Labor 5/2020

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2020 LABOR 5

L

issn 2531-4688

ABOR Il lavoro nel diritto

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settembre-ottobre 2020

Rivista bimestrale

D IRETTA DA Oronzo Mazzotta

www.rivistalabor.it

IN EVIDENZA Il processo del lavoro Pasqualino Albi

Verso una previdenza contrattuale collettiva e individuale Michele Squeglia

Continuatività e lavoro autonomo Fabrizio Ferraro

Il licenziamento ai tempi del Covid-19 Paolo Iervolino

Giurisprudenza commentata Stefano Margiotta, Giulia Cassano

Pacini



Indici

Saggi Pasqualino Albi, Il processo del lavoro: peculiarità e differenze rispetto al rito ordinario.................p. 547 Michele Squeglia, A piccoli passi verso una previdenza (complementare) contrattuale collettiva e individuale: la soluzione eurounitaria del “Pan European Personal Pension Product” (PEPP)...... » 567 Fabrizio Ferraro, Continuatività e lavoro autonomo............................................................................. » 583 Paolo Iervolino, Il licenziamento ai tempi del Covid-19........................................................................ » 617

Giurisprudenza commentata Stefano Margiotta, Tutela dei disabili, “accomodamenti ragionevoli” e obbligo di “repechage”........ » 633 Giulia Cassano, Uber e il caporalato digitale: lo “smascheramento” dell’algoritmo delle piattaforme.» 651


Indice analitico delle sentenze Lavoro (rapporto di) – Lavoratore disabile – Accomodamenti ragionevoli – Adattamenti organizzativi – Limiti (Cass., 19 dicembre 2019, n. 34132, con nota di Margiotta) – Caporalato – Amministrazione giudiziaria – Attività agevolatrice del reato di cui all’art. 603 bis c.p. – Amministrazione giudiziaria (Trib. Milano, 27 maggio 2020, con nota di Cassano)

Indice cronologico delle sentenze Giorno

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Autorità 2019 Dicembre Cass., n. 34132 2020 Maggio Trib. Milano

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Notizie sugli autori

Pasqualino Albi – professore ordinario nell’Università di Pisa Giulia Cassano – dottoranda di ricerca nell’Università degli studi di Milano Fabrizio Ferraro – ricercatore nell’Università di Roma La Sapienza Paolo Iervolino – dottorando di ricerca nell’Università di Roma Tor Vergata Michele Squeglia – professore associato nell’Università degli Studi di Milano Stefano Margiotta – avvocato nel foro di Roma

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Saggi



Pasqualino Albi

Il processo del lavoro: peculiarità e differenze rispetto al rito ordinario* Sommario : 1. Premessa. – 2. Le caratteristiche del rito del lavoro. – 2.1. Il ricorso introduttivo del giudizio e la memoria di costituzione. – 2.2. Le preclusioni. – 2.3. L’udienza di discussione. – 2.4. La decisione della causa. – 2.5. Il giudizio di appello. – 3. Gli ambiti di applicazione del rito del lavoro. – 4. Le nullità del ricorso e la sanatoria. – 5. I poteri istruttori d’ufficio.

Sinossi. Il contributo ricostruisce in maniera sintetica, ma al contempo completa, le principali caratteristiche del rito speciale in materia di controversie di lavoro, prestando particolare attenzione a come i principi ormai classici che lo governano reggono di fronte alle tendenze più recenti, anche giurisprudenziali. Abstract. The essay retraces, in a synthetic but at the same time complete way, the main characteristics of the special procedure in the field of labor disputes, paying particular attention to how the now classic principles that govern it hold up in front of the most recent trends, including case law trends. Parole chiave: Processo – Rito del lavoro – Peculiarità – Rito ordinario – Preclusioni – Udienza – Decisione – Poteri del giudice

1. Premessa. La legge 11 agosto 1973, n. 533, recante la “Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie” è alle soglie del mezzo secolo di vita.

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Si tratta della Relazione per il Corso di Formazione della Scuola Superiore della Magistratura. Seconda settimana di formazione civilistica per i Magistrati Ordinari in Tirocinio. Sessione del 21 luglio 2020.


Pasqualino Albi

L’impianto dato dalla citata legge è rimasto, nella sua sostanza, stabile1 e si fonda sui principi – secondo la formula chiovendiana – di oralità, immediatezza e concentrazione del processo. La “fortuna” del rito del lavoro emerge, oltre che dalla “importazione”, nel giudizio ordinario, di alcune sue caratteristiche proprie di tale rito, anche dalla sua espansione ad altri tipi di controversie. Tra le principali caratteristiche recepite nel rito ordinario2 possono ricordarsi: la monocraticità (seppur parziale) del giudice di primo grado (art. 50 c.p.c.); il principio di preclusione (art. 183 c.p.c.); la possibilità di emanare provvedimenti anticipatori di condanna (artt. 186-bis, 186-ter e 186-quater c.p.c.); la provvisoria esecutività delle sentenze di primo grado (282 c.p.c.); il regime delle limitazioni alle nuove prove ed eccezioni in appello. Le differenze tra i due riti, dunque, si sono assottigliate ma permangono tuttora alcune peculiarità del rito del lavoro che lo differenziano profondamente dal rito ordinario. Con uno sforzo di sintesi i tratti salienti del rito del lavoro, inteso come modello normativo, possono così individuarsi3: competenza per materia spettante sempre al giudice monocratico e competenza per territorio inderogabile; introduzione del giudizio e attivazione del contraddittorio secondo la scansione propria dei processi instaurati con ricorso depositato e successiva fissazione dell’udienza con decreto; sistema di preclusioni rigido e generalizzato, con limitati aggiustamenti del thema decidendum e del thema probandum; oralità e concentrazione del processo che è destinato ad esaurirsi in una o, comunque, in poche udienze vicine tra loro; poteri istruttori del giudice più ampi rispetto a quelli del rito ordinario; decisione della causa al termine della discussione mediante lettura del dispositivo e, per regola generale (v. paragrafo II.4), anche della motivazione.

2. Le caratteristiche del rito del lavoro. Occorre rimarcare che il rito del lavoro rimane un giudizio a cognizione ordinaria inquadrabile nell’ambito del generale sistema del codice di procedura civile con l’effetto che ogni carenza della relativa disciplina ne impone l’integrazione attraverso l’applicazione, oltre che delle norme generali del libro I del c.p.c., anche di quelle del processo di cognizione di cui al libro II, se ed in quanto le suddette norme non siano, appunto, incompatibili con le peculiarità del rito del lavoro4.

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Per un elenco delle modificazioni si rinvia alla ricostruzione di Costantino, in Amoroso, Di Cerbo, Foglia, Maresca, Diritto del lavoro – Il Processo, Giuffrè, Vol. IV, 2016, XLIII e ss. Secondo l’elencazione di Sandulli, Socci, Il processo del lavoro. La disciplina processuale del lavoro privato, pubblico e previdenziale, Giuffrè, 2016, 16 ss. Secondo l’elencazione di Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. III, Cacucci, 2014, 17 e ss. Così, in motivazione, Cass., Sez. Un., 1° marzo 1988, n. 2166, in MGL, 1988, 360.

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Il processo del lavoro: peculiarità e differenze rispetto al rito ordinario

2.1. Il ricorso introduttivo del giudizio e la memoria di costituzione. Fin dalla regolamentazione degli atti introduttivi emerge la differenziazione con il processo ordinario, giacché, nel processo del lavoro, entrambe le parti del giudizio devono “scoprire tutte le loro carte” in modo che il giudice sia in grado di conoscere la causa prima dell’udienza5. Nel giudizio di primo grado, ai sensi dell’art. 414 c.p.c., il ricorso deve anzitutto contenere l’indicazione del giudice e l’indicazione delle parti. Deve poi essere indicato l’oggetto della domanda che ricomprende il bene della vita a cui si aspira (il petitum mediato) e il provvedimento che si richiede al giudice (petitum immediato) nonché le circostanze in fatto e le ragioni in diritto su cui si fonda la pretesa del ricorrente (causa petendi). Infine, devono essere indicati i mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi. Per quanto concerne la posizione del convenuto, l’art. 416 c.p.c. prevede che quest’ultimo debba costituirsi, depositando nella cancelleria del giudice adito dall’attore una memoria difensiva, almeno dieci giorni prima dell’udienza di discussione. Il comma 2 dell’art. 416 c.p.c. prevede, per il convenuto, l’onere di proposizione, a pena di decadenza, delle domande riconvenzionali e delle eccezioni non rilevabili d’ufficio, e il comma 3, l’onere di prendere posizione, in maniera specifica e non limitata a una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, di proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto e, infine, di indicare specificamente i mezzi di prova dei quali intende avvalersi e, in particolare, i documenti che intende contestualmente depositare.

2.2. Le preclusioni. Il significato del sistema di preclusioni è stato sin da subito chiarito, all’indomani dall’entrata in vigore della riforma, da un intervento della Corte costituzionale6, che ha sgombrato il campo da ogni dubbio: le decadenze e le preclusioni per il ricorrente devono, infatti, ritenersi simmetriche a quelle del convenuto, in virtù di esigenze di parità costituzionalmente imposte e di tutela del diritto di difesa. Si è, così, rilevato che, per il ricorrente, le preclusioni (relative al petitum, alla causa petendi e ai mezzi di prova) si compiono in un momento in cui egli non conosce ancora le difese del convenuto7, rendendo ancor più complesso l’onere sullo stesso incombente8.

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Vallebona, Il trionfo del processo del lavoro, in MGL, 2009, 566. C. Cost., 14 gennaio 1977, n. 13, in FI, 1977, I, 259. Cfr. sul punto Verde, Norme inderogabili, tecniche processuali e controversie del lavoro, in RDP, 1977, 220 ss.; Proto Pisani, In tema di prova nel processo del lavoro: temperamenti al principio di eventualità (nota a Cass., 11 luglio 1981, n. 4536), in FI, 1981, II, 2402. Per Sandulli, Socci, op. cit., 191 ss., in base al c.d. principio di eventualità è richiesto al ricorrente un “super lavoro, di natura parzialmente divinatoria” dovendo allegare tutti i fatti diretti ed indiretti che, a suo giudizio unilaterale, appaiono idonei a chiarire la fattispecie e a dimostrare la sussistenza del diritto azionato nonostante solo la dialettica del contraddittorio permette al giudice e alle parti di definire con certezza il thema decidendum e probandum. Per gli autori “è giunta, pertanto, l’ora di modificare la fase

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Il regime di preclusioni, con riferimento all’onere di allegazione, è ben chiarito nel c.d. principio di circolarità tra oneri di allegazione, di contestazione e di prova. Tale principio richiede la necessità che, ai sensi degli artt. 414 e 416 c.p.c., gli elementi di fatto e di diritto posti a base delle diverse domande e/o istanze dell’attore e del convenuto siano compiutamente contenuti nei rispettivi primi atti processuali (ricorso e memoria difensiva) e richiede altresì che risulti individuato in modo chiaro nel ricorso introduttivo quanto richiesto al giudice (petitum), con conseguente impossibilità di dimostrare circostanze non ritualmente e tempestivamente allegate nel ricorso9. Al contempo, la contestazione di uno o più fatti costituitivi deve essere fatta valere con la comparsa di costituzione, in mancanza della quale si realizza l’effetto dell’esclusione dei fatti non contestati dal thema probandum10. Dunque, il principio fondamentale è che l’allegazione dei fatti spetta solo alle parti, cosicché il ricorrente dovrà allegare i fatti costitutivi e il convenuto dovrà allegare i fatti, impeditivi, modificativi o estintivi. Con particolare riferimento alla posizione dell’attore, il tema si connette con la nullità del ricorso introduttivo in difetto dell’individuazione dell’oggetto della domanda o delle ragioni, di fatto e di diritto, richieste dall’art. 414 c.p.c., di cui si dirà più avanti (v. par. IV). Con riferimento alla posizione del convenuto, il comma 2 dell’art. 416 c.p.c. pone l’onere, a pena di decadenza, di proporre le eccezioni non rilevabili d’ufficio. È pacifico che tale onere riguardi sia le eccezioni di merito che quelle processuali mentre più complessa è l’individuazione delle eccezioni rilevabili d’ufficio (c.d. eccezioni in senso lato) rispetto a quelle su sola istanza di parte (c.d. eccezioni in senso stretto), secondo la distinzione oggi espressamente codificata dall’art. 112 c.p.c.11. Sull’onere di contestazione e sul relativo principio di non contestazione, il riferimento si trova oggi inserito nell’art. 115 c.p.c., per effetto della riforma di cui alla l. n. 69/2009, ma già prima della sua formulazione espressa la Corte di Cassazione era pervenuta alla sua affermazione, sia con riferimento al rito del lavoro, attraverso l’art. 416 c.p.c.12, sia con riferimento al rito ordinario, attraverso l’art. 167 c.p.c.13. Sul punto, particolarmente rilevante è il momento entro cui deve essere contestato il fatto al fine di impedire l’applicazione del principio di non contestazione. Tale momento, nel rito del lavoro, deve ritenersi coincidente con la costituzione in giudizio del convenuto14, in virtù del comma 3 del più volte citato art. 416.

introduttiva del rito del lavoro, che può benissimo formarsi come quella introdotta per il rito civile dagli artt. 183 e 184 c.p.c., con gli opportuni adattamenti per rendere snella e non ridondante ed inutile la fase introduttiva”. 9 In tali termini, Cass., 27 maggio 2008, n. 13825, in De Jure. 10 Cass., 10 luglio 2009, n. 16201, in MGL, 2009. 11 Per un’analisi della nozione di eccezione non rilevabile d’ufficio e della casistica in tema di rito del lavoro, si rinvia a Pozzaglia, La memoria difensiva, in Il diritto processuale del lavoro, a cura di Vallebona, Cedam, 2011, 110 e ss. 12 Cass., Sez. Un., 17 giugno 2004, n. 11353, in FI, 2005, 1, 1135. 13 Cass., Sez. III, 6 febbraio 2004, n. 2299, in AC, 2004, 1482. 14 Cass., 28 febbraio 2014, n. 4854, in LG, 2014, 5, 501; recentemente Cass., 6 settembre 2019, n. 22357, in Leggiditalia.it; più complesso è il tema in caso di opposizione a cartella esattoriale in cui, come noto, le posizioni sostanziali delle parti sono invertite (essendo l’ente convenuto, attore, in senso sostanziale), in relazione per Cass., 26 ottobre 2018, n. 27274, in CED Cassazione, 2018, l’opponente – convenuto in senso sostanziale – è tenuto ad adempiere già con l’atto introduttivo del giudizio all’onere di specifica contestazione

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Si è, tuttavia, precisato che, in caso di contumacia, non può essere attribuita valenza non contestativa dei fatti allegati dalla controparte, che resta onerata della relativa prova, e, dunque, rientra nelle facoltà difensive del convenuto, dichiarato contumace nel giudizio di primo grado, contestare le circostanze poste a fondamento del ricorso, poiché la previsione dell’obbligo a suo carico di formulare nella memoria difensiva, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito, nonché di prendere posizione precisa in ordine alla domanda e di indicare le prove di cui intende avvalersi, non esclude il potere-dovere del giudice di accertare se la parte attrice abbia dato dimostrazione probatoria dei fatti costitutivi e giustificativi della pretesa, indipendentemente dalla circostanza che, in ordine ai medesimi, siano o meno state proposte, dalla parte legittimata a contraddire, contestazioni specifiche, difese ed eccezioni in senso lato15. Quanto all’onere indicazione dei mezzi di prova e al deposito dei documenti, si è detto che la posizione delle parti è speculare, dovendo entrambe indicare il corredo probatorio di cui vogliono servirsi nel giudizio con i propri atti introduttivi. La rigida preclusione per le parti è, nel rito del lavoro, temperata, come si vedrà dai poteri istruttori di cui il giudice è dotato (v. par. V).

2.3. L’udienza di discussione. L’udienza di discussione della causa, si è detto, dovrebbe essere tendenzialmente unica, fermo restando che la stessa legge prevede una serie di casi in cui si dovrà procedere ad un rinvio. Soffermandosi, anche sotto tale aspetto, sulle peculiarità del rito, viene in primo luogo in rilievo l’interrogatorio libero delle parti. La centralità dell’interrogatorio emerge direttamente dalla doverosità della presenza delle parti16 (art. 415, c. 2, c.p.c.) e dagli effetti dell’assenza ingiustificata (valutabile dal giudice ai fini della decisione, ai sensi dell’art. 420, c. 1, c.p.c.). Il fine dell’interrogatorio è, in particolare, quello di chiarire i termini della controversia17 nonchè di consentire al giudice di esperire il tentativo di conciliazione. Il giudice può condurre l’interrogatorio libero delle parti nel modo che ritiene più opportuno e senza necessità di motivare espressamente sulle modalità adottate18.

di cui all’art. 416 c.p.c. dovendo il medesimo allegare nell’atto di opposizione le specifiche ragioni di contestazione della pretesa, pena la natura puramente esplorativa dell’atto e la violazione dell’onere di specifica allegazione a carico dell’opponente che trova giustificazione nella preventiva notifica di un atto formale del creditore esplicativo della pretesa e delle sue ragioni. Di diverso avviso Cass., 4 dicembre 2019, n. 31704, in CED Cassazione, 2019, secondo cui, attribuendo efficacia di “allegazione” a fatti contenuti in atti extraprocessuali (quali la preventiva notifica di un atto formale del creditore esplicativo della pretesa e delle sue ragioni, ravvisato in specie nella cartella esattoriale), si interromperebbe la circolarità, necessariamente endoprocessuale, tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova, attestata dal combinato disposto dell’art. 414 c.p.c., nn. 4 e 5 e dall’art. 416 c.p.c., come sancita dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 11353 del 17 giugno 2004 (in FI, 2005, 1, 1135). 15 V. Cass., 21 novembre 2014 n. 24885, in CED Cassazione, 2014. 16 Sebbene attenuata dalla possibilità di nomina di un procuratore generale o speciale, ai sensi dell’art. 420, c. 2, c.p.c., il quale deve comunque essere a conoscenza dei fatti oggetto della controversia. 17 Cass., 27 gennaio 2009, n. 1895, in MGI, 2009. 18 Cass., 2 luglio 2009, n. 15502, in FI, 2010, 3, 1, 942.

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Le dichiarazioni rese non possono avere valore di confessione giudiziale ai sensi dell’art. 229 c.p.c., ma possono solo fornire al giudice elementi sussidiari di convincimento utilizzabili ai fini del riscontro e della valutazione delle prove già acquisite19. Esse sono discrezionalmente utilizzabili dal giudice come elemento di convincimento, soprattutto se riguardano fatti che possono essere conosciuti solo dalle parti medesime o non sono contraddette da elementi probatori contrari, e possono arrivare a costituire l’unica fonte del convincimento20. Sebbene si tratti di adempimento obbligatorio la giurisprudenza non lo ritiene previsto a pena di nullità21, restando affidato al potere discrezionale del giudice di merito di valutarne l’utilità, anche in relazione agli assunti delle parti, sotto il profilo del buon esito del tentativo o al fine di acquisire elementi di convincimento per la decisione. All’esito dell’interrogatorio formale, il giudice tenta la conciliazione della lite, formulando una proposta transattiva o conciliativa. Il libero interrogatorio e il tentativo di conciliazione non sono previsti a pena di nullità22. In caso di esito positivo, si redige un processo verbale secondo le modalità di cui all’art. 88, disp. att. c.p.c., e il medesimo ha efficacia di titolo esecutivo. Da un punto di vista ricostruttivo, nonostante l’art. 2113 c.c. richiami l’art. 185 c.p.c. e non l’art. 420 c.p.c., non sorge ovviamente alcun dubbio sull’operatività delle conciliazioni in sede giudiziale nel processo del lavoro23. L’art. 420, c. 1, c.p.c., disciplina, poi, la possibilità di modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, essendo pacificamente vietata la proposizione di domande nuove rispetto a quelle fatte valere con gli atti introduttivi (mutatio libelli). Tale esercizio deve essere contenuto nella prima parte dell’udienza e la modifica può derivare anche dai risultati dell’interrogatorio e della discussione sulle questioni preliminari24, richiede la presenza di gravi motivi e necessita dell’autorizzazione del giudice. Resta irrilevante, dunque, il consenso della controparte. Differentemente dal rito ordinario, il potere di modifica è limitato, posto che, sensi dell’art. 183 c.p.c., le domande, le eccezioni e le conclusioni sono liberamente modificabili dalle parti. La “mutatio”, secondo la Cassazione, è quella che si traduce in una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un tema di indagine completamente nuovo, tale da determinare uno spostamento dei termini della contestazione, con la conseguenza di disorientare la difesa predisposta dalla controparte, e da alterare il regolare svolgimento del processo, mentre si ha “soltanto una “emendatio” quando la

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Cass., 22 luglio 2010, n. 17239, in CED Cassazione, 2010; Cass., 19 maggio 2017, n. 12712, in LG, 2017, 10, 925. Cass., 2 aprile 2009, n. 8066, in LG, 2009, 9, 948. 21 Cass., 18 agosto 2004, n. 16141, in LG, 2005, 180. 22 Cass., 7 giugno 2002, n. 8310, in Mass. giur. it., 2002. 23 Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Franco Angeli, 1974, 205; Luiso, Il processo del lavoro, Utet, 1992, 169; Tarzia, Manuale del processo del lavoro, 5ª ed., Giuffrè, 2008, 162. 24 Tarzia, op. cit., 163. 20

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modifica della domanda iniziale incide sulla “causa petendi” nel senso di una diversa interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto e sul “petitum” nel senso di un ampliamento o di una limitazione di questo, al fine di renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere in giudizio25. Se il giudice non ritiene la causa matura per la decisione e se non sorgono questioni pregiudiziali (art. 420, c. 3, c.p.c., il quale ha lo stesso significato dell’art. 187 c.p.c.) si procede con l’ammissione dei mezzi di prova costituendi richiesti, previa valutazione della loro ammissibilità e rilevanza. Il giudice può ammettere, se rilevanti, anche mezzi di prova nuovi che le parti non abbiano potuto proporre negli atti introduttivi e, in tal caso, deve concedere alla controparte un termine per dedurre i mezzi di prova che ritiene necessari in relazione a quelli ammessi che, nell’udienza successiva, verranno eventualmente ammessi e assunti. Le ipotesi possono ricollegarsi, per il solo attore, alle prove riguardanti i fatti allegati dal convenuto nella memoria difensiva26, per entrambe le parti, a situazioni di oggettiva impossibilità27 ovvero nell’ipotesi in cui la deduzione del mezzo di prova fosse, al momento del deposito dell’atto, da ritenere superflua sulla base di una ragionevole presunzione di non contestazione del fatto28. Il principio vale sia per le prove costituite che per quelle costituende, con l’aggiunta, per le prime, che la produzione di documenti successivamente al deposito degli atti introduttivi è ammissibile anche ove si tratti di documenti formati o giunti nella disponibilità della parte dopo lo spirare dei termini preclusivi29. La fase decisoria, regolata dall’art. 429 c.p.c., può essere preceduta dal deposito di note difensive, che devono essere richieste dalle parti e autorizzate dal giudice, secondo una propria valutazione discrezionale.

2.4. La decisione della causa. Ai sensi dell’art. 429, c. 1., c.p.c. la decisione avviene mediante lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e di diritto della decisione e, solo in caso di particolare complessità della controversia, il giudice può limitarsi a dare lettura del dispositivo, fissando un termine non superiore a sessanta giorni per il deposito della sentenza completa di motivazione. La formula è stata introdotta nel 2008, dal d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni nella l. 6 agosto 2008, n. 133, ponendo alcune problematiche per il mancato coordinamento con le ulteriori disposizioni relative alla sentenza, non toccate dalla riforma e, in particolare, con l’art. 430 c.p.c.

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Cass., 8 ottobre 2007, n. 21017, in MGI, 2007. Luiso, Il processo cit., 188. 27 In tal senso, Tarzia, op. cit., 168, Luiso, Il processo, cit., 188. 28 Cass., 30 agosto 2005, n. 17513, in CED Cassazione, 2005. 29 Cass., 17 dicembre 2019, n. 33393, in CED Cassazione, 2019. 26

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Infatti prima della riforma, la decisione avveniva sempre e solo mediante il deposito del dispositivo e, ai sensi del citato art. 430, la sentenza veniva depositata in cancelleria entro quindici giorni dalla pronuncia, mentre oggi la sentenza dovrebbe, di regola, essere integralmente letta in udienza. Nell’impianto attuale manca, cioè, una disposizione come quella dettata nel giudizio civile dall’art. 281-sexies, c. 2, c.p.c., secondo cui la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione del verbale da parte del giudice e immediatamente depositata in cancelleria. La giurisprudenza ha risolto la questione, ritenendo che l’art. 430 c.p.c. operi in via meramente sussidiaria nel caso in cui il giudice fissi un termine non superiore a sessanta giorni per il deposito della sentenza, mantenendo la struttura bifasica della pubblicazione della sentenza nel caso di controversie di particolare complessità, mentre, ove venga definito il giudizio dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, analogamente a quanto previsto dal comma 2 dell’art. 281-sexies c.p.c., tale lettura equivale a pubblicazione. Ne consegue che il dies a quo di decorrenza del termine c.d. lungo di decadenza per la proposizione della impugnazione, previsto dall’art. 327 c.p.c., deve essere individuato, nel primo caso, dalla comunicazione da parte della cancelleria del deposito della sentenza completa, nel secondo caso, dalla stessa data dell’udienza30. La sentenza di primo grado ha anche un regime parzialmente diverso rispetto alla regola sull’esecutività e sulla sospensione dell’esecuzione. L’art. 431 c.p.c. prevede, al comma 1, la provvisoria esecutività della sentenza di condanna in favore del lavoratore. Si tratta di regola che, al momento dell’introduzione da parte della l. n. 533/1973, rappresentava una rilevante novità e che oggi è, invece, generalizzata per tutte le sentenze di primo grado ai sensi degli artt. 282 e 283 c.p.c. come sostituititi dalla l. n. 353/1990. Le prima specialità del rito del lavoro discende dalla possibilità, per il lavoratore, di procedere ad esecuzione forzata con il solo dispositivo, che oggi dovrebbe comunque avere una valenza minore, considerata la regola della contestualità della lettura del dispositivo e della motivazione, cosicché la sua utilità sarà limitata ai soli casi in cui il giudice ritenga, per la complessità della causa, di leggere il solo dispositivo e di fissare l’ulteriore termine per il deposito della sentenza completa. A tale possibilità, si ricollega l’istituto del c.d. appello con riserva dei motivi, riconosciuto alla parte, ai sensi dell’art. 433, c. 2, c.p.c., nei confronti della quale l’esecuzione sia iniziata prima della notificazione della sentenza. La funzione è quella di attribuire all’appellante uno strumento per ottenere, con apposita istanza, la sospensione dell’esecuzione e, non essendo ancora conosciute le motivazioni della sentenza, l’appellante dovrà depositare l’atto di integrazione dei motivi nel termine indicato dall’art. 434, c. 2, c.p.c. (trenta giorni dalla notificazione della sentenza o sei mesi dalla pubblicazione), pena la sua inammissibilità.

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Cass., 30 maggio 2017, n. 13617, in CED Cassazione, 2017; Cass., Sez. III, 7 giugno 2018, n. 14724, in DPL, 2018, 46, 2820.

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Il processo del lavoro: peculiarità e differenze rispetto al rito ordinario

La l. n. 353/1990, nel generalizzare la provvisoria esecutività delle sentenze nel rito ordinario ha adeguato la regola anche al rito del lavoro, con riferimento al datore di lavoro, introducendo, nell’art. 431, il comma 5 in cui si prevede che anche le sentenze a favore del datore di lavoro sono provvisoriamente esecutive, pur non potendosi estendere a quest’ultimo la possibilità di agire in via esecutiva con il solo dispositivo. L’ulteriore specialità discende dalla disciplina sulla sospensione e, in particolare, dalla differenziazione dei presupposti per la sospensione, correlati al “gravissimo danno” per il datore di lavoro (in caso di esecuzione da parte del lavoratore) e ai “gravi motivi” per il lavoratore (in caso di esecuzione da parte del datore di lavoro). Si tratta di definizioni di difficile interpretazione che, comunque, manifestano una distinzione tra le posizioni delle parti, implicando, per il datore di lavoro una valutazione sulla gravità del danno e, per il lavoratore, anche solo sulla probabile fondatezza dell’appello.

2.5. Il giudizio di appello. Con riferimento al giudizio di appello, l’introduzione del giudizio e del contraddittorio ricalcano, pur con i dovuti adattamenti, la struttura del giudizio di primo grado (in tema di nullità del ricorso introduttivo in appello, v. par. 4). Il regime relativo alle preclusioni e ai poteri istruttori in appello è regolato dall’art. 437, comma 2, c.p.c., in cui si stabilisce che non sono ammesse nuove domande ed eccezioni nonché nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. È, inoltre, fatta salva la facoltà delle parti di deferire il giuramento decisorio. Il divieto di nova è tassativo e la violazione è rilevabile sia su istanza di parte che d’ufficio, non essendo rilevanti l’acquiescenza della controparte o l’accettazione del contradditorio31. La violazione del divieto è integrata non solo in caso di domande nuove ma anche in caso di modificazione della domanda già proposta, sia con riguardo al petitum che alla causa petendi, e, pertanto, non è consentito addurre fatti diversi da quelli allegati in primo grado, anche quando il bene richiesto rimanga immutato, essendo nella fase di appello precluse le modifiche (salvo quelle meramente quantitative) che comportino anche solo una emendatio libelli32. Il divieto riguarda le eccezioni in senso stretto che introducono in giudizio un nuovo thema decidendum e un nuovo accertamento di fatto33 mentre devono ritenersi sicuramente ammissibili le eccezioni improprie e le mere difese, ossia le deduzioni volte alla contestazione dei fatti costitutivi e giustificativi allegati dalla controparte a sostegno della

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Cass., 27 gennaio 1998, n. 821, in MGI, 1998. Cass., 29 luglio 2014, n. 17176, in CED Cassazione, 2014. 33 Cass., 20 luglio 2012, n. 12706, in CED Cassazione, 2012. 32

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pretesa ovvero le deduzioni che corroborano sul piano difensivo eccezioni già ritualmente formulate34. Tale principio deve essere sempre correlato all’onere di contestazione, con l’effetto che non possono neppure ammettersi contestazioni nuove, giacché in tale ipotesi si violerebbe l’onere di cui all’art. 416, c. 3, c.p.c., si modificherebbero i temi di indagine, trasformando il giudizio di appello da “revisio prioris instantiae” in “iudicium novum”, e si altererebbe la parità delle parti, esponendo l’altra parte all’impossibilità di chiedere l’assunzione di quelle prove alle quali, in ipotesi, aveva rinunciato, confidando proprio nella mancata contestazione ad opera dell’avversario35. Quanto alla disciplina delle prove e dei poteri istruttori del giudice di appello, non costituiscono nuovi mezzi di prova quelli richiesti ma non ammessi in primo grado, né quelli già esperiti di cui è disposta la rinnovazione mentre sono da ritenersi nuove quelle relative ad un fatto già allegato su cui in primo grado non si erano formulati mezzi istruttori ovvero che si era tentato di provare con altri mezzi rispetto a quello chiesto in appello36. Sul significato dell’aggettivo “indispensabili” la dottrina si è a lungo interrogata e in giurisprudenza non è rinvenibile una definizione univoca. Nella recente giurisprudenza della Cassazione si è rilevata l’indispensabilità nella potenziale idoneità dimostrativa in rapporto al “thema probandum”, avuto riguardo allo sviluppo assunto dall’intero processo37, e nella idoneità a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, purché allegati nell’atto introduttivo, seppure implicitamente, e sempre che sussistano significative “piste probatorie” emergenti dai mezzi istruttori, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado38. L’ammissione dei nuovi mezzi di prova può avvenire anche d’ufficio specularmente a quanto disposto dall’art. 421 c.p.c. (v. par. 5). La decisione avviene tendenzialmente nell’unica udienza di discussione del giudizio, considerata la residualità dell’istruttoria in appello. Diversamente dal primo grado di giudizio, questa avviene mediante la sola lettura del dispositivo, ai sensi dell’art. 437, c. 1, c.p.c.39, con successivo deposito in cancelleria della sentenza completa entro il termine di 15 giorni, in virtù dell’espresso rinvio all’art. 430 c.p.c. da parte dell’art. 438 c.p.c. Se la sentenza di appello è pacificamente esecutiva in virtù del disposto di cui all’art. 337, c. 1, indipendentemente dal contenuto e dalla parte vittoriosa, sull’applicabilità del comma 2 dell’art. 438 non vi è uniformità di vedute in dottrina. La disposizione, richiamando espressamente il comma 2 dell’art. 431, attribuisce efficacia di titolo esecutivo al

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Cass., 16 novembre 2012, n. 20157, in CED Cassazione, 2012. Cass., 28 febbraio 2014, n. 4854, CED Cassazione, 2014; Cass., Sez. VI, 1 febbraio 2018, n. 2529, in CED Cassazione, 2018. 36 Luiso, Il processo, cit., 293-294. 37 Cass., 20 marzo 2019, n. 7883, in CED Cassazione, 2019. 38 Cass., 15 maggio 2018, n. 11845, in CED Cassazione, 2018; Cass., 28 marzo 2018, n. 7694, in LG, 2018, 7, 736. 39 Per l’inapplicabilità dell’art. 429, c. 1, c.p.c., v. Cass., 5 agosto 2013, n. 18627, in CED Cassazione 2013. 35

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dispositivo. La questione dibattuta riguarda la possibilità di procedere all’esecuzione sulla base del solo dispositivo per il solo lavoratore o anche per il datore di lavoro. La soluzione preferibile, sembrerebbe essere quella di limitarne l’applicazione al solo lavoratore in considerazione della stretta connessione tra il secondo comma e il primo comma dell’art. 431 c.p.c.40.

3. Gli ambiti di applicazione del rito del lavoro. Il rito del lavoro nasce per regolare, come indicato espressamente dalla l. 533/1973, le controversie individuali di lavoro e le controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie. Con riferimento all’art. 409 c.p.c., sono state assoggettate al rito speciale non singole controversie individuate per il loro petitum ma tutte le controversie relative ai rapporti indicati dallo stesso articolo. Ciò comporta, secondo la giurisprudenza, che rientrano nell’ambito dell’art. 409 c.p.c. non solo le controversie in cui il rapporto di lavoro costituisca la precipua causa petendi della domanda, ma anche tutte le pretese che trovano nel rapporto di lavoro l’antecedente e il presupposto necessario, non meramente occasionale, della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale41. Dal punto di vista soggettivo, la competenza per materia delineata dall’art. 409 c.p.c. varrà per entrambe le parti e, dunque, anche per il datore di lavoro (o, ancora, per il committente nei rapporti di para-subordinazione), anche ove uno e entrambi i soggetti non siano le parti del rapporto di lavoro, se le domande trovano titolo esclusivo o concorrente in un rapporto di lavoro subordinato (si pensi, ad esempio, all’azione per il risarcimento dei danni iure hereditatis esercitata dagli eredi del lavoratore subordinato). In relazione ai singoli rapporti indicati all’art. 409 c.p.c., il primo riferimento è ai rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio dell’impresa. Il riferimento è correlato al requisito della subordinazione, secondo la qualificazione propria di tale modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Non rileva, invece, l’inerenza del rapporto all’esercizio dell’impresa, rientrando nella competenza per materia anche le controversie relative ai rapporti di lavoro domestico, o con le associazioni o, ancora, con le organizzazioni di tendenza. Per effetto dell’art. 11 del d.lgs. n. 150/2011, con cui si prevede che le controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto, alle quali si applica il rito del lavoro, appartengono alla competenza delle sezioni specia-

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Si v. Vullo, op. cit., 413, anche per una ricostruzione delle opposte posizioni dottrinarie. Cass., 8 ottobre 2012, n. 17092, in CED Cassazione, 2012; Cass., 22 marzo 2002, n. 4129, in MGI, 2002.

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lizzate agrarie di cui alla l. 2 marzo 1963 n. 320, si deve ritenere che il n. 2 dell’art. 409 c.p.c. sia ormai privo di portata precettiva42. Con riferimento al n. 3 dell’art. 409 c.p.c., sono assoggettati al rito del lavoro i rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato. In relazione alla casistica più recente, deve accennarsi alla qualificazione del rapporto tra amministratore di una società per azioni e la società stessa, che è stata oggetto di una decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Per le Sezioni Unite, l’amministratore unico o il consigliere d’amministrazione di una società per azioni sono legati da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dall’art. 409, n. 3, c.p.c., pur non essendo preclusa l’instaurazione tra i medesimi soggetti di un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma, secondo l’accertamento esclusivo del giudice del merito, le caratteristiche di un rapporto di lavoro subordinato, parasubordinato o d’opera43. L’effetto di tale principio è che, ai fini della competenza del giudice del lavoro, si dovrà verificare, sulla base della domanda, se viene in rilievo una pretesa connessa all’eventuale rapporto di lavoro subordinato, parasubordinato o d’opera intercorrente tra l’amministrazione oppure se venga in rilievo il rapporto di tipo societario e i diritti da questo scaturenti, con conseguente applicazione, in tal caso, della sezione specializzata in materia di impresa di cui all’art. 3 d.lgs. 27 giugno 2003 n. 16844. I nn. 4 e 5 dell’art. 409 c.p.c. prevedono l’applicazione del rito del lavoro per i “rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica” e per i “rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro pubblico, sempreché non siano devoluti dalla legge ad altro giudice”. Entrambe le disposizioni devono ormai ritenersi prive di rilevanza pratica, atteso che l’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, ha devoluto al giudice del lavoro tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, del medesimo decreto legislativo45 nonché le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 28 della l. 20 maggio 1970,

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Si v., in tal senso, Vullo, Il nuovo processo del lavoro, Zanichelli, 2015, 17 e ss.; Sandulli, Socci, Il processo del lavoro, cit., 115 e ss. Cass., Sez. Un., 20 gennaio 2017, n. 1545, in GI, 2017, 5, 1160. 44 Cass., 13 gennaio 2020, n. 345, in CED Cassazione, 2020. 45 Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nonché, in sede di giurisdizione esclusiva, le controversie relative ai rapporti di lavoro di cui all’articolo 3 del d.lgs. n. 165/2001, ivi comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi. Si tratta dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili, degli avvocati e procuratori dello Stato, del personale militare e delle Forze di polizia di Stato, personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia, dei dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall’art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691 (tutela del risparmio, esercizio della funzione creditizia e materia valutaria), e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281 e successive modificazioni ed integrazioni (borsa, mercato dei valori mobiliari e tutela del risparmio), e 10 ottobre 1990, n. 287 (tutela della concorrenza e del mercato), del personale, anche di livello dirigenziale, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, esclusi il personale volontario e il personale volontario di leva, del personale della carriera dirigenziale penitenziaria, dei professori e dei ricercatori universitari. 43

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n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, e le controversie, promosse da organizzazioni sindacali, dall’ARAN o dalle pubbliche amministrazioni, relative alle procedure di contrattazione collettiva di cui all’articolo 40 e seguenti del citato decreto. Per quanto concerne l’ambito di applicazione relativo alle controversie in materia di previdenza e assistenza, viene in rilievo l’art. 442 c.p.c., il quale rinvia alle disposizioni del processo del lavoro, salvi alcuni adattamenti correlati alla peculiarità del settore46. In assenza di una nozione di assistenza e previdenza, si ritiene che una controversia abbia natura previdenziale laddove sorga fra le parti di un rapporto di previdenza (soggetto tutelato, datore di lavoro ed ente gestore della tutela) e che abbia ad oggetto obblighi contributivi o prestazioni in favore del soggetto tutelato47. Dal punto di vista soggettivo, il mancato riferimento all’art. 409 c.p.c. determina l’estensione del rito anche ai lavoratori autonomi e, secondo parte della dottrina48, a ogni controversia in materia di sicurezza sociale del cittadino non lavoratore. Si deve segnalare anche che l’art. 46, c. 22, l. 18.6.2009, n. 69 ha aggiunto all’art. 442 c.p.c. un terzo comma che sottrae le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali all’applicazione del rito del lavoro, devolute ai sensi del nuovo art. 7, n. 3-bis, alla competenza per materia del giudice di pace49. Il rito del lavoro è esteso, infine, alle controversie in materia di locazione e di comodato di immobili urbani e quelle in materia di affitto di aziende (art. 447-bis, c.p.c.) e, ai sensi degli artt. 6-13, d.lgs. n. 150/2011, ad una serie di controversie, fra le quali si possono rammentare quelle concernenti: l’opposizione ad ordinanza ingiunzione; l’opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada; l’opposizione a sanzione amministrativa in materia di stupefacenti; l’opposizione ai provvedimenti di recupero di aiuti di Stato; l’applicazione delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali; l’impugnazione dei provvedimenti in materia di registro dei protesti; l’opposizione ai provvedimenti in materia di riabilitazione del debitore protestato. Il rito del lavoro, come già accennato, trova applicazione anche per le controversie agrarie, pur appartenendo tali controversie alla competenza delle sezioni specializzate agrarie di cui alla l. 2 marzo 1963 n. 320. Nei casi di estensione sopra indicati, occorre rimarcare che non si applicano tutte le disposizioni del rito del lavoro, giacché il legislatore ha espressamente indicato le disposizioni applicabili ovvero non applicabili, eventualmente introducendo una specifica regolamentazione.

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Relative al procedimento amministrativo (art. 443 c.p.c.), alla competenza (art. 444 c.p.c.), alla consulenza tecnica (art. 445 c.p.c.) e agli istituti di patronato e di assistenza sociale (art. 446 c.p.c.). 47 Cass., Sez. Un., 26 marzo 1982, n. 1884, in GC, 1982, I, 1495. Per una casistica si rinvia a Sgroi, in Amoroso, Di Cerbo, Foglia, Maresca, op. cit., 647 e ss. 48 Mandrioli, Diritto processuale civile, III, Giappichelli, 2006, 254; Verde, Olivieri, Processo del lavoro, in Enc. Dir., 1987, 368. 49 Sul tema si ricorda che l’art. 20, c. 7-9, d. l. 25.6.2008, n. 112, conv. in l. 6.8.2008, n. 133 pone un divieto di frazionamento della domanda avente ad oggetto il capitale e gli interessi e, dunque, le due disposizioni sembrerebbero porsi in contrasto, salvo nel caso in cui l’ente abbia già riconosciuto il capitale ma non gli interessi e gli accessori. In tali termini, si v., Trisorio Liuzzi, Le novità in tema di competenza, litispendenza, continenza e connessione, in Foro it., 2010, V, 254 ss.

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4. Le nullità del ricorso e la sanatoria. Il codice di procedura civile non disciplina, a differenza di quanto disposto per il rito ordinario, il tema della nullità del ricorso. Manca, dunque, una disposizione speculare all’art. 164 c.p.c., relativa alla nullità dell’atto di citazione, che individui le ipotesi di nullità del ricorso e gli eventuali meccanismi di sanatoria delle stesse. La dottrina maggioritaria è propensa a ritenere applicabile in via analogica la citata disposizione prevista per l’atto di citazione50. La nullità del ricorso può derivare da vizi afferenti alla vocatio in ius ovvero ai vizi relativi al petitum ed alla causa petendi. Quanto ai vizi relativi alla vocatio in ius, si ritiene che non sono causa di nullità del ricorso gli elementi individuativi dell’attore, salva l’assoluta impossibilità di individuare il ricorrente stesso51 nonché nel caso di incerta individuazione del convenuto52. Quanto all’erronea indicazione nel ricorso introduttivo dell’ufficio giudiziario adito, anch’essa non è causa di nullità, in quanto il deposito dell’atto nella cancelleria ed il decreto di fissazione dell’udienza di discussione escludono l’incertezza per il convenuto, a cui ricorso e decreto siano notificati, circa il giudice davanti al quale deve comparire, che va identificato necessariamente in quello dinanzi a cui la causa è stata radicata53. L’art. 415 c.p.c., commi 4 e 5, stabilisce l’onere di notificare il ricorso unitamente al decreto di fissazione dell’udienza al convenuto entro dieci giorni dalla data di pronuncia del decreto e che tra la data di notificazione al convenuto e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di trenta giorni. Il termine di dieci giorni per la notificazione del ricorso e del decreto è ritenuto meramente ordinatorio e la sua violazione non comporta alcuna nullità54. Il termine di comparizione di trenta giorni ha invece natura perentoria e determina la nullità dell’atto introduttivo. La nullità stessa è sanata dalla costituzione del convenuto, ma se quest’ultimo la eccepisce il giudice, in applicazione dell’art. 164, 3° comma, deve fissare una nuova udienza nel rispetto dei termini55.

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Balena, La riforma del processo civile di cognizione, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994, 95, nt. 4; Comoglio, Ferri, Taruffo, Lezioni sul processo civile, Il Mulino, 1998, 424; Luiso, Diritto processuale civile, IV, 5ª ed., Giuffré, 2009, 43; Sandulli, Socci, Il processo del lavoro cit., 217 e ss.; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, 5ª ed., Jovene, 2006, 798; Tarzia, op. cit., 109; contra Montesano, Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, 3ª ed., Jovene, 1996, 125; Romano, Nullità degli atti, ricorso introduttivo delle controversie di lavoro e art. 164 c.p.c., in RDP, 2001, 1140 e 1156; Tesoriere, Diritto processuale del lavoro, 4ª ed., Cedam, 2004, 195, che esclude l’applicabilità dell’art. 164 c.p.c. per i soli vizi dell’editio actionis. 51 Cass., 4 giugno 2008, n. 14789, in MGI, 2008; Cass., Sez. III, 16 novembre 2007, n. 23816, in MGI, 2007. 52 Trib. Torino, 18 febbraio 2005, in GPiem, 2006, 1, 103, secondo cui “Alla stregua di quanto disposto dall’art. 164 c.p.c., commi 1, 2, 3, applicabili anche nel rito del lavoro in quanto compatibili, l’incertezza nell’individuazione del convenuto implica una nullità del ricorso sanabile ‘ex tunc’ quando lo stesso, pur erroneamente identificato, si costituisca difendendosi nel merito, e quindi senza alcun pregiudizio per la sua difesa, e con effettiva instaurazione del contraddittorio nei confronti del soggetto che il ricorrente intendeva evocare in giudizio”. 53 Cass., 26 aprile 2011, n. 9344, in CED Cassazione, 2011. 54 Recentemente Cass., 7 maggio 2015, n. 9222, in CED Cassazione, 2015. 55 Trib. Foggia, 21 marzo 2019, n.1633, in Redazione Giuffrè, 2019.

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In caso di notifica nulla o inesistente del ricorso è ammessa la concessione di un nuovo termine perentorio per la rinnovazione della notifica56, la cui possibilità deve ritenersi esclusa in caso di mancata comparizione di almeno una delle parti, in quanto il giudice può fissare altra udienza per il prosieguo del giudizio solo su impulso della parte, non potendo provvedervi d’ufficio57. Senonché, il tema potrebbe essere oggetto di una diversa interpretazione alla luce della sentenza delle Sezioni Unite del 200858 relativa all’omessa notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell’udienza in appello giacché il principio in essa contenuto dovrebbe essere applicabile anche ai giudizi in primo grado59. Nel rito del lavoro, l’appello, pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è infatti improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell’udienza non sia affatto avvenuta, non essendo consentito al giudice – alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della cosiddetta ragionevole durata del processo ex art. 111, comma 2, Cost. – di assegnare, ex art. 421 c.p.c., all’appellante un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell’art. 291 c.p.c. Con riferimento alla editio actionis e, in particolare, all’individuazione dell’oggetto della domanda o delle ragioni, di fatto e di diritto, l’assenza di uno di tali elementi nel ricorso ne determina la nullità solo allorquando non sia assolutamente possibile la loro individuazione, attraverso l’esame complessivo dell’atto. Ciò per due ordini di ragioni: in primo luogo, perché il convenuto non è messo in grado di predisporre le necessarie difese e, in secondo luogo, perché il giudice non è posto in condizione di conoscere l’esatto oggetto del giudizio ai fini dell’esercizio dei suoi poteri di indagine e di decisione60. La nullità, come si è detto, si ritiene possa essere sanata facendo applicazione dell’art. 164, c. 5, c.p.c. Per la Cassazione61, in caso di nullità derivante dalla mancanza o assoluta incertezza dell’oggetto o dall’omessa specificazione degli elementi posti a fondamento della domanda, il giudice dovrà rilevare il vizio, anche quando il convenuto si sia costituito, e fissare un termine perentorio per la rinnovazione del ricorso oppure, in caso di costituzione, per integrare il ricorso. Corollario di tali principi è che la mancata fissazione di un termine perentorio da parte del giudice, per la rinnovazione del ricorso o per l’integrazione della domanda, e la non tempestiva eccezione di nullità da parte del convenuto, ex art. 157 c.p.c., del vizio dell’at-

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Cass., 27 gennaio 2015, n. 1483, in GCM, 2015; App. Milano, 1° agosto 2019, n. 1295, in Redazione Giuffrè, 2019. Trib. Bari, 10 dicembre 2018, n. 4483, in Redazione Giuffrè, 2019; Trib. Treviso, 7 marzo 2018, n.123; in Redazione Giuffrè, 2018; Trib. Roma, 2 maggio 2013, n. 5986, in Redazione Giuffrè, 2013. 58 Cass., Sez. Un., 30 luglio 2008, n. 20604, in GCM, 2008, 7-8, 1228. 59 V., in dottrina, Franza, cit., 91; in giurisprudenza, Cass., 29 marzo 2018, n. 7833, in GCM, 2018 che, pur riguardando l’applicazione dei principi a tutela dell’effettività dei mezzi di azione e difesa in materia di “prospective overruling”, interveniva in relazione ad un giudizio in cui si era fatta applicazione del principio dettato dalle Sezioni Unite in primo grado, essendosi verificata l’omessa notifica del ricorso di opposizione a cartella esattoriale e del decreto di fissazione di udienza. 60 Cass., 17 luglio 2018, n. 19009, in GCM, 2018; Cass., 18 settembre 2015, n. 18429, in D&G, 2015, 18 settembre. 61 Cass., 14 febbraio 2020, n. 3816, in Redazione Giuffrè, 2020; Cass., Sez. Un., 17 giugno 2004, n. 11353, in Mass. giur. it., 2004. 57

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to, attestano l’avvenuta sanatoria della nullità del ricorso, in ragione del raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156, comma 2, c.p.c. La sanatoria avrà efficacia ex nunc e, dunque, gli effetti sostanziali e processuali decorreranno dal momento in cui, mediante l’atto di rinnovazione o di integrazione, si acquisirà al processo l’individuazione del diritto fatto valere62. La sanatoria del ricorso non vale, così, a rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati né specificati in ricorso, con effetto sull’onere della prova, in quanto la decadenza sarà già intervenuta ai sensi dell’art. 414, n. 5, c.p.c.63. L’applicazione estensiva di quanto previsto dall’art. 164 cod. proc. civ., ammessa dalla giurisprudenza della Cassazione, trova una certa resistenza nella giurisprudenza di merito, che muove dalle particolari preclusioni assertive e probatorie proprie del rito del lavoro e dalla considerazione che un eventuale rigetto nel merito a seguito di integrazione della domanda è certamente sfavorevole per il lavoratore rispetto ad una pronuncia in rito64. Con riferimento al ricorso in appello, l’art. 434 c.p.c. richiama, in primo luogo, le indicazioni prescritte dall’art. 414 c.p.c. relative al ricorso in primo grado. Sono, poi, indicati specifici requisiti di forma-contenuto dell’atto, richiesti a pena di inammissibilità, speculari all’art. 342 c.p.c. per il rito ordinario, cosicché non sussistono, sotto tale aspetto, peculiarità del rito. Quanto alle indicazioni previste dall’art. 414 c.p.c., rispetto alla generalità delle parti, si è ritenuto che nel giudizio di appello l’indicazione degli appellati possa avvenire “per relationem”, con riferimento ai soggetti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, non sussistendo il rischio di incertezza sui soggetti evocati in giudizio. Con riferimento al giudice di appello, il regolare deposito dell’atto in cancelleria, consentendo l’identificazione del giudice adito, varrebbe a sanare l’eventuale vizio correlato alla sua individuazione65. Si è rilevato, in ogni caso, che la nullità per tali vizi dovrebbe ritenersi sanata sempre in caso di costituzione dell’appellato e, in applicazione dell’art. 164, c. 2, c.p.c., a mezzo della rinnovazione dell’atto di appello nel termine perentorio fissato dal giudice66 Ai sensi dell’art. 435 c.p.c., commi 2 e 3, l’appellante è onerato di notificare il ricorso e il decreto nei dieci giorni successivi al deposito del decreto e, tra la data di notificazione all’appellato e quella dell’udienza di discussione, deve intercorrere un termine non minore di venticinque giorni.

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Vullo, op. cit., 161. Cass., 14 febbraio 2020, n. 3816, cit.: Cass., 23 dicembre 2004, n. 23929, in Giust. civ. Mass. 2005, 1. Per Franza, Il ricorso, in Il diritto processuale del lavoro, a cura di Vallebona, cit., 61, sarebbe in realtà più conveniente per l’attore non procedere con l’integrazione o la rinnovazione, poiché così facendo si giungerebbe all’estinzione del processo o ad una pronuncia di nullità o in rito, comunque non impeditiva di una domanda, a fronte, nell’ipotesi contraria, dell’impossibilità di articolare mezzi di prova sui fatti dedotti con l’integrazione o la rinnovazione e, dunque, dell’evidente rischio di vedersi rigettata nel merito la domanda. 64 Così, Trib. Rieti, 13 settembre 2018, n. 155, in LG, 2018, 12, 1180 e, in termini simili, Trib. Bergamo, 1° giugno 2006, in LG, 2007, 391 e Trib. Bari, 4 febbraio 2008, n. 18230 in Giurisprudenzabarese.it, 2008. 65 Dell’Olio, La tutela dei diritti nel processo del lavoro, Giappichelli, 2006, 222. 66 Sandulli, Socci, op. cit., 408-409. 63

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Il processo del lavoro: peculiarità e differenze rispetto al rito ordinario

Il termine di dieci giorni è, sulla falsariga di quanto ritenuto in relazione all’art. 415 c.p.c., non perentorio e non comportante alcuna decadenza.67 Quanto al termine a comparire non minore di venticinque giorni, secondo un consolidato indirizzo, la sua violazione comporta la nullità della vocatio in ius. La nullità è sanabile retroattivamente, anche in virtù dell’art. 164, c. 1, c.p.c. sia mediante la costituzione dell’appellato che mediante la concessione di un nuovo termine per il rinnovo della notifica disposta dal giudice ex art. 291 c.p.c.68 sebbene sussistano su tale ultima eventualità tendenze di segno opposto69. Diversa, si ricorda, è l’ipotesi di notifica omessa o giuridicamente inesistente che, come prima rilevato, ha portato le Sezioni Unite a ritenere che la rimessione in termini dell’appellante ai sensi dell’art. 291 c.p.c. comporterebbe un ingiustificato allungamento dei tempi del processo del lavoro, incompatibile con il principio di ragionevole durata di cui all’art. 111, c. 2, Cost. con conseguente improcedibilità dell’appello70.

5. I poteri istruttori d’ufficio. La rigidità delle preclusioni, in tema di prova, trova il suo contraltare nell’art. 421, comma 2, c.p.c., il quale riconosce al giudice rilevanti poteri officiosi, potendo disporre l’ammissione di qualsiasi mezzo istruttorio, anche al di fuori dei limiti dettati dal codice civile, salvo il solo giuramento decisorio. Come ricordato dalle Sezioni Unite, “è caratteristica precipua del detto rito speciale il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione”71.

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Cass., 31 maggio 2012, n. 8685, in CED Cassazione, 2012. Tra le più recenti, Cass., sez. VI, 20 maggio 2020, n. 9199, in D&G, 2020, 21 maggio; Cass., sez. VI, 7 febbraio 2020, n. 2903, in D&G, 2020, 10 febbraio. 69 Si v., ad es., App. Roma, 14 ottobre 2019, n. 3439, in Redazione Giuffrè 2019, secondo cui “l’esecuzione della notifica, a cura del difensore e mediante PEC, nel pomeriggio inoltrato del giorno precedente l’udienza fissata per la discussione ex art. 435 c.p.c., e nella piena consapevolezza del vizio dell’attività posta in essere, integra una condotta inidonea a concretizzare il raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento, in virtù dei quali cioè la stessa debba comunque considerarsi eseguita ex lege. Si tratta di una condotta del tutto extra ordinem e non rispondente al fine proprio dell’atto bensì meramente volto, da un lato, ad aggirare la sanzione dell’improcedibilità prevista per l’inerzia colpevole dell’appellante, e, dall’altro, ad ottenere un ordine di rinnovo della notifica ex art. 291 c.p.c. Per di più questa è una condotta tale da inficiare in maniera diretta il diritto di difesa e si pone in contrasto con il principio di lealtà processuale ex art. 88 c.p.c., sicché essa deve considerarsi, sul piano processuale, tamquam non esset”. 70 Cass., Sez. Un., n. 20604/2008, cit., che, in motivazione, afferma altresì che “non è pensabile la rinnovazione di un atto mai compiuto o giuridicamente inesistente, non esistendo una disposizione che consenta al giudice di fissare un termine per la notificazione, mai effettuata, del ricorso e del decreto presidenziale”; tra le più recenti, si v. Cass., 18 luglio 2018, n. 19083, in CED Cassazione, 2018. 71 Cass., Sez. Un., 17 giugno 2004, n. 11353, cit. 68

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Pasqualino Albi

Ciò significa che il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori è correlato alla necessità di superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati tempestivamente e puntualmente allegati nell’atto introduttivo, in modo che l’intervento del giudice sia limitato a riempire le lacune probatorie di un accertamento che, pur se incompleto, presenta tuttavia notevoli gradi di fondatezza72. I poteri d’ufficio, dunque, non possono essere utilizzati per aggirare o superare il principio della domanda e dell’onere di deduzione in giudizio dei fatti costitutivi, impeditivi o estintivi del diritto controverso né possono muovere dal sapere privato da parte del giudice73. Più discusso è, invece, l’utilizzo dei poteri officiosi in presenza di preclusioni o decadenze delle parti. Sul punto può individuarsi una tendenza restrittiva secondo cui non è consentito l’esercizio del potere istruttorio a fronte della decadenza delle parti. A questa tendenza se ne contrappone una meno rigida che non ritiene le preclusioni e decadenze maturate di ostacolo all’utilizzo di tali poteri: sembra tuttavia comune a entrambe le tendenze la convinzione che l’esercizio dei poteri officiosi non può tradursi in una sanatoria radicale delle decadenze in cui siano incorse le parti74. Invero è presente un orientamento intermedio secondo cui il giudice può utilizzare i propri poteri d’ufficio solo allorquando sia necessario superare i dubbi emergenti a seguito dell’assunzione delle prove indicate dalle parti, anche dopo che le preclusioni o le decadenze siano maturate75. Seguendo quest’ultima impostazione può affermarsi che il giudice ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi addotti dalle parti e decisivi per la definizione della lite76. Quanto agli specifici poteri previsti dall’art. 420 c.p.c., viene in primo luogo in rilievo la possibilità di deroga ai limiti dettati dal codice civile per la prova testimoniale.

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Cass., 7 luglio 2017, n. 16835, Massima redazionale, in Leggiditalia.it. Cass., 6 giugno 2000, n. 9034, in RGL, 2001, II, 637; Cass., 4 aprile 2017, n. 8752, Massima redazionale, in Leggiditalia.it. 74 In giurisprudenza, l’interpretazione restrittiva era seguita nelle decisioni più risalenti: Cass., 13 aprile 1987, n. 3681, in GC, 1988, I, 229; Cass., 13 maggio 1987, n. 4402, in MFI, 1987; nella giurisprudenza più recente della Cassazione sembra prevalere una interpretazione estensiva nel senso sopra inteso: Cass., 10 luglio 2013, n. 17122, in D&G, 11 luglio 2013; Cass., 5 novembre 2012, n. 18924, in MFI, 2112, 750; Cass., 13 luglio 2009, n. 16337, in MGI, 2009. 75 Recentemente, Cass., 11 marzo 2011, n. 5878, in LG, 2011, 5, 517, ha rilevato come l’esercizio dei poteri officiosi da parte del giudice richieda la sussistenza di alcune condizioni quali, in particolare l’insussistenza di una inerzia colpevole delle parti e l’indispensabilità dell’iniziativa officiosa che non sia finalizzata ad ovviare a decadenze, ma sia funzionale a colmare lacune delle risultanze di causa. In tal modo, il giudice non si sostituisce alla parte, ma si limita a riempire le lacune probatorie di un accertamento che, pur se incompleto, presenta tuttavia notevoli gradi di fondatezza; v. Cass., 7 luglio 2017, n. 16835, cit.; Cass., 26 marzo 2019, n. 8381, in Lav. giur., 2019, 6, 619, secondo cui è necessaria la preesistenza di altri mezzi istruttori, ritualmente acquisiti, che siano meritevoli dell’integrazione affidata alle prove ufficiose. Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Bologna, 6 giugno 2017 n. 522, in Redazione Giuffrè, 2017, secondo cui quindi il potere d’ufficio del giudice non può tradursi in una pura e semplice rimessione in termini del convenuto, ed in una sanatoria della decadenza radicale in cui è incorso il convenuto medesimo, in totale assenza di elementi quantomeno indiziari, che consentano al Giudice un’attività di integrazione degli elementi probatori già ritualmente acquisiti. 76 Cass., 14 agosto 2019, n. 21410, in GCM, 2019. 73

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Il processo del lavoro: peculiarità e differenze rispetto al rito ordinario

Si tratta della possibilità di superare quanto disposto dagli artt. 2721, 2722, 2723 c.c., nonché dall’art. 1417 c.c., in relazione alla simulazione77, restando fermi, invece, i limiti relativi alla confessione ed al giuramento (artt. 2731 e 2737-2739 c.c.) e ai casi in cui per il contratto sia prevista la forma scritta ad probationem o ad substantiam. Rispetto, invece, al potere di chiedere informazioni alle associazioni sindacali, deve rimarcarsi che queste non hanno valore probatorio autonomo, ma valgono come chiarimenti e come elementi di valutazione dei dati di fatto già acquisiti al giudizio, unitamente ai quali sono complessivamente valutabili78. Circa il potere di disporre l’accesso sul luogo di lavoro, questo è condizionato all’istanza di parte. Si è affermato che per l’accesso si debba comunque procedere secondo le norme degli artt. 258 ss. c.c.79. La disposizione prevede che il giudice possa disporre, se ne ravvisa l’utilità, l’esame dei testimoni sul luogo stesso (art. 421, 3° comma), nonché che le informazioni e osservazioni delle associazioni sindacali (richieste dalla parte o d’ufficio) siano rese nel luogo di lavoro (art. 425, 2° comma). Si è ritenuto, sul punto, che il giudice possa spingersi anche ad assumere informazioni da persone presentate dalle parti o trovate sul posto, anche se non sentite come testimoni formali80. Circa l’interrogatorio libero delle persone incapaci a testimoniare di cui all’art. 421, ultimo comma, c.p.c., con la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 24781, permane solo la possibilità di farvi ricorso in relazione all’art. 246 c.p.c. secondo cui sono incapaci a testimoniare le persone aventi un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio. Le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio libero hanno, secondo la dottrina maggioritaria, valore di argomento di prova82, mentre è dubbio se l’ammissione debba esservi solo se indispensabile ovvero se sia sufficiente che l’assunzione sia ritenuta necessaria e, dunque, rilevante83. Quanto all’ambito di applicazione del citato art. 421 c.p.c., occorre rimarcare che l’art. 447-bis c.p.c. ne esclude l’applicazione al “rito locatizio” – richiamando solo il primo comma della disposizione, relativa alla rilevazione, da parte del giudice, delle irregolarità degli atti e dei documenti – poiché, al comma 3, disciplina espressamente i poteri istruttori del giudice. Con riferimento, invece, alle controversie di cui al d.lgs. n. 150/2011, l’art. 2, contenente disposizioni comuni a tutte le controversie indicate nel titolo II del decreto legislativo in

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Cass., 15 aprile 2009, n. 8928, in LG, 2009, 7, 735. Cass., 15 febbraio 2005, n. 3004, in GDir., 2005, 15, 88. Cass., 23 luglio 1994, n. 6845, in MGI, 1994. 79 Tarzia, op. cit., 179, cui si rinvia anche per un’analisi completa di analogie e differenze tra i due istituti. 80 Tesoriere, Diritto processuale, cit., 225; v. anche Tedoldi, Appunti sul processo del lavoro, in GI, 2002, 1552. 81 C. Cost., 23 luglio 1974 n. 248 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’intero art. 247 c.p.c. che prevedeva il divieto di testimoniare per il coniuge ancorché separato, per i parenti o affini in linea retta e per coloro che sono legati ad una delle parti da vincoli di affiliazione, 82 Luiso, Il processo, cit., 205; Tarzia, op. cit., 184; contra Fabbrini, Diritto processuale, cit., 155, che ritiene debbano essere equiparate alle risposte dei testimoni. 83 Nel senso della indispensabilità, Cass., 8 aprile 1994, n. 3302, in MGI, 1994. 78

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Pasqualino Albi

parola, prevede la non applicazione dell’art. 421, terzo comma, c.p.c. (relativo all’accesso sul luogo di lavoro) salvo che sia espressamente richiamato (comma 1) e che i poteri istruttori previsti dall’articolo 421, secondo comma, c.p.c. non vengono esercitati al di fuori dei limiti previsti dal codice civile, sempre salvo che sia diversamente disposto.

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Michele Squeglia

A piccoli passi verso una previdenza (complementare) contrattuale collettiva e individuale: la soluzione eurounitaria del “Pan European Personal Pension Product” (PEPP) Sommario : 1. Considerazioni preliminari sul primo prodotto pensionistico individuale paneuropeo (PEPP). – 2. L’opzione PEPP per gli enti pensionistici aziendali o professionali (EPAP). – 2.1. L’obbligo della separatezza delle attività e delle passività nella gestione del PEPP. – 2.2. L’obbligo del ricorso alla convenzione nel caso della copertura dei rischi biometrici. – 2.3 L’obbligo di fornire le garanzie finanziarie previa cooperazione con imprese di assicurazioni o con enti creditizi. – 2.4. L’obbligo della presenza di uno (o più) soggetto(i) depositario(i). – 3. Spunti conclusivi.

Sinossi. Il contributo, partendo dalla previsione contenuta nel Regolamento UE 2019/1238 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, che consente agli enti pensionistici aziendali o professionali (EPAP), di fornire (e di distribuire) il primo prodotto pensionistico paneuropeo (con l’acronimo “PEPP”), si interroga sulla possibile concretizzazione nell’ordinamento previdenziale domestico di una previdenza (complementare) contrattuale non più solo ed esclusivamente collettiva, bensì anche individuale. Abstract. The contribution, starting from the provision contained in the EU Regulation 2019/1238 of the European Parliament and of the Council of 20 June 2019, which allows institutions for occupational retirement provision (IORPs) to provide (and distribute) the first pan-European pension product (with the acronym “PEPP”), raises the question of the possible concretization in the domestic pension system of a contractual (supplementary) retirement provision no longer only and exclusively collective, but also individual.


Michele Squeglia

Parole chiave: Fondi pensione negoziali – Previdenza contrattuale – Enti pensionistici aziendali o professionali – IORPs – Pan European Personal Pension Product – PEPP

1. Considerazioni preliminari sul primo prodotto

pensionistico individuale paneuropeo.

Il processo di comunitarizzazione della previdenza complementare sta per compiere un ulteriore e non irrilevante passo avanti con l’introduzione del primo prodotto pensionistico individuale paneuropeo, denominato “Pan European Personal Pension Product” (PEPP), per il tramite del Regolamento UE 2019/1238 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 25 luglio 20191. In altre sedi2 si è provato a valutarne l’impatto sia a livello interno, sia a livello comunitario, nei rapporti con altri strumenti previdenziali, nonché nel mutamento che esso potrà produrre sugli indirizzi interpretativi della Corte di giustizia europea. Proprio su quest’ultimo profilo e solo per esemplificare, si può pensare alla nuova linfa che l’interpretazione dei giudici della Corte riceverà dai principi introdotti dal Regolamento nella previdenza complementare individuale, ma anche di altre fonti comunitarie (gli atti cd. delegati) in aggiunta ai criteri ermeneutici della fonte regolamentare. È il caso del principio di non discriminazione o delle libertà di circolazione e della libera prestazione dei servizi3. In questo contributo ci si vuole soffermare su quella che resta almeno nel

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La proposta di Regolamento è stata ufficialmente presentata nel giugno 2017 dalla Commissione Europea: essa è stata approvata il 4 aprile 2019 dal Consiglio – a maggioranza qualificata – e dal Parlamento europeo. La pubblicazione del Regolamento, che si compone di 74 articoli e di 90 Considerando, è avvenuta nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea n. 198/1 del 25 luglio 2019. Al Regolamento seguirà una regolamentazione secondaria europea (gli atti cd. delegati), entro dodici mesi dall’entrata in vigore del Regolamento (15 agosto 2020), avente ad oggetto: a) il contenuto del PEPP KID (art. 28); b) la revisione del PEPP KID (art. 30); c) l’obbligo di fornitura del PEPP KID (art. 33); d) il prospetto delle prestazioni del PEPP (art. 36); e) le informazioni aggiuntive delle prestazioni del PEPP (art. 37); f) le segnalazioni alle autorità nazionali (art. 40); g) il PEPP di base (art. 45); h) le tecniche di attenuazione del rischio (art. 46); i) la cooperazione delle autorità nazionali (art. 66). L’intero regolamento troverà applicazione dodici mesi dopo la pubblicazione degli atti delegati nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (presumibilmente nel mese di luglio 2021). Sia consentito rinviare a Squeglia, Riflessioni critiche sul “Pan-European Personal Pension product” (PEPP): perché (non) dobbiamo temere il primo prodotto pensionistico individuale paneuropeo. Parte I, in RDSS, 3, 2020 in corso di pubblicazione e dello stesso Autore, Riflessioni critiche sul “Pan-European Personal Pension product” (PEPP): perché (non) dobbiamo temere il primo prodotto pensionistico individuale paneuropeo. Parte II, in RDSS, 4, 2020, in corso di pubblicazione. È noto che la circolazione dei cittadini comunitari all’interno del territorio dell’Unione risulta fortemente compromessa in ragione delle inevitabili divergenze che caratterizzano le legislazioni interne dei diversi Stati membri; e questo sia in relazione alla libertà di circolazione (quando il soggetto che si trasferisce all’estero non usufruisce di tutte le condizioni per aderire ad una forma pensionistica complementare individuale) sia al diritto di stabilimento a seguito del verificarsi dell’evento che dà diritto alla prestazione previdenziale (allorché quest’ultima sia penalizzata sul piano normativo dalla nuova residenza del soggetto). Il coordinamento a livello comunitario dei regimi previdenziali non è inoltre privo di effetti anche sui movimenti di capitale poiché da un lato, il risparmio previdenziale rappresenta anch’esso un capitale meritevole di libero trasferimento e, dall’altro, poiché un migliore regime pensionistico transfrontaliero consente «gli enti pensionistici, in qualità di investitori, di fornire in modo più efficiente capitali alle imprese» (Cfr. la Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo e al Comitato Economico e Sociale (COM 2001-214def del 19 aprile 200). Per i profili tributari si v. Melis, Libertà di circolazione dei lavoratori, libertà di stabilimento e principio di non discriminazione nell’imposizione diretta: note sistematiche sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Rass. Trib., 2000, 1161; Puri, Il lavoratore transfrontaliero e la

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A piccoli passi verso una previdenza (complementare) contrattuale collettiva e individuale

nostro ordinamento la novità più rilevante vale a dire, la previsione introdotta nell’art. 6, paragrafo 1, lett. c), del Regolamento comunitario di consentire la fornitura e la distribuzione di prodotti pensionistici individuali agli enti pensionistici aziendali o professionali (con l’acronimo EPAP o IORPs), autorizzati o registrati ai sensi della Dir. 2016/2341/UE del 16 dicembre 2016 (IORP II). Si intende, in questa sede, discutere delle possibili opzioni che si presenteranno al legislatore domestico in sede di recepimento del primo prodotto pensionistico paneuropeo e, per questa via, — proprio in funzione della comprensione dell’istituto e dell’interpretazione della futura disciplina — tentare di cogliere il senso della scelta di coinvolgere la previdenza complementare di fonte contrattuale. Si che taluno sarà indotto a preconizzare della previdenza occupazionale l’inesorabile declino, piegata alla logica della previdenza commerciale nonché preda dei mercati finanziari. Sul piano delle conseguenze, anche in considerazione delle nuove regole comunitarie di irrobustimento del modello di corporate governance dei fondi pensione negoziali4, ove una tale possibilità fosse colta condurrebbe ad una interpretazione evolutiva della “previdenza contrattuale” nella copertura integrata degli strumenti previdenziali5. Intanto, questo “dinamismo normativo comunitario” può produrre frutti concreti perché in parallelo si assiste ad un sostanziale immobilismo del legislatore nazionale. E ciò nonostante che il debito pensionistico pubblico non accenni a diminuire, il processo di invecchiamento della popolazione sia in costante aumento nei decenni a venire con una età media destinata a crescere dagli attuali 45 anni a oltre 50 nel 2065 e l’andamento dei mercati finanziari, messi a dura prova dalla vicenda epidemiologica del Covid-19, che ha abbattuto ricavi e utili aziendali, lasciando profonde ferite sulle Borse mondiali6.

2. L’opzione PEPP per gli enti pensionistici aziendali o professionali (EPAP).

L’art. 6, paragrafo 1, del Regolamento stabilisce che la registrazione di un “Pan European Personal Pension Product” (PEPP), può essere richiesta: a) dagli enti creditizi autorizzati ai sensi della Dir. 2013/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, b) dalle imprese di assicurazione autorizzate ai sensi della Dir. 2009/138/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, operanti nel ramo assicurazione diretta vita ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 3, della Dir. 2009/138/CE e dell’allegato II di tale direttiva; c) dagli enti pensionistici azien-

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previdenza complementare, in Aa.Vv., La mobilità transnazionale del lavoratore dipendente: profili tributari, Cedam, 2006. Si tratta della citata Dir. 2016/2341/UE del 16 dicembre 2016 (IORP II). Sulla costruzione di una base progettuale che ha una genesi comune, l’autonomia negoziale (neppure necessariamente collettiva), che ricompone la frammentazione del sistema tradizionalmente accolto dal legislatore, si v. Squeglia, La «previdenza contrattuale». Un modello di nuova generazione per la tutela dei bisogni previdenziali socialmente rilevanti, Giappichelli, 122. Secondo quanto comunicato dal Presidente della COVIP nell’Audizione conoscitiva sulle conseguenze dell’epidemia da Covid-19 presso la Commissione Lavoro Pubblico e Privato e Previdenza Sociale del Senato, a causa dell’andamento negativo dei mercati finanziari: i fondi pensione negoziali hanno informato gli iscritti degli effetti dell’emergenza epidemiologica sull’andamento della gestione, mediante il proprio sito istituzionale, spesso attraverso le newsletter e comunicati ad hoc.

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Michele Squeglia

dali o professionali (EPAP) autorizzati o registrati ai sensi della Dir. (UE) 2016/2341 che, conformemente al diritto nazionale, sono autorizzati a fornire anche prodotti pensionistici individuali e sono soggetti a vigilanza; d) le imprese di investimento autorizzate ai sensi della Dir. 2014/65/UE che prestano un servizio di gestione del portafoglio; e) dalle imprese di investimento o le società di gestione autorizzate ai sensi della Dir. 2009/65/CE; f) dai gestori di fondi di investimento alternativi dell’UE (GEFIA UE) autorizzati ai sensi della Dir. 2011/61/UE. Prima di scendere nel dettaglio del tema di nostro interesse, una constatazione preliminare si impone a fronte della lettura dell’art. 6 della fonte regolamentare. Se l’obiettivo del legislatore eurounitario era quello di non compiere alcuna preferenza tra i fornitori, ma di favorire la massima competizione e concorrenza tra i provider con ricadute positive in termini di contenimento dei costi e delle commissioni applicabili7, l’obiettivo può dirsi solo in parte raggiunto. In effetti, la concorrenza costituisce un fattore di sviluppo e concretizza il primo presidio della tutela del risparmiatore, il quale beneficia di una pluralità di offerte contrattuali perché il mercato sarebbe composto da una pluralità di soggetti disposti a offrire il PEPP in competizione fra loro. Ciò consente una scelta soggettivamente più conveniente, ma a condizione che le offerte presenti sul mercato siano “libere” – non siano né frutto di intese né condizionate da elementi di fatto che ne standardizzerebbero il contenuto – ed “omogenee” – in grado di essere comparate tra loro. Sennonché la fonte comunitaria non scioglie né l’uno né l’altro nodo: da un lato, perché non interviene su quello che è l’elemento di sicura criticità rappresentato dagli assetti di governance: l’ampia diffusione di legami azionari (non escludendosi anche quelli personali) fra fornitori concorrenti sono elementi che possono ostacolare l’instaurarsi di una reale concorrenza nei mercati dei servizi finali; dall’altro lato, perché individua soggetti eterogenei sottoposti a requisiti patrimoniali molto differenti tra loro senza individuare, tranne il caso degli EPAP, apposite tutele a favore dei risparmiatori del PEPP. Basti riflettere che, nei piani pensionistici individuali, in genere privi di soggettività giuridica, una deroga all’obbligo di distinguere patrimonialmente le risorse e i valori che afferiscono allo schema pensionistico individuale si tradurrebbe nella possibile esigibilità delle somme nei confronti di eventuali creditori del fornitore del prodotto pensionistico paneuropeo. Ebbene alla stregua di tali constatazioni, è apprezzabile che il legislatore eurounitario, nell’ammettere alla fornitura e alla distribuzione del PEPP gli EPAP, autorizzati dalla legislazione nazionale dello Stato membro ad operare nel settore della previdenza complementare individuale dalla propria autorità di vigilanza, imponga l’osservanza di specifiche regole di garanzia, di protezione e di trasparenza nei confronti dei propri iscritti nel quadro delle nuove previsioni di governance introdotte dalla Dir. 2016/2341/UE del 16 dicembre 2016 (IORP II) e recepite in Italia dal d.lgs. 18 dicembre 2018, n. 147.

7

Cesari, La nuova previdenza integrativa e la sfida dei Pan-European Personal Pension products, in Atti Convegno A.N.I.A., La nuova previdenza integrativa e la sfida dei PEPP, Milano 19 settembre 2018, su https://www.ivass.it/media/interviste/documenti/ interventi/2018, 5.

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A piccoli passi verso una previdenza (complementare) contrattuale collettiva e individuale

In particolare, si chiede all’EPAP di separare le attività e le passività corrispondenti alla gestione dei PEPP rispetto al patrimonio della forma pensionistica aziendale o professionale (seconda parte della lett. c) dell’art. 6); di prevedere nella copertura dei rischi biometrici la sottoscrizione di una apposita convenzione con imprese di assicurazione (art. 49, paragrafo 3); di offrire garanzie solo cooperando con enti creditizi o imprese di assicurazione che possono fornire tali garanzie conformemente al diritto settoriale ad essi applicabile (art. 42, paragrafo 5); e, infine, di nominare uno o più depositari con compiti di custodia delle attività corrispondenti all’attività di fornitura (art. 48, paragrafo 1). Non vi è dubbio, allora, che un unico motivo ispiratore dovrà guidare gli EPAP nel loro apprezzamento. Questo motivo è da ravvisare in ciò: che essi intendano ampliare il proprio campo di applicazione soggettivo, candidandosi a soggetto previdenziale “universale”, piuttosto che elettivamente occupazionale, proponendosi di rispondere ai bisogni previdenziali di soggetti non appartenenti al mondo del lavoro per i quali, nel nostro ordinamento, è possibile la sola adesione alle forme pensionistiche individuali disciplinate dall’art. 13, d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (precisamente i contratti di assicurazione sulla vita) e, in forza del rinvio contenuto nel comma 10 del medesimo art. 13, ai fondi pensione aperti su base individuale. Vale la pena evidenziare che ciò vale soprattutto in quei paesi membri, compreso il nostro, nei quali gli EPAP sono autorizzati a esercitare unicamente attività inerenti alle pensioni aziendali o professionali, differentemente da altri Stati membri nei quali essi sono autorizzati a svolgere anche attività inerenti alla previdenza individuale8. Intanto però merita di essere condivisa la scelta operata dal legislatore eurounitario. Perché se la flessibilità organizzativa nella gestione delle risorse umane ha condotto ad una indubbia proliferazione di tipologie contrattuali (collaborazioni etero-organizzate, collaborazioni coordinate e continuative, lavoro autonomo tout court, ecc.) caratterizzate da retribuzioni e compensi alle soglie del minimo vitale con evidenti ripercussioni sul piano contributivo tanto da rilanciare il tema della insufficiente copertura previdenziale obbligatoria9, l’introduzione del PEPP offre una concreta possibilità di aggregazione con altri soggetti in analoga situazione. La previsione comunitaria delinea così un segmento ulteriore della previdenza contrattuale nella traiettoria che va nella direzione della copertura integrata degli strumenti previdenziali – di cui concorre a (ri)definire il rilievo sistematico – ed inverte il senso della regola secondo cui la previdenza professionale (o occupazionale) non può presentarsi anche di tipo universale e generale in ambito nazionale e nella dimensione eurounitaria10.

8

Constatazione che è puntualmente rammentata nel Considerando ventisette del Reg. 2019/1238 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019. 9 Per questi profili problematici nel caso di rapporti di lavoro discontinui al tempo della flessibilità, sia consentito rinviare a Squeglia, Il regime finanziario della capitalizzazione nella previdenza complementare: un sistema “perfetto” per le generazioni future?, in DRI, 1, 2019, 81. 10 Per l’esercizio della libera prestazione dei servizi da parte degli EPAP nel territorio di un paese ospitante si v. l’art. 15 del Regolamento comunitario.

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Michele Squeglia

2.1.

L’obbligo della separatezza delle attività e delle passività nella gestione del PEPP.

Si tratta del primo obbligo che il Regolamento comunitario impone agli EPAP ai fini dell’autorizzazione e alla distribuzione del PEPP. In attesa delle norme tecniche di attuazione, si può ritenere che la formula si traduca nell’obbligo di tutelare il risparmiatore (tale è la definizione assunta dal regolamento comunitario)11 in caso di distrazione d’uso delle risorse accantonate a bilancio a copertura degli impegni previdenziali e a garanzia dell’inesigibilità nei confronti di eventuali creditori del soggetto titolare della forma pensionistica. D’altra parte, nel Considerando 27 del Regolamento comunitario si precisa che «per salvaguardare ulteriormente la stabilità finanziaria, tutte le attività e passività corrispondenti all’attività di fornitura di PEPP dovrebbero essere separate senza la possibilità di trasferirle ad altre attività nel settore delle pensioni dell’ente». Dunque, rilevante è il piano dell’individuazione della fattispecie sottesa alla destinazione patrimoniale e poi delle regole chiamate a governare l’effetto della separazione; problema che riguarda prima di tutto l’interprete intento a ricostruire la disciplina che trova applicazione al patrimonio separato. È sufficiente, pertanto, soffermarsi alla constatazione che di patrimonio separato (o autonomo) si parla «tutte le volte in cui la legge considera un determinato nucleo patrimoniale come oggetto di una disciplina giuridica particolare» e, segnatamente, si registra una deviazione (non necessariamente omogenea) dal principio generale della responsabilità patrimoniale. In altri termini, ciò significa la creazione di “classi creditorie” distinte in capo al medesimo soggetto, atteso che «autonomia e separazione significano non solo e non tanto destinazione, in qualche modo giuridicamente rilevante, di un complesso di beni e rapporti ad un certo impiego, ma significano distinta imputazione dei rapporti giuridici e vincolo del patrimonio ad una specifica funzione di garanzia, cioè alla sola garanzia delle obbligazioni nate dalla sua gestione in quell’impiego12. Quello della separazione patrimoniale è un tema da ponderare meticolosamente dagli ordinamenti degli Stati membri, e non è causale che sia enfatizzato dal legislatore eurounitario, perché è proprio dalla sua regolazione che è in gioco il ruolo delle forme pensionistiche negoziali a soddisfare i bisogni del risparmiatore alle proprie esigenze di vecchiaia con mezzi che necessariamente richiedono una tutela tanto peculiare quanto rafforzata13.

11

L’espressione «risparmiatore» (e non, ad esempio, contraente) rende bene l’idea di un soggetto che accantona parte del proprio reddito per una finalità di specie: d’altra parte il “risparmio previdenziale” anche se riferito ad una forma individuale può essere agevolato, incentivato e tutelato proprio perché non afferisce a quella parte di parte di reddito non consumato che è utilizzata per investimento. Sul punto v. Squeglia, Riflessioni critiche sul “Pan-European Personal Pension product” (PEPP): perché (non) dobbiamo temere il primo prodotto pensionistico individuale paneuropeo. Parte I, cit. 12 Oppo, Sulla «autonomia» delle sezioni di credito speciale, in Banca, borsa, tit. cred., 1979, I, 1 ss., ed ora in Id., Banca e Titoli di credito. Scritti giuridici, vol. IV, Cedam, 1992, 26. 13 Non vi è dubbio che il dibattito sulla specializzazione della responsabilità patrimoniale abbia subìto una profonda influenza a séguito della ratifica in Italia della legge 16 ottobre 1989, n. 364 della Convenzione de L’Aja del 10 luglio 1985 in materia di legge applicabile ai trusts e al loro riconoscimento: in effetti, molti dei risultati che si conseguono nel nostro sistema domestico

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Ebbene, con specifico riferimento alle forme pensionistiche individuali dell’ordinamento domestico, l’art. 13, comma 3, d.lgs. n. 252/2005 sancisce che le risorse delle forme pensionistiche complementari individuali costituiscono patrimonio separato e autonomo ai sensi degli artt. 2117, c.c.: si ha dunque la costituzione di un patrimonio interno con vincolo di destinazione. Ciò significa che in esse il soggetto che istituisce la forma pensionistica coincide con l’intermediario che si occupa della gestione del patrimonio. La previsione contenuta nell’art. 13, comma 3, d.lgs. n. 252/2005 è poi ripresa dall’ISVAP (ora IVASS) con il provvedimento n. 2472 del 10 novembre 200614, secondo cui le risorse delle forme pensionistiche complementari individuali attuate mediante contratti di assicurazione sulla vita costituiscono patrimonio separato ed autonomo, con gli effetti di cui all’art. 2117 del codice civile15. Calando il ragionamento sul piano meramente tecnico, l’istituzione di ciascuna forma pensionistica individuale, da attuarsi mediante contratti di assicurazione sulla vita, è approvata con una specifica deliberazione dell’organo di amministrazione che contestualmente riconosce le risorse pertinenti la fase di accumulo quale patrimonio separato ed autonomo non distraibile dal fine previdenziale al quale è destinato. L’organo amministrativo approva i regolamenti delle gestioni interne separate e/o dei fondi interni assicurativi. I verbali delle delibere dell’organo di amministrazione e i regolamenti delle gestioni interne separate (e/o dei fondi interni assicurativi) sono trasmessi all’ISVAP (ora IVASS) entro il termine di quindici giorni dall’adozione della delibera. Peraltro, a tale previsione la COVIP ha imposto una separazione patrimoniale ulteriore, «a cerchi concentrici»16, rispetto a quella contemplata dall’art. 42, comma 2, del d.lgs. 9 settembre 2005, n. 209 (noto come “codice delle assicurazioni private”): gli attivi posti a copertura degli impegni di natura previdenziale del piano individuale pensionistico costituiscono, insieme agli attivi posti a copertura degli impegni di natura previdenziale degli altri piani individuali pensionistici istituiti dall’impresa di assicurazione, patrimonio separato e autonomo rispetto agli altri attivi dell’impresa17.

attraverso la separazione patrimoniale si realizzano negli ordinamenti di common law con il trust. Oltre all’esempio della previdenza complementare, si segnalano le norme sulle gestioni patrimoniali, poi raccolte nel Testo unico della finanza (cfr. art. 22, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), la legge sulla c.d. cartolarizzazione dei crediti (art. 3, comma 20, l. 30 aprile 1999, n. 130) (6) e poi, da ultimo, la legge sulla società per il finanziamento delle infrastrutture (art. 8, comma 40, d.l. 15 aprile 2002, n. 63, convertito dalla l. 15 giugno 2002, n. 112). Si vedano, per talune considerazioni di ordine sistematico, Rescigno, Notazioni a chiusura di un seminario sul «trust», in EDP, 1998, 453; Palermo, Sulla riconducibilità del «trust interno» alle categorie civilistiche, in RDComm, 2000, I, 133. 14 Provvedimento a sua volta emanato sulla base della direttiva adottata, in data 28 aprile 2006, dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, alla stregua dell’art. 18, comma 1, d.lgs. n. 252/2005. 15 Cfr., anche Candian, Fondo e fondi: itinerari paragiuridici tra gli usi linguistici, in GComm, 1998, I, 158; Bessone, Previdenza complementare, Giappichelli, 2000, 417; Tursi, Il sistema di garanzie predisposto in Italia per la realizzazione degli obiettivi previdenziali dei fondi pensione: la configurazione soggettiva delle forme pensionistiche complementari, in Revista Brasileira de Previdencia, novembre, 2017, ISSN 2317-0158 consultabile al seguente link: http://www.revistabrasileiradeprevidencia.org/revista/ edicoes-anteriores/vol-6-novembro-de-2017/il-sistema-di-garanzie-predisposto-in-italia-per-la-realizzazione-degli-obiettiviprevidenziali-dei-fondi-pensione-la-configurazione-soggettiva-delle-forme-pensionistiche-complementari/ 16 L’espressione è di Martina, I modelli strettamente assicurativi della previdenza complementare, in Corrias, Racugno (a cura di), Previdenza complementare ed imprese di assicurazione, Giuffrè, 2010, 45. 17 Si rinvia all’art. 15 della Dir. COVIP 31 ottobre 2006.

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La dottrina, non solo quella previdenzialista per intenderci, ha letto tale fattispecie nel segno della «decodificazione» quale testimonianza del sottrarsi degli interessi economicamente rilevanti ai principî dettati dal codice civile18: il patrimonio per così dire, «dedicato» codifica un regime generale della separazione patrimoniale rilevando, quale co-elemento della fattispecie, solo la specificità dell’obiettivo previdenziale che si intende conseguire19. Richiamando la disposizione dell’art. 6 del Regolamento comunitario, si deve ritenere che la forma pensionistica negoziale possa fornire e distribuire il Pan European Pension Product purché rispetti la gestione separata e sia amministrata con strutture gestionali e contabili distinte da quelle degli EPAP. Dunque, l’idea sarebbe quella di costituire “patrimoni dedicati” al PEPP, determinandone condizioni, limiti e modalità di rendicontazione; prevedere adeguate forme di pubblicità e di comunicazione; disciplinare il regime di responsabilità per le obbligazioni riguardanti detti patrimoni e la relativa insolvenza. Ebbene così letta la disposizione comunitaria, è indubbio che essa fa sorgere un duplice ordine di problemi nel nostro sistema di previdenza complementare: il primo tecnico-giuridico, posto che l’art. 4, comma 2, d.lgs. n. 252/2005 consente la costituzione del patrimonio di destinazione alle sole forme pensionistiche individuali di cui alle lettere g), h) e i) dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 252/2005: al fuori di tale ambito è espressamente esclusa l’esperienza dei fondi cd. interni sin dalla riforma Dini del 1995 (cfr. l’art. 4 comma 5, d.lgs. n. 252/2005)20. Sicché la possibilità che un EPAP domestico possa fornire e distribuire il PEPP senza operare alcuna modifica alle fonti normative vigenti non sembra allo stato attuale possibile. Ai fini regolatori sarebbe necessaria una specifica previsione normativa, analoga a quella contenuta nel citato comma 2 dell’art. 4, d.lgs. n. 252/2005, ad esempio, per gli enti di diritto privato di cui alla lettera g), i quali sono legittimati (anche) direttamente ad istituire forme pensionistiche complementari con l’obbligo della gestione separata. Il secondo problema è di analisi economica e previdenziale del diritto quanto alla misura (e ai limiti) in cui è efficiente il ricorso alla separazione dei patrimoni e, più in generale, alle tecniche che garantiscono la specializzazione della responsabilità patrimoniale. Siamo sufficientemente convinti che una tale eventuale estensione legislativa offra agli iscritti delle forme pensionistiche negoziali e agli aderenti del PEPP una protezione “adeguata” in termini di assolvimento degli obblighi previdenziali? Il tema è indubbiamente giuridico, ma anche finanziario, attuariale, di attribuzione di nuove competenze agli organi di amministrazione e di controllo. Sul punto, molto potranno fare le previsioni introdotte dalla Dir. 2016/2341/UE del 14 dicembre 2016 (IORP II), la quale recepita nel nostro ordinamento dal d.lgs. n. 147/2018, esige un sistema di governo che assicuri «una gestione sana

18

Irti, L’età della decodificazione, 4a ed., Giuffrè, 1999. Secondo la dottrina civilistica esso costituisce «un sottoprodotto culturale dell’intrecciarsi della teoria del diritto soggettivo e della teoria della finzione, una lettura della soggettività nel prisma deformante del diritto soggettivo» (così Orestano, “Persona” e “persone giuridiche” nell’età moderna, in Id., Azione, diritti soggettivi, persone giuridiche, Il Mulino, 1978, 115 ss. e 193 ss.). 20 Già nell’intesa sulla previdenza complementare, siglata in data 12 aprile 1995 si leggeva che «(…) va esclusa la possibilità di costituire nuovi fondi secondo la formula del patrimonio di destinazione separato all’interno del complessivo patrimonio aziendale». Cfr. ora l’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 252/2005 secondo cui «i fondi pensione costituiti nell’ambito di categorie, comparti raggruppamenti, sia per i lavoratori subordinati sia per i lavoratori autonomi, devono assumere la forma di soggetto riconosciuto ai sensi del comma 1, lett. b) …». 19

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e prudente» all’interno della forma pensionistica negoziale (art. 4-bis, d.lgs. n. 252/2005), attraverso una struttura organizzativa trasparente e adeguata nonché una trasmissione efficace delle informazioni21. Vero è che il sistema di governo in alcuni fondi pensione negoziali potrebbe presentarsi semplificato, stante il vigente criterio di proporzionalità che consente che esso possa essere disegnato in funzione della dimensione, della natura, della portata e della complessità delle attività del fondo stesso; ma è altrettanto vero, anzi è auspicabile, che ove queste forme pensionistiche negoziali si candidassero ad essere autorizzate alla distribuzione e alla fornitura del PEPP, per esse una tale possibilità andrebbe ancorata all’obbligo dell’individuazione di figure esterne cui demandare, ad esempio, la funzione di gestione dei rischi o quella di revisione interna e, più in generale, di ridefinizione dei processi e delle procedure dell’intera organizzazione.

2.2. L’obbligo del ricorso alla convenzione nel caso della copertura dei rischi biometrici.

Altro obbligo che è imposto all’EPAP è la sottoscrizione di una convenzione nel caso in cui si intenda prevedere la copertura, all’interno del PEPP, dei rischi cd. biometrici. Per “rischi biometrici”, stante la definizione contenuta nel punto 29 dell’art. 2 del Regolamento comunitario, si intendono quei rischi che attengono «alla morte, invalidità e/o longevità»: il sintagma richiama quanto gli artt. 15 e 16 della Dir. 2003/41/CE (IORP I) del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 giugno 2003 avevano già offerto in materia di attività e di supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali. Della rilevanza di tali rischi e dell’opportunità delle fonti istitutive delle forme pensionistiche negoziali (e, dunque, degli EPAP) di prevederne la copertura nei moderni schemi pensionistici complementari non vi è alcun dubbio nella lotta contro la povertà e l’adeguatezza del reddito pensionistico dei soggetti pensionati. Occorre però porre l’accento sulla scelta netta operata dal legislatore eurounitario in ordine al PEPP. Difatti, nell’ordinamento domestico l’art. 7-bis, d.lgs. n. 252/2005 – introdotto dall’art. 4, d.lgs. febbraio 2007, n. 28 a seguito del recepimento dell’art. 15 della predetta Dir. IORP I – sancisce l’obbligo dei fondi pensione negoziali, che coprono rischi biometrici o che garantiscono un rendimento degli investimenti o un determinato livello di prestazioni, di dotarsi di «mezzi patrimoniali adeguati» in relazione al complesso degli impegni finanziari esistenti, salvo che detti impegni finanziari siano assunti da soggetti gestori già sottoposti a vigilanza prudenziale a ciò abilitati, i quali operano in conformità alle norme che li disciplinano22.

21 22

Cfr. anche il Considerando 27 del Regolamento UE 2019/1238 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019. Occorre segnalare che fino all’emanazione della dir. 2003/41/UE recepita, come si anticipato, dal d.lgs. n. 28/2007, per le forme pensionistiche complementari di fonte contrattuale non sussisteva alcun obbligo di redigere i bilanci cd. tecnici con l’unica eccezione rappresentata dalle Casse privatizzate dei liberi professionisti (cfr. il Decreto Ministeriale 29 novembre 2007).

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Tant’è che i principi per la determinazione dei mezzi patrimoniali adeguati nei casi in cui essi abbiano previsto la copertura diretta dei rischi biometrici (ovvero la garanzia diretta di un rendimento degli investimenti o di un determinato livello delle prestazioni e l’erogazione diretta delle rendite) sono stati individuati con il regolamento n. 252 del 7 dicembre 2012 del Ministero dell’economia e delle finanze, sentita la COVIP, la Banca d’Italia e l’ISVAP (ora IVASS), nonché sono state definite le condizioni alle quali una forma pensionistica può, per un periodo limitato, detenere attività insufficienti. In particolare, il Decreto Ministeriale impone ai fondi pensione due distinti obblighi: le “riserve tecniche” (art. 4), da un lato e le “attività supplementari” (art. 5) dall’altro, che insieme formano la categoria onnicomprensiva dei «mezzi patrimoniali adeguati» (art. 6)23. In altri termini, se il legislatore domestico non esclude che l’erogazione delle rendite aventi ad oggetto tali rischi possono essere gestite direttamente dal fondo pensione negoziale, prevedendo però la possibilità per le fonti istitutive, in caso di assenza di mezzi patrimoniali adeguati in relazione al complesso degli impegni finanziari esistenti – e fermo restando in ogni caso la competenza ad intervenire dell’autorità di vigilanza (cfr. il comma 3, dell’art. 7, d.lgs. n. 252/2005) –, di rideterminare la disciplina, oltre che del finanziamento, delle prestazioni, con riferimento sia alle rendite in corso di pagamento sia a quelle future ovvero che gli ordinamenti dei fondi pensione attribuiscano agli organi interni specifiche competenze in materia di riequilibrio delle gestioni24; all’opposto, il legislatore eurounitario impone l’obbligo di ricorrere in via esclusiva ad imprese di assicurazione attraverso la sottoscrizione di una apposita convenzione. Si tratta di una scelta che considera il complesso delle regole che presiedono alla attività degli operatori assicurativi in termini di competenze tecniche, di strumentazione necessaria e di mezzi patrimoniali adeguati; alla necessità di operare attraverso collettivi di assicurati di numero consistente per compensare i rischi; all’opportunità di proteggere le posizioni individuali pensionistiche dall’esposizione a rischi non facilmente gestibili; e, infine, alle competenze delle specifiche autorità di vigilanza sui soggetti gestori. Vale però la pena rammentare che la responsabilità, nonché l’obbligazione principale, rimane sempre in capo al fondo pensione negoziale e, dunque, agli EPAP. Sotto questo aspetto, solo in caso di scioglimento del fondo pensione le coperture assicurative sono attribuite direttamente ai pensionati dal momento che in questo caso viene a mancare il soggetto fondo pensione. Il che ci riporta al tema, analizzato in precedenza, della configurazione giuridica del patrimonio PEPP all’interno della forma pensionistica negoziale.

23

Sul piano regolamentare, si vedano la Deliberazione COVIP del 7 maggio 2014 e la circolare della medesima autorità del 7 maggio 2014, n. 2949. 24 Tale duplice possibilità (la prima riservata ai fondi pensione cd. preesistenti e la seconda ai fondi pensione di nuova generazione) è stata introdotta dall’art. 10, comma 2, D.L. 28 giugno 2013 n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 99. Non è questa la sede per soffermarsi sulla differenziazione in termini di competenze operata a nostro avviso dal legislatore: stante la lettera della norma, se la prima possibilità è riservata alle fonti istitutive, la seconda è di pertinenza delle fonti cd. costitutive.

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2.3.

L’obbligo di fornire le garanzie finanziarie previa cooperazione con imprese di assicurazioni o con enti creditizi.

Il terzo obbligo indicato nell’art. 42, paragrafo 5 del regolamento comunitario si riferisce alla possibilità del fondo pensione negoziale di modellare il PEPP ricorrendo a diverse opzioni standard di investimento dal momento che potrebbe assumere la forma di una tecnica di attenuazione del rischio coerente con l’obiettivo di consentire al risparmiatore in PEPP di recuperare il capitale, oppure di una garanzia sul capitale investito. Le garanzie fornite nell’ambito dell’opzione standard di investimento tendono a coprire i contributi durante la fase di accumulo, previa deduzione di tutte le commissioni e di tutti gli oneri, nonché all’inizio e durante la fase cd. di decumulo. In questo caso, la fonte comunitaria impone «l’obbligo di cooperare» con imprese di assicurazione o con banche nella fornitura di tali garanzie «conformemente al diritto settoriale a essi applicabile». Alla base di tale obbligo vi è dunque un atto di autonomia privata con il quale gli operatori specializzati forniscono una garanzia finanziaria a favore del fondo pensione negoziale che fornisce il PEPP e per effetto della quale «sono gli unici responsabili per quanto riguarda la garanzia». Nel sistema di previdenza complementare domestico, il riferimento «al diritto settoriale applicabile» andrà letto considerando la disciplina attualmente in vigore che esige l’obbligo di stipulare una convenzione, redatta sulla base di uno schema predisposto dalla COVIP in accordo con le altre autorità che presiedono l’attività delle categorie di gestori ammessi. Peraltro, la convenzione è sottoposta alla preventiva autorizzazione dell’autorità di vigilanza sulla base della verifica della conformità del suo contenuto alle previsioni normative. Su cosa invece intenda il legislatore comunitario con «obbligo di cooperare» non è dato intendere esattamente. Esso potrà essere ricondotto ad un più generale obbligo di correttezza che vale a determinare il comportamento dovuto in relazione alle concrete circostanze di attuazione del rapporto, ad esempio concretizzandosi in obblighi di informazione e di avviso, della cui violazione conseguiranno profili di responsabilità patrimoniali anche solo colposamente ingenerati. Intanto occorre segnalare che l’obbligo sembra circoscriversi sul piano letterale alla fornitura di garanzie finanziarie e assicurative e non anche alla gestione delle risorse e degli impieghi dell’intero patrimonio del PEPP25. Se fosse confermata tale lettura in sede di emanazione delle norme tecniche di attuazione dell’EIOPA, essa si risolverebbe in una minore protezione e tutela del risparmiatore, dal momento che una gestione diretta dell’EPAP, sebbene in parte devoluta a enti creditizi ed imprese di assicurazioni, comporterebbe la presenza di strutture complesse, dotate della necessaria competenza e di mezzi tecnici adeguati alla amministrazione di rilevanti masse di capitali, con la previsione di costi che andrebbero inesorabilmente a ridurre il rendimenti attesi dal risparmiatore del PEPP.

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Come è noto, in Italia è limitata la possibilità del fondo pensione negoziale di assumere la gestione diretta del patrimonio del fondo pensione negoziale che era invece molto diffusa in diverse esperienze delle forme previdenziali previgenti al d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124. Solo gli operatori che rientrano nell’elenco definito dall’art. 6, d.lgs. n. 252/2005 possono candidarsi all’offerta di questo servizio.

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2.4. L’obbligo della presenza di uno (o più) soggetto(i) depositario(i). Il risparmio previdenziale del PEPP è tutelato anche attraverso la presenza di soggetti che si collocano al di fuori della forma pensionistica complementare (e dunque degli EPAP) e ai quali sono attribuite specifiche funzioni di controllo e di vigilanza. Primaria rilevanza nell’ambito dei controlli esterni assumono le funzioni devolute al depositario (o alla banca depositaria), cui peraltro già il nostro ordinamento ne individua le competenze ai sensi dell’art. 7, d.lgs. n. 252/2005, per i fondi pensioni negoziali e aperti e, per effetto dell’estensione dell’art. 5, comma 6. D.M. n. 62/2007, anche ai fondi pensione preesistenti. Con l’obbligo in questione, la fonte regolamentare (art. 48, paragrafo 1) intende assicurare al risparmiatore del PEPP una figura che non è semplicemente preposta alla custodia dei titoli e delle liquidità che rappresenteranno il patrimonio del prodotto pensionistico individuale paneuropeo, bensì un soggetto che è incaricato di svolgere un ruolo attivo di controllo. Ebbene l’obbligo a carico degli EPAP di nomina di uno o più soggetti depositari va letta considerando, da un lato, la vigente disciplina comunitaria, la quale ne impone la presenza nei soli casi di fondi commercializzati a investitori professionali26 e, dall’altro, alla luce del diritto settoriale degli Stati membri che non richiede, con qualche isolata eccezione, la presenza di un depositario. Non sembra allora che il regolamento comunitario introduca alcunché di nuovo nel nostro ordinamento nazionale: allo stato attuale, le risorse finanziarie del fondo pensione (negoziali o aperti) sono custodite presso un depositario (distinto dal gestore) che è in possesso dei requisiti di banca depositaria per i fondi comuni di investimento (art. 47 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58). Il nostro legislatore, sin dal 1993, ha aumentato il grado di protezione nei confronti degli iscritti al fondo pensione, perfezionando quel disegno complesso di distinzione di ruoli e di attribuzioni tra diversi soggetti che concorrono al raggiungimento delle finalità della forma pensionistica complementare, che dovrebbe assicurare la tutela collettiva degli iscritti. D’altra parte, il depositario ha il compito di eseguire le istruzioni del gestore del patrimonio verificando che tali indicazioni siano conformi alla legge, alle norme dello statuto del fondo pensione, ai criteri stabiliti dalla disciplina secondaria in ordine alla individuazione dei rischi nella scelta degli investimenti. Si pensi al mantenimento in custodia tutti gli strumenti finanziari del fondo pensione che possono essere registrati in un conto di strumenti finanziari aperto nei propri libri contabili e tutti gli strumenti finanziari che possono essergli fisicamente consegnati; o alla registrazione di tutti gli strumenti finanziari in conti separati, aperti a nome del fondo pensione, in modo tale che possano essere chiaramente identificati come appartenenti allo stesso; o alla esecuzione di tutte le istruzioni impartite dal fondo pensione o dal soggetto gestore del patrimonio del fondo,

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Si tratta della Dir. 2011/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2011 (Direttiva AIFM), sui gestori di fondi di investimento alternativi, che modifica le Dir. 2003/41/CE e 2009/65/CE e i regolamenti (CE) n. 1060/2009 e (UE) n. 1095/2010. In Italia, la Direttiva AIFM è stata recepita con l’emanazione del d.lgs. n. 44/2014, recante modifiche alla disciplina di cui al d.lgs. n. 58/1998.

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se non siano contrarie alla legge, alle norme statutarie e regolamentari del fondo stesso e ai criteri stabiliti nel decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di cui all’art. 6, comma 5-bis. d.lgs. n. 252/2005. La lettera della norma lascia spazio alla possibilità che il depositario possa non essere unico: nel nostro sistema di previdenza complementare la norma dovrà dunque armonizzarsi con il costante orientamento formulato dall’autorità di vigilanza in base al quale le disponibilità del fondo sono custodite presso un’unica banca depositaria. Una previsione che ha garantito fin qui le condizioni di controllo che il depositario svolge nel campo del monitoraggio del rispetto delle indicazioni e dei limiti di investimento a cui i gestori si attengono. Andranno poi estese al PEPP le norme attuali in materia di segnalazione all’autorità di vigilanza dei fondi pensione sulle irregolarità riscontrate nella gestione del PEPP e, soprattutto sull’obbligo di fornire informazioni su atti o fatti di cui sono venuti a conoscenza nell’esercizio delle funzioni di depositario. Nondimeno andranno considerati gli obblighi a carico del depositario in tema di conflitti di interesse tra il fondo pensione, PEPP, gli aderenti (e i beneficiari) e lo stesso depositario, a meno che abbia separato, sotto il profilo funzionale e gerarchico, lo svolgimento delle sue funzioni di depositario dagli altri suoi compiti potenzialmente confliggenti, e i potenziali conflitti di interesse siano adeguatamente identificati, gestiti, monitorati e comunicati agli aderenti e ai beneficiari nonché all’organo amministrativo del fondo pensione negoziale27.

3. Spunti conclusivi. Le (scarne e ambigue) indicazioni della fonte comunitaria sulla possibilità offerta agli EPAP di svolgere una previdenza individuale andranno necessariamente integrate dalle disposizioni delle norme tecniche cui l’EIOPA è chiamata a pronunciarsi entro il 15 agosto 2020 e da una attenta rivisitazione delle norme del d.lgs. n. 252/2005 nonché della disciplina secondaria e regolamentare delle autorità di vigilanza (non solo, dunque, della COVIP). Una riflessione che ambisca a cogliere l’incidenza sistematica del primo prodotto pensionistico individuale paneuropeo nella previdenza contrattuale (complementare) di fonte collettiva, e le possibili implicazioni per le categorie concettuali in cui si articola il ragio-

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Il depositario è responsabile nei confronti del fondo pensione e degli aderenti e beneficiari di ogni perdita da essi subita in conseguenza del colposo inadempimento o dell’inappropriato adempimento dei suoi obblighi. In caso di perdita di strumenti finanziari detenuti in custodia, il depositario, se non prova che l’inadempimento è stato determinato da caso fortuito o forza maggiore, è tenuto a restituire senza indebito ritardo strumenti finanziari della stessa specie o una somma di importo corrispondente, salva la responsabilità per ogni altra perdita subita dal fondo pensione, dagli aderenti e dai beneficiari in conseguenza del mancato rispetto, intenzionale o dovuto a negligenza, dei propri obblighi. In caso di perdita di strumenti finanziari da parte del terzo al quale è stata eventualmente delegata la custodia, resta impregiudicata la responsabilità del depositario. Sulle somme di denaro e sugli strumenti finanziari della forma pensionistica complementare depositate a qualsiasi titolo presso un depositario non sono ammesse azioni dei creditori del depositario, del sub-depositario o nell’interesse degli stessi.

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namento dello studioso del diritto previdenziale, è tanto più necessaria appena si consideri la stratificazione concettuale che accompagna la disciplina delle forme pensionistiche complementari in ambito eurounitario e che attraversa il dibattito comparativo degli ultimi anni. I dubbi maggiori, come si è riferito in precedenza, si annidano sulla individuazione della forma giuridica che il PEPP dovrà assumere nell’ambito dei fondi pensione negoziali: a nostro avviso, la soluzione funzionalmente più agevole di non configurare un soggetto autonomo, bensì di costituire il PEPP all’interno del patrimonio del soggetto promotore con vincolo di destinazione (alla stregua dell’art. 2117, c.c.) deve essere in ogni caso supportata da una rete di specifici controlli e di adeguate protezioni che consentano al prodotto pensionistico individuale paneuropeo di essere al riparo dalla distrazione d’uso delle risorse a bilancio accantonate a copertura degli impegni previdenziali e dalla inesigibilità nei confronti di eventuali creditori della forma pensionistica negoziale. I tempi sono forse maturi non solo per un intervento normativo “light” che consenta agli EPAP di derogare all’attuale disciplina del d.lgs. n. 252/2005, sulla falsariga delle casse privatizzate di previdenza, ma che miri a codificare il complesso delle regole chiamate a governare l’effetto della separazione patrimoniale. Vero è che il problema dei “patrimoni separati” non è affatto marginale nel nostro ordinamento civilistico, tant’è che è avvertito come un problema dello studioso abituato a costruire il sistema «sulla premessa logica ed ontologica del soggetto di diritti, termine di rapporti cui rimane formalmente estraneo28». Certamente la possibilità di consentire anche ad un fondo pensione contrattuale la fornitura di un PEPP rappresenta una possibilità “unica”, perché rivitalizza la forma pensionistica dal torpore dalla quale era stata frettolosamente cacciata. Il PEPP potrebbe costituire il grimaldello per consentire ad una previdenza collettiva professionale di svolgere anche quella individuale non professionale, raccogliendo adesioni e aumentando la propria capacità sul mercato dei capitali. Per la prima volta sussiste la concreta possibilità di realizzare una copertura integrata di strumenti previdenziali: una previdenza contrattuale non più solo ed esclusivamente collettiva. Permane però il rischio di replicare l’esperienza delle casse previdenziali dei liberi professionisti, le quali non solo non hanno fin qui sfruttato la possibilità offerta dal d.lgs. n. 252/2005 di costituire forme pensionistiche collettive di riferimento29, quali strumenti complementari alla previdenza di base da esse offerta, ma sono ancora in attesa dell’emanazione del Regolamento interministeriale che definisca la disciplina della previdenza obbligatoria in materia di investimento delle risorse finanziarie, di conflitti di interessi e di depositario30. I fondi pensione negoziali saranno dunque chiamati ad interrogarsi sugli sviluppi futuri della previdenza complementare, con particolare riferimento alla migliore configurazione di governance, alla possibilità di prevedere forme che possano rappresentare un punto di

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Ferro-Luzzi, La disciplina dei patrimoni separati, in Riv. soc., 2002, 122. V. Orientamento COVIP 26 marzo 1998. 30 Come è noto, spetta alla COVIP vigilare funzioni di vigilanza sugli investimenti delle risorse finanziarie e sulla composizione del patrimonio degli enti previdenziali (ex D.lgs. n. 509/1994 e d.lgs. n. 103/1996) riferendo poi ai Ministeri del lavoro e dell’economia cui compete, invece, la vigilanza sui profili previdenziali. 29

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approdo per una platea di destinatari, più ampia di quella di immediato riferimento ed alla necessità di considerare che uno dei principi basilari della fonte comunitaria consiste nel favorire la circolazione all’interno e all’esterno del sistema di previdenza complementare. All’orizzonte si intravedono diversi rischi che possono nascere dalla sottoscrizione di un PEPP, indipendentemente dalla natura del soggetto fornitore, sul piano della libera circolazione e della libera prestazione di servizio. Proprio su questi ultimi aspetti, l’introduzione del PEPP esige un’attenta e ponderata verifica, anche alla luce di una più penetrante elaborazione dei confini causali dei prodotti previdenziali individuali, se taluni di essi siano da considerare tali o se l’assenza di ogni garanzia previdenziale imponga al contrario di renderli assimilabili, quanto meno in via di interpretazione analogica, a prodotti finanziari tout court. Su questo specifico punto, la legislazione italiana è stata costantemente impegnata negli anni a garantire l’iscritto delle forme pensionistiche individuali dalle insidie e dalle aporie del mercato finanziario e assicurativo e a salvaguardare la finalità, insita nel sistema pensionistico complementare, di soddisfare bisogni relativi ad un evento legato alla vita umana, qual è la sopravvivenza oltre la data del pensionamento. La nostra Commissione di vigilanza, tramite lo schema di regolamento deliberato il 31 ottobre del 2006, ha stabilito che i contratti delle assicurazioni sulla vita utilizzabili per finalità previdenziali sono quelli del ramo I e del ramo III, ma relativamente a quelli di sub specie di Unit linked31. Il mancato rinvio sia al ramo V sia al ramo III nelle forme di Index linked è stato diversamente motivato: da un lato, perché si è ritenuto che il ricorso al ramo vita V mal si concili con l’obiettivo perseguito mediante la creazione di una forma pensionistica complementare; dall’altro lato per la pericolosità delle polizze Index linked32, come si desume dalla crisi dei mercati finanziari33. Senza contare che il nostro ordinamento, precisamente nell’art. 1, c. 1, lett. w-bis), d.lgs. n. 58/1998, esclude che possono essere qualificate come prodotti finanziari le forme pensionistiche individuali di cui all’art. 13, d.lgs. n. 252/200534. La Corte di giustizia europea nel 201835, pur non entrando nel merito ma limitandosi ad un giudizio di conformità al diritto comunitario, ha confermato il ragionamento dei giudici

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L’opzione esercitata dalla Covip è stata confermata dall’art. 8 del regolamento dell’ISVAP n. 21 del 28 marzo 2008, concernente i principi attuariali e le regole applicative per la determinazione delle tariffe e delle riserve tecniche dei rami vita. Secondo la Commissione Europea, in una indagine condotta all’inizio degli anni Duemila, se è vero che sia nelle polizze index-linked e che nelle polizze united linked non è riscontrabile una natura giuridica assicurativa in quanto l’assunzione del rischio demografico è marginale rispetto alla prestazione definita all’indice o al fondo comune, una funzione previdenziale è assente nelle polizze index, ma non nelle polizze united. 32 V. Piras, Il ruolo delle polizze united linked nella previdenza complementare, in Corrias, Racugno (a cura di), Previdenza complementare ed imprese di assicurazione, cit., 113. 33 È quanto accaduto per diversi sottoscrittori di polizze del ramo III in occasione del fallimento della società Lehman Brothers Inc. nel 2008. Sul tema v. Salanitro, Prodotti finanziari assicurativi collegati ad obbligazioni Lehman Brothers, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, I, 491. 34 Corrias, Sulla natura assicurativa oppure finanziaria delle polizze linked, in Banca borsa e titoli di credito, 2015, 457 ss.; Martina, I prodotti previdenziali di terzo pilastro alla prova della crisi, in RCP, 2009, 1955 ss. In particolare, l’esclusione opera quando le prestazioni dei piani individuali sono offerte medianti prodotti del ramo vita III o prevedano un passaggio di posizioni dal ramo III al ramo I in progressione alla durata del rapporto, rendendo loro applicabili le regole assicurative limitatamente ai profili che residuano. Sul punto v. Deliberazione Covip 31 ottobre 2006, nota 19. 35 Si tratta della pronuncia C-542/16 del 31 maggio 2018 sul caso Länsförsäkringar.

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svedesi secondo i quali l’investimento finanziario oggetto della polizza è parte integrante del contratto di assicurazione: ragion per cui è inquadrabile quale polizza assicurativa in ragione del solo binomio versamento del premio/prestazione, pur avendo come sottostante taluni strumenti finanziari36. Cosi, ad esempio, la soluzione dell’art. 6, paragrafo 1, lett. a), b), c), d) e), f), del Regolamento comunitario di consentire la registrazione del PEPP non solo alle imprese assicurative autorizzate o la previsione, contenuta nell’art. 41, paragrafo 1, di stabilire parametri “elastici” sulle regole di investimento – che si presentano vincolanti nei soli casi in cui «il diritto settoriale non preveda norme più stringenti» ove non fosse oggetto di una più analitica definizione nelle norme tecniche di regolamentazione (cfr. art. 46), cui l’EIOPA è chiamata alla presentazione entro il 15 agosto 2020 – di fatto “inquina” la causa del contratto pensionistico, finendo per rimettere al risparmiatore, ove non sufficientemente formato e informato, la valutazione di suo opportunistico calcolo basato sulla disciplina più favorevole o sul fornitore più conveniente. In secondo luogo, appare piuttosto evidente che l’opportunità di costituire forme di previdenza complementare nella dimensione individuale debba tenere conto della necessità di fissare livelli di contribuzione che siano idonei al raggiungimento di un adeguato tasso di sostituzione da parte degli EPAP. Al contempo occorre tener conto che la peculiarità di queste forme è quella di essere fondate su di una unica fonte di finanziamento interamente a carico del risparmiatore il quale, diversamente dal lavoratore dipendente non potrà aggiungervi né il trattamento di fine rapporto, del quale è privo, né alcun genere di contributo di provenienza datoriale. Occorrerà partire da uno studio della platea dei potenziali aderenti che sia volto, da un lato, ad apprezzarne la numerosità, e, dall’altro, a individuare, con sufficiente grado di approssimazione, un realistico tasso di adesione minimo all’iniziativa nonché il volume di risparmio previdenziale in grado di affluire al PEPP domestico che si intende realizzare, soprattutto con riguardo ai primi anni di esercizio.

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Una conclusione diametralmente opposta a quella alla quale è pervenuta la nostra giurisprudenza di merito (App. Milano 21 gennaio 2016) secondo cui «la natura assicurativa di un prodotto si rinviene allorché il capitale iniziale versato può determinare eventualmente incrementi o decrementi per effetto della sua gestione, ma rimane comunque garantita dall’assicuratore, alla scadenza, la sua conservazione – almeno in parte – per poter assolvere alle finalità previdenziali perseguite dal beneficiario. In mancanza di una tale garanzia, com’è nella fattispecie viene meno il presupposto assicurativo, cioè la causa del contratto, e il prodotto oggetto dell’intermediazione deve essere considerato un vero e proprio investimento finanziario da parte di coloro che figurano come assicurati». La Suprema Corte (Cass., sez. III, 30 aprile 2018, n. 10333 in CED Cassazione, 2018), pur non intervenendo sulla qualificazione del tipo di contratto (assicurativo o finanziario), ha confermato in sede di legittimità la pronuncia della Corte di Appello di Milano, ritenendo che nel caso sottoposto al suo esame le polizze vita sono da classificare come ordinari contratti di investimento finanziario qualora non garantiscano il capitale versato dall’assicurato.

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Continuatività e lavoro autonomo Sommario : 1. Il lavoro continuativo. Prime distinzioni e precisazioni. – 2. I rapporti contrattuali di durata («ad esecuzione continuativa o periodica»). – 3. Il lavoro autonomo di durata e in particolare il requisito della continuatività nell’art. 409 n. 3 c.p.c. – 4. Segue. Il collegamento funzionale nei rapporti di durata quale manifestazione dell’interesse (organizzativo) al coordinamento della prestazione e l’inconfigurabilità del coordinamento nelle locationes operis. – 5. La continuatività e il suo contrario: la nozione anfibologica di occasionalità tra legge e giurisprudenza. – 6. La continuatività delle prestazioni di lavoro etero-organizzate. – 7. Il lavoro continuativo mediante piattaforme digitali. In particolare: il rilievo del requisito della continuatività nella qualificazione del rapporto di lavoro dei riders. – 8. Segue. Sui pretesi effetti indiretti del requisito della continuatività nella definizione del campo d’applicazione delle misure minime a tutela del lavoro autonomo mediante piattaforme digitali (art. 47-bis ss., d.lgs. 81/2015). – 9. Riflessioni sull’emersione del lavoro autonomo continuativo nelle misure a tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale (capo I, l. 81/2017).

Sinossi. Il contributo analizza la nozione di “continuatività” con riferimento al lavoro autonomo. L’Autore, dopo una premessa sulla categoria generale dei rapporti contrattuali di durata, si sofferma sulla figura delle collaborazioni coordinate e continuative e sulla ambigua nozione di occasionalità. Infine, verifica i risultati dell’analisi relazionandoli alla norma sulle collaborazioni etero-organizzate, alle misure a tutela dei lavoratori autonomi-riders che operano mediante piattaforme digitali e alle misure a tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale. Abstract. The essay analyses the notion of “continuity” with reference to self-employment. The Author, after a premise on the general category of “lasting interests’ contracts”, focuses on the figure of coordinated and continuous collaborations and on the ambiguous notion of casual work. Finally, the Author verifies the results of the analysis with reference to the norm on hetero-organized collaborations, to the measures to protect self-employed riders working via digital platforms and to the measures aimed at protecting non-entrepreneurial self-employment. Parole chiave: Lavoro autonomo – Continuatività – Rapporti contrattuali di durata – Collaborazioni coordinate e continuative – Occasionalità – Collaborazioni etero-organizzate – Lavoro autonomo mediante piattaforma digitale – Lavoro autonomo non imprenditoriale


Fabrizio Ferraro

1. Il lavoro continuativo. Prime distinzioni e precisazioni. Nonostante la consapevolezza circa l’incidenza del fattore-tempo nell’esperienza giuridica1, non sono molte le riflessioni dottrinali sul tema della continuatività nel lavoro autonomo2. Il tema è, del resto, fonte di profondi equivoci che si sono riflessi sull’analisi dei recenti fenomeni lavorativi sulla piattaforma caratterizzati da una strutturale “discontinuità”. È bene chiarire fin da subito che i termini durata, continuità e continuatività3 non sono utilizzati in un’accezione univoca dalla dottrina e dalla giurisprudenza, soprattutto con riferimento al lavoro subordinato4. Si parla infatti di “principio di continuità” del rapporto di lavoro per identificare uno dei cardini della disciplina del trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.5, la tutela consistente nella conservazione dei diritti dopo la modificazione soggettiva del contratto di lavoro. La continuità giuridica del rapporto di lavoro subordinato è anche l’effetto della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo. Se poi ci si rivolge alla “durata” della prestazione di lavoro, si potrebbe intendere, a seconda dell’accezione adottata, o l’arco temporale durante il quale si adempie l’obbligazione che coincide, nei rapporti di durata, con l’eventuale termine negoziale dell’adempimento6, ovvero il tempo della prestazione inteso come orario di lavoro7. È bene a tal proposito distinguere fin da subito tra il concetto di rapporto di durata e il diverso concetto di “durata del rapporto”, essendo il primo riferito a una qualità dell’obbligazione contrattuale,

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Bagolini, Significati della parola “tempo” in alcuni discorsi giuridici, in RTDPC, 1970, 333 ss.; Moscati, voce Tempo (dir. civ.), in NDI, XVIII, 1114 ss.; Capozzi, Temporalità e norma nella critica della ragione giuridica, Edizioni Scientifiche Italiane, 1979. Cfr., solo per citare alcuni scritti significativi, accanto ad altri citati nel corso del saggio, G. Santoro-Passarelli, Il lavoro parasubordinato, Franco Angeli, 1979; G. Santoro-Passarelli, voce Lavoro autonomo, in Enc dir, Giuffrè, 2012, 711 ss.; Pedrazzoli, voce Opera (prestazioni coordinate e continuative), in NDI, Appendice, V, 1986, 475 ss.; Pedrazzoli, Prestazione d’opera e parasubordinazione (Riflessioni sulla portata sistematica dell’art. 409, n. 3 c.p.c), in RIDL, I, 1984, 506 ss.; Ichino, Subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, Giuffrè, 1989, 102 ss.; Perulli, Il lavoro autonomo, in Cicu, Messineo (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, XXVII, t. I, Giuffrè, 1996, 1 ss.; Perulli, Subordinazione e autonomia, in Carinci (a cura di), Il lavoro subordinato, t. II, Il rapporto individuale di lavoro: costituzione e svolgimento, in Bessone (diretto da), Trattato di diritto privato, Giappichelli, 2007, 28; Martelloni, Lavoro coordinato e subordinazione. L’interferenza delle collaborazioni a progetto, Bononia University Press, 2012, 88 ss.; P. Sandulli, Lavoro autonomo e parasubordinazione, in P. Rescigno (a cura di), Trattato di diritto privato, Utet, 1986, 1417 ss. I termini continuatività e continuità sono utilizzati come sinonimi, ma il loro significato è diverso e, soprattutto, cambia se li si riferisce al rapporto giuridico, alle obbligazioni o alla prestazione. È critico con l’assimilazione tra i termini anche Bavaro, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato, Cacucci, cap. II, par. 3, il quale tuttavia argomenta sulla base dell’art. 1559 c.c. per sostenere che «mentre la “continuatività” e la “periodicità” indicano – come detto – caratteristiche attinenti alla modalità cronologica di esecuzione di una prestazione, la “continuità” attiene alla natura giuridica dell’adempimento dell’obbligazione nei rapporti di durata, in quanto connotati dalla permanenza dell’interesse creditorio al suo adempimento». A mio avviso, invece, è più corretta l’impostazione contraria atteso che le norme sui contratti in generale applicabili ai rapporti di durata fanno riferimento alla «esecuzione continuativa», non alla esecuzione continua. Inoltre, l’espressione continuatività è meno equivoca nel contesto dei rapporti di lavoro, dove la “continuità” del lavoro subordinato identifica lo stato di continua disponibilità del prestatore di lavoro (v. oltre). Cfr. in tal senso Ficari, voce Continuità, in Dell’olio (a cura di), Diritto del lavoro, in Irti (a cura di), Dizionari del diritto privato. Volume secondo, Utet, 1980, 15. Cfr. anche, sulla condivisibile insoddisfazione per quegli impianti metodologici inadatti a cogliere il senso della «analisi del tempo nella vicenda giuridica del rapporto di lavoro», Bavaro, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato, 2008, Cacucci, cap. II, par. 1 Preteroti, Il principio di continuità dei rapporti di lavoro nella disciplina del trasferimento d’azienda in crisi, in RIDL, 2018, 437 ss. Con riferimento alla diversa fattispecie del passaggio da un’amministrazione pubblica all’altra cfr. Cass., 19 febbraio 2020 n. 4193. Di Majo, voce Termine (dir. priv.), in Enc dir., XLIV, Giuffrè, 1992, 200. Cassì, La durata della prestazione di lavoro, Giuffré, 1956, edito in due volumi ciascuno appunto dedicato alle accezioni richiamate.

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il secondo alla dimensione meramente cronologica della relazione negoziale che «non riguarda la natura giuridica temporale della prestazione»8 e che designa «uno stato di fatto», ossia «la più o meno prolungata inserzione di un lavoratore in un organismo aziendale»9. Non sarà oggetto di esame la questione del tempo determinato o indeterminato del contratto, qualificazioni che hanno pure conseguenze rilevanti in ordine alla disciplina applicabile (si pensi al regime del recesso) e alla definizione dell’assetto di interessi10. Oggetto d’indagine è invece la continuatività osservata dalla prospettiva dell’interesse del committente (e, quindi, dell’adempimento dell’obbligazione di fare: v. oltre), intesa quale caratteristica eventuale delle prestazioni di lavoro autonomo. Anche da questo più limitata prospettiva opportuni alcuni chiarimenti di ordine sistematico. Innanzitutto, il concetto di “durata” preso qui in esame dà il nome a una categoria «fondamentale»11, quella dei rapporti contrattuali di durata o contratti di durata o rapporti obbligatori di durata12. Sono i «contratti ad esecuzione continuata o periodica» ai quali si applicano alcune disposizioni del Codice civile che prevalentemente assicurano l’irretroattività degli effetti della risoluzione o del recesso (artt. 1360 comma 2, 1373 comma 2,

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Bavaro, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato, cap. II, par. 4. Già Oppo, I contratti di durata, in RDComm, 1944, 240, sottolineava la distinzione rilevando come nei contratti di durata «viene anzitutto in considerazione l’elemento della durata dell’adempimento, non… la semplice durata del rapporto» (v. oltre). 9 In tal senso definisce la “continuità” Barassi, Il diritto del lavoro, II, Giuffré, 1949, 154, pur ammettendo lo stesso Autore che il concetto è «essenzialmente relativo». Infatti, lo stesso Barassi, Il diritto del lavoro, I, Giuffrè, 1949, 244, nota 133, afferma che la subordinazione può essere continuativa od occasionale (v. il paragrafo dedicato). 10 In questa accezione è differente la prospettiva di studio del tempo nel rapporto obbligatorio e per questo può essere omessa la trattazione nell’ottica del presente contributo. Ad ogni buon conto, le due prospettive sono fortemente intrecciate. Lo stesso Oppo, I contratti di durata, cit., 258, segnala come la durata in senso tecnico comporti l’assenza di un «limite necessario di tempo», nel senso che un eventuale termine concordato tra le parti non incide sul momento dell’adempimento continuativo proporzionale alla durata del rapporto; viceversa, nei rapporti obbligatori che hanno al centro un’obbligazione istantanea, il termine segna sempre il tempo massimo entro cui adempiere ed è implicito o esplicito, ma sempre presente (v. oltre). Si segnala inoltre che Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, 1963, 60, riferisce la continuità alla “durata del rapporto” laddove afferma che «il requisito della continuità del singolo rapporto non è essenziale, giacché contratto di lavoro subordinato è anche quello a termine predeterminato, sia pure nei limiti severamente circoscritti in cui questo è ormai ammesso». 11 Oppo, I contratti di durata, in RDComm, 1943, 143-180, ivi 144; e cfr. anche ibidem, 1944, I, 18 ss. Per le successive citazioni si farà riferimento solo al numero di pagine al fine di distinguere gli scritti. 12 Si tratta di accezioni ovviamente non equivalenti a stretto rigore. Secondo lo stesso Oppo, I contratti di durata, cit., 1943, 145-146, sarebbe meglio forse parlare, in senso tecnico, di contratti di durata, espressione meno compromettente di “rapporti obbligatori di durata” (che non esclude i negozi unilaterali) e “rapporti di durata” (che non esclude le relazioni familiari o quelle nel campo nei rapporti reali) e financo della nozione del Codice “contratti ad esecuzione continuativa o periodica”. Sulla definizione del contratto di durata come «rapporto patrimoniale obbligatorio di durata» cfr. De Martini, Obbligazione di durata, in NDI, vol. XI, 1965, 656 secondo il quale «a rigore la durata attiene alla prestazione, cioè all’oggetto dell’obbligazione; quindi, esattamente, qualifica l’obbligazione stessa e, più ampiamente, il rapporto obbligatorio di cui essa fa parte» (655). Sulla coincidenza tra la categoria normativa dei contratti ad esecuzione continuativa o periodica e la categoria di stampo dottrinale dei contratti di durata cfr. Luminoso, Il rapporto di durata, in RDC, 2010, 501 ss., ivi 502 (in part. nt. 4). In altri ordinamenti la categoria è stata codificata: Gabrielli, I contratti di durata, il diritto italiano e il nuovo codice civile argentino, in GC, 2018, 267 ss.

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1458 comma 1 e 1467 comma 1 c.c.)13. All’origine della categoria si collocano le riflessioni fondative dell’Osti14 e del Gierke15. In questo campo, la nozione in esame si collega storicamente a un’altra distinzione “classica”, indagata dalla migliore dottrina e riferita proprio al campo delle prestazioni di facere, tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato16. Tale distinzione è stata messa quasi completamente da parte dalla giurisprudenza, almeno in tema di riparto dell’onere della prova nelle cause di responsabilità contrattuale ex artt. 1176 e 1218 c.c.17. Ad ogni modo si tratta di una distinzione relativa alla natura dell’oggetto dell’obbligazione e perciò adagiata sul versante della responsabilità contrattuale18. Nel campo del diritto del lavoro il binomio tra obbligazioni di mezzi e di risultato affonda in profondità le proprie radici nella distinzione già nota al diritto romano tra locatio operis e locatio operarum, che trovava riscontro testuale nel Codice civile del 186519. Anche per questa ragione tale binomio è stato a lungo utilizzato per discernere la natura dell’obbligazione tipica del lavoratore subordinato – sempre di mezzi – da quelle dell’autonomo. E tuttavia il criterio appare, in special modo oggi, profondamente inadatto a tracciare il differenziale, per via della normale presenza di rapporti di lavoro autonomo caratterizzati da una obbligazione di mero comportamento o comunque da una obbligazione di durata20.

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Infatti, secondo Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Jovene, 1996, 72, «gli studi dei giuristi in materia di contratti di durata hanno sempre privilegiato la disciplina dello scioglimento, anziché quella del mantenimento del rapporto contrattuale». Sulla disciplina applicabile si legga De Martini, Obbligazione di durata, cit., 658-659. Cfr. Messineo, Dottrina generale del contratto (art. 1321-1469 c.c.), Giuffrè, 1946, 210-211; Rubino, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Giuffrè, 1939, 10 ss.; e Falzea, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Giuffrè, 1941, 196 nt. 185. Cfr. però sull’applicabilità della risoluzione parziale ai contratti cosiddetti “ad esecuzione istantanea” Cass., sez. II, 2 luglio 2013, n. 16556, quando «l’oggetto sia rappresentato da più cose avente una loro individualità ovvero quando ognuna di esse mantenga una propria autonomia economicofunzionale, considerato che il contratto di fornitura intervenuto tra le parti ha un’unica finalità economico-funzionale che invece le singole parti della tornitura non hanno». In tal senso cfr. anche Trib. Torre Annunziata, sez. II, 4 settembre 2014, n. 2328, Dejure. 14 Osti, La clausola “rebus sic stantibus” nel suo sviluppo, in RDComm, 1912, 1-5, 46 ss. 15 Gierke, Dauernde Schuldverhältnisse, JherJb 64, 1914, 355 ss. 16 Mengoni, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi”. Parte I, in RDComm, 1954, 5-6, 185 ss. Cfr. anche P. Rescigno, voce Obbligazioni (dir. priv.), in Enc. dir., XXIX, 1979, par. 56; e Trivelloni, voce Obbligazioni di mezzi e di risultato, in EGT, agg., XV, Giuffrè, 2007, 1 ss. 17 Secondo Cass., sez. un., 28 luglio 2005, n. 15781, proprio in tema di lavoro autonomo professionale e applicabilità dell’art. 2226 c.c., in ogni obbligazione si riscontrano il comportamento del debitore e il risultato in proporzioni variabili. Cfr. anche Cass., sez. un., 11 gennaio 2008 n. 577; e Cass., sez. II, 20 dicembre 2013 n. 28575. Una parte della giurisprudenza di merito fa ancora ricorso alla distinzione: Trib. Torino, sez. IV, 8 giugno 2019 n. 2792. 18 Piraino, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi ovvero dell’inadempimento incontrovertibile e dell’inadempimento controvertibile, in EDP, 2008, 94 s.; e Di Majo, Mezzi e risultato nelle prestazioni mediche: una storia infinita, in CG, 2005, 33 s. 19 Cfr. lo studio di Caravale, Qualche osservazione sulla dottrina di diritto comune in tema di locatio operarum, in Liber Amicorum Giuseppe Santoro-Passarelli, Giappichelli, 2018, 57 ss. La distinzione risulta invero in via di superamento già con Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Società editrice libraria, 1915, che però, influenzato dalla solidità del binomio interno alle locationes al tempo, sembra a tratti proporre una tendenziale identificazione tra durevolezza e subordinazione (in particolare 680681), quantomeno nel senso che il rapporto duraturo «non è la regola, per il lavoro autonomo». Analogamente Betocchi, Il contratto di lavoro nell’economia e nel diritto, Jovene, 1897, 55, afferma che «non è estremo essenziale la considerazione della durata, mentre lo è invece nella locatio operarum». Cfr. Abello, Della locazione, Eugenio Marghieri-Utet, 1910, 604 ss. In tema si legga Gaeta, Ludovico Barassi, Philipp Lotmar e la cultura giuridica tedesca, in DLRI, 2001, 165 ss. 20 La giurisprudenza (Cass., 20 aprile 1998, n. 4007), del resto, richiama quella distinzione «in modo quasi sempre tralaticio», come nota Ghera, Il lavoro autonomo nella riforma del diritto del lavoro, in RIDL, 2014, 4, I, 501 ss., ivi 509. Cfr. Ichino, Il tempo delle prestazioni nel rapporto di lavoro. Vol. I. Continuità, elasticità e collocazione temporale della prestazione lavorativa subordinata, Giuffrè, 1984,

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Inoltre, la distinzione tra obbligazione di risultato e di mezzi non ha rilievo in questa sede perché non attiene all’incidenza del tempo sulla causa negoziale (v. oltre).

2. I rapporti contrattuali di durata («ad esecuzione continuativa o periodica»).

I rapporti contrattuali cosiddetti di durata si distinguono dai rapporti contrattuali in cui è dedotta una obbligazione ad adempimento istantaneo (detta anche, in modo forse improprio, “a esecuzione istantanea” per contrapposizione letterale alla nozione di «esecuzione continuata o periodica» presente nel Codice civile). La distinzione tra i due genera messi in evidenza rileva sul piano della soddisfazione dell’interesse creditorio nel tempo. Si può dire infatti, in via di prima approssimazione, che se l’adempimento è istantaneo, il committente è soddisfatto dalla consegna dell’opus e non dal lavoro in sé che costituisce attività preparatoria del risultato finale (anche se, come avrò modo di dire, ciò non implica che il creditore dell’opus o del servizio non abbia un interesse a controllare il lavoro eseguito o possa far valere inadempimenti con le forme dettate dal Codice civile). Invece, se l’adempimento è continuativo, il committente è soddisfatto dal protrarsi nel tempo dell’attività lavorativa. Le nozioni cui ho fatto cenno sono discusse e pertanto meritano di essere meglio precisate. Secondo una prima ricostruzione, sono “di durata” anche i rapporti nei quali sia apprezzabile l’impiego di una determinata quantità di tempo21. Il concetto di durata sarebbe riferito così all’attuazione esecutiva del programma obbligatorio più che alla sua realizzazione consumativa e, quindi, all’adempimento dell’obbligazione22. Già una risalente dottrina, in senso contrario, distingueva la durata della prestazione, in cui l’adempimento si prolunga nel tempo e coincide con ogni singolo momento dell’esecuzione, e “istantaneità della prestazione”, in cui il «momento consumativo dell’esecuzione» è unico e coincide con la «consegna del lavoro finito»23. La distinzione, riferita all’esecuzio-

29, aveva provato a rendere attuale il binomio tra obbligazioni di risultato e di mezzi, al fine di focalizzare meglio l’interesse del creditore, binomio espresso come differenza tra obbligazioni divisibili e obbligazioni indivisibili ratione temporis. E tuttavia la distinzione non sembra cogliere il profilo di durata che accomuna, come si dirà, sia prestazioni di risultato ripetute sia prestazioni consistenti in un comportamento. Cfr. i puntuali e condivisibili rilievi di Perulli, Il lavoro autonomo, in Cicu, Messineo (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, XXVII, t. I, Giuffrè, 1996, 190-191. Inoltre, secondo altra dottrina, la divisibilità può operare solamente ratione spatii, come rileva Cicala, Concetto di divisibilità e indivisibilità dell’obbligazione, Edizioni Scientifiche Italiane, 1953, 166. 21 In tal senso affermava Asquini, Il contratto di trasporto terrestre di persone, Cedam, 1915, 36, che non esiste «alcuna logica necessità di limitare il valore del tempo, come indiretta unità di misura dei fenomeni, al solo campo di energie di lavoro, come tali, e non a quello dei risultati di lavoro». Cfr., per un tentativo di ricostruzione della continuatività nell’ambito delle locationes operis, Marazza, Saggio sulla organizzazione del lavoro, Cedam, 2002, 253 ss. Sulle riflessioni di Marazza si tornerà oltre. 22 Il rilievo era già di Devoto, L’obbligazione ad esecuzione continuata, Cedam, 1943, 301. 23 Ramponi, La determinazione del tempo nei contratti, Archivio giuridico, XLV, 1890, 293 ss., ivi 312. Con riferimento al contratto d’opera cfr. F. Santoro-Passarelli, voce Opera (contratto di), in NDI, XI, Utet, 982 ss.

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ne della prestazione, non consentiva però di distinguere con chiarezza tra adempimento e preparazione dell’adempimento e lasciava peraltro in ombra, da questa prospettiva, la questione della classificazione dell’ipotesi di reiterazione di più opera. Un’autorevole dottrina giunge a negare, con maggior precisione e all’interno della più articolata e compiuta elaborazione sul tema, che «ogni contratto la cui esecuzione si prolunghi nel tempo è … compreso nel concetto di contratto di durata»24. Secondo Giorgio Oppo, non rientrano nella nozione i contratti nei quali l’attività è strumentale e preparatoria25, in vista del raggiungimento del risultato finale pattuito, con la conseguenza che «il tempo non è … utile all’interesse delle parti … ma è subìto dalle parti in quanto non può ottenersi immediatamente la soddisfazione dell’interesse contrattuale»26. Quindi «ai fini giuridici è indifferente la durata»27. A questa categoria sono riferibili le diverse forme della locatio operis come il contratto d’opera, l’appalto (quando non ha ad oggetto prestazioni continuative o periodiche ex art. 1677 c.c.) o il trasporto (quando il vettore non s’obbliga a realizzare un servizio continuativo di trasporto in forza di una serie di obbligazioni di risultato collegate; sul punto si legga oltre). Simili relazioni negoziali sono qualificate come rapporti contrattuali ad adempimento istantaneo, anche se di norma l’esecuzione è prolungata nel senso che non si esaurisce di fatto mai in un singolo momento (v. oltre). Viceversa «nei contratti di durata la prestazione è determinata “in funzione della durata stessa”, in quanto la “sua entità quantitativa” dipende dalla durata del rapporto»28. Tale configurazione ha la propria cifra nella soddisfazione di un interesse durevole di una delle parti corrispondente, in una logica quantitativa, al tempo di durata degli atti esecutivi intesi anche come atti d’adempimento29. La durata qui è voluta dalle parti «in quanto l’utile del rapporto è alla durata proporzionale»30. In tal guisa, il tempo «concorre a determinare la struttura del rapporto, ponendosi come nota individuatrice»31 e innerva la causa del contratto. Solamente in quest’ultima accezione la “durata” acquisisce capacità ricognitiva di una serie omogenea di fattispecie contrattuali in cui il debitore non subisce il rischio del mancato conseguimento del risultato, poiché l’interesse del creditore è già soddisfatto dell’esecuzione continuativa. E perciò si giustifica l’applicazione di norme che garantiscono la

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Oppo, I contratti di durata, cit., 147. Oppo, I contratti di durata, cit., 155. 26 Oppo, I contratti di durata, cit., 156. 27 Carnelutti, Teoria generale del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, 1951, 34. Di qui l’affermazione, ancora di Oppo, I contratti di durata, cit., 171, che, nell’appalto d’opera, la durata è «necessaria, ma non utile» all’interesse delle parti, perché la durata è un fatto che può rilevare ma non incide sulla causa. Cfr. Trib. Agrigento, 12 maggio 2017 n. 805, DeJure. Cfr. diff. Rubino, voce Appalto privato, in NDI, I, 1957, 693 ss. Ovviamente il discorso cambia quando l’appalto ha ad oggetto prestazioni continuative o periodiche ai sensi dell’art. 1677 c.c. (cfr. oltre). 28 Oppo, I contratti di durata, cit., 169. La fissazione del termine finale, di conseguenza, avrebbe senso solo in questi “rapporti di durata”. Per le obbligazioni istantanee il termine finale è il termine massimo entro cui adempiere. Sul punto Russo, Il termine del negozio giuridico, in IGM, Palermo, 1969, 145; e Di Majo, voce Termine (dir. priv.), cit., 200. 29 Insomma, «è nella stessa attività ripetuta o continuativa che consiste la solutio, l’adempimento» (Oppo, I contratti di durata, cit., 156). 30 Oppo, I contratti di durata, cit., 157 (corsivo originale). Cfr. in tal senso, e in consonanza con l’impostazione di Oppo per questo profilo, Osti, voce Contratto, in NDI, IV, Utet, 1957, 497; e ancora Osti, La clausola “rebus sic stantibus” nel suo sviluppo, in RDComm, 1912, 1-5, 46 ss. 31 Sangiorgi, Rapporti di durata e recesso ad nutum, Giuffré, 19. 25

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irretroattività degli effetti della risoluzione che è «la particolarità di maggior rilievo della disciplina del rapporto di durata» dacché conferisce alla categoria una chiara funzione economica e giuridica32. Invero il dibattito sui rapporti di durata, dopo che Oppo aveva posto solide fondamenta, non si è affatto esaurito, soprattutto al di fuori e al di là dell’area dei rapporti di lavoro. La riflessione successiva si è spinta a riconsiderare il perimetro della categoria per ampliare il campo d’applicazione delle norme generali che dispongono l’irretroattività degli effetti della risoluzione ex artt. 1360 comma 2, 1373 comma 2 e 1458 comma 1, ultima parte c.c., in riferimento a fattispecie di dubbia classificazione per le quali non rileverebbe la durata dell’adempimento di un’obbligazione, quanto la funzione negoziale «che viene a realizzarsi continuativamente, secondo il modulo di una utilità scindibile che si distribuisce nel tempo»33. Anche in simili ipotesi vi sarebbe infatti una utilità proporzionale alla durata, pur essendo l’adempimento istantaneo (si pensi all’assicurazione34 o al mutuo). Parimenti si contesta, con argomento a contrario, l’inclusione pacifica di contratti come la locazione o il comodato nei quali l’interesse dedotto in contratto è continuativo ma l’adempimento, secondo alcune ricostruzioni, no35. Sfuggirebbe allora all’opposta tesi, quella tradizionale propugnata proprio da Oppo, che la «prestazione non è l’unico strumento di realizzazione di una funzione contrattuale»36 e che, anche in rapporti ad adempimento istantaneo, può risultare «essenziale il perdurare nel tempo degli effetti giuridici principali nascenti dal contratti e idonei a realizzare in sé stessi la funzione contrattuale»37. Insomma, il connotato della durevolezza che s’attribuisce alla categoria in esame non andrebbe riferito all’adempimento, ma alla continuità degli effetti giuridici e delle situazioni giuridiche considerate38. Un simile ragionamento si potrebbe accettare per alcuni dei contratti citati, dacché la variabilità degli schemi tipologici, basati su interessi duraturi non per forza riconducibili alla prestazione principale la cui esecuzione è idonea cagionare l’effetto estintivo dell’obbligazione che l’adempimento determina39, potrebbe giustificare la critica alla eccessiva rigidità della categoria. E tuttavia tale critica non convince a pieno, tanto più nell’area dei contratti aventi ad oggetto una prestazione di facere. In quest’area, infatti, considerando la “stabilità” e la riconoscibilità delle situazioni giuridiche soggettive che il contratto istituisce (obbligo di lavorare e diritto al corrispettivo), l’interesse continuativo si desume esclusivamente da un’esecuzione programmata o attuata come continuativa o periodica in senso obbligatorio cioè ai fini dell’adempimento. Non è sufficiente l’esecuzione continua

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Oppo, I contratti di durata, in Scritti giuridici, III, Obbligazioni e negozio giuridico, Cedam, 1992, 200 ss., ivi 283, che riproduce i saggi del 1943 e del 1944 citati. 33 Giampiccolo, Comodato, mutuo, in Trattato Grosso-Santoro-Passarelli F., Giuffrè, 1972, 69; e cfr. anche Luminoso, Contratti tipici, cit., 708; e Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006, 1150. 34 Stolfi, Appunti critici sui contratti di durata, in Studi in memoria di Bernardino Scorza, Soc. ed. Foro italiano, 1940, in part. 860 ss. 35 Cfr. però Cass., sez. III, 2 aprile 1996, n. 3019. 36 Gambino, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Giuffrè, 1964, 333 (rist. ESI, 2015). 37 Gambino, L’assicurazione, cit., 336. 38 Cfr. Luminoso, I rapporti di durata, in RDC, 2010, in part. 525 ss., il quale ovviamente così argomenta sul presupposto che anche la definizione codicistica «esecuzione continuativa o periodica» non faccia riferimento esclusivo ai contratti ad effetti obbligatori. 39 De Martini, Obbligazione di durata, cit., 655.

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in via di fatto, non solo in quanto non è essa stessa adempimento ma in quanto, in quelle ipotesi, la prestazione non fa conseguire l’utilità programmata con il contratto ossia non soddisfa perfettamente l’interesse del committente40. Inoltre, la medesima distinzione ha, nell’area del lavoro autonomo, valenza individuativa del tipo41, o comunque della fattispecie; serve cioè a capire quale disciplina sia applicabile, se quella del tipo legale dell’art. 2222 ss. c.c. (applicabile in via analogica anche al lavoro autonomo continuativo) o quella di un altro tipo legale del Libro IV o, eventualmente in aggiunta, la disciplina che diverse disposizioni sparse per l’ordinamento riconnettono alla fattispecie innominata della collaborazione coordinata e continuativa (sul punto cfr. par. succ.). Si può ritenere dunque che, almeno con riferimento al lavoro autonomo, conservi piena validità concettuale e funzionale il criterio posto da Oppo. Dubbi classificatori erano emersi in ordine all’ipotesi della ripetizione di più opera, che secondo alcune tesi avrebbe costituito un tertium genus, a metà strada tra l’adempimento continuativo e quello istantaneo42. Ebbene è preferibile ritenere che la serie dei risultati – adempimenti istantanei – consenta in effetti di dare rilievo al rapporto come unico e continuativo in senso stretto43, ma solamente se sussista un effettivo collegamento tra i risultati stessi che si apprezzi sia dal punto di vista temporale sia dal punto di vista strutturale44. Solo in queste ipotesi di programmata reiterazione potrebbe soddisfarsi un interesse propriamente durevole. Tale collegamento non potrebbe però essere escluso a priori per il solo fatto che le prestazioni abbiano natura diversa45, dovendosi avere riguardo alla effettiva unicità e durevolezza dell’interesse del committente che la catena di prestazioni d’opera mira a soddisfare46. Ne segue che la presenza di accordi separati, siglati di volta in volta e senza che possa altrimenti scorgersi una programmazione più ampia, esclude pure il nesso di continuatività. Partendo da diversi presupposti, una dottrina ha tentato di scardinare la ricostruzione tradizionale per «configurare i contratti riconducibili allo schema della locatio operis come

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Cfr., in riferimento alla nozione di «servizio» caratterizzato da «una certa continuità della prestazione», G. Giacobbe, D. Giacobbe, Il lavoro autonomo. Contratto d’opera (art. 2222-2228 c.c.), in CommSchB, Giuffré, 1995, 23. L’artigiano che realizza a mano le gambe di un tavolo in legno non ha ancora generato nulla di veramente utile per il committente, eppure ha lavorato per molto tempo; così come il portantino che si impegna a trasportare cose fino a un luogo determinato ma si ferma a metà strada (altro discorso è stabilire se e quando il prestatore possa dirsi inadempiente in sede di pre-adempimento; v. oltre). 41 De Nova, Il tipo contrattuale, Cedam, 1974, 107. 42 Barassi, Istituzioni di diritto civile, Giuffrè, 1944, 341. Cfr. anche Devoto, L’obbligazione ad esecuzione continuata, cit., 141. Ritiene invece trattasi di mera modalità di una esecuzione caratterizzata da istantaneità: cfr. Ramponi, La determinazione del tempo nei contratti, cit., 838. Riassume il dibattuto De Martini, Obbligazione di durata, cit., 657. 43 G. Santoro-Passarelli, Il lavoro parasubordinato, cit., 63. Cfr. Cass., 9 ottobre 2014, n. 21927; Cass., 9 luglio 2014 n. 15706; Cass., 28 gennaio 2014, n. 1740; Cass., 16 luglio 2013, n. 17366; Cass., 18 febbraio 1997, n. 1459. 44 In tal senso, con riferimento all’art. 409 n. 3 c.p.c., P. Sandulli, Lavoro autonomo e parasubordinazione, cit., 1419. 45 Cfr. Pedrazzoli, Prestazione d’opera e parasubordinazione (Riflessioni sulla portata sistematica dell’art. 409, n. 3 c.p.c), in RIDL, 1984, I, 506 ss., ivi 520, ma l’A. predilige un’impostazione volta ad accogliere nella definizione dell’art. 409 n. 3 c.p.c. anche rapporti ad esecuzione prolungata. 46 Soddisfatto, in simili ipotesi, è pur sempre l’interesse durevole del committente connotato dal «protrarsi dell’adempimento per una certa durata» affinché «il contratto produca l’effetto voluto dalle parti e soddisfi i bisogni che le mossero a contrarre» (Oppo, I contratti di durata, cit., 156-157).

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rapporti ad esecuzione continuativa in senso tecnico senza dover immaginare che la prestazione abbia ad oggetto la ripetizione di più opera»47. Si afferma a tal riguardo che «già nella fase preparatoria dell’adempimento … il debitore potrebbe risultare inadempiente qualora non abbia osservato le istruzioni impartite dal committente al fine di specificare il contenuto del risultato atteso»48. Ebbene, almeno tre sono i punti deboli di questa ricostruzione. In primo luogo, può dubitarsi dell’esistenza di un “potere di specificazione” in corso di rapporto che presupporrebbe a mio avviso un interesse organizzativo del committente all’adattamento continuativo della prestazione sul modello dell’art. 409 n. 3 c.p.c.49. L’unico “potere” del committente nel contratto d’opera è la richiesta di conformazione della prestazione alle condizioni contrattuali (art. 2224 c.c.). Deve poi essere chiaro che non è in contestazione l’interesse del committente alla corretta esecuzione della prestazione per tutto il tempo del rapporto obbligatorio. E non vale affermare, contro la costruzione tradizionale dei contratti di durata, che il comportamento in vista dell’opus resterebbe in quel caso estraneo al contenuto obbligatorio del rapporto50. È vero infatti che la categoria dei contratti ad adempimento istantaneo contempla un metro di “utilità perfetta”, di talché l’attività prima dell’opus è sempre meno che perfettamente utile (cfr. infatti art. 2228 c.c.). Occorre però considerare che l’obbligato è tenuto a un’esecuzione corretta (1175 c.c.) e in buona fede (1375 c.c.) in conformità alle «condizioni stabilite dal contratto» e con la diligenza richiesta dalla «regola d’arte» (art. 1176 c.c.) (come si desume anche dall’art. 2224 c.c.), elementi che prefigurano, anche nel corso di un “adempimento in fieri” o pre-adempimento rispetto all’obbligazione principale, un fascio composito di ulteriori obbligazioni51. Ad ogni buon conto, le discipline di appalto e contratto d’opera – tipiche locationes operis – predispongono strumenti di reazione caratteristici a tutela del committente anche in questa fase preparatoria dell’adempimento. Se ad esempio un imbianchino garantisce per contratto una presenza minima di 30 ore settimanali, la sua prolungata assenza dal cantiere in violazione di quella promessa condurrà il committente, proprietario dell’immobile, a domandare la risoluzione del contratto se l’inadempimento di tale obbligazione strumentale sia di non scarsa importanza (art. 1455 c.c.; con effetti retroattivi) o intimare l’accelerazione dell’attività per riallineare la prestazione alle condizioni contrattuali entro un «congruo termine» sul modello dell’art. 1454 c.c.52. Ciò, non di certo in quanto il com-

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Marazza, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., 258. In tal senso cfr. anche Proia, Rapporti di lavoro e tipo (considerazioni critiche), 1997, cit., 129 ss. e 140 ss. 48 Marazza Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., 256. 49 Sia consentito il rinvio a F. Ferraro, Riflessioni sul coordinamento ex art. 409 n. 3 c.p.c., in RIDL, in corso di pubblicazione. 50 Come fa Marazza, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., 256, nota 97, il quale riprende l’argomento utilizzato da autorevole dottrina ivi citata per contestare però un’altra distinzione, quella tra obbligazioni di mezzi e di risultato. 51 Cfr. Bianca, Diritto civile, IV, Obbligazione, Giuffrè, 1993, 214, il quale afferma, con riferimento alle obbligazioni ad esecuzione istantanea, che unico è il risultato cui esse tendono «anche se l’adempimento [si legga: conseguimento dell’unico risultato] richieda un certo tempo di svolgimento e una fase preparatoria». 52 Si tratta di termine dell’intimazione (per la corretta esecuzione) non coincidente con il termine negoziale essenziale “per l’adempimento” (entro il quale adempiere) fissato eventualmente dalle parti fin dal principio e di comune accordo: cfr. Di Majo, voce Termine, cit., 200. Cfr. artt. 1183 ss. c.c.

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mittente abbia un interesse durevole all’attività esecutiva, bensì in quanto ha la pretesa, legittimata dall’art. 2224 c.c. (v. anche art. 1662, comma 2, c.c.), di garantirsi presto l’esecuzione conforme al contratto dell’attività necessaria per conseguire il risultato finale cui la prestazione personale dell’artigiano nel suo complesso tende (imbiancare l’intero appartamento). La condizione contrattuale posta rappresenta del resto il parametro per l’adempimento finale e non seguirla mette in pericolo il risultato, tanto che oltre il termine intimato il committente non si riterrà più soddisfatto del lavoro eseguito e avrà titolo per recedere ed essere risarcito53. Ciò non esclude né il rilievo del “lavoro eseguito” ai fini dell’indennizzo in caso di recesso anticipato del committente (art. 2227 c.c.), né che il lavoro eseguito possa risultare, anche se non si raggiunga il risultato, limitatamente utile (art. 2228 c.c.). In tale dinamica trova piena conferma, a mio avviso, la distinzione tra contratti di durata – «ad esecuzione continuativa o periodica» – e contratti ad adempimento istantaneo. Se nei primi ogni atto di esecuzione è già adempimento dell’obbligazione contrattuale – ponendosi semmai il problema di capire come incida, dall’esterno, il termine negoziale – nei secondi, nonostante l’esecuzione della prestazione non sia già adempimento dell’obbligazione principale54, l’esecuzione non conforme al contratto o alla regola d’arte integra un inadempimento di obbligazioni concordate dacché preclude nel tempo la realizzazione dell’interesse patrimoniale del creditore (art. 1174 c.c.), ossia la realizzazione terminativa dell’opera o del servizio. Infine – terzo punto debole – se non si distinguesse come proposto, si dovrebbe ammettere per assurdo o che ogni contratto d’opera è anche di durata poiché non v’è esecuzione consistente in un fare che si esaurisca davvero “istantaneamente”; il predicato dell’istantaneità è in altri termini incompatibile con i profili esecutivi naturali dell’obbligazione di fare (lo stesso non potrebbe dirsi per l’obbligazione di dare). O in alternativa si dovrebbe congegnare una distinzione tra contratti a “breve termine” e “lungo termine”55 che rischia di divenire arbitraria in quanto tracciata sulla base di un dato meramente quantitativo e poco significativo ai nostri fini. La situazione non muta se, invece dell’opera materiale, si focalizza un servizio protratto nel tempo. Un esempio può aiutare a spiegare meglio. Se un giardiniere promette di

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È vero poi che «se il committente non procede all’esecuzione del lavoro secondo le condizioni stabilite nel contratto o a regola d’arte il committente potrà recedere indipendentemente dalla scadenza del termine originariamente pattuito per la consegna dell’opera» (Marazza, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., 258), ma, se prima il committente non abbia dato un «congruo termine» in sede di intimazione ex art. 2224 c.c. e salvo che non chieda la risoluzione quando l’inadempimento non ha scarsa importanza (art. 1453 e 1455 c.c.), il recesso non sarebbe in questo caso regolato dal secondo comma dell’art. 2224 c.c. stesso – come sostiene la dottrina citata – bensì dall’art. 2227 c.c. che impone al committente il versamento di una indennità risarcitoria a copertura della perdita patita, a causa del recesso, dal prestatore d’opera (cfr. anche art. 1671 c.c.). Se la legge impone di attendere un termine, del resto, è proprio perché presuppone che non sia ancora sopraggiunto l’inadempimento o, a maggior ragione, che non sia possibile valutarlo come tale. Perciò il recesso libero ha gli stessi effetti dell’inadempimento: G. Santoro-Passarelli, voce Lavoro autonomo, cit., 719. 54 Del resto nella disciplina del contratto d’opera, il rilievo dell’esecuzione prima dell’adempimento finale emerge con chiarezza dacché: 1) è ammessa la risoluzione parziale (Cass., 2 luglio 2013, n. 16556, cit.); 2) il recesso libero del committente espone questi al pagamento di un risarcimento commisurato anche al «lavoro eseguito»; 3) deve essere compensato anche «il lavoro prestato in relazione all’utilità della parte dell’opera compiuta» (art. 2228 c.c.). 55 Senza riferimenti al termine negoziale, ma al prolungamento dell’attività esecutiva. Cfr. per un tentativo di configurazione organica della categoria per identificare i contratti che necessitano di integrazioni in corso di rapporto per la varietà degli interessi delle parti nel tempo Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Jovene, 1996.

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realizzare a favore di un condominio la potatura degli alberi del giardino condominiale, si obbliga a un servizio unitario verso un corrispettivo, dunque secondo lo schema tipico dell’art. 2222 c.c. La potatura comporterà una serie di attività che si protraggono nel tempo (esecuzione prolungata), per diversi giorni o settimane, ma finché la potatura non sarà ultimata il condominio non sarà perfettamente soddisfatto (adempimento istantaneo). Lo stesso giardiniere potrà essere “scritturato” stabilmente dal condominio per potare gli alberi del giardino alla bisogna. Anche in questo secondo caso, il giardiniere svolgerà determinate attività (esecuzione prolungata), ma le dovrà altresì ripetere tempo per tempo, garantendo non la completa potatura in un momento nel tempo, ma la continua potatura. Da questo assetto negoziale emerge l’interesse durevole del condominio alla potatura, qualitativamente diverso dall’interesse a completare un singolo ciclo di potatura. Si avrà perciò un contratto innominato di lavoro autonomo continuativo (peraltro non necessariamente coordinato, ben potendo mancare in un simile caso «modalità di coordinamento stabilite di comune accordo»). Non v’è ragione allora di dimostrare la continuatività nella locatio operis, per affermare l’esistenza del lavoro continuativo non subordinato, né il servizio ex art. 2222 c.c. equivale a un «facere continuativo»56. Del resto, l’esempio che l’opposta tesi propone, ossia l’appalto con unico servizio rispondente «ad un interesse economicamente e giuridicamente unitario»57, fa riferimento, a ben vedere (ma lo ammette la stessa dottrina che utilizza tale esempio58), a un contratto ad adempimento non istantaneo, bensì già continuativo in quanto avente ad oggetto servizi la cui esecuzione potrebbe considerarsi indipendente non solo dalla realizzazione di un unico risultato finale, ma persino dalla ripetizione di singoli risultati (art. 1677 c.c.). È un appalto «ad esecuzione continuativa» cui, proprio per come si struttura la prestazione, si applicano anche le norme sulla somministrazione (che è contratto tipicamente di durata). Di contro, si può fare l’ipotesi dell’accordo in cui le parti programmino una serie di risultati collegati funzionalmente e non una più generica e uniforme “attività di servizio”. Si pensi al giardiniere chiamato di anno in anno, in corrispondenza della stagione della potatura, per completare ogni anno un ciclo. E allora ci si deve domandare a questo punto, se gli adempimenti, apparentemente separati sotto il profilo contrattuale, si concatenino (e, poi, se sia corretto ipotizzare una prerogativa di coordinamento anche nei rapporti di durata caratterizzati dalla ripetizione di più risultati – opera – collegati). Sul punto ho già detto e non è possibile indugiare oltre. Riassumendo, rientrano nella categoria dei rapporti contrattuali di durata sia rapporti ad “esecuzione continuativa” con prestazione di attività, sia rapporti ad “esecuzione periodica” in cui la continuità attinge proprio alla reiterazione di una serie concatenata di adempimenti uno actu59. Sono escluse invece le diverse forme della locatio operis – in

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Questa sembra essere la principale preoccupazione di Marazza, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., 260-261. Sulla nozione di servizio nel contratto d’opera cfr. Giacobbe, Giacobbe, Il lavoro autonomo, cit., 23 ss. 57 Proia, Rapporti di lavoro e tipo (considerazioni critiche), Giuffrè, 1997, 145. 58 Marazza, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., 259. 59 Ghezzi, Del contratto di agenzia, in Scialoja, Branca (a cura di), Commentario del codice civile, Zanichelli, 1970, 173-174. Suggestiva, a tal riguardo, è la figura, quasi intermedia tra le due richiamate e priva di fortuna nel lessico dottrinale, del “contratto di coordinamento”

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primo luogo il contratto tipico regolato dagli artt. 2222 ss. c.c. – nelle quali l’adempimento si consuma con la consegna dell’opera o con il completamento del servizio60.

3. Il lavoro autonomo di durata e in particolare l’art. 409 n.

3 c.p.c.

Quanto detto ha rilievo nel contesto dei rapporti di lavoro perché, nella sua forma tipica, l’obbligazione assunta dal prestatore d’opera ex art. 2222 c.c. è di risultato e si adempie istantaneamente con la consegna dell’opus perfectum61, mentre l’obbligazione del lavoratore subordinato è sempre (“di mezzi” o meglio) di comportamento e di durata62, perché si adempie tramite atti esecutivi consequenziali, volti alla soddisfazione di un interesse durevole, sui quali insiste il potere direttivo del datore di lavoro63. E tuttavia, come è noto, anche nell’area del lavoro autonomo il rapporto è in alcune ipotesi (anzi sempre più spesso) qualificabile come di durata senza che perciò si dia vita alla soggezione organizzativa tipica della subordinazione64. Ciò che accade quando, nel programma pattuito, le parti non hanno identificato un assorbente risultato solutorio, di talché la prestazione deve continuare simmetricamente all’interesse (durevole) del creditore65. Il riscontro della continuatività comporta anche l’applicazione di specifiche protezioni (cfr. infra e par. finale). Il legame tra attività autonoma e continuatività emerge testualmente in diverse norme, alcune poco note e indagate. Nel ben noto art. 409 n. 3 c.p.c., si parla di prestazioni continuative. Altre consimili espressioni compaiono nell’art. 1742 c.c. in materia di agenzia (dove l’avverbio «stabilmente» lascia presupporre la continuatività dell’attività promozionale dell’agente senza esaurirsi in essa), nell’art. 2209 c.c. sui procuratori-institori parti di un «rapporto continuativo», nell’art. 230-bis c.c. sulla tutela del partecipante all’impresa familiare, nell’art. 230-ter c.c. sulla tutela del convivente che partecipa all’impresa (anche in questo caso si utilizza l’avverbio «stabilmente») e in una serie di altre disposizioni (cfr.

su cui cfr. Salandra, Contratti preparatorii e contratti di coordinamento, in RDComm, 1940, 21 ss., elaborata, peraltro, prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice civile, al fine di spiegare il fenomeno delle obbligazioni di risultato ripetute, senza ricorrere alla nozione di contratto di durata. 60 Restano esclusi, invece, i contratti ad esecuzione differita (art. 1465 comma 2 c.c.), come sottolinea Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Jovene, 1966, 13, nt. 4. Parimenti estranei alla nozione sono i contratti ad esecuzione ripartita, nei quali «la prestazione e l’obbligazione rimangono univoche» (De Martini, Obbligazione di durata, cit., 657). 61 Cfr. però contra Magnani, La riforma dei contratti e del mercato del lavoro nel c.d. Jobs Act. Il Codice dei contratti, in DRI, 4, 2015, 961, nel senso che «l’art. 2222 c.c. … comprende pure i contratti di durata» (par. 6). Affermazione questa solo nei limiti in cui per “2222 c.c.” non si intende il contratto d’opera che, invece, essendo tipicamente ad adempimento istantaneo, non comprende i contratti di durata. 62 Grandi, voce Rapporto di lavoro subordinato, in Enc dir, 1987, 338. 63 Perulli, Subordinazione e autonomia, cit., 28. Cfr. App. Roma, 12 ottobre 2019, n. 3607. 64 Hanno valenza solo ricognitiva affermazioni del tipo «il lavoro autonomo continuativo non è altro che una nuova modalità organizzativa del lavoro dipendente prestato stabilmente a favore di una struttura produttiva» (G. Ferraro, Collaborazioni organizzate dal committente, in RIDL, 1, 2016, 53 ss., ivi 59). 65 Cfr. ancora Oppo, Obbligazioni e negozio giuridico, Cedam, 1992, 220-221; e Messineo, voce Contratto (dir. priv.), in Enc dir, Giuffrè, 1961, 927.

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per esempio l’art. 2399, comma 1, lett. c, sulle cause d’ineleggibilità e di decadenza del componente del collegio sindacale; e l’art. 2409-duodecies, comma 10, lett. c, c.c., sulla ineleggibilità al consiglio di sorveglianza66). Si tratta di espressioni testuali che, pur nella varietà terminologica, potrebbero almeno in parte ricondursi alla categoria dei rapporti contrattuali di durata67. Tra le norme citate, spicca l’art. 409 n. 3 c.p.c. sulle collaborazioni coordinate e continuative. Questa disposizione – processuale per via della collocazione e della funzione primaria ma sostanziale nel contenuto e per l’evoluzione interpretativa che ha subìto68 – è il risultato dell’innesto all’interno del “modello” dell’art. 2222 c.c. di elementi estranei al tipo legale contratto d’opera. Infatti, quel modello è richiamato con ogni evidenza non tanto perché la prestazione è “d’opera” (v. oltre), ma in quanto è resa in modo prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione ovverosia, come afferma oggi la stessa norma (art. 15, l. 22 maggio 2017, n. 81), con auto-organizzazione dell’attività lavorativa. Compaiono però la continuatività e la “collaborazione”, fattori tali da slegare la fattispecie dal tipo legale del Codice civile, senza snaturare del tutto le caratteristiche della prestazione che, se deve essere sempre resa senza vincolo di subordinazione non crea un tertium genus. Sul requisito più complesso e ambiguo, la coordinazione o coordinamento che dir si voglia, non è possibile soffermarsi nello spazio a disposizione (cfr. il par. succ. per alcune riflessioni sul tema). È bene invece esaminare più nel dettaglio il requisito della continuatività. Prima questione da risolvere sulla nozione di continuatività è se la norma processuale intercetti solamente rapporti di durata in senso tecnico – contrassegnati da una maggiore prossimità al lavoro subordinato quanto più sottile si ritenga che sia la differenza in concreto tra potere direttivo e coordinamento – ovvero anche rapporti modellati sulla locatio operis ma che di fatto presentano una esecuzione preparatoria continuativa. La questione è stata a lungo dubbia tanto per la giurisprudenza69, quanto per la dottrina. Secondo una parte della dottrina, avrebbe rilievo la “continuità materiale” della prestazione anche quando le parti abbiano concordato un unico opus determinato70. In coerenza

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Norme nelle quali è palese il riferimento al lavoro autonomo: Cass., sez. I, 11 luglio 2008 n. 19235. Si legga oltre. Come rilevava lo stesso Oppo, I contratti di durata, cit., più volte citato sarebbe meglio forse parlare, in senso tecnico, di contratti di durata, espressione meno compromettente di “rapporti obbligatori di durata” (che non esclude i negozi unilaterali) o di “rapporti di durata” (che non esclude le relazioni familiari o quelle nel campo dei rapporti reali). Si tratta inoltre di definizione meglio orientata a segnalare che la durata è un elemento causale ex art. 1325 n. 2 c.c. Tuttavia, è ammissibile il ricorso, per comodità, alla formula più breve e riconoscibile. 68 E del resto Vitucci, Parte generale e parte speciale nella disciplina dei contratti, Contratto e impresa, 1988, 809, chiarisce, sotto il profilo metodologico, come sia poco rilevante la collocazione della norma. 69 Cfr. per la tesi esclusiva Cass., 9 febbraio 2009, n. 3113; Cass., 30 dicembre 1999, n. 14722; e soprattutto Cass., 26 febbraio 1996, n. 1495; e Cass., 9 settembre 1995, n. 9550. Contra, a favore della tesi inclusiva, cfr. Cass., 30 dicembre 1999, n. 14722; Cass., 24 luglio 1998, n. 7288. 70 Pedrazzoli, Prestazione d’opera e parasubordinazione (Riflessioni sulla portata sistematica dell’art. 409, n. 3 c.p.c), in RIDL, 1984, I, 506. Cfr. anche Ichino, Subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, Giuffrè, 1989, 103-104, il quale utilizza anche l’argomento pratico per cui, essendo l’art. 409 n. 3 c.p.c. norma processuale, la continuità in senso tecnico non sarebbe «mai di immediata percezione». E tuttavia la competenza si incardina in base alla domanda, di talché tale “complessa istruttoria” seguirebbe solo a una eventuale, rarissima, eccezione d’incompetenza sull’insussistenza di tale presupposto del n. 3 (in genere l’eccezione di incompetenza è fatta valere in relazione all’assenza della prevalente personalità e quindi al carattere imprenditoriale dell’attività). Si potrebbe poi 67

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con tale assunto, si esclude la ricorrenza del requisito della “continuatività” solo nei casi di prestazioni “occasionali”71 ovvero ad “esecuzione istantanea” (sul carattere improprio del termine v. supra). Si valorizza a tal fine sia l’intento protettivo del legislatore, da estendere il più possibile, sia il riferimento alla «prestazione di opera»72. V’è da dire, a tale ultimo proposito, che il termine “prestazione d’opera” (con “opera” al singolare) ricorre in altre disposizioni di legge per identificare, senza ombra di dubbio, prestazioni di lavoro subordinato (art. 410 comma 6 n. 2, 412-quater comma 4, 413, 659, 815 comma 1 n. 5 c.p.c., in quest’ultima norma con precisazione che l’opera è «retribuita», come anche nell’art. 2399 comma 1 lett c, e nell’art. 2409-duodecies, comma 10, lett. c, c.c.). Mentre in altri passaggi, come nell’art. 633, comma 1 n. 2 c.p.c. o nell’art. 2464 c.c., il termine “opera” sembrerebbe utilizzato nel senso generico di lavoro. È bene chiarire peraltro che, a dispetto di una diffusa convinzione, l’indicazione «prestazione d’opera» non ricalca perfettamente la figura iuris degli art. 2222 ss. c.c. dove il contratto – non la prestazione – è «d’opera» in quanto funzionale alla produzione di un opus in senso materiale o di un servizio immateriale, ma la prestazione è pur sempre “lavoro eseguito” (cfr. art. 2227 c.c., ma anche art. 2225 c.c.)73. Alla luce di ciò, non sembra decisiva l’indicazione nell’art. 409 n. c.p.c. per cui la prestazione è “d’opera” e non “di lavoro” (espressione questa presente invece nell’art. 2, comma 1, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, forse nel tentativo di rimarcare ulteriormente una distinzione invero implicita nel requisito di continuatività)74. L’introduzione del tipo legale del lavoro a progetto aveva rinfocolato il dibattito. Sul tema non è concesso dilungarsi, anche perché la disciplina del lavoro a progetto è stata, come è noto, abrogata. Basti dire che i contrasti sul tema del “tempo” (rectius della durata) nel lavoro a progetto erano alimentati anche da contraddizioni interne alla disciplina legale: il progetto si innestava sulla collaborazione continuativa – che è rapporto contrattuale di durata – ma evocava l’adempimento istantaneo dacché il progetto stesso era oggetto del contratto e la sua realizzazione estingueva il rapporto ai sensi dell’art. 67 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 27675.

obiettare che il senso dell’estensione della disciplina processuale e quindi dell’art. 2113 c.c. è dovuto alla prossimità concreta con il lavoro subordinato, che non si verifica in caso di obbligazione ad adempimento istantaneo anche se a esecuzione prolungata. 71 Cass., 19 aprile 2002, n. 5698. Sull’accezione del termine “occasionale” cfr. oltre. 72 Cfr. Ballestrero, L’ambigua nozione di lavoro parasubordinato, in LD, 1987, 41. In alternativa si ritiene che il termine circoscriva il caso della “prestazione d’opera ripetuta”, come ritiene Gregorio, La nozione di coordinamento, cit., 190-191, il quale sembra negare che rientrino nell’art. 409 n. 3 c.p.c. – ma a questo punto anche nel lavoro autonomo – le prestazioni di attività continuativa. Cfr. anche P. Sandulli, Lavoro autonomo e parasubordinazione, in Rescigno (a cura di) Trattato di diritto privato, Utet, 1986, 1417 s. Sulla questione si leggano anche Ghezzi, I rapporti di diritto privato soggetti al nuovo rito del lavoro, in RGL, 1974, I, 91 ss., ivi 99 ss.; e Pessi, Considerazioni sul rapporto di lavoro parasubordinato: individuazione di una fattispecie, in DL, 1980, 361 ss. 73 Insomma, l’opera intesa come “lavoro” è qualcosa di diverso dall’opera intesa come risultato materiale e nominata dall’art. 2222 c.c. accanto al servizio; poi, sulla distinzione tra opera e servizio nell’art. 1655 c.c. si leggano Rubino, Appalto privato, in NDI, Utet, 1957, 691; e Rescigno, voce Appalto (diritto privato), in EGT, 1988, 4. 74 E per la stessa ragione non si può condividere l’opinione di autorevole dottrina secondo la quale l’art. 409 n. 3 c.p.c, rivelerebbe una contraddizione «nel linguaggio tecnico della scienza giuridica» (Pedrazzoli, voce Opera, cit., 476). 75 G. Santoro-Passarelli, voce Lavoro a progetto, in ED, IV, Giuffrè, 2011, 667 ss., ivi 671; Ghera, Sul lavoro a progetto, in RIDL, 2005, I, 221 ss. Cfr. anche Ghera, Il lavoro autonomo nella riforma del diritto del lavoro, in RIDL, 2014, n. 4, I, 501 ss., 510-511; G. SantoroPassarelli, Prime chiose alla disciplina del lavoro a progetto, in ADL, 2004, 27 ss., ivi 31-32; Proia, Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, in ADL, 2003, 665 ss., 672. Tanto è vero che secondo Perulli, Subordinazione e autonomia, cit., 101; e Perulli, Riflessioni sul contratto di lavoro a progetto. Autonomia e subordinazione, il progetto, la forma, il compenso, la conversione del

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Ad ogni modo l’impostazione che include nell’art. 409 n. 3 c.p.c. anche i contratti ad adempimento istantaneo di più “lunga durata” non pare condivisibile, dacché sgancia il ragionamento dalla continuatività come presupposto del rapporto di durata, per connetterlo a una “continuità” intesa come mera persistenza nel tempo dell’attività esecutiva, pur se la stessa attività è preparatoria dell’opus76. In questo modo si evidenzia, da una parte, una condizione di incertezza circa la quantità di tempo che identifica la “esecuzione prolungata”. Dall’altra, non si considera che il coordinamento esprime un interesse organizzativo che presuppone l’adempimento continuativo rinnovato tempo per tempo (par. succ.). La continuatività dell’art. 409 n. 3 c.p.c. è allora da intendersi nel senso più rigoroso, quale carattere proprio di una prestazione satisfattiva di interesse durevoli77. Sono da estromettere le prestazioni ad esecuzione prolungata in vista del risultato, nelle quali è «il tempo ad essere commisurato alla prestazione e non viceversa»78 e da includere le prestazioni di attività accanto a quelle reiterate corrispondenti a una sequenza interconnessa di opera79.

contratto e la questione della presunzione, in G. Santoro-Passarelli, Pellacani (a cura di), Subordinazione e lavoro a progetto, Utet, 2009, 107 ss., si sarebbe trattato solamente di un «revirement sistematico». A mio avviso il regime sanzionatorio del lavoro a progetto aveva reso illecito, salvo eccezioni, il contratto di lavoro autonomo coordinato avente ad oggetto un’obbligazione continuativa “di comportamento”, sanzionato anche se genuino, per la mera mancanza del progetto, con la conversione imperativa dell’art. 69 comma 1, d.lgs. 276/2003. Era invece consentita la reiterazione di più risultati entro il termine pattuito al fine di consentire la realizzazione del progetto complessivo del committente. Continuava a rimanere estranea all’ambito del lavoro a progetto l’obbligazione ad adempimento istantaneo ed esecuzione prolungata. Ciò che consente di spiegare come si fossero coniugate in una fattispecie tipica la caratteristica durevolezza della collaborazione coordinata e un regime dell’estinzione modellato sull’obbligazione ex art. 2222 c.c. 76 Aderisce a questa impostazione, pur con qualche riserva, Perulli, Il lavoro autonomo, cit., 221. 77 Cfr. Cass., 17 settembre 2008, n. 23744, che trae da tale qualificazione l’ulteriore postulato secondo il quale nel caso delle collaborazioni si assiste a uno “svolgimento di prestazioni lavorative idoneo ad incrementare scienza ed esperienza del prestatore (ossia le sue capacità professionali), con la conseguenza che anche questi ... può vantare, nei confronti del committente ... un diritto soggettivo alla effettiva esecuzione delle prestazioni, nonché, in caso di lesione, il diritto al risarcimento del danno da perdita o da mancato incremento di capacità di lavoro o da deterioramento dell’immagine professionale”. Sulla qualificazione quali rapporti di durata cfr. anche Cass., sez. civ. II, 22 giugno 1996, n. 5790. 78 G. Santoro-Passarelli, Il lavoro parasubordinato, cit., 61. 79 In ultimo torna sul punto G. Santoro-Passarelli, Civiltà giuridica e trasformazioni sociali nel diritto del lavoro, in DRI, 2019, 2, 417 ss. Le collaborazioni coordinate e continuative trasfigurano allora sul piano dell’obbligazione di facere, l’ipotesi dell’art. 1677 c.c. in materia di appalto avente per oggetto prestazioni continuative o periodiche di servizi, al quale s’applicano, in quanto compatibili, sia le norme sull’appalto sia quelle relative al contratto di somministrazione ex art. 1559 ss. c.c. Si nota perciò una differenza tra l’appalto e il contratto d’opera nell’approccio regolativo. Il legislatore infatti chiarisce quali norme siano applicabili all’appalto con obbligazione continuativa in senso proprio, distinguendolo espressamente dal modello dell’art. 1655 c.c. che è ad adempimento istantaneo; e non è un caso che il riferimento sia alla disciplina della somministrazione che è contratto tipicamente di durata. Il Codice tace invece sulle norme applicabili al lavoro autonomo continuativo (“atipico” ex art. 1322, comma 2, c.c.), al quale le disposizioni degli art. 2222 ss. c.c. s’applicano tutt’al più per analogia, con esclusione dunque di quelle regole strettamente connesse al carattere istantaneo dell’adempimento del prestatore perché richiamano, pur se implicitamente, il compimento dell’opera o la realizzazione del singolo servizio. Non è applicabile, ad esempio, l’art. 2224 c.c. che presuppone un termine per l’adempimento e, quindi, un’attesa di un adempimento di là da venire. Allo stesso modo non sembra possibile applicare ai contratti di durata come le collaborazioni ex art. 409 n. 3 c.p.c. l’art. 2227 c.c., dato che l’indennizzo copre il mancato guadagno, a differenza di quanto previsto dall’art. 1373 comma 2 c.c. in materia di contratti a esecuzione continuata o periodica. Invero l’unica norma che parrebbe adattabile ai rapporti di lavoro autonomo di durata è, ancorché parzialmente, l’art. 2225 c.c. Altro discorso è se alcune norme sull’appalto siano applicabili in via analogica al contratto d’opera: sulla questione cfr. Perulli, Il lavoro autonomo, cit., 89 ss.

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Del resto, sono per definizione rapporti contrattuali di durata l’agenzia80 e la rappresentanza commerciale81, nominando i quali la norma esordisce82. A tal riguardo, è bene chiarire che la nozione di continuatività non si sovrappone perfettamente con la nozione di stabilità utilizzata in materia di contratto d’agenzia dall’art. 1742 c.c., ancorché l’agenzia configuri un rapporto contrattuale di durata e sia perciò nominata nell’art. 409 n. 3 c.p.c.83. La giurisprudenza distingue infatti la figura “atipica”84 del procacciatore d’affari dall’agente anche quando la prestazione del primo ha tutti i caratteri dell’art. 409 n. 3 c.p.c.85. Si afferma a tal riguardo che «la prestazione dell’agente è … stabile, nel senso che egli ha l’obbligo di svolgere l’attività di promozione dei contratti in favore del preponente; la prestazione del procacciatore è viceversa occasionale, nel senso che dipende esclusivamente dalla sua libera iniziativa»86. La stabile assunzione dell’incarico, nel caso dell’agenzia (art. 1742 c.c.), fa riferimento quindi anche all’abitualità e alla professionalità dell’attività promozionale. Invece, ai sensi della norma processuale, la nozione di continuatività delle prestazioni – dell’agente come, potenzialmente, del procacciatore – prescinde dall’impiego duraturo e tendenzialmente esclusivo della propria auto-organizzazione produttiva a favore del committente, attenendo solamente al modo della soddisfazione temporale dell’interesse del committente. Si noti inoltre che nell’art. 230-ter c.c. l’avverbio «stabilmente» descrive la collaborazione del convivente nell’impresa dell’altro convivente in modo funzionalmente identico a come l’art. 230-bis c.c. («familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro») contempla la continuità dell’apporto all’impresa familiare87. Neppure in queste ipotesi la fissità dell’apporto personale all’economia familiare e la continuatività in senso proprio delle prestazioni coincidono perfettamente. Emerge infatti un approccio regolativo alternativo, volto a valorizzare la “non occasionalità” intesa atecnicamente come costanza degli interventi di supporto al fine di un coinvolgimento duraturo (partecipazione) negli “affari di famiglia”. Del resto, il familiare “lavoratore” «ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato». Ne segue che potrebbero essere estromessi dal campo d’applicazione della protezione minima accordata al partecipante

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Ghezzi, Dell’agenzia, cit., 3 e 16-17; cfr. Saracini, Toffoletto, Il contratto di agenzia, Giuffrè, 2014, 229 ss. Possono essere qualificati come rapporti di durata, a seconda di come sia congegnata l’obbligazione di fare, anche il mandato ex art. 1722 n. 4 c.c., il trasporto e il contratto d’opera intellettuale. 81 Si legga Lambertucci, I contratti di lavoro autonomo ad esecuzione continuativa. Agenzia e rappresentanza commerciale, in G. Santoro-Passarelli (a cura di), Diritto e Processo del lavoro. Privato e Pubblico, Utet, 2020, in corso di pubblicazione. Cfr. l. 173 del 2005. 82 P. Sandulli, In tema di collaborazione autonoma continuativa e coordinata, in DL, 1982, n. 1, 247 ss. 83 Lo risolve invece nella «continuazione indefinita, volta a soddisfare un bisogno durevole» Ghezzi, Dell’agenzia, cit., 3. 84 Cons. Stato, sez. V, 27 marzo 2013, n. 1795. 85 Nel senso che il lavoro del procacciatore può essere continuativo in ossequio alla norma processuale cfr. Trib. Modena, 5 novembre 2019, n. 293; sul carattere occasionale dell’attività del procacciatore d’affari cfr. Trib. Roma, sez. XI, 31 gennaio 2017 n. 1761; e Trib. Roma 8 giugno 2020, n. 3053, in DeJure. 86 App. Roma, 20 gennaio 2020, n. 53; App. Roma, 9 febbraio 2018, n. 448; Cass., 23 luglio 2012, n. 12776; Cass., 8 agosto 1998, n. 7799. 87 Cfr. infatti Cass., 23 settembre 2019, n. 23584.

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quei rapporti di durata giudicati “occasionali” perché caratterizzati da un limitatissimo tempo esecutivo o in quanto assolutamente sporadici. Invece, nelle norme già citate sull’ineleggibilità di figure del diritto societario (artt. 2399, comma 1, lett c, e art. 2409-duodecies, comma 10, lett. c, c.c.), la locuzione «rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d’opera retribuita» sembrerebbe riferita al rapporto che non si esaurisce nel conseguimento una tantum dell’opus, ma appunto si concreti in un’attività o in una sequenza di incarichi tale che si possa evincere uno stabile intreccio di interessi. Si giustifica così l’esclusione dal novero dei soggetti eleggibili in ragione della compromissione dell’indipendenza di giudizio nell’esercizio di funzioni di controllo88. Riguarda quindi sia rapporti di durata, sia rapporti ad adempimento istantaneo reiterati di volta in volta senza alcun nesso programmatico di continuatività.

4. Segue. Il collegamento funzionale nei rapporti di durata quale manifestazione dell’interesse (organizzativo) al coordinamento della prestazione.

È utile a questo punto verificare quali rapporti di durata possano essere coordinati e, quindi, quale sia il legame interno tra i requisiti dell’art. 409 n. 3 c.p.c. Ciò, nella consapevolezza del fatto che coordinamento e continuatività sono elementi distinti e che si può configurare un lavoro autonomo continuativo non coordinato, ancorché, come si avrà modo di dire, la durevolezza degli interessi si abbini spesso a esigenze di collegamento funzionale tra prestazione di lavoro e organizzazione. A tal riguardo è bene chiarire che le modalità, in specie luogo e tempo, dell’esecuzione, non indifferenti al committente del lavoro coordinato (v. oltre), sono meno rilevanti per il committente dell’opera ex art. 2222 ss. c.c.89. Ciò in quanto se c’è adempimento solo con la consegna del risultato, anche a fronte di una esecuzione prolungata, prevale l’interesse finale entro i cui confini si distende l’ambizione programmatica delle parti: il committente aspira al conseguimento dell’opus (opera o servizio) rispetto ai quali il lavoro è attività preparatoria. Fermo che il contratto può dettare specifiche condizioni, non sussiste un interesse qualificato a far rispettare per tutto l’arco dell’esecuzione determinati tempi e luo-

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Cfr. Cass., sez. I, 9 maggio 2008, n. 11554; e Trib. Padova, sez. II, 3 marzo 2017, n. 597, secondo il quale «la causa di ineleggibilità per i sindaci di s.p.a., ex art. 2399 c.c., relativa all’esistenza di un rapporto continuativo di prestazione d’opera retribuita con la società, non sussiste soltanto nell’ipotesi di un rapporto contrattuale di durata, formalmente stipulato fra il professionista e la società, ma anche nel caso di una pluralità di incarichi che, sebbene formalmente distinti, configurino uno stabile legame di clientela». Mi pare che, anche nel secondo caso, si potrebbe teoricamente riscontrare un rapporto contrattuale di durata ancorché non concordato come tale fin dal principio. Semmai occorre precisare, come fa Cass., sez. I, 28 marzo 2013, n. 7902, che quella stabilità difetta in caso di prestazioni occasionali o saltuarie. 89 Cfr. in tal senso Proia, Riflessioni sulla nozione di coordinazione e sul rapporto tra il progetto, il programma e la fase, in G. SantoroPassarelli, Pellacani (a cura di), Subordinazione e lavoro a progetto, cit., 141 ss., 145.

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ghi di lavoro90, ossia non trova riscontro l’interesse organizzativo che si colloca nel nucleo del coordinamento ex art. 409 n. 3 c.p.c. Ben inteso, non si vuol dire che il committente nelle locationes operis perda ogni interesse a controllare, in corso d’opera, la conformità al contratto e alla regola d’arte dell’attività lavorativa91. Anche l’attività esecutiva del prestatore nel contratto d’opera entra nel rapporto obbligatorio: il prestatore si impegna a seguire regole contrattuali e tecniche, e il committente ha il potere di controllare e verificare la prestazione per tutelarsi contro le deviazioni operative che mettono in discussione l’ottenimento dell’opus ossia l’adempimento (v. supra). Tuttavia, come ho avuto modo di spiegare, l’attività eseguita dal prestatore non estingue di per sé l’obbligazione principale in quanto non v’è ancora adempimento. E allora la prestazione diretta a un risultato dalla cui realizzazione dipende la soluzione dell’obbligazione, sarà definita integralmente in sede consensuale e non più soggetta a ingerenze92 poiché, altrimenti, sarebbe difficile imputare al prestatore il mancato raggiungimento del risultato medesimo93. In altre parole, la genericità del contratto d’opera non ha rimedi diversi dal richiamo all’adempimento secondo le condizioni fissate dai paciscenti e alla «regola d’arte» del prestatore. Non si condivide allora la critica secondo la quale l’esposta costruzione concettuale dei rapporti di durata, volta a estromettere quelli ad esecuzione prolungata, si fondi in buona sostanza sull’idea per cui, se le parti pianificano un risultato finale, il committente si disinteresserà della sua realizzazione in executivis94. L’elemento unificante della categoria in esame consiste invece nel riscontro in positivo dell’interesse durevole che la prestazione mira a soddisfare dalla prospettiva dell’adempimento, durevolezza in ragione della quale il coordinamento si può apprezzare. Si vuole dire che le verifiche dell’esecuzione dell’opera da parte del committente non implicano coordinamento in quanto non consentono il mantenimento di un costante collegamento funzionale. Detto “collegamento” funzionale

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In tal senso anche Persiani, Autonomia, subordinazione e coordinamento nei recenti modelli di collaborazione lavorativa, in DL, 1998, 203 ss. ivi 210. Avrà tutt’al più interesse a fissare per contratto o “in autotutela” ex art. 2224 c.c. un termine per l’adempimento, ossia un termine finale entro il quale riallinearsi alle condizioni contrattuali ai fini della consegna dell’opera (sulle diverse accezioni del concetto di tempo in relazione all’adempimento delle obbligazioni contrattuali cfr. Di Majo, voce Termine (dir. priv.), in ED, XLIV, Giuffrè, 1992; e Id., Le modalità dell’obbligazione, Zanichelli, 1986, 618-619, e 630 ss.). E se il committente decide di recedere, perché perde l’interesse a conseguire l’opera e in assenza di violazioni del contratto da parte del prestatore, deve indennizzare quest’ultimo per una somma comprensiva di spese, lavoro eseguito e mancato guadagno (2227 c.c.). Cfr. però, quanto afferma, in senso non condivisibile, G. Giacobbe, D. Giacobbe, Il lavoro autonomo. Contratto d’opera (art. 2222-2228 c.c.), in CommSchB, Giuffré, 1995, 122, in riferimento al contenuto del potere di controllo che si concreterebbe nella «possibilità [per il committente] di scegliere i tempi e i modi dell’esecuzione». Infatti, tempi e modi dell’esecuzione sono, come conferma lo stesso art. 2224 c.c., disciplinati dal contratto o affidati alla regola d’arte che il prestatore d’opera deve conoscere. Per la stessa ragione non sembra coerente affermare che, in linea generale, il prestatore ex art. 2222 c.c. deve attenersi alle «istruzioni integrative» o «correttive», se poi si precisa (correttamente) che «le une e le altre non sono strettamente necessarie potendo essere apportate liberamente dal prestatore d’opera» (Perulli, Il lavoro autonomo, cit., 255). Non si tratta quindi di ordini vincolanti ma di mere dichiarazioni recettizie: cfr. Panuccio, Le dichiarazioni non negoziali di volontà, Giuffrè, 1966; e Id., Obbligazioni generiche e scelta del creditore, Giuffrè, 1972. 91 Questa la critica di Marazza, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., 253 ss. 92 Gregorio, La nozione di coordinamento, cit., 192. 93 Cfr. Marazza, Collaborazioni organizzate e subordinazione: il problema del limite (qualitativo) di intensificazione del potere di istruzione, in WP D’Antona, It., n. 315/2016, 7 ss. 94 In tal senso cfr. la critica di Marazza, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., 253 ss.

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all’incastro del lavoro nell’organizzazione, nel contratto d’opera è affidato una volta per tutte al contratto e riferito esclusivamente all’esito finale del lavoro (non alla esecuzione della prestazione). Perciò nel contratto d’opera difetta l’interesse all’inserimento organizzativo quale interesse durevole. Invece, l’attività esecutiva del lavoratore coordinato può essere immediatamente satisfattiva del primario interesse dedotto in contratto in quanto adempimento nel tempo dell’obbligazione assunta dal prestatore. Il collegamento si deve poi “attualizzare” in corso di rapporto per consentire il suo costante inserimento95. Infatti, è vero che anche il lavoro coordinato presuppone una programmazione consensuale delle «modalità di coordinamento» che intessono i legami tra l’organizzazione e la prestazione che vi si inserisce (art. 15, l. 81 del 2017), quindi si può presumere che il riferimento sia innanzitutto a tempo e luogo. E tuttavia, dovendosi valutare l’interesse che presiede all’esatto adempimento attimo dopo attimo della prestazione continuativa, è necessario concepire una facoltà “dinamica” spettante al committente di specificare in corso di rapporto i legami già concordati. In ciò si evidenzia l’interesse organizzativo che alimenta il richiamo della giurisprudenza a un “collegamento funzionale” che sia anche continuativo96. Sorge infine un dubbio relativo alla configurabilità del coordinamento in quei rapporti la cui durevolezza abbia tratto dalla ripetizione di più opera, ma in cui difetti una programmazione iniziale di tale ripetizione. Si tratta di moduli negoziali piuttosto frequenti nella – o comunque congeniali al funzionamento della – platform economy. È vero che simili rapporti si prestano a letture ambivalenti perché combinano due interessi diversi: l’interesse ad ogni risultato corrispondente a una esigenza istantaneamente soddisfatta con il suo compimento (l’unico riscontrabile al momento della conclusione di ciascun contratto, dato che ci si chiede se vi possa essere coordinamento senza programmazione della reiterazione); e l’interesse propriamente durevole, percepibile solamente ex post, in quanto e se la soddisfazione del committente derivi dalla ripetizione dei risultati/ opera. Ebbene, osservando la dinamica di simili rapporti, si può ritenere che la mera verifica dell’attività esecutiva ceda all’interesse al coordinamento complessivo dell’attività ogniqualvolta sia dedotto in contratto un affidamento sull’adempimento di ciascun risultato successivo e quindi un interesse concepito – attraverso una, seppur minima, programmazione – come durevole. In altre parole, se dall’accordo iniziale o dalle sue revisioni successive non si desume, anche sulla base del comportamento tenuto dalle parti (art. 1362, comma 2 c.c.), una volontà programmatica di pianificare la serie dei risultati, la prerogativa del coordinamento perde di senso poiché la funzione organizzativa che il lavoro coordinato esprime presuppone che l’attività esecutiva già soddisfi, nel corso di tutto il rapporto nel suo complesso, l’interesse durevole del committente. Tale ricostruzione trova conferma nella riformulazione dell’art. 409 n. 3 c.p.c., atteso che le modalità di coordinamento devo-

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Resta però fermo che il potere organizzativo non può esplicarsi in un semplice coordinamento compatibile con altri tipi di rapporto, come ricorda Cass., 8 agosto 2008, n. 21483. 96 Si chiarirà meglio tale punto oltre. Cfr. Cass., 25 novembre 2002 n. 16582; e più di recente Trib. Catania, 17 aprile 2019, n. 1850.

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no essere «stabilite di comune accordo tra le parti» e, quindi, devono far riferimento a una obbligazione “formattata” fin dal principio come continuativa in senso tecnico97. Però riscontrare la rilevanza dell’interesse organizzativo nel campo del lavoro coordinato non equivale ad affermare che il committente sia il titolare naturale di un “potere” di coordinamento98. La nozione di potere non pare appropriata dacché implica una condizione di supremazia e una correlativa situazione di soggezione, che si risolve nel sottostare alla volontà altrui99 e, inoltre, perché il potere in senso proprio si esprime nella modifica delle condizioni contrattuali e non solamente nella loro specificazione entro i confini originari100. Pur volendo attingere al concetto di potere, deve precisarsi appunto che tale “potere” riguarda la specificazione delle modalità già pattuite e non modalità nuove. Peraltro, attribuire al creditore della prestazione continuativa un potere di individuazione e modifica tempo per tempo delle modalità esecutive è sia contro la definizione di coordinamento nel nuovo art. 409 n. 3 c.p.c. (art. 15, l. 81/2017), sia contro l’art. 3, comma 1, l. 81/2017 che detta un divieto generalizzato di concordare clausole che attribuiscano lo ius variandi al committente del lavoro autonomo.

5. La continuatività e il suo contrario: la nozione

anfibologica di occasionalità tra legge e giurisprudenza. Una volta collocato tra i rapporti di durata programmati come tali il lavoro coordinato e continuativo, è bene chiarire che pare imprecisa, o comunque da rimeditare, l’affermazione ricorrente in giurisprudenza e ripresa anche in dottrina secondo cui la continuatività nell’art. 409 n. 3 c.p.c. – e nelle altre norme dove compare quale attributo del lavoro au-

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Secondo G. Santoro-Passarelli, Il lavoro parasubordinato, cit., 64, non rileva che la prestazione tecnicamente continuativa sia programmata come tale, ma è sufficiente che sia svolta di fatto – e quindi osservabile ex post – come attività diretta alla soddisfazione di un interesse durevole. Parz. diff., nel senso che la durata è solo contrattualmente voluta, Cessari, Sul campo soggettivo di applicazione del nuovo rito del lavoro, in DL, 1974, n. 16, I, 14 ss., ivi 17. Non si condivide pertanto che il lavoratore continuativo «si potrebbe dire, coordinato, posta la correlazione tra i due termini» (Magnani, Il contratto di lavoro subordinato, in WP D’Antona, It., n. 360/2018, 7). 98 Nel senso che il potere «è un elemento caratteristico e naturale quando esso [il lavoro] è prestato continuativamente» cfr. Proia, Il lavoro autonomo continuativo e le collaborazioni “organizzate” tra esigenze di tutela e contrasto agli abusi, in Liber Amicorum. Giuseppe Santoro-Passarelli. Giurista della contemporaneità, Giappichelli, 2018, 511. Cfr., anche di recente e nonostante la modifica dell’art. 15 della l. 81 del 2017, Voza, La modifica dell’art. 409, n. 3, c.p.c., nel disegno di legge sul lavoro autonomo, in WP D’Antona, It., n. 318/2016, 7; e Pisani, La nozione legale di coordinamento introdotta dall’articolo 15 della legge n. 81/2017, in DRI, 3, 2018, 823 ss., ivi in part. 833, per un tentativo di coonestare potere di coordinamento e logica auto-organizzativa della definizione di collaborazione coordinata ex art. 409 n. 3 c.p.c. Cfr. il giudizio critico sulla ridefinizione del lavoro coordinato di Persiani, Note sulla vicenda giudiziaria dei riders, in LDE, 2020, 1, 6, il quale ritiene che la disposizione aggiunta nel 2017 all’art. 409 n. 3 c.p.c. sia stata formulata grossolanamente. Cfr., nel senso qui condiviso, G. Santoro-Passarelli, Civiltà giuridica e trasformazioni sociali nel diritto del lavoro, in DRI, 2019, 417 ss., 425-427, il quale sostiene coerentemente che l’art. 15, l. 81/2017, sia una norma interpretativa. In termini analoghi, ancorché ritenendo che l’art. 15 della l. 18 del 2017 abbia modificato la nozione di coordinamento, cfr. Perulli, Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile, cit., 61: «non è più possibile qualificare in termini di “potere” la prerogativa del coordinamento, che muta natura giuridica per rifluire compiutamente, e senza residui di ambiguità interpretativa, in una programmazione negoziale assolutamente consensuale». 99 Lener, voce Potere (diritto privato), in Enc. Dir., XXXIV, 1985. 100 Sulla distinzione cfr. Falzea, Efficacia giuridica, in Enc. dir., 1965, 496-497.

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tonomo – sarebbe sinonimo di “non occasionalità”101. L’occasionalità è del resto attributo del lavoro di incerta valenza, e ciononostante capace di imporsi, in particolare nei ragionamenti sulle fattispecie di lavoro autonomo, come connotato giuridico102. Si deve innanzitutto chiarire che, se è vero da una parte che il legislatore sembrerebbe aver utilizzato in un caso isolato l’espressione «non occasionale» nel senso di continuativo (cfr. art. 1, comma 3, l. 3 aprile 2001, n. 142) con evidente riferimento alle collaborazioni processuali103, è altrettanto vero che la medesima nozione è comparsa nell’ordinamento a più riprese con finalità molto diversificate e che, per tale ragione, non sembra affatto codificata come si potrebbe dedurre dall’uso esplicativo che ne fa la dottrina104. Caratteri di “occasionalità” della prestazione hanno rilievo nell’art. 3, comma 2, l. 23 marzo 1981, n. 91 che delinea indirettamente la nozione di lavoro subordinato dell’atleta prevedendo le condizioni alle quali la prestazione dell’atleta è di lavoro autonomo (lett. a, b, c)105, ma nell’ambito della terza di queste ipotesi la prestazione può avere «carattere continuativo». Ancora più evidente era l’utilizzo promiscuo del termine negli articoli abrogati 1, comma 5, l. 18 aprile 1962, n. 230, e 1, comma 4, d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, dove l’occasionalità designava il contratto a tempo determinato di brevissima durata esentato dal vincolo di forma, con riferimento non al rapporto di durata – da dare per scontato, trattandosi di lavoro subordinato – ma alla durata del rapporto (cfr. par. 1). L’ambiguità del termine occasionale si evidenzia anche nell’abrogata disciplina delle prestazioni di lavoro occasionale ex art. 61, comma 2, d.lgs. n. 276/2003. Si trattava infatti di rapporti inclusi, per via della loro scarsa rilevanza sia cronologica sia economica (riconosciuta grazie a indici peraltro per nulla significativi della qualità dell’interesse del committente nel tempo), tra le eccezioni alla disciplina del lavoro a progetto, dunque per definizione rapporti di collaborazione coordinata e continuativa ex art. 409 n. 3 c.p.c. Si trattava ad ogni buon conto di rapporti diversi dal contratto d’opera ex art. 2222 c.c. che,

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In ultimo App. Torino, 4 febbraio 2019, n. 26. Nello stesso senso, con riferimento all’art. 2, comma 1, d.lgs. 81 del 2015, Pallini, Dalla eterodirezione alla eteroorganizzazione: una nuova nozione di subordinazione?, in RGL, 2016, 70. Il termine compare in realtà in molti scritti e in molte pronunce contrapposto alla continuità o alla continuatività, essenzialmente per sintetizzare un’attitudine alla breve durata materiale del rapporto di lavoro ovvero per significare la costanza e la perduranza dello stesso nel tempo (Trib. Milano 13 febbario 2020, n. 2942; e Trib. Chieti, 9 febbraio 2017, n. 15). 102 La continuità è intesa anche in tal senso da App. Torino, 4 febbraio 2019, n. 26: «va quindi intesa da un lato come non occasionalità e dall’altro, riguardo alla esecuzione della prestazione, come svolgimento di attività che vengono (anche se intervallate) reiterate nel tempo al fine di soddisfare i bisogni delle parti». Cfr. adesivamente sul punto Spinelli, Le nuove tutele dei riders al vaglio della giurisprudenza, in LLI, 2020, 89 ss., ivi 97. 103 E del resto potrebbe anche intendersi diversamente che la norma voglia escludere, nell’insieme dei rapporti contrattuali di lavoro autonomo di durata, quelli considerati “occasionali” (nel senso di breve durata o che comportino prestazioni solo sporadiche), in quanto contraddittori con lo status (continuativo) di socio. 104 Cfr. ad esempio art. 34 del d.p.r. 818/1957, art. 8 del d.lgs. 1° dicembre 1997, n. 468 (abrogato dal d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150) o ancora nell’art. 27, comma 1, lett r, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 dove “occasionale” non significa mai “non di durata”. 105 In tema cfr. Ichino, Subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, cit., 125. Parz. contra Pessi, Contributo allo studio della fattispecie lavoro subordinato, Giuffrè,1989, 214, e Gaeta, Lavoro a distanza e subordinazione, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993, 240; Suppiej, Recensione alla monografia di Pietro Ichino del 1989, in RDC, 1990, 302.

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in caso di esecuzione prolungata, non ha mai subito i limiti quantitativi e temporali previsti dall’art. 61, comma 2, citato106. Anche le prestazioni di lavoro accessorio di cui agli artt. 70-72 del d.lgs. 276/2003 sono state dapprima definite «di natura meramente occasionale» e poi oggetto di una serie di riforme che, oltre a eliminare il riferimento all’occasionalità (art. 7, comma 2, lett e, d.l. 28 giugno 2013, n. 76 conv. mod. l. 9 agosto 2013, n. 99) ne hanno rimodellato profondamente la fisionomia (art. 48-50, d.lgs. 81/2015) fino alla loro completa eliminazione (art. 1 d.l. 17 marzo 2017, n. 25 conv. l. 20 aprile 2017, n. 49). Alla disciplina del lavoro accessorio è subentrata infine la «disciplina delle prestazioni occasionali» ex art. 54-bis, d.l. 24 aprile 2017, n. 50 conv. mod. l. 21 giugno 2017, n. 96 (“Libretto famiglia” e contratto di prestazione occasionale). Ebbene, ferme le soglie quantitative (art. 54-bis, comma 1, lett- a-c bis), il contratto di prestazione occasionale ha ad oggetto proprio «prestazioni di lavoro occasionali o saltuarie di ridotta entità», ma è perfettamente compatibile con prestazioni in cui l’adempimento dura per tutto il (sicuramente breve) tempo dell’esecuzione, e, forse proprio in ragione della brevissima durata, esenti dal rischio di riqualificazione. Anche la giurisprudenza fa un uso polisenso del termine “occasionale”, talvolta riferito alla prestazione tipica del contratto d’opera, talaltra a prestazioni semplicemente “di breve durata” o discontinue, anche se di lavoro subordinato. Si chiarisce infatti che occasionale non significa per forza non subordinato, altrimenti si eleverebbe la temporaneità del rapporto a criterio di distinzione del lavoro subordinato da quello autonomo107. Ciò è sicuramente vero, ma è altrettanto vero che il carattere meramente occasionale della prestazione integra un elemento di giudizio che: 1) potrebbe condizionare il riscontro fattuale di una vera e propria “disponibilità” nel tempo108; 2) potrebbe – e uso ancora il condizionale – facilitare la percezione di uno o più servizi unitari in sé conchiusi e quindi il difetto di continuatività109.

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Nel senso che si deve distinguere, anche perché nelle prime può esservi coordinamento, mentre nelle seconde deve mancare: Trib. Teramo, 15 settembre 2015, n. 761; e Trib. Pordenone, 8 febbraio 2016, n. 4, DeJure. 107 Cass., 8 agosto 2008, n. 21483; Cass., 8 agosto 2008, n. 21482. Cfr. infatti anche Cass., sez. un., 13 febbraio 2012, n. 1987. Peraltro, la sequenza può coincidere con una serie di rapporti continuativi ma a termine o con le molteplici prestazioni richieste nell’ambito di un contratto di lavoro intermittente (con o senza obbligo di risposta), con la conseguenza che sarebbe corretto riqualificare i rapporti applicando la disciplina dei sottotipi flessibili effettivamente posti in essere (sulla falsariga dell’art. 69, comma 2, d.lgs. 276/2003: cfr. Cass., 21 giugno 2016, n. 12820) e poi riscontrare eventuali violazioni di limiti causali o di durata massima. La questione rileva specialmente nel campo di applicazione dell’art. 2 comma 1 del d.lgs. 81/2015, anche per le conseguenze in ordine alla disciplina applicabile (quella del contratto a termine, ad esempio). Si legga invece App. Torino, 4 febbraio 2019, n. 26, la nota sentenza sui riders, secondo la quale lavorare per una media che va dalle 68,5 alle 44-45 ore mensili rappresenti una modalità «già di per sé poco compatibili con la natura subordinata dei rapporti di lavoro in essere». Cfr. simile Cass. 17 febbraio 2020, n. 3912. 108 Circostanza fattuale che, in alcuni casi, è primario indice rivelatore del lavoro subordinato: cfr., sul lavoro giornalistico, Trib. Roma, sez. civ. II, 7 settembre 2020, n. 4766; e Trib. Roma 18 maggio 2020 , n. 2477, entrambe in DeJure. 109 Come intuisce Spagnuolo Vigorita, Riflessioni in tema di continuità, impresa, rapporto di lavoro, in Studi in onore di Francesco Santoro Passarelli, Jovene, 1973, 1036. Cfr. Cass., 9 settembre 2013, n. 20600; Cass., 17 aprile 2013, n. 9347; Cass., 7 gennaio 2009, n. 58; Cass., 10 luglio 1999, n. 7304. E tuttavia la continuatività delle prestazioni, come detto, non è esclusa quando vi siano più obbligazioni di risultato collegate e, nel caso di una sequenza di rapporti ciascuno fondato su una obbligazione di risultato, occorrerà verificare, alla luce di un’indagine approfondita, se ciascun rapporto si svolga all’interno di una serie omogenea (cfr. Cass., 12 febbraio 2008, n. 3320; Cass., 2 aprile 2009, n. 8068; Cass., 7 ottobre 2013, n. 22785; Cass., 20 maggio 2014, n. 11065; Cass., 15 giugno 2016, n. 12336) eventualmente con esecuzione frazionata (cfr. Cass., 28 luglio 1995, n. 8260) ovvero senza il faro dell’interesse

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Continuatività e lavoro autonomo

Quanto al primo punto, occorre chiarire anche nella logica dei rapporti di durata, tra lavoro subordinato e coordinato non si apprezza «un diverso atteggiarsi dell’elemento temporale»110 nel senso che sono entrambi rapporti di durata. Tuttavia, nell’ambito del lavoro subordinato l’elemento della “continuità”111 sembra assumere un ulteriore e più specifico significato di “disponibilità” – anche nei periodi di attesa o di non-lavoro112 – ovverosia quella stabile dedizione funzionale che vale in effetti a differenziare, in corso di rapporto, la collaborazione subordinata da quella autonoma113. Si identifica, per mezzo di quell’espressione, la permanenza del vincolo obbligatorio che funge da substrato per l’esercizio del potere direttivo114, ben al di là del “collegamento funzionale” che caratterizza l’art. 409 n. 3 c.p.c. D’altra parte, è nota una fattispecie di lavoro subordinato di fonte legale in cui il vincolo di disponibilità scompare, senza che venga meno la subordinazione in riferimento ai periodi lavorati, ossia il contratto di lavoro intermittente senza obbligo di risposta di cui all’art. 13, comma 4, d.lgs. 81/2015115. Al riguardo si può notare che, mentre nell’ipotesi con obbligo di accettazione si scorgono i tratti di una disponibilità tipica del lavoro subordinato, nell’opposta ipotesi difettano in un primo momento gli obblighi e i vincoli tipici del contratto di lavoro. Per via di tale mancanza di disponibilità si è detto che si tratterebbe di un contratto di lavoro autonomo116. La tesi non convince per almeno due ragioni. Innanzitutto, a ben

durevole del committente (Cass., 10 gennaio 1987, n. 109, in OGL, 1987, 349). Perulli, Il lavoro autonomo, cit., 189. Cfr. ex plurimis Cass., 1° luglio 2016, n. 13509. 111 Trib. Roma, 20 febbraio 2020, n. 1774 sul lavoro giornalistico; Trib. Vicenza, 31 gennaio 2020, n. 377; Trib. Bari, 12 settembre 2019, n. 3377; App. Reggio Calabria, 10 luglio 2019, n. 646; Trib. Catania, 10 luglio 2019, n. 3496; Trib. Perugia, 16 ottobre 2019, n. 194; App. Milano, 24 maggio 2019, n. 923. Cfr. anche Trib. Firenze, 14 gennaio 2015, n. 33, De Jure. In tema cfr. Perulli, Subordinazione e autonomia, cit., 28; e Spagnuolo Vigorita, Riflessioni in tema di continuità, impresa, rapporto di lavoro, cit., 1027. Sulla continuità in senso atecnico come elemento presupposto dell’inserimento organizzativo connesso all’esercizio dell’etero-direzione, si legga Ichino, Subordinazione e autonomia, cit., 107-108. 112 Nel senso dell’attesa-disponibilità come lavoro effettivo cfr. Cass., 14 ottobre 2015, n. 20694. Nel caso oggetto di questa e di altre consimili pronunce, sui tempi di attesa dello scarico merci, la prestazione di attesa è sì statica, ma è collegata a un’esigenza aziendale cui è, è stato e sarà chiamato ancora a contribuire il lavoratore. Cfr., più netta da questo punto di vista, Cass., 7 luglio 2000, n. 9134, che considera lavoro anche l’attesa all’interno di un contratto con chiamate orarie, «attesa la costante disponibilità di fatto impostagli». Quindi, in ogni caso, sul presupposto che il lavoratore fosse poi obbligato a rispondere alla chiamata successiva. Cfr. però le precisazioni sul lavoro straordinario di Trib. Pescara, 18 gennaio 2016, n. 986; e contra Trib. Siracusa, 12 novembre 2019, n. 1272. 113 Cfr. Grandi, voce Rapporto di lavoro subordinato, cit., 325-326; e Cester, Brevi osservazioni sulle collaborazioni organizzate dal committente (art. 2 del d.lgs. n. 81/2015), in F. Carinci (a cura di), Jobs Act: un primo bilancio. Atti del XI Seminario di BertinoroBologna del 22-23 ottobre 2015, in ADAPT e-Book series, n. 54/2016, 559 ss., 560-561. Cfr. anche C. cost. 29 marzo 1993, n. 121; Cass 11 maggio 2005, n. 9894; Cass., 7 gennaio 2009, n. 58; Cass., 21 gennaio 2009, n. 1536; Cass., 25 marzo 2009, n. 726; Cass., 14 febbraio 2011, n. 3594; Cass., 21 marzo 2012, n. 4476; Cass., 4 dicembre 2013, n. 3594. Cfr. anche Ichino, Il contratto di lavoro, in Cicu, Messineo (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale. Volume primo, Giuffrè, 2000, 287 ss. 114 Cass., 23 gennaio 2020, n. 1555; Cass., 14 giugno 2016, n. 12203. Particolarmente significative nel contenzioso dei giornalisti di redazione: Cass., 11 giugno 2019, n. 15610; Cass., 5 luglio 2016, n. 13669; e Cass., 5 febbraio 2016, n. 2336; e più risalenti Cass., 9 aprile 2004, n. 6983; Cass., 7 settembre 2006, n. 19231; Cass., 12 febbraio 2008, n. 3320; Cass., 29 agosto 2011, n. 17723. 115 La natura di tale contratto di lavoro – se di “contratto” e di “lavoro” si può parlare – è molto discussa in dottrina e non è concesso approfondire qui un lungo e inesauribile dibattito. Cfr., anche per le citazioni e la bibliografia in materia, Romei, Il contratto di lavoro intermittente, in G. Santoro-Passarelli (a cura di), Diritto e processo del lavoro. Privato e pubblico, Wolters Kluwer, 2020, in corso di pubblicazione. Si legga anche Merlino, Una figura innovativa di rapporto di lavoro: il contratto di lavoro intermittente, in RIDL, 2007, I, 191 ss.; e Bavaro, La questione sul tempo contrattuale di lavoro (a proposito di orario ridotto, modulato o flessibile), in RGL, 2004, I, 401. 116 Lunardon, Il lavorio intermittente, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Torino, 2016, 75 ss., ivi 79. 110

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vedere, nell’accordo di lavoro intermittente difetta l’attuazione immediata di alcuni vincoli giuridici – obbligazione principale inclusa – che sono però fin dal principio previsti (tra questi l’obbligazione di eseguire, una volta accettata la chiamata, una prestazione di lavoro subordinato), mentre altri sono proprio attuati (si pensi all’obbligo di fedeltà e agli obblighi di formazione in materia di sicurezza, ma anche agli obblighi correlati a quelli principali che derivano dalle clausole di buona fede e correttezza) o si spandono completamente solo al momento dell’accettazione della chiamata e, quindi, dell’esecuzione della prestazione. Inoltre il lavoro autonomo in generale, dopo la conclusione del contratto, non si caratterizza affatto in generale per la scelta del prestatore se lavorare o no117 – come ogni altro contraente il lavoratore autonomo si obbliga a prestare il proprio lavoro alle condizioni concordate – bensì, al massimo, per la scelta su come, quando e dove lavorare, laddove il contratto sia lacunoso e, se ricorrono i caratteri dell’art. 409 n. 3 c.p.c., con salvezza delle esigenze di coordinamento con il committente. Ne segue che il consenso per l’an della prestazione di lavoro riguarda o un momento antecedente all’attuazione del vincolo obbligatorio – e quindi coincide con la volontà dell’atto contrattuale che dà vita a separati rapporti118 – o, tutt’al più, una peculiare modalità attuativa (per comodità: intermittenza) del rapporto obbligatorio programmata dalle parti del contratto di lavoro, autonomo o subordinato che sia. E infatti per i riders di Foodora, come per i pony express, l’assenza di “disponibilità” (ossia la facoltà di rifiuto della chiamata) non equivale al riscontro di «autonomia decisionale nel quomodo e nel quando dell’itinerario da percorrere e delle consegne»119. Infatti la scelta discrezionale se accettare o no la chiamata è un antefatto della prestazione che rileva, comunque lo si intenda, sul piano del voluto contrattuale; mentre l’autonomia nel quomodo e nel quando si esprime in un comportamento che rileva, per definizione, anche sul piano del rapporto. Ne segue che la “modalità intermittente” può essere espressamente regolamentata dalle parti e allora non è decisiva per qualificare il rapporto, dipendendo la corretta qualificazione dalle relative modalità di svolgimento120; oppure è fonte del perfezionamento di un eventuale nuovo accordo e, anche in questa ipotesi, solo le modalità di svolgimento di ciascun rapporto potranno rivelare la fedeltà del comportamento delle parti allo schema negoziale prescelto (art. 1362 c.c.). Non sembra quindi corretto né necessario far ricorso

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Come sembra dire App. Torino, 4 febbraio 2019, n. 26. Non è possibile non richiamare le pronunce, più volte evocate in tema come passaggi significativi (cfr. Novella, Il rider non è lavoratore subordinato, ma è tutelato come se lo fosse, in LLI, 2019, 5, 91-92, nt. 22), Cass., 13 febbraio 2018, n. 3457; Cass., 10 luglio 2017, n. 17009; e cfr. Cass., 15 giugno 2016, n. 12330, secondo la quale in particolare «è irrilevante, ai fini della subordinazione, che il singolo lavoratore sia libero di accettare o non accettare l’offerta, di presentarsi o non presentarsi al lavoro e senza necessità di giustificazione, nonché, con li preventivo consenso del datore di lavoro, di farsi sostituire da altri, atteso che il singolo rapporto può anche instaurarsi volta per volta, anche giorno per giorno, sulla base dell’accettazione della prestazione data dal lavoratore ed in funzione del suo effettivo svolgimento, e la preventiva sostituibilità incide sull’individuazione del lavoratore quale parte del singolo specifico contingente rapporto, restando la subordinazione riferita a colui che del rapporto è effettivamente soggetto, svolgendo la prestazione e percependo la retribuzione». Cfr. anche Cass., 14 giugno 2016, n. 12199; Cass., sez. VI, 1° luglio 2015, n. 13525; Cass., 8 aprile 2015, n. 7024; Cass., 7 gennaio 2009, n. 58; Cass., 1° agosto 2008, n. 21031; Cass., 22 maggio 2007, n. 11956; Cass., 5 aprile 2005, n. 7025; Cass., 19 marzo 2001, n. 3926. Cfr. anche Contra Cons. Stato, sez. III, 5 aprile 2012, n. 2044. 119 Ex multis Cass., 20 gennaio 2011, n. 1238. 120 Non si condivide infatti l’argomentazione proposta da Cass., 26 febbraio 2002, n. 2842. 118

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alla categoria generale del lavoro autonomo per collocare meglio la figura del lavoro intermittente senza obbligo di risposta né, come si dirà oltre, per identificare lo spazio della libertà del rider di accettare o rifiutare le proposte di consegna. Alla luce di quanto osservato, l’occasionalità intesa come presenza di più rapporti di breve durata o, da una differente prospettiva unificante, di più prestazioni ripetute in diversi tempi non impedisce affatto la riqualificazione in lavoro subordinato e l’applicazione delle norme vincolistiche in materia di contratto a termine per ciascun rapporto o, in caso di unitario rapporto, di lavoro intermittente senza o con vincolo di disponibilità. Ma – questo è il punto – tale riqualificazione non dipenderà dalla continuativa “accettazione” delle prestazioni in quanto una simile “disponibilità” è compatibile anche con una obbligazione autentica di lavoro autonomo continuativo. Dipenderà invece dal riscontro dei tipici poteri datoriali esercitati in corso di rapporto ossia dai profili esecutivi121. La questione ha specifico rilievo in caso di applicazione della disciplina del lavoro subordinato a norma dell’art. 2 comma 1. Infatti, dacché al riscontro dell’etero-organizzazione si deve applicare la disciplina del rapporto di lavoro subordinato122, la sussistenza di più rapporti di durata a termine, verosimilmente illegittimi anche a causa delle stringenti previsioni del “Decreto Dignità” (d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. mod. l. 9 agosto 2018, n. 96) che rendono in sostanza impraticabili i rinnovi contrattuali (cfr. art. 19, d.lgs. 81/2015), potrebbe non comportare gli stessi identici effetti del riscontro di un unitario rapporto a tempo indeterminato. Se infatti si trattasse di una successione illegittima di rapporti a termine, al prestatore spetterebbe, con la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, un’indennità risarcitoria forfettizzata ex art. 28, comma, del d.lgs. 81 del 2015; mentre il lavoratore che dimostrasse l’unitarietà potrebbe vantare gli ordinari effetti risarcitori della mora credendi a copertura anche dei periodi di attesa tra una chiamata e l’altra, quantomeno dal momento in cui abbia offerto le proprie prestazioni. Deve però darsi conto del fatto che è in concreto labile il confine tra le due configurazioni giuridiche del rapporto tra rider e piattaforma pocanzi messe in luce, l’una basata su un unitario rapporto di collaborazione, l’altra scomposta in molteplici contratti. Inoltre, nella pratica, gli utenti-lavoratori si iscrivono alla piattaforma e instaurano, con l’iscrizione, una relazione giuridica fonte, da una parte, di mere – ancorché concrete – aspettative di futura occupabilità, ma d’altra parte sorge anche l’obbligo di adeguarsi fin da subito al regolamento contrattuale accettato nei contenuti fin dal principio. Un simile contratto

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Sulla separatezza dei due passaggi, con estrema chiarezza, si legga ancora Spagnuolo Vigorita, Riflessioni in tema di continuità, impresa, rapporto di lavoro, cit., 1040. Precisa autorevolmente, e in senso condivisibile, Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, in Labor, 2020, 1, 3 ss., 12, che al «potere organizzativo – id est: all’eteroorganizzazione – sono da ricondurre gli indici di origine giurisprudenziale che alludono al controllo del tempo e del luogo di lavoro. In tale ambito il controllo sul tempo allude non tanto (o non solo) all’osservanza da parte del prestatore di un orario di lavoro, quanto alla privazione di libertà che comporta l’inserimento in un’organizzazione etero-diretta». 122 Sull’impossibilità di selezionare cfr. G. Santoro-Passarelli, Sui lavoratori che operano mediante piattaforme anche digitali, sui riders e il ragionevole equilibrio della Cassazione 1663/2020, WP D’Antona, It., n. 411/2020, 5-6; contra Maresca, La disciplina del lavoro subordinato applicabile alle collaborazioni etero-organizzate, in DRI, 2020, 146 ss.; e Biasi, Tra fattispecie ed effetti: il “purposive approach” della Cassazione nel caso Foodora, in LDE, 2020, 14-15.

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avente pur sempre ad oggetto un facere sebbene soggetto a opzione, si configura come una collaborazione coordinata e continuativa “a prestazione eventuale”. Quanto al secondo punto, occorrerebbe precisare quando con il termine “occasionale” si evochi un’obbligazione ad adempimento istantaneo e quando invece una prestazione di lavoro di breve durata o comunque intermittente o discontinua123. Nel primo caso, il singolo rapporto non sarebbe continuativo nel senso esposto (v. supra). Qualora fossero osservabili più prestazioni nel tempo, sarebbe necessario capire se siano avvinte da un unitario nesso di continuatività o no. Ebbene, non sembra possa dirsi lavoratore autonomo continuativo l’idraulico che concorda con il committente la riparazione di diversi guasti all’impianto idrico. In tal caso ogni prestazione oggetto di obbligazione implica a monte un separato contratto-fonte. Viceversa, ciascuna prestazione diretta al conseguimento dell’opus potrebbe inscriversi in termini organizzativi in una cornice programmatica volta a soddisfare un interesse durevole del committente124, come per quei riders che accettano singole richieste soddisfacendo istantaneamente l’interesse della piattaforma a ciascuna consegna, ma stipulano un contratto-quadro. E allora il rapporto sarebbe in ogni caso di durata o perché continuativo in senso tecnico ancorché “intermittente”, o perché risultante dalla concatenazione di più adempimenti uno actu con la durata programmata come tale e, quindi, al lume di quanto riferito, possibile oggetto di coordinamento. Salvo poi verificare se l’inserimento organizzativo intenso e l’esercizio di prerogative datoriali non determini il trapasso verso (le tutele del)la subordinazione, eventualmente per il tramite incerto dell’art. 2 comma 1, d.lgs. 81/2015. Nel secondo caso, ciascuna singola obbligazione di lavoro autonomo potrebbe essere essa stessa continuativa. Si pensi al consulente chiamato a lavorare in forza di più contratti a termine, per diverse consulenze, a distanza di tempo. E allora si avrebbero più contratti separati, ciascuno gergalmente detto “occasionale”. Mentre non è escluso che la serie di prestazioni, formalmente oggetto di separati rapporti obbligatori, dia luogo a un unitario rapporto giuridico che diremmo parimenti, con termine improprio, “occasionale”, solo perché, se osservato nel suo complessivo svolgersi e guardando alla esecuzione materiale, emerge la discontinuità delle prestazioni; ma si tratterebbe pur sempre di una serie di prestazioni ciascuna in sé continuative sotto il profilo dell’interesse e dell’adempimento e pertanto perfettamente compatibile, in astratto, sia con il lavoro subordinato, sia con il lavoro coordinato. In conclusione, la nozione di occasionalità non identifica, né nella legge né nella giurisprudenza, un assetto obbligatorio necessariamente opposto al rapporto di durata e anzi viene utilizzata per descrivere sia schemi contrattuali di durata, sia contratti ad adempimento istantaneo, sia specifiche modalità di svolgimento del rapporto. Per tale ragione si tratta di un vocabolo inaffidabile sotto il profilo giuridico.

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Le nozioni citate non sono peraltro sovrapponibili a rigore, come notava Vallebona, Lavoro “intermittente” e “discontinuo”: i sinonimi e la norma “a orecchio”, in DL, 2004, 249 ss. 124 Osti, voce Contratto, cit., 492, con conseguenze diverse in ordine al decorso della prescrizione, alla sospensione e poi alla disciplina del lavoro autonomo.

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6. La continuatività delle prestazioni di lavoro eteroorganizzate.

Anche l’art. 2, comma 1, del d.lgs. 81 del 2015, norma al centro di un corposo dibattito che non è consentito ripercorre qui neppure per cenni125, contempla, tra gli elementi fattuali che consentono di identificare le collaborazioni cosiddette etero-organizzate, la continuatività delle prestazioni di lavoro. L’accezione del requisito sembra essere quella tecnica già messa in luce in riferimento all’art. 409 n. 3 c.p.c. L’accostamento all’indice fattuale dell’etero-organizzazione, da una parte, autorizza a escludere in modo ancora più radicale la riconducibilità alla disposizione dei rapporti ad esecuzione prolungata ma ad adempimento istantaneo126, dovendosi trattare a fortiori di una prestazione continuativa in senso tecnico, ovverosia per la soddisfazione di un interesse durevole (v. par. 4)127; dall’altra, consente di rimarcare che la continuatività funge anche da presupposto per l’esercizio di un potere128. A tal riguardo, occorre domandarsi se ricadano nel campo di applicazione dell’art. 2, comma 1, anche quei rapporti di durata, pur sempre compatibili con la descrizione empirica dell’art. 409 n. 3 c.p.c., nei quali l’interesse durevole del committente è soddisfatto dal susseguirsi di più opera (esecuzione cosiddetta «periodica» che si verifica anche quando il collegamento riguarda più obbligazioni continuative129). Il quesito ha una non indifferente rilevanza pratica atteso che, nel caso dei lavoratori addetti alle consegne a domicilio mediante piattaforme digitali, il rapporto potrebbe ricostruirsi come il composto di una serie di “atti di adempimento” (le consegne). Il richiamo alle prestazioni (al plurale) «di lavoro» nell’art. 2 comma 1 potrebbe in effetti lasciare intendere che oggetto del contratto è, nel caso della collaborazione etero-organizzata, un uniforme comportamento, non una serie di obbligazioni di risultato omogenee adempiute uno actu e avvinte da un unico nesso di continuità. Si tratta però di una argomentazione non del tutto appagante per via della scarsa rilevanza dell’indicazione “lavoro” in luogo di “opera” di cui ho già discorso. E tuttavia il potere di organizzazione, inteso come potere modificativo delle modalità esecutive tempo per tempo e di adattamento del fattore lavoro alle esigenze dell’organizzazione, presuppone a mio avviso «il permanere nel tempo dell’obbligazione, ma anche il

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Si leggano Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, in Labor, 2020, 1, 3 ss.; e, in ultimo, G. Santoro-Passarelli, Ancora su eterodirezione, etero-organizzazzione, su coloro che operano mediante piattaforme digitali, i riders e il ragionevole equilibrio della Cassazione n. 1663/2020, in MGL, 2020, 203 ss., in un numero della rivista integralmente dedicato al tema. 126 Cfr. sul punto, a rivelare l’utilizzo spurio di tali concetti, Nuzzo, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, in WP D’Antona, It, n. 280/2015, 7. 127 E infatti, secondo Trib. Firenze, ord., 5 maggio 2020, n. 886, non rilevano ai fini del requisito in esame la mancanza di “stabilità” o l’esiguità dei compensi. 128 Quindi finisce per rassomigliare alla continuità-disponibilità tipica del lavoro subordinato secondo Barbieri, Della subordinazione dei ciclofattorini, in LLI, 2019, 35-36. 129 Spagnuolo Vigorita, Riflessioni in tema di continuità, impresa, rapporto di lavoro, cit., 1046.

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protrarsi dell’attività solutoria»130. Di talché, a rigore, se oggetto dell’inserimento organizzativo sono opera concatenati e non attività lavorativa, nessun potere di organizzazione potrà incidere sull’esecuzione della prestazione determinandone le modalità, in particolare tempo e spazio. Se ciò accadesse, a ben vedere, verrebbe messa in discussione proprio la struttura negoziale sopra descritta, non più ricostruibile alla stregua di una “composizione” di più adempimenti istantanei autonomamente gestiti dal debitore d’opera, bensì secondo il modello del comportamento continuativo che soddisfa un’esigenza organizzativa non solo protratta per tutto il tempo in cui l’adempimento dura, ma anche unilateralmente imposta. Ciò che in effetti non è escluso che si possa validamente argomentare con riferimento ad alcuni rapporti di lavoro dei platform workers131.

7. Il lavoro continuativo mediante piattaforme digitali. In

particolare: il rilievo del requisito della continuatività nella qualificazione del rapporto di lavoro dei riders. Proprio nel contesto delle piattaforme digitali, in cui risulta più sfumata la nozione di etero-organizzazione dell’art. 2, comma 1, d.lgs. 81/2015 dacché l’esercizio del potere può essere celato dagli automatismi dell’algoritmo132, è fondamentale chiarire cosa si intenda per continuatività. La difficile operazione di inquadramento giuridico del fenomeno richiede però un’indagine sui variegati – a volta inaccessibili – modelli organizzativi delle piattaforme digitali, indagine che non potrà prescindere dall’analisi del quadro normativo del nuovo capo V-bis (artt. 47-bis ss.) del d.lgs. 81 del 2015, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. c, d.l. 3 settembre 2019, n. 101 conv. mod. l. 2 novembre 2019, n. 128. Nel capo V-bis citato la continuatività non sembra avere, prima facie, uno specifico rilievo. Ciò premesso, dal punto di vista della fenomenologia dell’adempimento nel tempo, e facendo applicazione dei risultati dell’analisi finora conseguiti, si può distinguere l’ipotesi in cui il platform worker lavori continuativamente per la piattaforma, dall’ipotesi in cui accetti di volta in volta una proposta contrattuale avente ad oggetto l’esecuzione di un singolo servizio, ad esempio la consegna di un pacchetto, il trasporto di una persona, etc.

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Gragnoli, Tempo e contratto di lavoro subordinato, in RGL, n. 2, 439 ss., 469. E si legga Ichino, Il tempo delle prestazioni nel rapporto di lavoro, volume primo. Continuità, elasticità e collocazione temporale della prestazione lavorativa subordinata, Giuffrè, 1984, 25 ss. Sul punto la giurisprudenza è spesso ambigua. La nota Cass. n. 1663/2020, cit., punti 23 e 57, intende ad esempio il requisito come svolgimento della prestazione «in maniera continuativa nel tempo», ciò che non chiarisce se si faccia riferimento al dato quantitativo o all’interesse del committente. 131 Forse proprio per sottolineare la propensione all’etero-organizzazione dei lavoratori continuativi operanti tramite piattaforma digitale, il legislatore ha introdotto un ulteriore periodo all’art. 2 comma 1 (cfr. art. 1 – relativo allegato – della l. di conversione n. 128/2019, che ha modificato l’art. 1, comma 1, lett. a, n. 2 del d.l. 101/2019), ai sensi del quale “le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”. 132 E infatti è, oltre che inutile, persino fuorviante la precisazione contenuta nell’art. 2, comma 1, citato ai sensi del quale «… Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali».

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Continuatività e lavoro autonomo

Nell’ambito della prima ipotesi, quella in cui le parti sottoscrivono un contratto di durata, contrassegnato dalla soddisfazione dell’interesse durevole del committente, occorre fare un’ulteriore distinzione. Talvolta il rider ha l’obbligo di rispondere alle chiamate e in questo caso si configurerebbe di fatto una continuativa “disponibilità” che, secondo alcune ricostruzioni, approssima lo stato del prestatore in questione a quello di un comune lavoratore subordinato, anche senza passare dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. 81/2015. Talaltra il rider è parte di un contratto di durata ma è realmente libero di accettare la chiamata o di rifiutarla, e allora, secondo una tesi accolta dalla Corte di Appello di Torino133, sarebbe un lavoratore genuinamente autonomo. Per ragioni speculari – riprendo parzialmente riflessioni già svolte – nessuno dei due assunti in ultimo riportati convince del tutto in una prospettiva ricostruttiva. Infatti, da una parte, anche un lavoratore autonomo può assumere l’obbligazione di svolgere una prestazione continuativa che lo fa sembrare “disponibile”, come fa il collaboratore coordinato ex art. 409 n. 3 c.p.c. e come fanno molti lavoratori degli studi professionali, dipendendo invero la corretta qualificazione del rapporto dall’individuazione di poteri incidenti sulle modalità di esecuzione della prestazione. D’altra parte, la scelta di accettare o no di eseguire la prestazione non esclude di per sé la subordinazione, atteso che, sussistendone tutti i requisiti, potrebbe configurarsi un rapporto di lavoro intermittente senza obbligo di risposta (ex artt. 13 ss., d.lgs. 81 del 2015; e solo qualora non siano rispettati i limiti di legge detto rapporto sarebbe da considerarsi un rapporto standard a tempo indeterminato) o potrebbero essere riqualificati i singoli rapporti. Può essere utile chiarire che, quando si fa riferimento in generale alla “libera accettazione della prestazione”, si evocano fenomeni differenti e, quindi, diversi assetti negoziali non per forza da ricondurre all’interno della medesima categoria sotto il profilo dell’adempimento nel tempo qui in esame. Infatti, un conto è che la scelta del rider di accettare la proposta intervenga nel contesto di una relazione già instaurata di cui le parti abbiano programmato i rispettivi obblighi futuri; in tal caso si può riscontrare un interesse durevole consistente nell’aspettativa dell’esecuzione di più opera secondo un modello compatibile con la descrizione normativa dell’art. 409 n. 3 c.p.c. ovvero in prestazioni in sé continuative ma intermittenti in coerenza con le modalità pattuite (tra le quali figura appunto la libera scelta del lavoratore se svolgere o no ciascuna singola prestazione). Si tratta del modulo organizzativo di Foodora che emerge dalle pronunce, impostato secondo una discontinuità strutturale che dipende sia dalla intermittenza delle proposte di prestazione, sia dal carattere eventuale della loro accettazione. Altro conto è che la libera accettazione si identifichi con la dinamica propria di ogni contratto dettata dall’art. 1326 c.c.134. Se difettasse la continuatività inerendo le singole prestazioni a separati rapporti ciascuno eventualmente caratterizzato da una obbligazione

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In questi termini App. Torino, 4 febbraio 2019 n. 26. Cass., 13 febbraio 2018, n. 3457: «il singolo rapporto si instaura volta per volta (anche giorno per giorno), sulla base dell’accettazione e della prestazione data dal lavoratore ed in funzione del suo effettivo svolgimento».

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ad adempimento istantaneo (ma non è il caso dei riders di Foodora), avrebbe poco senso utilizzare i termini intermittenza o discontinuità persino in senso non tecnico, presupponendo tali concetti quantomeno una programmazione o una aspettativa di più lungo periodo sull’esecuzione delle successive prestazioni. E parimenti non potrebbe configurarsi il coordinamento, non essendo mai state stabilite di comune accordo le relative «modalità» (art. 409 n. 3 c.p.c.). Ciò, sempre sul presupposto che la piattaforma sia il soggetto cui imputare il rapporto giuridico e non, come talvolta accade (v. in specie le piattaforme di micro-tasks), un mero intermediario tra user e provider; in tale ultimo caso il problema di qualificazione, se dovesse porsi, dovrebbe primariamente riguardare l’utilizzatore della prestazione, che è anche il committente del lavoro. In entrambe le ipotesi, la decisione del rider di prestare lavoro o no sembra porre “in soggezione” il committente, ancorché nella realtà dei rapporti questi faccia valere la propria predominanza economica – e la dinamica di mercato delle piattaforme digitali – per spingere il rider ad accettare le corse proposte, dietro la minaccia di ridurre le occasioni di lavoro o di essere espulso dalla piattaforma135.

8. Sui pretesi effetti indiretti del requisito della

continuatività nella definizione del campo d’applicazione delle «misure minime» a tutela del lavoro autonomo mediante piattaforme digitali (47-bis ss., d.lgs. 81/2015). Sempre nel contesto specifico delle piattaforme digitali, si è posto il problema di ricostruire con maggiore attenzione un requisito che, secondo autorevoli voci, rileva oggi anche ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile ai riders, quella del lavoro subordinato ex art. 2, comma 1, del d.lgs. 81/2015, o quella speciale (e aggiuntiva rispetto alla disciplina del lavoro autonomo di riferimento) dettata per i lavoratori autonomi addetti alle consegne di beni, con motocicli o veicoli a motore, in ambito urbano e che operano mediante piattaforme digitali ex artt. 47-bis ss. del d.lgs. 81/2015. Beninteso, si tratta di due discipline alternative e, quindi, non integrabili. Ciononostante, una legislazione disattenta e frettolosa ha prodotto accavallamenti concettuali che meritano un chiarimento. Il secondo comma dell’art. 47-bis stabilisce che, ai fini dell’applicazione delle tutele minime ivi previste (artt. 47-ter e ss.), «si considerano piattaforme digitali i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che, indipendentemente dal luogo di

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Considera ciò un possibile indice di subordinazione del rider Donini, Il lavoro attraverso le piattaforme digitali, cit., 132-134. A me sembra che non possa riconoscersi in una spia di debolezza economica (contrattuale e nel mercato) un indice di subordinazione vero e proprio, se non avendo a riferimento una nozione di subordinazione di stampo socioeconomico. Ritengo al contrario che tali forme di debolezza evidenziano squilibri negoziali che possono caratterizzare anche il lavoro autonomo. Del resto, è la dinamica descritta nel testo che ha indotto il legislatore ad adottare contromisure, proprio a favore dei lavoratori genuinamente autonomi, come quella contenuta nell’art. 47-quinquies, d.lgs. 81/2015, a norma del quale la mancata accettazione non può determinare l’esclusione del rider dalla piattaforma o la riduzione delle occasioni di lavoro. Tale disposizione presuppone che la scelta del rider avvenga nell’ambito di un rapporto in essere con la piattaforma e serve a garantire un maggior equilibrio negoziale.

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stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione». Si assiste così a una sovrapposizione terminologica e logica tra la determinazione delle modalità esecutive, che è presupposto per applicare il Capo V-bis del d.lgs. 81/2015, la etero-organizzazione e persino la etero-direzione, quest’ultime presupposti per applicare la disciplina del rapporto di lavoro subordinato136. Da ciò deriverebbe la perdita di pregnanza della nozione di eteroorganizzazione, cui si rimedia facendo affidamento sulla continuità quale unico criterio utile a identificare la disciplina applicabile137. A mio sommesso avviso, tale impostazione prova troppo dacché non risolve preliminarmente in via interpretativa una contraddizione interna all’art. 47-bis. Infatti, queste tutele minime riguardano prestazioni di “lavoro autonomo” le cui modalità esecutive per definizione non possono essere determinate dal committente in corso di rapporto138. Si legga per ulteriore conferma l’art. 3 comma 1 della l. 81 del 2017, ai sensi del quale «si considerano abusive e prive di effetto le clausole che attribuiscono al committente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto». Mi rendo conto che affermare ciò potrebbe condurre a conseguenze paradossali. Se infatti il lavoro “etero-determinato” non può essere “auto-nomo”, per logica conseguenza si dovrebbe ritenere che siano esclusi dal campo di applicazione della disciplina proprio i rapporti di lavoro autonomo richiamati espressamente dalla norma sull’ambito di applicazione. Onde evitare di rendere sostanzialmente inapplicabili le nuove disposizioni, si potrebbe in alternativa ipotizzare che, quando il legislatore afferma che la piattaforma digitale determina le modalità esecutive della prestazione, intende che le “predispone unilateralmente” come in qualsiasi altro contratto per adesione ex artt. 1341-1342 c.c. In tal modo si rientra pienamente nella previsione dell’art. 409 n. 3 c.p.c. o dell’art. 2222 c.c. Del resto, accanto alla determinazione delle modalità esecutive figura anche la fissazione del compenso, la cui determinazione certo non può essere affidata all’esercizio di un potere unilaterale: la principale controprestazione economica è infatti pattuita dalle parti in ogni contratto139.

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Tale confusione si è riflessa plasticamente su una recente decisione del Trib. Firenze, ord., 5 maggio 2020, n. 886. G. Santoro-Passarelli, Sui lavoratori che operano mediante piattaforme anche digitali, sui riders e il ragionevole equilibrio della Cassazione 1663/2020, cit., 411; Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, cit., 23; Perulli, Il diritto del lavoro “oltre la subordinazione”: le collaborazioni etero-organizzate e le tutele minime per i riders autonomi, in WP D’Antona, It., n. 410/2020, il quale però, dapprima, afferma come sia irragionevole rimettere alla continuità la distinzione e, in un altro passaggio, aggiunge che l’art. 47-bis si applicherebbe comunque alle collaborazioni etero-organizzate riconducibili alle eccezioni dell’art. 2, comma 2, lett. a), d.lgs. 81 del 2015. Cfr. contra F. Carinci, L’art. 2 d.lgs. n. 81/2015 ad un primo vaglio della Suprema Corte: Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663, in WP D’Antona, It., n. 414/2020, 16. 138 Nega invece rilievo qualificatorio alla nozione di piattaforma digitale Tosi, Le collaborazioni organizzate dal committente nel “decreto crisi”, in GLav, 2019, n. 47, 10 ss. 139 Peraltro, l’art. 47-quater del d.lgs. 81/2015, proprio in materia di compenso, prevede, al comma primo, che «i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale possono definire criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del committente»; e, al comma secondo, che «in difetto della stipula dei contratti di cui al comma 1, i lavoratori di cui all’articolo 47-bis non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate e ai medesimi lavoratori deve essere garantito un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale». Ebbene, al di là dei molti profili di interesse della norma, è sufficiente ai nostri fini rilevare che un compenso orario mal si concilia con contratti ad adempimento istantaneo, ragion per cui i lavoratori autonomi continuativi (e verosimilmente coordinati) sembrano contemplati dalla disciplina

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Ne segue che la disciplina degli art. 47-bis ss. trova applicazione anche ai lavoratori continuativi, purché non siano etero-organizzati (nella consapevolezza che la prestazione continuativa, quando si atteggia ad attività, ed è inserita in un contesto come quello dei servizi di delivery, si presta sicuramente ad essere etero-organizzata); ovvero se, quand’anche etero-organizzati, rientrino tra le eccezioni di cui al secondo comma dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 (la cui portata è però molto dubbia e sulla cui costituzionalità potrebbero essere sollevati legittimi dubbi). In buona sostanza, ancora una volta l’interprete è chiamato a confrontarsi con il peculiare costrutto regola-eccezione dei primi due commi dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 e quindi, prioritariamente, con la sfuggente nozione di etero-organizzazione, sulla quale, nell’economia del presente scritto, non è consentito soffermarsi.

9. Riflessioni sull’emersione del lavoro autonomo

continuativo nelle misure a tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale (capo I, l. 81/2017). L’identificazione dei contratti di lavoro autonomo di durata, anche al di là del requisito del coordinamento, non costituisce affatto un esercizio teorico. Infatti, il legislatore della l. 81 del 2017 ha previsto, tra le misure a favore del cosiddetto lavoro autonomo non imprenditoriale, nuove norme di tutela applicabili a rapporti caratterizzati dalla continuatività. L’art. 14, comma 1, introduce un limite alla facoltà delle parti di estinguere il rapporto di lavoro prestato «in via continuativa» in caso di malattia, infortunio o gravidanza, garantendo al prestatore il potere di sospenderlo per centocinquanta giorni nell’anno solare, senza diritto al corrispettivo e «fatto salvo il venir meno dell’interesse del committente»140. Occorre domandarsi se siano escluse o no le prestazioni di lavoro autonomo ricalcate sul modello tipico dell’art. 2222 c.c. che prevede l’adempimento istantaneo con esecuzione prolungata ovverosia più diradata nel tempo, come nei casi dello sviluppatore che si

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speciale del capo V-bis. La norma presenta varianti rispetto al modello dell’art. 66, d.lgs. n. 276/2003, in materia di lavoro a progetto, da cui il legislatore ha tratto ispirazione. L’art. 66 dettava due distinte forme di sospensione senza diritto al corrispettivo. A fronte di un infortunio o di una malattia, il rapporto si poteva sospendere per trenta giorni in caso di durata determinabile o per una durata pari a un sesto di quella complessiva se determinata. E all’esito di tale periodo il committente poteva recedere. In ipotesi di gravidanza era invece ammessa la proroga ex lege del termine pari a centoottanta giorni, modificabili solo in senso più favorevole al prestatore. Differisce dalla norma in esame in quanto: 1) presupponeva non solo la continuatività ma anche la coordinazione, implicite nel richiamo ai rapporti di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c. contenuto nell’art. 61, d.lgs. n. 276/2003; 2) riguardava un rapporto necessariamente a termine, con effetto sia sulle modalità di sospensione e di recesso del committente sia sulla proroga automatica in caso di gravidanza fissata da una norma derogabile solamente in melius; 3) non si faceva salvo l’interesse contrario del committente, ciò che rende la norma del 2017 meno protettiva di quanto appaia prima facie (non sembra affatto difficile dimostrare, anche sulla base di eventuali previsioni del contratto, che una prestazione continuativa volta a soddisfare un interesse durevole, se non svolta per un lungo periodo, non sia più utile o “interessante”, con il rischio che si generi un automatismo favorevole al committente); 4) si stabiliva la sospensione automatica e un correlato divieto di recesso, senza esigere il presupposto della «richiesta del lavoratore» (da una parte, si può presumere sarà più timida in un contesto di squilibrio di potere economico-contrattuale e, dall’altra, non è chiaro come in pratica il lavoratore dovrebbe dimostrare la malattia o l’infortunio in caso di contestazioni del committente).

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Continuatività e lavoro autonomo

obbliga a creare il sito web di un’azienda, del giardiniere chiamato a una singola potatura stagionale o del consulente archivista che s’obbliga a riordinare una biblioteca privata. Ai fini che qui interessano è sufficiente rilevare che la lettera della legge depone a favore della tesi più restrittiva, nel senso che possono essere sospese solamente le prestazioni volte a soddisfare un interesse durevole del committente, per diverse ragioni. In primo luogo, osservando l’equilibrio interno alla norma, si può notare come la sospensione del diritto al compenso è immaginabile se l’obbligazione del prestatore non sia ad adempimento istantaneo. Infatti, a differenza che nel caso del lavoro continuativo, nella disciplina del contratto d’opera, quand’anche l’esecuzione sia prolungata, il compenso è normalmente dovuto in ragione della consegna dell’opera e del suo valore e non in proporzione al lavoro eseguito. Solo quando le parti non convengano alcunché, e le tariffe professionali o gli usi non consentano di determinare il corrispettivo, il giudice può utilizzare quale parametro non solo il risultato ottenuto, ma anche il lavoro normalmente necessario per ottenerlo (art. 2225 c.c.). Inoltre, il requisito in esame seleziona rapporti per i quali si vieta l’estinzione a fronte di eventi attinenti a condizioni personali che mettono a rischio la capacità lavorativa di giorno in giorno. Un simile rischio non si riscontra nelle ipotesi di “esecuzione prolungata” a causa dell’unicità del momento estintivo dell’obbligazione. Il protrarsi nel tempo della prestazione non comporta infatti un adempimento tempo per tempo, ma dipende esclusivamente dall’esigenza di conseguire l’unico opus perfectum. A ciò si aggiunga che il richiamo alla «attività» evoca la ripetitività indistinta del comportamento. Perciò potrebbe persino condurre a escludere quei rapporti obbligatori aventi ad oggetto prestazioni dirette a conseguire una serie di risultati in nesso di continuità che la dottrina considera a tutti gli effetti rapporti contrattuali di durata (v. supra). La seconda norma da prendere in esame è l’art. 3 della stessa l. 81/2017, che considera abusiva e priva di effetto la clausola che autorizza il committente a recedere «senza congruo preavviso», ma solamente «nel caso di contratto avente ad oggetto una prestazione continuativa». Anche in questo caso la locuzione “prestazione continuativa” richiama il contratto di durata in senso proprio, cioè quel contratto che contempla l’interesse durevole del committente. Infatti, la norma è speculare all’art. 6, comma 2, l. 18 giugno 1998, n. 192 in materia di subfornitura, che presenta un esplicito riferimento ai contratti «ad esecuzione continuata o periodica», riprendendo la tecnica semantica del Codice civile (v. supra). E solo per tali contratti il recesso (in particolare quello senza giusta causa) non comporta di per sé il risarcimento del danno, essendo sempre salvi gli effetti prodotti dalle prestazioni eseguite (art. 1373, comma 2, c.c.). Ne segue che l’obbligo di congruo preavviso non può riguardare il recesso dal contratto d’opera ex art. 2227 c.c.141. S’applica invece al recesso dal contratto atipico di collaborazione coordinata e continuativa142.

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Cfr. G. Santoro-Passarelli, Lavoro autonomo, cit., 718-719; e G. Giacobbe, D. Giacobbe, Il lavoro autonomo. Contratto d’opera (art. 2222-2228 c.c.), cit., 223. 142 È bene ricordare che al recesso del committente dai rapporti di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c. s’applicano i termini di decadenza ex art. 6, l. 15 luglio 1966, n. 604 per effetto dell’estensione disposta dall’art. 32, comma 3, lett. b), l. 4 novembre 2010, n. 183 pur in mancanza di quegli elementi giuridico-economici che, nella visione del legislatore, rendono la disposizione sulla decadenza un

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Fabrizio Ferraro

In entrambe le disposizioni il riferimento corre dunque ai rapporti contrattuali di durata. Si è detto con acume che tali disposizioni comporrebbero «in forma veramente rudimentale» uno “statuto” essenziale, interno alla l. 81/2017, dedicato al lavoro autonomo continuativo in quanto prototipo del lavoro economicamente dipendente143. Invero il requisito della continuatività sembrerebbe più che altro legato al dato tecnico sotteso a quelle previsioni: la sospensione ha senso e il preavviso si giustifica meglio, se la prestazione lavorativa è diretta alla soddisfazione di un interesse durevole, con conseguente esclusione dei contratti ad adempimento istantaneo ed esecuzione prolungata. La dipendenza economica è peraltro concetto contemplato dall’art. 9, comma 1, l. 192/1998, applicabile a tutti i rapporti di lavoro autonomo in forza del rinvio contenuto nell’art. 3, comma 4, della l. 81/2017. Ad ogni buon conto, la definizione ivi contenuta si basa sulla disparità economico-contrattuale derivante (anche) da condizioni di mercato. Si prescinde invece dalla continuatività delle prestazioni in senso proprio. E del resto l’estensione – ammesso che non fosse già applicabile – della norma sull’abuso di dipendenza economica al lavoro autonomo persegue un modello di protezione del contraente debole solo nell’ottica dell’equilibrio contrattuale, ottica che pare inadeguata rispetto alle più sfaccettate esigenze di tutela della persona interpretate dal diritto del lavoro. La definizione di uno “statuto” del lavoro autonomo continuativo fa idealmente parte di un percorso legislativo di consapevolezza della condizione di debolezza dei lavoratori autonomi battuto ad oggi con mezzi ancora insufficienti. Si potrebbe però sostenere che il carattere durevole della prestazione, nel senso tecnico già enucleato, rappresenti una – non l’unica – rilevante spia di debolezza contrattuale del prestatore chiamato a soddisfare interessi altrui nel tempo; e, quindi, dovrebbe comportare uno step di protezione ben più avanzato, in omaggio al modello redistributivo programmato dalla Costituzione (artt. 3 e 35). Time will tell.

ragionevole contrappeso nel contesto dei licenziamenti individuali e in altre fattispecie pure contemplate dal “collegato lavoro”. Cfr. le condivisibili critiche di Maio, Prescrizione e decadenza dei diritti dei lavoratori nel paradosso dell’incertezza crescente, in GI, 2014, 490 ss. Ebbene, la preclusione generata dalla decadenza potrebbe operare, in questo caso, rispetto alle poste risarcitorie che siano conseguenza diretta dell’atto estintivo, come ad esempio quelle connesse al mancato preavviso. Cfr. Trib. Genova, 9 maggio 2016, n. 397, in Ilgiuslavorista.it, 23 maggio 2016, che ritiene inapplicabile al contratto di agenzia la norma sulla decadenza. Più in generale, dacché la norma in questione, diversamente dall’abrogato art. 67, d.lgs. n. 276/2003, non regola il potere di recesso ma solo il diritto al preavviso, è ovvio che non subiscano alcuna modifica le diverse disposizioni che disciplinano il recesso unilaterale nelle discipline tipiche dei Libri IV (cfr. art. 1750 c.c.) e V o in altre leggi speciali, pur quando lo schema legale porti il retaggio di una regolazione a vantaggio del “committente debole”: cfr. F. Santoro-Passarelli, Professioni intellettuali, in NDI, XIV, rist., Utet, 1980, 27. 143 Magnani, Il contratto di lavoro subordinato, cit., 6-7.

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Paolo Iervolino

Il licenziamento ai tempi del Covid-19 Sommario : 1. Premessa. – 2. Licenziamenti non ricompresi nella moratoria. – 3. L’art. 46 del decreto Cura Italia è norma imperativa. – 4. La questione della nullità virtuale. – 5. Le modifiche chiarificatrici del Decreto Rilancio. – 6. Il vuoto normativo del 17 e 18 maggio. – 7. Le ragioni d’impresa post e pre 17 agosto. – 8. Una norma che abbaia ma non morde, pur tuttavia fondamentale.

Sinossi. Il seguente contributo ha lo scopo di evidenziare come l’intervento emergenziale in materia di licenziamenti individuali del Decreto Cura Italia possa aiutare a risolvere la querelle dottrinale riguardo le c.d. nullità virtuali per gli assunti dopo il 7 marzo 2015. Partendo dall’analisi delle possibili conseguenze sanzionatorie derivanti dalla violazione dell’art. 46, d.l. n. 18/2020, verranno poi illustrati gli aspetti controversi della decretazione d’urgenza, per poi concludere che tra Jobs Act ed art. 18 st. lav. non vi siano ancora differenze consistenti. Abstract. The contribution analyzes how the Cura Italia Decree’s article on individual dismissals can help to resolve the doctrinal question about the so-called virtual nullity for those employees hired after March 7, 2015. Starting from the analysis of the possible sanctioning consequences deriving from the violation of art. 46, legislative decree n. 18/2020, will then be illustrated the controversial aspects of the emergency decree, to finally conclude that between the Jobs Act and art. 18 S.L. there are no significant differences. Parole chiave: Licenziamenti individuali – Giustificato motive oggettivo – Nullità – Nullità virtuali – Norma imperativa – Jobs Act – Art. 18 S. L. – Decreto Cura Italia – Decreto Rilancio

1. Premessa. Nei prossimi mesi i Tribunali di tutt’Italia saranno chiamati a pronunciarsi in merito alle conseguenze sanzionatorie dell’art. 46 d.l. n. 18/2020, c.d. Decreto Cura Italia, convertito in l. n. 27/2020. Limitatamente ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, la disposizione stabiliva originariamente che per sessanta giorni, decorrenti dall’ entrata in vigore


Paolo Iervolino

del decreto1, «il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604». I primi commenti all’art. 46 non sono infatti del tutto univoci: v’è chi sostiene senza remore che il licenziamento intimato in violazione dell’articolo comporti come unica conseguenza sanzionatoria la nullità2, chi ritiene che il licenziamento sia semplicemente inefficace3 e v’è infine chi, pur concordando sul carattere imperativo della norma, ruota intorno alla querelle sull’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/20154. La disposizione in esame parrebbe infatti richiamare un precedente tema su cui la dottrina si è interrogata a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, il quale – a differenza della antecedente formulazione dell’art. 18, comma 1, st. lav. che faceva riferimento genericamente agli «altri casi di nullità previsti dalla legge» – prevede ora la reintegrazione piena nel caso in cui il recesso sia «riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge». L’attività interpretativa della giurisprudenza avrà dunque ad oggetto, non solo al contenuto precettivo dell’art. 46 d.l. n. 18/2020, ma anche (si avrà modo di osservare) l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015. Nonostante comunque i dubbi sulle conseguenze sanzionatorie, anche qualora fosse accordata la nullità del recesso (anche per gli assunti dopo il 7 marzo 2015), questa conseguenza sanzionatoria sortirebbe come unico effetto la posticipazione di un licenziamento5 che, dopo la moratoria, sarà ragionevolmente intimato nei confronti dei lavoratori tutelati transitoriamente dalla decretazione d’urgenza. Senonché l’art. 46 potrebbe avere un impatto sul sistema sanzionatorio degli assunti dopo il 7 marzo 2015 ben maggiore di quello che si possa pensare, poiché aiuterebbe a comprendere come le tutele dei lavoratori non siano effettivamente venute meno per il sol fatto che non trovi più applicazione l’art. 18 st. lav., così come modificato dalla Riforma Fornero.

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Dal 17 marzo 2020. Pileggi, Terapia intensiva e quarantena nel Diritto del Lavoro dell’emergenza epidemiologica, in Pileggi (a cura di), Il Diritto del Lavoro dell’emergenza epidemiologica, edizioni LPO, 2020; Passalacqua, I limiti al licenziamento nel D.L. n. 18 del 2020, ivi; Chietera, Covid-19 e licenziamenti, ivi; Gargiulo, Luciani, Emergenza Covid-19 e «blocco» dei licenziamenti: commento all’art. 46 del d.l. n. 18/2020 (conv. in l. n. 27/2020), in Bonardi, Carabelli, D’Onghia, Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, in Consulta giuridica CGIL, 1/2020; Verzaro, Il divieto di licenziamento nel decreto “Cura Italia, in Giustiziacivile.com, 4 maggio 2020; Iervolino, Sospensione (rectius nullità) dei licenziamenti economici per il Covid-19 e dubbi di legittimità costituzionale, in Giustiziacivile.com, 24 aprile 2020. Così Romei, Webinar 7 aprile 2020: Cassa integrazione guadagni e licenziamenti per motivi economici nell’emergenza Coronavirus; Fratini, Licenziamenti dopo il 17 maggio 2020: nullità o inefficacia?, in www.riccardofratini.it. Preteroti, Delogu, I licenziamenti collettivi e individuali al tempo del Coronavirus, in Pileggi (a cura di), op. cit.; Canavesi, Cosa succede con un contratto a tutele crescenti?, in www.ilsussidiario.net, 30 marzo 2020. Così conclude Pileggi, op. cit.

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2. Licenziamenti non ricompresi nella moratoria. Certamente non sussistono dubbi6 in merito alla possibilità di intimare licenziamenti ad nutum7 e disciplinari per giustificato motivo soggettivo ovvero per giusta causa durante questo periodo8, poiché l’ambito di applicazione della disposizione è chiaramente circoscritto alle sole ipotesi di «giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604». Come non rientrerebbe9 all’interno di tale ambito nemmeno il licenziamento per superamento del periodo di comporto10, in quanto «ai sensi dell’art. 2110 cod. civ. il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di licenziamento, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. 2119 cod. civ. e agli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966»11. E del resto anche l’art. 18, comma 7, differenzia sul piano concettuale e sanzionatorio il licenziamento per g.m.o. ed il licenziamento «intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile», non trovando peraltro applicazione nei confronti di quest’ultima ipotesi la procedura di cui all’art. 7, comma 6, l. n. 604 del 1966. Poiché poi il rapporto di lavoro del dirigente può essere risolto in assenza di giustificato motivo soggettivo ed (in questo caso soprattutto) oggettivo12, anche questa categoria di lavoratore subordinato non è ricompresa nella moratoria13. Il recesso del dirigente è infatti tipizzato dalla contrattazione collettiva attraverso la nozione di “giustificatezza” del licenziamento, che la giurisprudenza ha definito in coerenza con la natura fortemente fiduciaria del rapporto con l’impresa14.

3. L’art. 46 del decreto Cura Italia è norma imperativa. Tutti i commentatori dell’art. 46 concordano sul carattere imperativo della disposizione15, ma non può però ignorarsi che l’originaria formulazione della rubrica, “Sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti”, ben poteva ingenerare dubbi sul suo

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Tutti i commentatori della norma sono concordi. I lavoratori domestici, in prova, in età pensionabile, gli apprendisti, gli sportivi professionisti e i dirigenti, ma di questi ultimi si discorrerà meglio nel prosieguo. 8 Eccezion fatta per le previsioni di cui all’art. 23, comma 6, e 47, comma 2, del d.l. n. 18/2020. 9 Ritiene che rientri nella moratoria anche il licenziamento per superamento del periodo di comporto Chietera, op. cit. 10 Ritengono che non rientri nella moratoria: Pileggi, op. cit.; Passalacqua, op. cit.; Preteroti, Delogu, op. cit. 11 Cass., sez. un., 22 maggio 2018, n.12568, in www.GiustiziaCivile.com, 21 gennaio 2019, con nota di Conte. 12 Ai sensi dell’art. 10 l. n. 604/1966. 13 Passalacqua, op. cit.; Preteroti, Delogu, op. cit.; Chietera, op. cit. 14 Cass., 4 gennaio 2019, n. 87, in GI, 2020, 1. 15 Passalacqua, op. cit.; Chietera, op. cit.; Preteroti, Delogu, op. cit.; Verzaro, op. cit.; Iervolino, op. cit. Non ritengono però che la norma precluda, ma sospenda i recessi Romei, op. cit.; Fratini, op. cit. 7

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contenuto precettivo16, il quale avrebbe anche potuto postulare l’inefficacia del recesso quale prognosi del termine ‘sospensione’. In un sistema giuridico di civil law, come l’ordinamento italiano, la selezione dei termini operata dal legislatore è di particolare importanza, poiché l’ambiguità sintattica preclude il più delle volte l’uniformità applicativa, demandando alla giurisprudenza17 l’onere di individuare la regola applicabile, con non pochi riflessi in termini di certezza del diritto. È tuttavia innegabile che la rubrica dell’art. 46 non si riferisse in alcun modo al potere di recesso datoriale, ma alle eventuali conseguenze del licenziamento: la disposizione non prende in considerazione le impugnazioni poiché l’articolo non impedisce ogni tipo di recesso e, in ogni caso, anche se preclude i licenziamenti economici, questi ultimi devono comunque essere impugnati se intimati durante la moratoria, atteso che la eventuali conseguenze sanzionatorie spetteranno solo al giudice di merito. E se non fosse stata così distonica rispetto al contenuto18 non vi sarebbe stato neanche motivo di modificare in sede di conversione la precedente formulazione nella nuova rubrica “Disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo”. Ragion per cui sarebbe inutile sopravvalutare un mero errore di formulazione del legislatore19. In ogni caso, il verbo «non può» usato dal legislatore non è altro che una variazione semantica di divieto20: l’art. 46 è dunque una norma proibitiva21 volta a tutelare «indipendentemente dal numero dei dipendenti» i contraenti deboli del rapporto22. Del resto, se il legislatore avesse voluto sospendere il potere di recesso del datore di lavoro per i licenziamenti individuali per g.m.o. post 17 marzo, lo avrebbe esplicitato nel verbo come ha fatto per i licenziamenti collettivi avviati prima del 17 marzo23, ma poiché l’intento della norma è un altro, ovvero vietare “espressamente” i licenziamenti economici dopo la sua entrata in vigore: ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. Non è nemmeno possibile concordare allora con chi24 ritiene, a supporto della tesi dell’inefficacia del recesso previsto dall’art. 46, che il licenziamento per g.m.o. durante il lockdown giuslavoristico sia sovrapponibile al licenziamento per g.m.o. del lavoratore in

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Riguardo la contraddittorietà tra rubrica e contenuto vedi Pileggi, op. cit.; Passalacqua, op. cit.; Preteroti, Delogu, op. cit.; Chietera, op. cit.; Iervolino, op. cit. 17 Così rileva Mastropasqua, Art. 1418 c.1 c.c.: la norma imperativa come norma inderogabile, in www.juscivile.it, 2013, 12. 18 Evidenziata da Chietera, op. cit. 19 Così conclude Passalacqua, op. cit. 20 Come osservano Canavesi, op. cit. e Gargiulo, Luciani, op. cit., la formulazione ricorda molto quella del d.lgs. n. 151/2001. 21 All’interno della dottrina civilistica v’è chi fonda la l’indagine della nullità virtuale di cui all’art. 1418, comma 1, c.c., sulle disposizioni avente un contenuto proibitivo. Su tutti vedi Russo, Norma imperativa, norma cogente, norma inderogabile, norma indisponibile, norma suppletiva, norma dispositiva, in RDC, 2001, 584. 22 La legislazione civilistica si sta caratterizzando nel corso degli ultimi anni per la presenza di disposizioni imperative di matrice comunitaria volte a limitare il potere del contraente forte. Sul punto vedi Di Marzio, La nullità del contratto, Cedam, 2008, 443. 23 «A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020». 24 Romei, op. cit.

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stato malattia25: potrebbero sovrapporsi le due fattispecie solo negando il carattere imperativo, a questo punto, non solo dell’art. 46, ma dell’intero impianto normativo del Decreto Cura Italia finalizzato a temperare sul piano sociale – e dunque tutelare un interesse pubblico collettivo – gli effetti causati dal Covid-1926. Il presupposto della nullità è infatti da ricercare non tanto «in una non ben definita «espressa previsione di legge» quanto nella illiceità del licenziamento che deriva dalla violazione di norme imperative»27 di interesse pubblico generale28. Nel caso in esame dunque si attribuirà al giudice non solo il compito di qualificare come norma imperativa l’art. 46, ma anche e soprattutto di valutare le ragioni sottese alla disposizione29, al fine di deciderne le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla sua violazione. Se però una norma imperativa si identifica dalla mancanza di distinzione della platea dei destinatari, poiché «l’assolutezza del divieto è collegata…alla opinione del legislatore circa la incompatibilità con la tutela dell’interesse di un comportamento diverso da quello imposto dalla norma»30, non avendo l’art. 46 alcuna limitazione applicativa31, la sola conseguenza sanzionatoria per la violazione del suo precetto deve essere la nullità del recesso, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.: il licenziamento è «nullo quando è contrario a norme imperative».

4. La questione della nullità virtuale. Come osservato all’inizio del presente contributo, alla luce soprattutto del precedente paragrafo, non può comunque ignorarsi l’animoso dibattito dottrinale32 venutosi a creare nel corso di questi anni sulla formulazione «espressamente previsti dalla legge», poiché questa potrebbe comunque determinare l’esclusione della reintegrazione per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 pur in presenza di norma imperativa.

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Ex multis: Cass., 7 gennaio 2005, n. 239 «il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato durante la malattia del dipendente non è nullo, ma rimane sospeso fino alla guarigione del dipendente, e da quel momento torna a riprendere la sua efficacia». 26 In merito al carattere imperativo della decretazione d’urgenza v. Passalacqua, op. cit.; Gargiulo, Luciani, op. cit. 27 D’Onghia, Bavaro, Profilo costituzionale del licenziamento nullo, in VTDL, 3, 2016, i quali concludono che «Quanto alle ipotesi nelle quali la legge non indica la sanzione da applicare in caso di violazione, spetta all’interprete configurare l’interesse protetto dalla norma per qualificarla come imperativa o no, e così sanzionarla con la nullità/reintegrazione o con l’annullabilità/indennità.» 28 Nella dottrina civilistica vedi tra tutti Tommasini, Nullità (diritto privato), in Enc. dir., XVIII, Giuffrè, 1978, 908 e ss. 29 Cass., sez. un., 21 agosto 1972, n. 2697, in GC, I, 1972, 1914: «Allorquando si sia in presenza di una norma proibitiva... priva della sanzione di invalidità dell’atto proibito, occorre controllare la natura della disposizione violata, per dedurne l’invalidità o la semplice irregolarità dell’atto e tale controllo si risolve nell’indagine sullo scopo della legge ed in particolare sulla natura della tutela apprestata, se cioè di interesse pubblico o privato». 30 Cass., 4 dicembre 1982, n. 6601, in GC, I, 1883, 1172. 31 Gargiulo, Luciani, op. cit.: «la disposizione utilizza criteri ampi, stabilendo che il divieto si applichi nei confronti di qualsiasi datore di lavoro, “indipendentemente dal numero dei dipendenti”». 32 Per un’accurata disamina circa le nullità pre e post Jobs Act vedi Biasi, Il licenziamento nullo: chiavistello o grimaldello del nuovo sistema “a tutele crescenti”?, in ADAPT WP, n. 183/2015, nonché, amplius, Saggio sul licenziamento disciplinare per motivo illecito, CEDAM, 2017.

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Senza entrare nel merito delle varie interpretazioni: v’è chi ha ritenuto estesa l’area della nullità33, chi ha sostenuto che l’art. 2 non escluda le nullità virtuali di cui all’art. 1418, co.1, c.c.34, chi di contro ha ritenuto che l’avverbio limiti ‘espressamente’ l’ambito di applicazione della previsione ai soli casi di nullità testuali35 ed infine, chi ha scelto la soluzione mediana per cui sarebbero fatte salve le sole ipotesi di nullità previste dall’art. 1418, comma 2, c.c.36 Ove si accogliessero questi due ultimi orientamenti, dalla violazione dell’art. 46 del Decreto Cura Italia deriverebbe allora l’inefficacia del recesso, poiché verrebbero escluse dall’ambito di applicazione del Jobs Act le nullità virtuali37. È tuttavia assai più persuasiva – e la situazione emergenziale ne riflette le ragioni – l’opinione di chi ritiene che, con l’avverbio “espressamente”, il legislatore del 2015 abbia voluto sintetizzare tutte le fattispecie elencate in precedenza dall’art. 18, comma 1, S.L., da sempre tacciato di eccessiva prolissità38, a seguito delle modifiche apportate dalla Riforma Fornero. Ciò in ragione anche dell’epilogo che ha avuto la questione dell’insussistenza del fatto «materiale» contestato di cui all’art. 3 d.lgs. n. 23/2015, considerato oggi – nonostante le differenze sintattiche – alla stregua della precedente formulazione dell’art. 18 st. lav., così come modificato dalla Riforma Fornero39. Attenendosi strettamente al dato letterale, infatti, «l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore» avrebbe dovuto invece avere un significato diverso dall’art. 18, comma 4, st. lav., giacché altrimenti non vi sarebbe stato motivo di specificare che il fatto dovesse essere considerato insussistente nella sua ‘materialità’. Era allora ragionevole pensare che il Jobs Act avesse voluto positivizzare il primo orientamento della Corte di Cassazione in merito all’«insussistenza del fatto contestato»40, così come novellato dalla l. n. 92/2012. Tuttavia così non è stato perché la giurisprudenza ha forzato il dato letterale per condivisibili ragioni di tutela collettiva, che oggi si ripropongono all’alba dell’emergenza epidemiologica. Se le nullità virtuali non rientrassero nell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, sarebbe anche difficile giustificare – un po’ come è successo per le “tutele crescenti” 41 tanto au-

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Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in WP D’Antona, It., n. 246/2015. Persiani, Noterelle su due problemi di interpretazione della nuova disciplina dei licenziamenti, in ADL, 2015; D’Onghia, Bavaro, op. cit. 35 Treu, Jobs Act: prime riflessioni sui decreti attuativi, in GLav. 2015, 32, 2015; Cataudella, Nullità testuali e virtuali al tempo del Jobs Act, in Giuseppe Santoro-Passarelli Giurista della contemporaneità, Liber Amicorum, Giappichelli, 2018, 84 ss. 36 Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, CSDLE.It, n. 273/2015; Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra law and economics e vincoli costituzionali, in WP D’Antona, It., n. 259/2015. 37 Così concludono Preteroti, Delogu, op. cit. 38 Mimmo, Appunti su schema di decreto legislativo (attuazione della legge delega 10 dicembre 2014 n. 183), in www.agilazio.it. 39 Cass, 8 maggio 2019, n. 12174, in LG, 2019, 8-9. Ma da tempo anche la dottrina maggioritaria Perulli, Il contratto a tutele crescenti e la Naspi: un mutamento di “paradigma” per il diritto del lavoro?, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi. Decreti legislativi 4 marzo 2015, n. 22 e n. 23, Giappichelli, 2015, 33. 40 Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, in GI, 2014, 2788, con nota di Fiorillo. 41 Specialmente alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018, in RIDL, 2018, 1059, con nota di Carinci. Di recente l’Ufficio stampa della Corte Costituzionale, con un comunicato del 25 giugno 2020, ha confermato l’orientamento, questa volta limitatamente ai vizi formali e procedurali: «In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che è stato dichiarato incostituzionale l’inciso “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, in quanto fissa un criterio rigido e automatico, legato al solo elemento dell’anzianità di servizio». 34

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spicate dal legislatore del Jobs Act – il differente trattamento delle medesime situazioni42, poiché si riconoscerebbe soltanto agli assunti prima del 7 marzo 2015 la nullità del recesso in violazione dell’art. 4643; ma se è lapalissiano che il Giudice delle Leggi italiano ragioni diversamente dal Conseil Constitutionnel44, non facendosi problemi a superare persino la ratio legis di un intervento normativo per mitigare sul piano sociale gli effetti di un nuovo regime sanzionatorio che avrebbe dovuto ridurre sensibilmente la discrezionalità giudiziaria nella tutela indennitaria, verrebbe da chiedersi fino a che punto legittimerebbe due differenti tutele sanzionatorie in caso di nullità virtuale per violazione del medesimo art. 46 d.l. n. 18/2020.

5. Le modifiche chiarificatrici del Decreto Rilancio. Con la nuova decretazione d’urgenza del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, c.d. Decreto Rilancio, l’art. 80 ha sostituito all’art. 46 del Decreto Cura Italia le parole «60 giorni» con «5 mesi» ed ha altresì aggiunto alla fine del medesimo articolo il seguente periodo: «Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604». In anticipo sul pensiero di chi riconduce alla violazione dell’art. 46 l’inefficacia del recesso45, si potrebbe pensare che il nuovo periodo non sia altro che una precisazione della precedente frase, avendo questa volta il legislatore usato espressamente il verbo “sospendere” a riprova della «sospensione degli effetti dei recessi come conseguenza della disposizione e non la nullità per contrarietà a norma imperativa»46. Questo ragionamento avrebbe un senso logico che sicuramente non può essere escluso aprioristicamente, ma non v’è certezza sulla presunta consequenzialità tra i due periodi, poiché la nuova frase potrebbe anche semplicemente perseguire la finalità di garantire forme di tutela speciale per una platea più ampia di lavoratori colpiti dal Covid-19, confermando indirettamente la nullità del recesso in violazione dell’art. 46 così come originariamente formulato. Se fosse stata un’esplicazione consequenziale del precedente periodo, la nuova modifica non riporterebbe l’avverbio «altresì», ma una congiunzione conclusiva come “perciò, quindi, dunque, ebbene, pertanto, allora”. E poiché l’avverbio «altresì» viene in questo contesto usato come congiunzione coordinante aggiuntiva, è necessario chiedersi cosa il legislatore voglia sommare di nuovo al precedente periodo.

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Contrasterebbe dunque il principio di ragionevolezza e sarebbe contrario all’art. 3 della Costituzione come riscontrato anche da Canavesi, op. cit. 43 Si pensi al caso di due dipendenti della medesima azienda, uno assunto prima del 7 marzo 2015 ed uno assunto dopo: l’art. 46 avrebbe due conseguenze sanzionatorie diversificate. 44 Tursi, Note critiche a Corte Costituzionale n. 194/2018, in LDE, 1/2019. 45 Romei, op. cit. 46 Fratini, op. cit.

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Si potrebbe a prima vista pensare che la seconda modifica voglia ‘semplicemente’ aggiungere la sospensione delle procedure per g.m.o. avviate dopo il 17 marzo. La norma, così come originariamente formulata, vietava infatti ‘solo’ di «recedere dal contratto», ma non di comunicare l’intenzione di recedere per g.m.o., condizione prevista dall’art.7 l. n. 604/1966 per le imprese a cui si applica l’art. 18 S.L. (questo problema ovviamente non si pone per gli assunti dopo il Jobs Act)47. Poiché però in questi casi l’intenzione di recedere per g.m.o. non determina automaticamente il recesso dal contratto, la norma avrebbe allora – almeno apparentemente – consentito a queste imprese di comunicare l’intenzione del recesso e concludere legittimamente il recesso dopo il 16 maggio. Questo problema tuttavia, ad avviso di chi scrive, non si è mai posto. Il divieto dell’art. 46 si riferisce al momento dell’efficacia del licenziamento (ovvero dal giorno della comunicazione ex art. 7) e non alla data della sua formale intimazione. Le procedure ex art. 7 infatti già rientravano nella moratoria del Decreto, giacché nel nostro caso gli effetti del recesso per g.m.o. retroagirebbero ad un giorno in cui «il datore di lavoro…non può recedere». L’ art. 46 tutt’al più sollevava incertezze in merito alla sorte delle procedure avviate e non ancora concluse al 17 marzo 202048. Con la seconda modifica allora il legislatore intende chiarire proprio la sorte di queste procedure avviate e mai concluse. Bisognerebbe però comprendere il fine di una scelta del genere, dato che comunque, per le comunicazioni ex art. 7 anteriori all’entrata in vigore del Decreto, non si porrebbero dubbi in merito alla legittimità (ove ovviamente dimostrata in giudizio) del recesso, dato che l’efficacia retroagirebbe ad un giorno in cui non era in vigore il Decreto Cura Italia. Si potrebbe dunque ragionevolmente pensare che, alla luce soprattutto dell’ulteriore proroga del termine, questa sospensione delle procedure prevista dalla bozza avrebbe come unico fine quello di (provare a) disinnescare il giustificato motivo oggettivo delle comunicazioni con causale Covid-19 inviate prima del 17 marzo 2020. Non potendo la modifica disporre «che per l’avvenire», la moratoria non può avere «effetto retroattivo», ma l’art. 46 può quantomeno provare ad attenuare gli effetti causati dal Coronavirus. Il legislatore dunque, nella speranza di una ripresa, tenta con questa seconda modifica di ricondurre ad ingiustificatezza qualificata le procedure pendenti all’entrata in vigore del Decreto. Non si riuscirebbe altrimenti nemmeno a comprendere il nuovo comma 1-bis, aggiunto anch’esso dal Decreto Rilancio, in merito alla revocatoria dei recessi per g.m.o. intimati «nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020»49, se queste nuove modifiche appor-

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Così riscontra Pileggi, op. cit. Prima delle modifiche apportate dal nuovo Decreto Legge si interrogava sul punto Passalacqua, op. cit.; Preteroti, Delogu, op. cit.; Di Paola, Fedele, Questioni aperte in materia di licenziamento individuale: Parte I – Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Focus del 10 aprile 2020, in www.ilgiuslavorista.it. 49 « Il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 abbia 48

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tate non avessero come unico obiettivo quello di tutelare il maggior numero di lavoratori possibile.

6. Il vuoto normativo del 17 e 18 maggio. Poiché i Decreti Legge acquistano efficacia dal giorno stesso della loro pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, il Decreto Rilancio ha creato un vuoto normativo in materia di licenziamenti per g.m.o. da COvid-19 nelle date del 17 e 18 maggio. Come affermato in precedenza, infatti, secondo l’art. 11 delle preleggi, «La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo»: il nuovo decreto non troverebbe applicazione nei confronti dei rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore. Il problema si pone ovviamente solo nei confronti dei lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 ovvero nei confronti dei lavoratori assunti prima di quella data se l’azienda ha meno di 15 dipendenti, poiché il Decreto Rilancio comunque sospende le procedure ex art. 7 l. n. 604/1966. Nei confronti di questi lavoratori infatti i recessi avrebbero efficacia immediata e potrebbero essere anche considerati legittimi in ragione del fatto che non fosse in vigore alcuna disposizione che ne vietava l’intimazione50. Tuttavia, come già statuito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 118/1957, il principio generale di irretroattività «non è mai assurto nel nostro ordinamento alla dignità di norma costituzionale; né vi è stato elevato dalla vigente Costituzione, se non per la materia penale… Per le materie diverse da quella penale, l’osservanza del tradizionale principio è dunque rimessa…alla prudente valutazione del legislatore, il quale peraltro…dovrebbe a esso attenersi, essendo, sia nel diritto pubblico che in quello privato, la certezza dei rapporti preferiti (anche se non definiti in via di giudicato, transazione, ecc.) uno dei cardini della tranquillità sociale e del vivere civile.» L’unico limite effettivo alla retroattività è dunque posto dall’art. 25 della Costituzione secondo cui «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». La Corte Costituzionale riconosce pertanto la retroattività della legge civile purché tale retroazione non sia “irragionevole”51.

proceduto al recesso del contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, può, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale in deroga, di cui all’articolo 22, dalla data in cui abbia avuto efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro». 50 Verzaro, Alla ricerca della ragionevolezza perduta: il divieto di licenziamento per gli omaggi nelle altre emanazioni del decreto rilancio, in www.ilgiuslavorista.it, 21 maggio 2020. 51 C. cost., 14 gennaio 1994, n. 6, in www.giurcost.org e C. cost., 14 luglio 1988, n. 822, in www.giurcost.org.

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Il principio di ragionevolezza52 è un parametro cangiante53 sovente utilizzato dal giudice delle leggi per orientare il testo costituzionale54. Cercando di fare uno sforzo esegetico, quando si parla di “ragionevolezza” l’indagine deve essere rivolta verso i presupposti della legge55, nel bilanciamento cioè tra adeguatezza dei mezzi utilizzati e fini perseguiti dal legislatore, elementi che, nel caso di specie, sarebbero identificabili nell’essenza stessa di quella che è a tutti gli effetti una decretazione d’urgenza volta a (tentare di) contrastare gli effetti causati dal Covid-19. Partendo dal precedente assunto, pertanto, sebbene non vi fosse una previsione che vietava il recesso per g.m.o, potrebbero anche essere considerati ricompresi nel nuovo termine della moratoria anche i licenziamenti intimati nei giorni 17 e 18 maggio56. Se così non fosse si finirebbe per legittimare a contrario una irragionevolezza negli effetti della disposizione, trattando situazioni eguali in modo differente, sulla base della sola pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto, poiché formalmente la norma non dispone expressis verbis la proroga57, ma la mera sostituzione dei termini del divieto, determinando solo come conseguenza il prolungamento della moratoria. L’art. 80 del Decreto Rilancio era infatti una norma che sarebbe dovuta entrare in vigore prima del 17 maggio 2020 ed il legislatore non si era minimamente posto il problema del carattere retroattivo della disposizione, effetto derivato dalla mancanza di tempestività del Governo. Potrebbe allora essere proprio l’eterogenesi dei fini della decretazione d’urgenza a giustificare la nullità del recesso in violazione di una norma entrata in vigore dopo l’atto recettizio, ma il compito di fare chiarezza sul punto spetterà solo, nei prossimi anni, alla Consulta.

7. Le ragioni d’impresa post e pre 17 agosto. Una norma come quella del Decreto Cura Italia in materia di licenziamenti per g.m.o. qualora comportasse la nullità del recesso per violazione del divieto, potrebbe sicuramente ingenerare dubbi di legittimità costituzionale, essendo «L’iniziativa economica privata… libera»58.

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Anche la Corte Costituzionale ha contribuito ad aumentare la vaghezza del principio assimilando ad esso altre espressioni terminologiche. Così C. cost., 21 gennaio 1999, n. 2, in www.giurcost.org, che utilizza “ragionevolezza, proporzione, razionalità ed uguaglianza” come espressioni intercambiabili. 53 Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, in Conferenza trilaterale delle Corte costituzionali italiana, portoghese e spagnola, Roma, Palazzo della Consulta 24-26 ottobre 2013. 54 Scaccia, Controllo di ragionevolezza delle leggi e applicazione della Costituzione, in Nova juris interpretatio, 2007 secondo il quale a volte questo principio tende addirittura a prevalere sui principi costituzionali. 55 Mengoni, Il diritto costituzionale come diritto per principi, in Ars interpretandi, I, 1996. 56 Non esclude questa lettura Cavallini, Stop ai licenziamenti, i dubbi dell’avvocato dei lavoratori: “Senza dl rilancio, rischio di vuoto normativo. Nodo è la retroattività del divieto”, in il Fatto quotidiano, 16 maggio 2020. 57 Come ad esempio nel caso della legge 1° ottobre 1960, n. 1027, che prorogava il termine della Legge Vigorelli prevedendo espressamente che «il termine di cui all’art. 6 della legge 14 luglio 1959, n. 741, è prorogato di quindici mesi». Ragion per cui non sarebbero propriamente assimilabili le due fattispecie. 58 Art. 41 Cost.

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Il licenziamento ai tempi del Covid-19

L’estremo rimedio dell’art. 46 ad un male così estremo come il Covid-19 sarebbe però legittimo poiché – prescindendo per un attimo dalla posticipazione della moratoria del d.l. n. 19/2020 – avrebbe carattere transitorio, provvisoria ed eccezionale59. Maggiori perplessità vi potrebbero essere però in merito al termine del 17 agosto, poiché, memori della l. n. 1027/1960, il Decreto Rilancio andrebbe a stabilizzare gli effetti della limitazione all’art. 41 Cost. In questo caso tuttavia, a differenza di quanto successe nella nota vicenda della Legge Vigorelli, il legislatore non dispone espressamente la proroga del termine, ma la sostituzione dei «60 giorni» con «5 mesi». Il Decreto Rilancio dunque, agendo direttamente sul testo del Decreto Cura Italia, stante il perdurare della situazione emergenziale, non fa altro che modificare, estendendone il periodo, l’unica norma adottata per fronteggiare la situazione di eccezionale emergenza in materia di licenziamenti per motivi oggettivi. Anche detta nuova vecchia disposizione sarebbe stata allora «provvisoria, transitoria ed eccezionale» e dunque legittima dal punto di vista costituzionale. Ancor più perplessità vi sarebbero invece in merito all’ultima proroga introdotta dal d.l. 14 agosto 2020, n. 10460, poiché «resta, altresì, preclusa» – inserendo questa volta delle eccezioni al blocco61 ed una differenziazione sul termine62 – fino al 31 dicembre 2020 la facoltà di poter licenziare per giustificato motivo oggettivo anche a quelle imprese che non abbiano voluto beneficiare dello sgravio contributivo e degli ammortizzatori sociali concessi dal Governo63: dubbi riguardo l’ eccezionalità (c’è ancora il factum principis?), la proporzionalità (è possibile mantenere il blocco, differenziandolo, per chi non accede agli ammortizzatori sociali?) e soprattutto la ragionevolezza di una disposizione che comunque, ad esclusione della rubrica, non esplicita chiaramente né la proroga né il termine del blocco dei licenziamenti64, magari proprio per evitare di esporsi a quei profili di illegittimità costituzionale precedentemente evidenziati in merito alla Legge Vigorelli. La scelta politica del legislatore di agosto è stata dunque quella del “non dire”, lasciando all’interprete i limiti della nuova moratoria: l’impresa può apparentemente scegliere se usufruire o meno delle ulteriori diciotto settimane di ammortizzatori sociali, tuttavia solo

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In merito all’insussistenza dei profili di illegittimità costituzionale, sia consentito, Iervolino, op. cit. Sembrerebbe dubitare della legittimità costituzionale anche Maresca, La flessibilità del divieto di licenziamento per Covid (Prime riflessioni sull’art. 14, D.L. n. 104/2020), in www.rivistalabor.it 61 Non vi sarebbe blocco dei licenziamenti ove la società fallisse ovvero cessi la propria attività ovvero ci fosse un accordo collettivo aziendale che permetta di licenziare. 62 Il blocco dei licenziamenti, per chi utilizza gli ammortizzatori ovvero l’esonero, cesserebbe una volta che gli stessi sono esauriti e dunque, eventualmente, anche prima del 31 dicembre. Per una disamina della proroga, si veda, su tutti Verzaro, La condizionalità del divieto di licenziamento nel Decreto “Agosto”, in LDE, n. 3/2020; Biasi, Liberty e Freedom nel blocco dei licenziamenti collettivi, ibidem. 63 Non ritiene invece vi siano profili di illegittimità costituzionale Scarpelli, Proroga del blocco dei licenziamenti. Per favore diamone interpretazioni ragionevoli, in www.Linkedin.com, 19 agosto 2020, nonché, amplius, I licenziamenti economici come (temporanea) extrema ratio: la proroga del blocco nel D.L. n.104/2020, in www.rivistalabor.it. 64 Motivo per cui non vi è totale concordanza ancora su ciò che sia possibile e ciò che non sia possibile fare fino al 31 dicembre 2020, sebbene lo scrivente concordi – al netto dei dubbi di legittimità costituzionale – con Scarpelli, Proroga del blocco dei licenziamenti, cit., quando afferma che siano preclusi tutti i tipi di licenziamento per g.m.o. fino alla fine dell’anno 2020. 60

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Paolo Iervolino

usufruendone avrebbe la irragionevole possibilità di uscire dal blocco dei licenziamenti prima della fine dell’anno. Va ricordato che il licenziamento per g.m.o. rappresenta un’estrema ratio, motivo per cui non sarebbe nemmeno ragionevole rifiutare gli ammortizzatori concessi dal Governo in caso di motivo economico determinante, ma la maggiore problematicità del nuovo intervento risiede proprio nell’obbligatorietà di tale ricorso, specialmente se si pensa che nel frattempo sia venuto meno anche il factum principis del lockdown. Senonché è comunque opportuno evidenziare, al netto dei dubbi di legittimità costituzionale delle varie disposizioni, come le ragioni d’impresa siano talmente tutelate dal nostro ordinamento, che un datore di lavoro avrebbe potuto anche facilmente raggirare il divieto del licenziamento. Le imprese di grandi dimensioni le cui unità produttive sono dislocate lungo il territorio avrebbero infatti potuto in questi mesi decidere di attuare una riorganizzazione delle attività, chiudendo alcune strutture, al fine di disporre il trasferimento coattivo dei dipendenti in eccesso in un altro punto vendita dislocato ad una distanza maggiore dei 50 Km. In questo caso infatti il trasferimento del lavoratore sarebbe stato senza ombra di dubbio giustificato dalle «comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive» richieste ai sensi dell’art. 2103 c.c., ma poiché nel trasferimento il datore di lavoro pone permanentemente il dipendente in un’altra sede della medesima azienda, i lavoratori sarebbero stati indotti in questo caso a sottoscrivere una risoluzione consensuale del rapporto, senza dover necessariamente passare per la moratoria dell’art. 46. Un caso di scuola certo, ma necessario a far comprendere come la libertà di iniziativa economica non sia stata realmente intaccata dalla disposizione in esame. V’è(ra) però un unico serio profilo di incostituzionalità della disposizione non tenuto debitamente in conto dal legislatore: la misura della moratoria era eccessiva laddove non consentiva il licenziamento per g.m.o. in caso di cessazione di attività65. Il legislatore di agosto sembrerebbe finalmente averne preso contezza (sebbene non possa disporne con effetto retroattivo) di tale profilo di illegittimità costituzionale, avendo ora ritenuto questa fattispecie quale deroga alla nuova proroga. Prendendo infatti come esempio una delle poche nullità testuali di recesso regolamentate dal nostro ordinamento nel d.lgs. n. 151/2001 in merito alla situazione della lavoratrice madre, all’art. 54 è espressamente previsto che «Il divieto di licenziamento non si applica nel caso: di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta». Ma poiché il recesso per cessazione dell’attività è un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’art. 46 sarebbe contrario agli artt. 3 e 41 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza, laddove tratta situazioni differenti in modo eguale.

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Non sembrava centrare il punto nemmeno la legge di conversione n. 27/2020 che ha provveduto ad aggiungere al primo periodo dell’art. 46, comma 1: «fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto».

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8. Una norma che abbaia ma non morde, pur tuttavia fondamentale.

Come preannunciato in apertura, anche ove fossero considerati nulli i licenziamenti intimati in violazione della moratoria, niente potrà comunque impedire alle imprese di intimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo allo spirare del termine di divieto. Quasi sicuramente in ogni lettera di licenziamento verrà indicata come causale il Covid-19 e le ragioni economiche giustificatrici del motivo oggettivo saranno anche facilmente dimostrabili in giudizio dal datore di lavoro, nonostante i tentativi del legislatore di differire gli effetti del lockdown. L’art. 46 (e le sue proroghe) finisce così per essere una norma che abbaia ma non morde, perché non potrà scongiurare ad libitum il ricorso datoriale ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, pur tuttavia sarà di fondamentale importanza, poiché contribuirà a ridurre la (già sottile) linea di demarcazione tra assunti prima e dopo il 7 marzo 2015. Che l’intenzione del legislatore con la legge delega n. 183/2014 fosse di limitare «il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato» è indubbio, ma è anche evidente che l’impianto del d.lgs. n. 23/2015 sia stato completamente stravolto nel corso di questi anni dalla giurisprudenza: il contratto non è più a “tutele crescenti”, il minimo ed il massimo della tutela indennitaria è stato aumentato dal Decreto Dignità ed il fatto ‘materiale’ è comunque da valutare nella sua giuridicità. Il Decreto Cura Italia ha offerto invece oggi l’occasione per superare definitivamente la diatriba sulle nullità virtuali pre e post Jobs Act. L’unico dubbio che ancora permane per i nuovi assunti è in merito proprio ai casi di ingiustificatezza qualificata per giustificato motivo oggettivo, che prima del 7 marzo 2015 potevano (ma in realtà dovevano) determinare una tutela reintegratoria attenuata66, se manifestamente insussistente il fatto posto alla base del recesso, giacché adesso il Jobs Act prevede una mera tutela indennitaria nel caso in cui «non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo»67. L’esclusione della reintegrazione operata dal d.lgs. n. 23/2015 non ha fatto altro che accrescere nel corso di questi anni l’interesse sull’utilizzo strumentale da parte dei datori di lavoro della vecchia «manifesta insussistenza» del g.m.o., a cui l’art. 18, comma 7, st. lav., riconduceva una reintegrazione attenuata68.

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Art. 18, comma 7, st. lav. In questo senso recentemente Trib. Roma, 19 maggio 2020, in Newsletter Wikilabour.it, in cui un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 ha erroneamente fondato la richiesta di reintegrazione sulla base del solo art. 18, comma 7, st. lav. poiché manifestamente insussistente il giustificato motivo oggettivo posto alla base del recesso. Il giudice, tuttavia, fondandosi la richiesta reintegratoria su una sola causa petendi ha dovuto ricondurre il licenziamento manifestamente ingiustificato alla tutela indennitaria di cui all’art. 3 d.lgs. n. 23/2015. 68 Per un’ampia disamina vedi Ferraresi, Recenti sviluppi del dibattito sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Dall’apparato sanzionatorio alla fattispecie, in ADAPT WP, n. 12/2017. 67

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Calando questa affermazione nel caso di specie del Covid-19, non v’è dubbio che l’emergenza epidemiologica abbia causato in genere per le imprese un evidente calo del fatturato, tuttavia il problema che si pone oggi con il Jobs Act non è in riferimento a quei licenziamenti che saranno determinati esclusivamente da motivi economici, ma in merito a quei licenziamenti ritorsivi che, ammantati di motivo oggettivo, cavalcheranno l’onda dell’emergenza epidemiologica per dismettere forza lavoro69. Pur comprendendo gli intenti fraudolenti che potrebbero dissimularsi dietro ai recessi motivati da Covid-19, anche i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 non sarebbero tuttavia realmente lasciati senza tutele effettive, poiché la «manifesta insussistenza» del g.m.o. potrebbe ancora comportare la tutela reintegratoria. Il lavoratore dovrebbe però in questo caso offrire al giudice lo spunto per un’indagine sulla reale motivazione del recesso per g.m.o., dietro al quale potrebbe invero rivelarsi un esclusivo intento punitivo e disciplinare ovvero ritorsivo ex art. 1345 c.c.70. Così facendo allora, mentre la «manifesta insussistenza» prima del 7 marzo 2015 comporta la reintegrazione ed il pagamento un massimo di dodici mensilità, con il Jobs Act un lavoratore avrebbe anche la possibilità di essere reintegrato vedendosi riconoscere il pagamento di tutte le retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se non fosse stato licenziato, ove riuscisse adeguatamente a dimostrare in giudizio il vero intento del datore di lavoro. Per concludere dunque, se purtroppo il blocco dei licenziamenti non potrà effettivamente evitare la perdita dei posti di lavoro a causa del Covid-19, parafrasando una nota espressione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nella sua ancor più celebre opera “Il Gattopardo”, questa moratoria riuscirà quantomeno a dimostrare che tutto il regime sanzionatorio sia in questi anni cambiato per rimanere esattamente come era prima.

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Per i licenziamenti ritorsivi ovviamente è prevista la reintegrazione piena, ma non è facile dimostrare in giudizio il carattere esclusivamente ritorsivo del recesso, specialmente se sussistono anche i motivi economici determinati dal Covid-19. L’atto di recesso può essere infatti dichiarato nullo solo qualora il motivo illecito sia unico e determinante, ovvero abbia, da solo, determinato la volontà del datore di risolvere il rapporto. Si veda sul punto la più recente Cass., 19 novembre 2018, n. 29764, inedita a quanto consta. 70 Si veda Trib. Taranto, 21 aprile 2017, in LPO, 2017, con nota di Iervolino.

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Giurisprudenza commentata



Giurisprudenza C orte di Cassazione , sentenza 19 dicembre 2019, n. 34132; Pres. Di Cerbo – Est. Raimondi – P.M. Sanlorenzo (concl. diff.) – V.S.P. s.r.l. (Avv. Gambardella) c. F.L. (Avv. Correra). Cassa con rinvio App. Napoli, sent. n. 2946/2018. Lavoro (rapporto di) – Lavoratore disabile – Accomodamenti ragionevoli – Adattamenti organizzativi – Limiti.

L’art. 3, comma 3 bis, d.lgs. n. 216/2003, che prevede l’obbligo del datore di lavoro di porre in essere «accomodamenti ragionevoli» per «garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori», implica di individuare il punto di equilibrio tra il diritto del disabile a non essere discriminato, quello dell’imprenditore ad organizzare l’azienda secondo le proprie insindacabili scelte e quello degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate.

Svolgimento del processo. 1. Con ricorso ai sensi della L. n. 92 del 2012 F.L. adiva il Tribunale di Nola impugnando il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica intimatogli in data 4.2.2016 dalla società V.S.P. s.r.l., alle cui dipendenze aveva lavorato in qualità di guardia giurata dal mese di agosto 2004. Il Tribunale accoglieva il ricorso a conclusione della fase sommaria. L’opposizione della società veniva rigettata con sentenza pubblicata il 20.12.2017, con la quale il Tribunale confermava l’illegittimità del recesso datoriale per violazione dell’obbligo di repechage. 2. Avverso la detta sentenza, la società datrice di lavoro proponeva reclamo dinanzi alla Corte di appello di Napoli. Il lavoratore si costituiva per resistere all’impugnazione. 3. Con sentenza pubblicata il 4.5.2018 la Corte di appello di Napoli rigettava il reclamo, confermava la sentenza impugnata e condannava la società reclamante al pagamento delle spese del grado – Omissis. 5. Avverso la sentenza della Corte territoriale la società V.S.P. s.r.l. propone ricorso per cassazione affidato a un unico complesso motivo illustrato da memoria. Leonardo F. resiste con controricorso. L’Ufficio del Procuratore Generale ha depositato memoria. Motivi della decisione. 1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto, come in appresso precisato. 2. Con l’unico motivo la società ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, nonché dell’art. 1463 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La V.S.P. lamenta l’erroneità in diritto della sentenza impugnata, che ha considerato illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per insussistenza del giustificato motivo oggettivo invocato dall’impresa. In particolare, si sostiene

che, nel quadro dell’obbligo di repechage a carico del datore di lavoro, il principio di diritto applicabile è quello secondo cui spetta al datore di lavoro di provare l’inesistenza di posizioni lavorative libere e compatibili con lo stato di salute residuale del lavoratore. Non spetta invece al datore di lavoro dare la prova dell’inesistenza di “prestazioni” lavorative nell’ambito dell’impresa compatibili con le residue capacità lavorative, come è stato affermato dalla Corte territoriale. 3. Secondo la ricorrente la sentenza impugnata porrebbe erroneamente a carico del datore di lavoro un onere probatorio relativamente a un fatto per il quale, secondo la legge, non è previsto il sindacato del giudice, cioè la modifica dell’organizzazione aziendale per mano giudiziaria. Si sostiene nel ricorso che il principio applicabile in materia di repechage è quello per cui il diritto del lavoratore licenziando ad essere collocato in altra posizione aziendale sussiste per le mansioni equipollenti e, pure, con il suo consenso, mansioni inferiori, ma solo ove tali mansioni risultino scoperte nell’organigramma. La ricorrente insiste sul principio secondo cui non incombe sul datore di lavoro l’obbligo di mantenere il lavoratore in servizio attribuendogli mansioni compatibili con le residue – ovviamente inferiori – capacità lavorative, quando ciò comporti una modificazione dell’assetto organizzativo dell’impresa. La ricorrente pone poi in rilievo che, come osservato anche dalla sentenza impugnata, il lavoratore non ha contestato l’organigramma aziendale riportato in ricorso, documento dal quale non si ravvisava alcuna posizione “vacante” su cui poterlo ricollocare. 4. La fattispecie in esame si colloca, ratione temporis, nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, come integrato dal D.L. n. 76 del 2013 (convertito con modificazioni in L. n. 99 del 2013), disposizione tesa a recepire l’art. 5 della


Giurisprudenza

direttiva n. 78/2000/CE DEL 27.11.2000 in materia di “accomodamenti ragionevoli” per garantire il principio del rispetto della parità del trattamento dei disabili sul luogo di lavoro. 5. L’art. 3, comma 3 bis, citato è stato preso in considerazione dalla giurisprudenza di questa Corte, in particolare con le sentenze n. 6798 e n. 27243 del 2018. 6. Con la prima la Corte ha affermato che, in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, obbligo che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte ratione temporis all’applicazione del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, di recepimento dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5. 7. Con la seconda, si è statuito che, sempre in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro – purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell’invalido – ai fini della legittimità del recesso, in applicazione del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, di recepimento dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata e conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5. 8. Quest’ultima sentenza ha ricostruito come segue il quadro normativo. L’art. 5 della Direttiva stabilisce che: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previsti accomodamenti ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire alle persone con disabilità di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di aver una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore delle persone con disabilità”. 9. L’art. 3, comma 3-bis recita: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, del 13 dicembre 2006, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei

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luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”. La citata Convenzione delle Nazioni Unite del 2006 (art. 2) considera quale accomodamento ragionevole “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato ed eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”. 10. La suddetta disposizione è stata introdotta a seguito della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (causa C-312/11, Commissione contro Repubblica Italiana) che ha condannato lo Stato italiano per inadempimento all’obbligo di recepire, in maniera integrale, la direttiva citata. In particolare, i giudici di Lussemburgo hanno respinto la tesi prospettata dalla difesa del Governo italiano secondo cui l’applicazione dell’art. 5 della Direttiva non poteva basarsi su un’unica modalità, fondata sugli obblighi imposti ai datori di lavoro, ma doveva avvenire anche mediante la predisposizione di un sistema pubblico-privato atto ad affiancare il datore e le persone con disabilità (un sistema di promozione dell’inclusione che sarebbe già in parte previsto dalla L. n. 68 del 1999, dalla L. n. 104 del 1992, dal T.U. n. 81 del 2008 e dalla normativa su cooperative e imprese sociali). Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea per trasporre correttamente l’art. 5 della Direttiva, letto alla luce dei considerando 20 e 21, non è sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze concrete, a favore di tutte le persone con disabilità, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano ad essi di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione. In particolare, il considerando 21 del Preambolo della Direttiva citata prevede che “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”. La Corte di Giustizia, in conformità dell’art. 2, comma 4, della Convenzione dell’ONU, ha definito gli “accomodamenti ragionevoli” come “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i


Stefano Margiotta

diritti umani e delle libertà fondamentali” (CGUE, 4 luglio 2013, Commissione c. Italia, punto 58). In tale decisione la Corte, dopo aver esaminato la legislazione italiana vigente in materia di protezione dei disabili (in specie, la L. n. 104 del 1992, la L. n. 381 del 1991, la L. n. 68 del 1999, il D.Lgs. n. 81 del 2008), ha sottolineato che, dal testo dell’art. 5 della Direttiva 78/2000, letto in combinato disposto con i considerando 20 e 21, risulta che gli Stati membri devono stabilire nella loro legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati, cioè provvedimenti efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, riducendo l’orario di lavoro, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, con il solo limite di imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato. 11. Successivamente, la Corte di Giustizia Europea è intervenuta con riguardo alla normativa danese (sentenza 11 aprile 2013, cause C-335/11 e C-337/11) in ordine alla compatibilità dell’ambiente lavorativo con le funzionalità del disabile e ha rilevato che l’art. 5 della Direttiva 78/2000 deve essere interpretato nel senso che la riduzione dell’orario di lavoro può costituire uno dei provvedimenti di adattamento di cui a tale articolo, competendo al giudice nazionale valutare se la riduzione dell’orario di lavoro rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro. 12. L’Ufficio del Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto il rigetto del ricorso. Sia nella memoria sia nel suo intervento orale, il Pubblico Ministero ha osservato che, pur essendo mancata ogni indagine da parte della sentenza impugnata in ordine alla disciplina di cui al citato art. 3, comma 3 bis, la soluzione della Corte distrettuale doveva ritenersi in linea con tale disciplina, quale essa deve intendersi una volta convenientemente interpretata. 13. A questo proposito il Pubblico Ministero ha sottoposto a vaglio critico la giurisprudenza di questa Corte in tema di “accomodamenti ragionevoli”, in particolare le citate sentenze n. 6798 del 2018 e n. 27243 del 2018. 14. Ad avviso del Pubblico Ministero questa giurisprudenza, letta nel senso che gli obblighi del datore di lavoro sarebbero comunque da ricostruire nell’ambito di una sostanziale intangibilità dell’organizzazione del lavoro impressa dall’imprenditore, che la necessità di rispettare il mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa andrebbe intesa nel senso di escludere misure implicanti oneri di spesa e che resterebbe rigidamente fermo il diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l’esperienza e la professionalità acquisita, affermazioni queste che non terrebbero conto del diverso presupposto normativo

che oggi arricchisce la tutela delle persone disabili di nuovi, più penetranti mezzi di tutela, sposerebbe un’interpretazione sostanzialmente abrogatrice della novella, che viceversa negherebbe l’assolutezza del divieto, affidando al giudice la verifica di volta in volta dell’adempimento dell’obbligo (ovvero l’inesistenza o impraticabilità di idonei “accomodamenti”) o invece la sua violazione (come si ricava dalle decisioni n. 6798 del 2018, citata, e n. 13649 del 2019). 15. Non ritiene il Collegio che la precedente giurisprudenza di questa Corte sugli “accomodamenti ragionevoli” debba essere letta nel senso assolutamente restrittivo inteso dal Pubblico Ministero. 16. In ogni caso il motivo di ricorso, nel lamentare che la soluzione assunta dalla sentenza impugnata imporrebbe la modifica dell’organizzazione aziendale per mano giudiziaria, contrariamente ai principi costantemente affermati dalla giurisprudenza di questa Corte (p.es., Cass. n. 8419 del 2018), mette a nudo la carenza della decisione della Corte distrettuale, che non ha svolto alcuna indagine sui limiti nei quali il citato art. 3, comma 3 bis in relazione alle misure di accomodamento divisate dalla stessa decisione, impone di incidere sulla vita dell’azienda, nel raggiungimento del delicato punto di equilibrio – richiesto dalla corretta applicazione della norma come interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte – tra il diritto del disabile a non essere discriminato, quello dell’imprenditore ad organizzare l’azienda secondo le proprie insindacabili scelte e quello degli altri lavoratori. Ciò che ridonda sulle norme invocate in ricorso. 17. Tale indagine va svolta alla stregua dei parametri individuati dalla citata norma, che fa rinvio all’art. 2, pure citato, della Convenzione di New York del 2006, che, come si è detto, considera quale accomodamento ragionevole “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico proporzionato ed eccessivo (corsivo aggiunto), ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (art. 2). 18. Ciò che è mancata nell’analisi della sentenza impugnata è la valutazione della proporzionalità e della non eccessività delle misure di adattamento in essa indicate sia rispetto all’organizzazione aziendale sia con riguardo agli altri lavoratori. A tale valutazione dovrà provvedere il giudice di rinvio. 19. La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà ai principi già indicati e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità Omissis.

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Tutela dei disabili, “accomodamenti ragionevoli” e obbligo di “repechage” Sommario : 1. L’evoluzione del quadro giuridico. – 2. Applicazioni giurisprudenziali dei principi affermati dalla Convenzione Onu. – 3. La sentenza della Corte di Cassazione n. 34132 del 2019. Prospettive e problemi giuridici di carattere sostanziale. – 4. (segue). Prospettive e problemi giuridici di carattere processuale.

Sinossi. Dopo aver brevemente descritto l’evoluzione della normativa che ha condotto all’obbligo di porre in essere accomodamenti ragionevoli per favorire l’inserimento lavorativo dei disabili, il commento si concentra sui parametri da seguire per l’individuazione delle misure tecniche – organizzative – produttive effettivamente rispettose del canone di ragionevolezza, e quindi esigibili dai datori di lavoro. Abstract. After briefly describing the evolution of the legislation that led to the necessity of putting in place reasonable accommodations in order to promote the job placement of disabled people, the comment focuses on the parameters to be followed for the identification of technical – organizational – productive measures that are actually respectful of the canon of reasonableness, and therefore enforceable against employers.

1. L’evoluzione del quadro giuridico. La dir. 27 novembre 2000, n. 78 ha stabilito un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, l’età, le tendenze sessuali e gli handicap per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo il principio della parità di trattamento (cfr. art. 1 della direttiva stessa). Per effetto di questa direttiva l’Italia, col d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, ha dovuto estendere all’età, alle convinzioni personali, alle tendenze sessuali e alla condizione di disabile (“portatore di handicap” secondo la terminologia della direttiva1) il divieto di discriminazione che le norme nazionali in vigore prevedevano con riguardo all’adesione ad associazioni sindaca-

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Vedi 27mo “Considerando”.

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li, alle opinioni politiche, alla fede religiosa, alla razza, alla lingua e al sesso (art. 15 l. n. 300/1970 – Statuto dei lavoratori)2. Il divieto di discriminazione dei disabili (“portatori di handicap”) assume peraltro una valenza particolare in considerazione dell’articolo 5 della predetta direttiva che ha stabilito che per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento nei loro riguardi vanno “previste soluzioni ragionevoli”, tali essendo “provvedimenti appropriati” che il datore di lavoro “prende … in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”. In effetti la tutela del lavoratore disabile si esprime in modo diverso da quella di lavoratori che si trovano in altre situazioni a rischio di discriminazione indicate nell’art. 15 della legge n. 300 rispetto alle quali quella di minorazione psico-fisica è profondamente diversa. Donne, omosessuali, portatori di idee rivoluzionarie, sindacalisti, ecc.3, rischiano di essere sottoposti a trattamenti pregiudizievoli per ragioni che di regola nulla hanno a che vedere col rapporto di lavoro, mentre gli svantaggi dei portatori di handicap risiedono spesso proprio in ragioni inerenti ai risultati che la loro controparte contrattuale (il datore di lavoro) non illegittimamente si attende dal rapporto giuridico che li lega: ragioni cioè attinenti alla prestazione lavorativa che essi sono capaci di svolgere. Ne deriva che mentre impedire discriminazioni per razza, sesso, convinzioni politiche (e così via) non implica imporre oneri al datore di lavoro (che deve limitarsi a non sfavorire persone in possesso di normale capacità lavorativa), la faccenda si complica quanto si tratta di portatori di handicap. Qui il divieto di discriminazione non è più inteso nel senso restrittivo, limitato al divieto del datore di lavoro di sfavorire i disabili per il fatto del loro stato (il che tuttavia non impedisce che il portatore di handicap continui, se del caso, a subire gli svantaggi derivanti dalla sua, eventualmente ridotta, capacità lavorativa) ma giunge ad imporre al

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Per un approfondimento della materia si veda Barbera, Le discriminazioni basate sulla disabilità, in Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffrè, 2007, 77 ss. Vedi anche Bellocchi, Divieti di discriminazione, interventi di contrasto e sanzioni specifiche contro gli atti discriminatori, in G. Santoro-Passarelli (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Il lavoro privato e pubblico, Ipsoa, 2009. Si rileva sin da ora che le leggi n. 104 del 5 febbraio 1992 e n. 68 del 12 marzo 1999 hanno poco a che fare col tema del divieto di discriminazione sul lavoro determinato dalla presenza di handicap, oggetto dell’art. 5 della direttiva n. 78 del 2000. Come è noto la prima è la legge quadro sull’assistenza e l’integrazione sociale delle persone portatrici di handicap che non riguarda, se non marginalmente, il rapporto di lavoro – prevede alcuni diritti sulla sede di lavoro e sui permessi per i familiari del portatore di handicap (articolo 33); la seconda prevede una sorta di discriminazione in senso positivo (i datori di lavoro con oltre 15 dipendenti devono, pur senza averne necessariamente bisogno, assumere un certo numero di disabili con certe caratteristiche anche a scapito di coloro che non siano portatori di handicap) mentre l’obbligatoria assunzione del disabile potrebbe provocare la mancata assunzione di un lavoratore normalmente abile. Si veda sul tema Garofalo, Disabili (lavoro dei), in DDP comm., Utet, appendice, 759; Pera, Note sulla nuova disciplina delle assunzioni obbligatorie degli invalidi, in GC, 1999, II, 323; Vallebona, La nuova disciplina delle assunzioni obbligatorie, in MGL, 1999, 476; Facchini, Assunzioni obbligatorie e oneri di diligenza, in DL 1995, II, 13; Luciani, Sulla costituzionalità del sistema di assunzioni obbligatorie, in RassDC, 1989, 701; Pera, Assunzioni obbligatorie, in EGT, 1988, vol. III. La discriminazione per età ha peraltro alcuni elementi comuni con la discriminazione connessa al fatto di essere portatore di handicap. Sul tema: Bonardi, Le discriminazioni basate sulla disabilità, in Il nuovo diritto antidiscriminatorio, a cura di Barbera, Giuffrè, 2007, 125 ss.

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datore di lavoro di prendere provvedimenti positivi (“obblighi di fare”) affinché venga almeno in parte riequilibrata a favore del disabile la diversa, originaria, sua situazione di partenza4: si tratta, appunto, dell’obbligo imposto al datore di prendere “provvedimenti appropriati” sancito dall’art. 5 della direttiva comunitaria5. Poiché il d.lgs. n. 216/2003, nella sua originaria formulazione non aveva espressamente previsto quest’obbligo6 la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la decisione 4 luglio 2013 (causa 312 – 2011)7 affermò che l’Italia non avesse correttamente attuato la dir. 2000/78/CE. Infatti – argomentava la Corte – “la legislazione italiana, anche se valutata nel suo complesso, non impone[va] all’insieme dei datori di lavoro l’obbligo di adottare, ove ve ne sia necessità, provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, al fine di consentire a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione”8. I giudici lussembur-

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Per Barbera, op. cit., 83, qualsiasi legislazione antidiscriminatoria relativa ai disabili finisce col ridefinire il concetto di merito ammettendo e anzi imponendo un trattamento preferenziale a favore del disabile da tutelare. L’autrice (op. cit., 84 e 85) rammenta il Disability discrimination Act del 1995 del Regno Unito (secondo il quale ci si aspetta un trattamento di maggior favore per i disabili che non può limitarsi a trattarli come gli altri ma per i quali vanno previste soluzioni ragionevoli) e il Americans with disability act del 1990 (secondo il quale il datore di lavoro ha l’obbligo di adottare provvedimenti ragionevoli a favore dei disabili il che si traduca in un trattamento preferenziale). Ferraro, L’estinzione del rapporto, in La Macchia (a cura di), Disabilità e lavoro, Ediesse, 2009, 336 afferma che il collegamento del disabile per essere personalmente orientato non può mai tradursi in una mera (neutrale) collocazione dello stesso in un posto predeterminato ma richiede una serie di operazioni organizzative che consentono di adeguare l’obbligo di lavorare alle caratteristiche dei disabili (ciò si collega all’art. 10, comma 2, l. n. 68 de 1999 secondo quale non può essere richiesto al disabile svolgere mansioni incompatibili con il suo stato di salute). Sul tema merita di essere ricordata la sentenza della Corte di cassazione, 12 novembre 2019, n. 29289 che ha confermato la decisione del giudice di merito, che, nell’ambito di una procedura di cui alla l. n. 223 del 1991, aveva dichiarato illegittimo perché discriminatorio il licenziamento del lavoratore cui, per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni svolte, non era stato attribuito alcun punteggio aggiuntivo rispetto agli altri dipendenti non affetti da disabilità. Grazie alla previsione dell’obbligo di porre in essere accomodamenti ragionevoli a tutela del disabile “la questione della parità di trattamento e dell’uguaglianza “sostanziale” dei disabili costituisce una questione di giustizia sociale che determina obblighi di contenuto positivo da completarsi ai divieti di discriminazione diretta e indiretta” – si tenta cioè, per quanto riguarda i disabili il passaggio dal concetto di uguaglianza formale a quello di uguaglianza sostanziale (Riccardi, Disabili e lavoro, Cacucci, 2016, 185). Circostanza tanto più rilevante ove si consideri che (Riccardi, op. cit.) “l’accomodamento ragionevole costituisce il paradigma fondativo della nuova strategia antidiscriminatoria”; anche con la previsione delle soluzioni ragionevoli da apportare all’ambiente e alle condizioni di lavoro delle persone disabili “la direttiva 2000/78/CE ha determinato un’inversione nelle logiche di intervento in materia di discriminazione” (Riccardi, op. cit., 183). Con ciò la normativa italiana (Riccardi, op. cit., 187) finiva “con l’incidere sulla stessa nozione comunitaria di discriminazione che ha negli obblighi positivi di rimozione degli ostacoli il suo nuovo baricentro”. La Commissione dell’Unione europea ebbe a ritenere che l’Italia non avesse trasposto correttamente nel suo ordinamento giuridico la direttiva e dopo aver diffidato il nostro Paese a provvedere (lettera del 15 dicembre 2006) ricorse alla Corte. Sulla sentenza della Corte di Giustizia: Cinelli, Insufficiente per la Corte di Giustizia la tutela che l’Italia assicura ai lavoratori disabili: una condanna realmente meritata?, in RIDL, 2013 II 935; Danisi, Disabilità lavoro e soluzioni ragionevoli: l’inadempimento dell’Italia alla Corte di Giustizia, in QCost, 2013 1008; Agliata, La Corte di Giustizia torna a pronunciarsi sulle nozione di handicap e “soluzioni ragionevoli” ai sensi della dir. 2000/78/CE, in DRI, 2014, 263. Nel procedimento davanti alla Corte di giustizia la difesa italiana sostenne che il fine della parità di trattamento dei disabili poteva legittimamente realizzarsi senza imporre obblighi ulteriori ai privati mediante la predisposizione di un sistema di promozione dell’integrazione lavorativa delle persone con disabilità, essenzialmente fondato su un insieme di incentivi, agevolazioni misure e iniziative a carico delle autorità pubbliche e, solo in parte, su obblighi imposti ai datori di lavoro. L’art. 5 della Direttiva avrebbe inoltre potuto ritenersi sufficientemente attuato tramite la l. n. 104/1992 (che attribuisce alle regioni la competenza a regolamentare le agevolazioni ai singoli disabili per recarsi al posto di lavoro e per l’avvio e lo svolgimento di attività lavorative autonome, nonché gli incentivi, le agevolazioni e i contribuiti accordati ai datori di lavoro, anche al fine di adattare il posto di lavoro), la l. n. 381/1991 (destinata all’inserimento lavorativo dei disabili attraverso le cooperative sociali), la l. n. 68/1999 (sull’accesso all’impiego dei disabili), il decreto legislativo n. 81/2008.

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ghesi inoltre richiamavano nella loro motivazione la Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità – nel frattempo sottoscritta il 13 dicembre 2006 e ratificata dall’Italia a seguito della l. 3 marzo 2009, n. 18 – che, per quanto qui maggiormente interessa: – definisce disabili coloro che sono affetti da “minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri” (art. 1, comma 2) e – ne sancisce la parità di trattamento anche sul posto di lavoro in attuazione del principio dell’“accomodamento ragionevole” definito come “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su una base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali” (art. 2, comma 4)9. In ottemperanza alla decisione della Corte di Giustizia europea, è stato emanato l’art. 9, comma 4 ter, del decreto l. 28 giugno 2013, n. 76, convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 99: esso, inserendo l’art. 3, comma 3 bis, d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 ha stabilito che “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite” fatta a New York il 13 dicembre 2006 (che sarà d’ora in poi denominata per brevità Convenzione ONU) “per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”10.

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L’art. 27, lett. i), della Convenzione ONU ratificata con la l. n. 18 del 2009 prevede che l’Italia debba “garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro, anche a coloro i quali hanno subìto una disabilità durante l’impiego, prendendo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative – in particolare al fine di … garantire che alle persone con disabilità siano forniti accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro”. 10 Disposizione, per certi versi, antesignana dell’art. 3, comma 3 bis, d.lgs. n. 216/2003, è costituita dall’art. 10, comma 3, l. n. 68/1999 secondo il quale il licenziamento dei disabili la cui condizione di salute si sia aggravata nel corso del rapporto di lavoro è ammesso solo se essi – a seguito di una valutazione demandata alla Commissione di cui all’art. 1, comma 4, della stessa legge – non possono essere reinseriti all’interno dell’azienda “attuando possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro”. Vedi anche l’art. 9, comma 5, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 convertito dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221 che indica la predisposizione di “accomodamenti ragionevoli” tra le modalità per assicurare l’occupazione mediante lavoro a domicilio o telelavoro a disabili da computare tra quelli rilevanti per la copertura della quota di riserva di persone da assumere obbligatoriamente ai sensi della l. n. 68/1999 nonché l’art. l’art. 11 d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151 che pone la contribuzione all’approntamento degli “accomodamenti ragionevoli” per consentire l’inserimento lavorativo del disabile tra le funzioni del Fondo di cui all’art. 14. In effetti dopo un periodo durante il quale gli strumenti europei erano sostanzialmente finalizzati allo scambio di informazioni tra Stati membri (Ferri, L’accomodamento ragionevole per le persone con disabilità in Europa: da transatlantic borrowing alla bross-fertilization, in Riv. diritto pubblico comparato ed europeo, 2017, 411), il Trattato Amsterdam avrebbe inserito una disposizione che pone tra i fini dell’Unione quello di “prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate … sugli handicap …” (art. 6A TUE) e avrebbe anche presentato la relativa Dichiarazione sui portatori di handicap delle cui esigenze va tenuto conto nell’opera di ravvicinamento delle legislazioni e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di Nizza riconosce (articolo 26) il diritto di disabili di beneficiare di misure intese a garantirne inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità: con ciò alla classica prospettiva antidiscriminatoria si aggiunge un particolare interesse alle politiche di inclusione attiva. Sull’evoluzione della normativa, ricorda Barbera, op.cit.,100, hanno avuto molta importanza l’attenzione crescente che l’Unione europea e la comunità internazionale hanno dedicato alla questione sociale della disabilità e il frutto dell’azione politica organizzata di gruppi pressione attivi tanto livello nazionale che a livello sovranazionale. Sull’evoluzione della normativa vedi Casale, L’idoneità psicofisica del lavoratore pubblico, BUP, 2013, 22 e ss;

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Con ciò sorge l’esigenza di definire il concetto di “accomodamento ragionevole”.

2. Applicazioni giurisprudenziali dei principi affermati dalla Convenzione Onu.

La piena affermazione dei principi enunciati dalla direttiva europea prima e dalla Convenzione Onu poi, scalfisce11 il noto orientamento secondo il quale, in ossequio al principio costituzionale della libertà economica privata (art. 41 Cost.), “la tutela di singoli lavoratori” non “può spingersi fino a determinare scelte organizzative preordinate al perseguimento di finalità assistenziali”12 né di iniziativa il datore di lavoro “è tenuto ad adottare particolari misure che vadano oltre il dovere di sicurezza imposto dalla legge, al fine di porsi in condizione di cooperare all’accettazione della prestazione lavorativa di soggetti affetti da infermità”13. Per effetto dell’attuazione dei quei principi la libertà di organizzazione dell’impresa subisce, quando si tratta di disabili, una compressione, ammessa dal secondo comma dell’art. 41 Cost. in quanto giustificata da esigenze di carattere sociale14, purché non “sproporzionata o eccessiva” (aspetto che si preoccupano di affermare e ribadire l’art. 5 della direttiva europea, l’art. 3, comma 3 bis, d.lgs. n. 216/2003, la Convenzione Onu, oltre che la giurisprudenza)15. L’applicazione più rilevante16 che ne è derivata ha riguardato le ipo-

Pasqualetto, Le novità dell’estate e dell’autunno 2015 in materia di collocamento mirato dei disabili, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Cedam, 2016, 766 ss. 11 Riccardi, op cit., riconosce che il comma 3 bis dell’art.3 d.lgs. n. 216/2003 ha fatto cadere il principio dell’intangibilità delle prerogative datoriali. Sul rapporto tra azioni positive per i disabili e libertà di organizzazione dell’impresa vedi anche Ferraro, Tutela dei disabili e poteri imprenditoriali, in Lamacchia (a cura di), Disabilità e lavoro, Ediesse, 2009, 335 e ss. Si rileva come la Corte di Cassazione, pur senza applicare i contenuti e gli obiettivi della direttiva comunitaria avesse affermato, anche prima della pronuncia della Corte di Giustizia Europea dell’Unione, sulla base di un bilanciamento tra i valori dell’ordinamento interno, dotati di pari rilievo costituzionale (art. 41 Cost., in comparazione con gli artt. 4, 35 e 36 Cost.) la necessità per il datore di lavoro di dimostrare, ai fini della valutazione sulla legittimità del recesso intimato per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, di aver previamente accertato la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse e di pari livello attraverso i necessari adattamenti organizzativi (Cass., 13 ottobre 2009, n. 21710; Cass., 10 marzo 2015, n. 4757). In materia di collocamento obbligatorio degli invalidi la giurisprudenza costituzionale espresse, molto tempo prima dell’entrata in vigore dell’attuale normativa contro la discriminazione, il tradizionale orientamento secondo il quale la ratio della relativa legislazione “non è … quella di procurare ai minorati del lavoro un mantenimento caritativo, ma di porre in essere le condizioni per la formazione di un contratto di lavoro, in ordine al quale l’idoneità al lavoro è richiesta per la persistenza del rapporto medesimo” (C. cost., 15 giugno 1960, n. 38), né “ al datore di lavoro … sono accollati oneri di carattere assistenziale” (C. cost., 30 dicembre 1987, n. 622; C. cost., ordinanza 25 maggio 1985, n. 173) “ma solo la instaurazione di un regolare rapporto di lavoro, in base al preventivo esame della residua capacità di lavoro dell’invalido” (C. cost., ord. n. 173, cit.). L’articolo 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216/2003, è divenuto una sorta di metacriterio per la ridefinizione degli obblighi gravanti sui datori di lavoro per effetto della l. n. 68/1999 (cfr. Riccardi, op. cit., 192). 12 Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755; Cass., 5 agosto 2000, n. 10339. 13 Vedi Cass., 6 dicembre 2017, n. 29250. 14 Il disposto dell’art. 41 legittima un intervento dello Stato con «misure protettive del benessere sociale e, contemporaneamente, restrittive della privata iniziativa» (C. cost., 25 giugno 1957, n. 103, in Sentenze e ordinanze della Corte Costituzionale – Vol. X del 1957), sempreché la privata iniziativa non venga da siffatto intervento annullata o soppressa (C. Cost., 15 giugno 1960, n. 38). 15 Vedi le decisioni citate nelle Note 17 e 19. 16 Per Spinelli, La sfida degli accomodamenti ragionevoli per i lavoratori disabili dopo il Jobs Act, in DLM, 2017, 1, 53, effetto dirompente dell’introduzione dell’obbligo di provvedere ad accomodamenti ragionevoli è quello di aprire un varco all’intangibilità del potere

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tesi di licenziamento per superamento del periodo di conservazione del posto in caso di malattia e di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, la legittimità del quale è stata subordinata alla previa “verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro” capaci di evitare il licenziamento17. Sono stati in particolare ritenuti illegittimi il licenziamento di un autista divenuto inidoneo, a seguito di un infortunio, a svolgere le sue mansioni, in quanto poteva essere adibito ad altre mansioni compatibili con le sue menomazioni18, e quello di un manutentore di un cementificio che per l’insorgere di una serie di patologie (broncopneumopatia, dermatite da contatto, angioneurosi alle mani) non poteva più esporsi alle polveri presenti sul posto di lavoro, esposizione che tuttavia avrebbe potuto evitarsi adottando “soluzioni ragionevoli” (nella specie il posto di lavoro poteva essere tenuto al riparo dalle polveri senza eccessivi aggravi organizzativi19). Illegittimo è stato anche ritenuto20 il licenziamento per superamento del periodo di comporto di un lavoratore disabile in ragione del fatto che il datore di lavoro, a fronte della situazione di fragilità psico-fisica e sociale del lavoratore, non lo aveva informato preventivamente della imminente scadenza del periodo di comporto per consentirgli di fruire degli istituti del CCNL (aspettativa, permessi e ferie) e conservare il posto di lavoro21.

3. La sentenza della Corte di Cassazione n. 34132 del 2019.

Prospettive e problemi giuridici di carattere sostanziale.

L’evoluzione della normativa e l’affermarsi dei principi contenuti nella Convenzione Onu ha avuto un recente approdo nella sentenza della Corte di Cassazione, 19 dicembre 2019, n. 34132 pronunciata nel corso di un giudizio avente ad oggetto il licenziamento

organizzativo del datore di lavoro quando si tratta di tutelare il diritto al lavoro di una persona disabile. Si vedano Cass., 19 marzo 2018, n. 6798; Cass., 21 maggio 2019, n. 13649. Come si è visto (vedi Nota 10) del resto l’ordinamento non era nuovo a queste limitazioni (l’art. 10, comma 3, ultimo periodo, l. 12 marzo 1999, n. 68 prevede “nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro… il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la … [competente] Commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda”. Per Cass., 28 aprile 2017, n. 10576 l’“accertamento della Commissione non può essere surrogato da quello del medico competente” (vedi anche Cass., 23 marzo 2017, n. 7524)”. 18 Cass., n. 13649/2019, cit. 19 Cass. n. 6798/2018, cit. La sentenza Cass., 2 ottobre 2019, n. 27502 da un lato ammette l’obbligo, prima di disporre il licenziamento, della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi purché contenuti nei limiti della ragionevolezza, ma, dall’altro (anche per il dubbio che nella fattispecie si trattasse di persona in condizione di “disabilità” riconducibile al d.lgs. n. 216/2003 e per essere il fatto anteriore all’entrata in vigore di tale normativa) esclude che il datore di lavoro debba adottare misure organizzative per l’utilizzazione del lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni di originaria assegnazione in quanto l’art. 4, comma 4, l. n. 68/1999 non lo prevede. 20 Trib. Santa Maria Capua Vetere, 11 agosto 2019, n. 20012. 21 Non è di regola stato dato rilievo (vedi però Cass., 2 ottobre 2019, n. 27502) all’eventualità che la fattispecie si collocasse in epoca anteriore alla normativa di recepimento della direttiva: questa circostanza è stata ritenuta irrilevante “considerato l’obbligo del giudice nazionale di offrire una interpretazione del diritto interno conforme agli obiettivi di una direttiva anche prima del suo concreto recepimento e della sua attuazione” (Cass., n. 6798/2018, cit., Cass., n. 13649/2019, cit. e Cass., n. 17867/2016, cit.). 17

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per sopravvenuta inidoneità fisica di una guardia giurata parzialmente inidonea a svolgere le sue mansioni per non essere in grado stare molto tempo in piedi ed espletare turni di notte, presso clienti esposti ad alti rischi. Nel relativo giudizio il datore di lavoro, per dimostrare di non aver potuto altrimenti reimpiegare il dipendente, aveva prodotto l’organigramma aziendale dal quale risultava che tutte le postazioni di lavoro presso i vari clienti erano stabilmente occupate (dal che desumere che non vi erano postazioni vacanti in cui ricollocare il dipendente) ma il Tribunale, la Corte d’appello e il Pubblico Ministero intervenuto avanti alla Corte di cassazione conclusero nel senso dell’illegittimità del licenziamento che, a loro avviso, si sarebbe potuto evitare ponendo in essere “accomodamenti” consistenti nell’adibizione del lavoratore ad attività a minor rischio che non implicassero di stare molto tempo piedi né espletare turni di notte. La sentenza n. 34132 della Corte di cassazione che doveva giudicare, nella causa appena descritta, della legittimità della sentenza d’Appello, ha confermato come l’obbligo del datore di adottare gli “accomodamenti ragionevoli” incida sul tradizionale principio di insindacabilità22 da parte del giudice delle scelte organizzative del datore stesso (vedi sopra) con la conseguenza che non sussiste un principio di “sostanziale intangibilità dell’organizzazione del lavoro impressa dall’imprenditore e” di “mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa”23 tali da escludere misure implicanti oneri di spesa. Quella sentenza tuttavia ha ritenuto che prima di pervenire alla conclusione dell’illegittimità del licenziamento la sentenza d’appello avrebbero dovuto valutare se le misure sopra descritte non fossero sproporzionate o eccessive24. Infatti essa afferma la necessità che il giudice del merito – e prima di esso il datore di lavoro al momento della decisione sul licenziamento – ricerchi un “punto di equilibrio” tra il diritto del disabile a non essere discriminato, quello degli altri lavoratori e quello dell’imprenditore ad organizzare l’azienda secondo le proprie scelte, valutando se il carico di cui è necessario sobbarcare il datore di lavoro per evitare il licenziamento non sia “sproporzionato ed eccessivo” (si rilevi come queste valutazioni inevitabilmente sconfinino in apprezzamenti sul merito di alcuni profili dell’organizzazione aziendale che costituiscono tradizionalmente espressione della libertà di iniziativa economica). Peraltro l’esigenza espressa dalla sentenza n. 34132 del 2019 di valutare, nel merito, la “ragionevolezza” degli “accomodamenti aziendali” da predisporre per la tutela del disabile, pone notevoli problemi giuridici sia di carattere sostanziale che processuale.

22

La disposizione assumerebbe la valenza di una sorta di meta-criterio per la ridefinizione degli obblighi gravanti sui datori di lavoro ai sensi della l. n. 68 del 1999 (Garofalo, La tutela del lavoratore disabile nel prisma degli accomodamenti ragionevoli, in ADL, 2019, 1228). 23 Secondo Spinelli, op. cit., 54, “prima di procedere al licenziamento occorrerà dunque verificare la possibilità di adottare tutte quelle misure personalizzate che consentono al disabile di continuare a svolgere in azienda un’attività di compatibile modificando anche maniera sostanziale l’organizzazione con il solo limite che ciò non comporti un onere sproporzionato per il datore di lavoro”. Per l’autrice per determinare la ragionevolezza occorrerebbe “in primis valutare l’esistenza e “l’idoneità della misura raggiungere lo scopo … e solo successivamente il costo economico per il datore di lavoro”. La circostanza che l’accomodamento debba essere “personalizzato” rispetto al disabile interessato conferma che l’obbligo di porlo in essere sorge (“ex nunc”) solo una vola che sia effettivamente presente tra i dipendenti il disabile da tutelare (Barbera, op. cit., 82). 24 Si evidenzia che i due termini sono alternativi così che l’“accomodamento” risulterà non “ragionevole” sia se “sproporzionato” sia se “eccessivo”.

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Sotto il primo profilo – vale a dire il profilo relativo ai problemi di carattere sostanziale – la sentenza n. 34132 annulla la decisione dei giudici del merito che avevano dato per obbligatori gli accomodamenti organizzativi proposti nel corso del giudizio per evitare il licenziamento senza curarsi di valutare se fossero “ragionevoli”, ma non fornisce parametri più precisi rispetto a quelli, piuttosto generici, indicati dalla Convenzione ONU, dall’art. 5 della direttiva e dall’art. 3, comma 3 bis, d.lgs. n. 216/2003, per apprezzare cosa, nella fattispecie concreta, costituisca un accomodamento non “sproporzionato o eccessivo”25. In effetti la mancata esplicitazione da parte della giurisprudenza e delle disposizioni sul divieto di discriminazione dei disabili di qualsiasi termine di raffronto rispetto al quale determinare se gli accomodamenti richiesti al datore siano o meno “sproporzionati” o “eccessivi” impone di ricercare nell’ordinamento ulteriori elementi di giudizio.26 È anzitutto da rilevare come risulti ormai da più sentenze della Suprema Corte come l’accomodamento che tutelerebbe il disabile non può essere imposto al datore di lavoro se esso pregiudica diritti di altri lavoratori dal momento che il relativo obbligo grava sul datore medesimo, non su di essi. Si legge infatti nelle sentenze della Corte di Cassazione che la misura richiesta al datore per evitare il licenziamento deve avere anche riguardo “all’intangibile posizione degli altri lavoratori”, il che “porta a ritenere che il diritto del lavoratore disabile all’adozione di accorgimenti che consentano l’espletamento della prestazione lavorativa trova un limite … nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l’esperienza e la professionalità acquisita”27 (tale profilo potrebbe risultare di particolare rilievo nel caso dedotto nel giudizio oggetto della sentenza della Corte di Cassazione n. 34132 dove il giudice del merito aveva considerato tra i possibili “accomodamenti ragionevoli” l’allocazione del ricorrente a turni diurni o a di attività di vigilanza meno onerose o rischiose, qualora da ciò risultasse che tale misura pregiudichi i diritti degli altri lavoratori aventi ad oggetto le loro condizioni di lavoro – a maggior ragione se si trattasse di condizioni sottratte allo jus variandi del datore di lavoro). L’“accomodamento” richiesto al datore di lavoro non può inoltre dirsi “ragionevole” se implica “costi finanziari sproporzionati” dovendosi al proposito – cfr. il 21mo Considerando della dir. n. 78/2000/CE – “tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni” (ai datori di lavoro pubblici non è richiesto – anzi è vietato – di sobbarcarsi di oneri finanziari ai sensi dell’art. 3, comma 3 bis, ultima parte, d.lgs. n. 216/2003)28.

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Gli “accomodamenti ragionevoli” di cui all’art. 3, comma 3, d.lgs. n. 216/2003 (reasonable accommodation nella terminologia inglese della Convenzione ONU) sono denominati “soluzioni ragionevoli” secondo la terminologia italiana impiegata nella direttiva europea (a fronte di quella francese di Aménagements raisonnables, tedesca di Angemessene Vorkehrungen, inglese di Reasonable accommodation, spagnola di Ajustes razonables). 26 Per Barbera, op. cit., 82, per quanto il concetto di “soluzione ragionevole” sia ancora in larga parte da definire occorrerebbe sgombrare il campo dall’impressione che l’ordinamento comunitario e l’ordinamento nazionale non offrano gli elementi necessari per farlo. 27 Cass., 25 settembre 2018, n. 22743; vedi anche Cass., 19 dicembre 2019, n. 34123. 28 La fattibilità delle misure a tutela del disabile sul piano della specifica organizzazione del datore di lavoro e la sua sostenibilità economica sono elementi dirimenti per la valutazione delle sue “proporzionalità e non eccessività” (cfr. Riccardi, op. cit., 194).

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In effetti, nello spirito della dir. n. 78/2000/CE, i datori di lavoro (neppure considerati dalla Convezione ONU) non avrebbero dovuto risultare particolarmente gravati dagli “accomodamenti ragionevoli” loro richiesti. Infatti l’art. 5 della stessa si cura di precisare che la soluzione imposta al datore a tutela del lavoro del disabile non può ritenersi sproporzionata allorché il relativo onere sia “compensato … in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”; è vero che il richiamo della direttiva alla “possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni” (21mo Considerando) non significa che la tutela del disabile sia subordinata a questa “possibilità” ma essa costituisce un elemento significativo nel giudizio di ragionevolezza (“proporzionalità”) o meno dell’accomodamento richiesto al datore di lavoro29. D’altro canto la Convenzione ONU sui disabili è lungi dall’imporre oneri direttamente a carico dei datori lavoro. Essa prevede la necessità di accomodamenti ragionevoli che gli Stati firmatari devono porre in essere a tutela della parità di trattamento da assicurare ai disabili e si occupa di una ventina di altri aspetti che contemplano pressoché ogni forma di espressione della vita umana (libertà di espressione, vita privata, sicurezza, educazione, salute e riabilitazione, partecipazione alla vita politica e pubblica, partecipazione alla vita culturale e ricreativa, agli svaghi ed allo sport ecc.). In questo contesto il concetto di “accomodamento ragionevole”, sempre riferito ai doveri degli Stati Parti firmatari della Convenzione, è impiegato oltre che in materia di lavoro in materia di uguaglianza (dove ai sensi dell’art. 5, “al fine di promuovere l’uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati Parti adottano tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli”), in materia di libertà e sicurezza della persona (dove ai sensi dell’art. 14 ”gli stati parti assicurano che, nel caso in cui le persone con disabilità siano private della libertà … siano trattate conformemente agli scopi ed ai principi della presente Convenzione, compreso quello di ricevere un accomodamento ragionevole”) e in materia di istruzione (dove l’art. 24 dispone che gli “Stati Parti devono assicurare che: … venga fornito un accomodamento ragionevole in funzione dei bisogni di ciascuno” e garantiscono che le persone con disabilità possano avere accesso all’istruzione” e a questo scopo “gli Stati Parti garantiscono che sia fornito alle persone con disabilità un accomodamento ragionevole”). Orbene l’art. 9, comma 4-ter, d.l. 28 giugno 2013, n. 76 ha voluto attuare l’art. 5 dir. n. 78/2000/Ce, in ottemperanza alla sentenza della Corte di Giustizia Ue, realizzando (forse perché indotto da alcuni passaggi della motivazione della sentenza stessa) una singolare combinazione tra il disposto della direttiva (che riguarda i datori di lavoro ma richiama

Infatti “la misura e al limite la stessa sussistenza dell’obbligo di adottare comportamenti in discorso dipendono dalle politiche possono essere vari sistemi nazionali e della loro idoneità a compensare i costi finanziari da sopportare per consentire l’impiego dei soggetti protetti. Il sistema delineato si muove dunque su un doppio binario”, Stato e datore di lavoro (Riccardi, op. cit., 194 e 195). La possibilità di rimborso delle spese sostenute sposta infatti “verso l’alto l’asticella nella valutazione della non sproporzione dell’onere a carico del datore di lavoro” (Garofalo, op. cit., 1229). 29 È noto del resto che il tema della promozione dell’occupazione dei disabili e della loro accessibilità al lavoro, sin dalle prime normative sul collocamento obbligatorio, è stata caratterizzata dal dibattito sulla convenienza e l’ammissibilità o meno di interventi legislativi che imponessero ad una parte privata del contratto di lavoro oneri di carattere sociale – generalmente da porsi a carico della finanza pubblica (vedi le pronunce dei giudici costituzionali indicate nella Nota 11).

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meccanismi di compensazione dei relativi oneri con la “possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”30) e la Convenzione ONU (la quale non tiene conto di questa possibilità ma, indirizzata agli Stati, neppure considera i datori di lavoro). In questa situazione l’interprete non può non tenere conto che la soluzione sbilanciata determinata dall’approssimazione31 della tecnica di attuazione seguita dal predetto art. 9, comma 4 ter, degli obblighi di attuazione della direttiva comunitaria non corrisponde, molto probabilmente, alla volontà del legislatore che non era altro che quella di dare fedele attuazione di principi sanciti dalle ormai note norme comunitarie ed internazionali32. I notevoli limiti che caratterizzano l’effettiva possibilità di intervento finanziario pubblico, unita alla polverizzazione del tessuto economico italiano, sono del resto la maggiore ragione della scarsa effettività delle disposizioni che impongo l’individuazione ed adozione di pratiche e sensate soluzioni per favorire l’inserimento lavorativo dei disabili. Infine, e per quanto riguarda la ragionevolezza (non “sproporzione” né “eccessività”) dall’“accomodamento” richiesto dal datore di lavoro con riguardo al – più generale – piano economico, è da dire come l’ordinamento non presenta ulteriori parametri significativi di cui l’interprete possa avvalersi, salvo quanto finora già indicato e la, evidente, considerazione che la “ragionevolezza… andrebbe valutata in relazione alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa”33. Una possibile definizione del complesso tema sopra cennato potrebbe partire dalla valorizzazione della considerazione che gli “accomodamenti ragionevoli” richiesti al datore di lavoro non possono giungere a sovvertire il “tipo” del contratto di lavoro e contraddirne il carattere sinallagmatico34 che lo contraddistingue, consistente nel reciproco ed utile scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione. Ne deriva che l’accomodamento necessario per tutelare il posto del lavoro del disabile va ritenuto irragionevole (e quindi non può farsene un obbligo del datore) se la sua natura e gravosità da un lato e la qualità e quantità delle residue capacità lavorative dall’altro, rivelano l’obiettiva infruttuosità del proseguimento del rapporto (ad esempio costringendo il datore a istituire posti di lavoro

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In Italia questa possibilità non esiste o esiste in modo molto limitato. Secondo le disponibilità dei relativi Fondi e la possibilità di concludere il relativo procedimento in tempo perché possa effettivamente soccorrere alle esigenze di tutela del disabile può ricorrersi ad un “Fondo regionale per l’occupazione dei disabili” ed è previsto che l’INAIL possa concorrere a finanziare Piani per il reinserimento e l’integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro (cfr. il relativo regolamento e la determina del Presidente dell’INAIL n. 258 dell’11 luglio 2016). In effetti dall’art. 1, comma 116, l. 3 dicembre 2014, n. 190 si evince come all’INAIL siano state attribuite competenze in materia di lavoro dei disabili compresa quella di sostenere, con oneri a carico dell’istituto, “l’adozione di misure per l’inserimento lavorativo degli stessi” (Riccardi, op. cit., 195 e 196). 31 Garofalo, op. cit., 2016, 89-90 sottolinea la singolarità della situazione che si realizzata dove nonostante che il fine del comma 3 bis dell’art. 3 fosse anzitutto quello di attuare l’art. 5 dir. 78/2000/CE non si faccia cenno della nozione di ragionevolezza fatta propria da tale disposizione. 32 A conferma dell’importanza assegnata dalle norme comunitarie all’intervento pubblico che allevi l’onere dei datori privati a porre in essere gli “accomodamenti ragionevoli”, si noti che il Regolamento (CE) n. 2204/2002 della Commissione, del 12 dicembre 2002 esclude gli interventi pubblici per l’inserimento lavorativo dei disabili dalla disciplina restrittiva degli aiuti di Stato. 33 Cass., n. 27243/2018, cit. 34 Tuttavia per Garofalo, op. cit., 1230, l’obbligo di porre in essere gli “accomodamenti ragionevoli deroga alla regola della corrispettività in ambito contrattuale e alla possibilità del contraente di recedere dal contratto per eccessiva onerosità”.

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inesistenti, ad adibire il disabile a lavori inutili o che egli non riesca a svolgere in modo tale da consentire all’organizzazione aziendale di utilizzarli senza risultarne compromessa)35. La tipologia36 dei possibili “accomodamenti” organizzativi a tutela del disabile contemplata da atti di carattere regolamentare o amministrativo generale consiste, esemplificativamente, oltre che nell’adibizione del disabile in altre mansioni compatibili con le sue condizioni di salute (obbligo già compreso nel tradizionale obbligo di repêchage e, in quanto applicabile, dall’art. 4, comma 4, l. n. 68/1999) in37: – interventi formativi di riqualificazione professionale capaci di ampliare il novero delle mansioni cui adibirlo così da rinvenire quelli compatibili col suo stato di salute e di capacità lavorativa; – attuazione di progetti per il superamento e per l’abbattimento delle barriere architettoniche sui luoghi di lavoro; – sistemazione dei locali, interventi di adeguamento e adattamento delle postazioni di lavoro (anche mediante adozione di dispositivi utili, di carattere tecnologico e informatico compresi quelli di automazione) – cfr. la determina del Presidente dell’INAIL dell’11 luglio 2016. n. 258 e il 20mo Considerando della dir. n. 78/2000/CE); – fornitura di apparecchiature e dispositivi di sicurezza; – adozione di attrezzature che consentano al disabile di svolgere proficuamente un lavoro che altrimenti non potrebbe svolgere o svolgerebbe con una difficoltà tale da risultare la sua prestazione non utilizzabile; – misure organizzative quali l’adozione di adeguati ritmi o turni di lavoro, la modifica della ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze del disabile, la riduzione dell’orario di lavoro o della gravosità delle mansioni (cfr. Corte Giust Ue nella causa 312/11 e 20mo Considerando della dir. n. 78/2000/CE – vedi peraltro supra con riguardo alla intangibilità dei diritti degli altri lavoratori)38.

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La “direttiva non prescrive l’assunzione, la promozione o il mantenimento dell’occupazione né prevede la formazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, fermo restando l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili” (17mo Considerando della dir. 2000/78/CE). Vedi anche la pronuncia della Corte Costituzionale indicata nella Nota 11 (C. cost., 15 giugno 1960, n. 38) sul fatto che “una volta instaurato un regolare rapporto di lavoro” con l’invalido avviato obbligatoriamente al lavoro” – e quindi a maggior ragione nel caso di chi invalido è divenuto durante il rapporto – “si crea, pertanto, una rispondenza tra prestazione e retribuzione, con facoltà al datore di lavoro di risolvere il contratto di lavoro nelle ipotesi previste” dalla legge. Parametri per la valutazione della proporzionalità dell’”accomodamento” sono per Garofalo, op. cit., 1230, quelli di carattere soggettivo – quali lo “stato di salute” dell’azienda, il suo ricorso o meno a CIG, l’essere reduce da procedure di mobilità, il numero di dipendenti, il fatturato e gli utili, l’eventuale stato di crisi – ed oggettivo, quali la possibilità di accedere a finanziamenti o sovvenzioni pubbliche. 36 Cfr. la determina del Presidente dell’INAIL dell’11 luglio 2016, n. 258 sul “Regolamento per il reinserimento e l’integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro”. 37 Come rileva Spinelli, op. cit., 43, si può trattare di interventi di carattere materiale (strutture rese “accessibili e fruibili anche da parte di persone con disabilità, ad esempio acquisendo apparecchiature e dispositivi di sicurezza”) e di carattere organizzativo (quali “la modifica degli orari di lavoro, la distribuzione delle mansioni”, le politiche di formazione). 38 Evidentemente l’elenco delle soluzioni indicate dal 20mo Considerando ha carattere esemplificativo (Riccardi, op. cit.,186). Vedi anche Spinelli, op. cit., 43. Delia Ferri, L’accomodamento ragionevole per le persone con disabilità in Europa: da Transatlantic Borrowing alla

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Evidentemente questi accorgimenti rilevano, a seconda della natura dell’handicap di cui il disabile è portatore; rilevano cioè se ed in quanto funzionali a superare le “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (cfr. art. 3, l. cit.) che giustificherebbero il licenziamento ma che, grazie a quegli accorgimenti, vengono meno (del resto ai sensi dell’art. 5 della dir. n 78/2000/CE i provvedimenti che deve prendere il datore di lavoro sono “appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”).

4. (segue). Prospettive e problemi giuridici di carattere processuale.

Il secondo ordine di problemi che solleva l’obbligo del datore di lavoro di provvedere ad “accomodamenti ragionevoli” (non “sproporzionati né “eccessivi”) per evitare il licenziamento di disabili è di natura processuale ed attiene in particolare al soggetto sul quale gravano i relativi oneri di allegazione e prova. Sulla loro soluzione pesa la questione se l’(in)esistenza di “accomodamenti ragionevoli” sia o no – quando si tratti licenziamento di persone disabili – un elemento integrante la fattispecie del giustificato motivo oggettivo dovendosi in caso di risposta affermativa applicare l’art. 5, l. 15 luglio 1966, n. 604 che, notoriamente, grava il datore di lavoro dell’“onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento”39. Da una parte potrebbe evidenziarsi che l’inesistenza di “accomodamenti ragionevoli” atti ad evitare il licenziamento non sia compreso tra gli elementi che l’art. 3, l. n. 604/1966 esplicitamente indica quali costituivi la fattispecie del giustificato motivo oggettivo. L’onere di valutare l’esistenza di “accomodamenti ragionevoli” deriverebbe dunque non dal predetto art. 3 ma dalle norme contro la discriminazione per handicap e seguirebbe perciò la disciplina dell’onere di allegazione e prova delle fattispecie discriminatorie40. Inoltre, e soprattutto, potrebbe evidenziarsi che l’obbligo di adottare quegli “accomodamenti” ha un contenuto che si differenzia dal cd. obbligo di repêchage: esso consiste

Cross-Fertilization, in DPCE, 2017, 389 e 390 riferisce degli esempi di accomodamento ragionevoli indicati dal Commentario n. 3 del Comitato ONUD sui diritti delle persone con disabilità (si tratta peraltro di esempi di “accomodamento” sostanzialmente da richiedere a strutture pubbliche). 39 Deve escludersi che l’“accomodamento ragionevole” possa essere indicato d’ufficio dal giudice anche per evitare di imporre modifiche dell’organizzazione aziendale per mano giudiziaria, contrariamente ai principi costantemente affermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (sull’inammissibilità dei provvedimenti giudiziali che implichino l’esercizio di scelte datoriali: Cass., ordinanze del 6 febbraio 2015, n. 2330, del 16 ottobre 2015, n. 22150 e dell’11 febbraio 2019, n. 3896). Giubboni, Borrelli, Discriminazioni, molestie mobbing, in Contratto di lavoro e organizzazione, Marazza (a cura di), Cedam, 2012, 1871 riconoscono che la dir. n. 78 non prescrive l’assunzione, la promozione e il mantenimento dell’occupazione di un individuo non capace di effettuare le funzioni essenziali del lavoro ma la valutazione di idoneità deve essere svolta alla luce dell’obbligo di provvedere soluzioni ragionevoli; infatti a seguito della ricordata convenzione ONU può essere qualificato “discriminazione” il diniego di soluzioni ragionevoli ai problemi di inserimento del disabile. 40 Sull’onere di provare l’atto o il fatto che determina la discriminazione – rispetto al quale operano presunzioni solo in caso di circostanze dalle quali sia consentito inferire l’esistenza di un contesto discriminatorio vedi, per tutte, Cass., 5 giugno 2013, n. 14206.

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in azioni positive e si riferisce ad una serie potenzialmente aperta ed indefinita di possibili soluzioni41, mentre l’obbligo di repêchage ha riguardo ad un campo tendenzialmente “chiuso” di posti di lavoro cui il lavoratore potrebbe essere reimpiegato (l’organigramma aziendale ed i posti di lavoro che ne risultano); ciò rende la prova dell’inesistenza di “accomodamenti ragionevoli” ancora più ardua della già non facile prova dell’adempimento dell’obblio di repêchage (essa finisce per avere ad oggetto non solo un fatto negativo, come avviene per l’adempimento dell’obbligo di repêchage, ma anche piuttosto indeterminato)42. Le conseguenze dell’accoglimento di questa tesi sarebbero che l’esistenza di “accomodamenti” per evitare il licenziamento andrebbe rilevata dal lavoratore nel ricorso mentre al datore spetterebbe l’eccezione che le soluzioni indicate dal lavoratore sono sproporzionate o eccessive, quindi non ragionevoli, così da non poter essergli richieste. L’accoglimento di questa tesi inoltre amplierebbe le possibilità della difesa del lavoratore di qualificare il licenziamento del disabile in violazione dell’art. 3, comma 3 bis, d.lgs. n. 216 come licenziamento di carattere discriminatorio con le conseguenze che la legge prevede per tale tipologia di invalidità del recesso datoriale43. Da parte opposta potrebbe sottolinearsi che la circostanza secondo la quale l’art. 3, l. n. 604/1966 non faccia cenno all’obbligo di adottare “accomodamenti ragionevoli” non è rilevante perché ciò non accade neppure per obbligo di repêchage che pure un significativo (ancorché non pacifico) orientamento ricomprende tra gli elementi costituivi della fattispecie del giustificato motivo oggettivo di licenziamento che il datore deve provare. Inoltre potrebbe rilevarsi come l’adozione di quegli “accomodamenti” e il “repêchage” sono accomunati dalla circostanza che costituiscono entrambi misure che, quando esistono, dimostrano l’evitabilità del recesso e, quindi, escludono la sussistenza della fattispecie del giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Pertanto, come la giurisprudenza ha compreso l’impossibilità di reimpiegare il lavoratore rientra tra gli elementi che caratterizzano quella fattispecie (tanto che la manifesta insussistenza di quell’impossibilità equivarrebbe a manifesta insussistenza del fatto44 posto a base del licenziamento colla conseguente applicazione della cd. tutela reale del posto di lavoro prevista, eccezionalmente, anche in caso di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo dall’art. 18, l. n. 300/197045)

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Il novero delle possibili soluzioni ad adottare a tutela dell’inserimento lavorativo del disabile è di carattere aperto (Riccardi, op. cit., 190). 42 Un conto è provare, sia pure per presunzioni, l’impossibilità del repêchage in quanto tutti i posti di lavoro sono stabilmente occupati al momento del licenziamento e, dopo di esso e per un congruo periodo di tempo, non sono state effettuate assunzioni (vedi per tutte fra le tante, Cass., 2 gennaio 2013, n. 6; Cass., 18 marzo 2010, n. 6559) altro conto provare l’inesistenza di “accomodamenti ragionevoli” all’organizzazione aziendale per evitare il licenziamento. 43 Il rinvio espresso alla convenzione ONU appare per Spinelli, op. cit., 52, elemento che rende qualificabile la violazione dell’obbligo in discorso come comportamento discriminatorio. Ne deriverebbe l’applicazione delle misure per la tutela giudiziaria delle persone disabili vittime di discriminazione. 44 Sul tema Carinci, L’obbligo di ripescaggio nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs Act, in RIDL, 2017, 203 ss.; Gramano, Natura e limiti dell’obbligo di repêchage, in ADL, 2016, 1310 ss. 45 Per l’obbligo di repêchage quale elemento interno alla fattispecie di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, Cass., 2 maggio 2018, n. 10435 (vedi anche Cass., 12 dicembre 2018, n. 31259 e Cass., 17 ottobre 2019, n. 26460 e, con particolare riguardo al licenziamento dal lavoratore divenuto fisicamente inidoneo al lavoro in corso di rapporto, Cass., 18 novembre 2019, n. 29893;

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ed ha posto l’onere di dimostrarla in capo al datore di lavoro per effetto dell’art. 5 l. n. 604/1966 (nonostante si tratti di un fatto negativo, da provare per lo più per presunzioni e nei limiti di quanto sia ragionevole) così potrebbe avvenire per l’inesistenza di “accomodamenti ragionevoli” a tutela dei disabili. Se ne concluderebbe in altri termini che la disposizione che impone di adottare “accomodamenti” per evitare il licenziamento del dipendente divenuto disabile, quando essi risultino “ragionevoli” integra la nozione di giustificato motivo di oggettivo di licenziamento di cui all’art. 3 l. n. 604/1966; tale nozione per l’effetto non consisterebbe più solo nell’inidoneità del lavoratore ad occupare il posto di lavoro e a svolgere le mansioni cui è addetto, così come di altre mansioni, equivalenti o inferiori, esistenti in azienda, ma anche – quando si tratta di disabili – nell’inesistenza di accomodamenti ragionevoli di carattere (anche) organizzativo capaci di evitare il licenziamento46. Conseguenza dell’accoglimento di questa seconda tesi47 sarebbe che nel giudizio di impugnazione del licenziamento spetta al datore di lavoro, nella sua memoria difensiva, allegare fatti e fornire prove dell’inesistenza di accomodamenti ragionevoli capaci di evitare il licenziamento. Rispetto a quanto indicato dalla memoria il lavoratore potrà rilevare, secondo i casi, l’insufficiente adempimento degli oneri di allegazione e prova e dedurre che, al contrario di quanto affermato dal datore, quegli accomodamenti esistono48, deduzione rispetto alla quale il datore potrebbe a sua volta controdedurre che quanto richiesto dal lavoratore è sproporzionato o eccessivo. La natura dell’obbligo di adottare “accomandanti ragionevoli”, aperto e poco determinato, implica che il gioco della dialettica processuale sulla relativa prova sia destinato a svolgersi in un momento successivo alla redazione dei primi atti difensivi delle parti, quando l’oggetto della necessaria istruttoria risulterà maggiormente definito; ciò rende prevedibile che una parte delle correlate richieste istruttorie avvenga in occasione della prima udienza di trattazione e che esse saranno accolte – o meno – ai sensi art. 420, commi 1, 5 e 7, c.p.c. sussistendo “gravi motivi” (“motivi” che potrebbero consistere nella circostanza che solo a seguito dello sviluppo assunto dal processo49 siano emersi i fatti realmente rilevanti per la definizione del giudizio).

Cass., 22 ottobre 2018, n. 26675; App. Roma, 1° febbraio 2018, n. 469). Il tema degli “accomodamenti ragionevoli” non emerge nella sentenza Cass., 14 febbraio 2018, n. 3616 che, pure ha riguardo ad un licenziamento per sopravvenuta inidoneità a svolgere le mansioni da parte del dipendente. 46 Sui riflessi della introduzione dell’obbligo di adottare degli accomodamenti ragionevoli sulla nozione di licenziamento per inidoneità psicofisica del disabile vedi Voza, Sopravvenuta inidoneità psicofisica e licenziamento del lavoratore nel puzzle normativo delle ultime riforme, in DL, 2015, 771; Casale, Malattia, inidoneità psicofisica e handicap nella novella del 2012 sui licenziamenti, in DL, 2014, 401. 47 L’accoglimento della tesi dell’integrazione dell’elemento dell’inesistenza di accomodamenti ragionevoli nella fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo può condizionare l’interpretazione dell’art. 2 con riguardo ai relativi oneri di motivazione (art. 2 l. 15 luglio 1966, n. 604). 48 Si tratta di una deduzione difensiva, non di una eccezione in senso proprio. 49 Sull’amissione di nuovi mezzi di prova alla prima udienza di trattazione “giustificati dallo sviluppo assunto dal giudizio”: Cass., sez. un., 20 aprile 2005, n. 8202; App. Roma, 6 giugno 2008, in www.leggiditalia.it; Cass., Sez. III, 26 febbraio 2008, n. 5026; App. Potenza, 22 maggio 2007, in www.leggiditalia.it. Vallebona, il diritto processuale del lavoro, Cedam, 2011, 166, riconosce come l’art. 420, comma 5, c.p.c. realizzi il contemperamento tra ricerca della verità materiale ed esigenza di celerità e come che l’impossibilità di articolare la richiesta istruttoria col primo atto processuale – che determina la sussistenza del “grave motivo” il quale legittima l’ammissione della prova chiesta tardivamente – può derivare non solo da ragioni obiettive ma anche subiettive vale dire legate allo

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Giurisprudenza

Non è questa la sede per dare una conclusione risolutiva alla complessa questione sopra descritta; molto dipenderà dall’evoluzione della giurisprudenza e, in genere, del quadro giuridico della materia. È vero che alcune pronunce dei giudici di legittimità – accanto ad altre che hanno una posizione indefinita rispetto al tema che si è posto – mostrano di aderire al secondo ordine di argomenti suesposto quando si pongono esplicitamente la questione se il datore di lavoro «abbia soddisfatto l’onere imposto dalla L. n. 604 del 1966, art. 5 di provare il giustificato motivo di licenziamento dimostrando che, nell’ambito dell’organizzazione aziendale e del rispetto delle mansioni assegnate al restante personale in servizio, non vi era alcun accorgimento pratico – comportante un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell’invalido – applicabile alla mansione (già assegnata o equivalente ovvero inferiore) svolta dal lavoratore ed appropriato alla disabilità»50. Tuttavia ciò non costituisce ancora un orientamento consolidato. La piena attuazione del principio di parità di trattamento dei disabili si conferma dunque foriera di gravi incertezze di carattere applicativo che sta determinando un notevole contenzioso dagli incerti esiti, di cui sono manifestazione le decisioni considerate in questo scritto. Stefano Margiotta

sviluppo e alle conseguenze del contraddittorio. Per Vullo, Il nuovo processo del lavoro, Zanichelli, 2015, 273, vanno ammesse le prove chieste dall’attore in relazione contestazioni del convenuto che non poteva facilmente prevedere. 50 Cass., 26 ottobre 2018, n. 27243.

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Giurisprudenza Tribunale di M ilano, sezione autonoma misure di prevenzione, decreto 27 maggio 2020; Pres. Rel. Roia – procedimento di prevenzione nei confronti di Uber Italy S.r.l. (avv. Mandaglio Maria Stella). Lavoro (rapporto di) – Caporalato – Amministrazione giudiziaria – Attività agevolatrice del reato di cui all’art. 603 bis c.p. – Amministrazione giudiziaria.

È disposta la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria nei confronti di UBER ITALY SRL, alla luce della sua attività agevolatrice della condotta delittuosa posta in essere da società terze che gestivano i rider per conto della società stessa, integrante gli estremi del delitto di cui all’art 603 bis c.p., previsto come requisito preliminare dall’art. 34, comma 1, d.lgs. n. 159/2011.

Premessa in diritto L’applicazione della misura dell’amministrazione giudiziaria prevista dall’art 34 c. 1 D.lgs. 159/2011 come sostituito dalla Legge 161/2017, ha come presupposto specifico, rispetto alla ipotesi tradizionale di ricorso all’istituto, la ricorrenza di sufficienti indizi (prima della riforma il riferimento testuale era ad “elementi”) per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle imprenditoriali, abbia carattere ausiliario ed agevolatorio rispetto all’attività: delle persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una misura di prevenzione; ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei seguenti delitti: associazione di stampo mafioso; reati previsti dall’art 51 c 3-bis c.p.p. ovvero del delitto di cui all’art. 12-quinquies c. 1 del dl 8.6.1991, n. 306 conv., con modif., dalla L 7.8.1992, n. 356, delitto assistenza agli associati ex art 418 c.p.; delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640-bis c.p.; delitto di associazione per delinquere ex art 416 c.p. finalizzato alla commissione di taluno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione con esclusione del reato di abuso d’ufficio; delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ex art. 603-bis c.p.; delitti di estorsione, usura, riciclaggio ed impiego di denaro, beni o utilità di illecita provenienza (artt 629,644, 648-bis e 648-ter c.p.). Omissis L’oggetto della richiesta L’organo proponente ha evidenziato: 2.1) consistenza indiziaria del delitto presupposto per l’applicazione della misura (segnatamente art. 603 bis cp); “Nell’ambito del procedimento penale n. 41492/19 sono stati svolti accertamenti in ordine alla possibile perpetrazione del reato ex art. 603 bis c.p. (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) in danno dei cd. “riders” da parte delle imprese che ne gestiscono le consegne. In questo contesto, la preliminare attività

di analisi effettuata attraverso l’utilizzo delle banche dati sostenuta dalle dichiarazioni acquisite nel corso dell’escussione a sit di 16 soggetti di etnia africana, dimoranti presso il Centro Accoglienza Straordinaria (C.A.S.) Naita sito in Parano (PV), ha permesso di orientare l’interesse investigativo nei confronti di due enti giuridici attivi nel settore del “pony express” per conto di UBER ITALIA. In effetti, durante le escussioni a sommarie informazioni, esperite nelle date del 5 e 6 novembre 2019, molti riders avevano dichiarato che la loro opera al servizio della non meglio identificata azienda UBER FLASH era gestita da tali e (omissis), utilizzatori – rispettivamente – delle utenze (omissis) oltre ad affermare che la sede presso cui avevano effettuato il colloquio era ubicata all’indirizzo via (omissis) di Milano. In base agli elementi emersi, è stato possibile individuare i seguenti soggetti: Omissis. In relazione a quanto prima indicato e considerati gli elementi emersi nel corso delle indagini: dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali; dalla documentazione cartacea ed informatica sottoposta a sequestro; dalle informazioni rese dai riders dagli accertamenti sul conti correnti: dalla memoria prodotta dagli indagati le condotte ascrivibili agli indagati (omissis) e (omissis) e appaiono integrare, in concorso tra di loro, il reato di sfruttamento del lavoro di cui all’articolo 603 bis del codice penale avendo questi, nonostante formalmente “assunto” i ciclo-fattorini con contratto di lavoro occasionale, coordinato e organizzato gli stessi e, in estrema sintesi: pagato i riders “a cottimo” e con una somma pari a 3 euro netti per consegna (a prescindere dalle ore di connessione, dai Km percorsi, dalle condizioni meteo e dall’orario/giorno festivo), somma di gran lunga inferiore a quella pagata dal committente UBER (per la sede di Roma in media almeno 11 euro a consegna); detratto dai 3 euro riconosciuti per consegna ulteriori importi a titolo di penale per mancate accettazioni di consegne superiori al 95% (0,50 euro a consegna) o per cancellazioni di consegne superiori al


Giurisprudenza

5% (ulteriori 0,50 euro a consegna); omesso di dichiarare e versare la quasi totalità delle ritenute operate nei confronti dei riders; indebitamente trattenuto le somme elargite dai clienti quali mance e accreditate agli indagati da UBER; indebitamente trattenuto le somme corrisposte dai riders a titolo di cauzione per il materiale consegnato. Il contratto con le imprese degli indagati (omissis) è stato stipulato con Uber Portier B. V, la quale si è ampiamente avvalsa di figure professionali dipendenti di Uber Italy srl (omissis). In tal modo, Uber Portier B.V. di fatto, ha costituito una unità organizzativa operante in Italia e con tale unità, (che ha come capitale umano una serie di dipendenti di Uber Italy srl, con sede in Afilano via F.) ha agevolato l’attività Imprenditoriale di soggetti indagati (omissis) per il delitto di cui all’art. 603 bis cp., in alcuni casi contribuendo a realizzare i presupposti dello sfruttamento lavorativo.” La decisione. 3.1) Sul piano fattuale probatorio, osserva il Tribunale come sussistano “sufficienti indizi” – da ritenersi peraltro nel caso di specie gravi, precisi e concordanti in relazione al copioso materiale probatorio raccolto dall’attività dell’organo proponente – per ritenere sussistente il delitto catalogo di cui all’art 603 bis c.p. previsto come requisito preliminare dall’art. 34 comma primo D.lgs. 159/2011 per la conseguente valutazione di una attività agevolatrìce della condotta delittuosa posta in essere da un soggetto terzo, funzionalmente collegato rispetto all’autore della fattispecie qualificala, e facente capo, secondo la prospettazione dell’organo proponente alla galassia UBER ma segnatamente, per quanto si dirà, a UBER ITALY SRL Ed invero dalle plurime e convergenti dichiarazioni rese dai lavoratori impiegati come “riders” – peraltro scelti in aree di particolari fragilità soggettiva e sociale in quanto provenienti da Paesi territorio di conflitti civili e ramali, richiedenti asilo politico e dimoranti, in alcuni casi, presso centri di accoglienza temporanei –, dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, dall’analisi delle memorie e delle conversazioni inserite nei dispositivi informatici sequestrati agli indagati nel procedimento penale genetico, dalla verifica della documentazione cartacea ed informatica acquisita, dagli accertamenti particolarmente attenti e puntuali sui conti correnti dei soggetti coinvolti nella vicenda giudiziaria, dal rinvenimento della somma in contanti di Euro 547.400 da ritenersi profitto dei reati di appropriazione indebita in relazione all’omesso versamento delle ritenute d’acconto effettuate e di sfruttamento del lavoro (Euro 242.200 oltre ad Euro 305.200 occultati in una cassetta di sicurezza sita presso l’istituto di credito (omissis) risultata nella disponibilità di (omissis) – con conseguente iscrizione nel registro degli indagati per i medesimi anche per la fattispecie di reato ex art 648 bis cp. rappresentante un ulteriore delitto catalogo richiesto come presupposto per l’applicazione della mi-

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sura dell’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende ex art 34 C.A. – è emerso un grave quadro indiziario, parzialmente vagliato dal giudice della cognizione incidentale in tede di emissione di decreto autorizzativo di intercettazione di conversazioni fra presenti – in ordine alla fattispecie prevista dagli artt 110, 603 bis cp. posta in essere certamente da (omissis) con un ulteriore profilo di concorsualità, o quantomeno di attività di favoreggiamento, realizzata da diversi managers e/o dipendenti della galassia Uber e segnatamente di UBER ITALY tra i quali (omissis) (tutti indicati da Uber Portier B.V. come referenti per la gestione dei “riders” in Italia) e (omissis). In particolare, come segnalato e documentato dall’organo proponente, appaiono precisi indici di un regime di sopraffazione retributivo e trattamentale attuato nei confronti di molteplici lavoratori reclutati in una situazione di emarginazione sociale e quindi di fragilità sul piano di una possibile tutela dei diritti minimi (cfr. Cass. pen. Sez. 5 n. 6788 del 23/11/2016 nel testo della norma precedente alla legge di modifica 29/10/2016 n. 199) – situazione aggravata dall’emergenza sanitaria a seguito della quale l’utilizzo dei “riders” è progressivamente numerato a causa della richiesta determinata dai restringimenti alla libertà di circolazione della popolazione imposta dalle Autorità che potrebbe avere provocato anche dei reclutamenti a valanga e non controllati”: il reclutamento avvenuto scegliendo soprattutto soggetti in stato di bisogno; il pagamento a cottimo effettuato (Euro 3 a consegna) a prescindere dalle condizioni di luogo (durata del tragitto) e di tempo (ora notturna, condizioni atmosferiche) ed in violazione delle regole contrattuali; la richiesta di un numero di prestazioni non compatibili con una tutela minima delle coedizioni fisiche del lavoratore con la rappresentazione concreta della disattivazione dell’account e quindi con la minaccia implicita di non potere più lavorare per la piattaforma Uber; la violazione di tutte le norme contrattuali in tema di lavoro autonomo gestendosi di fatto un rapporto di lavoro subordinato alterato; la non corresponsione della mance dovute al Lavoratore e realmente corrisposte dal cliente nel sinallagma contrattuale; in taluni casi l’omesso versamento delle ritenute previdenziali in concreto operato sulla retribuzione dei lavoratori; il sistematico inserimento di cd. malus di natura strumentale, creati attraverso la contestazione di comportamenti non conformi tenuti in realtà inesistenti, per conti aire ulteriormente la retribuzione mensile dovuta; in genere lo sfruttamento di un mercato che presenta un’offerta di forza lavoro incontrollata per imporre delle regole particolarmente violente (solitamente minacce) al singolo lavoratore. 3.2) Esistono poi numerosi elementi per ritenere che Uber International Holding P.V. nelle sue diverse articolazioni giuridiche e di fatto italiane quali Uber Italy srl e Uber Eats Italy srl (tale società ha infatti la stessa sede legale ed operativa di Uber Italy srl sita


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in Milano via F. presenta un oggetto sociale specifico quale mettere in relazione i ristoratori, i potenziali clienti e i fornitori di trasporto di cibo a domicilio e lo svolgimento delle relative attività”, nell’anno 2019 ha inviato 44 certificazioni uniche presumibilmente relative a lavoratori occasionali riconducibili alla categoria dei riders – cfr. nota del 15/5/2020 della GDF di Milano –) fosse pienamente consapevole, malgrado la formale presenza di accordi contrattuali soltanto apparentemente di segno contrario conclusi fra Uber Portier B.V. con (omissis) e (omissis), agendo direttamente nella gestione dei riders secondo le modalità delineate dai datori di lavoro” (omissis) dell’attività di sfruttamento dei lavoratori utilizzati nelle consegne e ciò in relazione al ruolo attivo svolto da ex dipendenti o dipendenti, posti in posizioni apicali, della Uber Italy srl quali (omissis). A sostegno di tale affermazione osserva il Collegio come le numerose conversazioni informatiche intercorse fra gli indagati del procedimento penale genetico ed i quadri di Uber Italy srl richiamate nello sviluppo della proposta, riscontrate da dichiarazioni che indicano proprio nella sede della società di Milano via F. un luogo di riunioni fra gli indagati ex art. 603 bis o.p. ed i dipendenti della galassia Uber incaricati della gestione della flotta dei riders nonché dagli elementi di natura documentale e contabile indicati dall’organo proponente e riassumigli nella indicazione di Uber Portier B.V. di contattare i dipendenti di Uber Italy srl quali (omissis) e (omissis) per le “relazioni commerciali”, rappresentino un quadro di evidente agevolazione rilevante ai sensi dell’art. 34 D.lgs. 159/2011, quantomeno sotto un profilo di omesso controllo da parte della società o di grave deficienza organizzativa sul piano di una reale autonomia rispetto alla casa madre con sede in Olanda, realizzato dalla controllata Uber Italy srl a favore di tutti i soggetti indiziati dei delitti ex art. 603 bis e 648 bis c.p. che più direttamente gestivano e sfruttavano la pattuglia dei lavoratori a domicilio. 3.3) Sul piano poi del principio di proporzionalità fra situazione concretamente accertata ed applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, principio recentemente richiamato dalia Corte Costituzionale con la sentenza del 27 febbraio 2019 numero 24, osserva ancora il Collegio come la condotta agevolatrice posta in essere da Uber Italy srl attraverso il concreto comportamento tenuto dai suoi quadri risulti di particolare rilevanza sia per la diffusione dell’intervento che per la realizzazione di uno schema contrattuale formale, ma travolto dalla realtà fattuale, finalizzato a “coprire” la casa madre Uber. Peraltro dalla nota integrativa del 15/5/2020 redatta dalla Guardia di Finanza di Milano risulta che, malgrado l’intervenuta risoluzione contrattuale con le società facenti capo agli indagati destinatari di provvedimenti di perquisizione e sequestro emessi dallo stesso organo proponente, (omissis) – attrice di un ruolo marcatamente principale nella vicenda – e

risultino ancora dipendenti di Uber Italy srl con qualifiche di operatori amministrativi apparendo pertanto necessario, proprio in un’ottica di prevenzione finalizzata alla conservazione della unità societaria, un intervento di natura ablativi sull’assetto della predetta società. 3.4) Sempre in un’ottica interpretativa modulata al principio di proporzionalità e adeguatezza della misura di prevenzione, principio che caratterizza tutto l’ordinamento positivo secondo quanto indicato dalla recente sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale 24/2019, osserva il Collegio come anche la nuova formulazione dell’art. 34 comma terzo D.lgs. 159/2011, come modificato dalla Legge 27 dicembre 2017 n. 205, consenta un intervento nella gestione societaria non assorbente, sul piano dell’impossessamento totale dell’attività di impresa, e comunque commisurato agli obiettivi di (ri) legalizzazione societaria tipici della misura dì prevenzione da adottare. Ed invero laddove il legislatore ha inteso consentire all’amministratore giudiziario la facoltà di esercitare “i poteri spettanti agli organi di amministrazione e altri organi sociali secondo le modalità stabilite del tribunale” (art. 34 comma terzo D.lgs. 159/2011 citato), prevedendosi quindi una facoltà e non un obbligo di assunzione anche della attività tipica dell’impresa all’esito di una scelta ponderata da parte del tribunale, si ritiene che la decisione in merito alle concrete modalità dell’intervento dell’amministrazione giudiziaria non possa non tenere conto di diversi fattori quali il grado di infiltrazione delittuosa, in questo caso accertata su un numero di 5 dipendenti, i quali sembrerebbero avere realizzato su indicazioni provenienti da Uber Portier una sorta di ramo aziendale di fatto dedicato alla gestione diretta dei lavoratori, a fronte di 26 unità addette al 31/12/2019” ed il settore societario contaminato rapportato al normale svolgimento dell’attività di impresa che nel esso in esame propone un oggetto sociale completamente estraneo al tema dello sfruttamento dei lavoratori della consegna a domicilio, avendo la Uber Italy srl come scopo societario il “marketing e la consulenza nel settore dei trasporti privati”. Osserva dunque il Tribunale come sostanzialmente, per le finalità della misura ablativa, non vi sia necessità di assumere anche in seno all’amministrazione giudiziaria il normale svolgimento dell’attività gestionale di impresa, con la valutazione conseguente, in termini di rischio e nella prospettiva della salvaguardia occupazionale, di un simile trasferimento da professionalità tipiche a professionalità nuove e magari non perfettamente allineate con il settore dì mercato interessato, nonché come, sempre sul piano della proporzione, gli obiettivi di bonifica aziendale da intraprendere appaiano comunque compatibili rispetto all’assenza dell’impossessamento totale degli organi gestori. L’intervento ablativo iniziale deve di conseguenza essere modulato in modo tale da consentire un penetrante ed effettivo controllo da parte del Tribunale sugli organi gestori

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anche in sostituzione dei diritti spettanti al socio proprietario ma lasciando il normale esercizio di impresa in capo agli attuali organi di amministrazione societaria, dovendo in particolare l’intervento concentrarsi sulla verifica delle posizioni personali dei dipendenti implicati nella vicenda giudiziaria, nell’accertamento dell’attività svolta da Uber Italy srl anche in relazione ai rapporti esistenti con Uber Eats Italy srl e con le società della galassia Uber sempre in relazione al perimetro dei reclutamento e della gestione dei cd. riders dovendosi verificare l’esistenza di rapporti contrattuali in corso e la piena conformità a tutte le regole di mercato degli stessi. 3.5) L’amministrazione giudiziaria dovrà dunque essere finalizzata secondo le attività specificatamente riportate nella parte dispositiva, ad analizzare i rapporti esistenti con le altre società della galassia Uber – sempre nel perimetro della gestione dei cd. riders – e con i lavoratori operanti nel settore della distribuzione a domicilio e ciò per verificare se esistano altre forme di sfruttamento di lavoratori esterni, nonché a verificare resistenza e l’idoneità del modello organizzativo previsto dal D.lgs. 231/2001 per prevenire fattispecie di reato ricollegabili all’art. 603 bis c.p. e quindi disfunzioni di illegalità aziendale come quelle accertate. L’attività andrà svolta possibilmente d’intesa con l’organo amministrativo della società attinta dalla misura Uber Italy s.r.l. e della società controllante potendo il Tribunale in caso contrario, espandere l’intervento ablativo fino al totale impossessamento delle compagini societarie. Un simile intervento tende di tatto a controllare anche il ramo d’azienda rappresentato dalla unità operativa di gestione – costituita dai dipendenti di Uber Italy s.r.l. più volte citati – dei riders facente capo a Uber Portici B.V. in concreto non destinataria formale della misura di prevenzione patrimoniale. P.Q.M. visto l’art. 34 D.lgs. 159/2011 come modificato dalla Legge 161/2017 dispone l’amministrazione giudiziaria nei confronti della società UBER ITALY SRL in persona del legale rappresentante con sede legale in Milano via (omissis) e PI 08012690965 esercitante l’attività di marketing e di consulenza nel settore dei trasporti privati per un periodo di anni 1 (uno); nomina quali Giudici Delegati alla procedura i dottori F. R. e V. T.; quale Amministratore Giudiziario il dott. C. M. con studio in Milano via Se. il quale all’atto di accettazione dell’incarico far pervenire al Tribunale un’autocertificazione in merito agli incarichi di amministrazione giudiziaria in corso di svolgimento, al mancato superamento della soglia dei tre incarichi in corso (art. 35 comma 2 come modificato dalla legge 161/2017) ed all’insussistenza delle cause di incompatibilità (art. 35 comma 3) ovvero di potenziale conflitto di interessi;

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non dispone allo stato la trascrizione del presente provvedimento ai sensi dell’art. 34 comma 4 D.lgs. 159/2011 in relazione a beni immobili o ad altri beni soggetti a pubblica registrazione non sussistendo allo stato una effettiva immissione in possesso di beni aziendali; dispone che L’Amministratore Giudiziario: 1) entro trenta giorni dall’esecuzione del presente provvedimento, presenti al Giudice delegato una relazione particolareggiata che tenga conto delle attività da svolgere sotto indicate: a) esaminare rassetto della società con particolare riferimento ai rapporti intercorrenti con le altre società del gruppo UBER ed in particolare UBER EATS ITALY srl avente sede legale sempre in Milano via V.F., UBER PORTIER B.V. con sede legale in Amsterdam accertando quale sia il modello organizzativo e gestionale redatto ex art 6 II comma D.Lg. 231/2001 (e dunque con particolare cura nella valutazione della idoneità del modello “a prevenire reati della specie di quello verificatosi) nello specifico settore di intervento della misura (rapporto con lavoratori autonomi c.d. riders; b) esaminare le iniziative attuate dalla società a seguito del provvedimento di prevenzione con particolare riferimento alla composizione degli organi amministrativi ed alla politica contrattuale intrapresa nei confronti dei dipendenti e dei terzi; 2) nel corso dell’incarico provveda a: c) assicurare la propria costante presenza nella società con accessi ripetuti per incontri e riunioni con il management della società secondo le necessità in relazione alle tematiche riguardanti l’oggetto della misura di prevenzione; d) intrattenere stabili rapporti con gli amministratori della società e con il personale direttivo nello specifico settore di intervento; e) rivedere tutti i contratti eventualmente in essere con terzi soggetti giuridici o con lavoratori autonomi del settore verificando la corretta osservanza delle regole normalmente adottate dal settore legale di mercato nonché rilasciare nulla osta alle risoluzioni contrattuali e alla stipula di nuovi contratti riguardanti la prestazione di servizi nella distribuzione dei prodotti di ristorazione a cura dei cd. riders; 3) in previsione della prima udienza e comunque della scadenzai del termine della procedura provveda a: f) esprimere valutazione circa l’atteggiamento assunto dalla società dopo l’adozione del provvedimento di prevenzione, considerando se la procedura, grazie soprattutto alla fattiva collaborazione della società, ha portato all’adozione di provvedimenti utili a prevenire fatti come quelli accertati. Delega per l’esecuzione la Procura della Repubblica di Milano richiedente, con facoltà di subdelega, anche in relazione alle necessità investigative; Omissis


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Uber e il caporalato digitale: lo “smascheramento” dell’algoritmo delle piattaforme Sommario : 1. Il caso. – 2. Il c.d. “caporalato digitale”. – 3. Una lettura civilistica del decreto Uber. – 4. Efficacia extra-penale delle prove raccolte nel procedimento di prevenzione e del decreto. – 5. Conclusioni.

Sinossi. Il commento si incentra sui profili civilistici della vicenda che ha portato all’applicazione della misura di prevenzione della amministrazione giudiziaria nei confronti di Uber Italy S.r.l. Dopo aver ricostruito la nozione di caporalato digitale, nell’ambito del generale divieto di interposizione di manodopera, è analizzata la tematica relativa alla qualificazione del rapporto di lavoro dei riders. Da ultimo, si riflette sull’efficacia extra-penale del decreto di prevenzione e delle prove ivi raccolte. Abstract. The A. focuses on the civil aspects of the criminal case regarding Uber Italy S.r.l. The paper gives a definition of the so-called phenomenon of “caporalato digitale”, within the illegal recruitment, and deals with the issue of the legal qualification of the employment relationship of the riders. Then, the A. examines the evidential effectiveness in civil cases of the decree of application of the measure of prevention and the evidences there collected.

1. Il caso. Il Tribunale di Milano, su proposta della Procura della Repubblica, ha disposto nei confronti di Uber Italy S.r.l. la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria, ai sensi dell’art. 34 d.lgs. n. 159/2011, in presenza di un’attività agevolatrice del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ex art. 603 bis c.p. perpetrato in danno dei rider da parte di imprese che ne gestivano le consegne (nello specifico: Flash Road City e FRC S.r.l.). Il giudice ha, infatti, aderito alla richiesta dell’organo proponente, basata su due presupposti: la consistenza indiziaria del delitto di cui all’art. 603 bis c.p. da parte di soggetti terzi rispetto al soggetto proposto1 e, in secondo luogo, l’attività agevolatrice del suddetto delitto da parte di Uber Italy S.r.l.

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Sulla terminologia “organo proponente” e “soggetto proposto” si veda Quattrocchi, Le nuove manifestazioni della prevenzione patrimoniale: amministrazione giudiziaria e contrasto al “caporalato” nel caso Uber, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 4: in particolare, nel caso di specie, “organo proponente” la misura di prevenzione è la Procura della Repubblica presso il Tribunale di

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Per quanto riguarda il primo presupposto, l’organo proponente espone che, dalle risultanze delle ampie indagini svolte2, è risultato un quadro di grave sfruttamento da parte di FRC S.r.l. e Flash Road City dei fattorini impiegati «in nome e per conto di Uber»3 tra il giugno 2018 ed il febbraio 2020. In primo luogo, la maggior parte della manodopera era costituita da migranti richiedenti asilo, perlopiù dimoranti presso centri di accoglienza straordinaria, in condizioni di vulnerabilità sociale tale da essere disposti ad accettare qualunque lavoro pur di «non veder fallito il proprio sogno migratorio»4. Tali soggetti spesso non sottoscrivevano alcun contratto lavorativo con le società di cui sopra; altre volte stipulavano, invece, contratti di lavoro occasionale, che generalmente non venivano consegnati ai lavoratori, perché non fossero in condizione di verificare il versamento delle ritenute d’acconto (operate ma non versate)5. Nei contratti era prevista una retribuzione a cottimo, pari a 3 euro a consegna, con l’espressa indicazione – riportata a penna sui contratti – che gli importi che apparivano sull’applicazione UberEats erano errati. Questi ultimi venivano calcolati sulla base di variabili (tipo di corsa, presenza di pioggia, ecc.) del tutto ignorate da parte dei fleet partner, che spesso non corrispondevano nemmeno le mance effettuate dai clienti per il tramite dell’applicazione e pagate da Uber6. Dai dati informatici raccolti nel corso delle indagini è emerso altresì che le due società applicavano delle decurtazioni agli stipendi dei fattorini quali sanzioni in caso di mancato rispetto di determinate disposizioni: a titolo esemplificativo, veniva applicata una penale di 0,50 euro in caso di percentuale di accettazione inferiore al 95% oppure una penale di 0,50 euro a consegna in caso di percentuale di cancellazione superiore al 5%. In certi casi si poteva anche incorrere nella sanzione del blocco del profilo, temporaneo o definitivo. Il Tribunale rileva che l’applicazione di tali penalità comportava una limitata autonomia nella scelta degli orari di lavoro da parte dei rider, obbligati a turni di lavoro massacranti. Si aggiunga che gli intermediari, sulla base di precise indicazioni di Uber, limitavano la possibilità di accesso alla piattaforma da parte dei fattorini nelle fasce orarie meno performanti (come il mattino e il pomeriggio), con ciò, di fatto, intervenendo nella definizione dei turni lavorativi. Per quanto riguarda l’attività agevolatrice di Uber rispetto ai fleet partner, sottoposti a procedimento penale per il delitto di cui all’art. 603 bis c.p., nel decreto emerge quanto segue. Innanzitutto, si cerca di ricostruire la complessa realtà Uber, dando conto del fatto che l’azienda, nata a San Francisco, opera in Italia dal 2013 nel servizio trasporti7 e dal 2016 è

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Milano, mentre “soggetto proposto” è quello nei cui confronti si richiede al Tribunale di applicare la misura, utilizzabile anche in caso di persona giuridica. Cfr. pagg. 8 e ss. del decreto. Cfr. p. 8 del decreto. Cfr. testualmente p. 8 del decreto. Cfr. p. 18 del decreto. Cfr. p. 18 del decreto in cui si dà conto di un file excel con l’indicazione delle mance da non pagare. In merito all’attività di Uber nel settore trasporti, si ricorda che la società è stata al centro di un ampio contenzioso in tutto il mondo (si veda in proposito Ingrao, “Uberlabour”: l’organizzazione “uberiana” del lavoro in Brasile e nel mondo. Il “driver” è un “partner”

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attiva nel servizio di consegna e pasti a domicilio con l’applicazione UberEats, che favorisce il contatto tra ristorante e corriere. Pur consentendo la registrazione diretta dei corrieri sulla piattaforma, talvolta Uber affida la gestione dei fattorini a società terze (c.d. fleet partners), cui viene concesso l’utilizzo della piattaforma. Questo è avvenuto quando in data 31 maggio 2018 Uber Portier V.B. (società che procura i servizi agli utenti di Uber in Italia) ha sottoscritto con FRC S.r.l. (sebbene, poi, di fatto, anche Flash Road City abbia collaborato alla gestione del servizio8) un “contratto di prestazione tecnologica” avente ad oggetto l’utilizzo della piattaforma da parte dei rider reclutati da Flash Road City. Per quanto riguarda il coinvolgimento di Uber nel contesto di grave sfruttamento dei lavoratori operato dai fleet partner, questo è risultato ben più pregnante di quanto la formale sottoscrizione del “contratto di prestazione di servizi tecnologici” farebbe pensare. Sono, infatti, stati provati continui contatti tra i soggetti sottoposti a procedimento penale operanti in FRC S.r.l. e Flash Road City e diversi dipendenti della galassia Uber, da cui è emersa non solo la consapevolezza di questi dello sfruttamento dei rider, ma addirittura la sussistenza di condotte che potrebbero integrare concorso nel reato di cui all’art. 603 bis c.p. o, comunque, favoreggiamento. È infatti risultato che Uber partecipava alla gestione dei turni di lavoro dei rider, attraverso alcuni suoi dipendenti, come risulta chiaramente dalle conversazioni WhatsApp riportate a pp. 37 e ss. del decreto. I manager di Uber Italia, invero, chiedevano periodicamente a FRC S.r.l. e Flash Road City di comunicare il proprio planning settimanale con i turni dei fattorini, in modo da eventualmente modificarlo e poi autorizzarlo, con ciò incidendo direttamente sulla autonomia lavorativa dei rider, oltre che su quella organizzativa dei fleet partner. Uber condizionava peraltro l’applicazione delle sanzioni ai fattorini da parte degli intermediari, inviando ogni due settimane una “analisi sulla quality” che prendeva in considerazione parametri quali: valutazioni, accettazione, cancellazioni pre e post pickup, consegne completate e consegne false. Nel caso in cui le prestazioni di un rider non risultassero soddisfacenti, Uber lo contattava direttamente, invitandolo a migliorare la performance entro le due settimane successive (c.d. “grace period”), a seguito delle quali, nel caso, si poteva incorrere finanche nel blocco del profilo. È stato altresì registrato come Uber avesse richiesto talvolta agli intermediari di effettuare vere e proprie attività di controllo (es. appostamenti) nei confronti dei fattorini, al fine di verificare il corretto svolgimento della prestazione lavorativa.

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di Uber o un suo dipendente?, in DRI, 2018, 705 ss.), conclusosi in ambito europeo con le pronunce C. giust., 20 settembre 2017, C-434/2015, Asociación Profesional Elite Taxi c. Uber Systems Spain SL, in D&G, 2017, 206, 10, con nota di Milizia e in FI, 2018, 2, 95, con nota di Palmieri, e C. giust., 10 aprile 2018, C-320/16, Proc. penale c. Uber France SAS, in GDir, 2018, 19, 20, in cui la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha qualificato Uber come società fornitrice di un servizio di trasporto vero e proprio. Si veda anche Vecchio, Condivisione o elusione? La Corte di Giustizia e le sfide dell’UBERification della sharing economy, in GC.com, gennaio 2019. Cfr. p. 7 del decreto.

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Dall’attività investigativa è, dunque, apparso evidente come Uber indirizzasse e limitasse le capacità decisionali dei fleet partner e fosse del tutto consapevole della situazione di sfruttamento lavorativo e reddituale operata da FRC S.r.l. e Flash Road City. A fronte di tale scenario, il Tribunale ha disposto l’amministrazione giudiziaria di Uber Italy S.r.l., quale unità organizzativa operante in Italia di Uber Portier B.V. (soggetto sottoscrittore del contratto con gli intermediari), per un anno, al fine di promuoverne il recupero alla legalità.

2. Il c.d. “caporalato digitale”. Il decreto in commento si segnala per aver portato alla luce e denunciato un quadro di estremo sfruttamento lavorativo, tale da integrare la fattispecie di reato di cui all’art. 603 bis c.p., collegato al settore del food delivery, da tempo al centro del dibattito dottrinale e giurisprudenziale. La vicenda oggetto della pronuncia del Tribunale, oltre ai profili di interesse penalistico9, offre molteplici spunti di riflessione nel campo del diritto del lavoro, non limitati alla tradizionale tematica della qualificazione del rapporto di lavoro dei rider della gig economy. Si fa riferimento, in particolare, al tema dell’interposizione illecita di manodopera e dello sfruttamento dei lavoratori nell’ambito del c.d. caporalato digitale ed a quello della rilevanza nel giudizio civile del decreto emesso all’esito del procedimento di prevenzione, oltre che delle prove ivi raccolte. In merito al primo aspetto, è necessaria, innanzitutto, una precisazione terminologica: la locuzione caporalato digitale è emersa nel linguaggio degli interpreti con accezioni diverse. Vi è chi parla di caporalato digitale con riferimento al lavoro tramite piattaforma in generale, al fine di evidenziare la situazione di sfruttamento cui sono esposti i lavoratori in questi casi10, parte integrante del c.d. capitalismo delle piattaforme11. A tale ricostruzione può essere ricondotta quella della dottrina che – pur senza parlare espressamente di caporalato – si è interrogata sulla riconducibilità del lavoro tramite piattaforma agli schemi della somministrazione. Il quesito di fondo è, infatti, se le piattaforme che operano tramite algoritmi svolgono un mero servizio di intermediazione tra domanda

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Sui profili penalistici della vicenda si vedano i commenti di Torre, Destrutturazione del mercato del lavoro e frammentazione decisionale: i nodi problematici del diritto penale, in Questione Giustizia, 2020; Quattrocchi, op. cit.; Merlo, Sfruttamento dei riders: amministrazione giudiziaria ad Uber per contrastare il “caporalato digitale”¸ in Sistema Penale, 2020. 10 In tal senso Di Meo, I diritti sindacali nell’era del caporalato digitale, in LLI, 2019, vol. 5, n. 2, 66. 11 Merlo, Sfruttamento dei riders, cit., 3; Sgroi, Utilizzo interpositorio illecito della manodopera: le misure di contrasto, in RDSS, 2018, fasc. 1, 104; Perulli, Capitalismo delle piattaforme e diritto del lavoro. Verso un nuovo sistema di tutele?, in Perulli (a cura di), Lavoro autonomo e capitalismo delle piattaforme, Cedam, 2018, 115-145.

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e offerta oppure anche il servizio sottostante e, conseguentemente, se possono essere considerate datori di lavoro12. Di recente, la locuzione è stata ripresa nel linguaggio giornalistico a seguito della scoperta di casi in cui lavoratori già registrati a una delle piattaforme di food delivery avevano ceduto smartphone dotato di app e zaino termico ad un altro soggetto non registrato (perlopiù stranieri senza regolare permesso di soggiorno), dietro il pagamento di denaro o di una percentuale sui profitti conseguiti a seguito dell’attività svolta (c.d. “vendita degli account”). La Procura di Milano nel settembre 2019 ha, così, aperto un’indagine conoscitiva al fine di verificare l’eventuale sussistenza di fenomeni di caporalato digitale nell’ambito del lavoro tramite piattaforma13. Da ultimo, si è parlato di caporalato digitale proprio in relazione al caso Uber in commento14. In generale, con il termine caporalato vengono indicate situazioni di sfruttamento dei lavoratori – legate a comportamenti interpositori tradizionalmente diffusi nelle campagne del meridione15 – consistenti nell’assunzione di manodopera da parte del caporale (quale intermediario abusivo) spesso in nero e senza garanzie di tutele e di solvibilità per i lavoratori da destinare a clienti che la utilizzano, pagandone il relativo costo, oltre ad un margine di profitto per il caporale. Si tratta di un fenomeno che costituisce una fattispecie di interposizione di manodopera di antica memoria (art. 2127 c.c.; art. 1 l. n. 1369/1960) ed ancor oggi vietata dalla legge (v. infra). Al fine di comprendere la ratio del divieto di interposizione di manodopera si deve partire dalla definizione della nozione di datore di lavoro. Coerentemente con l’origine contrattuale del rapporto di lavoro, il datore di lavoro è colui che stipula il contratto, così divenendone parte ed assumendo la titolarità del credito di lavoro, oltre che di tutte le posizioni attive (poteri) e passive (obblighi)16. L’art. 2094 c.c. di per sé non esclude la possibilità di configurare più datori di lavoro, scindendo le posizioni giuridiche che competono al datore di lavoro, imputandone alcune a soggetti terzi17.

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Garofalo, Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative, Relazione alle giornate di studi AIDLASS, Cassino 18-19 maggio 2017, 87; Tullini, Digitalizzazione dell’economia e frammentazione dell’occupazione. Il lavoro instabile, discontinuo, informale: tendenze in atto e proposte d’intervento, in RGL, 2016, 757; De Stefano, Wouters, Should digital labour platforms be treated as private employment agencies?, ETUI Foresight Brief, 2019, https://www.etui.org/Publications2/Foresight-briefs/Should-digital-labour-platforms-be-treated-asprivate-employmentagencies; Potocka-Sionek, The Changing Nature of Labour Intermediation. Do Algorithms Redefne Temporary Agency Work?, in Wratny, Ludera-Ruszel (a cura di), New Forms of Employment, Springer VS, Wiesbaden, 2020, 169 ss.; Sgroi, op. cit., 104. 13 Si veda Crispino, Caporalato digitale tra rider, account italiani venduti a migranti irregolari: «Dammi il 20% e ti cedo l’account», in Corriere.it, 18 settembre 2019. 14 Merlo, Sfruttamento dei riders, cit.; Barbieri, Lavoro su piattaforma, coronavirus, conflitto sociale e legislazione: i nodi sono tutti da sciogliere, in LLI, 2020, vol. 6, n. 1, VI. 15 Così Merlo, Sfruttamento dei riders, cit., 3; Garofalo, Il contrasto al fenomeno dello sfruttamento del lavoro (non solo in agricoltura), in RDSS, 2018, 2, 229. 16 M.T. Carinci, Introduzione. Il concetto di datore di lavoro alla luce del sistema: la codatorialità e il rapporto con divieto di interposizione, in M.T. Carinci (a cura di), Dall’impresa a rete alle reti d’impresa, Giuffrè, 2015, 8. 17 M.T. Carinci, La fornitura di lavoro altrui: interposizione, comando, lavoro temporaneo, lavoro negli appalti, in Schlesinger (diretto da), Il codice civile. Commentario, Giuffrè, 2000; Ichino, Il contratto di lavoro, in Cicu, Messineo, Trattato di diritto civile e commerciale,

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Per evitare dissociazioni nelle posizioni che competono al datore di lavoro, nella maggior parte dei casi disposte per fini elusivi e di sfruttamento, è stata la l. n. 1369/1960 ad introdurre in origine un divieto generale di interposizione di manodopera. Il legislatore intendeva così vietare che tra il lavoratore e il datore di lavoro potesse interporsi un soggetto terzo, la cui unica attività consistesse nella assunzione del lavoratore e nella sua messa a disposizione dell’interponente. Si passa, così, da una nozione di datore di lavoro formale – quale parte del contratto – ad una di datore di lavoro sostanziale, identificabile nel soggetto che, senza aver stipulato il contratto di lavoro, comunque beneficia – in via diretta o indiretta – dell’attività del lavoratore nell’ambito della propria organizzazione18. Il criterio della effettiva utilizzazione viene infatti declinato sia in senso soggettivo, per cui è datore di lavoro chi esercita di fatto i poteri direttivo e disciplinare nei confronti del lavoratore (utilizzazione diretta), sia in senso oggettivo, individuandosi il datore di lavoro in colui che è titolare dell’organizzazione nell’ambito della quale è comunque inserita la prestazione del lavoratore (utilizzazione indiretta)19. Come anticipato, secondo l’interpretazione maggioritaria, il divieto di interposizione deve intendersi confermato anche negli interventi legislativi successivi (d.lgs. n. 276/2003 che ha abrogato la l. n. 1369/1960 e d.lgs. n. 81/2015)20. In questa prospettiva, la somministrazione di lavoro (ai sensi degli artt. 30 e ss. d.lgs. n. 81/2015 che ha sostituito la disciplina di cui al d.lgs. n. 276/2003) e il distacco (art. 30 d.lgs. n. 276/2003)21 costituiscono deroghe al generale divieto di interposizione che rimane fermo. È dunque fondamentale distinguere tra fattispecie lecite (somministrazione di lavoro, distacco e appalto genuino) e fattispecie che ricadono nel divieto di interposizione.

vol. I, Giuffrè, 2000, 403; Romei, Il diritto del lavoro e l’organizzazione dell’impresa, in Perulli (a cura di), L’idea di diritto del lavoro oggi, Cedam, 2016, 514. 18 Mazzotta, Somministrazione di lavoro e subordinazione: chi ha paura del divieto di interposizione, in Mariucci (a cura di), Dopo la flessibilità cosa?, Franco Angeli, 2006, 159; Garofalo, Lavoro, impresa, cit., 8; M.T. Carinci, Introduzione. Il concetto di datore di lavoro, cit., 12; Barbera, Trasformazioni della figura del datore di lavoro e flessibilizzazione delle regole del diritto, in DLRI, 2010, 220. 19 M.T. Carinci, Introduzione. Il concetto di datore di lavoro, cit., 14-15. 20 Garofalo, Lavoro, impresa, cit., 22; M.T. Carinci, Utilizzazione e acquisizione indiretta del lavoro: somministrazione e distacco, appalto e subappalto, trasferimento d’azienda e di ramo, Giappichelli, 2013, 37 e ss. e 89 e ss.; Bonardi, La nuova disciplina della somministrazione di lavoro, in Ghezzi (a cura di), Il lavoro tra progresso e mercificazione. Commento critico al decreto legislativo 276/2003, Ediesse, 2004, 118 ss.; Del Punta, La nuova disciplina degli appalti e della somministrazione di lavoro, in Aa.Vv., Come cambia il mercato del lavoro, Commentario al d.lgs. n. 276/2003, Ipsoa, 2004, 161 ss.; Ichino, Somministrazione di lavoro, in Pedrazzoli (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro, Zanichelli, 2004, 257 ss.; Quadri, Processi di esternalizzazione: tutela del lavoratore e interesse dell’impresa, Jovene, 2004, 274; Speziale, Somministrazione di lavoro, appalto di servizi, distacco, in Gragnoli, Perulli (a cura di), La riforma del mercato del lavoro e i nuovi modelli contrattuali, Cedam, 2004, 275 ss.; Magnani, Le esternalizzazioni e il nuovo diritto del lavoro, in Magnani, Varesi (a cura di), Organizzazione del mercato del lavoro e tipologie contrattuali, Giappichelli, 2005, 283 ss. Minoritaria è invece la tesi contraria: Romei, L’elisir di lunga vita del divieto di interposizione, in RIDL, II, 2005, 726 ss.; Miscione, Appalto di manodopera dopo il d.lgs. n. 276/2003: non punibilità del divieto, in DPL, 2004, 518 ss.; Tiraboschi, Somministrazione, appalto di servizi, distacco, in GLav, 2004, 4, 66 ss. 21 Garofalo, Lavoro, impresa, cit., 24: «La legislazione della “flessibilità organizzativa” va letta dunque come actio finium regundorum dell’area del divieto, non come soppressione di questo».

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Nel caso di violazione del divieto di interposizione di manodopera, l’attuale disciplina22 prevede che i lavoratori possano chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’effettivo utilizzatore. Oltre a tale regime civilistico, è previsto un corredo di sanzioni sia amministrative che penali, fino ad arrivare, nei casi più gravi, al reato di cui all’art. 603 bis c.p., per l’integrazione del quale, nel caso di specie, Uber ha posto in essere un’attività agevolatrice. Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro23 – fattispecie novellata ad opera della l. n. 199/2016, al fine, in particolare, di estendere la punibilità alla condotta del datore di lavoro, prima non intercettata dalla precedente versione della norma, che si limitava a reprimere la condotta del caporale – ha la funzione di colpire non tanto le forme più eclatanti di assoggettamento del lavoratore, tendenzialmente riconducibili al reato di riduzione in schiavitù e di lavoro servile ex art. 600 c.p., quanto le forme “grigie” di sfruttamento, di livello meno intenso, comunque offensive della dignità della persona24.

3. Una lettura civilistica del decreto Uber. Chiarito il quadro entro cui si inserisce il fenomeno del c.d. caporalato digitale, si è visto come il decreto in commento riferisca degli indizi di integrazione del reato di cui all’art. 603 bis c.p. da parte delle imprese che gestivano i rider per conto di Uber, nonché del possibile concorso o, comunque, della condotta di favoreggiamento da parte di quest’ultima. Si propone ora una analisi del caso da un punto di vista civilistico, dal momento che l’integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro non coincide con la mera violazione del divieto di interposizione di manodopera. Sul punto, al fine di inquadrare correttamente la vicenda in commento, deve innanzitutto essere indagata la qualificazione del rapporto di lavoro tra corrieri e datori di lavoro formali (fleet partner), dal momento che il divieto di interposizione di manodopera può ritenersi operante solo in presenza di un rapporto di lavoro subordinato tra interposto e lavoratore. Senza poter ripercorrere in questa sede il dibattito interpretativo in ordine alla qualificazione del rapporto di lavoro di ciclo-fattorini, si deve rilevare che di recente, la Corte di Cassazione nel caso Foodora (altra nota piattaforma di food delivery) si è espressa nel senso di ricondurre i rapporti di lavoro dei rider alle collaborazioni organizzate dal committente ex art. 2 d.lgs. n. 81/201525.

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Cfr., in particolare, art. 38 d.lgs. n. 81/2015. Così Merlo, Sfruttamento dei riders, cit., 3; Garofalo, Il contrasto al fenomeno dello sfruttamento del lavoro (non solo in agricoltura), RDSS, 2018, 2, 229. 24 Merlo, Il contrasto al “caporalato grigio” tra prevenzione e repressione, in Diritto Penale Contemporaneo, 2019, 6, 179; Piva, I limiti dell’intervento penale sul caporalato come sistema (e non condotta) di produzione: brevi note a margine della legge n. 199/2016, in Archivio Penale, 2017, 1, 184. 25 Cass., 24 gennaio 2020, n. 1663, in RIDL, 2020, 1, 49, con nota di M.T. Carinci, Marazza, Maresca, Romei; in GI, 2020, 5, 1168, con nota di D’Addio; in LG, 2020, 3, 245, con nota di Recchia; in GC.com, 2020, 2, 1, con nota di Cavallini. 23

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In merito a tale disposizione, nella sentenza si ritiene che il lavoro etero-organizzato non costituisca un nuovo tipo contrattuale, ma una figura “trasversale” situata interamente nell’area del lavoro autonomo, che determina, in presenza degli elementi della personalità, continuatività, etero-organizzazione della prestazione, l’applicazione di tutta la disciplina del lavoro subordinato26. L’etero-organizzazione, in particolare, viene identificata con l’«elemento di un rapporto di collaborazione funzionale alla organizzazione del committente», che fa sì che «le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione unilateralmente predisposta dal primo, opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa» (punto 32)27, dovendosi escludere in tale ipotesi la sussistenza del potere direttivo ex art. 2094 c.c. Nel caso in commento, invece il rapporto di lavoro dei rider è pienamente riconducibile al contratto di lavoro subordinato vero e proprio. Alla luce delle indagini ampiamente documentale nel decreto emerge infatti la sussistenza in capo a FRC S.r.l. e Flash Road City dei poteri datoriali caratteristici della fattispecie del lavoro subordinato. In particolare, la predisposizione di veri e propri turni di lavoro, con l’indicazione di determinate fasce orarie da coprire, l’imposizione di certe percentuali di accettazione di ordini, la decurtazione stipendiale in presenza di determinati comportamenti dei corrieri, oltre all’eventuale blocco dell’account28 sono chiari indici dell’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare. In questo senso si è espresso, sebbene in obiter, anche il Tribunale di Milano in diversi punti del decreto, laddove si è fatto riferimento alla «violazione di tutte le norme contrattuali in tema di lavoro autonomo gestendosi di fatto un rapporto di lavoro subordinato alterato»; e ancora alla «indicazione da parte di […] dei turni da coprire in netta contrapposizione con le caratteristiche tipiche del lavoro autonomo da effettuarsi senza vincolo di subordinazione né potere di coordinamento del committente»; per concludere che «ne deriva, pertanto, una limitata autonomia di nella scelta dei tempi e degli orari di lavoro da parte del lavoratore, costretto a ritmi sempre più intensi e frenetici […], nettamente in contrasto con quanto previsto dalla forma contrattuale scelta, vale a dire quella della prestazione di lavoro autonomo occasionale caratterizzata (appunto) dalla completa autonomia del lavoratore circa i tempi e le modalità di esecuzione del lavoro»29.

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Così M.T. Carinci, Il lavoro etero-organizzato secondo Cass. 1663/2020: verso un nuovo sistema dei contratti in cui è dedotta un’attività di lavoro, in M.T. Carinci, Tursi, Licenziamento subordinazione e lavoro agile tra diritto giurisprudenziale e diritto emergenziale, Giappichelli, 2020, 54. 27 Per M.T. Carinci, Il lavoro etero-organizzato, cit. 57, l’etero-organizzazione si sostanzia nel dato fattuale dell’adeguamento nel tempo della propria attività da parte del lavoratore autonomo alla mutevole organizzazione del committente. Per una critica alla posizione si veda Galardi, Appunti sulla crisi (della crisi?) della subordinazione, in Labor, 2020, 2, 303. Per Mazzotta, L’inafferrabile eterodirezione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, in Labor, 2020, 1, 8, il potere di organizzazione è più ampio ed onnicomprensivo rispetto a quello di mera direzione della prestazione. 28 Cfr. pp. 14 e 16 del decreto. 29 Rispettivamente pp. 14, 16 e 56 del decreto.

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Si tratta della prima decisione della magistratura italiana che riconosce, seppur incidentalmente, la natura subordinata del rapporto di lavoro dei fattorini30. Determinata – in base alla interpretazione offerta – la natura subordinata del rapporto di lavoro tra rider e fleet partner, deve essere ora verificata la configurabilità di Uber quale effettivo utilizzatore delle prestazioni dei lavoratori. Sul punto, dalla ricostruzione di fatto presentata nel decreto emerge una realtà «nettamente in contrasto con la “vulgata” che vede Uber come una informale piattaforma con nessun rapporto con i rider e che si limita a mettere in contatto i ristoratori e clienti»31. In particolare – come si è detto – Uber si ingeriva pesantemente nella gestione dei fattorini, imponendo determinati planning settimanali ed inviando la c.d. “analisi della quality”, documento in base al quale si procedeva a sanzionare i rider. Anzi, in alcuni casi Uber procedeva direttamente a contattare il corriere, per invitarlo a conformare il proprio comportamento a determinate direttive entro un breve termine, incorrendo, in caso contrario, nella misura del blocco dell’account. Si può, quindi, ritenere, sulla base dei fatti così come presentati nel decreto, che Uber si sia pesantemente ingerita nella gestione dei fattorini degli intermediari, atteggiandosi a datore di lavoro sostanziale. Tali forme di ingerenza del fruitore sulla organizzazione del lavoro del datore di lavoro formale sono peraltro molto frequenti nella filiera del decentramento, nel caso della c.d. contrattazione diseguale tra imprese, caratterizzata dalla posizione di dominio della committente32.

4. Efficacia extra-penale delle prove raccolte nel procedimento di prevenzione e del decreto.

Ipotizzando un eventuale giudizio in cui i corrieri coinvolti nella vicenda esaminata dovessero chiedere, previo accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro con FRC S.r.l. e Flash Road City, l’imputazione del rapporto in capo a Uber Italy S.r.l., ci si deve interrogare sulla efficacia nel processo dinnanzi al giudice del lavoro del decreto con cui è stata disposta la misura di prevenzione, oltre che delle prove in quella sede raccolte ad opera della Procura di Milano. Si può apprezzare l’importanza della questione se si considera che l’apparato probatorio che i rider possono porre a fondamento della propria domanda in sede lavoristica non è sicuramente paragonabile ai risultati di un’attività di indagine della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, operata nell’arco di due anni33.

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Così Barbieri, Lavoro su piattaforma, coronavirus, cit., VI. Cfr. p. 25 decreto 32 Garofalo, Lavoro, impresa, cit., 15: nel caso di specie, sicuramente il peso contrattuale di Uber era maggiore rispetto a quello dei fleet partner. 33 Così anche Barbieri, Lavoro su piattaforma, coronavirus, cit., VI. 31

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Giurisprudenza

L’esito del giudizio dinnanzi al giudice del lavoro in casi che coinvolgono piattaforme come Uber sconta anche l’oggettiva mancanza di trasparenza relativamente all’organizzazione delle piattaforme stesse. Nel caso di specie, si può ritenere che l’ampio corredo probatorio offerto abbia “smascherato” l’algoritmo dietro cui si celano le piattaforme, portando alla luce, tra il resto, il sistema con cui vengono organizzati gli accessi all’applicazione da parte dei rider, sulla base di veri e propri turni stabiliti ex ante da committente e fleet partner, oltre che il vero e proprio meccanismo sanzionatorio applicato in caso di violazione di determinate disposizioni o di mancata accettazione di una certa percentuale di ordini. Con riferimento a quest’ultimo punto, si deve rilevare che la sentenza del Tribunale di Torino34 sul noto caso Foodora ha escluso la natura subordinata del rapporto di lavoro dei fattorini anche sulla base della mancata prova dell’esercizio del potere disciplinare da parte della piattaforma. Ancora: nella ricostruzione di fatto operata dal giudice di merito in quel caso35 è stato oltremodo valorizzato il dato per cui «i ricorrenti non avevano l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa e il datore di lavoro non aveva l’obbligo di riceverla», con ciò escludendo la sussistenza del potere direttivo. Tali dati, decisivi per l’esclusione della subordinazione nel caso Foodora, sarebbero stati forse diversamente considerati in presenza di un apparato probatorio come quello messo a disposizione dalla Procura di Milano nel decreto Uber. Per quanto riguarda l’efficacia delle prove raccolte nell’ambito del procedimento di prevenzione in un eventuale giudizio dinnanzi al giudice del lavoro, tale problematica è riconducibile al più ampio dibattito sulla prova atipica, con ciò intendendosi quelle che non si trovano ricomprese nel catalogo dei mezzi di prova specificamente regolati dalla legge. Non potendo in questa sede ricostruire la querelle interpretativa sul tema, ci si deve limitare a rilevare che parte della dottrina dubita della stessa ammissibilità di tale categoria di prove, mentre in giurisprudenza questa è tendenzialmente riconosciuta36. In merito all’efficacia probatoria delle prove atipiche, secondo l’opzione prevalente queste devono essere valutate alla stregua delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. o argomenti di prova37. Per quanto riguarda, da ultimo, l’efficacia extra-penale del decreto penale che ha disposto la misura di prevenzione, si deve rilevare che manca, su questo profilo, elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, dovuta al fatto che, tendenzialmente, gli effetti extra-penali delle pronunce del giudice penale vengono approfonditi principalmente in relazione alle conseguenze risarcitorie o disciplinari derivanti da un fatto di reato. Il processo di preven-

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Trib. Torino, 7 maggio 2018, n. 778, in questa Rivista, 2018, 603, con nota di Gramano e in ADL, 2018, 4-5, 1227 ss., con nota di Biasi. Ricostruzione di fatto confermata anche da App. Torino, 4 febbraio 2019, in RIDL, 2019, 2, 350, con nota di M.T. Carinci e Del Punta; in GC.com, 6, maggio 2019, con nota di Spinelli. 36 Per una ricognizione delle varie posizioni in campo si veda Maggio, La prova nel processo civile: i poteri del giudice nella valutazione delle prove atipiche, in GI, 2015, 625 ss. 37 Di recente in giurisprudenza Trib. Reggio Emilia, 6 febbraio 2020, in GI, 2015, 625 ss., con nota di Maggio.

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Giulia Cassano

zione, invece, ha quale precipua finalità quella di accertare una situazione di pericolosità e non un fatto penalmente rilevante. Sul punto, si deve, comunque, rilevare che la giurisprudenza tende ad assumere un approccio estensivo in tema di ammissibilità di prove atipiche. Si è, ad esempio, sostenuto di poter trarre elementi di giudizio dalle sentenze penali anche non irrevocabili con riferimento sia alle risultanze dei mezzi di prova esperite, sia alle affermazioni dei fatti, attribuendo così efficacia probatoria ad un decreto di archiviazione penale38. Si deve, dunque, ritenere che i rider ben potrebbero porre a fondamento di una eventuale domanda da proporre dinnanzi al giudice del lavoro, tra il resto, il decreto penale in commento e le prove ivi raccolte. Tali elementi sarebbero, infatti, da considerarsi quali indizi idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio39.

5. Conclusioni. Il decreto Uber in commento ha contribuito a riempire di significato l’espressione “caporalato digitale”, portando alla luce fenomeni di grave sfruttamento dei lavoratori. Si deve, altresì, apprezzare l’affermazione incidentale del giudice penale in ordine alla natura subordinata del rapporto di lavoro dei rider, sebbene certamente legata alla peculiarità e ai gravi aspetti patologici del caso di specie. Tale pronuncia costituirà un importante precedente, alternativo al caso Foodora, anche grazie alla dettagliata ricostruzione dell’effettivo svolgimento del rapporto di lavoro dei corrieri, basata su un forte apparato probatorio. A seguito dello “smascheramento” dell’algoritmo su cui si basano le piattaforme, probabilmente l’applicazione delle ordinarie categorie giuridiche del diritto del lavoro (i.e. nozione di subordinazione, potere direttivo, disciplinare, di controllo) potrà essere meno problematica. Giulia Cassano

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Trib. Reggio Emilia, 1° dicembre 2014, cit. Così nella giurisprudenza di legittimità Cass., 19 luglio 2019, n. 19521, in GC Mass, 2019.

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