegno di maternità pari a complessivi euro 1.291,14». L’ordinanza n. 16164/2019 riguarda, invece, il diritto al c.d. assegno di natalità, previsto dal comma 125 dell’art. 1 della L. n. 190/2014, il quale dispone che «al fine di incentivare la natalità e contribuire alle spese per il suo sostegno, per ogni figlio nato o adottato tra il 1º gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 è riconosciuto un assegno di importo pari a 960 euro annui erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione. L’assegno, che non concorre alla formazione del reddito complessivo di cui all’articolo 8 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, è corrisposto fino al compimento del terzo anno di età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione, per i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea o di cittadini di Stati extracomunitari con permesso di soggiorno di cui all’articolo 9 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, residenti in Italia e a condizione che il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l’assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), stabilito ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159, non superiore a 25.000 euro annui». In entrambi i casi l’INPS aveva rigettato le domande presentate da due neo-madri per l’ottenimento delle citate prestazioni assistenziali in quanto le istanti non erano in possesso della carta di soggiorno di cui art. 9 del D. Lgs. n. 286/1998 (che ora si chiama «permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo»1), condicio sine qua non - secondo
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V. art. 3 d.lgs. n. 12/2014.
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l’Istituto - per l’erogazione del beneficio a cittadine di Paesi extra UE, non essendo sufficiente il possesso degli altri requisiti previsti dalle disposizioni. Il Tribunale e la Corte d’Appello di Firenze, con riferimento al diritto all’assegno di maternità di base (v. ord. n. 16163), e il Tribunale e la Corte d’Appello di Brescia, con riferimento al diritto al c.d. assegno di natalità (v. ord. 16164), avevano ammesso al beneficio le due donne straniere, con conseguente condanna dell’INPS, facendo leva su interpretazioni estensive non condivise dalla Suprema Corte, la quale, viceversa, ha ritenuto tali disposizioni non suscettibili di estensione in via di interpretazione costituzionalmente conforme, rendendo pertanto rilevante il vaglio di costituzionalità, ravvisandosi la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità prospettate per possibile violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza e della disparità di trattamento, dell’art. 31 Cost. e dell’art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, c.d. Carta di Nizza (v. infra).
2. I dubbi di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3 e 31 Cost.
Con riferimento all’art. 3 Cost. la norme citate sono sospettate di introdurre un’ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento tra le madri cittadine italiane e le madri straniere, seppur legalmente soggiornanti in Italia, prevedendo per le seconde un ulteriore requisito per l’accesso alle prestazioni, con l’effetto di escludere «pur a fronte di situazioni di parità di bisogno, intere categorie di soggetti, selezionati non in base all’entità o alla natura del bisogno, ma ad un criterio privo di ogni collegamento con questo, quale la titolarità del permesso di lungo soggiorno che presuppone una durata pregressa della residenza in Italia almeno quinquennale, un reddito comunque almeno pari all’importo dell’assegno sociale, un alloggio idoneo e la conoscenza della lingua italiana: determinando, con ciò, l’esclusione di chi si trovi in situazione di maggior bisogno rispetto a tale categoria e disparità di trattamento tra situazioni identiche o analoghe, lesive del principio di eguaglianza» (ord. n. 16163). La Corte di cassazione parte dal presupposto che le disposizioni in esame disciplinano due “prestazioni sociali”, cioè che ricadono nel sistema delle tutele di sicurezza sociale, ritenendo dunque contraddittorio escludere dalla fruizione soggetti che pur trovandosi in una condizione di bisogno effettivo non posseggono un requisito aggiuntivo che con lo stato di bisogno non ha nulla a che vedere. L’«assegno di maternità di base» di cui all’art. 74 del D. Lgs. n. 151/2001, «costituisce prestazione assistenziale erogata dall’INPS, una tantum, in mancanza di altre prestazioni collegate alla maternità e in favore di situazioni familiari meno agiate» (ord. n. 16163); l’«assegno di natalità» previsto dall’art. 1, comma 125, della L. n. 190/2014, è una «misura che concorre a formare il sistema dei sostegni sociali alla genitorialità» essendo «tesa al sostegno delle famiglie in condizioni economiche non agiate (...) o addirittura in stato di bisogno (...)» (ord. n. 16164). In entrambi i casi, secondo la Corte, «non appare, invero, sussistere alcuna ragionevole correlazione tra la residenza protratta nel tempo e la fun-
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zione della prestazione in esame avente il ruolo di sostegno economico volto a soddisfare bisogni immediati e indifferibili, a fronteggiare esigenze primarie legate alla nascita di un bambino o alla sua adozione, poco influenzati dalla sussistenza o meno del radicamento nel territorio dello Stato» (ord. n. 16163). Con riferimento al requisito del “radicamento sul territorio”, la Corte di cassazione richiama l’art. 41 del D. Lgs. n. 286/1998, c.d. testo unico sull’immigrazione, che riconosce agli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno l’equiparazione ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, così chiedendo un minimo temporale di radicamento territoriale per l’accesso all’assistenza sociale a parità di condizione con i cittadini; è proprio questo “minimo temporale” (un anno) a costituire, secondo la Corte di cassazione un «equilibrato bilanciamento» tra gli interessi in gioco, essendo finalizzato ad escludere «eventuali timori di erogazione dell’assegno anche a favore di stranieri solo del tutto momentaneamente in Italia» (ord. n. 16163). Va rimarcato che la Consulta nella sentenza n. 230/2015 (rel. Grossi) aveva dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della pensione di invalidità civile per sordi e della indennità di comunicazione». Nella motivazione si legge che «la discriminazione che la disposizione de qua irragionevolmente opera nei confronti dei cittadini extracomunitari legalmente soggiornanti, con l’attribuzione di un non proporzionato rilievo alla circostanza della durata della permanenza legale nel territorio dello Stato, risulta, d’altra parte, in contrasto con il principio costituzionale - oltre che convenzionale - di eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.): essa, infatti, appare idonea a compromettere esigenze di tutela che, proprio in quanto destinate al soddisfacimento di bisogni primari delle persone invalide, appaiono per sé stesse indifferenziabili e indilazionabili sulla base di criteri meramente estrinseci o formali; sempre che, naturalmente, venga accertata la sussistenza degli altri requisiti richiesti per il riconoscimento del beneficio e sempre che - nell’ottica della più compatibile integrazione sociale e della prevista equiparazione, per scopi assistenziali, tra cittadini e stranieri extracomunitari, di cui all’art. 41 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) - il soggiorno di questi ultimi risulti, oltre che regolare, non episodico né occasionale». La sentenza n. 230/2015 viene citata solo nell’ordinanza n. 16164, ma comunque lo schema di ragionamento utilizzato dalla Corte di cassazione anche nell’ordinanza n. 16163 ne tiene conto, riformulandolo mutatis mutandis: tutela della maternità (art. 32 Cost.) al posto della salute (art. 32 Cost.). Certo, lo scoglio principale che la Suprema Corte deve affrontare è il confronto con quanto deciso dalla Consulta nella recentissima sentenza n. 50/2019, laddove si ragiona della legittimità costituzionale della L. n. 388 del 2000, art. 80, comma 19, nella parte in cui subordina il diritto a percepire l’assegno sociale per gli stranieri extracomunitari alla titolarità della carta di soggiorno. Nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, la Corte costituzionale (rel. Prosperetti) ha ritenuto non essere
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«né discriminatorio, né manifestamente irragionevole che il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo sia il presupposto per godere di una provvidenza economica, quale l’assegno sociale, che si rivolge a chi abbia compiuto 65 anni di età. Tali persone ottengono infatti, alle soglie dell’uscita dal mondo del lavoro, un sostegno da parte della collettività nella quale hanno operato (non a caso il legislatore esige in capo al cittadino stesso una residenza almeno decennale in Italia), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.). Rientra dunque nella discrezionalità del legislatore riconoscere una prestazione economica al solo straniero, indigente e privo di pensione, il cui stabile inserimento nella comunità lo ha reso meritevole dello stesso sussidio concesso al cittadino italiano. Pertanto sotto nessun profilo può ritenersi violato l’art. 3 Cost. con riferimento a quegli stranieri che invece tale status non hanno». Il punto su cui si incentra la sentenza n. 50/2019 riguarda il soddisfacimento o meno di un bisogno primario collegato all’esercizio di un diritto inviolabile della persona: «la Costituzione» si legge «impone di preservare l’uguaglianza nell’accesso all’assistenza sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini extracomunitari dall’altro, soltanto con riguardo a servizi e prestazioni che, nella soddisfazione di “un bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale” (sentenza n. 222 del 2013), riflettano il godimento dei diritti inviolabili della persona. Per questa parte, infatti, la prestazione non è tanto una componente dell’assistenza sociale (che l’art. 38 Cost., comma 1, riserva al “cittadino”), quanto un necessario strumento di garanzia di un diritto inviolabile della persona (art. 2 Cost.)»; Ed è proprio questo ragionamento incentrato sui “diritti inviolabili della persona” ad evitare il contrasto tra la questione sollevata dalla Corte di cassazione e la decisione assunta dalla Consulta nella sentenza n. 50/2019. La maternità, infatti, gode di una diretta tutela costituzionale e, conseguentemente, comporta l’applicazione del principio di parità di trattamento a prescindere da requisiti che non hanno con essa ragionevole correlazione (ord. n. 16163). L’irragionevole disparità di trattamento creatasi nei riguardi delle madri cittadine extra UE viola quindi anche l’art. 31 Cost. secondo cui «la Repubblica si è fatta carico di agevolare con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e di proteggere la maternità e l’infanzia. (...) E’ evidente, infatti, che la richiesta della titolarità del permesso di lungo soggiorno per l’erogazione di un sostegno economico al momento della nascita del bambino o della sua adozione impedisce di fatto e irrimediabilmente la realizzazione della garanzia costituzionale per quei figli e per quelle famiglie in cui nessuno dei genitori è in possesso del permesso di lungo soggiorno, pur trovandosi le stesse famiglie in modo non episodico o temporaneo a risiedere in territorio nazionale e vivendo nelle medesime, se non peggiori, condizioni economiche. L’effetto, inevitabile, pare essere quello di negare per tali nuclei familiari e per i loro nuovi nati, in radice e irrimediabilmente, la realizzazione del diritto sancito dalla Costituzione con effetti disgreganti del tessuto sociale della nazione nel nucleo originario ed essenziale della famiglia» (ord. n. 16163). Per completezza – ma solo nell’ord. n. 16164 – vengono richiamati i precedenti della Consulta in merito alla dichiarazione di legittimità costituzionale di disposizioni di leggi regionali istitutive di misure definite “assegni di natalità” ma solo per escluderne la rile-
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vanza in quanto concernenti erogazioni che non svolgevano alcuna funzione di sostegno alle famiglie bisognose, prescindendo da limiti reddituali2. Difatti, nella sentenza n. 222/2013 la Corte costituzionale aveva messo in luce come gli assegni in questione fossero finalizzati a favorire lo sviluppo del nucleo familiare senza venire incontro ad un bisogno primario dell’individuo (che, si legge, «non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale»), trattandosi piuttosto di «misure che eccedono il nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona umana, e che premiano, non arbitrariamente, il contributo offerto dalla famiglia al progresso morale e materiale della comunità costituita su base regionale»3. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone la sentenza n. 141/2014 con la quale la Consulta ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale concernente un c.d. bonus bebè regionale per il cui accesso si richiedeva la sola permanenza biennale sul territorio regionale «poiché non è irragionevole la previsione regionale che si limiti a favorire la natalità in correlazione alla presenza stabile del nucleo familiare sul territorio, senza che vengano in rilievo ulteriori criteri selettivi concernenti situazioni di bisogno o disagio, i quali non tollerano di per sé discriminazioni»4. La Corte di cassazione nell’ord. n. 16164 esclude, inoltre, la rilevanza delle «valutazioni relative alla necessità di limitare l’erogazione di prestazioni di natura economica eccedenti quelle essenziali in ragione della limitatezza delle risorse disponibili» richiamando le sentenze nn. 432/2005 e 40/2011 della Corte costituzionale in cui si è chiaramente affermato che il principio di ragionevolezza va applicato sempre anche quando le risorse disponibili sono poche e, conseguentemente, va circoscritta l’area dei beneficiari.
3. L’art. 117, comma 1, Cost., la Carta di Nizza e la direttiva
2011/98/UE.
Quanto ai profili di contrasto con il diritto dell’UE, la Suprema Corte sfiora la questione. Nell’ordinanza n. 16163 viene adombrata la violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza); nell’ordinanza n. 16164 vengono richiamati al posto degli artt. 24 e 31, gli artt. 23 e 33. In entrambi i casi le questioni sembrano poste ad colorandum, senza particolare convinzione. In altre circostanze le disposizioni della Carta di Nizza sono invece state utilizzate come parametro essenziale nel vaglio di costituzionalità del diritto nazionale5; emblemati-
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Cfr. ord. n. 16164/2019, punti 27 e 28 in cui si richiamano: C. cost., 28 maggio 2014, n. 141, in relazione al comma 77 dell’art. 1 della L. R. Campania n. 4/2011. 3 C. cost., 19 luglio 2013, n. 222, in relazione all’art. 3 della L. R. della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia n. 16/2011. 4 C. cost., 28 maggio 2014, n. 141. 5 Interessanti le considerazioni di Chiariello, Il valore costituzionale della Carta di Nizza: un problema ancora aperto anche alla luce della sentenza n. 269/2017 della Corte costituzionale, in www.giurcost.org, 2018, 2
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che proprio sotto questo profilo sono due sentenze pronunciate dalla Corte costituzionale nel 2018, la n 120 e la n. 198, nelle quali le fonti internazionali hanno rivestito un ruolo centrale veicolato tramite l’art. 117, comma 1.6. La Suprema Corte nelle ordinanze in commento sembra sposare in toto il modus procedendi sancito dalla Corte costituzionale in un famosissimo e criticato7 obiter dictum della sentenza n. 269/2017: «fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e costituzionale, occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale. I principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione, come è accaduto da ultimo in riferimento al principio di legalità dei reati e delle pene (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, M.A.S, M.B.). Pertanto, le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.). La Corte giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito. In senso analogo, del resto, si sono orientate altre Corti costituzionali nazionali di antica tradizione (si veda ad esempio Corte costituzionale austriaca, sentenza 14 marzo 2012, U 466/11-18; U 1836/11-13). Il tutto, peraltro, in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE). (...) In linea con questi orientamenti, questa Corte ritiene che, laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE». In altre parole, la Corte di cassazione con le ordinanze in esame ha recepito l’indicazione della Consulta e pertanto, ritenendo la norma interna in contrasto sia con la Costi-
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Per un commento alle sentenze v. Sartor, I rapporti tra diritto interno e sovranazionale: riflessioni su Corte cost. n. 120/2018, in LG, 2019, 7, 689 e ivi numerosi riferimenti bibliografici e giurisprudenziali. 7 Bronzini, La sentenza n. 20/2019 della Corte costituzionale italiana verso un riavvicinamento all’orientamento della Corte di Giustizia?, in www.questionegiustizia.it, 4 marzo 2019.
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tuzione sia con la Carta di Nizza, ha rimesso la questione alla Corte costituzionale, non procedendo alla diretta disapplicazione delle norme censurate e prediligendo il controllo accentrato del Giudice delle leggi. In ogni caso, nel sollevare le questioni di legittimità costituzionale, la Corte di cassazione si pone anche il problema di metodo e di merito relativo alla compatibilità delle disposizioni citate con il diritto eurounitario. Con riferimento alla materia de qua, viene in gioco la direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e stabilisce un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro. In particolare, l’art. 12, par. 1, lett. e), dispone che «i lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c), beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne: (...) e) i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n.883/2004». Ebbene, se con riferimento alla vicenda esaminata con l’ordinanza n. 16163, la citata direttiva non è richiamabile in quanto all’epoca dei fatti non ancora recepita dall’Italia; viceversa, nella fattispecie considerata nell’ordinanza n. 16164 tale normativa rileva. Come detto, la Suprema Corte non si limita – come fatto dai giudici di merito - a disapplicare l’art. 1, comma 125, L. n. 190/2014, in ottemperanza al principio della prevalenza del diritto eurounitario sul diritto nazionale, evidenziando come «il peculiare meccanismo di funzionamento della non applicazione della disposizione» contestata «non possa realizzare effetti analoghi a quelli derivanti dalla pronuncia di incostituzionalità per violazione degli artt. 3 e 31 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. (...) Solo in sede di giudizio costituzionale è possibile, infatti, valutare la ragionevolezza della scelta discrezionale legislativa, frutto di bilanciamento dei contrapposti interessi e considerare, come si dirà più approfonditamente in sede di giudizio di non manifesta infondatezza, gli indici normativi che avrebbero dovuto condurre il legislatore a riconoscere quale unico criterio selettivo giustificato e ragionevole il possesso della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 41, quale espressione di un principio generale, al fine di riconoscere ai titolari la piena equiparazione ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale». (ord. 16164). L’esigenza di chiarezza in merito alla ragionevolezza della scelta discrezionale legislativa, frutto di bilanciamento dei contrapposti interessi, e i diversi effetti che potrebbero derivare dalla pronuncia della Corte Costituzionale rispetto al sistema al cui interno si colloca la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale, fanno sì – secondo la Suprema Corte – che l’applicabilità della direttiva 2011/98/UE non determini l’irrilevanza della questione di costituzionalità. Tale impostazione, che presuppone quindi la necessità del controllo accentrato da parte della Corte costituzionale, viene criticata da chi evidenzia che il principio della diretta applicabilità delle direttive dotate di efficacia diretta in quanto sufficientemente precise e operanti nei rapporti verticali (come nel caso della direttiva 2011/98) rende inammissibile
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la questione di costituzionalità, lasciando fermo il potere del giudice comune di disapplicare la norma nazionale in contrasto con il diritto eurounitario8. È chiaro infatti che, con riferimento all’attuazione dei diritti sociali, il diritto eurocomunitario può incidere profondamente su quello nazionale, perché, se da un lato, la violazione dei diritti sanciti nella Carta di Nizza rientra nel vaglio di costituzionalità per il tramite dell’art. 117, comma 1, Cost., dall’altro, una valutazione diversa viene fatta con riferimento alle norme delle direttive dotate di efficacia diretta e dei regolamenti, che prevalgono sulle disposizioni del diritto nazionale ove incompatibili. Nell’ordinanza n. 16164 la Suprema Corte ritiene che sussista una discriminazione causata dalla nazionalità, in contrasto con quanto espressamente vietato dall’art. 12, lett. e), della direttiva 2011/98/UE; ciononostante non ritiene di disapplicare la norma interna, preferendo rivolgersi alla Consulta9. In ogni caso, la sussistenza di una discriminazione causata dalla nazionalità viene argomentata dalla Corte di cassazione richiamando la sentenza della Corte di Giustizia dell’UE 21 giugno 2017, C-449/201610, che riguardava proprio una vicenda italiana concernente il rigetto nel 2014 da parte dell’INPS della domanda di attribuzione dell’assegno per il nucleo familiare presentata da una cittadina di un paese terzo in quanto titolare solo di un permesso unico di lavoro di durata superiore a sei mesi e non del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo‑CE. Sul punto la CGUE ha statuito che «l’articolo 12 della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, (...) deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale, in base alla quale il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), di tale direttiva, non può beneficiare di una prestazione come l’assegno a favore dei nuclei familiari con almeno tre figli minori, istituito dalla legge del 23 dicembre 1998, n.448, recante Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo». Il ragionamento della Corte di Giustizia si fonda da un lato sul principio della parità di trattamento sancita dagli artt. 3, par. 1, lett. c), e 12, par. 1, lett. e), della dir. 2011/98, dall’altro sulla non configurabilità nel caso di specie di una delle ipotesi di deroga previste dal comma 2 dell’art. 12 cit. poiché «tali deroghe possono (...) essere invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle stesse», cosa che non è avvenuta nel caso de quo. In definitiva la Corte di cassazione nell’ord. n.16164 ritiene che nemmeno nel caso in esame possano essere invocate le deroghe alla parità di trattamento previste
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Sul punto si leggano le considerazioni di Bronzini, cit., il quale ripercorre altresì gli orientamenti espressi dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 269/2017. Amplius sul tema Torsello, Persona e lavoro nel sistemo CEDU. Diritti fondamentali e tutela sociale nell’ordinamento multilivello, Cacucci, 2019, 151 e ss., e ivi numerosissimi riferimenti bibliografici e giurisprudenziali. 9 Pungenti le critiche del Servizio antidiscriminazione dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’immigrazione, v. Guariso, Luci e ombre nella rimessione alla Corte costituzionale delle norme su bonus bebè e indennità di maternità, in www.asgi.it, 24 giugno 2019. 10 C. giust., 21 giugno 2017, causa C-449/16, Kerly Del Rosario Martinez, https://eur-lex.europa.eu
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nel comma 2 dell’art. 12 della dir. cit., configurandosi quindi la sussistenza di una discriminazione causata dalla nazionalità.
4. Il difficile bilanciamento dei diritti fondamentali con il requisito del radicamento territoriale.
Le questioni affrontate dalla Corte di cassazione, dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Giustizia UE nelle pronunce innanzi citate mettono in luce che il nodo irrisolto è quello dell’identificazione del punto di ragionevole equilibrio tra il soddisfacimento di bisogni primari della persona e il radicamento nel territorio italiano. La questione è in primis affrontata dai giudici di merito che continuano ad essere investiti di azioni civili contro la discriminazione (artt. 28 D. Lgs. n. 150/2011 e 44 D. Lgs. n. 286/1998) promosse, molto spesso, da associazioni volte alla tutela dei diritti civili (iscritte nell’apposito elenco approvato con decreto dei Ministri del lavoro e delle Pari opportunità11). Va menzionato certamente il caso che ha visto l’intervento del Tribunale di Milano il quale, con ordinanza n. 6019/2017 del 12 dicembre 2017, ha accolto il ricorso proposto da alcune associazioni contro la circolare dell’INPS n. 39/2017 sul c.d. premio alla nascita, istituito dall’art. 1, comma 353, L. n. 232/2016, poiché tale circolare restringeva il campo di applicazione del citato beneficio introducendo per le cittadine straniere requisiti non previsti dalla norma di legge. Infatti, la legge di stabilità per il 2017 si limitava a prevedere che «a decorrere dal 1º gennaio 2017 è riconosciuto un premio alla nascita o all’adozione di minore dell’importo di 800 euro. Il premio, che non concorre alla formazione del reddito complessivo di cui all’articolo 8 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è corrisposto dall’INPS in unica soluzione, su domanda della futura madre, al compimento del settimo mese di gravidanza o all’atto dell’adozione». Con la circolare n. 39/2017, l’INPS disponeva che «il premio alla natalità è riconosciuto alle donne gestanti o alle madri che siano in possesso dei requisiti attualmente presi in considerazione per l’assegno di natalità di cui alla legge di stabilità n. 190/2014 (art. 1, comma 125)», richiedendo: la residenza in Italia; la cittadinanza italiana o comunitaria e, per le cittadine non comunitarie, il possesso dello status di rifugiato politico o della protezione sussidiaria (equiparate alle cittadine italiane per effetto dell’art. 27 del Decreto Legislativo n. 251/2007); oppure «il possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’articolo 9 del Decreto Legislativo n. 286/1998 oppure di una delle carte di soggiorno per familiari di cittadini UE previste dagli artt. 10 e 17 del Decreto Legislativo n. 30/2007, come da indicazioni ministeriali relative all’estensione della disciplina prevista in materia di assegno di natalità alla misura in argomento (cfr. circolare
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V. art. 5 d.lgs. n. 215/2003.
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INPS 214 del 2016)». L’INPS aveva quindi mutuato i requisiti previsti per “l’assegno di natalità” subordinando a questi la concessione del “premio alla nascita”. Il Tribunale di Milano, ritenendo tale condotta discriminatoria ha conseguentemente ordinato all’INPS di estendere il beneficio del premio alla nascita a tutte le future madri regolarmente presenti in Italia che ne facciano domanda e che si trovino nelle condizioni previste dalla norma di legge. Un altro caso che ha occupato il Tribunale e la Corte d’Appello di Milano ha riguardato l’accertamento del carattere discriminatorio di due delibere della Giunta della Regione Lombardia – una relativa all’accesso al contributo regionale sul canone di locazione, c.d. bonus affitti, l’altra concernente il bonus bebè regionale – che prevedevano per i soli cittadini di paesi extra UE il requisito della residenza da almeno 5 anni in Lombardia. Il Tribunale di Milano12, dopo aver ritenuto tali provvidenze come prestazioni assistenziali, in relazione al c.d. bonus affitti ha accolto la domanda, riconoscendo il carattere discriminatorio della citata delibera regionale che ha introdotto requisiti restrittivi non previsti dalle fonti normative primarie, mentre in relazione al c.d. bonus bebè, pur dato atto che il criterio della residenza, sebbene formalmente neutro, possa avere come conseguenza l’introduzione di una misura pregiudizievole per i soli cittadini stranieri, ha affermato che, in presenza di un intervento straordinario, sussisterebbe la necessità di contemperare l’intervento con gli stretti vincoli di bilancio e sarebbe pertanto sorretto da razionalità e ragionevolezza un intervento che introduce per tutti i richiedenti particolari condizioni per consentire l’accesso a una misura assistenziale. La Corte d’Appello di Milano (Pres. Vitali, sentenza 14 maggio 2019, n. 46313), confermando la sentenza del Tribunale nella parte in cui ha riconosciuto il carattere discriminatorio della delibera sul c.d. bonus affitti, ha dichiarato il carattere discriminatorio della delibera della Giunta della Regione Lombardia nella parte in cui prevedeva ai fini dell’accesso al c.d. bonus bebè regionale il requisito dei cinque anni continuativi di residenza nella Regione di entrambi i genitori del nuovo nato. La cennata sentenza della Corte d’Appello di Milano, con un approccio alla questione che potrebbe dirsi “accademico” per l’ampiezza argomentativa, disegna con precisione e rigore la lunga strada percorsa dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e di Giustizia UE in tema di accesso degli stranieri extra UE alle prestazioni sociali, tratteggiandone i confini, partendo dalle norme cardine del diritto nazionale e sovranazionale, per poi posizionare le pietre miliari, cioè le sentenze più significative che ne hanno determinato la direzione. L’inizio del viaggio si colloca nell’art. 41 del TU immigrazione, D. Lgs. n. 286/1998, con cui si dà una impronta fortemente paritaria alla questione, condizionando la fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, alla titolarità di un permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno. I problemi nascono, però, con l’art. 80, comma 19 della L. n. 388/2000, in cui si dispone che «l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vi-
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Trib. Milano, ord. 11 marzo 2016, in www.asgi.it Leggila in https://www.regione.lombardia.it/
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gente in materia di servizi sociali sono concesse alle condizioni previste dalla legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno; per le altre prestazioni e servizi sociali l’equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno». La Corte d’Appello di Milano richiama la lunga serie di interventi della Consulta, la quale ha fortemente ridimensionato la portata dell’art. 80, comma 19, della L. n. 388/2000, ad esempio con riferimento all’assegno mensile di invalidità (sent. n. 187/10), all’indennità di frequenza per minori invalidi (sent. n. 329/11), alla pensione di inabilità civile e all’indennità di accompagnamento (sent. n. 40/13), all’indennità di accompagnamento per cieco ventesimista (sent. n. 22/15), alla pensione di invalidità civile per sordi e all’indennità di comunicazione (sent. n. 230/15). Utilizzando le parole della Corte d’Appello di Milano: «la ragione principale che sta alla base delle sentenze della Corte Costituzionale è che, in materia sociale, esiste un “nucleo forte” di diritti che devono essere riconosciuti a tutti i consociati senza distinzione alcuna, in quanto rispondenti ad un nucleo altrettanto essenziale di bisogni che in una società progredita e solidale non possono restare senza tutela. Tali prestazioni debbono pertanto essere riconosciute a tutti gli stranieri titolari di permesso di soggiorno di almeno un anno, essendo nuovamente soggette al solo art. 41 TU e non più all’art. 80, comma 19 cit. Al di fuori del “nucleo essenziale”, il legislatore (sia nazionale che locale) non gode però di una totale discrezionalità nello stabilire i criteri selettivi dei beneficiari, essendo necessario rispettare il principio di “ragionevole correlabilità”». Proprio il «principio di “ragionevole correlabilità» è stato ritenuto dalla Corte Costituzionale come indispensabile filtro per verificare la ragionevolezza dei criteri selettivi posti dall’ordinamento per l’accesso alle prestazioni sociali, tra i quali, si è detto14, non può esservi quello della cittadinanza utilizzato in modo esclusivo e nemmeno quello delle ragioni finanziarie o di bilancio, come ripetutamente affermato dalla Corte Costituzionale15 e dalla Corte Europea dei Diritti Umani16. Quanto al criterio selettivo costituito dal c.d. “radicamento territoriale”, cioè della presenza per un periodo sufficientemente lungo sul territorio nazionale o regionale, esso è stato oggetto di vaglio approfondito da parte della Consulta e della CGUE. La prima, più volte chiamata a verificare la legittimità dei requisiti di residenza variamente introdotti dalle norme regionali, ha dichiarato incostituzionali tutte le disposizioni che prevedevano requisiti di residenza di lungo periodo per i soli cittadini stranieri (differenziando quindi, mediante il riferimento alla residenza, la posizione dei cittadini italiani e quella degli stranieri), qualora non sorretti dal principio di ragionevolezza17. Una ragione-
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C. cost., 2 dicembre 2005, n. 432, in GCost, fasc. 6, 2005, 4675, con nota di Rimoli. C. cost., 2 dicembre 2005, n. 432; C. cost., 2 febbraio 2011, n. 40, in DL, 2011, 1, 59, con nota di Guariso e in RIDL, 2013, 954, con nota di Vincieri. 16 Si vedano le sentenze della Corte EDU: 30 settembre 2003, Koua Poirrez; 27 novembre 2007, Luczak; 29 ottobre 2009, Si Amer; 8 aprile 2014, Dhahbi, in www.giustizia.it 17 C. cost., 25 maggio 2018, n. 107, in GCost, 2018, 1207, con nota di Gorlani; C. cost., 20 luglio 2018, n. 166, in GCost, 2018, 1742, con nota di Bilancia e in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2018, 3, 11, con nota di Guarisio. 15
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vole correlazione normativa può in astratto consistere nella richiesta di un titolo che dimostri il carattere non episodico o di breve durata della permanenza sul territorio dello Stato, ma anche in questi casi, occorre pur sempre che sussista una ragionevole correlazione tra tale richiesta e le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le singole prestazioni sono state previste; inoltre, occorre che la distinzione non si traduca mai nell’esclusione del non cittadino dal godimento dei diritti fondamentali che attengono ai «bisogni primari» della persona, indifferenziabili e indilazionabili, riconosciuti invece ai cittadini18. E così, più volte, il Giudice delle leggi ha valutato l’illegittimità costituzionale dei requisiti di residenza variamente introdotti da diverse norme regionali, poiché differenziavano in modo illegittimo, sia pure mediante il riferimento alla residenza, la posizione dei cittadini italiani e quella degli stranieri19. Il problema è sempre quello della ragionevolezza del requisito, anche con riferimento alla durata della permanenza sul territorio regionale (o nazionale). In altre parole, è stato considerato legittimo subordinare l’erogazione di determinate prestazioni sociali – non dirette a rimediare a gravi situazioni di urgenza o al soddisfacimento di bisogni primari dell’individuo – alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero alla permanenza ne dimostri il carattere non episodico, premiando il contributo offerto dall’individuo o dalla famiglia alla comunità regionale in cui sono inseriti20; diverso è però il ragionamento se il radicamento territoriale richiesto è sproporzionato, sia con riguardo ai cittadini extra UE sia ai cittadini italiani, visto che difficilmente lo stato di bisogno o di disagio è collegato alla permanenza (protratta per un certo tempo) in un territorio21. Più prudente, e a tratti scettica, è apparsa la Corte di giustizia UE nel valutare il criterio della c.d. lungo-residenza, sia in quanto non ritenuto indicatore affidabile del grado reale ed effettivo di collegamento tra il richiedente e lo Stato membro medesimo22, sia in quanto dietro ad esso possono celarsi discriminazioni indirette in ragione della cittadinanza23.
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Cfr. C. cost., 30 luglio 2008, n. 306; C. cost., 28 maggio 2010, n. 187; C. cost., 9 febbraio 2011, n. 40; C. cost., 18 gennaio 2013, n. 2; C. cost., 15 marzo 2013, n. 40; C. cost., 7 giugno 2013, n. 133; C. cost., 4 luglio 2013, n. 172; C. cost., 19 luglio 2013, n. 222, in GCost, 2013, 3291, con nota di Principato; C. cost., 27 febbraio 2015, n. 22; C. cost., 11 novembre 2015, n. 230; C. cost., 25 maggio 2018, n. 107. 19 C. cost., 9 febbraio 2011, n. 40; C. cost., 18 gennaio 2013, n. 2; C. cost., 7 giugno 2013, n. 133; C. cost., 4 luglio 2013, n. 172; C. cost., 19 luglio 2013, n. 222, in Giornale di diritto amministrativo, 2014, 1, 9-14, con nota di Gnes. 20 C. cost., 5 gennaio 2011, n. 4; C. cost., 18 gennaio 2013, n. 2; C. cost., 19 luglio 2013, n. 222; C. cost., 28 maggio 2014, n. 141; di recente v. 15 marzo 2019, n. 50 (est. Prosperetti), che con riferimento all’assegno sociale ha statuito: «non è perciò né discriminatorio, né manifestamente irragionevole che il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo sia il presupposto per godere di una provvidenza economica, quale l’assegno sociale, che si rivolge a chi abbia compiuto 65 anni di età. Tali persone ottengono infatti, alle soglie dell’uscita dal mondo del lavoro, un sostegno da parte della collettività nella quale hanno operato (non a caso il legislatore esige in capo al cittadino stesso una residenza almeno decennale in Italia), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.). Rientra dunque nella discrezionalità del legislatore riconoscere una prestazione economica al solo straniero, indigente e privo di pensione, il cui stabile inserimento nella comunità lo ha reso meritevole dello stesso sussidio concesso al cittadino italiano. Pertanto sotto nessun profilo può ritenersi violato l’art. 3 Cost. con riferimento a quegli stranieri che invece tale status non hanno». 21 C. cost., 4 luglio 2013, n. 172; C. cost., 19 luglio 2013, n. 222, in DL, 2013, 39, con nota di Guarisio; C. cost., 11 giugno 2014, n. 168. 22 Ex multis C. giust., 1 luglio 2011, C-503/09, Steward; 4 ottobre 2013, C-220/2012, Meneses. 23 Ex multis C. giust., 16 gennaio 2003, C-388/01, Commissione c. Repubblica italiana; 10 marzo 1993, C-111/91, Commissione c. Lussemburgo.
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5. Errare humanum est, perseverare... Nonostante la giurisprudenza accumulatasi negli anni, il legislatore utilizza ancora in molti casi il requisito della residenza per l’erogazione di una serie di prestazioni e servizi. Probabilmente in alcuni casi la formulazione delle norme crea effetti preterintenzionali, come nel caso dell’art. 11, comma 1, lett. c) del D.Lgs. n. 150/2015, il quale prevede la «disponibilità dei servizi e misure di politica attiva del lavoro a tutti i residenti sul territorio italiano, a prescindere dalla regione o provincia autonoma di riferimento». A seguito di numerose richieste di chiarimento in merito alla possibilità per i cittadini extra UE richiedenti lo status di rifugiato di accedere ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro, l’ANPAL è dovuta intervenire24 affermando che per i richiedenti/titolari protezione internazionale il requisito della residenza anagrafica per l’accesso ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro erogati dai Centri per l’impiego è soddisfatto dal luogo di dimora abituale (anche in applicazione dell’art. 6, comma 7, del Testo Unico dell’immigrazione). In altri casi, il radicamento territoriale è stato considerato un criterio molto importante e qualificante per un certo progetto politico, come ad esempio è avvenuto nella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia a guida leghista con la legge regionale n. 9/2019, recante “Disposizioni multisettoriali per esigenze urgenti del territorio regionale”. Ebbene, di tutta risposta, nella sua prima seduta (5 settembre 2019) il Consiglio dei Ministri del Governo c.d. Conte bis, su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, ha deliberato di impugnare la citata legge regionale in quanto «talune disposizioni in materia di immigrazione appaiono discriminatorie, in contrasto con i principi di cui all’articolo 3 della Costituzione e in violazione della competenza esclusiva statale nella materia di cui all’articolo 117, secondo comma lettera b) della Costituzione». La norma “nel mirino” è l’art. 88, comma 1, della L. R. cit. nella parte in cui dopo il comma 3 dell’art. 77 della L. n. 18/2005, inserisce il comma 3 quinquies disponendo che «al fine di favorire il riassorbimento delle eccedenze occupazionali determinatesi sul territorio regionale in conseguenza di situazioni di crisi aziendale, gli incentivi di cui al comma 3 bis possono essere concessi esclusivamente a fronte di assunzioni, inserimenti o stabilizzazioni occupazionali riguardanti soggetti che, alla data della presentazione della domanda di incentivo, risultino residenti continuativamente sul territorio regionale da almeno cinque anni». In questo caso, come in quello che ha richiesto il chiarimento dell’ANPAL, non si tratta di prestazioni di assistenza sociale, ma certamente il diritto al lavoro è da ricondurre nel novero dei diritti fondamentali della persona e ravvisare un criterio di ragionevolezza nella differenziazione tra cittadini italiani/comunitari e cittadini extra UE – regolarmente soggiornanti nel nostro Paese e in possesso di un permesso che consenta di lavorare – in merito all’attuazione di questo diritto basandola sulla permanenza nel territorio regionale
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V. Nota ANPAL 23 maggio 2018, n. 6202, www.anpal.gov.it.
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non è condivisibile, specie se si considera che il lavoro, per tutti e ancora di più per i soggetti a rischio di esclusione sociale (come spesso sono gli stranieri), costituisce la “porta di accesso” ai diritti sociali e contribuisce alla liberazione dal bisogno25. Valeria Filì
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V. Brollo, Immigrazione e (diritto del) lavoro, in Montanari e Severino (a cura di), I sistemi di welfare alla prova delle nuove dinamiche migratorie, Editoriale Scientifica, 2018, 7.
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Giurisprudenza C orte di Cassazione , sentenza 11 marzo 2019, n. 6947; Pres. Nobile – Est. Patti – P.M. Sanlorenzo (concl. conf.) – C. G. (avv. Milano) c. Società Cooperativa Autotrasporti Adranone Società Cooperativa a r.l. (avv. Cimino). Cassa con rinvio App. Palermo, sent. n. 551/2017 Licenziamenti – Società cooperativa – Art. 18 l. n. 300/1970 – Requisito dimensionale – Computo dei soci lavoratori – Inclusione.
In una società cooperativa, anche i soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato devono essere computati ai fini del requisito dimensionale per l’applicazione del regime di stabilità del rapporto di lavoro.
Svolgimento del processo. – Con sentenza in data 16 giugno 2017, la Corte d’appello di Palermo condannava la s.c.ar.l Autoservizi Adranone alla riassunzione entro tre giorni di G. C. o, in mancanza, al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di un’indennità pari a quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto: così riformando la sentenza di primo grado, che (in parziale riforma dell’ordinanza che aveva accertato l’illegittimità del licenziamento intimato con lettera del 10 settembre 2014, per giustificato motivo oggettivo per crisi di liquidità con riduzione delle corse nell’invarianza delle linee di trasporto urbano esercitato nei comuni di Sambuca di Sicilia e di Santa Margherita Belice e condannato la società datrice al pagamento, in favore del lavoratore, di un’indennità risarcitoria pari a quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) aveva condannato la società cooperativa alla reintegrazione di G. C. e alla corresponsione, in suo favore a titolo risarcitorio, delle retribuzioni, commisurate all’ultima globale di fatto, dal licenziamento all’effettiva reintegrazione. (Omissis) Essa riteneva poi applicabile il cd. “rito Fornero” anche alla tutela obbligatoria – Omissis. (Omissis) Con atto notificato il 10 agosto 2017, il lavoratore ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui resisteva la società con controricorso, contenente ricorso incidentale con unico motivo, cui il primo replicava con controricorso. Entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. Motivi della decisione. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 18, ottavo e nono comma l. 300/1970, come mod. dall’art. 1, comma 42 l. 92/2012, 2 l. 142/2001, per erronea esclusione nel computo del requisito dimensionale dei soci lavoratori della cooperativa con rapporto di lavoro subordinato (con essi invece integrato), in funzione dell’applicazione della tutela reale.
(Omissis) Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 18, ottavo e nono comma I. 300/1970 come mod. dall’art. 1, comma 42 l. 92/2012 e 2 l. 142/2001 per erronea esclusione nel computo del requisito dimensionale dell’impresa cooperativa dei soci lavoratori subordinati, è fondato. Reputa questa Corte che debba essere superato il precedente indirizzo, seguito dalla Corte territoriale, di esclusione dal computo dei dipendenti di un’impresa cooperativa ai fini dell’applicabilità della disciplina limitativa dei licenziamenti, sull’essenziale rilievo della tutela del posto di lavoro dei soci lavoratori non in base alla stabilità del rapporto ma allo stesso patto sociale (Cass. 17 luglio 1998, n. 7046). E ciò per effetto della disciplina innovativa introdotta dalla legge 3 aprile 2001, n. 142 (di revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore), assunta a discrimine della (im)possibilità di qualificazione dei soci di cooperative di produzione e lavoro alla stregua di dipendenti delle medesime, per le prestazioni rivolte a consentire ad esse il conseguimento dei fini istituzionali e rese secondo le prescrizioni del contratto sociale, appunto in riferimento al regime anteriore a quello introdotto dalla legge citata (Cass. 21 ottobre 2003, n. 15750; Cass. 19 agosto 2004, n. 16281; Cass. 24 febbraio 2009, n. 4415). Con la nuova normativa è stata infatti introdotta una diversa visione della prestazione lavorativa del socio, non più quale mero adempimento del contratto sociale, ma piuttosto radicata in un “ulteriore” rapporto (appunto) di lavoro, ai sensi dell’art. 1, terzo comma I. cit. Essa ha così assunto una propria autonomia, segnando un’espansione degli istituti e delle discipline propri del lavoro subordinato in funzione protettiva del socio lavoratore, in virtù di una ridefinizione del rapporto associativo e di lavoro alla stregua di un collegamento negoziale, sia pure nella fase estintiva
Giurisprudenza
unidirezionale, nel senso dell’ineluttabile cessazione del rapporto di lavoro per effetto della cessazione del rapporto associativo, ma non viceversa. Tuttavia, non in modo tale da obliterare la rilevanza di quello di lavoro anche nella fase estintiva: si è ritenuto, infatti, non essere preclusa dall’omessa impugnativa della delibera di esclusione dalla società cooperativa, qualora per le medesime ragioni afferenti al rapporto lavorativo siano stati contestualmente emanati la delibera e il licenziamento, la tutela risarcitoria stabilita dall’art. 8 l. 604/1966, ma soltanto quella restitutoria della qualità di lavoratore (Cass. s.u. 20 novembre 2017, n. 27436). In continuità con una tale impostazione è stato quindi ritenuto che il rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa sia assistito dalla garanzia di stabilità, poiché, in caso di licenziamento, la maggiore onerosità per il conseguimento della tutela restitutoria, legata, oltre che all’impugnativa del licenziamento stesso, anche alla tempestiva opposizione alla contestuale delibera di esclusione, non può essere, di per sé, definita equivalente ad una condizione di metus caratterizzante lo svolgimento del rapporto lavorativo, tale da indurre il socio lavoratore a non esercitare i propri diritti per timore di perdere il posto di lavoro (Cass. 9 luglio 2018, n. 17989). Occorre inoltre considerare come, nel novellato testo dell’art. 18, ottavo e nono comma l. 300/1970 (e prima nell’art. 1, primo e secondo comma I. 108/1990), sia assente, in riferimento alla peculiare figura di lavoratori in esame, alcuna esplicita esclusione dalla previsione di computo dei dipendenti per la dimensione rilevante ai fini dell’applicazione della tutela reale, al di fuori del coniuge e dei parenti del datore dì lavoro
entro il secondo grado in linea diretta e collaterale; e che anzi è stabilita espressamente l’applicazione, ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato, della legge 300/1970, con la sola “esclusione dell’art. 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo” (art. 2, primo comma l. 142/2001). Ed allora, la vigente disciplina deve essere intesa nel senso della sua integrale applicazione, in costanza di rapporto associativo, ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato: sicché, anch’essi devono essere computati ai fini del requisito dimensionale. (Omissis) In esito alle superiori argomentazioni il motivo deve essere pertanto accolto, in applicazione – Omissis, del seguente principio di diritto: “In una società cooperativa, anche i soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato devono essere computati ai fini del requisito dimensionale per l’applicazione del regime di stabilità del rapporto di lavoro: con la conseguenza della fruibilità anche dai lavoratori dipendenti non soci della tutela prevista dall’art. 18 I. 300/1970, nel testo novellato dall’art. 1, comma 42 I. 92/2012”. (Omissis) Dalle superiori argomentazioni discende l’accoglimento del primo motivo di ricorso principale, – Omissis, con la cassazione della sentenza in relazione al motivo accolto e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Palermo in diversa composizione. (Omissis)
Cassazione: anche i soci lavoratori di cooperativa nel computo dei dipendenti ai fini dell’applicazione della tutela reale Sommario : 1. Il caso. – 2. L’orientamento previgente. – 3. L’entrata in vigore della l. 3 aprile 2001, n. 142. – 4. La pronuncia della Suprema Corte. – 5. I criteri di computo dell’organico aziendale.
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Sinossi. Dopo aver brevemente descritto l’impostazione tradizionale del rapporto di lavoro in cooperativa e l’evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha portato all’approvazione della l. 3 aprile 2001, n. 142, il commento si concentra sulla portata innovativa della sentenza in esame che affronta la questione della computabilità dei soci lavoratori ai fini dell’applicazione della tutela reale ex art. 18 St. Lav. Poiché l’art. 2, primo comma, l. n. 142 del 2001 prevede l’applicazione ai soci lavoratori di cooperativa dell’art. 18 l. n. 300 del 1970 ogni qualvolta che col rapporto di lavoro non venga a cessare anche quello associativo, la Suprema Corte ritiene che gli stessi debbano rientrare nel novero dei lavoratori computabili per determinare la relativa soglia dimensionale di applicazione. Nella parte conclusiva il commento si sofferma sulla descrizione dei criteri di computo dell’organico aziendale.
1. Il caso. Con la pronuncia in commento la Suprema Corte supera il precedente indirizzo di esclusione dei soci lavoratori dal computo del requisito dimensionale di cui all’art. 18, commi 8 e 9, l. 20 maggio 1970, n. 300. La vicenda prende avvio con l’impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo per crisi di liquidità da parte di un dipendente – da quanto sembra emergere, non socio – di un’impresa cooperativa di autotrasporti palermitana. Il giudice di prime cure, nell’accertare l’illegittimità del licenziamento, aveva condannato la società alla reintegrazione del lavoratore e alla corresponsione in suo favore, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni dal licenziamento alla effettiva reintegrazione. La Corte di appello di Palermo, invece, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato la cooperativa in osservanza dell’art. 8 l. 15 luglio 1966, n. 604, alla riassunzione del dipendente entro tre giorni o, in mancanza, al pagamento in suo favore a titolo risarcitorio, di un’indennità pari a quattro mensilità dell’ultima globale di fatto, ritenendo non integrato il requisito dimensionale di cui all’art. all’art. 18 l. n. 300/1970, dovendosi escludere dal computo dei dipendenti i soci lavoratori. Nel ricorrere avanti alla Suprema Corte il lavoratore deduceva violazione e falsa applicazione degli artt. 18, commi 8 e 9, l. n. 300/1970 (come modificata dall’art. 1, comma 42, l. 28 giugno 2012, n. 92) e 2 l. 3 aprile 2001, n. 142 per erronea esclusione nel computo del requisito dimensionale dei soci lavoratori della cooperativa con rapporto di lavoro subordinato, in funzione dell’applicazione della tutela reale.
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2. L’orientamento previgente. Fino all’entrata in vigore della l. n. 142/2001 il rapporto di lavoro in cooperativa risultava del tutto privo di una disciplina ad hoc1. Il lavoro cooperativo ha avuto, di fatto, per molto tempo, una regolamentazione esclusivamente giurisprudenziale. L’impostazione tradizionale, condivisa dalla Corte Costituzionale2, nonché dalla dottrina maggioritaria3, negava la prospettazione di un rapporto di lavoro intercorrente tra socio lavoratore e cooperativa ogni qualvolta l’attività lavorativa corrispondesse a quella dell’oggetto sociale4. Si riteneva, dunque, che i soci di una cooperativa di lavoro non potessero considerarsi dipendenti della medesima società per le prestazioni rivolte a consentire ad essa il conseguimento dei fini istituzionali5. In questa direzione gli stessi soci lavoratori venivano esclusi dal computo del requisito dimensionale ai fini dell’applicabilità della disciplina limitativa dei licenziamenti. La giurisprudenza inoltre riteneva che non potessero valere nei confronti del socio lavoratore i vincoli e le garanzie poste dallo Statuto dei Lavoratori in quanto, nel caso di specie, il relativo diritto al posto di lavoro non derivava dalla stabilità del rapporto, ma dallo stesso patto sociale; di conseguenza la perdita del posto di lavoro poteva avvenire solo per esclusione dalla società, e non anche per licenziamento6. Tale fase di apparenti certezze7 tuttavia era stata messa in discussione dalla pronuncia delle Sezioni Unite del 30 ottobre 1998, n. 10906 che aveva attribuito al giudice del lavoro la competenza per le controversie sorte fra il socio e la cooperativa di produzione e lavoro8.
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Alleva, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Società, 2001, 6, 641; Meliadò, Il lavoro nelle cooperative: tempo di svolte, in RIDL, 1, 2001, I, 26, ha sottolineato come la questione dell’inquadramento del lavoro in cooperativa abbia rappresentato l’«illustre assente» dei progetti che, nel corso degli anni, a vario titolo, si sono occupati della riforma delle società. 2 V. C. cost., 30 dicembre 1998, n. 451, in FI, 2000, I, 1095, con nota di Ricci. 3 Andreoni, Il socio lavoratore delle cooperative di produzione e lavoro: la configurazione attuale e le prospettive di riforma, in RGL, 1998, I, 77 ss; Bonfante, Cooperazione e imprese cooperative, in DDP comm, Utet, 1997, XIV, appendice, 489 ss.; Mariani, Cooperativa di lavoro, in Enc. dir., Giuffrè, 1997, aggiornamento I, consultabile in Banca Dati DeJure; Biagi, Lavoro associato-Cooperazione, voce del DDP comm., Utet, 1992, VIII, 201 ss; Vallebona, Il lavoro in cooperativa, in RIDL, 1991, I, 291 ss. 4 Cass., 25 gennaio 2000, n. 835, Cass., 13 gennaio 2000, n. 304, Cass., 11 gennaio 2000, n. 227 e Cass., 2 aprile 1999, n. 3180, in FI, 2000, I, 1095, con nota di Ricci, op. cit; Cass., 23 febbraio 1998, n. 1917, in FI, Rep. 1998, voce Lavoro (rapporto), n. 776; Cass. civ., sez. I, 21 marzo 1995, n. 3250, in FI, Rep. 1995, voce Lavoro (rapporto), n. 611; Cass., 17 ottobre 1992, n. 11381, in FI, Rep. 1993, voce Lavoro (rapporto), n. 594; Cass. civ., 5 febbraio 1991, n. 1097, in FI, voce Lavoro e Previdenza (controversie), n. 56; Cass., sez. un., 29 marzo 1989, n. 1530, in FI, 1989, I, 2181. 5 Un rapporto di lavoro subordinato poteva giustificarsi solo ove il socio svolgesse un’attività distinta e diversa da quella che fosse obbligato a conferire in base all’atto costitutivo e in cui si concretava l’esercizio in comune dell’impresa (orientamento inaugurato da Cass., 28 luglio 1951, n. 2188, in FI, 1952, I, 1382 e che ha trovato una più compiuta sistemazione con Cass., sez. un., 29 marzo 1989, n. 1530, in FI, 1989, I, 2181). Oppure laddove si deducesse, dall’effettiva volontà delle parti o dalle circostanze concrete in cui il rapporto si era sviluppato, che il contratto cooperativistico fosse stato utilizzato in modo simulato o fraudolento. 6 Cass., 17 luglio 1998, n. 7046 in Banca Dati DeJure; Cass., 4 maggio 1983, n. 3068, in FI, Rep. 1983, voce Lavoro (rapporto), n. 2144. 7 Meliadò, Nuove incertezze per il lavoro cooperativo, in FI, V, 2003, 134. 8 Cass., sez. un., 30 ottobre 1998, n. 10906, in FI, 2000, I, 912, con nota di Ricci.
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Si era stabilito che, alla luce dell’estensione operata dal legislatore ai soci delle cooperative di lavoro di istituti propri dei lavoratori subordinati come l’assicurazione contro l’invalidità, la vecchiaia e gli infortuni (art. 2 r.d. 28 agosto 1924, n. 1422 e artt. 4, n. 7, e 9 d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124), le garanzie in materia di orario di lavoro (art. 2 r.d. 10 settembre 1923, n. 1955), di riposo domenicale e settimanale (art. 2 l. 22 febbraio 1934, n. 370), di assegni familiari (art. 1 d.p.r. 30 maggio 1995, n. 797) e di tutela delle lavoratrici madri (art. 1 l. 30 dicembre 1971, n. 1204), la disciplina della Cassa integrazione guadagni e dei licenziamenti collettivi (art. 8 l. 19 luglio 1993, n. 236), «non [poteva] più ritenersi che l’unicità del centro di interessi ed il vincolo associativo [fossero] ancora prevalenti su quegli elementi, quale la collaborazione e la coordinazione delle prestazioni lavorative, che caratterizzano il rapporto di parasubordinazione di cui al n. 3 dell’art. 409 c.p.c., ovvero, se del caso, sulla subordinazione che caratterizza il rapporto di cui al n. 1 del medesimo articolo». In questo modo veniva smentito il postulato fondamentale della tesi tradizionale, e cioè l’impossibilità di ricomprendere la posizione del socio in una «categoria contigua ed interdipendente a quella del lavoro subordinato»9.
3. L’entrata in vigore della l. 3 aprile 2001, n. 142. Con la l. 3 aprile 2001, n. 142 il legislatore ha finalmente disciplinato la prestazione di attività lavorativa da parte del socio di società cooperativa10. L’art. 1, comma 3, l. n. 142/2001 prevede espressamente che il socio lavoratore «stabilisce» con la cooperativa – oltre che il «rapporto associativo» – anche un «ulteriore rapporto di lavoro»11, parimenti funzionale al «raggiungimento degli scopi sociali». In particolare la legge fa discendere la costituzione del rapporto di lavoro tra socio e cooperativa dall’instaurazione (contestuale o pregressa) del rapporto associativo. Il nesso di derivazione che ne risulta rende il rapporto di lavoro inscindibile da quello associativo12. Come si è osservato in dottrina, il rapporto tra contratto sociale e contratto di lavoro configura un classico esempio di collegamento negoziale tipico13. Nella sua versione originaria l’art. 1 l. n. 142/2001 qualificava il rapporto di lavoro come «ulteriore» e «distinto» rispetto a quello associativo; la l. 14 febbraio 2003, n. 30 ha espunto dalla lettera della legge l’aggettivo «distinto», sottolineando così la strumentalità del primo rapporto rispetto al secondo14.
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Cass., sez. un., 30 ottobre 1998, n. 10906, cit. Alleva, op. cit., ibidem. 11 Sia in forma subordinata che autonoma, o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale. 12 De Luca, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa (l. 3 aprile 2001, n. 142), in FI, 2001, V, 236. 13 Alleva, op. cit., 642. 14 Dondi, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la c.d. legge Biagi, in ADL, 2004, 1, 63; Vedani, Socio lavoratore di cooperativa: risoluzione del rapporto, in DPL, 12/2013, 803. 10
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In questa direzione l’art. 2 l. n. 142/2001 prevedeva e prevede l’applicazione, ai soci con rapporto di lavoro subordinato, di tutte le disposizioni dello Statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970, n. 300), con esclusione dell’art. 18 «ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo». Restava da capire, però, se i soci di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato dovessero essere computati nel livello occupazionale richiesto ai fini dell’accesso alla tutela reale (art. 35, st. lav. e succ. mod.). Una parte della dottrina ha affermato, sia pure in termini dubitativi, l’incomputabilità del socio lavoratore subordinato, anche alla luce di quanto previsto dalla l. 12 marzo 1999, n. 68 che, anche dopo le modificazioni apportate dalla l. n. 92/2012, all’art. 4 prevede che agli effetti della determinazione del numero dei soggetti disabili da assumere, non siano computabili tra i dipendenti i soci di cooperative di produzione e lavoro15. Altro orientamento invece ha ritenuto che laddove l’art. 2 della l. n. 142/2001 ritiene applicabile ai soci lavoratori l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ogni qualvolta che col rapporto di lavoro non venga a cessare anche quello associativo, gli stessi dovrebbero rientrare nel novero dei lavoratori computabili per determinare la relativa soglia dimensionale di applicazione16. In questo senso si sono espresse anche le poche sentenze apparse dopo l’entrata in vigore della l. n. 142/200117.
4. La pronuncia della Suprema Corte. Nella pronuncia in commento la Suprema Corte statuisce che proprio per effetto della disciplina innovativa introdotta dalla l. n. 142/2001 (di revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore) debba ritenersi superato il precedente indirizzo di esclusione dei soci lavoratori dal computo dei dipendenti di un’impresa cooperativa ai fini dell’applicabilità della disciplina limitativa dei
Anche la Circolare del Ministero del Lavoro 18 marzo 2004, n. 10 ha evidenziato come «Con tale modifica [venga] ulteriormente confermata la preminenza del rapporto associativo su quello di lavoro, in ossequio alla tesi dello «scambio ulteriore» sulla quale è imperniato tutto l’impianto della legge n. 142/2001» e come «con l’intervento correttivo apportato [venga] fugato ogni possibile dubbio sul fatto che il rapporto di lavoro sia strumentale al vincolo di natura associativa (…)». 15 De Luca, op. cit., 243. 16 Imberti, Il socio lavoratore di cooperativa, Giuffrè, 2012, 170-171; Vedani, op. cit., 807. 17 Trib. Parma, 7 ottobre 2010, in RGL, n. 1/2011, 16; Trib. Milano, 12 febbraio 2009, in FI, Rep. 2009, voce Lavoro (rapporto), n. 1479. Anche Cass., 6 agosto 2012, n. 14143, in FI, dove si legge: «È vero che i soci della società cooperativa non sono computabili al fine del riscontro del requisito dimensionale per la tutela reale. Ma al contrario sono computabili i soci lavoratori proprio perché per essi accanto al rapporto societario sussiste un normale rapporto di lavoro. In proposito questa Corte (Cass., sez. lav., 8 febbraio 2011, n. 3043) ha affermato che, in caso di licenziamento disciplinare intimato da una società cooperativa di produzione e lavoro, l’onere probatorio della sussistenza anche del rapporto associativo con il lavoratore compete alla società e, ove tale onere non sia assolto, deve escludersi la possibilità di attribuire al medesimo la qualità di socio-lavoratore, dovendo egli essere considerato un lavoratore subordinato puro e semplice, con conseguente inapplicabilità della L. 3 aprile 2001, n. 142, art. 2 il quale, nel caso in cui venga a cessare, con il rapporto di lavoro, anche quello associativo, prevede che ai soci lavoratori si applica la L. 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell’art. 18».
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licenziamenti, fondato sull’essenziale rilievo della tutela del posto di lavoro dei soci lavoratori non in base alla stabilità del rapporto ma allo stesso patto sociale. Con la nuova normativa – precisa la Corte – è stata introdotta una diversa visione della prestazione lavorativa del socio, non più quale mero adempimento del contratto sociale18, ma piuttosto radicata in un «ulteriore» rapporto di lavoro (art. 1, comma 3, l. n. 142/2001). Essa ha quindi assunto una propria autonomia «segnando un’espansione degli istituti e delle discipline propri del lavoro subordinato in funzione protettiva del socio lavoratore, in virtù di una ridefinizione del rapporto associativo e di lavoro alla stregua di un collegamento negoziale, sia pure nella fase estintiva unidirezionale, nel senso dell’ineluttabile cessazione del rapporto di lavoro per effetto della cessazione del rapporto associativo, ma non viceversa». Tale nesso di collegamento tra rapporto associativo e rapporto di lavoro, per quanto unidirezionale, non riesce però ad oscurare la rilevanza di quello di lavoro, anche nella fase estintiva: per cui in caso di impugnazione da parte del socio del recesso della cooperativa, la tutela risarcitoria prevista dall’art. 8, l. n. 604/1966 non è inibita dall’omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni afferenti al rapporto lavorativo, restando esclusa solo la tutela restitutoria della qualità di lavoratore19. In continuità con tale impostazione – proseguono gli Ermellini – si è sostenuto che il rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa sia assistito dalla garanzia di stabilità in quanto, in caso di licenziamento, la maggiore onerosità per il conseguimento della tutela restitutoria (legata oltre che all’impugnativa del licenziamento, anche alla tempestiva opposizione alla delibera di esclusione) non può definirsi di per sé equivalente ad una condizione di metus caratterizzante lo svolgimento del rapporto lavorativo e tale da indurre il socio lavoratore a non esercitare i propri diritti per timore di perdere il proprio posto di lavoro20. Inoltre concludendo la Corte evidenzia come nel testo dell’art. 18, commi 8 e 9, l. n. 300/1970 (così come modificata dalla l. n 92/2012), sia assente, proprio con riferimento alla peculiare figura di lavoratori in esame, alcuna esplicita esclusione dalla previsione di computo dei dipendenti per la dimensione rilevante ai fini dell’applicazione della tutela reale; e che anzi è stabilita espressamente dall’art. 2, primo comma, l. n. 142/2001 l’applicazione, ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato, della l. n. 300/1970 con la sola esclusione dell’art. 18 ogni volta che con il rapporto di lavoro venga a cessare anche quello associativo.
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V. Cass., 19 agosto 2004, n. 16281, in Banca Dati DeJure: «(…) nel regime anteriore a quello dettato dalla legge 3 aprile 2001, n. 142, il cui art. 1, comma 3, dispone che i soci lavoratori devono stipulare un distinto contratto di lavoro, autonomo o subordinato, i soci di cooperative di produzione e lavoro non possono essere considerati dipendenti delle medesime per le prestazioni rivolte a consentire ad esse il conseguimento dei fini istituzionali e rese secondo le prescrizioni del contratto sociale». Cfr. Cass., 24 febbraio 2009, n. 4415; Cass. 21 ottobre 2003, n. 15750, in Banca Dati DeJure, richiamate nel corpo della sentenza in commento. 19 Viene così richiamata Cass., sez. un., 20 novembre 2017 n. 27436, in RIDL, 2, 2018, II, 324, con nota di Sardaro e in GComm, 2018, IV, 654, con nota di Buoso. 20 V. Cass., 9 luglio 2018, n. 17989, in Banca Dati DeJure.
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Per cui «la vigente disciplina deve essere intesa nel senso della sua integrale applicazione, in costanza di rapporto associativo, ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato: sicché, anch’essi devono essere computati ai fini del requisito dimensionale».
5. I criteri di computo dell’organico aziendale. Al fine di calcolare il numero dei lavoratori occupati in funzione dell’applicabilità del regime di stabilità reale, si pongono sostanzialmente due questioni: la determinazione del livello occupazionale in generale e l’identificazione in particolare dei lavoratori computabili secondo il tipo di rapporto di lavoro. Quanto alla determinazione del livello occupazionale, la giurisprudenza ha affermato che nel computo del dato numerico assunto a parametro dimensionale dell’unità produttiva, il numero di lavoratori vada accertato avendo riguardo non al criterio del numero dei lavoratori occupati alla data della intimazione del licenziamento, ma a quello della «normale occupazione» o «media occupazionale»21. Tale criterio del «normale livello occupazionale» implica il riferimento all’organigramma produttivo o in mancanza, alle unità lavorative necessarie, secondo la normale produttività dell’impresa, valutata con riguardo al periodo occupazionale antecedente la data dell’intimazione del recesso, e salva all’imprenditore, la dimostrazione delle ragioni tecniche, produttive e organizzative che hanno imposto, in tale periodo, la diminuzione della forza occupazionale22. Considerata l’elasticità di siffatto criterio decisorio, si è posto il problema di delimitarne l’operatività cronologica, definendo con maggior precisione l’arco temporale di riferimento23. Sul punto, però, la giurisprudenza si mostra oscillante. Vi sono state pronunce che hanno fissato lo spazio temporale su cui misurare la media occupazionale in tre mesi antecedenti la data del recesso24; altre in un anno25, anche se in questo caso il criterio è stato bilanciato (e quindi stemperato) dall’affermazione che la media del personale occupato in tale periodo non deve essere rigidamente e meramente quantitativa, ma deve approfondire gli aspetti economici e congiunturali della produzione sì da identificare di volta in volta la reale ed oggettiva dimensione dell’impresa26.
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Cass., sez. VI, ord. 14 dicembre 2010, n. 25249; Cass., 10 febbraio 2004, n. 2546; Cass., 10 settembre 2003, n. 13274, in Leggi d’Italia; Cass., 5 aprile 2001, n. 5092, in FI, 2001, I, 2527; Cass., 29 luglio 1998, n. 7448; Cass., 20 febbraio 1996, n. 1298; Cass., 27 marzo 1996, n. 2756, in Banca Dati DeJure. 22 Cass., 13 gennaio 2016, n. 362; Cass., 17 febbraio 2012, n. 2315; Cass., 4 settembre 2003, n. 12909; Cass., 3 novembre 1989, n. 4579, in Banca Dati DeJure. 23 Corsinovi, Ancora su tutela reale e criteri di computo dell’organico aziendale, in RIDL, 1, 2002, II, 131. 24 Cass., 22 aprile 1997, n. 3450, in Banca Dati DeJure. 25 Cass., 30 dicembre 1974, n. 4394, in MGL, 1975, 393. 26 Sul punto v. Amoroso, Art. 18, Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, in Amoroso, Di Cerbo, Maresca (a cura di),
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Altre decisioni hanno affermato che il requisito dimensionale deve essere determinato con riguardo all’occupazione media dell’ultimo semestre, in analogia con quanto espressamente stabilito dall’art. 1 l. 23 luglio 1991, n. 22327 e altre ancora hanno invece fatto riferimento «al periodo temporale in cui si consuma il normale ciclo produttivo»28. Quanto alle categorie di lavoratori da ricomprendere nel calcolo, si ritiene che il criterio della normale consistenza dell’organico debba essere riferito ai soli lavoratori dipendenti, e non semplicemente agli addetti o agli occupati, non potendosi considerare dipendenti tutti coloro che prestino la propria attività per l’azienda, ma solo quelli a essa legati da rapporto di subordinazione29. In particolare, rientrano nel computo ai fini dell’applicazione dell’art. 18, commi 8 e 9, l. n. 300/1970, i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato; i lavoratori assunti a tempo determinato30; i prestatori assunti con contratto part-time, in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno31; i lavoratori intermittenti, in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre32; i lavoratori a domicilio33 e, da ultimo, i soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato. Non sono invece computabili nell’organico gli apprendisti34, i lavoratori somministrati35, i prestatori assunti con contratto di reinserimento36, il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale37. Alessia Matteoni
Diritto del Lavoro, Giuffrè, 2014, 825. Cass., 12 novembre 1999, n. 12592, in Banca Dati DeJure. 28 Cass., 17 novembre 1987, n. 8434 e Cass., 3 marzo 1987, n. 2241, in Banca Dati DeJure. 29 Cass., 14 ottobre 2011, n. 21280, in Banca Dati DeJure. 30 In tal senso, l’art. 27 d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 stabilisce: «Salvo che sia diversamente disposto, ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, si tiene conto del numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato, compresi i dirigenti, impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro». 31 In questo caso la specifica previsione è contenuta nell’art. 9 d.lgs. n. 81/2015: «Ai fini della applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, i lavoratori a tempo parziale sono computati in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno. A tal fine, l’arrotondamento opera per le frazioni di orario che eccedono la somma degli orari a tempo parziale corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno». 32 Art. 18 d.lgs. n. 81/2015: «Ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, il lavoratore intermittente è computato nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre». 33 V. Circ. Min. Lav. 16 gennaio 2013, n. 3. 34 Art. 47, comma 3, d. lgs. n. 81/2015: «Fatte salve le diverse previsioni di legge o di contratto collettivo, i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti». 35 Art. 34, comma 3, d.lgs. n. 81/2015: «Il lavoratore somministrato non è computato nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell’applicazione di normative di legge o di contratto collettivo, fatta eccezione per quelle relative alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro». 36 Art. 20, comma 4, l. n. 223/1991 secondo cui: «I lavoratori assunti con contratto di reinserimento sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative ed istituti». 37 V. art. 18, comma 9, l. n. 300/1970. 27
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Giurisprudenza Tar Sicilia – C atania, sez. II, sentenza 17 aprile 2019 n. 903; Pres. Brugaletta - Est. Elefante - F.D. (Avv.ti Ammendolia e Verga) c. Università degli studi di Catania (Avv. Stato). Pubblico impiego – Costituzione del rapporto di lavoro – Modalità alternative all’assunzione per concorso – Natura eccezionale – Presupposti.
Nell’impiego pubblico l’assunzione mediante concorso costituisce la regola. Le modalità alternative di accesso hanno natura eccezionale e possono avvenire nei casi espressamente previsti dal legislatore. Pubblico impiego – Stabilizzazione ex art. 20 d.lgs. n. 75/2017 – Requisiti di partecipazione – Applicazione restrittiva.
Le disposizioni dell’art. 20 d.lgs. n. 75/2017 disciplinanti procedure di stabilizzazione del personale precario, in quanto costituenti eccezione alla regola del reclutamento mediante concorso, devono essere necessariamente interpretate in senso restrittivo e non sono suscettibili di applicazione analogica. (Omissis) La ricorrente ha adito l’intestata Sezione chiedendo l’annullamento dei provvedimenti amministrativi, di cui meglio in epigrafe, a mezzo dei quali l’Università di Catania le ha negato, in sostanza, il diritto a partecipare ad una procedura di stabilizzazione del personale tecnico-amministrativo (prot. n. 158486 del 22.12.2017), indetta ai sensi dell’art.20 D.lgs. n. 75/2017, pur avendo ivi lavorato quale funzionario nel settore amministrativo-gestionale dal 01.10.2011 al 12.12.2016 con contratti a tempo determinato di collaborazione coordinata e continuativa, a seguito di selezione pubblica indetta dalla stessa Università. L’amministrazione resistente, infatti, la escludeva in ragione della erronea motivazione per cui non potevano essere computate, ai fini del requisito di tre anni previsto dalla citata legge, anche le prestazioni svolte sulla base di contratti a tempo determinato di collaborazione coordinata e continuativa (c.d. co.co.co.). Deduceva quindi, in punto di diritto, i seguenti motivi di gravame: - “Violazione e mancata applicazione dell’art. 20 comma 1, d.lgs. n. 75/2017, dell’art.3 l. n. 241/90 e dell’art. 97 Cost.” atteso che il richiamato sistema normativo consentiva la stabilizzazione di tutte le tipologie contrattuali a tempo determinato, senza distinzione, purché stipulati all’esito di una procedura concorsuale; - “Eccesso di potere per difetto dei presupposti di fatto e di diritto. Illogicità e ingiustizia manifesta”, atteso che l’interpretazione data alla suddetta normativa dall’amministrazione resistente risultava illogica considerato che la ricorrente non poteva così rientrare né nella stabilizzazione diretta di cui al comma 1, né in
quella tramite riserva dei posti di cui al comma 2, ove è richiesto che i candidati non siano stati reclutati mediante concorso. - “Violazione e mancata applicazione delle circolari n. 3/2017, n. 1/2018 del Ministero della semplificazione e la pubblica amministrazione. Violazione e mancata applicazione dell’art.3 l. n. 241/90. Eccesso di potere per contraddittorietà” atteso che le richiamate circolari amministrative prevedevano espressamente, in merito al computo dei tre anni di servizio necessari per accedere alla procedura, che “gli anni utili da conteggiare ricomprendono tutti i rapporti di lavoro prestato direttamente con l’amministrazione, anche con diverse tipologie di contratto flessibile”, ossia anche i c.d. “co.co.co.”. Si costituiva in giudizio l’amministrazione resistente deducendo, peraltro, l’infondatezza del ricorso. All’udienza del 27.3.2019 la causa, come in verbale, veniva chiamata e trattenuta in decisione previo avviso alle parti di definizione mediante sentenza breve. Il ricorso deve essere rigettato perché infondato. In limine litis occorre tuttavia dare atto che la giurisdizione sulla presente controversia appartiene al giudice amministrativo. Si deve infatti considerare che la stabilizzazione dei precari è una procedura volta all’instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha ribadito, infatti, quanto già affermato in precedenti pronunce ed ossia che: “La controversia in materia di stabilizzazione del personale precario di una pubblica amministrazione, concernendo gli atti di una procedura concorsuale finalizzata all’assunzione di alcuni
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lavoratori mediante il loro passaggio dallo stato di personale precario a quello di personale di ruolo, è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo” (Cassazione civile, sez. un., 13/12/2017, n. 29915); Ciò detto, quanto al merito della controversia il Collegio osserva in primo luogo che, secondo quanto sancito dall’art.97, co. 4, Cost., agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvi i casi stabiliti dalla legge. Come è agevole evincere dal tenore letterale della richiamata norma costituzionale, l’assunzione mediante espletamento di una procedura concorsuale costituisce la regola, mentre il reclutamento mediante modalità alternative rappresenta l’eccezione, ammissibile soltanto nei casi espressamente previsti dal legislatore. Di conseguenza, le disposizioni normative disciplinanti procedure di assunzione diverse dal concorso pubblico, in quanto costituenti eccezione alla citata regola generale, devono essere necessariamente interpretate in senso restrittivo, non essendo, né potendo essere, suscettibili di applicazione analogica onde non incorrere nella violazione del divieto di cui all’art.14 disp. prel. c.c. Con riguardo al caso in esame, la procedura di stabilizzazione dei lavoratori precari prevista dall’art.20 comma 1 D.Lgs. n. 75/2017 rientra nell’ambito delle modalità di reclutamento alternative al concorso pubblico diretto e, dunque, la relativa disciplina deve essere interpretata in senso restrittivo quanto ai presupposti, ivi compreso il requisito di cui alla lettera a), ossia essere già “in servizio”. Elemento quest’ultimo che viceversa manca in capo alla ricorrente atteso che i contratti allegati, in ragione della natura degli stessi, sono stati stipulati all’esito di una mera selezione per curricula senza integrare l’elemento della “presa di servizio”: è, infatti, proprio la natura dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa - ove il soggetto tenuto alla prestazione lavorativa non assume la posizione di lavoratore subordinato, prestando viceversa la propria professionalità in modo autonomo seppur coordinato – a consentire, a monte, una selezione della controparte contrattuale al di fuori dagli schemi concorsuali (in cui è invece richiesta l’esecuzione di almeno una prova scritta e una orale nonché la elaborazione di una graduatoria finale essendo il concorso una procedura comparativa forte ove centrale è il ruolo della motivazione del singolo rispetto agli altri candidati).
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La circostanza che anche la tipologia del contratto di co.co.co sia a tempo determinato non elide, infatti, la natura dello stesso, ossia di contratto di lavoro non subordinato, che proprio perché tale permette l’individuazione del prestatore a mezzo di procedura selettiva non concorsuale (ossia senza prove scritte e orali e senza graduatoria). Il che è esattamente quanto avvenuto nella fattispecie tenuto conto, invero, che dal puntuale esame della documentazione prodotta dalla ricorrente è emerso che i contratti co.co.co. allegati sono stati dalla stessa stipulati, e in seguito prorogati e rinnovati, all’esito di una procedura selettiva non avente certamente natura concorsuale, non essendo state superate dalla candidata prove scritte e orali, né risultando la stessa inserita in una graduatoria finale. Né può farsi riferimento, ai fini dell’accoglimento del ricorso, alle circolari amministrative richiamate dalla ricorrente (rectius, all’interpretazione delle circolari amministrative offerta dalla parte ricorrente) atteso che, in tal caso, andrebbe in ogni caso operata una disapplicazione di qualsiasi fonte subordinata alla legge che per assurdo consenta, in via surrettizia, la stabilizzazione di un lavoratore in capo al quale manchi, viceversa, il requisito dell’essere stato selezionato mediante concorso pubblico comparativo. Corretta, in definitiva, risulta la decisione operata dall’amministrazione resistente con il provvedimento impugnato (in particolare la nota n. 173839) nella parte in cui ha escluso la sussistenza in capo alla ricorrente del requisito di cui alla lettera a) (“risulti in servizio con contratti a tempo determinato presso l’amministrazione che procede all’assunzione”) tenuto conto che nel pubblico impiego non può ontologicamente dirsi “in servizio” (concetto che rinvia al fatto che le mansioni sono svolte con la caratteristica della subordinazione in quanto eseguite sotto la direzione di un datore di lavoro che ne controlla il corretto adempimento) colui che presta l’attività in modo autonomo, senza vincoli di alcun tipo se non la realizzazione di un determinato risultato finale, sulla base di un contratto stipulato all’esito di una procedura selettiva ma non concorsuale. In definitiva, come anticipato, il ricorso deve pertanto essere respinto. La particolarità della fattispecie consente comunque di disporre tra le parti la compensazione delle spese di lite. (Omissis)
Luca Busico
La stabilizzazione dei precari delle P.A.: una storia infinita Sommario : 1. Il caso concreto. – 2. La stabilizzazione continua nel lavoro pubblico. – 3. Le procedure di stabilizzazione nella “riforma Madia”. – 4. La sentenza del TAR Sicilia. – 5. Conclusioni.
Sinossi. Il commento ripercorre l’evoluzione normativa in tema di stabilizzazione del personale precario da parte delle amministrazioni pubbliche. La stabilizzazione costituisce un’eccezione alla regola di matrice costituzionale (art. 97, comma 4 Cost.) di accesso al pubblico impiego mediante concorso pubblico, per cui le disposizioni in materia debbono essere interpretate in senso restrittivo.
1. Il caso concreto. La sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia riguarda una procedura di stabilizzazione del personale tecnico amministrativo indetta dall’Università degli studi di Catania1, per la quale un soggetto, titolare di precedenti rapporti di lavoro precari con l’Ateneo, aveva presentato domanda di partecipazione. A fronte dell’esclusione dalla procedura, disposta dall’Ateneo per mancanza di uno dei requisiti di partecipazione, l’interessato proponeva ricorso al giudice amministrativo.
2. La stabilizzazione continua nel lavoro pubblico. La storia dell’impiego pubblico è caratterizzata, sin dai tempi di realizzazione dell’unità d’Italia, da una sequenza ininterrotta di assunzioni di personale precario e sua successiva stabilizzazione2. Come è stato evidenziato, si può a ragione sostenere che il ricorso a tale
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Sulle procedure di stabilizzazione nell’Ateneo catanese cfr. Bellantoni, Brevi riflessioni sulle procedure di stabilizzazione del personale tecnico amministrativo dell’Università degli studi di Catania alla luce della riforma Madia, in LPA, n. 2/2018, 127. 2 Cfr. Cimino, I limiti al reclutamento di personale precario e loro effetti, in GDA, 2013, 913, che contiene una carrellata delle norme sul precariato pubblico emanate dal 1937 al 2013.
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schema abbia costituito un canale parallelo di reclutamento del personale nei ruoli delle amministrazioni talmente costante da divenire quasi istituzionalizzato3. Non è questa la sede per ripercorrere analiticamente le vicende storiche del precariato nella pubblica amministrazione italiana, ma, limitandosi solo agli ultimi tredici anni, si contano ben sei interventi legislativi, che consentono alle amministrazioni pubbliche di convertire a tempo indeterminato i rapporti di lavoro “precari” del personale. La legge finanziaria per l’anno 2007 (l. 27 dicembre 2006, n. 296) ha previsto la possibilità per le amministrazioni pubbliche di procedere alla stabilizzazione del personale utilizzato con contratti di lavoro di natura temporanea, dettando una serie di disposizioni di carattere eccezionale atte a perseguire una politica di graduale eliminazione del precariato4. La legge finanziaria per il 2008 (l. 24 dicembre 2007, n. 244) ha ampliato il numero dei possibili destinatari della stabilizzazione e ha dato, inoltre, rilevanza alle collaborazioni coordinate e continuative, prevedendo per i soggetti in possesso dei requisiti prescritti una forma di valorizzazione dell’esperienza professionale acquisita5. In dottrina erano stati prospettati dubbi sulla legittimità costituzionale delle suddette normative per l’assenza di collegamento fra procedure di stabilizzazione e assunzioni mediante concorso aperto all’esterno, tale da assicurare l’equilibrio tra le due forme di reclutamento6, come più volte ricordato dalla giurisprudenza costituzionale7. Di tali dubbi il legislatore ha cercato di tener conto nei successivi interventi in materia. L’art.17, comma 10 della l. 3 agosto 2009, n. 102 ha previsto, per il triennio 2010-2012, la possibilità per le amministrazioni di bandire concorsi per assunzioni a tempo indeterminato con una riserva di posti non superiore al 40% di quelli messi a concorso, per il personale in possesso dei requisiti per la stabilizzazione previsti dalle leggi finanziarie per il 2007 e il 20088. Dopo qualche anno di silenzio nel biennio 2012-2013 vengono emanate nuovamente disposizioni in tema di stabilizzazione del personale precario. La legge di stabilità per il 2013 (l. 24 dicembre 2012, n. 228) ha inserito nell’art.35 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 il comma 3-bis, secondo il quale le amministrazioni, nel rispetto della programmazione triennale del fabbisogno, nonché del limite massimo complessivo del 50 % delle risorse finanziarie disponibili possono avviare procedure di reclutamento mediante concorso pubblico con riserva dei posti, nel limite massimo del 40 % di
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Cfr. Fontana, La strana storia dei lavoratori precari nel settore pubblico, in LPA, n. 2/2018, 19. Cfr.: Rotondi, Appalti, lavori atipici, P.A. e maternità: novità della finanziaria, in DPL, 2007, 227; Loffredo, La “stabilizzazione” dei precari nelle pubbliche amministrazioni, in DLM, 2007, 301. 5 Cfr.: Miscione, Stabilizzazione del precariato nella pubblica amministrazione, in DPL, 2008, 1906; Romeo, Finanziaria 2008, precariato nel lavoro pubblico e ruolo della contrattazione collettiva, in LG, 2008, 651. 6 Cfr.: Oliveri, Stabilizzazione dei precari nel pubblico impiego e problemi di costituzionalità, in Lexitalia, n. 1/2007; Trebastoni, Le stabilizzazioni nella L. 27.12.2006 n. 296: profili di giurisdizione e di incostituzionalità, in www.giustizia-amministrativa.it, maggio 2007; Pantano, La cd. “stabilizzazione” dei lavoratori non a termine nella finanziaria 2007 ed il “buon andamento” della pubblica amministrazione, in LPA, 2008, 635; Serra – Busico, La stabilizzazione dei precari del pubblico impiego, in LG, 2009, 1197. 7 Cfr.: C. cost., 4 gennaio 1999, n. 1, in GDA, 1999, 536 con nota di Talamo; C. cost., 23 luglio 2002, n. 373, in LPA, 2002, 571 con nota di Montini; C. cost., 6 luglio 2004, n. 205, in GDA, 2004, 1199 con nota di Mari; C. cost., 31 ottobre 2012, n. 245, in GI, 2013, 225 con nota di Losana. 8 Cfr. Pozzaglia, La stabilizzazione dei precari nelle pubbliche amministrazioni, in MGL, 2009, 694. 4
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quelli banditi, a favore dei titolari di rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato che, alla data di pubblicazione dei bandi, hanno maturato almeno tre anni di servizio alle dipendenze dell’amministrazione procedente. L’art.35, comma 3-bis recepisce e traduce in un meccanismo a regime la previsione del citato art.17, comma 10 della l. n. 102/2009: come è stato acutamente osservato, la norma ha in un certo senso “stabilizzato la stabilizzazione”, rendendola permanente9. A breve distanza di tempo la l. 30 ottobre 2013, n. 125, all’art.4, comma 6, ha previsto che fino al 31 dicembre 2016, al fine di favorire una maggiore e più ampia valorizzazione della professionalità acquisita dal personale con contratto di lavoro a tempo determinato e, al contempo, ridurre il numero dei contratti a termine, le amministrazioni possono bandire, nel rispetto del limite finanziario fissato dal citato art.35, comma 3-bis, procedure concorsuali, per titoli ed esami, per assunzioni a tempo indeterminato di personale non dirigenziale, riservate esclusivamente a coloro che sono in possesso dei requisiti previsti dalle leggi finanziarie 2007 e 2008 per le stabilizzazioni, nonché a favore di coloro che hanno maturato, negli ultimi cinque anni, almeno tre anni di servizio con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato alle dipendenze dell’amministrazione procedente10.
3. Le procedure di stabilizzazione nella “riforma Madia”. La legge delega 7 agosto 2015, n. 124, che ha dato avvio alla “riforma Madia”11, contiene due previsioni in tema di personale precario: 1) l’art.17, comma 1, lett. a) riprende la disposizione dell’art.35, comma 3-bis del d.lgs. n. 165/2001 (citata nel precedente paragrafo), stabilendo l’introduzione nelle procedure concorsuali di meccanismi di valutazione volti a valorizzare l’esperienza acquisita da coloro che hanno avuto rapporti di lavoro flessibile con le amministrazioni; 2) l’art.17, comma 1, lett. o) prevede l’individuazione di limitate e tassative fattispecie di lavoro flessibile, caratterizzate dalla compatibilità con la peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e con le esigenze organizzative e funzionali di queste ultime, anche al fine di prevenire il precariato. Il d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, emanato in attuazione della citata legge delega, all’art.20 (rubricato “superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni”) individua, per il triennio 2018-2020, due percorsi di stabilizzazione dei precari12.
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Cfr. Battini, La stabilizzazione dei precari, in GDA, 2013, 920. Cfr.: Tampieri, Prime osservazioni sulla legge 30 ottobre 2013, n. 125, in LPA, 2013, 751; Gagliardi, La conversione del “decreto D’Alia” e la riforma del reclutamento dei dipendenti pubblici, in GDA, 2014, 347. 11 Cfr. l’ampia analisi della legge sul n. 3/2015 di RGL con i contributi di Barbieri, Bellavista, D’auria, Realfonzo, Viscione, L. Zoppoli, Borgogelli, Garilli, Vettor e D’onghia, nonché sul n. 5/2015 di GDA con i contributi di Mattarella, Carotti, Vesperini, Macchia, Fiorentino, Battini, Bonura-Fonderico e Auriemma. 12 Cfr.: Garilli, Misure di contrasto al precariato e stabilizzazione del personale, in LPA, 2017, 84; Monea, La lunga stagione della c.d. “stabilizzazione” nel p.i., in Lexitalia, n. 1/2018; Fontana, op. cit.; De Marco, Utilizzo dei contratti flessibili e stabilizzazione del personale precario, in GI, 2018, 1003. 10
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Il comma 1 consente l’assunzione diretta di personale in possesso dei seguenti requisiti: 1) titolarità di rapporto di lavoro a tempo determinato presso l’amministrazione procedente alla data di entrata in vigore della l. n. 124/2015; 2) reclutamento a tempo determinato, in relazione alle medesime attività svolte, avvenuto mediante procedura concorsuale; 3) maturazione al 31 dicembre 2017 presso l’amministrazione procedente di tre anni di servizio anche non continuativi negli ultimi otto anni. Il comma 2 prevede la possibilità di bandire procedure concorsuali riservate per il 50% ai soggetti in possesso dei requisiti ivi indicati: 1) titolarità di rapporto di lavoro flessibile presso l’amministrazione procedente alla data di entrata in vigore della l. n. 124/2015; 2) maturazione al 31 dicembre 2017 presso l’amministrazione procedente di tre anni di contratto anche non continuativi negli ultimi otto anni. Come evidenziato dalla giurisprudenza, la differente disciplina dei due percorsi di stabilizzazione del citato art.20 è da ricondursi ai destinatari degli stessi13: la platea dei destinatari del primo comma è costituita da soggetti che hanno già sostenuto con esito favorevole una procedura concorsuale, con la conseguenza che l’amministrazione non bandisce un concorso, ma si limita a dare avviso della procedura e della possibilità per gli interessati di presentare domanda di partecipazione; il secondo comma, invece, ha per oggetto una vera e propria procedura concorsuale aperta all’esterno, in quanto è rivolta a soggetti non reclutati dall’amministrazione mediante procedure concorsuali. Elemento comune a entrambe le procedure è il carattere facoltativo dell’attivazione, come emerge dalle espressioni utilizzate dal legislatore: «possono assumere» al comma 1 e «possono bandire» al comma 214. Occorre osservare che la mancanza nella legge delega di un’esplicita previsione di interventi straordinari di stabilizzazione può generare qualche dubbio sulla legittimità costituzionale delle misure dettate dal citato art.20 del d.lgs. n. 75/2017 sotto il profilo dell’eccesso di delega (violazione dell’art.76 Cost.). Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale al legislatore delegato spettano margini di discrezionalità nell’attuazione della delega, sempre che ne siano rispettate la ratio e le finalità che la ispirano15. La finalità piuttosto ampia indicata nella legge delega “di prevenire il precariato” potrebbe essere sufficiente a scongiurare l’eccesso di delega: in tal senso si è espresso il Consiglio di Stato in sede consultiva16, che ha ritenuto il superamento del precariato e la conseguente stabilizzazione del personale avventizio un qualificante obiettivo della l. n. 124/2015.
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Cfr.: Cons. Stato, sez. III, 30 novembre 2018, n. 6821, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio-Roma, sez. III quater, 7 febbraio 2019, n. 1849, ivi; Tar Sardegna, sez. I, 4 giugno 2019, n. 504, ivi. 14 Cfr.: Tar Molise, sez. I, 7 giugno 2018, n. 335, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Emilia Romagna-Bologna, sez. I, 8 marzo 2019, n. 228, ivi. 15 Cfr.: C. cost., 31 maggio 2000, n. 163, in GCost, 2000, 1453 con nota di D’elia; C. cost., 30 gennaio 2018, n. 10, in GCost, 2018, 137 con nota di Tarli barbieri. 16 Cfr. Cons. Stato, comm. spec., 21 aprile 2017, n. 916/17, in FA, 2017, 857.
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4. La sentenza del TAR Sicilia. La vicenda sottoposta all’attenzione del tribunale amministrativo etneo riguarda una procedura indetta ai sensi dell’art.20, comma 1 del d.lgs. n. 75/2017, per cui è necessaria l’analisi dei requisiti richiesti dalla suddetta norma per accedere alla stabilizzazione del rapporto di lavoro. Il primo requisito è la titolarità di rapporto di lavoro a tempo determinato presso l’amministrazione procedente alla data di entrata in vigore della l. n. 124/2015, vale a dire il 28 agosto 2015. Non è, pertanto, preclusa la stabilizzazione di soggetti non in servizio al momento di avvio della procedura, come può dedursi anche dalla previsione del comma 12 dell’art.20, secondo cui ha la priorità nell’assunzione il personale in servizio alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 75/2017, vale a dire il 22 giugno 2017. Il secondo requisito è costituito dal reclutamento a tempo determinato, in relazione alle medesime attività svolte, avvenuto mediante procedura concorsuale. Appare evidente la volontà del legislatore di privilegiare la stabilizzazione di quei precari, che, in quanto già scelti all’esito di concorso, garantiscono all’amministrazione un’adeguata professionalità. Il superamento di precedente concorso rende la procedura in esame coerente con la regola generale, sancita dall’art.97, comma 4 Cost., dell’accesso all’impiego pubblico tramite procedura concorsuale. È opportuno, a tal proposito, ricordare che secondo il Consiglio di Stato rientrano nella nozione di “procedure concorsuali” tutte le sequenze procedimentali aperte a soggetti in possesso di predeterminati requisiti soggettivi e caratterizzate da concorrenzialità fra i partecipanti alla selezione, da effettuarsi in base al possesso di titoli individuati dal bando, o a mezzo di prove rivelatrici del livello di preparazione culturale e/o di idoneità ed esperienza professionale dei candidati17. Deve, pertanto, ritenersi non sussistente il requisito in esame nelle ipotesi di reclutamento avvenuto con meccanismi non concorsuali, come le assunzioni dalle liste di collocamento18, che secondo la consolidata giurisprudenza sono caratterizzate dalla valutazione dell’idoneità e della capacità minima dell’avviato a svolgere le mansioni richieste senza alcuna comparazione19. Il terzo requisito richiesto è la maturazione alla data del 31 dicembre 2017 presso l’amministrazione procedente di tre anni di servizio anche non continuativi negli ultimi otto anni. La lettura di tale requisito, unitamente agli altri due individuati dall’art.20, comma 1, porta a ritenere che il legislatore abbia riservato la procedura di assunzione diretta a chi è stato alle dipendenze dell’amministrazione, per i periodi indicati, con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato. Ma di diversa opinione si è mostrato il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, secondo il quale nei periodi utili da con-
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Cfr.: Cons. Stato, sez. VI, 5 giugno 2006, n. 3331, in Lexitalia, n. 6/2006; Cons. Stato, sez. V, 10 settembre 2018, n. 5298, in www. giustizia-amministrativa.it. 18 Cfr. Tar Sicilia – Catania, sez. IV, 26 giugno 2018, n. 1342, in www.giustizia-amministrativa.it. 19 Cfr.: Tar Sardegna, 10 settembre 1994, n. 1525, in TAR, 1995, I, 821; Cons. Stato, sez. VI, 27 agosto 2001, n. 4494, in CS, 2001, I, 1809; Cass., 7 marzo 2012, n. 3549, in LPA, 2012, 419; Cass., sez. un., 9 giugno 2017, n. 14432, in Lexitalia, n. 6/2017.
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teggiare rientrano le diverse tipologie di contratti di lavoro flessibile, purché riconducibili alla medesima area o categoria da stabilizzare20. Ne consegue che il triennio di anzianità negli ultimi otto anni, richiesto dall’art.20, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 75/2017, può essere raggiunto, oltre che con contratti di lavoro a tempo determinato, anche sommando a essi altre tipologie di contratto flessibile (come le collaborazioni coordinate e continuative). L’interpretazione ministeriale desta perplessità, in quanto ictu oculi difforme dal dato dell’art.20, comma 1, sia nel suo significato letterale, sia nella lettura in raccordo con il successivo comma 2. Come è stato evidenziato nella sentenza in commento, le disposizioni normative disciplinati procedure di assunzione diverse dal concorso pubblico, in quanto costituenti eccezione alla regola generale di accesso all’impiego nelle amministrazioni mediante concorso (art.97, comma 4 Cost.), devono necessariamente essere interpretate in senso restrittivo e non sono suscettibili di applicazione analogica. Il ricorrente, titolare di contratti di collaborazione coordinata e continuativa dal 2011 al 2016, ma di nessun contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, riteneva, sulla base della citata circolare ministeriale, di aver diritto alla stabilizzazione diretta. Il collegio giudicante, invece, ha sottolineato l’assenza in capo al ricorrente di due dei requisiti elencati dall’art.20, comma 1 del d.lgs. n. 75/2017, vale a dire la titolarità di rapporto di lavoro a tempo determinato alla data di entrata in vigore della l. n. 124/2015 e il reclutamento mediante procedura concorsuale, non rientrando in tale nozione le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione ex art.7, comma 6 bis del d.lgs. n. 165/200121.
5. Conclusioni. Le procedure di stabilizzazione dei precari, indette ai sensi dell’art.20 del d.lgs. n. 75/2017, hanno prodotto (e produrranno) un consistente contenzioso, a cui ha contribuito, come nella vicenda decisa dalla sentenza in commento, anche la discutibile interpretazione fornita dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione sul requisito dell’anzianità di servizio. Le normative in tema di stabilizzazione del precariato pubblico sono quasi sempre accompagnate da severe e solenni affermazioni circa l’eccezionalità delle misure adottate e l’impegno a non ripeterle in futuro. Ma poiché “per l’amministrazione italiana è sempre sanatoria”22, non è affatto da escludere l’emanazione di nuove disposizioni in materia nei prossimi anni. La continua stabilizzazione del personale precario incide sensibilmente sull’assetto organizzativo delle amministrazioni e sulla provvista del personale, in quanto sono e saran-
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Cfr. circ. 23 novembre 2017, n. 3, in www.funzionepubblica.gov.it, Cfr.: C. conti, sez. centr. contr., 26 luglio 2012, n. 17, in www.corteconti.it; C. conti, sez. centr. contr., 16 aprile 2014, n. 8, ivi. 22 Cfr. Melis, Per l’amministrazione italiana è sempre sanatoria, in GDA, 2013, 911. 21
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no scarse le assunzioni dall’esterno con evidente penalizzazione dei giovani capaci e meritevoli, che si affacciano sul mercato del lavoro, e vanificazione del ricambio generazionale necessario a reclutare competenze e professionalità aggiornate23. Luca Busico
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Cfr.: Garilli, op. cit.; De Marco, op. cit..
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Giurisprudenza tribunale di parma ,
ordinanza 18 febbraio 2019; E. Orlandi – C.B. (avv.) c. M.T. (avv.).
Lavoro (rapporto di) – Contratto a tempo determinato – Conversione giudiziale – Inapplicabilità dell’art. 1 comma 2, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23.
Il contratto a termine convertito in sede giudiziale dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, in ragione della mancata prova dell’effettuazione della valutazione dei rischi, non è soggetto all’applicazione di detta normativa. (Omissis) Con ricorso ex art. 1, comma 48, l. 92/2012 depositato in data 12.02.2018 e ritualmente notificato assieme al pedissequo decreto di fissazione di udienza, C. B. impugnava il licenziamento intimatogli per giusta causa dalla M. T. s.r.l. (d’ora innanzi anche M.) in data 04.09.2017. Nel ricorso introduttivo del giudizio, parte ricorrente esponeva le seguenti circostanze di fatto: - di aver iniziato a prestare la propria attività lavorativa di autista a favore di M. T. s.r.l. a far data dallo 09.04.2014, pur non avendo sottoscritto alcun contratto di lavoro; - che lo svolgimento di tale attività veniva formalmente inquadrato dal datore di lavoro come rapporto di lavoro a tempo determinato dallo 09.04.2014 allo 09.10.2014, prorogato fino al 31.05.2015 ed infine trasformato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far data dallo 01.06.2015, con mansioni rientranti nel terzo livello super CCNL Trasporto Merci; - di avere, come prassi, comunicato nell’aprile del 2017 al responsabile M. di Parma, tale sig. F., che si sarebbe assentato per ferie dal 31.07.2017 al 20.08.2017 e che, pur non avendo ricevuto alcun diniego dalla società datrice di lavoro, provvedeva a confermare il periodo di assenza per ferie con fax inoltrato alla M. in data 29.07.2017; - di essersi ripresentato in servizio, dopo aver terminato il periodo feriale, alle ore 08:00 del 21.08.2017 e che il sig. Raffaele, altro responsabile M., gli comunicava di tornare alle ore 14:00 e che, una volta tornato all’orario indicato, lo stesso gli sottoponeva una richiesta di ferie per il periodo intercorrente dal 31.07.2017 al 15.08.2017 chiedendogli di sottoscriverla; - di essersi rifiutato di sottoscrivere tale richiesta in quanto ivi veniva indicato un periodo inferiore rispetto a quello richiesto e che, come conseguenza di tale rifiuto, non veniva ammesso al lavoro; - che, mediante l’invio delle lettere datate 21.08.2017 e 11.09.2017, aveva offerto invano la propria prestazione lavorativa alla M., richiedendo altresì il rilascio dei prospetti paga dei mesi di luglio e agosto 2017, nonché il pagamento delle relative retribuzioni;
- che l’unico riscontro ricevuto dalla società datrice di lavoro era una pec del 15.09.2017 con cui quest’ultima lo informava che il cedolino paga della mensilità di agosto 2017 era in fase di elaborazione; - che, in considerazione della mancata chiamata in servizio e del mancato pagamento degli stipendi, provvedeva in data 19.09.2017 a rassegnare dimissioni per giusta causa, che poi tempestivamente revocava in data 26.09.2017 dopo aver appreso tramite la consultazione del certificato C/2 storico rilasciatogli dal Centro per l’Impiego di Parma che risultava essere già stato licenziato dalla M. in data 04.09.2017; - di aver provveduto ad impugnare il licenziamento con missiva datata 26.09.2017 offrendo formalmente la propria prestazione lavorativa alla M. e di aver altresì inoltrato una richiesta di intervento all’Ispettorato territoriale del lavoro di Parma nonché istanza ex art. 410 c.p.c. in data 25.11.2017 che rimaneva senza riscontro alcuno. C. B. adiva pertanto l’intestato Tribunale, sezione lavoro, al fine di chiedere, per i motivi illustrati nel ricorso, l’accoglimento delle seguenti conclusioni: “Voglia il Tribunale Ill.mo; contrariis reiectis; previa ogni declaratoria ed ogni provvedimento, anche incidentale, del caso e di legge, nei sensi di cui alla parte motiva del ricorso; dato atto delle riserve tutte di cui in premesse; previa ogni opportuna attività istruttoria, anche officiosa (e seguendo, ex art. 421 c.p.c., ogni “pista probatoria” offerta o che possa presentarsi); previo il mutamento del rito (o la separazione delle liti) che occorresse; previa declaratoria della esistenza inter partes, dal 9.4.2014, di un rapporto di lavoro definitivamente costituito, a tempo indeterminato, di tipo ordinario, per la mancata sottoscrizione (o comunque per la inoperatività o per la nullità) del contratto di lavoro che dovesse essere versato in atti anteriormente o quanto meno contestualmente all’inizio della prestazione lavorativa o per ogni altra ragione meglio vista; A) dichiarare nullo per le ragioni esposte o per ogni altra meglio vista o comunque (se del caso entrando nel merito), inesistente, inefficace, invalido ed ingiustificato il licenziamento fatto figurare dalla M. come intimato il 4.9.2017 al sig. C. B.; B) conseguentemente:
Giurisprudenza
1) in via principale: ai sensi e per gli effetti tutti di cui all’art. 18, commi 1 e 2 novellato (e, in ogni caso, dall’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015), condannare M. T. s.r.l. a reintegrare in servizio il sig. C. B. e a risarcirgli i danni patiti e patiendi con una indennità pari all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto abbia percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (in ogni caso con il minimo di 5 mensilità di retribuzione globale), nonché a versare i contributi previdenziali ed assistenziali (ferma la facoltà del sig. B. di esercitare l’opzione di cui all’art. 18 co. 3 S.L. o in altra ipotesi all’art. 2, 3° comma d.lgs. n. 23/2015). Il tutto per le somme che saranno determinate all’esito di apposita CTU tecnicocontabile; 2) in subordine: dichiarata la detta nullità o comunque inefficacia o invalidità del licenziamento, condannare M. T. s.r.l. ex art. 2058 c.c. a riammettere in servizio il sig. B. ed a risarcirgli i danni patiti e patiendi in misura pari alla retribuzione medio tempore percipienda se avesse lavorato a tempo pieno secondo le modalità consuete, per le somme che risulteranno all’esito di apposita CTU; con obbligo di versamento dei dovuti contributi previdenziali ed assicurativi; 3) in estremo subordine: condannare M. T. s.r.l. a pagare al sig. B. una indennità compresa fra le 4 (o quanto meno le 2) e le 12 (o quanto meno le 6) mensilità dell’ultima retribuzione utile, oltre che l’indennità sostitutiva del preavviso e del maggiore TFR dovuto, per le somme che risulteranno all’esito di apposita CTU. C) Maggiorando tutte le somme dovute al ricorrente e (determinate escludendo ogni rivalsa della quota di contributi a suo carico), anche in forza delle . espressamente richieste . statuizioni di portata diversa o minore rispetto a quelle prospettate che nella fattispecie dovessero essere adottate, di rivalutazione monetaria ed interessi legali dal dì del dovuto al saldo effettivo. D) In accoglimento della proposta istanza ex art. 614-bis c.p.c., e previo l’incidente di costituzionalità del caso, fissare la somma di denaro dovuta dalla M. T. s.r.l. per la eventuale violazione dell’ordinanza di reintegrazione o riammissione in servizio. Con vittoria delle spese del procedimento, oltre rimborso forfettario, c.p.a. ed iva”. Provvedeva a costituirsi in giudizio M. T. s.r.l. chiedendo, per le ragioni esposte nella memoria difensiva, il rigetto del ricorso in quanto infondato in fatto e in diritto, con vittoria delle spese di lite. In particolare, la società resistente allegava che il contratto a termine con cui il ricorrente era stato assunto in data 09.04.2014 era stato debitamente sottoscritto da entrambe le parti, così come sia la successiva proroga dello 09.10.2014 che la trasformazione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato in data 01.06.2015, e che sia la lettera di contestazione disciplinare per l’assenza arbitraria dal posto di lavoro a far data dal 14.08.2017
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spedita con racc. a/r in data 21.08.2017 all’indirizzo dichiarato in azienda dal lavoratore, a Parma, via L. M., sia la contestazione dell’arbitrario ed ingiustificato abbandono del posto di lavoro spedita il giorno successivo al medesimo indirizzo non erano state recapitate al ricorrente per irreperibilità del medesimo. La causa, istruita tramite prove documentali e per testi, veniva discussa all’udienza del 10.01.2018, ove le parti si riportavano agli atti ed alle conclusioni formulate nei rispettivi atti introduttivi. Tanto premesso in relazione allo svolgimento del processo, nel merito il ricorso è fondato per i motivi che seguono. È dato incontestato come le lettere di contestazione disciplinare del 21.08.2017 e del 22.08.2017 non siano mai pervenute al ricorrente per irreperibilità del medesimo all’indirizzo a cui sono state spedite, a Parma, via M. n. 1. Parte resistente ha dedotto di aver inviato tali missive all’indirizzo comunicatole dal ricorrente al momento dell’assunzione, in quanto non le era stata comunicata negli anni successivi dal medesimo alcuna variazione di residenza e/o domicilio. Parte ricorrente ha invece allegato che la propria residenza, al momento della contestazione degli illeciti disciplinari di cui sopra, era sita in Parma, via f.lli B. n. 13 e, al fine di comprovare la conoscenza di tale indirizzo da parte della M., ha prodotto in giudizio un verbale dalla polizia stradale di Lodi del 15.10.2015 per violazioni del codice della strada, con relativa sanzione, da cui risulta che lo stesso fosse residente in via f.lli B. n. 13, ed i dettagli del bonifico di pagamento della predetta sanzione effettuato dalla M. in data 13.11.2015. Deve altresì rilevarsi come non risulti, agli atti, alcuna lettera di licenziamento in quanto M. non ha prodotto in giudizio copia del licenziamento asseritamente intimato al ricorrente in data 04.09.2017. Nella memoria di costituzione, parte resistente argomenta circa la ricezione della lettera di licenziamento da parte del ricorrente sulla base delle frasi riportate a pag. 13 del ricorso introduttivo ove si fa riferimento al “tenore della lettera di licenziamento” ed ai “recenti episodi di inadempienza ai suoi doveri contrattuali” ivi suppostamente riportati. Parte ricorrente ha dedotto all’udienza del 22.05.2018 che l’inserimento di tali frasi nel ricorso e stato il frutto di un mero errore materiale. Ritiene il Giudice come la tesi dell’errore materiale trovi ampia conferma nel contenuto complessivo del ricorso introduttivo, ove chiaramente, a pag. 4, paragrafo 8, si allega che il ricorrente abbia scoperto dell’avvenuto licenziamento solo per effetto della consultazione del certificato C/2 storico rilasciatogli dal Centro per l’impiego di Parma, nonché nel paragrafo B, intitolato “Il licenziamento”, nella parte in diritto dell’atto, ove viene posto in rilievo il fatto che il rapporto di lavoro sia stato risolto senza alcun atto scritto. Posto che risulta pertanto come parte resistente non abbia assolto l’onere della prova su di essa in-
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combente di dimostrare di aver intimato per iscritto il licenziamento nei confronti di C. B. producendo in giudizio l’atto di licenziamento ad esso regolarmente consegnato o pervenuto, il recesso deve per l’effetto considerarsi intimato in forma orale. Quanto alla tutela applicabile, parte ricorrente ha chiesto l’applicazione, in via principale, dell’art. 18, primo e secondo comma, l. 300/1970 e, in via subordinata, dell’art. 2 d.lgs. n. 23/2015. La richiesta della tutela prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e stata avanzata dalla difesa di parte ricorrente sulla base della prospettazione della mancata sottoscrizione da parte di C. B. dei contratti a termine risultanti dal certificato C2 storico rilasciato dal Centro per l’impiego di Parma, nonché, in via logicamente subordinata, in ragione della nullità dei contratti a tempo determinato stipulati con il ricorrente in quanto la società resistente non avrebbe dimostrato il rispetto dei divieti posti dall’art. 3 d.lgs. n. 368/2001, applicabile ratione temporis. Osserva il Giudice come la Corte di Cassazione abbia evidenziato, con specifico riferimento alla lettera d) dell’art. 3 d.lgs. 368/2001, che costituisce onere del datore di lavoro provare di aver effettuato la valutazione dei rischi ai sensi di legge e come la violazione di tale divieto, che è posto do una norma imperativa, determini la nullità della clausola di apposizione del termine (Cass. civ., sez. lav., 02.04.2012, n. 5241). Poiché nella vertenza in esame, M. non ha dimostrato di aver effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n. 626/1994 e successive modificazioni, alla luce delle considerazioni sopra espresse, la clausola appositiva del termine contenuta nel contratto stipulato in data 09.04.2014 deve essere dichiarata nulla e, per l’effetto, il rapporto di lavoro deve essere considerato ab initio a tempo indeterminato. All’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti sin dalla data dello 09.04.2014 consegue l’applicazione dell’art. 18 l. n. 300/1970, in quanto l’art. 1, primo comma, del d.lgs. n. 23/2015 stabilisce che la disciplina da esso posta si applichi ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati e quadri assunti dopo l’entrata in vigore del decreto medesimo. Non ignora la scrivente che l’art. 1 d.lgs. n. 23/2015, al secondo comma, preveda che “le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”. Ritiene pero il Giudice che la conversione prevista dalla suddetta norma non sia quella giudiziale bensì la conversione intesa come trasformazione/prosecuzione di tipo negoziale del rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, ossia per accordo tra le parti del contratto medesimo. Posto che la conversione operata in sede giudiziale di un contratto a termine per i motivi tassativamente previsti dalla legge determina la costituzione
di un rapporto a tempo indeterminato con efficacia ex tunc, ossia sin dalla data di sottoscrizione del contratto a tempo determinato, ritiene la scrivente che l’interpretazione secondo cui la conversione a cui fa riferimento il secondo comma dell’art. 1 d.lgs. n. 23/2015 sia esclusivamente quella negoziale si conformi al criterio enunciato dal primo comma del suddetto articolo per delimitare il campo di applicazione della nuova disciplina, che è di tipo temporale, in quanto rileva esclusivamente la data di costituzione del rapporto di lavoro. Ritenuta pertanto l’applicabilità della tutela posta dall’art. 18, primo e secondo comma, l. 300/1970 per le fattispecie di licenziamento orale, assorbito ogni altro motivo di impugnativa/censura del licenziamento oggetto di causa, M. T. s.r.l. deve essere condannata a reintegrare C. B. nel posto di lavoro e nelle mansioni da ultimo svolte, o in mansioni ad esse equivalenti, ed a corrispondergli un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento il 04.09.2017 sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto l’aliunde perceptum, oltre alla regolarizzazione contributiva ed assistenziale, con rivalutazione monetaria ed interessi legali, secondo indici Istat, dalla mora al saldo. La retribuzione mensile globale di fatto viene determinata in euro 2.096,86, posto che in tale misura è stata indicata da parte ricorrente e non è stata specificatamente contestata dalla controparte. (Omissis) P.Q.M. Il Giudice, definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda, eccezione e deduzione disattesa, così decide: - dichiara la nullità della clausola appositiva del termine al contratto concluso tra M. T. s.r.l. e C. B. in data 09.04.2014 e, per l’effetto, accerta che tra le parti si è instaurato un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin da tale data; - dichiara la nullità del licenziamento orale intimato da M. T. s.r.l. nei confronti di C. B. in data 04.09.2017 e, per l’effetto, in applicazione della tutela prevista dall’art. 18, primo e secondo comma, l. 300/1970, condanna M. T. s.r.l. a reintegrare C. B. nel posto di lavoro e nelle mansioni da ultimo svolte, o in mansioni ad esse equivalenti, ed a corrispondergli un’indennita commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento il 04.09.2017 sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto l’aliunde perceptum, oltre alla regolarizzazione contributiva ed assistenziale, con rivalutazione monetaria ed interessi legali, secondo indici Istat, dalla mora al saldo; - determina la retribuzione mensile globale di fatto di C. B. in euro 2.096,86; - condanna M. T. s.r.l. a corrispondere a C. B. le spese di lite, liquidate in euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali, iva e cpa nella misura di legge.
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La “conversione” a tempo indeterminato dei contratti a termine ai fini dell’applicazione del d.lgs. n. 23/2015, tra atto, evento ed effetto Sommario : 1. Il caso: un’ipotesi di conversione giudiziale per vizi originari. – 2. Il contesto in cui si colloca la decisione del Tribunale di Parma: il dibattito sorto attorno all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, in dottrina e giurisprudenza. – 3. Conclusioni: rileva il momento dell’atto se l’evento ne costituisce l’effetto?
Sinossi. Il Tribunale di Parma ha escluso l’applicazione della normativa sul contratto a tutele crescenti ai casi di conversione giudiziale di contratti a tempo determinato e ne ha invece affermato l’applicabilità ai casi di trasformazione/prosecuzione negoziale, sul presupposto che debba tenersi conto del momento in cui si verifica l’assunzione a tempo indeterminato. Il commento contestualizza tale pronuncia rispetto al dibattito dottrinale e giurisprudenziale sorto attorno all’interpretazione dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 e ne analizza le conclusioni in rapporto alla premessa nonché ai principi della legge delega e alla ratio legis.
1. Il caso: un’ipotesi di conversione giudiziale per vizi
originari.
Con l’ordinanza in commento il Tribunale di Parma si è pronunciato sull’impugnazione di un licenziamento orale intimato a lavoratore assunto con contratto a termine precedente all’entrata in vigore del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 e trasformato dalle parti in rapporto a tempo indeterminato in data successiva. Il lavoratore aveva eccepito in giudizio la nullità del termine originariamente apposto per vizi originari (la mancanza della forma scritta antecedente o quanto meno contestuale rispetto all’inizio dell’attività lavorativa, nonché il difetto della valutazione dei rischi) e aveva invocato l’applicazione della tutela dell’art. 18 st. lav. Il caso concreto ha costituito l’occasione per interpretare l’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 23/2015, norma che ricomprende nel campo di applicazione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti i casi di “conversione”, successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, senza tuttavia precisare la fonte della conversione, né chiarire quale sia l’elemento rilevante sotto il profilo temporale, vale a dire se l’atto della conversione, oppure il suo effetto, cioè l’evento della conversione. Appare incidentalmente curioso notare come il vizio del licenziamento accertato dal giudice – il difetto di forma scritta – non comportasse diversità di tutele tra
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l’art. 18 st. lav., come modificato dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, e il d.lgs. n. 23/20151, fatta eccezione per il parametro di riferimento per il calcolo del risarcimento – comune a tutti i livelli di tutela – identificato rispettivamente dall’art. 18 st. lav. nella «retribuzione globale di fatto» e dagli artt. 2 ss. d.lgs. 23/2015 nel«ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto»2. Motivo (oltre a quello del rito applicabile3) per cui il giudice ha comunque dovuto affrontare la questione. E lo ha fatto accogliendo preliminarmente la domanda del lavoratore di accertamento della nullità del termine inizialmente apposto al contratto (prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015) per mancata effettuazione della valutazione dei rischi (o, meglio, per mancata prova di aver assolto tale adempimento da parte del datore di lavoro, a ciò onerato), in violazione dell’art. 3, lett. c, d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 allora vigente4 (ora art. 20 d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, che al secondo comma prevede oggi espressamente la “trasformazione” del contratto a tempo indeterminato). Una volta dichiarata la sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato fin dall’inizio, il Tribunale ha escluso la riconducibilità della fattispecie alle ipotesi di “conversione” di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 perché ha ritenuto che per la definizione del campo di applicazione della nuova disciplina occorra tenere in considerazione il primo comma della medesima disposizione, che, facendo riferimento alle “nuove assunzioni”, introduce un criterio temporale incentrato sulla data di costituzione del rapporto di lavoro. Allora, poiché l’accertamento giudiziale della costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per i vizi tipizzati dall’ordinamento retroagisce al momento dell’inizio del rapporto, tale ipotesi esula, secondo il Tribunale di Parma, dal campo di applicazione della nuova disciplina in materia di licenziamenti illegittimi, diversamente dai casi di “trasformazione/prosecuzione di tipo negoziale”, ossia per accordo tra le parti medesime.
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Entrambe le normative riconoscono infatti al lavoratore, nel caso di licenziamento inefficace perché intimato in forma orale, il diritto alla reintegra e al risarcimento del danno dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra, dedotto quanto percepito, medio tempore, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. 2 Per una disamina del differente significato delle locuzioni, si rinvia a Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, in Persiani - F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro, Vol. V, L’estinzione del rapporto di lavoro subordinato, 1042 ss. , Vianello, Il licenziamento illegittimo nel contratto a tutele crescenti: il nuovo parametro di determinazione del risarcimento, in RIDL, I, 2018, 75. 3 Questione tuttavia, quella del rito, di minore importanza, visto che, come statuito dalla giurisprudenza della Suprema Corte, «dall’adozione di un rito errato non deriva alcuna nullità, nè la stessa può essere dedotta quale motivo di impugnazione, a meno che l’errore di rito non abbia inciso sul contraddittorio o sull’esercizio del diritto di difesa o non abbia, in generale, cagionato un qualsivoglia altro specifico pregiudizio processuale alla parte», in GC Mass., 2019 4 Sulla nullità del termine per violazione della norma imperativa di cui all’art. 3 d.lgs. n. 368/2011 cfr. Cass., 2 aprile 2012, n. 5241, in RIDL, 2013, II, 11, con nota di De Angelis.
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Giurisprudenza
2. Il contesto in cui si colloca la decisione del Tribunale di
Parma: il dibattito sorto attorno all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, in dottrina e giurisprudenza. Sulla questione giuridica affrontata dal Tribunale di Parma si registra ad oggi un dibattito significativo e tutt’altro che risolto. La disposizione oggetto di interpretazione utilizza infatti, come anticipato, il termine “conversione” senza precisare se il riferimento debba intendersi alla conversione giudiziale (sanzionatoria) o negoziale (volontaria) oppure ad entrambe; si pongono, inoltre, problemi di individuazione della decorrenza delle ipotesi di conversione interessate dalla nuova disciplina, tra l’altro in considerazione del principio direttivo della legge delega (l. 10 dicembre 2014, n. 183), che riferisce il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti alle (sole) nuove assunzioni. Gli operatori del diritto si sono innanzitutto interrogati circa il significato letterale del termine “conversione”, da intendersi, secondo una prima interpretazione, in senso ampio, così attraendo alla nuova disciplina sia i casi in cui essa sia disposta in via sanzionatoria, sia i casi in cui sia disposta per volontà delle parti, senza distinzione alcuna5. Così si è pronunciato il Tribunale di Napoli che, in un caso di trasformazione negoziale, non ha avuto dubbi circa l’applicabilità della normativa sul contratto a tutele crescenti, ritenendo che i termini “conversione” e “trasformazione” siano indifferentemente utilizzati per rappresentare la vicenda modificativa del rapporto, indipendentemente dal motivo per cui ciò avvenga, e che, accanto al criterio di interpretazione letterale, debba tenersi in considerazione la ratio legis, di aumentare l’occupazione, rispetto alla quale è certamente in linea l’agevolazione della prosecuzione dei rapporti in essere, attraverso il beneficio del più blando regime di tutela avverso i licenziamenti illegittimi6. Questa interpretazione è stata criticata da chi ritiene che il termine “conversione” non possa avere un significato generico, trattandosi dello stesso termine utilizzato dall’art. 1424 c.c., che si occupa della conversione del contratto nullo, e dall’art. 32, comma 5 l. 4 novembre 2010, n. 183 che - nel testo vigente fino alla sua abrogazione ad opera del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (art. 55, comma 1) - disciplinava le conseguenze economiche appunto della “conversione” dei contratti a tempo determinato, riferendosi all’effetto della pronuncia giudiziale sanzionatoria7. Secondo questa tesi, rimarrebbero perciò escluse dal campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015 le ipotesi di trasformazione negoziale, per volontà delle parti, non riconducibili in senso stretto ad ipotesi di “conversione”8. In questo senso
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Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Circolare 11 marzo 2015, n. 6, Tutele crescenti: l’analisi delle novità, in www. consulentidellavoro.it. 6 T. Napoli, 26 giugno 2017, in NGL, 2017, 714; in proposito si veda Falasca, Tutele crescenti tre anni dopo, un primo bilancio applicativo, in GLav., n. 13, 23 marzo 2018, 26. 7 Tiraboschi, Conversione o semplice trasformazione dei contratti per l’applicazione delle cosiddette tutele crescenti?, in Boll. Adapt, 2015, n. 14, 1. 8 Prospetta un dubbio in questo senso anche Confindustria, News decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nota 9 marzo 2015, in www.confindustria.it, che infatti suggerisce prudenzialmente di chiudere formalmente il contratto a termine prima di assumere a tempo indeterminato.
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si è pronunciato anche il Tribunale di Roma, che ha così applicato il jobs act al lavoratore che aveva ottenuto la declaratoria giudiziale della nullità del contratto a termine stipulato in data antecedente alla sua entrata in vigore9, e ha invece applicato l’art. 18 st. lav. al lavoratore che aveva conseguito la trasformazione del suo rapporto a tempo indeterminato per via negoziale10. Si è tuttavia rilevata, da parte di altra dottrina, la non decisività anche di tali indicazioni terminologiche. Da un lato, infatti, l’art. 1424 c.c. non esclude le modifiche volute dalle parti, occorrendo al contrario che il diverso negozio giuridico sia compatibile con lo scopo da esse perseguito11. Del resto, lo stesso art. 32, comma 5 l. n. 183/2010 è stato abrogato dall’altro decreto attuativo della l. 183/2014, avente ad oggetto la disciplina organica dei contratti di lavoro (d.lgs. n. 15 giugno 2015, n. 81, v. art. 55, comma 1), che, nel riferirsi ai vizi del contratto a tempo determinato, utilizza sempre il termine trasformazione12, fatta eccezione per la sola apposizione del termine non risultante da atto scritto, che, esattamente come nel previgente art. 1, comma 2, d.lgs. n. 368/2001, rimane “priva di effetto”. Dall’altro lato, tale interpretazione sembra porsi in conflitto con la finalità perseguita dal legislatore, di incentivare i rapporti stabili13, finalità sottesa ai principi e criteri direttivi della legge delega, tra cui è prevista la promozione del contratto a tempo indeterminato come forma comune di rapporto di lavoro e l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (art. 1, comma 7 lett. b e c l. n. 183/2014). Ecco che allora, se la finalità della norma è quella di favorire i rapporti stabili anche per il tramite dell’esonero dall’applicazione della previgente normativa in materia di conseguenze sanzionatorie per i licenziamenti illegittimi14, allora essa, in base ad un criterio di interpretazione logica (art. 12, comma 2, disp. prel.) dovrebbe fare riferimento esclusivamente ai casi di conversione su accordo tra le parti, dove tale esonero è suscettibile di incidere in senso premiale, e non invece ai casi in cui l’instaurazione del rapporto a tempo indeterminato dipenda dalla violazione della normativa sul contratto a termine. Non avrebbe senso, infatti, l’attribuzione di misure premiali ai casi di conversione non voluta dal datore di lavoro ma subita dallo stesso quale sanzione15.
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T. Roma, 27 marzo 2017, in LPO, 2017, 550, con nota di Passalacqua. T. Roma, 6 agosto 2018, n. 75870, in Labor, 2019, 2, 218, con nota di Piglialarmi; in DRI, 1, 2019, 95, con nota di Capponi, in RIDL, 2019, I, con nota di Ratti. 11 Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, in Gragnoli (a cura di), L’estinzione del rapporto di lavoro subordinato, Vol. V, in Persiani – F. Carinci (a cura di), Trattato di diritto del lavoro, 1043, e in WP D’Antona, It, 2015, 22. 12 Nel caso di contratto a tempo determinato di durata superiore ai dodici mesi in assenza delle condizioni di cui all’art. 19, comma 1, nel caso di violazione dei divieti di cui all’art. 20, comma 1, per i casi di rinnovo o proroga dopo i dodici mesi, ex art. 21, comma 1, per i casi di proroga oltre le cinque volte, divenute quattro dopo le modifiche introdotte con d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. In l. 9 agosto 2018, n. 96, ex art. 21, comma 2; per i casi di riassunzione senza rispetto degli stop & go, ex art. 21, comma 3; per i casi di continuazione del rapporto oltre i termini previsti dal l’art. 22, comma 1, ex art. 22, comma 2. 13 Tremolada, Il campo di applicazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in F. Carinci - Cester (a cura di), Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015, in ADAPT e-Book; 2015, 46, 6-7. 14 Santoni, Il campo di applicazione della disciplina dei licenziamenti nel d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in Ferraro (a cura di), I licenziamenti nel contratto a tutele crescenti, in QADL, 14, 2015, 119. 15 Cester, op. cit., 1043. 10
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Giurisprudenza
A favore della riconduzione delle trasformazioni negoziali al campo di applicazione del jobs act depone, ancora, la finalità di evitare interruzioni dei rapporti tra le parti meramente strumentali a consentire al datore di lavoro di beneficiare della nuova disciplina16, tanto più che nel caso del contratto a termine tale modo di procedere non appare vietato17. Anzi, l’art. 2, comma 28, l. n. 92/2012 riconosce espressamente, anche in tal caso, il diritto del datore di lavoro di recuperare la contribuzione addizionale versata18. Quanto al rapporto con la legge delega, non sono stati rilevati problemi di conformità per le trasformazioni negoziali, sul presupposto che ai relativi rapporti, prima della trasformazione, non si applicava la normativa dell’art. 18 st. lav.19, mentre è stato da più parti rilevato come appaia difficile difendere la conformità dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 alla legge delega ove vengano ricomprese nella nuova disciplina anche le ipotesi di conversione giudiziale dei rapporti a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato per vizi originari20. In tali casi, infatti, secondo i principi generali del nostro ordinamento, il giudice accerta la nullità parziale del contratto e dichiara l’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato fin dal suo inizio, mentre la legge delega ha stabilito l’applicazione della nuova normativa alle sole nuove assunzioni21. A meno di, come pure è stato suggerito22, forzare le regole generali dell’ordinamento e attribuire natura costitutiva alla pronuncia giudiziale, attribuendo così rilevanza temporale all’atto della conversione in sé. Diversamente, invece, se i vizi che danno luogo alla conversione sono sopravvenuti rispetto all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, allora non sembra porsi un problema di eccesso di delega, poiché l’effetto della conversione – e quindi l’instaurazione del rapporto a tempo indeterminato - si produce solo a decorrere da quel momento23. Anche con riguardo a questa ipotesi, tuttavia, non c’è piena concordia, perché accanto a chi ritiene che questa ipotesi non fosse nemmeno bisognosa di un’esplicita previsione normativa24, c’è chi evidenzia come in realtà, anche in questo caso, la conversione non possa considerarsi “nuova assunzione”, e come quindi, anche così interpretata, la disposizione non sia esente dal vizio di eccesso di delega, per violazione dell’art.76 Cost.25.
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Come suggerito, del resto, da Confindustria, News decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nota 9 marzo 2015, in www.confindustria.it 17 Diversamente, come evidenzia Tremolada, op. cit., 7, dall’ipotesi di disdetta alla fine del periodo di formazione seguita da riassunzione, che appare diretta a privare il lavoratore dell’anzianità maturata durante l’apprendistato, e quindi passibile di nullità per frode alla legge. 18 In base all’art. 2, comma 28, l. n. 92/2012 il datore di lavoro ha diritto alla restituzione del contributo addizionale versato nel caso in cui «assuma il lavoratore con contratto di lavoro a tempo indeterminato entro il termine di sei mesi dalla cessazione del precedente contratto a termine». 19 Maresca, Assunzione e conversione in regime di tutele crescenti, in GLav, 2015, 12, 12 ss.; Miscione, Tutele crescenti: un’ipotesi di rinnovamento del diritto del lavoro, in DPL, 2015, 748. 20 Tremolada, op. cit., 8; Cester, op. cit., 1045, Passalacqua, op. cit., 560. 21 In questo senso, v. anche Buconi, LG, 2015, 7, 665. 22 Gentile, L’ambito di applicazione della nuova disciplina, in Fiorillo – Perulli, (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi, Giappichelli, 2015, 61, Miscione, op. cit., 748. 23 Tremolada, op. cit., 8; Squeglia, Il campo di applicazione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in M.T. Carinci - Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, 13. 24 Cester, op. cit., 1045. 25 Giubboni, Profili costituzionali del contratto a tutele crescenti, in WP, 2015, 246, 15; Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra law and economics e vincoli costituzionali, WP D’Antona, It., 2015, 259,18.
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Chiara Tomiola
3. Conclusioni: rileva il momento dell’atto se l’evento ne
costituisce l’effetto?
Rispetto al dibattito sorto sull’interpretazione dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 e sinteticamente descritto al precedente paragrafo, l’ordinanza del Tribunale di Parma, al fine di definire l’ambito di applicazione della disposizione, non si sofferma sul significato (tecnico o meno) del termine “conversione”, né sulla ratio legis, bensì sulla connessione tra l’utilizzo di tale termine e l’indicazione, ricavata dal primo comma della medesima disposizione, secondo cui la nuova disciplina dei licenziamenti illegittimi si applica ai lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo l’entrata in vigore della riforma (7 marzo 2015). Secondo l’ordinanza in commento, il primo comma dell’art. 1 d.lgs. n. 23/2015 individua come discrimine il momento della costituzione del rapporto di lavoro (a tempo indeterminato) e tale discrimine va tenuto in considerazione anche ai fini di interpretare il secondo comma. Su tale presupposto l’ordinanza perviene ad una conclusione generale in ordine all’inapplicabilità della nuova normativa ai casi di conversione giudiziale e invece alla sua applicabilità ai casi di trasformazione/prosecuzione del rapporto per volontà delle parti. Tale conclusione appare coerente con la premessa nella parte in cui si riferisce al caso oggetto del giudizio, vale a dire alla conversione giudiziale per vizi originari (o comunque per vizi sopravvenuti ma precedenti rispetto all’entrata in vigore della riforma): in detta ipotesi l’assunzione a tempo indeterminato, pur se accertata dopo, si è realizzata fin dall’inizio del rapporto (o comunque dal momento del verificarsi del vizio) e quindi la “conversione” non è successiva all’entrata in vigore del decreto delegato e non è riconducibile, dunque, all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015. L’instaurazione del rapporto a tempo indeterminato, cioè l’evento, non è un effetto dell’atto che ha disposto la conversione, ma preesisteva rispetto ad esso, che tale effetto ha soltanto conclamato. Pur non richiamando l’ordinanza in commento la legge delega, l’interpretazione proposta appare costituzionalmente orientata, perché coerente con la limitazione da parte della legge delega medesima del campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015 alle nuove assunzioni. Non appare invece altrettanto coerente l’esclusione tout court dall’ambito di applicazione della riforma dei casi di conversione giudiziale, posto che quando essa sia disposta per vizi sopravvenuti rispetto alla sua entrata in vigore, la costituzione del rapporto a tempo indeterminato avviene in un momento successivo rispetto all’entrata in vigore della nuova normativa e quindi non vi è ragione, sulla base delle premesse, per non ricondurla al campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015. L’evento – instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato – si realizza, infatti, (come l’atto) in un momento successivo all’entrata in vigore della riforma. Meritano infine una riflessione i casi di trasformazione/prosecuzione del rapporto per volontà delle parti. Se il contratto a tempo determinato è diventato a tempo indeterminato con effetti ex nunc, l’atto (l’accordo) e l’evento (l’instaurazione del rapporto a tempo indeterminato) coincidono e, se sono successivi all’entrata in vigore della nuova normativa, appaiono assimilabili all’ipotesi della nuova assunzione. Nell’ipotesi in cui, invece, le parti abbiano inteso trasformare retroattivamente a tempo indeterminato il rapporto a termine tra loro in essere, con riconoscimento al lavoratore
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Giurisprudenza
dell’anzianità pregressa e con recupero da parte del datore di lavoro della contribuzione addizionale versata (ex art. 2, comma 28, l. n. 92/2012), la costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato avviene con effetto fin dall’inizio del rapporto, anche se la volontà che ha prodotto tale effetto è stata espressa in un momento successivo rispetto all’entrata in vigore della nuova normativa. L’atto, cioè l’accordo di trasformazione del contratto, è successivo, ma l’evento, che è l’effetto di tale atto, retroagisce all’inizio del rapporto. In alcuni casi tale operazione potrebbe essere stata posta in essere nel tentativo – più o meno consapevole – di sanare una situazione di incertezza circa la validità, originaria o sopravvenuta, del termine apposto al contratto e quindi, ove la trasformazione non sia stata accompagnata da una rinuncia o transazione, secondo le regole dell’art. 2113 c.c., la domanda del lavoratore di accertamento del vizio del termine apposto al contratto potrà condurre alla declaratoria di instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato fin dall’origine o quanto meno fin dal formarsi del vizio, analogamente a quanto accaduto nel caso affrontato dal Tribunale di Parma. Negli altri casi resta da chiarire , in base alle regole in materia di interpretazione dei contratti, se le parti non abbiano inteso introdurre, nella sostanza, una clausola di stabilità, con riconoscimento al lavoratore del beneficio della miglior tutela prevista per i cd. “vecchi assunti”, quale il lavoratore viene considerato26; in mancanza, una volta rinunciato ad attribuire un significato strettamente tecnico al termine “conversione”27, diventa difficile trovare appigli per sostenere la non applicabilità della riforma. Non la legge delega: l’assunzione a tempo indeterminato, infatti, avviene sì retroattivamente, ma per effetto di un atto che è successivo. Nemmeno l’art. 3 Cost., visto che è solo ex post, cioè al momento della successiva trasformazione negoziale a tempo indeterminato, che la posizione di chi è stato assunto con un regolare contratto a tempo determinato si può paragonare a quella di chi è stato assunto a tempo indeterminato, tanto più in considerazione della finalità «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell’art. 1, comma 7, l. n. 183/2014), come statuito dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza 8 novembre 2018, n. 19428. Del resto, pur non facendovi l’ordinanza del Tribunale di Parma riferimento alcuno, l’inclusione delle ipotesi negoziali tra quelle regolate dalla normativa sul contratto a tutele crescenti appare conforme rispetto alla ratio legis, dal momento che accordare ai datori di lavoro il beneficio dell’esenzione dalla normativa più rigida per i licenziamenti illegittimi può certamente operare, come visto al precedente paragrafo, quale misura incentivante della stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Resta da stabilire se a questa impostazione, che attribuisce rilevanza al momento dell’evento della costituzione del rapporto a tempo indeterminato e alla volontà delle parti se l’evento ne costituisce l’effetto, non osti il principio di non discriminazione dei lavoratori a tempo determinato in ordine alle condizioni di impiego, di cui alla clausola 4 dell’accordo
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Per la quale si fa rinvio a Cester, op. cit., 1044. Si veda sopra, paragrafo 2. 28 C. Cost., 8 novembre 2018, n. 194, in FI, 2019, 1, I, 70, con nota di Giubboni. 27
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quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE. Tema portato all’attenzione della Corte di Giustizia dalla recente ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Milano, chiamato a pronunciarsi rispetto ad una fattispecie di licenziamento collettivo intimato in violazione dei criteri di scelta, rispetto alla quale la disposizione dell’art. 1 co. 2 d.lgs. n. 23/2015 era stata interpretata nello stesso modo seguito dall’ordinanza qui in commento. Resta il fatto che la diversità di trattamento, nel caso concreto, riguarda non le condizioni di impiego nel corso dello svolgimento del rapporto, ma la sua cessazione, vale a dire proprio l’elemento di discrimine tra rapporto a tempo determinato e rapporto a tempo indeterminato.29 Chiara Tomiola
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T. Milano, 5 agosto 2019, in www.dejure.it.
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