2017 LABOR 6
L
ABOR Il lavoro nel diritto
issn 2531-4688
6
novembre-dicembre 2017
Rivista bimestrale
Diretta da Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
IN EVIDENZA Le mansioni: la rivoluzione promessa nel Jobs Act Marina Brollo
Uguali nelle diversità o estranei a noi stessi? Riflessioni sul divieto di discriminazione Lucia Tria
Giurisprudenza commentata Cinzia Carta, Matteo Avogaro, Lorena Carleo, Riccardo Diamanti
Pacini
Indici
Saggi Marina Brollo, Le mansioni: la rivoluzione promessa nel Jobs Act................................................... p. 619 Lucia Tria, Uguali nelle diversitĂ o estranei a noi stessi? Riflessioni sul divieto di discriminazione tra norme e prassi (seconda parte)................................................................................................... p. 633
Giurisprudenza commentata Cinzia Carta, Ryanair e le regole di diritto internazionale privato nello spazio europeo: certezza processuale, carenza di tutela sostanziale?....................................................................................... p. 671 Matteo Avogaro, Rsu e diritto di assemblea: le sezioni unite alla ricerca di un difficile compromesso..................................................................................................................................... p. 687 Lorena Carleo, Licenziamento intimato per motivo oggettivo a seguito di accertata inidoneitĂ fisica del lavoratore: obbligo di reimpiego se residua la capacitĂ lavorativa.............................................. p. 705 Riccardo Diamanti, Il danno differenziale. Punti fermi e nuove prospettive...................................... p. 715
Indice analitico delle sentenze Assemblea – RSU – RSA – A.I. del 20 dicembre 1993 – Art. 20 St. lav. – T.U. del 10 gennaio 2014 – Prerogative del componente di RSU – Legge sulla rappresentanza sindacale (Cass., sez. un., 6 giugno 2017, n. 13978, con nota di Avogaro) Diritto internazionale privato Competenza del giudice – Regolamento di Bruxelles I – Clausola contrattuale sul foro competente – Irrilevanza – Luogo dove il lavoratore svolge abitualmente la propria attività – Diversità della nozione di base di servizio – Regolamento di Roma I – Interpretazione analogica (C. giust., 14 settembre 2017, cause C-168 e 169/2016, con nota di Carta) Infortuni e malattie professionali – Danno complementare – Presupposto – Inadempimento – Danno differenziale – Presupposto – Reato – Quantificazione danno differenziale – Sottrazione al danno civilistico per poste omogenee di quanto indennizzato dall’Inail (Cass., sez. lav., 10 aprile 2017, n. 9166, con nota di Diamanti) Licenziamenti – Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Impossibilità sopravvenuta del lavoratore – Mancata risoluzione automatica in virtù dell’art. 15 CCNL – Qualificazione del recesso quale licenziamento ex art. 2119 c.c. – Obbligo di verifica di adibizione ad altre mansioni compatibili (Cass., sez. lav., 21 luglio 2017, n. 18020, con nota di Carleo) Indice cronologico delle sentenze Giorno
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Autorità 2017 Aprile Cass., sez. lav., n. 9166 Giugno Cass., sez. un., n. 13978 Luglio Cass., sez. lav., n. 18020 Settembre C. giust., causa C-168 e 169/2016
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Notizie sugli autori
Matteo Avogaro – dottorando di ricerca nell’Università degli Studi di Milano Marina Brollo – professoressa ordinaria nell’Università degli studi di Udine Lorena Carleo – avvocata nel foro di Roma Cinzia Carta – dottoressa di ricerca nell’Università di Bologna Riccardo Diamanti – avvocato nel foro di Massa Carrara Lucia Tria – consigliere presso la Sezione lavoro della Corte di Cassazione
715 687 705 671
Saggi
Marina Brollo
Le mansioni: la rivoluzione promessa nel Jobs Act Sommario : 1. Flessibilità gestionale: tracce giurisprudenziali di una rivoluzione silenziosa. – 2. La riforma delle mansioni promessa dal nuovo art. 2103 c.c. – 3. La mobilità orizzontale tra flessibilità e sicurezza. – 4. I protagonisti: dal giudice all’autonomia collettiva? – 5. Segue. Il ritorno del giudice ordinario del lavoro privato e pubblico. – 6. Il ‘canone inverso’ della privatizzazione del pubblico impiego.
Sinossi. Il contributo esamina la disciplina delle mansioni post Jobs Act (d. lgs. n. 81/2015) tenendo conto sia dei precedenti giurisprudenziali sia della nuova epoca di trasformazione e innovazione digitale. In tale frame, la principale novità è individuata nell’esigibilità in via ordinaria di mansioni differenti nella misura determinata dalla contrattazione collettiva. Ma questa appare in ritardo, con un possibile ritorno del giudice che potrebbe alimentare un ulteriore avvicinamento tra lavoro privato e pubblico. Abstract. The contribution examines the discipline of job description after Italian s.c. Jobs Act (Law n. 81/2015), taking into account both the previous jurisprudence and the new era of digital transformation and innovation. In this frame, the main novelty is identified in the ordinary eligibility of different tasks to the extent determined by collective bargaining. But collective negotiation seems to be late, with a possible back in action of the jurisprudence, that could lead to a (further) convergence between private and public sectors. Parole
chiave:
Mansioni – Flessibilità gestionale – Ruolo del giudice
Marina Brollo
1. Flessibilità gestionale: tracce giurisprudenziali di una
rivoluzione silenziosa.
Il filo conduttore del mio intervento dedicato al ricordo di Sergio Magrini1 sarà dato dal dialogo con il suo pensiero scientifico, con riguardo al tema oggetto di uno degli ultimi contributi pubblicati nel 2015 in ‘Argomenti di diritto del lavoro’. Nella sezione ‘Questioni’ di tale rivista, Magrini segnala due sentenze coeve della Corte di Cassazione che a suo parere delineano vere e proprie «rivoluzioni silenziose»2 dato che ribaltano «principi giurisprudenziali consolidati» senza dichiararlo, anzi con «un formale ossequio ai precedenti». La prima di queste sentenze, Cass. n. 11395 del 20143, nell’occuparsi dell’adibizione di un lavoratore a mansioni differenti – anche inferiori – anticipa, nella sostanza4, il senso dell’evoluzione attuale della disciplina legale delle mansioni, contenuta nella successiva riforma del lavoro c.d. ‘Jobs Act’, in particolare nell’art. 3, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, che – nella cornice dell’art. 1, comma 7, lett. e), l.d. 10 dicembre 2014, n. 183 – riscrive integralmente l’art. 2103 c.c. normando nuove ipotesi di flessibilità gestionale. A posteriori, è facile individuare le tracce giurisprudenziali che anticipano la novella legislativa. La “rivoluzione” della pronuncia del 2014 consisteva nell’introduzione, per via interpretativa, di un’ulteriore deroga al divieto di declassamento previsto dalla sintetica dizione del vecchio comma 2 dell’art. 2103 c.c. per cui «ogni patto contrario» era nullo. La possibilità di adibizione del lavoratore a mansioni ‘inferiori’ (cioè, all’epoca, non «equivalenti») veniva riconosciuta dalla Cassazione in presenza di una qualsiasi scelta imprenditoriale, anche se – e questo era il punto innovativo – non costituiva l’unica alternativa ad un inevitabile licenziamento, quindi anche per finalità di maggiore efficienza. Nella fattispecie la scelta organizzativa era riconducibile ad una «ristrutturazione aziendale», nozione di lì a poco individuata dalla legge delega n. 183/2014, assieme a «riorganizzazione» e «conversione aziendale», come «limiti alla modifica dell’inquadramento», sintetizzati nel successivo decreto delegato nella diversa formula a contenuto indeterminato – sospettata di eccesso di delega – della «modifica degli assetti organizzativi aziendali» che incide sulla posizione del lavoratore (nuovo comma 2 dell’art. 2103 c.c.). Nella citata sentenza l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle precedentemente svolte era possibile – altro punto innovativo – senza necessità che il lavoratore o il sindacato prestino il consenso alla modificazione di mansioni; si trattava quindi di una nuova ipotesi di ius variandi in pejus, cioè di deroga di tipo unilaterale, vincolata a certe
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Lo scritto riprende e approfondisce, con l’aggiunta delle note essenziali (anche di letteratura extra-giuridica), la Relazione tenuta al Convegno “Ricordando Sergio Magrini. Un discorso sullo stato del diritto del lavoro”, Luiss, Roma, 5 maggio 2017, con infinita gratitudine al prof. Magrini, Commissario del mio concorso a cattedra del 1999. 2 Magrini, Rivoluzioni silenziose nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (in tema di demansionamento e di licenziamento per malattia), in ADL, 2015, n. 1, I, 142 ss. 3 Cass., 22 maggio 2014, n. 11395 (rel. A. De Renzis), in GC Mass, 2014. 4 Segnalo che Magrini, Rivoluzioni silenziose nella giurisprudenza, cit., 144, anticipa questa sintonia alla luce del mero «progetto di legge di delega sulla riforma del lavoro all’esame del Parlamento».
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«condizioni» e garanzie, ora diversamente precisate dai commi 2, 3, 4, 5 e 9 e inserite per la prima volta nella trama normativa dell’art. 2103 c.c. Infine la sentenza garantiva al lavoratore declassato l’intangibilità del livello retributivo. Nella riforma del 2015, la tutela della posizione economica risulta rafforzata, essendo accompagnata dalla garanzia della posizione giuridica (con l’espressa «conservazione del livello di inquadramento»), ma nel contempo alleggerita nell’estensione dalla giuridificazione dell’orientamento giurisprudenziale maggioritario sulla riducibilità delle indennità collegate «a particolari modalità di svolgimento della prestazione» (comma 5, art. 2103 c.c.). Va rilevato, tuttavia, che la novella dell’art. 2103 c.c. riconosce espressamente la rete di garanzie economiche soltanto per le ipotesi di demansionamento unilaterale (per via individuale o collettiva di cui ai commi 2 e 4), negandola implicitamente nell’ipotesi pattizia (comma 6) e lasciando cadere il previgente inciso sull’intangibilità della retribuzione in caso di mobilità orizzontale (comma 1). Quest’ultimo silenzio della novella desta non solo inediti problemi interpretativi in merito alla sussistenza post-riforma della continuità del livello di reddito a seguito dello ius variandi orizzontale, ma pure questioni sociali. Alcune indagini, infatti, evidenziano come, per i lavoratori italiani, la preoccupazione circa il mantenimento del livello reddituale superi quella relativa alla salvaguardia del posto di lavoro1. A conti fatti, la Cassazione del 2014 sostanzialmente spinge molto avanti sulla via delle flessibilità gestionali il percorso giurisprudenziale di interpretazione creativa, di tipo ‘regressivo’, della (vecchia) disciplina legale del mutamento di mansioni; molto avanti dato che va oltre la c.d. tesi del ‘male minore’, con un’attenzione nuova per le scelte di organizzazione aziendale del datore di lavoro2. Tuttavia, denuncia lo stesso Magrini3, la sentenza parla sottovoce e con stile felpato, con un ossequio formale ai precedenti giurisprudenziali; il che determinerà una scarsa eco della pronuncia sulla stampa specializzata. Ad una prima lettura del contributo di Magrini avevo rilevato una commistione sottintesa che mi era sembrata un difetto della sua segnalazione: l’analisi della sentenza – invero complice il testo della stessa – era dipanata con riguardo alla disciplina delle mansioni del settore privato, mentre la fattispecie di Cass. n. 11395 del 2014 riguardava il declassamento (a seguito della riorganizzazione di uffici comunali di «comprovata inefficienza») in un rapporto di lavoro pubblico privatizzato regolato dalla previsione, diversa e speciale, del testo unico sul pubblico impiego e nel cui ambito di applicazione l’orientamento pacifico della giurisprudenza4 e maggioritario della dottrina5 negava e nega l’applicabilità dell’intero art. 2103 c.c. al sistema autosufficiente del lavoro privatizzato.
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Cfr. la recente indagine trimestrale condotta dalla multinazionale delle risorse umane Ransdstad, in https://www.randstad. it/knowledge360/archives/randstad-workmonitor. 2 Su tale scia, pochi anni dopo, si incamminerà Cass., 7 dicembre 2016, n. 25201, meglio nota come sentenza Amendola (dal nome del suo estensore), in tema di giustificato motivo oggettivo di licenziamento. 3 Magrini, Rivoluzioni silenziose nella giurisprudenza, cit., 145. 4 V., tra le più recenti, Cass., 21 luglio 2015, n. 15226; Cass., 24 giugno 2015, n. 13116; Cass., 11 giugno 2014, n. 13112; Cass., 26 marzo 2014, n. 7106; Cass., 25 novembre 2013, n. 26285; Cass., 26 marzo 2010, n. 7381; Cass., 20 maggio 2009, n. 11720. 5 Tuttavia parte della dottrina, già in vigenza dell’art. 13 st. lav., aveva individuato spazi per l’applicabilità residuale dell’art. 2103 c.c. al rapporto di impiego pubblico, sostenendo che alcune regole (per es. la nullità dei patti contrari), non essendo menzionate nell’art. 52, dovevano ritenersi applicabili ai sensi dell’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001: Pisani, Commento
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Ma, come avrò modo di argomentare, rileggendo il contributo, con il senno di poi, tale ibridazione fra la regolamentazione del lavoro pubblico e del lavoro privato mi è apparsa come un pregio visionario del contributo di Magrini.
2. La riforma delle mansioni promessa dal nuovo art. 2103 c.c.
Senza dubbio, la sentenza segnalata da Magrini anticipa la cifra della riforma del mercato del lavoro del Governo Renzi che allarga gli ambiti di operatività dei poteri di gestione della forza lavoro del datore di lavoro privato e alleggerisce i limiti derivanti dallo statuto dei lavoratori, con un progressivo ritorno al paradigma del codice civile. Trattasi, però, parafrasando il titolo di un noto film, di un “ritorno al futuro” dato che va calato nel diverso sistema multilevel, o forse reticolare, delle fonti, nonché nel nuovo contesto di continuo e veloce sviluppo tecnologico, di competitività e complessità crescente, di rischio di ‘disoccupazione tecnologica’ e di ‘grande trasformazione’ strutturale del lavoro, con conseguente attenzione all’esigenza di aumentare le opportunità di incremento o quanto meno di conservazione dell’occupazione, almeno in termini macro-economici. Se così è, lo slogan del ‘ritorno al codice’ appare ancora più efficace in quanto coniuga assieme linguaggio giuridico e linguaggio informatico: cioè la tradizione della ricomparsa della fonte codicistica (l’art. 2103) come norma prevalente di riferimento per la flessibilità gestionale e l’innovazione delle regole (i c.d. ‘codici sorgente’) che governano le tecnologie digitali. Anche dal linguaggio deriva, dunque, la consapevolezza che la moderna tecnologia informatica conserva una relazione molto stretta con il diritto, anche nel lavoro; seppur il fenomeno giuridico potrà assumere una fisionomia in tutto o in parte diversa da quella tradizionale. Ciò premesso, al di là del dilemma se la tecnologia digitale, nel complesso, crea o distrugge occupazione, quello che si può anticipare con ragionevole certezza è che gran parte dei posti di lavoro, seppur con un processo non uniforme o lineare, tenderà a trasformarsi in quanto la macchina assorbirà parte dei compiti svolti dall’uomo, con una c.d. automazione delle mansioni, alimentando il bisogno di nuove competenze per la gestione e organizzazione dei processi produttivi, anche per prevenire la disoccupazione. Da qui la necessità di sviluppare adeguate e tempestive strategie per l’occupazione, con la duplice consapevolezza che il progresso va indirizzato verso obiettivi compatibili con i principi costituzionali e che i tempi dell’innovazione e quelli della regolazione spesso sono sfasati6.
all’art. 25, in Dell’Olio, Sassani (a cura di), Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo, Giuffré, 2000, 230. Dopo la novella del 2015, la medesima tesi potrebbe trovare un rinnovato motivo di interesse in considerazione della nuova disciplina dell’assegnazione a mansioni inferiori, come vedremo, prevista dal nuovo art. 2103 c.c. 6 Rinvio, per la letteratura empirica, a Frey, Osborne, The Future of Employment: How susceptible are jobs to computerisation?, Oxford Martin School, 2013, che ritengono a rischio addirittura il 43% delle professioni, incluse quelle dei lavoratori qualificati, con il robot o l’algoritmo che sostituisce il lavoro delle persone; a Ford, Il futuro senza lavoro, il Saggiatore, 2017, che segnala come i robot, grazie allo sviluppo delle capacità cognitive dell’intelligenza artificiale, imparano a imparare, con rilevanti ricadute sociali; a Craig, Il lavoro ombra, Baldini e Castoldi, 2017 che elenca molte
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Volendo individuare le caratteristiche della rivoluzione promessa dal ‘Jobs Act’ in tema di mutamento di mansioni conviene soffermarsi non tanto sulle previsioni, caute e prudenti, del legislatore delegante, quanto su quelle, più radicali, del legislatore delegato, entrate in vigore dal 25 giugno 20157. Il tutto con la consapevolezza dei profili di incostituzionalità della novella, già denunciati da molti commentatori e che ne suggeriscono una lettura sì costituzionalmente orientata, ma nella logica classica del bilanciamento con uno scambio equilibrato ed interno tra flessibilità pro-datore e sicurezze pro-lavoratore nell’ambito dello stesso rapporto di lavoro. Il cambiamento è reso evidente già dalla riformulazione della rubrica dell’art. 2103 c.c., di cui all’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, con il ripescaggio della versione originaria della stessa (da «Mansioni del lavoratore» a «Prestazione di lavoro») e la significativa fuoriuscita dall’ombrello di protezione «Della libertà e dignità del lavoratore» di cui al Tit. I dello statuto8. È ovvio che la scelta del legislatore di parole e di frame diversi lasciano il segno e condizionano l’interpretazione della norma. Inoltre le tessere del mosaico della disciplina legale del mutamento di mansioni risultano in larga parte innovative, dato che includono, per la prima volta, tre diverse ipotesi di mobilità verticale verso il basso (commi 2, 4, 6)9. Anche le tessere tradizionali nella forma (mobilità orizzontale, verticale verso l’alto e inderogabilità: commi 1, 7 e 9), risultano nei contenuti ad alto tasso di novità. Questa mutata disciplina legale alimenta il cruciale dubbio se l’art. 2103 c.c. tuteli ancora la dignità professionale del lavoratore sia nella dimensione sociale/collettiva, sia nella dimensione personale/individuale. Se si coltiva il profilo interpretativo sopra enunciato, la difesa di questa peculiare dimensione della dignità umana permane anche nella novella come indelebile limite alla libertà di organizzazione imprenditoriale ex art. 41, comma 1, Cost., rafforzato da altre norme e valori rinvenibili a livello costituzionale (artt. 1, 2, 4, 32, 35, 41 comma 2 Cost.)
attività quotidiane (fare la benzina o i biglietti da soli, eseguire le nostre movimentazioni bancarie, ecc.) che portano alla cancellazione di specifiche figure professionali; a Armano, Murgia, Teli (a cura di), Platform Capitalism e confini del lavoro negli spazi digitali, Mimesis, 2017, sui nuovi confini del lavoro e le pratiche sociali che lo caratterizzano; Biffi, Camussone, Lavoreremo ancora? Tecnologie informatiche e occupazione, Egea, 2017. Per una visione meno pessimistica, che mette in luce come un certo tipo di innovazione tecnologica, specie di prodotto o addirittura di settore (si pensi all’intelligenza artificiale), crea nuova occupazione, v. Moretti, La nuova geografia del lavoro, Mondadori, 2014. Inoltre le ricerche sulle c.d. ‘professionalità tecniche 4.0’ mancanti segnalano una situazione molto critica del nostro Paese: oltre alla cit. indagine di Randstad, v. School of Management, ‘Osservatorio 4.0’, Politecnico di Milano in https://www.osservatori.net/it_it/ osservatori/executive-briefing/industria-4.0-la-grande-occasione-per-l-italia. Cfr. anche il progetto INAPP, Atlante del lavoro e delle qualificazioni, in http://nrpitalia.isfol.it/sito_standard/sito_demo/index.php; il progetto ESCO, la classificazione multilingue delle qualifiche, competenze, abilità e professioni in Europa, in https://ec.europa.eu/esco/portal/home. Su il ‘Lavoro del futuro’ segnalo il dossier del quotidiano Il sole-24 ore, con la prima puntata di De Biase del 20 agosto 2017, 7. 7 Per una recente ricognizione degli snodi interpretativi del vecchio e del nuovo art. 2103 c.c. sia permesso rinviare, anche per i numerosi riferimenti bibliografici in materia, a Brollo, Inquadramento e ius variandi, in G. Santoro-Passarelli, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Privato e pubblico, Omnia Trattati giuridici, Utet, 2017, VII ed., 768-872. Cfr. inoltre il corposo saggio di Zoli, Bolego, Le mansioni del lavoratore, in Curzio, Di Paola, Romei (a cura di), Pratica professionale - Lavoro, vol. II, Giuffrè, 2018. 8 Sulla disciplina statutaria si ricorda il saggio di Magrini, I poteri dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo statuto dei lavoratori, Atti del Congresso Nazionale di Diritto del Lavoro, 1971, 130 ss. 9 Cui vanno aggiunte, secondo l’orientamento pacifico, diverse previgenti discipline (per ambiti e casi particolari) in ragione del criterio esegetico di specialità.
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e a livello europeo, con il Trattato dell’Unione europea, inclusivo della Carta dei diritti fondamentali (con particolare riguardo all’art. 31 sulle «condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose») e la fitta rete di normative a protezione della salute e sicurezza del lavoratore contro i danni che possono derivare dal lavoro o dalle condizioni in cui esso si svolge. Tuttavia, in un mondo del lavoro sempre più complesso, connesso e pressato da globalizzazione, tecnologie e innovazioni digitali (a costi sempre più bassi e a performance sempre più elevate), la professionalità, essendo figlia del suo tempo, appare in trasformazione: diventa sempre più fluida e ibrida (con una maggiore importanza delle competenze digitali, generaliste e trasversali, nonché delle soft skills), mentre il bagaglio acquisito diviene meno importante a mano a mano che la produzione diviene ripetibile, tracciabile e prevedibile. Se così è, non sorprende che la riforma del 2015 si proponga di cambiare il modo di proteggere la dignità professionale della persona che lavora, privilegiandone la dimensione oggettiva o ‘catalogata’ a livello collettivo. In estrema sintesi, la novella delinea una traiettoria di evoluzione della tutela della professionalità del lavoratore che passa dalla classica dimensione ‘verticale’, di tipo lineare ascendente, di garanzia rigida delle competenze ed esperienze acquisite e possedute dal lavoratore, alla nuova dimensione ‘orizzontale’, di tipo ondulato, che coltiva la crescita potenziale delle mansioni pure in laterale (per aggiunta di competenze differenti), con un’apertura alle scelte organizzative (razionali) dell’impresa e alle esigenze di adattamento per salvaguardare l’occupazione. Per rappresentare graficamente la nuova architettura delle scale professionali, e le insicurezze personali ad essa collegate, mi paiono utili le opere dell’artista olandese Escher: in particolare penso alle scale in forme via via differenti, con le interconnessioni e i cambiamenti graduali, sovente con effetti paradossali, con percorsi impossibili, che veicolano anche inquietudini aprendo a pericolosi sensi di vuoto. Tale immagine rende evidente l’importanza di allestire una rete, resistente e priva di smagliature, di garanzie sostenibili, efficaci ed effettive tra gli snodi più delicati della c.d. mobilità interna del lavoratore. Tornando alla novella, non bisogna restare abbagliati dall’ingombrante immissione nell’art. 2103 c.c. di ben tre ipotesi, nuove di zecca, di demansionamento per effetto: a) del potere unilaterale ‘condizionato’ (comma 2), b) della previsione di contratti collettivi ‘qualificati’ (comma 4), c) del patto individuale ‘assistito’ (comma 6); le prime due circondate da una fitta trama di garanzie legali (commi 3 e 5); la terza sprovvista di tutele predeterminate dalla legge, ma all’insegna di una genuinità degli interessi del lavoratore espressi in sedi protette. Ipotesi, queste, tutte sbocciate in espressa deroga alla ribadita …‘inderogabilità’ della norma (comma 9), per complessivi 6 degli 8 commi dell’art. 2103 c.c. dedicati al mutamento di mansioni10. Dicevo non bisogna farsi stordire dalla quantità di parole nuove, dato che l’essenza della rivoluzione promessa nel Jobs Act è data dalla qualità dei termini calata nel sistema
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Nella mappatura dei commi va tenuto presente che il novellato art. 2103 c.c., seppur dedicato alla disciplina delle mansioni, riproduce anche la (vecchia) regolamentazione del trasferimento del lavoratore (introdotta dall’art. 13 st. lav.) nel nuovo comma 8.
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delle mansioni. In quest’ottica, l’innovazione più emblematica, rilevante e problematica è data dal cambiamento dei limiti ai poteri del datore e delle tutele per il lavoratore in caso di c.d. mobilità orizzontale.
3. La mobilità orizzontale tra flessibilità e sicurezza. Come anticipato, nell’attuale scenario di rapida e dirompente trasformazione del lavoro entra in crisi il concetto tradizionale e statico di ‘posto’ di lavoro, nel senso che cambiano le mansioni e le competenze richieste al lavoratore, a partire da quelle digitali e di sapere esperienziale; al punto che si prospetta una trasformazione del diritto al lavoro del lavoratore che passa dal diritto al proprio posto di lavoro verso il diritto a preservare l’occupabilità, coltivando le suggestioni dell’art. 4 Cost. La forza lavoro, però, risulta il meno mobile e flessibile dei fattori della produzione: specie quella italiana che, a causa del noto quadro demografico del Paese e di recenti modifiche legislative (in primis la riforma Fornero delle pensioni), registra un vero e proprio cambiamento antropologico della manodopera, con un progressivo e rapido invecchiamento degli occupati11. E, come insegnano gli studi di psicologia, con l’età aumentano pure le difficoltà, le paure e le resistenze al cambiamento, anche nel mondo del lavoro12. Inoltre allo squilibrio anagrafico si aggiunge quello digitale, data la presenza di competenze nel campo delle tecnologie informatiche molto più elevata nella fascia dei c.d. millenials, nati alla fine del secolo scorso, rispetto a quella degli ex-baby boomers, diventati oggi lavoratori maturi (cioè con più di 55 anni)13. In questo contesto socio-economico, la novella dello jus variandi orizzontale vorrebbe fornire strumenti che contemperino ragionevolmente le diverse esigenze all’insegna della c.d. ‘flessicurezza’, con una combinazione di norme di nuovo conio e di segno difforme, di
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Per dati aggiornati sul quadro demografico italiano si rinvia a Istat, Indicatori demografici, stime per l’anno 2016, pubblicato il 6 marzo 2017 (sul punto p. 3), reperibile all’indirizzo https://www.istat.it/it/archivio/197544; Eurostat, Popolation structure and ageing, pubblicato a giugno 2017 reperibile all’indirizzo http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Population_ structure_and_ageing. L’invecchiamento però deve fare i conti anche con la denatalità, per cui va segnalato che nel 2016 si è registrata la prima diminuzione consistente di popolazione nell’ultimo secolo di storia del Paese. Sull’invecchiamento dei lavoratori attivi, si segnala il dibattito sulla flessibilità pensionistica, focus tematico n. 6 del 4 agosto 2016, realizzato dall’ufficio parlamentare di bilancio, (sul punto p. 4), reperibile all’indirizzo http://en.upbilancio.it/wp-content/uploads/2016/09/Focus_6. pdf. Per Dalla Zuanna, Giraldo, Cosa frena l’ingresso dei giovani nel lavoro, in http://www.lavoce.info/archives/46142/lavoroitalia-fra-crisi-modernizzazione/, con squilibri generazionali così imponenti è facile supporre che la permanenza sul lavoro degli adulti maturi abbia fatto da “tappo” all’ingaggio di molti giovani e adulti disoccupati. 12 In generale e per tutti si rinvia a Bosetto, Adattamento e cambiamento nei contesti lavorativi, Cedam, 2012. Per un approccio interdisciplinare al tema della professionalità, con attenzione ai profili psicologici, sociologici, pedagogici e organizzativi (oltre che giuridici), si segnala il primo fascicolo di una nuova rivista Professionalità studi, 2017, n. 1, dedicata a ‘Le competenze abilitanti per Industria 4.0’. 13 Sul divario generazionale e digitale italiano v. il ‘Rapporto 2017’ della Fondazione Bruno Visentini su “Il divario generazionale tra conflitti e solidarietà. Vincoli, norme opportunità: generazioni al confronto”, in http://www.fondazionebrunovisentini. eu/pubblicazioni.
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flessibilità gestionale per il datore e di sicurezza per la persona che lavora, con un differente bilanciamento, per via interna, nell’ambito dello stesso rapporto di lavoro subordinato. Per coltivare la linea della flessibilità gestionale, l’inciso finale del comma 1 del novellato art. 2103 c.c. cambia il perno di individuazione dell’ambito delle prestazioni esigibili dal datore liberamente (senza necessità di giustificazione e senza vincoli temporali): il nuovo limite generale al potere eccezionale di modifica delle mansioni «ultime effettivamente svolte» è dato non più dalle mansioni «equivalenti», ma da quelle «riconducibili allo stesso livello e categoria legale», cioè deducibili dall’architettura dell’inquadramento professionale. Nelle intenzioni del legislatore, la formula coniata dal Jobs Act vorrebbe, da un lato, fronteggiare la strutturale difficoltà del giudice ad esercitare un efficace controllo ex-post sugli atti di mobilità professionale, dall’altro, immettere ex-ante maggiore certezza e flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro, allargando l’alveo delle mansioni esigibili per mezzo dello ius variandi, e quindi estendendo l’area del debito della prestazione del lavoratore. Per individuarne i confini concreti, la legge del 2015 rinvia ad uno strumento ritenuto più fluido e affidabile, in quanto prossimo alla concreta e tipica realtà da regolare e idoneo a garantire un equo bilanciamento tra esigenze di flessibilità imprenditoriali e tutele del lavoratore: la contrattazione collettiva. Strumento, questo, già noto nel settore privato, specie a seguito della sentenza del giudice Amoroso, Cass. n. 25033 del 200614, sulla legittimità delle clausole collettive di c.d. ‘fungibilità’ tra mansioni che esprimono e richiedono l’utilizzo di professionalità di grado diverso. Ancor prima, e con maggiore forza del citato filone giurisprudenziale, sull’autonomia collettiva aveva puntato il legislatore del settore pubblico – a far data dalla c.d. ‘seconda privatizzazione’ del pubblico impiego del 1998, fino all’ultima versione dell’art. 52, comma 1, del testo unico (d.lgs. n. 165/2001) – il quale, pur mantenendo il filtro dell’equivalenza delle mansioni, lo ha reso più flessibile (nei termini di una nozione soltanto ‘formale’) ancorandolo alla contrattazione collettiva. Ciò vale anche se, a seguito del decreto Brunetta (d.lgs. n. 150/2009), il rinvio non risulta più espresso, ma solo implicito. L’attuale riforma del lavoro privato promette maggiore flessibilità, certezza e semplicità nella gestione del rapporto di lavoro in modo sottinteso dato che, con una tecnica neutra, devolve la definizione del parametro di legittimità dello ius variandi orizzontale all’autonomia collettiva. Anche qui lo fa in via mediata, con il citato rinvio all’inquadramento dei lavoratori e implicita, sì da alimentare alcuni dubbi: da quello sullo spazio per il regolamento unilaterale aziendale a quello dell’applicabilità della selezione degli agenti sindacali, ex art. 51, d.lgs. n. 81/2015. Il Jobs Act tutela, dunque, una professionalità ‘classificata’ o ‘convenzionale’ che tiene conto, per il lato datoriale, del nuovo modo di produrre e di organizzare il lavoro, per il
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Cass., sez. un., 24 novembre 2006, n. 25033, in RGL, 2007, II, 413, con nota adesiva di Vendramin, Mobilità orizzontale, clausola di fungibilità e valorizzazione della professionalità potenziale: le Sezioni Unite aprono alla contrattazione collettiva, pronunciatasi sull’intercambiabilità fra le mansioni di sportello e di recapito contenute nella medesima area operativa del CCNL per il personale non dirigente di Poste italiane S.p.a. dell’11.1.2001 e successivi rinnovi (seppur con l’invenzione giurisprudenziale di nuovi vincoli di scopo); conforme, la giurisprudenza successiva.
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lato del lavoratore, non solo del diritto concreto del singolo ma anche dell’interesse collettivo, ponendo nuove sfide ai sindacati e alla contrattazione collettiva. Il varo del nuovo criterio dell’inquadramento (e, quindi, nella maggior parte dei casi del rinvio alla contrattazione collettiva) vigente a fine giugno 2015, avviene però – a differenza della citata novella del pubblico impiego – senza la previsione di un idoneo periodo di transizione, cioè senza tener conto della possibile inadeguatezza della scala professionale disegnata dalla contrattazione collettiva attuale. Questa, sino al Jobs Act, aveva la diversa funzione di mera scala retributiva, cioè di individuazione del debito del datore, restando neutrale in merito alla specificazione del credito del lavoratore. Applicare le nuove regole, stante la vigenza del vecchio sistema di inquadramento, determina la probabile sovrapposizione tra livelli economici e profili professionali, con il possibile rischio per il lavoratore di un sacrificio del concreto patrimonio professionale, inteso anche nel suo divenire di potenziale sviluppo del bagaglio di conoscenze acquisite. Nei casi (invero non rari)15 di contratti collettivi stipulati ante Jobs Act, con un rimando formale alla norma sulla mobilità orizzontale, con pochi livelli di inquadramento e grande eterogeneità delle mansioni, la nuova disciplina potrebbe ampliare in modo eccessivo l’ambito di libero esercizio dello ius variandi, con un effetto di svuotamento dall’interno della tutela alla professionalità del lavoratore apprestata dal nuovo art. 2103 c.c. Anche per questo risalta, come bagliore di futuro, la nuova forma di tutela promessa, in via generalizzata, dall’art. 2103, comma 3, c.c., di un «obbligo» – rectius, secondo l’indirizzo maggiormente condiviso, di un onere – del datore di lavoro di formazione che deve accompagnare ogni «mutamento di mansioni», naturalmente «ove necessario» anche tenendo conto del ciclo di vita lavorativa. Questo strumento di sicurezza ‘interna’ al rapporto di lavoro va coniugato con una rete di protezione ‘esterna’ sul mercato del lavoro, data da efficaci ed efficienti servizi per l’impiego e di politiche attive (di cui al d.lgs. n. 150/2015). Il Jobs Act prevede, dunque, un inedito contrappeso all’aumento dei poteri datoriali sul versante della sicurezza del lavoratore (interna ed esterna) volto a rendere ‘sostenibile’ o ri-equilibrata la flessibilità immessa nel rapporto di lavoro. Nell’ottica interna al rapporto di lavoro, la garanzia della formazione (ma più spesso dell’addestramento e/o della riqualificazione) può costituire un limite implicito allo ius variandi nelle ipotesi di una mobilità ‘a tutto campo’. L’adibizione a mansioni dello stesso livello e categoria legale che, a causa della loro disomogenità o diversità professionale, richiedano periodi o contenuti di formazione irragionevoli o eccessivi potrebbe risultare, non solo difficile e costosa dal punto di vista pratico, ma illegittima. Di fronte al pericolo di un’obsolescenza di mestieri, competenze e conoscenze, il legislatore riconosce alla formazione diretta a riqualificare i lavoratori una sorta di ‘assicurazione sul futuro’, sulla continuità dell’occupazione con un determinato datore; insomma
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Fa eccezione l’innovazione, di conio sindacale, per valorizzare la professionalità declinata ‘al futuro’ prevista nel contratto collettivo specifico di lavoro FIAT/FCA del 7 luglio 2015 (art. 6-bis del titolo III), che delinea anche la nuova centralità della contrattazione aziendale: sul punto sia permesso rinviare a Brollo, La mobilità professionale dei lavoratori dopo il Jobs Act: spunti dal caso FIAT/FCA, in RIDL, 2016, I, 307 ss. Sull’inquadramento professionale previsto nel contratto nazionale dei metalmeccanici, fermo al primo post-statuto, v. oltre.
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un’azione di politica attiva per il lavoro praticabile durante l’esperienza professionale e lavorativa. Di più, la previsione di una dose di formazione potrebbe fare rima con una cooperazione attiva, se non addirittura una partecipazione, del lavoratore, senza richiedere il suo consenso, considerandolo implicitamente un valore aggiunto della prestazione, quale garanzia di sicurezza dinamica del rapporto di lavoro16. In altri termini, la formazione, sviluppando una forma di ‘resilienza’ (cioè di adattamento e di anticipazione) alle trasformazioni del lavoro, potrebbe costituire un’efficace e consapevole garanzia per la stabilità dell’occupazione dei lavoratori. Da qui lo slogan che la formazione costituisce una nuova tutela contro i licenziamenti, nonché il possibile paradosso per cui la stessa riforma che aumenta la supremazia giuridica del datore nel rapporto di lavoro alimenta le possibilità di una cooperazione non gerarchica del lavoratore. Solo che il comma 3 dell’art. 2103 c.c. è formulato in modo altamente ambiguo, se non enigmatico (quasi una sorta di “vorrei, ma non posso”), da risultare di difficile lettura e quindi di complicata applicazione. Inoltre tale azione andrebbe accompagnata con l’opportuno supporto di fondi interprofessionali adeguati e agili, da considerarsi quali investimenti in infrastrutture intangibili per il futuro del lavoro che cambia. Sicché, il varo di questa preziosa e innovativa tecnica di tutela della dignità della persona che lavora necessita di un adeguato supporto interpretativo e integrativo, anche da parte della stessa contrattazione collettiva delegata a individuare i nuovi confini della mobilità orizzontale. Non a caso, il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici che è il più statico e antico in tema di inquadramento professionale, nell’ultimo rinnovo (del 26 novembre 2016), ha previsto un vero e proprio diritto soggettivo del lavoratore a ricevere percorsi di formazione continua (24 ore pro-capite nell’arco di un triennio), «a partire da una campagna diffusa di recupero del gap sulle competenze digitali» (art. 7, sez. 4, tit. VI). La disciplina contrattuale di una formazione continua per aggiornare, perfezionare o sviluppare conoscenze e competenze professionali, anche trasversali, impiegabili nel contesto lavorativo dell’azienda, è considerata, dai firmatari, una delle più significative dell’accordo. Tuttavia, l’enfasi e la solerzia posta sulla formazione pare una sorta di ‘senso di colpa’ delle parti sociali per non aver avuto il coraggio – dinanzi alle trasformazioni «della prestazione lavorativa e delle professionalità», nonché del cambio di normativa (significativamente non menzionato nel testo negoziale) – di rivedere l’attuale sistema di inquadramento professionale dei metalmeccanici che risale al lontano 1973, rinviandolo alla solita fase di approfondimento della Commissione paritetica (peraltro convocata per la prima volta a ridosso della data di scadenza dei lavori).
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L’indagine della cit. multinazionale delle risorse umane conferma che la previsione di percorsi strutturati di formazione continua aumenta l’attrattività dei migliori talenti per le imprese: https://www.randstad.it/knowledge360/archives/eccoperche-investire-nella-formazione-dei-dipendenti-e-un-fattore-chiave-per-la-crescita-aziendale_727/. Il Governo Gentiloni sta elaborando un ‘Piano Lavoro 4.0’ per stimolare e incentivare, probabilmente con lo strumento del credito di imposta, la formazione continua attraverso la contrattazione collettiva di prossimità (anticipazioni in http://www.ilsole24ore.com/ art/finanza-e-mercati/2017-07-29/in-arrivo-bonus-lavoro-40-215654.shtml?uuid=AE8zk35B).
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4. I protagonisti: dal giudice all’autonomia collettiva? Senza addentrarci nelle complicate e variegate questioni del tema, per riprendere le fila del ragionamento iniziale, si segnala che il cuore della riforma del 2015 risiede nella scommessa di un vero e proprio cambio di protagonista, affidando il ruolo primario per la mobilità orizzontale all’autonomia collettiva a svantaggio di quello del giudice17. In passato, il giudice è risultato senza dubbio l’artefice principale dell’effettività delle tutele dei lavoratori, anche al prezzo di una creatività spesso caratterizzata da forzature, invero nella maggioranza dei casi praticata perforando il muro dell’inderogabilità, ex comma 2 del previgente art. 2103 c.c., con un’interpretazione teleologicamente orientata per lo più ad evitare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nonostante fosse più agevole interpretare in modo flessibile il vincolo di equivalenza di cui al comma 1. Il sofferto itinerario giurisprudenziale è cresciuto all’ombra dell’idea che l’interpretazione elastica del comma iniziale coltivava la scelta di una gestione ‘ordinaria’ della flessibilità, mentre la deroga al comma finale si presentava come operazione ‘straordinaria’, eccezionale che confermava la regola, di una tutela rigida della professionalità acquisita. È proprio questa la ‘rivoluzione’ che promette il Jobs Act: una esigibilità in via ordinaria di mansioni (con professionalità ragionevolmente) differenti per venire incontro alle esigenze e alle scelte dell’impresa in un mondo in costante trasformazione e per salvaguardare, al contempo, l’interesse dei lavoratori alla conservazione dell’occupazione. Nell’attuale trama normativa – che sostituisce il vincolo espresso da una nozione legale, nella veste di norma generale o elastica a precetto generico, con una nozione negoziale più prevedibile, certa e semplice – al controllo giudiziale risulta affidato il classico procedimento di sussunzione fra la fattispecie concreta (la nuova mansione) e la fattispecie astratta, cioè la classificazione formale della mansione, con i correlati nodi del tema dell’interpretazione del contratto collettivo18. Il legislatore, come segnalato, persegue l’intento di ridimensionare lo spazio per il sindacato giudiziario. Ma, a ben vedere, l’ambito effettivo della manovra dipende dal contenuto materiale della regola sostanziale introdotta ex novo; pertanto va vagliato alla luce dei prodotti dell’autonomia collettiva vigente in materia di inquadramento professionale. Due anni dopo l’entrata in vigore del Jobs Act, l’attuale contrattazione collettiva, specie quella di livello nazionale, appare per lo più in ritardo, timida se non indifferente alle innovazioni, in gran parte limitandosi ad una riproduzione formale del nuovo testo dell’art. 2103 c.c., senza adeguare l’inquadramento a un sistema di classificazione della
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Si rammenta che tale cambio di protagonista, anche in tema di mansioni, era stato anticipato (invero senza significative ricadute pratiche) da due diverse normative all’inizio del decennio, per un verso, con la riduzione dei poteri di controllo giudiziale sulle ‘clausole generali’ in materia di lavoro, ex art. 30, l. n. 183/2010, per altro verso, con la valorizzazione spinta della contrattazione collettiva ‘di prossimità’, ex art. 8, d.l. n. 138/2011, conv. in l. n. 148/2011. 18 Su questo tema resta prezioso il numero inziale dei ‘Dialoghi fra dottrina e giurisprudenza’, n. 1 del 2004, nel quale, con la solita generosità, ha collaborato anche Magrini, Recenti novità giurisprudenziali sull’interpretazione dei contratti collettivi, ivi, 117 ss., anche qui cogliendo gli elementi di innovazione negli orientamenti giurisprudenziali, ad onta della pretesa linea di continuità.
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Marina Brollo
professionalità declinata per i diversi settori produttivi e aree aziendali19; ne deriva uno scollegamento fra legge e contrattazione collettiva, con eccessi che derivano non tanto dalla previsione legale, quanto da quella delle parti sociali. Di fatto, la riforma incompleta sta creando le premesse per un ‘livellamento’ della competenze, con uno sfaldamento dei mestieri sociali. La realtà, dunque, ci rimanda l’immagine di un catalogo delle professionalità incompiuto e quindi di una promessa legislativa tutt’ora non mantenuta.
5. Segue. Il ritorno del giudice ordinario del lavoro privato e
pubblico.
La stessa variopinta realtà fattuale, però, domanda un’applicazione quotidiana dello ius variandi senza vuoti, anche se la contrattazione collettiva risulta latitante, imprecisa o vaga. Un’applicazione, questa, che esalta, di nuovo, la dimensione integrativo-creatrice della giurisprudenza e il mestiere del giudice; ma il cui compito interpretativo diventa meno agevole dato che dovrà fondare le proprie decisioni su una base ed entro un nuovo quadro legale, per incerti che siano, senza provocarne una rottura20. Volendo anticipare il futuro della mobilità orizzontale, se è probabile che, perdurando la latitanza della contrattazione collettiva, il giudice resti guardiano delle regole e dei valori, è prevedibile – dato che le sentenze sono il frutto anche del frame e del vissuto di uomini e di donne – l’attrazione e la vischiosità della via giurisprudenziale della ‘nostalgia’21, cioè di un utilizzo di schemi già elaborati e conosciuti. Com’è ovvio, le caratteristiche di tale itinerario potrebbero essere quelle di un mero tentativo di congelare, minimizzare o disinnescare le novità e resuscitare il criterio familiare dell’equivalenza professionale del lavoro privato declinata in senso ‘sostanziale’, con una tecnica interpretativa contraria al dictum normativo che coltivi la ‘regressione’ in termini di flessibilità gestionale (e di certezza del diritto). Ma non è, questa, l’unica via percorribile. La stessa abitudine e rassicurante preferenza per il ‘noto’ e familiare potrebbe indurre il giudice a coltivare l’elemento di un’accentuata prossimità privato-pubblico intravista nel contributo di Sergio Magrini da cui abbiamo preso le mosse. La ricerca nostalgica di strade già battute dal giudice del lavoro, infatti, può incrociare quella, ara-
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Mi piace rinviare alla conclusione della ricognizione dei CCNL, a cavallo dei rinnovi post Jobs Act, di F. Carinci, Il domani delle mansioni, relazione (in corso di pubblicazione) al convegno ‘Interessi individuali e interessi collettivi nel pensiero di Giuseppe Suppiej. Ricordo di un Maestro’, Padova 21 ottobre 2016, di un mancato adeguamento effettivo della contrattazione collettiva che renda gestibile la mobilità orizzontale nell’ambito di ampie categorie o livelli. 20 V. il recente volume di Bronzini, Cosio (a cura di), Interpretazione conforme, bilanciamento dei diritti e clausole generali, Giuffré, 2017; e più in generale lo stimolante fascicolo monografico dedicato a ‘Il giudice e la legge’, in Quest. Giust., 2017, n. 4, in http://www.questionegiustizia.it/rivista/2016-4.php. Per lo studio che svela come le emozioni possano influenzare anche le decisioni del giudice si rinvia a Forza, Menegon, Rumiati, Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione, Feltrinelli, 2017. 21 Si condivide il titolo provocatorio, seppur riferito alla dottrina, del saggio di Pisani, I nostalgici dell’equivalenza delle mansioni, in WP D’Antona, It, n. 310/2016.
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ta da quasi un ventennio, dell’interpretazione della regola per la mobilità orizzontale nel lavoro pubblico privatizzato di cui al comma 1, art. 52, d. lgs. n. 165/200122, che dilata la nozione di equivalenza delle mansioni a misura dei disposti della contrattazione collettiva.
6. Il ‘canone inverso’ della privatizzazione del pubblico impiego.
Non a caso, la norma del lavoro pubblico sulla mobilità orizzontale ha ispirato la novella del lavoro privato, come riconosciuto dalla stessa Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo (divenuto poi d.lgs. n. 81/2105), con regole nella sostanza quasi sovrapponibili: con una comune delega implicita alla fonte negoziale; con problemi simili nell’interpretare i prodotti negoziali; e soprattutto con la correlata estensione del ruolo dell’interprete giudiziale affidato, in entrambi i casi, al medesimo giudice ordinario (art. 63, d.lgs. n. 165/2001). Il giudice del lavoro, dunque, è già abituato a confrontarsi concretamente con il delicato nodo problematico dell’ampiezza del sindacato giudiziale di fronte ad un’esigibilità delle mansioni per effetto di ius variandi estesa dalla fonte collettiva a tutta la medesima area di inquadramento. Dinanzi alla tendenza della contrattazione collettiva dei principali comparti del pubblico impiego all’accorpamento dei profili in un numero ridotto di aree professionali, a fasce larghe, al frequente ricorso a formule ambigue (segnale delle difficoltà di intesa sul punto)23 affiora (anche qui!) il rischio di un eccessivo ampliamento della posizione debitoria del lavoratore e di un folto contenzioso sul punto24. Scontando le significative differenze dei contratti collettivi del pubblico impiego e delle classificazioni professionali adottate nei comparti, preme segnalare che un filone giurisprudenziale25 individua residui margini di apprezzamento giudiziale ex post in ordi-
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Per una recente ricognizione degli snodi interpretativi dell’art. 52, d.lgs. n. 165/2001, rinvio, anche per i riferimenti bibliografici, a Pisani, Qualifiche e mansioni, in G. Santoro-Passarelli, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, cit., 2847-2883. 23 Emblematica la formula vigente nel comparto Regioni e Autonomie locali, da quasi vent’anni (dalla tornata 1998-2001 e confermata in quella successiva 2006-2009, tutt’ora vigente), che prevede al comma 3 dell’art. 3 che «tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili». L’espressione in quanto può assumere due significati contrapposti: le mansioni sono esigibili perché equivalenti (per via di valutazione collettiva); le mansioni sono esigibili purché equivalenti (per via di valutazione giudiziale), cioè sono esigibili non tutte le mansioni appartenenti alla medesima qualifica ma solo ed esclusivamente quelle considerate equivalenti. Per questa seconda interpretazione v. Cass., 21 maggio 2009, n. 11835, in MGL, 2010, 22 ss. 24 Tale criticità potrebbe accentuarsi a seguito del rinnovo dei contratti collettivi nazionali del pubblico impiego per il triennio 2016-2018. Il percorso di rinnovo, appena iniziato (dopo otto anni di sospensione), prende le mosse da un ‘Atto di indirizzo’ dell’Areran che prevede, con specifico riguardo al nuovo comparto delle funzioni centrali, un’armonizzazione e convergenza tra i diversi modelli di classificazione del personale verso un modello tendenzialmente unico riferito a tutti i dipendenti del nuovo macro-comparto (vedilo in http://www.sanita24.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ QUOTIDIANO_SANITA/Online/_Oggetti_Correlati/Documenti/2017/06/07/Bozza_Atto_indirizzo.pdf?uuid=AEk7MaZB). 25 Cass., 9 maggio 2006, n. 10628; Cass., 26 settembre 2007, n. 20170; Trib. Vicenza, 21 agosto 2001, in LG, 2003, 465; ma
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ne alla valutazione specifica, in concreto, delle «modificazioni dei contenuti professionali delle attribuzioni della qualifica» e del legittimo esercizio dello ius variandi condotta sulla base di valori professionali. Si segnala quest’orientamento nonostante a tutt’oggi risulti minoritario, dato che quello maggioritario – che ritiene la delega alle parti sociali totale ed esclusiva, senza margini di valutazione del giudice – è maturato alla luce della versione dell’art. 52 del testo unico precedente alla riforma Brunetta del 2009 che ha ridimensionato il ruolo dell’autonomia collettiva. Ad oggi non risultano pubblicate sentenze della Corte di Cassazione sul nuovo testo del lavoro pubblico, ma ci si potrebbe aspettare una maggiore sintonia con il filone segnalato. Anche perché la dottrina, nel commentare l’ultima disciplina del lavoro pubblico26, rilancia il ruolo del giudice, fornendo preziosi indizi per la tesi della necessità di una lettura orientata rispetto ai valori costituzionali della tutela della dignità umana volta a consentire la salvaguardia della professionalità effettiva dei lavoratori pubblici e privati, con un ulteriore e significativo avvicinamento delle tutele nei diversi settori. In conclusione, il giudice ordinario, alla penombra degli attuali sistemi di inquadramento, echeggiando suggestioni affiorate nel lavoro pubblico, potrebbe coltivare, anche nel settore privato, operazioni di contenimento dell’eccessivo allargamento delle maglie da parte della contrattazione collettiva; con una circolazione dei modelli tra privato e pubblico ‘a doppio senso di marcia’, con il secondo che, invertendo il classico percorso, qui fa da apripista al primo. In tal modo si potrebbe coltivare una sorta di ‘canone inverso’ della privatizzazione del pubblico impiego. L’idea trova conforto anche nell’utilizzo della stessa identica rubrica, «Disciplina delle mansioni», dapprima per la norma specifica del lavoro privatizzato alle dipendenze delle Pubbliche amministrazioni (art. 52, d.lgs. n. 165/2001) e successivamente per la norma macro-contenitore del Jobs Act di riscrittura delle regole nel lavoro privato (art. 3, d.lgs. n. 81/2015, comprensivo di due commi, di cui solo il primo riscrive l’art. 2103 c.c.)27. Se così è, non era una svista quella di Magrini, bensì una visione di futuro: cogliere in una sentenza relativa al pubblico impiego i segni di una rivoluzione in cantiere anche per il lavoro privato. Dall’analisi del cuore della disciplina delle mansioni affiora, dunque una rivoluzione ‘mite’ – come il sorriso ironico di Sergio, nel ricordo che ci accompagna – che coltiva un progressivo avvicinamento delle discipline del lavoro pubblico e privato, e che contribuisce a far evolvere, sotto traccia, quella convergenza che sembrava tradita dalle riforme del Governo Renzi, sia alla luce del Jobs Act che della riforma Madia.
contra l’orientamento prevalente guidato da Cass., sez. un., 4 aprile 2008 n. 8740, in LPA, 2008, 351 ss., con nota di Murrone. Pisani, La rilegificazione dell’equivalenza delle mansioni nel lavoro pubblico contrattualizzato, in MGL, 2012, 828 ss.; Riccobono, Ancora sull’equivalenza delle mansioni nel lavoro pubblico e privato: interferenze reciproche e circolazione dei modelli regolativi nelle più recente evoluzione normativa, in ADL, 2014, I, 1346 ss.; Gargiulo, La disciplina delle mansioni nel pubblico impiego, in Zilio Grandi, Gramano (a cura di), La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act. Quadro legale e profili problematici, Giuffrè, 2016, 181 ss.; Valle, Note minime sull’equivalenza delle mansioni nel pubblico impiego, in Piccinini, Pileggi, Sordi (a cura di), La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, ed. LPO, 2016, 150 ss. 27 Come noto, il comma 2 dell’art. 3, d.lgs. n. 81/2015, prevede l’abrogazione dell’art. 6 della legge 13.5.1985, n. 190, relativa alla mobilità verticale dei quadri (e dei dirigenti), in parziale deroga alla disciplina del vecchio art. 2103 c.c. 26
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Uguali nelle diversità o estranei a noi stessi? Riflessioni sul divieto di discriminazione tra norme e prassi (2)* “È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” Albert Einstein
Sommario : 11. La tutela del principio di uguaglianza in ambito europeo. In particolare: il sistema del Consiglio d’Europa. – 11.1. Il Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS). Cenni. – 11.2. La Corte europea dei diritti dell’uomo. Linee di tendenza. – 12. L’azione di contrasto alle discriminazioni nell’ambito dell’Unione europea. – 12.1. L’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA). Cenni. – 12.2. Le direttive UE. Uno sguardo di insieme. – 12.3. La Corte di giustizia UE. Linee di tendenza. – 13. Margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati. – 14. Il principio di uguaglianza nella nostra Costituzione. – 15. Le discriminazioni in ambito lavorativo. – 16. Dal lavoro poco dignitoso alle nuove schiavitù. – 17. La discriminazione è sempre alla base dell’altrui sfruttamento o riduzione in schiavitù. – 18. Discriminazioni in ambito lavorativo e tutela della salute. – 19. Qualche ulteriore riflessione sulla giurisprudenza della Corte di cassazione. – 20. Conclusioni.
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La prima parte del contributo è stata pubblicata sul n. 5/2017.
Lucia Tria
Sinossi. Le discriminazioni sono un tema centrale della vita contemporanea, che ha importanti riflessi anche sul trattamento fiscale degli Stati e sui problemi di mancato aumento della crescita delle imprese e quindi dell’occupazione. Da più parti, infatti, si evidenzia il collegamento esistente tra trattamento fiscale e contributivo di alcuni Stati irragionevolmente diverso rispetto a quello degli altri Stati concorrenti – come si registra anche nel nostro Paese – evasione fiscale e contributiva, arretratezza del sistema economico, sfruttamento lavorativo e quindi discriminazioni. In sede giudiziaria per combattere il fenomeno l’interprete nazionale è chiamato ad applicare il metodo indicato dalla Corte costituzionale per offrire ai diritti fondamentali la tutela più efficace, tra diritto interno, normativa UE, C.e.d.u., Convenzioni ONU e le Convenzioni internazionali ratificate. Abstract. Discrimination is a central issue today, with significant effects also on tax treatment of the States and on low growth and unduly low employment. In fact, from many quarters is noted the connection between tax treatment of one State unreasonably different than tax treatment of other States competitors – like is in Italy – and tax evasion, backwardness of the economic system, labor exploitation and consequently discrimination. To combat discrimination in legal proceedings the national interpreter must apply the method indicated by the Constitutional Court to give to the Fundamental Rights the best protection, considering the national law, the EU legislation, the European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms, the UN Conventions and the other ratified International Conventions. Parole chiave: discriminazioni – principio di uguaglianza – Corte costituzionale – interrelazione normativa
11. La tutela del principio di uguaglianza in ambito europeo. In particolare: il sistema del Consiglio d’Europa.
In ambito europeo la tutela del principio di uguaglianza e quindi il divieto di ogni tipo di discriminazione – almeno nei reciproci impegni tra gli Stati e nella giurisprudenza delle Corti europee centrali – sono considerati fondamentali e va aggiunto che ci si preoccupa di garantirne l’efficacia non solo in sede giurisdizionale ma anche in sede politica, controllando la condotta degli Stati, grazie alla Commissione UE (e le procedure di infrazione) e ai vari Comitati esistenti nel sistema del Consiglio di Europa, a partire dal Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS). Ciò è dovuto alla diffusa consapevolezza che per sperare di avere risultati significativi in materia di discriminazioni, così come in materia di diritti fondamentali in genere, non basta la via giudiziaria che è fisiologicamente volta a colpire le «patologie» – che sono, peraltro, in continuo aumento, come dimostra il costante accrescersi del contenzioso in questo settore, dinanzi alle Corti di Strasburgo e Lussemburgo – in questo ambito così come in tutti gli altri ambiti del vivere civile si deve puntare a diffondere prassi degli Stati e comportamenti dei singoli «fisiologicamente» corretti e rispettosi del principio di eguaglianza e, per fare questo, è necessaria l’adozione di scelte di «lungo periodo» e strategiche,
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Uguali nelle diversità o estranei a noi stessi? Riflessioni sul divieto di discriminazione tra norme e prassi
che i Giudici – internazionali, comunitari o nazionali − non sono chiamati istituzionalmente a compiere. Peraltro, va subito sottolineato che, rispettivamente nella UE e nel sistema C.e.d.u., il principio di uguaglianza ha un significato e una portata non del tutto coincidenti tra loro e diversi anche da quelli propri della nostra Costituzione. Per quanto riguarda la Cedu, prima di illustrarne le principali linee di tendenza in materia di discriminazioni, è opportuno precisare che: a) la C.e.d.u., non contiene alcuna norma diretta a tutelare i diritti connessi alla «sicurezza sociale»1 per i quali sovente sono rilevate discriminazioni; b) per quel che riguarda i diritti dei lavoratori, la Convenzione prende in considerazione solo i diritti sindacali (art. 11) e, nell’art. 4, le condizioni lavorative estreme del «lavoro forzato o obbligatorio o coatto», ipotesi per le quali la Corte di Strasburgo, con consolidato indirizzo, afferma la sussistenza di uno specifico obbligo positivo in capo agli Stati membri di incriminare e perseguire effettivamente ogni atto diretto a mantenere una persona in uno stato di schiavitù, servitù o lavoro forzato o coatto2; c) l’attuale art. 14 della C.e.d.u. in sé ha, anche in base alla giurisprudenza della Corte, un ambito applicativo limitato, nel senso che vieta unicamente la discriminazione nel godimento di uno qualsiasi dei diritti garantiti dalla Convenzione, che sono quelli civili e politici, non quelli sociali ed economici3. Al precipuo fine di attribuire al principio di non discriminazione una portata generale – cioè non limitata ai diritti previsti dalla Convenzione – è stato fatto il Protocollo n. 12 alla Convenzione, aperto alla firma degli Stati membri firmatari del Trattato il 4 novembre 2000 ed entrato in vigore (in ambito internazionale) il 1° aprile 2005. L’Italia l’ha firmato, ma non ratificato. Il Protocollo prevede, infatti, un divieto generale della discriminazione, eliminando così la suindicata limitazione e garantisce che nessuno possa subire discriminazioni per nessuna ragione da parte di nessuna autorità pubblica. Esso rende, quindi, giustiziabili presso la Corte di Strasburgo anche i diritti sociali – proprio in conseguenza della previsione di un diritto di non discriminazione generale – e quindi collega in modo più stretto la Corte con il Comitato europeo dei diritti sociali, dando alla Corte la possibilità di fare diretta applicazione della Carta sociale europea. Per il momento, tuttavia, la maggior parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa – tra i quali l’Italia e la Germania – si sono limitati a firmare il Protocollo senza ratificarlo ed alcuni – tra i quali la Francia, il Regno Unito e la Danimarca – non lo hanno neppure firmato.
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Con questa espressione, in ambito UE e c.e.d.u., ci si riferisce alle indennità e prestazioni volte a tutelare tutte le fondamentali condizioni di bisogno degli individui, superando la distinzione tra previdenza sociale (finanziata dai contributi) e assistenza sociale ivi compresa quella sanitaria (finanziata dalla fiscalità generale), attualmente esistente in molti Stati UE, come l’Italia. 2 Vedi, per tutte: le sentenze C.N. c. Regno Unito del 13 novembre 2012 e Roda Bonfatti c. Italia del 21 novembre 2006. 3 Per eventuali, ulteriori approfondimenti in materia, mi permetto di rinviare a Tria, La Corte europea e i diritti socioeconomici, in Aa. Vv., La Cedu e il ruolo delle Corti, Gianniti (a cura di), Zanichelli, 2015.
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11.1. Il Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS). Cenni. Attualmente, quindi, nel sistema del Consiglio d’Europa la – diretta – violazione del principio di uguaglianza con riguardo ai diritti sociali ed economici resta di esclusiva competenza del Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS) che la esamina, in sede politica4, sulla base della Carta Sociale Europea (CSER)5, riveduta il 3 maggio 1996 al fine di aggiornare e adattare il contenuto materiale della originaria Carta6, per tener conto in particolare dei fondamentali mutamenti sociali verificatisi dal momento della sua originaria adozione, secondo le indicazioni della Conferenza ministeriale dei diritti dell’uomo, svoltasi a Roma il 5 novembre 1990, ove era stata sottolineata «la necessità, da un lato di preservare il carattere indivisibile di tutti i diritti dell’uomo, a prescindere se civili, politici, economici, sociali o culturali, e d’altro lato fornire un nuovo impulso alla Carta sociale europea». Con la versione emendata è stato ancor più esaltato il carattere della Carta come diretta a tutelare i diritti propri di tutti gli individui «nella loro vita quotidiana», diversamente dalla C.e.d.u. volta a tutelare principalmente situazioni di particolare gravità, quali sono normalmente quelle che si collegano a violazioni di diritti umani (in cui rientrano anche il lavoro forzato o coatto). Va, peraltro, osservato che i governi di un certo numero di Stati membri del Consiglio d’Europa – muovendo dal presupposto secondo cui assicurare i diritti economici e sociali è un problema nazionale e non regionale o internazionale7 – non hanno ancora ratificato la Carta sociale europea revisionata. Ciò si riscontra, ad esempio, per la Danimarca, la Germania, il Lussemburgo, la Polonia ed il Regno Unito. Inoltre, in sede giurisdizionale, alla Carta sociale è riconosciuta un’efficacia più limitata rispetto alla C.e.d.u.8 e, di fatto, resta la originaria impostazione secondo cui gli impegni presi dagli Stati che hanno ratificato la Carta sono soprattutto di tipo politico.
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Il Comitato è composto da esperti indipendenti che, per la loro attività, fanno riferimento ad un Comitato Intergovernativo, composto dai rappresentanti dei Governi degli Stati Parti. Il Comitato Intergovernativo, in caso di violazioni, invia delle Raccomandazioni al Comitato dei Ministri, che, come è noto, è l’organo esecutivo del Consiglio d’Europa. 5 L’Italia ha ratificato e reso esecutiva la CSER con legge 9 febbraio 1999, n. 30, formulando, al momento del deposito della ratifica, riserva per l’art. 25 della CSER, in base al quale: «Tutti i lavoratori hanno diritto alla tutela dei loro crediti in caso d’insolvenza del datore di lavoro». 6 È noto che la Corte di Strasburgo è stata istituita nel 1959. In particolare, il 21 gennaio 1959 furono eletti i componenti della Corte, il 23 febbraio 1959 si tenne la prima seduta che si protrasse per 5 giorni, mentre il 20 aprile 1959 il primo presidente della Corte, lord Arnold Duncan McNair, tenne il discorso inaugurale e la prima sentenza fu emessa il 14 novembre 1960 nel caso Lawless c/ Irlanda. Poco dopo tale istituzione, al fine di favorire maggiormente un comune progresso degli Stati membri del Consiglio d’Europa, si avvertì la necessità prendere in considerazione anche i diritti sociali ed economici, oltre a quelli civili e politici contemplati nella Convenzione. Fu così adottata, 18 ottobre 1961 a Torino, la Carta Sociale Europea, (CSE) entrata in vigore nel 1965 dopo aver raggiunto il numero di ratifiche necessario. L’Italia ha provveduto a ratificare e rende esecutiva la Carta con legge 3 luglio 1965, n. 929. 7 Tale scelta è stata evidenziata, fra l’altro, dall’allora Presidente della Cedu Dean Spielmann nel discorso tenuto in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 della Corte stessa. 8 Per la Corte costituzionale, vedi, per tutte: sentenze n. 163 del 1983 e n. 86 del 1994, nonché sentenza n. 46 del 2000, ove è stato sottolineato come la CSER, entrata in vigore il 1 settembre 1999, “contiene disposizioni volte a circondare di specifiche garanzie la posizione dei prestatori di lavoro contro i licenziamenti, prevedendo, in particolare (art. 24), l’impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo; il diritto dei lavoratori
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Tuttavia, nel corso del tempo, il lavoro di interpretazione e controllo del CEDS è diventato più incisivo. Ciò è stato determinato specialmente dal Protocollo addizionale alla Carta Sociale Europea, fatto a Strasburgo il 9 novembre 1995 – anch’esso non ratificato da tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa9 – che ha introdotto, come aggiuntivo, un sistema di reclami collettivi che consente ad organizzazioni internazionali dei lavoratori, sindacati internazionali, organizzazioni nazionali dei lavoratori rappresentative, sindacati nazionali rappresentativi e organizzazioni non governative di denunciare direttamente casi di violazioni al Comitato Europeo per i diritti sociali. Pertanto, oggi il controllo del CEDS viene affidato a tre tipi fondamentali di documenti che compongono la sua «giurisprudenza»: le conclusioni dei rapporti periodici sugli Stati nelle quali si tiene conto della legislazione interna e della prassi applicativa della Carta in ciascuno di essi, le dichiarazioni interpretative contenute nelle introduzioni generali che aprono ogni ciclo di rapporti, le decisioni sulla ricevibilità e sul merito dei reclami collettivi10. Per avere un’idea del crescente rilievo del ruolo svolto dal CEDS in sede di reclami collettivi basta ricordare, per tutte:
licenziati senza valido motivo «ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”; il diritto dei lavoratori stessi a ricorrere davanti ad un organo imparziale». Da ultimo, nella sentenza n. 178 del 2015 i Giudici delle leggi hanno affermato che il rapporto di mutua implicazione tra libertà sindacale e contrattazione collettiva che traspare dall’evoluzione della giurisprudenza della Cedu sulla libertà sindacale – ove si interpreta estensivamente l’art. 11 della C.e.d.u. (Grande Camera, sentenza 12 novembre 2008, Demir e Baykara contro Turchia, riguardante il diritto di stipulare contratti collettivi nel lavoro pubblico) – riceve conferma nell’art. 6 della CSER, con annesso che affianca all’esercizio collettivo del diritto di contrattazione la procedura dei reclami collettivi, disciplinata dal Protocollo addizionale alla Carta del 1995. Per la Corte di cassazione: Cass., 4 febbraio 2016, n. 2210, ove si afferma che in materia di licenziamento del lavoratore disabile, ai fini della determinazione della quota di riserva di cui all’art. 3 della l. n. 68/1999, dalla cui violazione consegue l’annullabilità del recesso ex art. 10, comma 4, della stessa legge, vanno computati anche i lavoratori apprendisti perché non espressamente esclusi dal successivo art. 4, trattandosi di norma speciale, volta ad assicurare una tutela rafforzata ai disabili e destinata a prevalere su quella generale di cui all’art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 276/2003, che comunque fa salve “specifiche previsioni di legge”, la cui interpretazione va operata in conformità ai principi dettati dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del disabile del 13 dicembre 2006, ratificata dall’Italia con l. n. 18 del 2009 e dall’Unione Europea con decisione n. 2010/48/CE, nonché all’art. 26 della cd. Carta di Nizza e all’art. 15 della Carta sociale europea riveduta. Si vedano anche: Cass., 25 gennaio 2011, n. 1717 e Cass., 28 marzo 2014, n. 7377, nelle quali si precisa che i vincoli derivanti dall’art. 4, comma 1, della CSER in materia di determinazione dello straordinario si riferiscono solo allo straordinario legale e non quello contrattuale, nonché Cass., 14 febbraio 2012, la n. 2133, ove si afferma che: «le disposizioni della Carta non hanno efficacia diretta nell’ordinamento interno degli Stati contraenti, ma si concretano in impegni giuridici di carattere internazionale nei rapporti fra gli Stati medesimi, ai quali, perciò, è demandata l’attuazione dei principi e dei diritti in essa contemplati, con ampia discrezionalità quanto ai modi, ai tempi e ai mezzi». 9 L’Italia lo ha ratificato con legge 28 agosto 1997, n. 298. 10 Per la Carta vedi, per tutti: Guiglia, La rilevanza della carta sociale europea nell’ordinamento italiano: la prospettiva giurisprudenziale in www.federalismi.it, 2013; Ingravalle, La Carta Sociale Europea 18 ottobre 1961 – 18 ottobre 2011, in www.coe.int; A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, 2009; Tega, I diritti sociali nella dimensione multilivello tra tutele giuridiche e crisi economica, in www.gruppodipisa.it; Oliveri, La lunga marcia verso l’effettività. La Carta sociale europea tra enunciazione dei diritti, meccanismi di controllo e applicazione nelle Corti nazionali, in www.europeanrights.eu; Straziuso, La Carta sociale del Consiglio d’Europa e l’organo di controllo: il Comitato europeo dei diritti sociali. nuovi sviluppi e prospettive di tutela, in www.gruppodipisa.it. Sugli strumenti internazionali di tutela dei diritti sociali fondamentali, vedi: Di Turi, Globalizzazione dell’economia e diritti umani fondamentali in materia di lavoro: il ruolo dell’OIL e dell’OMC, Giuffrè, 2007, e ivi ampie citazioni di dottrina.
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a) la decisione del 7 dicembre 2005 emessa sul reclamo n. 27/2004 European Roma Rights Center c. Italia nella quale è stato affermato l’obbligo del nostro Stato di favorire l’accesso dei nomadi alle abitazioni pubbliche, cui ha fatto espresso riferimento il Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6866, del 4 novembre 2009, affermando la legittimità della delibera del Comune di Venezia sub judice – riguardante il progetto volto ad assegnare ai Sinti un’area residenziale dotata di unità immobiliari stabili – in quanto corrispondente ai requisiti fissati dal Comitato europeo per i diritti sociali per favorire l’accesso delle popolazioni rom e sinti all’abitazione; b) la decisione pubblicata il 10 marzo 2014, su reclamo, relativa al caso International Planned Parenthood Federation European Network (IPPF EN) c. Italy (n. 87/2012) nella quale il Comitato ha rilevato una violazione, da parte dell’Italia, dell’art. 11 (diritto alla salute) della CSER per la mancata garanzia dell’accesso all’interruzione di gravidanza, derivante dall’alto numero di sanitari obiettori di coscienza, che, di fatto, rende inefficace la legge nella legge n. 194 del 1978. E sappiamo che si tratta di una questione molto delicata e dibattuta.
11.2. La Corte europea dei diritti dell’uomo. Linee di tendenza. Nella descritta situazione tuttora l’ambito applicativo dell’art. 14 è limitato al perimetro dei diritti riconosciuti dalla Convenzione. Ciò comporta che, per costante orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’art. 14 è considerato una norma che completa le altre clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli e che, quindi, non ha un’esistenza autonoma, in quanto vale unicamente per «il godimento dei diritti e delle libertà» che esse sanciscono (vedi, per tutte: Dhahbi c. Italia, 8 aprile 2014). Peraltro, tale articolo può certamente entrare in gioco anche in assenza di una inosservanza delle esigenze che poste dalle indicate clausole e, in tal senso, ha una portata autonoma, ma non trova applicazione se i fatti della causa non rientrano nelle previsioni di almeno una di tali clausole (si vedano, tra molte altre, Van Raalte c. Paesi Bassi, 21 febbraio 1997; Petrovic c. Austria, 27 aprile 1998; Zarb Adami c. Malta, 20 giugno 2006). Ma anche se la C.e.d.u. non contiene alcuna norma diretta a tutelare i diritti connessi alla «sicurezza sociale»11 – a parte l’art. 11 concernente i diritti sindacali e l’art. 4 sulle condizioni lavorative estreme del «lavoro forzato o obbligatorio o coatto»12 – tuttavia che, fin da epoca remota13, la Corte di Strasburgo si è mostrata aperta ad una lettura «social-
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Con questa espressione, in ambito UE e C.e.d.u., ci si riferisce alle indennità e prestazioni volte a tutelare tutte le fondamentali condizioni di bisogno degli individui, superando la distinzione tra previdenza sociale (finanziata dai contributi) e assistenza sociale ivi compresa quella sanitaria (finanziata dalla fiscalità generale), attualmente esistente in molti Stati UE, come l’Italia. 12 Per queste ipotesi la Corte, con consolidato indirizzo, afferma la sussistenza di uno specifico obbligo positivo in capo agli Stati membri di incriminare e perseguire effettivamente ogni atto diretto a mantenere una persona in uno stato di schiavitù, servitù o lavoro forzato o coatto. Vedi, per tutte: le sentenze C.N. c. Regno Unito del 13 novembre 2012 e Roda Bonfatti c. Italia del 21 novembre 2006 nonché le altre richiamate sopra nel Capitolo II, Sezione II, specificamente dedicata all’argomento). 13 Il precedente più noto è la sentenza Airey c. Irlanda, del 9 ottobre 1979.
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mente orientata» della Convenzione, precisando che, anche se la migliore realizzazione dei diritti sociali ed economici è condizionata dalla situazione – specialmente finanziaria – dei singoli Stati, comunque la Convenzione deve essere interpretata tenendo conto delle condizioni del momento in cui viene emessa la decisione. Pertanto, sebbene essa enunci essenzialmente diritti civili e politici, molti di questi hanno delle implicazioni di natura economica o sociale e «nessuna barriera impermeabile separa i diritti socio-economici dall’ambito coperto dalla Convenzione». Il cammino allora intrapreso, nel corso degli anni, ha avuto significativi sviluppi che hanno portato la Corte ad emanare una corposa giurisprudenza in materia di lavoro e sicurezza sociale – spesso di grande impatto, anche economico, sugli ordinamenti nazionali – ma non sulla base di norme della Convenzione direttamente volte a tutelare le principali prerogative del lavoro e della sicurezza sociale14, bensì attraverso norme della Convenzione utilizzate, in un certo senso, come “esche” per colpire, di volta in volta, per il tramite della rilevata violazione della disposizione convenzionale, le più disparate situazioni di mancato riconoscimento di diritti sociali ed economici. Un modo di operare che, a prima vista, può sembrare piuttosto inconsueto ma che trova la sua base nell’art. 32 della Convenzione stessa, secondo cui «la competenza della Corte si estende a tutte le questioni riguardanti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli» ed è alla stessa Corte che spetta di decidere sulle contestazioni sulla sua competenza. D’altra parte, per effetto della crisi, si è registrato un considerevole aumento delle persone in stato di “vulnerabilità”, anche in conseguenza delle minori risorse disponibili da parte degli Stati per la sicurezza socio-sanitaria oltre che a causa del tasso elevato di disoccupazione – che nell’UE è il più alto registratosi da oltre un decennio – che, in molti Paesi, si accompagna al blocco dei salari, così determinando situazioni sempre più frequenti di povertà ed esclusione sociale anche fra i cittadini europei. Situazioni tutte che si rivelano ancora più difficili se considerate in rapporto al fenomeno dell’immigrazione, anch’esso in crescita. Nella descritta situazione è comprensibile che si registri un costante incremento delle pronunce della Corte di Strasburgo in materia di tutela dei diritti sociali e/o economici, in linea con il carattere “dinamico” che ne caratterizzata la giurisprudenza. Molteplici sono le norme convenzionali usate come “esche” nell’ambito della suddetta interpretazione “socialmente orientata” della Convenzione. Quelle maggiormente utilizzate sono: gli artt. 8, 9, 10, 11, 14, nonché l’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 e l’art. 6 della Convenzione. Ma non mancano pronunce in cui sono richiamati gli artt. 2 e 315.
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Come, ad esempio, accade, in ambito UE, con la Carta dei diritti fondamentali UE ex Carta di Nizza e con le numerose direttive che si occupano di tali diritti. 15 Per una sintesi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo su tali articoli, in generale, vedi Bartole, De Sena, V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla C.e.d.u., Cedam, 2012. Vedi anche: Corte di cassazione, Massimario, Relazione n. 112 del 7 giugno 2012, Il diritto del lavoro e della previdenza sociale nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, studio ricco di interessanti riferimenti, effettuati nell’ambito di un esame di ampio respiro della
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In linea generale va detto che, dal punto di vista sostanziale, l’apertura verso i diritti sociali ed economici operata dalla Corte, si fonda principalmente sulla interpretazione estensiva della nozione di “bene” di cui all’art. 1 Protocollo n. 1, che spesso viene letto in combinato disposto con il principio di non discriminazione sancito nell’art. 14. Un altro importante pilastro di tale giurisprudenza è rappresentato dall’applicazione dell’art. 6 C.e.d.u., effettuata sul presupposto secondo cui, in base alla giurisprudenza della Corte, le prestazioni sociali sono qualificabili come diritti di natura civile la cui violazione permette l’accesso alle garanzie del giusto processo, di cui appunto all’art. 6. Va soggiunto che tale applicazione può dare luogo a pronunce le quali, attraverso la sanzione delle norme interpretative che incidono su diritti sociali quesiti (e già configurati in sede giudiziaria), hanno notevoli riflessi sul piano economico per il bilancio dello Stato destinatario (situazione frequente per l’Italia). Ovviamente, in alcuni casi, i suddetti parametri vengono tra loro combinati. Per quel che qui specificamente interessa, va sottolineato che dalla combinazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 con l’art. 14 la Cedu fa derivare la contrarietà alla Convenzione per ragioni discriminatorie del rifiuto di fornire le prestazioni di sicurezza sociale, se esistenti nell’ordinamento nazionale, per motivi legati al sesso, alla etnia, al colore, alla lingua, alla religione, alle opinioni politiche o di altro genere, all’origine nazionale o sociale, all’appartenenza a una minoranza nazionale, alla ricchezza, alla nascita o a ogni altra condizione. Va anche aggiunto che il vaglio della Corte relativo alla sussistenza o meno di una discriminazione – analogamente a quello operato, in ambito nazionale, con riguardo al principio di uguaglianza, consacrato nell’art. 3 della nostra Costituzione – presuppone che le situazioni poste a confronto siano analoghe o molto simili e per questo confrontabili. Così nella sentenza D.H. e Altri c. Repubblica Ceca del 13 novembre 2007 la Grande Camera, ribaltando il precedente verdetto della seconda sezione, ha affermato che la prassi, all’epoca in vigore nella Repubblica Ceca, di inviare molti alunni rom, sulla base di test di capacità intellettuale, in scuole speciali per alunni con deficit intellettuale, costituiva violazione del divieto di discriminazioni combinato con il diritto all’istruzione, sottolineando che il consenso espresso dai genitori non era sufficiente a evitare la discriminazione, perché essi, come appartenenti a una comunità svantaggiata, non erano in grado di valutare tutti gli aspetti della situazione e le conseguenze del loro consenso e perché comunque non è ammissibile la possibilità di rinunciare al diritto di non essere discriminati. In altri termini, perché una differenza di trattamento, anche in materia di prestazioni sociali, non sia discriminatoria è necessario che essa abbia una giustificazione oggettiva e ragionevole, il significa che essa deve perseguire uno scopo legittimo o comunque deve essere tale per cui vi sia un ragionevole rapporto di proporzionalità tra l’obiettivo che ci si è prefissi e le modalità impiegate per raggiungerlo.
giurisprudenza della Corte di Strasburgo nonché, fra gli altri: Nasimbene, La Convenzione, la condizione dello straniero e la giurisprudenza, in Nascimbene (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Profili ed effetti nell’ordinamento italiano, Giuffrè, 2002 e, di recente, Buffa, Questioni di diritto del lavoro nella giurisprudenza Cedu, Aracne, 2013.
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Molte altre sono le sentenze in cui la Corte ha affrontato questioni di discriminazione legate alla nazionalità o alla cittadinanza dei ricorrenti. In linea generale può dirsi che gli interventi della Corte di Strasburgo per il contrasto alle discriminazioni di vario tipo sono di grande rilievo e comprendono importanti pronunce, fra l’altro, in materia di violenza domestica, nei confronti delle donne e dei bambini, in senso ampio nonché in materia di violazioni dei diritti fondamentali dei migranti. La violenza domestica, come è evidente, è un tema assai delicato e di grande attualità che comprende anche la individuazione e la valutazione degli strumenti giuridici utilizzabili offerti dagli ordinamenti nazionali al fine di tutelare l’integrità fisica e psichica, oltre che la vita, di tutte coloro che denunciano delle violenze subite in ambito familiare. Tra le numerose pronunce va menzionata per prima l’importante sentenza del 9 giugno 2009, nel caso Opuz c. Turchia, nella quale la Corte ha precisato (§ 132) che: «la violenza domestica è un fenomeno che può assumere varie forme − aggressioni fisiche, violenze psicologiche, insulti – (…). Si tratta di un problema generale comune a tutti gli Stati membri, che non sempre emerge in quanto si verifica spesso nell’ambito di rapporti personali o in ambienti ristretti, e non riguarda esclusivamente le donne. Anche gli uomini possono essere oggetto di violenze domestiche, così come i bambini, che spesso ne sono direttamente o indirettamente vittime». In molti di questi casi la Corte ha concluso per la violazione dell’articolo 3 (proibizione di trattamenti inumani o degradanti) della C.e.d.u., derivante dall’insufficienza degli strumenti giuridici posti a disposizione delle vittime, dopo le denunce aventi ad oggetto atti di violenza domestica (vedi, per tutte: sentenza 29 marzo 2013, Valiulienė c. Lituania, relativa ad un caso in cui una donna vittima di violenza domestica rimproverava alle autorità lituane di avere omesso di indagare a seguito delle sue denunce di maltrattamenti e di non avere proceduto nei confronti del suo ex compagno). Proprio con riguardo al fenomeno considerato nelle suddette sentenze, una importante iniziativa nata nell’ambito del Consiglio di Europa è stata anche la Convenzione di Istanbul, aperta alla firma l’11 maggio del 2011, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ratificata e resa esecutiva in Italia dalla legge 27 giugno 2013, n. 77. Essa costituisce, al momento, il trattato internazionale di più ampia portata per affrontare questo orribile fenomeno e ha, fra i suoi obiettivi, anche quello di promuovere l’eliminazione delle discriminazioni per raggiungere una maggiore uguaglianza tra donne e uomini. Inoltre la Convenzione di Istanbul, al pari della Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale (ratificata e resa esecutiva con legge 1° ottobre 2012, n. 172) include le mutilazioni genitali femminili (dette: MGF) tra le violenze che costituiscono una grave violazione dei diritti umani delle donne e delle ragazze e il principale ostacolo al raggiungimento della parità tra i sessi. Cosa che, peraltro, trova riscontro in alcune sentenze precedenti l’entrata in vigore delle suindicate Convenzioni della nostra giurisprudenza di merito (App. Roma, 2 luglio 2012, n. 3854; App. Catania, 27 novembre 2012 e Trib. Cagliari, ordinanza emessa il 3 aprile 2013) nonché in due importanti sentenze di dicembre 2012 del Conseil d’Etat del dicembre scorso (Conseil d’Etat, Assemblée, 21 dicembre 2012, Mme Fofana n. 332491 e n. 332492). In tali sentenze, infatti, è stato affermato che le MGF costituiscono atti di persecuzione per mo-
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tivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale e che, se è accertato che tali atti siano specificamente riferibili alla persona della richiedente, costituiscono il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi e per gli effetti della normativa UE, recepita dall’ordinamento nazionale. Va anche sottolineato che, in occasione della firma, il vice-Segretario Generale del Consiglio d’Europa ha precisato che l’Italia ha molto contribuito alla elaborazione del testo della Convenzione di Istanbul ed ha aggiunto che tale Convenzione può essere ratificata anche da Paesi non europei come quelli della politica di vicinato (Algeria, Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Egitto, Georgia, Israele, Giordania, Libano, Libia, Moldova, Marocco, Autorità palestinese, Siria, Tunisia e Ucraina, mentre le relazioni con la Russia, sono disciplinate da un partenariato strategico distinto, benché si tratti di un Paese limitrofo all’Europa). Nella recente sentenza 2 marzo 2017, Talpis c. Italia la Corte di Strasburgo ha ricordato la propria giurisprudenza secondo cui l’inadempimento – anche involontario – di uno Stato al suo obbligo di proteggere le donne dalla violenza domestica costituisce una violazione del diritto di queste ultime ad una pari tutela da parte della legge, concludendo che la «passività generalizzata e discriminatoria della polizia» che creava «un clima favorevole a questa violenza» comportava una violazione dell’articolo 14 della Convenzione (Opuz, sopra citata). La Corte ha peraltro constatato che si era in presenza di un trattamento discriminatorio di questo tipo, in quanto gli atti delle autorità non dovevano essere configurati come un semplice inadempimento o ritardo a trattare i fatti di violenza in questione, ma come una tolleranza reiterata nei confronti di questi fatti e quindi riflettevano un atteggiamento discriminatorio verso l’interessata in quanto donna (vedi: Eremia c. Repubblica di Moldavia, 28 maggio 2013, § 89). La Corte ha quindi concluso per la sussistenza della violazione dell’articolo 14 della C.e.d.u. in combinato disposto con gli articoli 2 e 3 della Convenzione stessa, in quanto ha ritenuto dimostrato che le autorità italiane, sottovalutando con la loro inerzia, la gravità della violenza subita dalla ricorrente e dai figli l’hanno sostanzialmente causata. Pertanto la Corte ha affermato che la ricorrente è stata vittima, in quanto donna, di una discriminazione contraria all’articolo 14 della C.e.d.u. (T.M. e C.M. c. Repubblica di Moldavia, § 62, 28 gennaio 2014; Eremia, sopra citata, § 98, e Mudric c. Repubblica di Moldavia, § 63, 16 luglio 2013). La Corte ha aggiunto che le conclusioni presentate dal relatore speciale incaricato della questione della violenza contro le donne, delle sue cause e conseguenze in seguito alla sua missione in Italia, quelle del comitato della CEDAW, nonché quelle dell’Ufficio nazionale di statistica dimostrano l’entità del problema della violenza domestica in Italia e la discriminazione subita dalle donne al riguardo. Ha anche precisato che, nella specie, la ricorrente aveva fornito un inizio di prova, suffragato dati statistici non contestati che dimostrano, da una parte, che la violenza domestica colpisce soprattutto le donne e che, nonostante le riforme intraprese, un considerevole numero di donne muoiono uccise dai loro compagni o ex compagni (femminicidi) e, dall’altro, gli atteggiamenti socio-culturali di tolleranza nei confronti della violenza domestica persistono.
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La Corte ha, inoltre, affermato la sussistenza della violazione dei diritti della ricorrente anche sotto il profilo degli articoli 2 e 3 della C.e.d.u., avendo constatato che l’applicazione del diritto penale nel presente caso non ha avuto l’effetto dissuasivo richiesto per prevenire efficacemente le violazioni dell’integrità personale della ricorrente e del figlio commesse da A.T. Tenuto conto delle suddette conclusioni, la Corte ha precisato di considerare le violenze inflitte all’interessata fondate sul sesso e, come tali, da configurare come una forma di “discriminazione nei confronti delle donne”. Comunque, in Italia, in Europa e nel mondo, purtroppo, le discriminazioni continuano ad essere praticate moltissimo, tanto che si arriva addirittura a nuove forme di schiavitù, come si è detto. A fronte di questa situazione la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in materia di discriminazioni è molto copiosa ed è impossibile in questa sede darne conto. Può solo dirsi che, in linea generale: a) sono moltissime le pronunce che si occupano di discriminazioni in danno degli immigrati extra-UE, dai più vari punti di vista: tutela della salute, provvidenze di assistenza sociale etc.; b) nel diritto antidiscriminatorio, in senso ampio, possono farsi rientrare anche le pronunce che si sono occupate del sovraffollamento carcerario, come, ad esempio, la famosa sentenza Torregiani, visto che, specialmente nel nostro Paese, i detenuti hanno condizioni di vita inumane e spesso molti di loro sono immigrati; c) sempre in questo ambito possono includersi i diversi provvedimenti, non solo giurisdizionali ma anche del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), sulle condizioni di vita nei Centri per stranieri, così come sul trattamento dei migranti minorenni non accompagnati; d) quanto ai diritti sociali ed economici, in cui rientrano anche le provvidenze di assistenza sociale, va considerato che l’apertura della Corte di Strasburgo verso tali diritti, come si è detto, si fonda principalmente sulla interpretazione estensiva della nozione di “bene” di cui all’art. 1 Protocollo n. 1, che spesso viene letto in combinato disposto con il principio di non discriminazione sancito nell’art. 14; e) un altro importante filone del diritto antidiscriminatorio, come inteso dalla Corte di Strasburgo, è quello che fa riferimento alla combinazione tra l’art. 14 e l’art. 6 della C.e.d.u., con riguardo al diritto ad un ricorso effettivo e, quindi, al giusto processo. Non va, del resto, dimenticato che la sostituzione dell’art. 111 Cost., effettuata quindici anni fa, è stata determinata proprio dalla necessità di adeguare la nostra Costituzione all’art. 6 della Convenzione. Per avere una idea di tale giurisprudenza si può ricordare la sentenza Garcia Mateos c. Spagna del 19 febbraio 2013, nella quale la Corte ha esaminato il caso di una dipendente di un supermercato che aveva chiesto di ridurre la giornata lavorativa per poter accudire il proprio figlio minorenne e avendo ottenuto una sentenza favorevole del Tribunale costituzionale nazionale (che aveva accertato la violazione del principio di non discriminazione in base al sesso), ugualmente non aveva avuto soddisfazione perché tale sentenza non era stata correttamente eseguita. La Corte ha ritenuto sussistente la violazione l’art. 6 paragrafo 1 in combinato disposto con l’art. 14 della Convenzione;
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f) molti sono anche i campi di applicazione del combinato disposto degli artt. 8 e 14, così, ad esempio, nella sentenza I.B. c. Grecia del 3 ottobre 2013, la Corte ha considerato violate tali norme in un caso relativo al licenziamento di un impiegato disposto a causa della pressione esercitata sul datore di lavoro dagli altri dipendenti dell’azienda, la quale era stata determinata dal fatto che l’interessato era risultato portatore del virus da HIV, pur non avendo manifestato alcun sintomo della malattia. La Corte ha rilevato che, nella specie, i lavoratori erano stati correttamente informati dal medico del lavoro sull’assenza di rischi di contagio nell’ambito delle relazioni lavorative con il ricorrente ed ha ritenuto che l’interessato fosse stato discriminato a causa della sua sieropositività (vedi, mutatis mutandis, Kiyutin c. Russia, 10 marzo 2011); g) nelle pronunce in cui la Corte di Strasburgo fa riferimento alla violazione dell’art. 14 in combinazione con l’art. 11, viene affermata la responsabilità dello Stato per l’obbligo positivo di istituire un sistema giudiziario idoneo a garantire una protezione chiara ed efficace contro la discriminazione derivante dall’appartenenza o dalla non appartenenza ad un sindacato (vedi, per tutte: sentenza Enerjï Yapi-Yol Sen c. Turchia del 21 aprile 2009); h) non mancano, inoltre, pronunce in cui la Corte ha ravvisato la violazione dell’art. 14 in combinazione con l’art. 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione) oppure con l’art. 10 (libertà di espressione). Si tratta di pronunce di grande rilevanza, come è intuibile. Come esempio si può ricordare la recente sentenza Osmanoglu e Koçabas c. Svizzera del 10 gennaio 2017, nella quale la Corte ha ritenuto che rispetto all’interesse di due genitori musulmani ad ottenere l’esonero delle loro figlie dalle lezioni obbligatorie di nuoto svolte in gruppi “misti” e costituenti parte integrante del programma scolastico, fossero prevalenti l’osservanza dell’obbligo delle alunne di prendere parte a tutte le lezioni del programma scolastico nonché la loro piena integrazione, diretta a proteggere gli alunni stranieri da qualsivoglia forma di discriminazione.
12. L’azione di contrasto alle discriminazioni nell’ambito
dell’Unione europea.
12.1. L’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA). Cenni. La UE, in particolare a partire dal 2000, ha creato – con una serie di direttive – un articolato quadro giuridico per la lotta contro le discriminazioni basate sul sesso, la razza e l’origine etnica, la religione o le convinzioni, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale. Inoltre, come si è detto, i trattati proibiscono anche ogni discriminazione basata sulla nazionalità. E il diritto alla non discriminazione è ulteriormente sostenuto dalla Carta UE, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Al fine di rafforzare l’efficacia di tali strumenti normativi, con il regolamento del Consiglio 15 febbraio 2007 n. 168/2007, si è deciso di istituire, trasformando ed eliminando l’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia, la «Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali» (FRA), con sede a Vienna e con il compito «di fornire
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alle competenti istituzioni e autorità della Comunità e agli Stati membri, quando attuano il diritto comunitario, informazioni, assistenza e consulenza in materia di diritti fondamentali allo scopo di aiutarli a rispettare pienamente tali diritti, quando essi adottano misure o definiscono iniziative nei loro rispettivi settori di competenza». Tale Agenzia è operativa dal 1° marzo 2007, ma non ha competenze decisionali. Con decisione del Consiglio del 28 febbraio 2008, n. 2008/203, poi, è stata data applicazione al suddetto regolamento, con riguardo alla adozione del primo quadro pluriennale di attività della FRA. La UE, infine, ha stabilito di assumere, in questo ambito, periodicamente iniziative (Programmi, Strategie-quadro, Decisioni-quadro), di volta in volta, dedicate alla lotta contro i vari tipi di discriminazione suindicati.
12.2. Le direttive UE. Uno sguardo di insieme. Comunque, quella che ha avuto un ruolo centrale in questo ambito è stata la Corte di giustizia, le cui pronunce in materia di discriminazioni, hanno contribuito in modo decisivo all’attuale configurazione del principio di uguaglianza in ambito UE. Abbiamo detto che una differenza fondamentale di approccio al tema delle discriminazioni, delle Corti nazionali da un lato e delle Corti europee centrali nasce dal diverso modo di intendere il principio di uguaglianza, quale rispettivamente configurato dalla nostra Costituzione, dal diritto UE e dalla C.e.d.u. Deve però essere riconosciuto che, benché il nostro ordinamento in materia sia molto evoluto come meglio si dirà più avanti, la normativa UE – insieme con le sentenze della C. giust. – sicuramente sono state molto utili per diffondere una maggiore sensibilità di reazione alla discriminazioni anche perché, dal punto di vista processuale, hanno fornito alle vittime un regime agevolato dell’onere della prova. Ne deriva che, in materia, vi è stata una sorta di “osmosi” tra diritto interno e diritto UE in due direzioni, in quanto se si è arrivati alla attuale configurazione, in ambito UE, del diritto di uguaglianza come “principio generale che ‘taglia trasversalmente’ tutto il diritto dell’Unione” (C. giust., 24 gennaio 2012, causa C- 282/10) questo dipende dagli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario – grazie alla giurisprudenza della C. giust., influenzata da quella dei giudici nazionali – in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro. Per effetto di questa “virtuosa” apertura biunivoca della C. giust. e dei giudici nazionali come giudici comuni del diritto dell’Unione sono state emanate anche le molteplici direttive comunitarie che attualmente formano un corpus molto ampio e variegato, la prima delle quali è stata la storica direttiva 75/117/CEE «per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile». Anzi va anche precisato che, così come in ambito ONU, anche in ambito UE le prime discriminazioni ad essere disciplinate sono state quelle in danno delle donne. In particolare, non essendo il principio di uguaglianza originariamente esplicitamente enunciato nei Trattati UE, il suo attuale riconoscimento si deve alla C. giust. che, in via
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interpretativa, ne ha desunto l’esistenza dai singoli divieti di discriminazione presenti nel diritto primario. Tale operazione ermeneutica ha consentito alla Corte, soprattutto a partire dagli anni novanta, di ricavare dalle norme dei Trattati – in particolare: art. 13 TCE divenuto poi art. 19 TFUE in materia di azioni positive e art. 141 TCE, ora art. 157 TFUE in materia di non discriminazione, che si limitavano a prevedere dei divieti strettamente funzionali ai differenti settori di competenza e di intervento dell’originaria CE – un generale principio di uguaglianza analogo a quello previsto da molte delle Costituzioni degli Stati membri, declinato nei due diversi aspetti dell’uguaglianza e della non discriminazione. La situazione, al livello di normativa primaria, è poi profondamente cambiata dopo l’adozione della Carta di Nizza, ora Carta dei diritti fondamentali della UE, i cui artt. 20, 21 e 23 riconoscono rispettivamente in linea generale l’uguaglianza davanti alla legge, il principio non discriminazione e il principio di parità tra uomini e donne e la necessità di adottare azioni positive. E un’ulteriore importante passo avanti si è avuto, nel dicembre 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, a seguito della cui adozione, nel comma 3 dell’art. 3 del TUE è espressamente stabilito che: «l’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociale, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore», mentre, come è noto nel successivo art. 6, comma 1, vengono riconosciuti i diritti, le libertà e i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali, alla quale si attribuisce lo stesso valore giuridico dei Trattati. Comunque, anche prima di tali ultime modifiche, sulla base della spinta propulsiva della giurisprudenza della C. giust., la Comunità europea, specialmente a partire dal 2000, ha adottato importanti direttive finalizzate non solo a vietare le discriminazioni, ma anche a garantire la pari opportunità in diversi settori. In particolare, le molte direttive emanate sono state dirette ad affinare la normativa e ad includervi quelli che gli studi del settore hanno identificato come i casi più frequenti di discriminazione, cioè i diversi fattori discriminatori, quali ad esempio: genere, orientamento sessuale, età, (sia per i giovani sia per gli anziani), disabilità, religione, nazionalità in danno dei cittadini UE, opinioni politiche, adesione ad un sindacato, convinzioni personali in generale, condizioni sociali o linguistiche, caratteristiche fisiche, tratti somatici, altezza, peso, stato di salute (es. gravidanza), razza e origine etnica. Peraltro, se, per il nostro ordinamento la suddetta elencazione di fattori discriminanti deve essere interpretata alla luce del principio di razionalità-equità, sancito dall’art. 3 Cost. – che ha portata generale – anche l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali della UE, si presta ad analoga interpretazione visto che stabilisce che il divieto (assoluto) di qualsiasi forma di discriminazione riguarda “in particolare” – e, quindi, non esclusivamente – i fattori discriminatori ivi elencati (il sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali). Ma va anche considerato che, in base all’art. 51 stessa Carta, le disposizioni in essa previste si applicano «agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» (vedi, per tutte: C. giust., sentenza 11 novembre 2014, C 333/13, Elisabeta Dano e Florin
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Dano nonché sentenza 13 novembre 2014, C- 416/13, Mario Vital Pérez), come è stato sottolineato anche dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 80 del 2011, nella quale è stato escluso che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea, in quanto presupposto di applicabilità della c.d. Carta di Nizza è che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto. Tra le direttive più recenti in materia di discriminazioni di genere, in diversi ambiti, meritano una particolare menzione; a) la direttiva 2006/54/CE, recepita con d.lgs. n. 5/2010 e riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro e impiego (rifusione), la quale, come si desume dalla presenza nel titolo della parola “rifusione”, ha accorpato in sé e, in parte modificato, le disposizioni fondamentali del diritto antidiscriminatorio di genere preesistenti, precisamente quelle di cui: 1) alla direttiva 76/207/CEE, (già ampiamente modificata dalla direttiva 2002/73); 2) alla direttiva 86/378/CEE (anch’essa ampiamente modificata in passato); 3) alla direttiva 75/117/CEE, 75/117/CEE, che, come si è detto, è la prima emanata dalla Comunità in questa materia d è stata finalizzata a garantire il principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, principio la cui attuazione è peraltro rimessa agli Stati membri e, in questi, alle Parti sociali; 4) alla direttiva 97/80/CE, che per prima ha previsto, con riferimento ai casi di discriminazione basata sul sesso, il regime dell’onere probatorio favorevole per la presunta vittima, regime poi divenuto applicabile a tutte le ipotesi di discriminazione; b) la direttiva 2010/41/UE, sull’applicazione del principio di parità di trattamento fra uomini e donne che esercitano un’attività di lavoro autonomo (che ha abrogato la direttiva 86/613/CEE e che avrebbe dovuto essere recepita entro il 5 agosto 2012, con una possibile proroga di un biennio per le norme sulla protezione sociale e le prestazioni di maternità, mentre l’Italia l’ha recepita in ritardo in seguito all’inizio di una procedura di infrazione). Così, nel corso del tempo, il lungo processo evolutivo del diritto antidiscriminatorio – come si è detto, iniziato sostanzialmente nel 1997, con l’introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam – ha portato alla costituzione di un corpus normativo molto complesso, successivamente ulteriormente integrato sia in sede UE sia in sede nazionale. Né va omesso di considerare che soprattutto grazie alla direttiva 2006/54/CE, si è avuta l’estensione dell’ambito di applicazione delle nozioni di discriminazione diretta e indiretta, nonché l’inclusione nell’ambito delle discriminazioni anche delle molestie e quindi delle molestie sessuali. Inoltre è stata prevista un’altra significativa misura di interesse generale rappresentata dalla “clausola di vittimizzazione” secondo cui si impone l’adozione di strumenti di tutela in favore di chi lamenta discriminazioni, onde evitare atti di rappresaglia nei suoi confronti (vedi art. 41-bis d.lgs. n. 198 del 2006). In molte delle direttive si sottolinea come per i progressi ottenuti nel campo della tutela delle discriminazioni abbia avuto un ruolo determinante la giurisprudenza della C. giust.. Questi progressi hanno continuato ad esserci anche grazie alla C. giust., benché nei comportamenti degli Stati e degli individui, ci sia ancora molto da fare.
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12.3. C. giust. Linee di tendenza. Va anche sottolineato che quello delle discriminazioni è un campo in cui, oltre a potersi verificare sovrapposizioni e combinazioni tra diritto interno, internazionale e comunitario sono anche frequenti – e in aumento – le occasioni di interrelazione tra diritto UE e C.e.d.u. e quindi tra Corte di Strasburgo e C. giust. Alla maggiore frequenza di tale ultima evenienza hanno contribuito, da un lato, l’emanazione della Carta dei diritti fondamentali UE (cui il Trattato di Lisbona ha attribuito lo stesso valore dei Trattati, art. 6) con conseguenti più frequenti riferimenti della C. giust. – effettuati, peraltro, con una comprensibile prudenza – ai diritti fondamentali in essa contemplati e, da un differente versante, la suddetta maggiore sensibilità mostrata dalla Cedu ad occuparsi anche delle violazioni dei diritti socio-economici, non rientranti direttamente nella Convenzione, ma contemplati nella Carta Sociale Europea Riveduta. Va, però, osservato che il modus operandi delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo resta molto diverso16 e, dal punto di vista sostanziale, tale differenza è emblematicamente dimostrata dalla permanente validità dell’impostazione secondo cui, nell’ambito del sistema del Consiglio d’Europa, la Convenzione e quindi la Cedu sono dirette a tutelare situazioni di particolare gravità, quali sono normalmente quelle che si collegano a violazioni di diritti umani e non ad occuparsi direttamente delle violazioni dei diritti propri di tutti gli individui «nella loro vita quotidiana» – contemplati dalla CSER – compito, quest’ultimo, in cui rientra anche quello di rendere più efficace la tutela del principio di uguaglianza, al fine precipuo di colpire qualunque tipo di discriminazione. La materia delle discriminazioni è quella in cui la C. giust. più frequentemente richiama la Carta UE, però lo fa muovendo dalla premessa secondo cui alla Carta UE va attribuito un valore particolarmente pregnante, ma sempre a condizione che non vi siano norme contenute in una direttiva che tutelino lo stesso diritto contemplato dalla Carta, perché, in questo caso la C. giust. applica la direttiva. Ciò risulta in modo evidente dalla sentenza 13 novembre 2014, Mario Vital Pérez, C416/13, nella quale la Corte, dovendo esaminare una richiesta di rinvio pregiudiziale relativa ad un caso di discriminazione per età, denunciato dal giudice spagnolo con riferimento sia all’art. 21 della Carta, sia delle disposizioni della direttiva 2000/78, ha affermato che: 1) nella propria giurisprudenza è stata riconosciuta l’esistenza di un principio di non discriminazione in base all’età, da considerare come un principio generale del diritto dell’Unione e cui la direttiva 2000/78 dà espressione concreta in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (sentenze Kücükdeveci, C‑555/07, punto 21, nonché Prigge e a., C‑447/09, punto 38); 2) conseguentemente, essendo, nella specie, la Corte investita di una questione pregiudiziale vertente sull’interpretazione del principio generale di non discriminazione in base all’età, quale sancito dall’articolo 21 della Carta, nonché dalle disposizioni della direttiva
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Come è stato evidenziato dalla C. giust. nel noto parere 2/13, del 18 dicembre 2014 sul progetto di accordo sull’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
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2000/78, nel contesto di una controversia tra un singolo e un’amministrazione pubblica, la Corte esamina la questione unicamente alla luce della menzionata direttiva (v., in tal senso, sentenza Tyrolean Airways Tiroler Luftfahrt, C‑132/11, punti da 21 a 23). Su queste basi − e dopo aver precisato che lo Stato spagnolo, nella fattispecie, ha superato i limiti dell’ampio margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri nella scelta delle misure atte a realizzare i loro obiettivi in materia di politica sociale e di occupazione in quanto tale margine discrezionale non può avere l’effetto di svuotare della sua sostanza l’attuazione del principio di non discriminazione in ragione dell’età (sentenze Age Concern England, C‑388/07, punto 51, e Ingeniørforeningen i Danmark, C‑499/08, punto 33) – la C. giust. ha affermato la contrarietà ali articoli 2, paragrafo 2, 4, paragrafo 1, e 6, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2000/78/CE di una normativa nazionale, come quella in discussione nel procedimento principale, che fissa a 30 anni l’età massima per l’assunzione degli agenti della polizia locale. Fra le numerose pronunce in materia di discriminazioni è sufficiente ricordare – a proposito di discriminazione sul luogo lavoro per ragioni religiose derivanti dall’uso del velo islamico da parte di dipendenti – le recenti e controverse sentenze della Grande Sezione entrambe del 14 marzo 2017, Asma Bougnaoui e a., C-188/15 e Samira Achbita e a., C157/1517, nelle quali in due procedimenti introdotti rispettivamente dalla Corte di cassazione francese e dalla Corte di cassazione belga la C. giust. ha affermato i seguenti principi: 1) l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di detta disposizione; 2) l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva. Siffatta norma interna di un’impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro,
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Per un interessante commento a tali sentenze, vedi Poso, Religione e pregiudizio. La Corte di Giustizia e la discriminazione per il velo islamico indossato nei luoghi di lavoro tra libertà religiosa dei lavoratori e libertà di impresa, 24 marzo 2017, in www.rivistalabor.it.
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di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare.
13. Margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati. Va anche precisato che sia in ambito C.e.d.u. sia in ambito UE agli Stati membri è riconosciuto un margine di discrezionalità nel dare attuazione alle norme convenzionali e/o comunitarie. In particolare: a) in ambito C.e.d.u. gli Stati contraenti − nell’esecuzione dell’obbligo di adeguamento ai principi posti dalla Cedu nella sua interpretazione giudiziale, istituzionalmente attribuita alla Corte europea ai sensi dell’art. 32 della Convenzione − godono di un margine di discrezionalità (c.d. margine di apprezzamento), che è più o meno ampio a seconda delle circostanze, della materia e del suo background e ai fini della cui valutazione uno dei fattori rilevanti può essere l’esistenza o l’inesistenza di una posizione comune tra le legislazioni degli Stati contraenti, sulla questione controversa (vedi, per tutte, Petrovic c. Austria, 27 aprile 1998, § 38 nonché Grande Camera, sentenza 24 aprile 2008, Burden c. il Regno Unito, § 60); b) in ambito UE vi sono dei casi in cui è riconosciuto agli Stati membri un margine di discrezionalità nell’attuazione di un atto di diritto dell’Unione. In tali casi resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali assicurare il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione nazionale, purché l’applicazione degli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta UE, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione (vedi, in tal senso, Grande sezione, sentenza 26 febbraio 2013, Melloni, C-399/11, 60). Pertanto, anche l’interprete dovrà tenere conto dell’esistenza o meno, nella specie, di tale margine di discrezionalità, sulla base della giurisprudenza delle Corti europee centrali.
14. Il principio di uguaglianza nella nostra Costituzione. Come si è detto, in base alla consolidata giurisprudenza costituzionale, se con riguardo ad una singola fattispecie possono venire in considerazione norme di origine internazionale e/o di origine UE dall’incidenza della singola norma C.e.d.u. o UE sulla legislazione italiana deve derivare un aumento di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali. Questo principio è di grande importanza, in quanto da esso si desume che, secondo la Corte costituzionale, il criterio “principale” da utilizzare è quello della interpretazione in conformità alla nostra Costituzione e che l’utilizzazione di norme internazionali o sovranazionali si giustifica solo se porta ad una tutela più efficace. Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale l’interpretazione conforme a Costituzione implica che l’interprete – indagando anche sull’intenzione del legislatore alla stregua dei criteri di interpretazione logico-sistematica e teleologica, come prescrive l’art.
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12 disp. prel. c.c. – senza fermarsi quindi al solo significato letterale delle parole usate dal legislatore, riesca a ricondurre la norma nell’alveo dei principi costituzionali, senza forzare la lettera della legge (vedi, per tutte: Corte cost., sentenze n. 19 e n. 223 del 1991 nonché, tra le più recenti, ordinanza n. 240 del 2014). E tale impostazione, trova riscontro: 1) per i rapporti diritto interno-diritto UE, anche nel “principio di equivalenza”, come inteso dalla C. giust., alla cui stregua negli Stati membri la tutela dei diritti attribuiti ai cittadini da norme comunitarie deve essere quantomeno pari a quella dei diritti attribuiti dalle norme nazionali e quindi le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna, salvo restando che tale principio «non può avere per effetto di dispensare i giudici nazionali, al momento dell’applicazione delle modalità procedurali nazionali, dal rigoroso rispetto dei precetti derivanti dall’articolo 267 TFUE» (vedi, per tutte: C. giust., sentenza 11 settembre 2014, A c. B e altri, C-112/13); 2) per i rapporti diritto interno - C.e.d.u., nell’art. 53 della stessa Convenzione, secondo cui l’interpretazione delle disposizioni C.e.d.u. non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali. Inoltre, sempre la Corte costituzionale insegna che l’applicazione di tale metodo in materia di diritto antidiscriminatorio comporta che noi italiani dobbiamo muovere dalla consapevolezza di avere a disposizione uno strumento di tutela delle vittime molto efficace, che può consentirci di contrastare qualunque tipo di discriminazione e, ove necessario, di utilizzare nel migliore dei modi la normativa di provenienza ONU, UE e C.e.d.u.. Si tratta degli artt. 2 e 3 Cost., come sono stati intesi dalla Corte costituzionale, a partire dalla nota “svolta” giurisprudenziale del 198718 che portò il Giudice delle leggi a: a) modificare il proprio precedente consolidato indirizzo, secondo cui l’art. 2 Cost. veniva riferito soltanto ai diritti fondamentali garantiti da altre disposizioni della stessa Carta fondamentale, per affermare che il suddetto articolo contiene un «elenco aperto», sicché la giurisprudenza costituzionale, attraverso gli strumenti dell’interpretazione storico-evolutiva, può individuare altre posizioni soggettive meritevoli dello status di diritti fondamentali, onde tutelare nuovi bisogni e nuove istanze, anche di prevalente natura sociale, in precedenza considerate al massimo espressione di interessi generali o diffusi (vedi, per tutte Corte cost. sentenze n. 215 e n. 561 del 1987); b) nella stessa ottica, a dare «energica attuazione in numerosissime occasioni al principio di eguaglianza enunciato dall’art. 3 Cost.» considerato – nei suoi due commi – come «un dato rilevantissimo ed essenziale della Costituzione repubblicana», che “riflette un’evoluzione politica per cui i singoli ed i vari ceti sociali, specialmente quelli popolari e meno fortunati, non debbono subire indebite limitazioni e discriminazioni. Di qui la conseguen-
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Tutte le citazioni virgolettate sul punto, che seguono sono tratte dalla Conferenza stampa del Presidente della Corte Francesco Saja sulla giustizia costituzionale nel 1987, Palazzo della Consulta 8 febbraio 1988; in www.cortecostituzionale.it. Per un interessante commento al riguardo vedi, per tutti: Scagliarini, Diritti sociali nuovi e diritti sociali in fieri nella giurisprudenza costituzionale, in www.gruppopisa.it, 2012.
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za che l’indicazione dei fattori di possibile discriminazione di cui al comma 1 dell’articolo non ha carattere tassativo, ma si riferisce soltanto alle situazioni più frequenti. Tutto questo – secondo le parole dell’allora Presidente della Corte Francesco Saja – nell’idea che «l’estraneità all’agone politico non esclude tuttavia che la Corte senta profondamente l’esigenza di un impegno continuo e crescente nello sforzo di contribuire efficacemente all’ulteriore evoluzione del Paese e di tradurre in realtà vivente le finalità etico-sociali della Costituzione, così collaborando ad avvicinare i cittadini allo Stato». In particolare, già all’epoca il grande Presidente Saja rilevava che il ritmo veloce e talvolta vertiginoso con cui si verificano le trasformazioni sociali comporta che «le categorie culturali tradizionali possono spesso risultare non più aderenti alla realtà: di qui il compito della giurisprudenza, ed in primo luogo di quella costituzionale, di rendersi sensibile interprete delle nuove esigenze, in modo che cittadini e istituzioni possano ritrovarsi ed identificarsi in modo compiuto ed armonico». La Corte costituzionale da allora non ha mai abbandonato questa strada diretta a garantire la massima espansione possibile delle tutele delle posizioni giuridiche soggettive, specialmente in favore soggetti socialmente più deboli, che sono anche quelli per i quali il rischio di discriminazione è più alto. In particolare, nella giurisprudenza della Corte, l’art. 3 Cost. nei suoi due commi – che, rispettivamente, consacrano il principio della uguaglianza formale e quello della uguaglianza sostanziale – a partire dalla suddetta “svolta” viene inteso come diretto a garantire la pari dignità degli individui non soltanto attraverso la previsione del divieto di trattamenti differenziati sulla base di uno dei fattori espressamente, ma non esaustivamente, indicati nel comma 1 (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali), ma anche attraverso l’adozione di “azioni positive” volte a rimuovere gli ostacoli che impediscano la realizzazione di un trattamento non discriminatorio. E, come affermato dalla stessa Corte costituzionale, le “azioni positive” sono il “più potente strumento a disposizione del legislatore, che, nel rispetto della libertà e dell’autonomia dei singoli individui, tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate − fondamentalmente quelle riconducibili ai divieti di discriminazione espressi nel comma 1 dello stesso art. 3 (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) − al fine di assicurare alle categorie medesime uno statuto effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico” (Corte cost. sentenza n. 109 del 1993)19.
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Va ricordato anche che nella sentenza n. 109 del 1993, la Corte costituzionale, ha affermato che la rilevata violazione del principio costituzionale di eguaglianza, da parte dell’impugnato art. 4, n. 2, della legge della Provincia autonoma di Trento 15 febbraio 1980, n. 3 laddove prevedeva tra i requisiti per l’accesso alle carriere direttive e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi della Provincia di Trento, il possesso di una statura fisica minima indifferenziata per uomini e donne, rendeva superfluo l’esame della compatibilità della disposizione stessa con la richiamata direttiva della CEE n. 76/207 (contenente il divieto delle discriminazioni indirette). La Corte ha, infatti, osservato che, limitatamente agli articoli rilevanti per la fattispecie esaminata (artt. 2 e 3), la direttiva in questione, per un verso, poneva un principio analogo a quello contenuto negli artt. 3, 37 e 51 della Costituzione (v. artt. 2, comma 1; 3, comma 1) e, per altro verso, stabiliva indirizzi rivolti agli Stati membri affinché questi ultimi, nell’adozione della disciplina normativa nazionale conseguente, si conformassero al principio sopra enunciato (v. artt. 2, comma 2, 3 e 4; 3, comma 2). Si tratta, del resto, di una conclusione
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Per sintetizzare, sul punto, va detto che, nel nostro Paese, molto prima del recepimento della specifica normativa UE avverso le discriminazioni già si poteva reagire a simili comportamenti facendo applicazione sia dell’art. 3 Cost. – disposizione che rappresenta un po’ un unicum nell’ambito delle Costituzioni degli Stati europei – sia dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratoti, con riguardo al lavoro privato. Ciononostante, in ambito nazionale, i giudizi dinanzi ai giudici comuni in questa materia sono sempre stati – e sono tuttora – molto pochi rispetto alle violazioni, che purtroppo sono invece in costante aumento quantitativo e anche “qualitativo”, tanto da arrivare a volte a determinare le c.d. nuove schiavitù, come si dirà più avanti.
15. Le discriminazioni in ambito lavorativo. Se, dal punto di vista soggettivo, il diritto antidiscriminatorio si è preoccupato di tutelare per prime le donne, dal punto di vista oggettivo il primo ambiente preso in considerazione è stato quello lavorativo, anche in ambito nazionale. Questo non deve stupire visto che tutte le forme di discriminazione si risolvono in una regressione – più o meno sensibile – nel riconoscimento della pari dignità degli esseri umani e, come sappiamo, per il nostro ordinamento il lavoro è lo strumento principale per affermare tale principio, come risulta l’art. 1 della nostra Costituzione. Del resto, com’è noto, la motivazione per la quale nei primi anni cinquanta il segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio avanzò, per primo, l’idea della introduzione nell’ordinamento di uno Statuto dei diritti dei lavoratori fu quella di combattere il clima di intimidazione, se non di repressione e quindi discriminatorio, che si respirava nei luoghi di lavoro, tanto più nei confronti dei lavoratori maggiormente impegnati sul fronte sindacale. Lo studio delle discriminazioni nel mondo del lavoro ha avuto ampi approfondimenti con riguardo, sia all’accesso al lavoro (privato o pubblico) sia allo svolgimento del rapporto di lavoro. Ne è derivato il divieto di comportamenti discriminatori che si traducano sia nella mancata assunzione o ammissione alle procedure selettive per l’assunzione di determinate persone sia in comportamenti del datore di lavoro o di altri soggetti in base ai quali ad uno o a più dipendenti determinati sia riservato sul luogo di lavoro un trattamento differente rispetto a quello applicato nei confronti della generalità dei dipendenti e tale trattamento non sia sorretto da una ragione idonea a giustificarlo, ma sia determinato solo da fattori (quali, ad esempio, il sesso, l’etnia, la fede, l’età) del tutto irrilevanti ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa di cui si tratta, ivi comprese le molestie e la ritorsione.
adeguata al «principio di equivalenza», come inteso dalla C. giust., alla cui stregua le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna, salvo restando che tale principio «non può avere per effetto di dispensare i giudici nazionali, al momento dell’applicazione delle modalità procedurali nazionali, dal rigoroso rispetto dei precetti derivanti dall’articolo 267 TFUE» (C. giust., sentenza 11 settembre 2014, C-112/13, cit.).
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Nel nostro ordinamento la rilevanza dell’individuazione di quali comportamenti possano integrare un trattamento discriminatorio sul luogo di lavoro – già sentita con riferimento alla determinazione dell’ambito applicativo l’art. 15 della legge n. 300 del 1970, molto ampliato per effetto dell’art. 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 – è ulteriormente aumentata per effetto prima della c.d. Riforma Fornero (legge n. 92 del 2012) e poi del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), ove si è previsto che il lavoratore licenziato per ragioni discriminatorie continua ad essere protetto con la forma di tutela più forte (ossia, con la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento integrale del danno). Tale norma, infatti, ha reso ancor più importante verificare se, dietro ad un licenziamento formalmente intimato per ragioni oggettive o tecnico-organizzative, non si nascondano motivi sostanzialmente discriminatori. In ambito europeo si riscontrano molte pronunce delle Corti europee centrali aventi ad oggetto le discriminazioni in campo lavorativo, specialmente per ragioni etniche, di handicap, di sesso e/o per età e così via, come vedremo più avanti. Del resto, la disciplina UE antidiscriminatoria ha assunto carattere di maggior rilievo grazie soprattutto alla già citata direttiva 2000/78/CE (attuata con il citato d.lgs. n. 216 del 2003) che ha introdotto un quadro generale in materia di divieto di discriminazioni nel mondo del lavoro, tutelando «la parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione, in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini» (art. 1, d.lgs. cit.). Infatti, con tale direttiva – e con la coeva direttiva 2000/43/CE (per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica) – la disciplina è stata estesa anche alla protezione di fattori discriminanti prima non tutti espressamente indicati quali: la razza, l’origine etnica e soprattutto la religione, le convinzioni personali, gli handicap, l’età e l’orientamento sessuale, sempre a condizione che si tratti di differenze di trattamento non effettuate nel rispetto dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza, non oggettivamente giustificate da finalità legittime perseguite con mezzi appropriati e necessari. Va anche detto che, benché con le due suindicate direttive del 2000 il principio di non discriminazione sia diventato a livello normativo uno dei principi fondamentali dell’Unione europea e sia stato solennemente affermato che “tutte le persone sono uguali dinanzi alla legge ed ognuno ha il diritto di vivere una vita libera da discriminazioni”, tuttavia tale normativa, anche se recepita da tutti gli Stati membri, secondo una relazione della Commissione europea del 17 gennaio 2014, non risultava – e purtroppo tuttora non risulta – nella pratica, adeguatamente applicata. Ne consegue che la vera sfida è fare in modo che le vittime di discriminazione possano esercitare concretamente i propri diritti, che sappiano cioè a chi rivolgersi per assistenza e abbiano accesso alla giustizia, mentre invece, come osservato dalla Commissione UE, di fatto le autorità nazionali non garantiscono ancora una protezione efficace alle vittime di
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discriminazione. Il pubblico ha, infatti, scarsa conoscenza dei propri diritti al riguardo e quindi si registra un livello insufficiente di segnalazione degli eventi discriminatori. Tale situazione permane, anche in Italia, ove, fra l’altro, non si ha neppure adeguata conoscenza della normativa processuale specifica e soprattutto della norma sull’onere della prova, secondo cui: «quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione». Si tratta, come è facile comprendere, di una norma di grande rilievo al fine di consentire di tutelare adeguatamente le diverse situazioni e, al contempo, di evitare che possano essere intraprese iniziative pretestuose e di ciò è testimonianza il fatto che l’allora Comunità europea ha dedicato all’argomento una specifica direttiva, la direttiva 97/80/CE, dianzi già citata. Si deve, però, amaramente rilevare che, benché, per le differenze di genere, la norma nel nostro Paese sia vigente fin dall’entrata in vigore della legge 10 aprile 1991, n. 12520, non sembra che essa abbia avuto molte applicazioni. Qualche piccolo cambiamento si è registrato dopo le innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 150 del 2011 al fine di razionalizzare la disciplina dei procedimenti in materia di discriminazione, precedentemente sparsa in una pluralità di fonti legislative prive di un adeguato coordinamento legislativo. In particolare, in base all’art. 28 del suddetto n. 150 del 2011, tutte le controversie in materia di discriminazioni vanno trattate con il rito sommario di cognizione e si è fatta anche chiarezza sulla portata generale del speciale regime in materia di onere probatorio, così delineato: «Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata». Ulteriori ragioni di incremento delle denunce per le discriminazioni in ambito lavorativo derivano anche dalla legge Fornero 28 giugno 2012, n. 92 – che contiene specifiche disposizioni di tipo antidiscriminatorio, per le donne, per i giovani, gli anziani e in materia
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In particolare, l’art. 4, comma 5, della legge 10 aprile 1991, n. 125 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomodonna nel lavoro) – tutta abrogata, ad eccezione dell’art. 11, dal d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246) – stabiliva che: «Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto – desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti – idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sulla insussistenza della discriminazione».
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di licenziamenti – nonché dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 ove si è prevista una più intensa tutela per il lavoratore licenziato per ragioni discriminatorie, di cui si è detto.
16. Dal lavoro poco dignitoso alle nuove schiavitù. Va però osservato che le norme vanno fatte vivere perché possano tutelare correttamente i diritti e verificare l’assolvimento di doveri. Questo compito, per la cui realizzazione giudici e avvocati sono in prima linea, in realtà spetta a tutti i consociati che, superando gli istintivi egoismi, devono sentirsi impegnati a dare concreta attuazione al principio della pari dignità, che è alla base delle moderne democrazie e che vale, in base ai trattati, anche nei rapporti tra gli Stati UE, a ciascuno dei quali è riconosciuta pari dignità rispetto agli altri oltre a stabilirsi che i reciproci rapporti sono retti dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità. Viceversa in Europa e in Italia, in circa un ventennio, siamo arrivati ad una situazione nella quale aumenta la “paura dell’altro” e non solo aumentano, di minuto in minuto, le diseguaglianze e le discriminazioni ma si stimano addirittura dai 27 milioni ai 200 milioni di nuovi schiavi nel mondo, in tutti i campi, ricomprendendo fenomeni quali prostituzione forzata, pedofilia, servitù domestica, sfruttamento di manodopera spesso clandestina, il prestito ad usura, il lavoro forzato, fino ad arrivare alla tratta di donne e bambini da sfruttare come strumenti del sesso oppure di forme di servitù matrimoniale. E, ovviamente, i soggetti colpiti da tali fenomeni sono sempre quelli socialmente vulnerabili e deve anche essere precisato che elementi di grande rilevanza per la loro diffusione sono la scarsa istruzione e la mancanza di un lavoro dignitoso. Tutto ha avuto inizio nella seconda metà degli anni novanta del novecento, quando, sulla base di uno studio dell’OCSE ( Job Study del 1994) la qualità e la dignità del lavoro hanno cominciato a cedere alle esigenze del mercato e questo ha fatto esplodere le diseguaglianze tra Stati e persone mentre, al contempo, l’economia ha avuto difficoltà a riprendersi perché si è messo in secondo piano il fatto che i lavoratori oltre ad essere “dipendenti” sono anche “consumatori”21.
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Deve essere, sul punto, ricordato che nel 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese – pubblicato a dicembre 2014 − il CENSIS ha sottolineato che la legge delega sulla riforma del lavoro «dà rilievo e centralità al lavoro a tempo indeterminato, confidando che possa costituire un vantaggio per incrementare le opportunità di lavoro» e che, a prescindere dal reale riscontro in tale assunto in termini aumento effettivo dell’occupazione, comunque la scelta legislativa di puntare tendenzialmente sul lavoro a tempo indeterminato appare «da salutare con favore», data l’enorme crescita, nel nostro mercato del lavoro, di forme di «lavoro ibrido». In particolare, nel medesimo Rapporto, il CENSIS, ha precisato altresì che le «identità lavorative sempre più ibride», di cui si è avuta una crescita esponenziale nel nostro Paese, non si collocano nei format di profili ordinariamente individuabili nel sistema organizzativo tradizionale: operai, impiegati, professionisti, imprenditori. Infatti, si tratta un’area di lavoro «collocabile in quella terra di mezzo tra il lavoro dipendente tradizionale e autonomo di tipo imprenditoriale e professionale», giunta nel 2013 a contare quasi 3,4 milioni di occupati (tra temporanei, intermittenti, collaboratori, finte partite Iva e prestatori d’opera occasionale), vale a dire il 15,1% del totale degli occupati, con punte fino al 50,7% se si guarda solo al dato dell’occupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni.
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Così, si è avuto un disastroso diffondersi di comportamenti ispirati dall’idea secondo cui il lavoro si debba piegare alla logica della concorrenza (intesa in senso ampio), nel presupposto che la ripresa dell’economia dipenda da un aumento di occupazione perennemente precaria, con bassi salari e pochi diritti per i lavoratori, come è accaduto negli Stati Uniti, in Germania, in Spagna, con i cd. “bad jobs” (cattivi lavori). Ma anche nel nostro Paese, ove, prima nel lavoro privato e poi in quello pubblico contrattualizzato, si è registrato un aumento esponenziale di situazioni lavorative irregolari e perennemente precarie, spesso caratterizzate da modalità di esecuzione della prestazione non corrispondenti al tipo contrattuale indicato al momento dell’assunzione e, nella quali, in ogni caso, ai lavoratori non sono riconosciuti diritti fondamentali, con elusione o evasione degli oneri contributivi, fino ad arrivare, a volte, fin dall’epoca, a situazioni di vera e propria schiavitù. Basta pensare al caporalato che, purtroppo, non solo è tuttora presente in tutto in territorio nazionale, ma si è espanso, dai settori “tradizionali”, dell’agricoltura e dell’edilizia, a molti altri settori come il commercio ed i servizi alla persona22. Spesso alla persistente diffusione del caporalato e la sua espansione si accompagna il preoccupante diffondersi “selvaggio” di situazioni lavorative irregolari, fenomeno che si è registrato e si registra in tutta Europa e che in Italia, da ultimo, si collegava all’uso abusivo dei c.d. voucher. I lavoratori assunti in modo irregolare sono quelli più esposti ad infortuni sul lavoro – anche mortali – e sono anche quelli nei cui confronti si possono verificare le nuove forme di schiavitù, come quelle emblematiche: 1) delle ragazze nigeriane, alcune minorenni, che, raggirate con la promessa di facili guadagni, venivano reclutate nel loro Paese di origine, anche con la complicità delle famiglie, e fatte giungere in Italia attraverso la classica rotta Nigeria-Libia-Sicilia venivano avviate alla prostituzione a Roma e dintorni; 2) delle migliaia di indiani sikh, costretti a drogarsi ingoiando capsule d’oppio per poter resistere a lavorare per 15 ore al giorno nei campi dell’agro pontino, a due passi da Roma, di cui si è avuta notizia qualche tempo fa grazie ad inchieste giornalistiche, ma che continua ad essere una situazione problematica, che il 18 aprile 2016 ha portato i suddetti lavoratori agricoli, quasi tutti provenienti dal Punjab, India, a scendere in piazza sotto il Palazzo della Prefettura di Latina, per chiedere il rispetto della propria dignità, costantemente calpestata da padroni e padroncini.
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Come, ad esempio, risulta dalla nota inchiesta giornalistica che ha fatto luce sulle condizioni di lavoro, di sfruttamento e di illegalità cui i lavoratori (italiani e stranieri) del settore della macellazione delle carni sono sottoposti nel modenese. Situazioni denunciate da anni da parte della FLAI CGIL. A queste situazioni se ne aggiungono altre analoghe nel settore dei trasporti, sempre al Nord Italia e altre ancora nel settore dell’edilizia, in Lombardia. Vedi: www.linkiesta.it e www. repubblica.it. È proprio a causa della diffusione di questa piaga sociale che, muovendo dalla premessa secondo cui in questo campo, le norme sanzionatrici UE e nazionali non bastano, è stato firmato, il 27 maggio 2016, dai Ministri dell’Interno, del Lavoro e delle Politiche Sociali e delle Politiche Agricole un patto contro il caporalato in cui tutti hanno assunto insieme con le associazioni di categoria – come Coldiretti, Confagricoltura e Cia – gli enti di volontariato – come la Croce Rossa e Libera – e i sindacati. L’impegno comune ad agire in modo efficace contro il fenomeno, a partire dal lavoro agricolo, onde contrastare non solo il lavoro in nero ma anche il grave sfruttamento dei lavoratori stagionali, che può arrivare a determinare addirittura il decesso dei braccianti per la fatica, come è accaduto l’estate scorsa.
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In questa situazione, da tempo il Gruppo di esperti sulla lotta alla tratta degli esseri umani (GRETA), incaricato di vigilare sull’attuazione da parte degli Stati membri della Convenzione del Consiglio d’Europa contro la tratta di esseri umani, ha invitato il nostro Paese a porre attenzione al fenomeno della tratta di esseri umani con riguardo non soltanto alle forme collegate allo sfruttamento sessuale, ma anche a quelle connesse con lo sfruttamento lavorativo – in particolar modo quello agricolo – e ad altre tipologie di tratta come l’accattonaggio. Il GRETA ha precisato che, infatti, il fenomeno della tratta è oggi “multidimensionale” e che i percorsi di sfruttamento – i quali spesso si incrociano fra di loro – vanno identificati e contrastati sulla base di strategie olistiche e integrate, tramite un maggiore coordinamento tra autorità e operatori. Finalmente, è stata emanata la legge 29 ottobre 2016, n. 199, per contrastare il fenomeno del caporalato soprattutto in ambito penale. Si tratta di uno strumento importante, in quanto anche nel nostro Paese le c.d. nuove schiavitù – che in ambito lavorativo spesso nascono dal caporalato – sono in preoccupante aumento. In base delle rilevazioni dell’organizzazione Anti-Slavery International si parla di centinaia di milioni di persone in stato di schiavitù nel mondo, in ogni angolo della Terra, che sono private di ciò che sta alla base di tutto, del diritto più importante: il diritto alla vita stessa e si dice che vi sarebbero più di 170 milioni di bambini coinvolti nelle peggiori forme di lavoro minorile. L’Europa tradizionalmente si conferma come il continente con la minore percentuale di sfruttamento di esseri umani, ma va detto che molte forme di schiavitù riescono a sfuggire alle rilevazioni specifiche, come ad esempio quella dei lavoratori domestici che è una delle forme di schiavitù più subdole e diffuse in occidente e quindi in Europa. Però, dalle rilevazione della Walk Free Foundation 2016, l’Italia è risultata essere il secondo Paese europeo, dopo la Polonia, per numero effettivo di “nuovi schiavi” quantificati come pari a 129.600 persone (specialmente per lo sfruttamento di donne e bambini) e quindi in un totale più di dieci volte superiore a quello della Francia, che ha più o meno lo stesso numero di abitanti del nostro Paese. Inoltre, applicando il concetto di schiavitù anche ai culti religiosi, le cifre crescono in modo esponenziale. L’ONAP (Osservatorio Nazionale Abusi Psicologici) stima che in Italia ci siano 1500 tra sette e culti religiosi minori, che hanno ridotto in schiavitù 3 milioni di persone tra cittadini italiani e stranieri, residenti nel nostro Paese. E poi ci sono i nuovi schiavi dell’edilizia e dell’agricoltura, sia immigrati sia italiani, che possono anche arrivare a “morire di fatica”, come Paola Clemente la bracciante agricola stroncata da un infarto mentre lavorava all’acinellatura dell’uva nei campi di Andria. In Italia, a partire dalla legge 11 agosto 2003, n. 228, sono stati profondamente modificati gli articoli del codice penale sui reati di riduzione in schiavitù (articoli 600, 601, 602) includendo in tale nozione anche la costrizione a prestazioni lavorative e sessuali, l’accattonaggio e altre forme di sfruttamento. E, di recente, come si è detto, è stata approvata la legge 29 ottobre 2016, n. 199 sul contrasto al caporalato, che era attesa da decenni.
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17. La discriminazione è sempre alla base dell’altrui sfruttamento o riduzione in schiavitù.
Si tratta di strumenti importanti che vanno fatti funzionare al meglio, ma la cosa migliore sarebbe – almeno per le situazioni lavorative – cercare, attraverso i controlli, di prevenire la deriva penalistica. Mentre per lottare contro le situazioni di vera e propria schiavitù e di tratta degli esseri umani, è necessario raggiungere un’azione comune e omogenea tra tutti gli Stati europei ed extraeuropei, visto che siamo in presenza di fenomeni che vanno ben oltre i confini dei singoli Stati. Certamente quello che sta succedendo nel mare Mediterraneo da anni è sconfortante, ma si deve avere la forza e il coraggio di credere che ognuno di noi può contribuire all’abbandono della mentalità di considerare gli esseri umani come merce. E questo dovrebbe accadere, a partire dal nostro particolare, fino all’ONU, passando per l’Europa, ma una Europa che si mostri diversa e che abbandoni i suoi acronimi, le sue tecnicalità, il suo linguaggio esoterico, per dimostrasi utile ai cittadini nella loro vita di tutti i giorni, come realmente già è, ma di più potrebbe essere. Perché soltanto in una dimensione ampia è possibile fermare le profonde diseguaglianze attualmente esistenti nel mondo, che, come affermato nel World Economic Forum di Davos del 2016, sono la causa principale del rallentamento della crescita mondiale e quindi della creazione di occupazione. E, può aggiungersi, che sono anche la causa ultima delle nuove schiavitù. Pure nel corso dei lavori preparatori per la messa a punto dell’agenda di sviluppo per il post-2015 in ambito ONU23 è emerso che per l’Europa – e, specialmente, per l’Italia – il tema in concreto più importante (anche alla luce della Costituzione italiana), collegato agli squilibri delle disuguaglianze, è quello della «adozione di politiche per un lavoro per tutti, pieno, produttivo e a condizioni socialmente dignitose e rispettose dell’ambiente». In particolare, si è sottolineato il raggiungimento di tale obiettivo comporta che, quando si parla di sostenibilità, non ci si accontenti, di puntare a “fare di più con meno”, ma si miri a “fare meglio con più lavoratori produttivi e in condizioni dignitose”. Perché la sfida di fondo per un nuovo modello di sviluppo che riesca a dare risposta alle tante vulnerabilità esistenti è rappresentata dal trinomio ambiente-salute-lavoro dignitoso, che equivale a dare rilievo all’equità socio-economica. Si aggiunge che l’incapacità mostrata sinora dal sistema economico e politico a tutti i livelli − locale, nazionale e internazionale − di dare risposte concrete alla suddetta sfida “è preoccupante perché strutturale e rintracciabile” senza distinzioni, nelle organizzazioni e negli enti di tutti i settori − del settore pubblico, di quello privato e di quello non profit – ovviamente, in ognuno con la propria quota di responsabilità.
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Vedi al riguardo: Zupi, Agenda di sviluppo post 2015 e l’accordo sui cambiamenti climatici (approfondimento a cura del CeSPI per l’Osservatorio di politica internazionale), in www.senato.it - 14 settembre 2014.
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Per le sfide che ci attendono si considera, quindi, auspicabile che la “società civile organizzata” faccia da pungolo esterno al processo decisionale in senso stretto, onde sollecitare spinte in avanti, ad esempio chiedendo di spostare l’attenzione dalla misurazione del risultato (il PIL) alla misurazione appropriata della qualità del processo di sviluppo (la produttività), in relazione proprio alla necessità di porre al centro dell’attenzione la qualità del lavoro. Di questa società civile facciamo parte tutti noi come individui, prima ancora che come avvocati e giudici è quindi evidente che siamo tutti chiamati a fare sì che si riesca a mettere al centro degli interessi degli Stati la solidarietà e non la esasperata competitività che è la causa principale della presente situazione, nella quale specialmente da quanto è scoppiata la crisi del 2008 è come se, nelle prassi degli Stati e nei comportamenti dei singoli, fosse stato dimenticato il principio della pari dignità di tutti gli esseri umani solennemente proclamato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani firmata a Parigi il 10 dicembre 1948 e da molte altre Carte e Costituzioni dei singoli Stati della stessa epoca. Tra queste rientra anche per la nostra Costituzione nella quale, come si è detto, grazie agli artt. 2 e 3 abbiamo strumenti molto incisivi per combattere al meglio le discriminazioni, grazie anche alla combinazione con la normativa di origine UE. In applicazione del metodo suggerito dalla Corte costituzionale al riguardo possiamo potenziare anche la lotta alle nuove schiavitù. Perché quel che è certo è che parlare di lavoro sommerso significa parlare di violazione della dignità umana che può arrivare a forme di schiavitù, ma anche parlare di corruzione e di economia malata, come risulta in modo emblematico dalla recente delibera dell’ANAC n. 1308 depositata il 21 dicembre 2016 che l’Autorità Nazionale Anticorruzione ha trasmesso non solo alla Presidenza del Consiglio dei ministri, ma anche alla Procura regionale della Corte dei conti e alla Procura della Repubblica competente.
18. Discriminazioni in ambito lavorativo e tutela della
salute.
Come è noto, da molto tempo, in ambito UE e ONU si approfondisce il tema dei rischi psicosociali nel lavoro – in cui si inserisce quello dei rischi da stress lavoro-correlato – che si collega a quello del “benessere organizzativo” nel lavoro privato e pubblico. Si tratta di una tematica di grande attualità, come dimostrano, fra l’altro, le iniziative che da anni, in ambito europeo, sta portando avanti specialmente la EU-OSHA (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro-European Agency for Safety and Health at Work) al fine di fornire guida e supporto ai lavoratori e ai datori di lavoro affinché riconoscano e affrontino efficacemente lo stress sul luogo di lavoro, ma soprattutto lo prevengano. A parte i differenti approcci alla definizione e allo studio dello “stress lavoro-correlato”, quel che è certo è che dai dati EU-OSHA la “precarietà” del lavoro, intesa in senso ampio, rappresenta attualmente la principale fonte di rischi psico-sociali ed è caratterizzata da incertezza sulla continuità dell’impiego, scarso controllo individuale o collettivo sul lavoro
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(per condizioni di lavoro, retribuzioni, orario di lavoro) derivante anche dalla frammentazione delle responsabilità e dalla sottorappresentazione nei comitati salute sicurezza, scarso livello di protezione (minor disponibilità dei dispositivi di protezione individuale, protezione sociale, protezione contro la disoccupazione o contro la discriminazione) e da vulnerabilità economica, cui possono aggiungersi le scarse opportunità di formazione, di apprendimento lungo tutto l’arco della vita e di sviluppo professionale. In altri termini, la “precarietà del lavoro”, intesa in senso ampio – comprensivo anche dello svolgimento del lavoro in condizioni di discriminazione – ha un ruolo centrale come fonte di stress lavoro-correlato, essendo stato evidenziato, in molteplici occasioni, che la disoccupazione e le condizioni di lavoro precarie o discriminanti, non di rado, sono fonte diretta o indiretta di malattie croniche o, comunque, causa di un loro aggravamento soprattutto per le malattie e i disturbi mentali, come evidenziato anche in una pubblicazione dell’OIL del 2013 sulla “Prevenzione delle malattie professionali”24. Con riferimento alla “pesante incidenza” dei rischi psico-sociali, l’OIL ha ricordato come, da tempo, “lo stress legato al lavoro e le sue conseguenze sulla salute sono divenuti una causa di grande preoccupazione” e come il fenomeno sia ancora peggiorato nel corso del tempo. Infatti, con sempre maggiore frequenza le imprese si trovano ad affrontare casi di molestie psicologiche, mobbing, bullismo, molestie sessuali e altre forme di violenza, mentre i lavoratori, nel tentativo di far fronte allo stress, sono portati, a volte, ad adottare comportamenti non salubri, quali abuso di alcol e stupefacenti. Viene anche evidenziata una correlazione tra stress e problemi muscolo-scheletrici, cardiaci e digestivi e si è accertato che lo stress lavorativo prolungato può contribuire all’insorgere di disturbi cardiovascolari gravi. Inoltre, a causa della maggiore incidenza dello stress da lavoro derivante dalla crisi economica e dalla recessione, si sono riscontrati, con maggiore frequenza, casi di ansia, di depressione e di altri disturbi mentali, che hanno spinto alcuni addirittura fino al gesto estremo del suicidio. Nel nostro ordinamento la norma di base per fare fronte a queste situazioni – in ambito lavoristico – è l’art. 2087 c.c., la cui duttilità ha consentito, per lungo tempo, di ovviare alla mancanza di una regolazione specifica in materia di rischi psico-sociali e di garantire una protezione contenutisticamente avanzata già prima dell’emanazione del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/ CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE, 90/679/CEE, 93/88/CEE, 95/63/CE, 97/42/CE, 98/24/CE, 99/38/CE, 99/92/CE, 2001/45/CE, 2003/10/CE, 2003/18/CE e 2004/40/CE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro), peraltro abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro)25.
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OIL, La prevenzione delle malattie professionali, Ginevra, 2013. Per questa parte vedi, per tutti: Basenghi, La normativa di tutela e promozione del benessere sul lavoro, 12 novembre 2010, in www.fmb.unimore.it.
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Grazie alla combinazione del suddetto art. 2087 c.c. con l’art. 32 Cost. (sulla tutela del diritto alla salute) e con l’art. 41 Cost. (secondo cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana) nonché con gli di cui gli artt. 2 e 3 Cost., la tutela delle condizioni di lavoro da sempre è stata concepita come uno degli obblighi essenziali del datore di lavoro. Tale tutela è stata rafforzata – acquisendo una dimensione collettiva, che si aggiunge a quella individuale (vedi: Cass. 9 ottobre 1997, n. 9808) – grazie all’attribuzione alle rappresentanze sindacali aziendali (artt. 9 e 19 della legge n. 300 del 1970) del «diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica». Tale tipo di controllo è divenuto ancora più incisivo con la istituzione (originariamente da parte dell’art. 18 del d.lgs. n. 626/1994) del rappresentante per la sicurezza in azienda, oggi rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), ai sensi dell’art. 47 del d.lgs. n. 81/2008. Per effetto del carattere di “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico pacificamente riconosciuta all’art. 2087 c.c. nonché l’ammissibilità della interpretazione estensiva della predetta norma – alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) ai quali deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro – la giurisprudenza della Corte di cassazione ha inteso il suddetto obbligo datoriale nel senso di includere anche l’obbligo della adozione di ogni misura “atipica” diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, come, ad esempio, le misure di sicurezza da adottare in concreto nella organizzazione tecnico-operativa del lavoro allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso, ivi comprese le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi (vedi, fra le tante: Cass., 22 marzo 2002, n. 4129). Questo implica anche l’obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere già di per sé la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, burn out, molestie, stalking e così via, alcuni anche di possibile rilevanza penale. E, sempre nella medesima ottica, in via giurisprudenziale la suddetta disposizione codicistica è stata ritenuta applicabile pure all’ipotesi delle molestie sessuali, sia se commesse dal datore di lavoro sia se poste in essere da colleghi di lavoro della vittima. Fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate cui si applica l’obbligo del datore di lavoro (sancito dall’art. 2087 c.c.) di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost. la giurisprudenza di legittimità fa rientrare anche il mobbing e lo straining. Ai fini giuridici, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, con l’espressione “mobbing” (mutuata da una branca dell’etologia) si designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratteriz-
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zati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003 e Cass. 5 novembre 2012, n. 18927). Ne consegue che, per la configurabilità del “mobbing lavorativo”, devono ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio − illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (vedi: Cass., 5 novembre 2012, n. 18927 cit.; Cass., 21 maggio 2011 n. 12048; Cass., 26 marzo 2010 n. 7382). La stessa giurisprudenza precisa che dalla suddetta definizione del mobbing lavorativo si desume che se anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongano in un unicum e non risultano, pertanto, complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, ancorché finalisticamente non accumunate, possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati, di cui si è detto (arg. ex Cass., sez. VI pen., 8 marzo 2006 n. 31413). In simile evenienza, l’accertamento di tale lesione non può considerarsi impedito dall’eventuale originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing, in quanto si tratta piuttosto di una operazione di esatta qualificazione giuridica dell’azione che il giudice è tenuto ad effettuare, interpretando il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicando norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti interessate, purché lasciando inalterati sia il petitum che la causa petendi e non attribuendo un bene diverso da quello domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto (Cass., 23 marzo 2005, n. 6326; Cass., 1° settembre 2004, n. 17610; Cass., 12 aprile 2006, n. 8519). Inoltre, soprattutto a partire dall’entrata in vigore dei già menzionati d.lgs. n. 215 e n. 216 del 2003, l’onere della prova agevolato per le vittime di discriminazioni è stato agevolato e, comunque, nel nostro ordinamento processuale era già previsto che, nel rito del lavoro, il principio dispositivo deve essere contemperato con quello della ricerca della verità materiale, con l’utilizzazione da parte del giudice anche di poteri officiosi oltre che della prova per presunzioni, alla quale va attribuito precipuo rilievo, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione. Infatti, la prova presuntiva (o indiziaria) – che esige che il Giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell’istruzione, valutandoli tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri e quindi esclude che il Giudice, avendo a disposizione una pluralità di indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Cass., 9 marzo 2012, n. 3703) – consente attraverso la complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, gravità, frustrazione
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personale e/o professionale, altre circostanze del caso concreto) di poter risalire coerentemente, con un prudente apprezzamento, al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (vedi per tutte: Cass., 5 novembre 2012, n. 18927 cit.). Ciò, del resto, è conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di prova del danno da demansionamento (vedi, per tutte: Cass., SU 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., SU 24 marzo 2006, n. 6572 del 2006; Cass., 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass., 26 novembre 2008, n, 28274), oltre che trovare riscontro nella giurisprudenza amministrativa in materia di mobbing (Cons. Stato, 21 aprile 2010, n. 2272). Nella stessa ottica si è giunti alla sussunzione in ambito giuridico anche dello straining, che consiste in una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, come può accadere, ad esempio, in caso di demansionamento, dequalificazione, isolamento o privazione degli strumenti di lavoro. In tutte queste ipotesi: se la condotta nociva si realizza con una azione unica ed isolata si è in presenza dello straining e non del mobbing, ma comunque si tratta ugualmente di un comportamento che può produrre una situazione stressante, la quale a sua volta può anche causare gravi disturbi psicosomatici. Pertanto, pur mancando il requisito della continuità nel tempo della condotta, essa può essere sanzionata in sede civile sempre in applicazione dell’art. 2087 c.c. ma può anche dare luogo a fattispecie di reato, se ne ricorrono i presupposti (vedi, per tutte: Cass., VI Sezione penale, 28 marzo - 3 luglio 2013, n. 28603).
19. Qualche ulteriore riflessione sulla giurisprudenza della Corte di cassazione.
Peraltro, negli ultimi anni sono aumentati i ricorsi proposti alla Corte di cassazione in materia di discriminazioni, anche a prescindere da conseguenze sulla salute del lavoratore. Per alcune delle relative pronunce, oltre a quelle richiamate in precedenza, si possono ricordare: a) la recentissima Cass., 8 maggio 2017, n. 11165, ove sono stati affermati i seguenti principi di diritto: 1) «nelle discriminazioni collettive in ragione del fattore della nazionalità (ex artt. 2 e 4 d.lgs. 215/2003 e 43 TU 286/1998) sussiste la legittimazione ad agire in capo alle associazioni ed agli enti previsti nell’art.5 d.lgs. 215/2003»; 2) «la mancata concessione ai cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo in Italia dell’assegno per il nucleo familiare previsto dall’art. 65 della legge n. 448/1998 per il periodo precedente all’1 luglio 2013 costituisce discriminazione collettiva per ragioni di nazionalità per violazione del principio di parità in materia di assistenza sociale e protezione sociale in relazione alle prestazioni essenziali previsto dalla direttiva 2003/109/CE ed attuato dall’art. 13, comma 1, della legge n. 97 del 2013»; b) Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291, secondo cui, ai sensi dell’art. 2087 c.c. – norma di chiusura del sistema antinfortunistico suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fe-
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de cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro – il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente per effetto dell’adozione di condizioni lavorative “stressogene”, che possano eventualmente dare luogo al “mobbing” ovvero al c.d. “straining”. Peraltro tali due nozioni hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici, servendo soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con il citato art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro; c) Cass., 3 dicembre 2015, n. 24648 ove si è affermato il principio secondo cui: il divieto di licenziamento discriminatorio, sancito dall’art. 4 della l. n. 604/1966, dall’art. 15 st. lav. e dall’art. 3 della l. n. 108/1990, è suscettibile – in base all’art. 3 Cost. e sulla scorta della giurisprudenza della C. giust. in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in particolare, nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997 – di interpretazione estensiva, sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, ossia dell’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall’intento ritorsivo; d) Cass., 5 aprile 2016, n. 2575, che ha affermato che la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l’art. 4 della l. n. 604/1966, l’art. 15 st. lav. e l’art. 3 della l. n. 108/1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall’ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito sulla natura discriminatoria di un licenziamento che conseguiva la comunicazione della dipendente di volersi assentare per sottoporsi ad un trattamento di fecondazione assistita). Si tratta soltanto di alcuni esempi che forse possono servire per considerare che l’ambito di applicabilità del diritto antidiscriminatorio è più ampio di quello che a volte si è portati a pensare. Va, sottolineato che se le discriminazioni sono, per noi, innanzi tutto violazioni dell’art. 3 Cost., peraltro – come precisato anche dalla ordinanza n. 149 del 2013 della Corte costituzionale – le fondamenta della funzione nomofilattica assegnata dall’ordinamento alla Corte di cassazione poggiano sul principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), in forza del quale casi analoghi devono essere giudicati, per quanto possibile, in modo analogo, sicché la funzione istituzionale della Corte di cassazione è proprio quella di fare sì che l’interpretazione delle norme avvenga con gli stessi criteri in tutto il territorio nazionale. La suddetta funzione di nomofilachia nella sua applicazione nell’ordinamento processuale civile è stata di recente molto valorizzata dal legislatore anche nell’intento di recupe-
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rare, sul piano della stabilità della giurisprudenza, quanto la certezza del diritto ha perso in termini di sistematicità e chiarezza della normativa26. Ciò si è verificato a seguito delle riforme del 2006 (d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 40, entrato in vigore il 2 marzo 2006), del 2009 (legge 18 giugno 2009, n. 69, entrata in vigore il 4 luglio 2009), del 2012 (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, entrata in vigore con i tempi ivi stabiliti) del 2016 (d.l. 31 agosto 2016, n. 168 convertito dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197, subito entrata in vigore).
20. Conclusioni. In conclusione deve essere ribadito quanto si è detto all’inizio e cioè che per avvicinarsi al diritto antidiscriminatorio in modo efficace, la cosa migliore è quella di acquisire il metodo e la sensibilità per farlo, nella consapevolezza che, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale per prima cosa dobbiamo considerare la normativa nazionale (a partire dalla Costituzione) e solo successivamente dobbiamo prendere in considerazione la normativa internazionale e/o sovranazionale, sempre che ciò consenta di ottenere un aumento della tutela del diritto leso. Si deve, altresì, tenere presente che da ben trent’anni la giurisprudenza costituzionale ha intrapreso la strada diretta a garantire la massima espansione possibile delle tutele delle posizioni giuridiche soggettive, specialmente in favore soggetti socialmente più deboli, che sono anche quelli per i quali il rischio di discriminazione è più alto, in particolare affermando che i diritti fondamentali garantiti dall’art. 2 Cost. non sono solo quelli contemplati da altre disposizioni della stessa Carta fondamentale e dando «energica attuazione in numerosissime occasioni al principio di eguaglianza enunciato dall’art. 3 Cost.» considerato – nei suoi due commi – come “un dato rilevantissimo ed essenziale della Costituzione repubblicana”, che riflette un’evoluzione politica per cui l’indicazione dei fattori di possibile discriminazione indicati nel comma 1 dell’articolo non ha carattere tassativo, ma si riferisce soltanto alle situazioni più frequenti. Per ottenere questo risultato tutti noi – come “società civile” – siamo chiamati dall’ONU a fare da “pungolo esterno” rispetto agli enti che gestiscono il processo decisionale in senso stretto, onde sollecitare spinte in avanti, che possano, ad esempio, portare a spostare l’attenzione dalla misurazione del risultato (il PIL) alla misurazione appropriata della qualità della vita e del processo di sviluppo. Del resto, anche per il comma 2 dell’art. 4 della nostra Costituzione: «ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società».
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In argomento, vedi, per tutti: Rordorf, Giudizio di cassazione. Nomofilachia e Motivazione, in Libro dell’anno del diritto, in EGT, 2012 e ivi ampi riferimenti.
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Ne deriva che nessuno può tirarsi indietro perché è in gioco anche il principio democratico. Questo vale anche nel rapporto tra Pubblica Amministrazione e cittadini, così come nel rapporto tra gli Stati membri della UE. Ebbene, come sappiamo nell’ultimo decennio l’Unione europea ha mostrato soprattutto il suo volto mercantilistico. Però tra i quattro impegni assunti formalmente tra gli Stati UE a Roma il 27 marzo 2017 – nel sessantesimo anniversario dei Trattati istitutivi della CEE – è molto significativa la presenza anche della tutela e della realizzazione dell’Europa sociale. Speriamo che – così come è accaduto nei trascorsi sessant’anni, secondo quanto ci ha ricordato il grande Giuseppe Tesauro27 – anche con riguardo a questo impegno la giurisprudenza della Corte di giustizia, insieme con i giudici nazionali quali giudici comuni del diritto dell’Unione «possano continuare a rappresentare bene l’Europa che c’è, che mantiene – nonostante le crisi, i fili spinati, le uscite e una retorica anticomunitaria di chi non conosce e improvvisa – una serie di valori che vale la pena di tramandare ai giovani». È un sogno che, a mio parere, tutti noi dobbiamo coltivare. Del resto, «il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni» (Paulo Coelho).
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Tesauro, Sessant’anni dai Trattati di Roma: ciò che dobbiamo alla giustizia dell’Unione, in www.questionegiustizia.it, 25 marzo 2017.
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza Corte di giustizia UE, sentenza 14 settembre 2017, cause riunite C-168/16 e C-169/16; Pres. M. Ilešič – Rel. C. Toader – Avv. gen. H. Saugmandsgaard Øe - S. Nogueira (Avv. V. Perez-Ortega, V Mauguit, M. Sanchez-Odogherty e J. Sanchez-Navarro) M.J. Moreno Osacar (Avv. S. Gilson e F. Lambinet) Crewlink Ireland Ltd (Avv. S. Corbanie e F. Harmel) Ryanair Designated Activity Company, già Ryanair Ltd (Avv. S. Corbanie e F. Harmel e E. Vahida). Diritto internazionale privato - Competenza del giudice – Regolamento di Bruxelles I – Clausola contrattuale sul foro competente – Irrilevanza – Luogo dove il lavoratore svolge abitualmente la propria attività – Diversità della nozione di base di servizio – Regolamento di Roma I – Interpretazione analogica.
La nozione di luogo abituale di svolgimento dell’attività lavorativa di cui all’art. 19, comma 2, Regolamento (CE), n. 44/2001, «Regolamento di Bruxelles I», non coincide con quella di «base di servizio», contenuta nell’allegato III del Regolamento n. 3222/9, che si riferisce al luogo designato dall’operatore e da cui il lavoratore debba iniziare e concludere un periodo di servizio o una serie di periodi di servizio. Tuttavia, l’art. 19, comma 2, deve essere interpretato nel senso che il luogo di inizio e fine della prestazione lavorativa costituiscono un valido indizio per individuare il luogo di svolgimento abituale della prestazione.
1. Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 2001, L 12, pag. 1; in prosieguo: il «regolamento Bruxelles I»). 2. Tali domande sono state presentate nell’ambito di due controversie, nella causa C 168/16, tra la sig. ra Sandra Nogueira, il sig. Victor Perez-Ortega, le sig. re Virginie Mauguit, Maria Sanchez-Odogherty, il sig. José Sanchez-Navarro (in prosieguo, congiuntamente, la «sig.ra Nogueira e a.») e la Crewlink Ireland Ltd (in prosieguo: la «Crewlink») e, nella causa C 169/16, tra il sig. Miguel José Moreno Osacar e la Ryanair Designated Activity Company, già Ryanair Ltd (in prosieguo: la «Ryanair»), in merito alle condizioni di esecuzione e di risoluzione dei contratti individuali di lavoro della sig. ra Nogueira e a. e del sig. Moreno Osacar nonché alla competenza internazionale dei giudici belgi a conoscere di tali controversie. (Omissis) Procedimenti principali e questioni pregiudiziali Causa C 169/16 18 Il 21 aprile 2008, il sig. Moreno Osacar ha stipulato, in Spagna, un contratto di lavoro con la Ryanair, compagnia aerea con sede legale in Irlanda. 19 A norma di tale contratto, le sue funzioni includevano «la sicurezza, la cura, l’assistenza e il controllo dei passeggeri; le operazioni d’imbarco e a terra (…); le vendite a bordo dell’aereo; la pulizia dell’interno
dell’aereo, i controlli di sicurezza e tutti i pertinenti compiti che possono (…) essere affidati dalla società». 20 Ai sensi di tale contratto, redatto in lingua inglese, i giudici irlandesi erano competenti a conoscere di eventuali controversie sorte tra le parti in relazione all’esecuzione e alla risoluzione dello stesso, mentre la normativa dello Stato membro di cui trattasi disciplinava il rapporto di lavoro tra gli stessi. Lo stesso contratto indicava altresì che le prestazioni di lavoro del sig. Moreno Osacar, in qualità di personale di cabina, si consideravano effettuate in Irlanda atteso che le sue funzioni erano esercitate a bordo di aerei immatricolati in tale Stato membro ed appartenenti a tale compagnia aerea. 21 Inoltre, il contratto di lavoro del sig. Moreno Osacar indicava l’aeroporto di Charleroi (Belgio) come «base di servizio», e richiedeva che quest’ultimo risiedesse a un’ora di tragitto dalla base alla quale era assegnato, motivo per il quale lo stesso si è stabilito in Belgio. 22 In data 1o aprile 2009, il sig. Moreno Osacar è stato promosso alle funzioni di «supervisore». Egli ha rassegnato le dimissioni il 16 giugno 2011. 23 In seguito, ritenendo che il suo ex-datore di lavoro fosse tenuto a rispettare e ad applicare le disposizioni della normativa belga e reputando che i giudici del medesimo Stato membro fossero competenti a statuire su tali domande, il sig. Moreno Osacar, con atto di citazione dell’8 dicembre 2011, ha convenuto la Ryanair dinanzi al tribunal du travail de Charleroi (tribunale del lavoro di Charleroi, Belgio) per ottenere
Giurisprudenza
la condanna del suo ex-datore di lavoro a versargli varie indennità. 24 La Ryanair ha contestato la competenza dei giudici belgi a conoscere di tale controversia. A tale riguardo, la compagnia ha sostenuto che sussiste un legame stretto e concreto tra detta controversia e i giudici irlandesi. Oltre alla clausola di elezione del foro e quella che designa il diritto irlandese come legge applicabile, infatti, la medesima compagnia indica che il sig. Moreno Osacar è stato soggetto alla normativa irlandese in materia fiscale e di sicurezza sociale, che ha eseguito il suo contratto di lavoro a bordo di aerei immatricolati in Irlanda e soggetti alla legislazione di tale Stato membro e che, sebbene il sig. Moreno Osacar abbia sottoscritto il proprio contratto di lavoro in Spagna, tale contratto si è perfezionato solo una volta sottoscritto dalla Ryanair presso la sua sede legale in Irlanda. 25 Con sentenza pronunciata il 4 novembre 2013, il tribunal du travail de Charleroi (tribunale del lavoro di Charleroi) ha dichiarato che i giudici belgi non erano competenti a conoscere della domanda del sig. Moreno Osacar. Quest’ultimo ha interposto appello avverso tale sentenza dinanzi al giudice del rinvio, la cour du travail de Mons (corte del lavoro di Mons, Belgio). (Omissis) 32 In tali condizioni, la cour du travail de Mons (corte del lavoro di Mons) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se (Omissis) la nozione di “luogo abituale di esecuzione del contratto di lavoro”, quale contemplata dall’articolo 19, punto 2, del regolamento [Bruxelles I], non può essere interpretata nel senso che è equiparabile a quella di “base di servizio” definita nell’allegato III del regolamento [n. 3922/91] come “il luogo designato dall’operatore per ogni membro d’equipaggio dal quale il membro d’equipaggio solitamente inizia e dove conclude un periodo di servizio o una serie di periodi di servizio e nel quale, in condizioni normali, l’operatore non è responsabile della fornitura dell’alloggio al membro d’equipaggio interessato”, e ciò al fine di determinare lo Stato contraente (e, pertanto, la sua giurisdizione) sul territorio del quale un lavoratore svolge abitualmente il suo lavoro, quando tale lavoratore è impiegato come membro del personale di volo di una compagnia soggetta al diritto di uno dei paesi dell’Unione che effettua il trasporto aereo internazionale di passeggeri sull’insieme del territorio dell’Unione europea, dal momento che questo criterio di collegamento, dedotto da quello di “base di servizio” intesa come “centro effettivo del rapporto di lavoro” in quanto il lavoratore sistematicamente vi inizia e vi conclude la propria giornata lavorativa, vi organizza il proprio lavoro quotidiano e in prossimità della quale ha stabilito
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la propria effettiva residenza durante il periodo dei rapporti contrattuali, è quello che presenta, allo stesso tempo, il legame più stretto con uno Stato contraente e assicura la tutela più adeguata alla parte contraente più debole». Causa C 168/16 33 La sig.ra Nogueira e a., aventi cittadinanza portoghese, spagnola o belga, hanno stipulato, negli anni 2009 e 2010, contratti di lavoro con la Crewlink, persona giuridica con sede in Irlanda. 34 Ciascuno dei loro contratti di lavoro prevedeva che tali lavoratori sarebbero stati impiegati dalla Crewlink e distaccati come personale di cabina presso la Ryanair, con funzioni paragonabili a quelle ricoperte dal sig. Moreno Osacar. 35 Redatti in lingua inglese, tali contratti di lavoro precisavano inoltre che il loro rapporto di lavoro era soggetto al diritto irlandese e che i giudici di tale Stato membro erano competenti a conoscere di tutte le controversie attinenti all’esecuzione o alla risoluzione di tali contratti. Del pari, siffatti contratti prevedevano che la loro retribuzione sarebbe stata versata su un conto bancario irlandese. 36 I rapporti di lavoro hanno preso fine per dimissione o licenziamento nel 2011. 37 La sig.ra Nogueia e a. hanno adito il tribunal du travail de Charleroi (tribunale del lavoro di Charleroi) al fine di ottenere il pagamento di varie indennità, per i medesimi motivi del sig. Moreno Osacar. 38 Con sentenza del 4 novembre 2013, tale giudice ha statuito che i giudici belgi non erano competenti a conoscere di tali domande. I ricorrenti nel procedimento principale hanno interposto appello avverso tale sentenza dinanzi al giudice del rinvio. 39 Il giudice del rinvio sottolinea inoltre che, nei contratti della sig.ra Nogueira e a., viene pattuito che «gli aeromobili del cliente sono registrati in Irlanda e, siccome le mansioni verranno da Lei svolte su detti aeromobili, la sede di lavoro è in Irlanda», che l’aeroporto di Charleroi è la «base di servizio» («home base») di tali lavoratori e che ciascuno di essi dovrà risiedere ad un’ora di tragitto dalla base alla quale sarà assegnato. 40 D’altronde, detto giudice rileva una serie di fatti pertinenti che risultano dai suoi accertamenti. In primo luogo, sebbene il loro contratto di lavoro conferisse al datore di lavoro la possibilità di decidere di trasferire la sig.ra Nogueira e a. in un altro aeroporto, è pacifico, nel caso di specie, che l’unica base di servizio della Crewlink è stata l’aeroporto di Charleroi. In secondo luogo, ciascuno dei lavoratori di cui trattasi iniziava la propria giornata lavorativa all’aeroporto di Charleroi e ritornava sistematicamente alla propria base al termine di ogni giornata lavorativa. In terzo luogo, a ciascuno di essi è successo di dover restare reperibile presso l’aeroporto di Charleroi al fine di sostituire un membro del personale eventualmente assente. (Omissis)
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42 Il giudice a quo giustifica, in termini analoghi a quelli della sua domanda di pronuncia pregiudiziale nella causa C 169/16, la necessità di un rinvio pregiudiziale. La cour du travail de Mons (corte del lavoro di Mons) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale in sostanza simile. 43 Con decisione del presidente della Corte dell’11 aprile 2016, le cause C 168/16 e C 169/16 sono state riunite ai fini della fase scritta ed orale del procedimento, nonché della sentenza. Sulle questioni pregiudiziali (Omissis) 45 In via preliminare, occorre precisare, in primo luogo, che, come emerge dal considerando 19 del regolamento Bruxelles I e nei limiti in cui tale regolamento sostituisce, nei rapporti tra gli Stati membri, la convenzione del 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, come modificata dalle successive convenzioni relative all’adesione a tale convenzione dei nuovi Stati membri (in prosieguo: la «convenzione di Bruxelles»), l’interpretazione fornita dalla Corte con riferimento alle disposizioni di tale convenzione vale anche per quelle del citato regolamento, qualora le disposizioni di tali atti possano essere qualificate come equivalenti (sentenza del 7 luglio 2016, Hőszig, C 222/15, EU:C:2016:525, punto 30 e giurisprudenza ivi citata). (Omissis) 47 Peraltro, per quanto concerne un contratto individuale di lavoro, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio, previsto all’articolo 5, punto 1, seconda parte del periodo, della convenzione di Bruxelles, deve essere determinato secondo criteri uniformi che la Corte deve definire basandosi sul sistema e sugli obiettivi di tale convenzione. La Corte ha infatti evidenziato che tale interpretazione autonoma è l’unica che possa garantire l’applicazione uniforme di detta convenzione, che mira, segnatamente, ad unificare le norme in materia di competenza dei giudici degli Stati contraenti, evitando, nei limiti del possibile, la molteplicità dei criteri di competenza giurisdizionale relativamente al medesimo rapporto giuridico, ed a potenziare la tutela giuridica delle persone residenti nella Comunità, permettendo sia all’attore di identificare facilmente il giudice che può adire, sia al convenuto di prevedere ragionevolmente dinanzi a quale giudice può essere citato (sentenza del 10 aprile 2003, Pugliese, C 437/00, EU:C:2003:219, punto 16 e giurisprudenza citata). 48 Ne consegue che tale requisito dell’interpretazione autonoma si applica parimenti all’articolo 19, punto 2, del regolamento Bruxelles I (v., in tal senso, sentenza del 10 settembre 2015, Holterman Ferho Exploitatie e a., C 47/14, EU:C:2015:574, punto 37 e giurisprudenza ivi citata).
49 In secondo luogo, da una giurisprudenza costante della Corte emerge che, da un lato, per le controversie relative ai contratti di lavoro, il capo II, sezione 5, del regolamento Bruxelles I enuncia una serie di norme che, come emerge dal considerando 13 di tale regolamento, perseguono lo scopo di tutelare la parte contraente più debole con norme in materia di competenza più favorevoli ai suoi interessi (v., in tal senso, sentenze del 19 luglio 2012, Mahamdia C 154/11, EU:C:2012:491, punto 44 nonché la giurisprudenza ivi citata, e del 10 settembre 2015, Holterman Ferho Exploitatie e a., C 47/14, EU:C:2015:574, punto 43). (Omissis) 52 In terzo luogo, l’articolo 21 del regolamento Bruxelles I limita la possibilità per le parti di un contratto di lavoro di concludere un accordo attributivo di competenza. Quindi, un siffatto accordo deve essere stato concluso successivamente al sorgere della controversia o, qualora sia pattuito precedentemente, deve consentire al lavoratore di adire giudici diversi da quelli ai quali le citate norme attribuiscono la competenza (sentenza del 19 luglio 2012, Mahamdia, C 154/11, EU:C:2012:491, punto 61). 53 Ne consegue che tale disposizione non può essere interpretata nel senso che una clausola attributiva di competenza potrebbe applicarsi in modo esclusivo e impedire, in tal modo, al lavoratore di adire i giudici che sono competenti a titolo degli articoli 18 e 19 del regolamento Bruxelles I (v., in tal senso, sentenza del 19 luglio 2012, Mahamdia, C 154/11, EU:C:2012:491, punto 63). 54 Nel caso di specie, occorre constatare, come evidenziato dall’avvocato generale ai paragrafi 57 e 58 delle sue conclusioni, che una clausola attributiva di competenza, come quella stipulata nei contratti in esame nei procedimenti principali, non soddisfa né l’uno né l’altro dei requisiti fissati dall’articolo 21 del regolamento Bruxelles I e che, conseguentemente, tale clausola non è opponibile ai ricorrenti nei procedimenti principali. 55 In quarto ed ultimo luogo, occorre rilevare che l’interpretazione autonoma dell’articolo 19, punto 2, del regolamento Bruxelles I non osta a che si tenga conto delle disposizioni corrispondenti contenute nella convenzione di Roma, dal momento che tale convenzione, come emerge dal suo preambolo, è parimenti diretta a perseguire, nell’ambito del diritto internazionale privato, l’opera di unificazione giuridica già intrapresa nell’Unione, segnatamente in materia di competenza giurisdizionale e di esecuzione delle sentenze. 56 Come evidenziato dall’avvocato generale al paragrafo 77 delle sue conclusioni, infatti, nelle sentenze del 15 marzo 2011, Koelzsch (C 29/10, EU:C:2011:151), e del 15 dicembre 2011, Voogsgeerd (C 384/10, EU:C:2011:842), la Corte ha già operato un’interpretazione della convenzione di Roma alla luce segnata-
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mente delle disposizioni della convenzione di Bruxelles relative al contratto individuale di lavoro. 57 Per quanto riguarda la determinazione della nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», ai sensi dell’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I, la Corte ha ripetutamente statuito che il criterio dello Stato membro in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività deve essere interpretato in senso ampio (v., per analogia, sentenza del 12 settembre 2013, Schlecker, C 64/12, EU:C:2013:551, punto 31 e giurisprudenza ivi citata). 58 In merito a un contratto di lavoro eseguito sul territorio di più Stati contraenti e in assenza di un centro effettivo delle attività professionali del lavoratore a partire dal quale avrebbe adempiuto la parte sostanziale delle sue obbligazioni nei confronti del suo datore di lavoro, la Corte ha statuito che l’articolo 5, punto 1, della convenzione di Bruxelles, data la necessità sia di determinare il luogo con il quale la controversia presenta il nesso più significativo, in modo da designare il giudice che si trova nella migliore posizione per decidere, sia di garantire un’adeguata tutela al lavoratore, in quanto parte contraente più debole, e di evitare la moltiplicazione dei fori competenti, va interpretato come se si riferisse al luogo nel quale, o a partire dal quale, il lavoratore di fatto adempie la parte più importante delle sue obbligazioni nei confronti del datore di lavoro. Infatti, questo è il luogo nel quale il lavoratore può, con minor spesa, promuovere un’azione contro il proprio datore di lavoro o provvedere alla propria difesa e il giudice di tale luogo è il più idoneo a dirimere la controversia sorta dal contratto di lavoro (v., in tal senso, sentenza del 27 febbraio 2002, Weber, C 37/00, EU:C:2002:122, punto 49 e giurisprudenza ivi citata). 59 Pertanto, in simili circostanze, la nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», sancita all’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I, deve essere interpretata come relativa al luogo nel quale, o a partire dal quale, il lavoratore di fatto adempie la parte più importante delle sue obbligazioni nei confronti del datore di lavoro. 60 Nel caso di specie, le controversie nei procedimenti principali riguardano lavoratori impiegati come membri del personale di volo di una compagnia aerea o messi a sua disposizione. Pertanto, il giudice di uno Stato membro investito di tali controversie, qualora non sia in condizione di determinare senza ambiguità il «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», deve, al fine di verificare la propria competenza, individuare il «luogo a partire dal quale» tale lavoratore adempiva principalmente le sue obbligazioni nei confronti del suo datore di lavoro. 61 Come rammentato dall’avvocato generale al paragrafo 95 delle sue conclusioni, dalla giurisprudenza della Corte emerge altresì che, per determinare con-
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cretamente tale luogo, il giudice nazionale deve fare riferimento ad un insieme di indizi. 62 Tale metodo indiziario consente non soltanto di rispecchiare meglio la realtà dei rapporti giuridici, in quanto deve tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano l’attività del lavoratore (v., per analogia, sentenza del 15 marzo 2011, Koelzsch, C 29/10, EU:C:2011:151, punto 48), ma altresì di evitare che una nozione come quella di «luogo nel quale, o a partire dal quale, il lavoratore svolge abitualmente la propria attività» sia strumentalizzata o contribuisca alla realizzazione di strategie di elusione (v., per analogia, sentenza del 27 ottobre 2016, D’Oultremont e a., C 290/15, EU:C:2016:816, punto 48 e giurisprudenza ivi citata). 63 Come evidenziato dall’avvocato generale al paragrafo 85 delle sue conclusioni, considerate le specificità dei rapporti di lavoro nel settore del trasporto, nelle sentenze del 15 marzo 2011, Koelzsch (C 29/10, EU:C:2011:151, punto 49), e del 15 dicembre 2011, Voogsgeerd (C 384/10, EU:C:2011:842, punti da 38 a 41), la Corte ha indicato molteplici indizi che possono essere presi in considerazione dai giudici nazionali. Tali giudici devono in particolare stabilire in quale Stato si trovi il luogo a partire dal quale il lavoratore effettua le sue missioni di trasporto, dove ritorna dopo le sue missioni, riceve le istruzioni sulle sue missioni e organizza il suo lavoro, nonché il luogo in cui si trovano gli strumenti lavorativi. (Omissis) 66 Per quanto riguarda il personale di volo di una compagnia aerea o messo a sua disposizione, tale nozione non può essere equiparata alla nozione di «base di servizio», ai sensi dell’allegato III del regolamento n. 3922/91. Il regolamento Bruxelles I, infatti, non fa riferimento al regolamento n. 3922/91 e non ne persegue i medesimi obiettivi, posto che quest’ultimo regolamento è diretto ad armonizzare regole tecniche e procedure amministrative nel settore della sicurezza dell’aviazione civile. 67 La circostanza secondo cui la nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», ai sensi dell’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I, non possa essere equiparata a quella di «base di servizio», ai sensi dell’allegato III del regolamento n. 3922/91, non comporta, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 115 delle sue conclusioni, che quest’ultima nozione sia priva di qualsiasi rilevanza al fine di determinare, in circostanze quali quelle dei procedimenti principali, il luogo a partire dal quale il lavoratore svolge abitualmente la propria attività. (Omissis) 69 A tale riguardo, la nozione di «base di servizio» costituisce un elemento che può avere un ruolo significativo nell’individuazione degli indizi, rammentati ai punti 63 e 64 della presente sentenza, che consentono, in circostanze come quelle dei procedimenti principali,
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di determinare il luogo a partire dal quale i lavoratori svolgono abitualmente la loro attività e, pertanto, la competenza di un giudice che potrà conoscere di un ricorso presentato dai medesimi, ai sensi dell’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I. (Omissis) 73 Sarebbe solo nell’ipotesi in cui, tenuto conto degli elementi di fatto di ciascun caso di specie, domande, come quelle in esame nei procedimenti principali, presentassero nessi più stretti con un luogo diverso da quello della «base di servizio» che verrebbe meno la rilevanza di quest’ultima per individuare il «luogo a partire dal quale i lavoratori svolgono abitualmente la loro attività» (v., in tal senso, sentenza del 27 febbraio 2002, Weber, C 37/00, EU:C:2002:122, punto 53, nonché, per analogia, sentenza del 12 settembre 2013, Schlecker, C 64/12, EU:C:2013:551, punto 38 e giurisprudenza ivi citata). (Omissis) 76 Pertanto, e contrariamente a quanto fatto valere dalla Ryanair e dalla Crewlink nell’ambito delle loro osservazioni, lo Stato membro a partire dal quale un membro del personale di volo di una compagnia aerea o messo a sua disposizione svolge abitualmente la propria attività non è neppure equiparabile al territorio dello Stato membro di cui gli aeromobili di tale compagnia aerea hanno la nazionalità, ai sensi dell’articolo 17 della convenzione di Chicago. 77 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alle questioni poste dichiarando che l’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I deve essere interpretato nel senso che, nel caso di ricorso presentato da un membro del personale
di volo di una compagnia aerea o messo a sua disposizione e al fine di determinare la competenza del giudice adito, la nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», ai sensi di tale disposizione, non è equiparabile a quella di «base di servizio», ai sensi dell’allegato III del regolamento n. 3922/91. La nozione di «base di servizio» costituisce nondimeno un indizio significativo per determinare «il luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività». (Omissis) Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara: L’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, deve essere interpretato nel senso che, nel caso di ricorso presentato da un membro del personale di volo di una compagnia aerea o messo a sua disposizione e al fine di determinare la competenza del giudice adito, la nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», ai sensi di tale disposizione, non è equiparabile a quella di «base di servizio», ai sensi dell’allegato III del regolamento (CEE) n. 3922/91 del Consiglio, del 16 dicembre 1991, concernente l’armonizzazione di regole tecniche e di procedure amministrative nel settore dell’aviazione civile, come modificato dal regolamento (CE) n. 1899/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006. La nozione di «base di servizio» costituisce nondimeno un indizio significativo per determinare il «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività».
Ryanair e le regole di diritto internazionale privato nello spazio Europeo: certezza processuale, carenza di tutela sostanziale? Sommario : 1. I fatti posti alla base del giudizio: i contratti di lavoro degli opera-
tori Ryanair. – 2. L’oggetto del rinvio pregiudiziale: l’interpretazione dell’articolo 19, comma 2, del Regolamento (CE), n. 44/2001, «Regolamento di Bruxelles I». – 3. Il significato del «luogo dove il lavoratore svolge abitualmente la propria attività» nelle pronunce della Corte di Giustizia. – 4. Il favor prestatoris nel diritto internazionale privato “comunitarizzato”.
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Sinossi. L’elaborato esamina una recente decisione della Corte di Giustizia, relativa all’interpretazione della nozione di luogo di svolgimento abituale della prestazione, contenuta nell’ art. 19, comma 2, Regolamento di Bruxelles 1. L’autrice si confronta, più in generale, con le questioni di diritto internazionale privato relative alla legge applicabile e al giudice competente a decidere delle controversie in materia di lavoro. La logica sottesa al sistema complessivo del diritto internazionale privato sembra essere quella della scelta della regola che sia più prossima alla realtà del rapporto di lavoro, mentre hanno un rilievo marginale le considerazioni relative alla regola che sia sostanzialmente più favorevole al lavoratore.
1. I fatti posti alla base del giudizio: i contratti di lavoro degli
operatori Ryanair.
Le due vicende sulle quali si è recentemente pronunciata la Corte di Giustizia coinvolgono una delle questioni centrali del diritto internazionale privato in ambito europeo, e cioè la disciplina delle controversie relative al personale aereo1. È noto che, nel contesto del mercato interno, i lavoratori – anche se “meno mobili” rispetto alle imprese2 – tendono sempre più a spostarsi nell’ambito di una stessa relazione contrattuale, talvolta svolgendo la propria prestazione di lavoro in Paesi diversi da quello di assunzione3. Oltre alle varie modalità di esercizio della libera circolazione dei servizi4 o all’investimento diretto in Paesi altri rispetto a quello dell’investitore, oltre, cioè, alle «diverse vie per la internazionalizzazione delle imprese»5, i lavoratori si spostano da un Paese all’altro, nel-
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Orlandini, Il rapporto lavoro con elementi di internazionalità, in Working paper del CSDLE, serie it., n. 137/2012, 13, in cui l’autore sottolinea come proprio le problematiche connesse al settore aereo abbiano contribuito a muovere la Commissione europea verso la redazione della Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I) del 15.12.2005, COM (2005), 650 def., 7. 2 Per quanto ciò debba essere coordinato con le politiche di mobilità perseguite dalle stesse imprese transnazionali, v. Fouquet, Lacaux, Le politiche di mobilità nelle imprese transnazionali, in Lavoro e diritto, 2005, 3, 475 ss., articolo preceduto dalla presentazione di Nadalet, Imprese transnazionali e diritto del lavoro, 431 ss. 3 Il tema cui ci si riferisce non è quello della circolazione dei lavoratori intesa come spostamento per entrare nel mercato del lavoro di un altro Paese, ma nel senso di mobilità all’interno dello stesso impiego, secondo una distinzione operata già da Lyon-Caen, Le droit, la mobilité et les relations du travail: quelques perspectives, in Revue du marché commun et de l’Union européenne, 1991, 1, 108 ss. 4 Per la «passive mobility» e, in particolare, l’eccezione della disciplina del distacco rispetto alle regole di diritto internazionale privato sulla legge applicabile al rapporto di lavoro, Borelli, Le mobilità dei lavoratori subordinati cittadini dell’Unione Europea, in Calafà, Gottardi, Peruzzi (a cura di), La mobilità del lavoro: prospettive europee e internazionali, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012, 44 ss. 5 Lo Faro, “Turisti e vagabondi”: riflessioni sulla mobilità internazionale dei lavoratori nell’impresa senza confini, in Lavoro e diritto, 2005, 3, 438. Tali vie sono spesso sovrapponibili ai meccanismi che si verificano in caso di gruppi societari o di realtà “contrattualmente integrate”. V. in proposito Corrao, Profili internazional-privatistici dei rapporti di lavoro nei gruppi di società, in Lavoro e Diritto, 2005, 3, 497. Su questi temi è d’obbligo citare la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Pugliese, che aveva ad oggetto la giurisdizione applicabile in una ipotesi in cui una successione di contratti di lavoro era caratterizzata dall’interesse del primo datore di lavoro all’esecuzione della prestazione nel Paese del secondo datore di lavoro, C. giust., 10 aprile 2003, causa C-437/00, Pugliese, in http:// curia.europa.eu/juris/liste.jsf?language=it&jur=C,T,F&num=C-437/00&td=ALL; v. Beghini, Luogo di svolgimento abituale dell’attività lavorativa e sospensione del rapporto di lavoro con distacco del lavoratore presso una consociata estera, in Rivista Italiana di Diritto del lavoro, 2003, II, 699.
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la stessa relazione contrattuale, anche per ragioni legate al tipo di prestazione lavorativa, come accade nel settore dei trasporti infra-nazionali, in specie aerei. Tali ipotesi non hanno a che vedere con le complicate questioni relative alla struttura dell’impresa nel mercato unico6, bensì con quelle, apparentemente più lineari, di un servizio che per sua natura coinvolge più Stati membri. Le modalità stesse di svolgimento della prestazione lavorativa rendono difficoltosa, in questi casi, l’identificazione del foro competente o della legge applicabile al rapporto di lavoro. Nella causa C-168/16, la questione verteva sul foro competente in relazione al rapporto contrattuale fra il sig. Moreno Osacar e la compagnia aerea Ryanair, avente sede legale in Irlanda. Il contratto, stipulato nel 2008 in Spagna e redatto in lingua inglese, prevedeva che i giudici irlandesi sarebbero stati competenti a giudicare le eventuali controversie sorte tra le parti in relazione all’esecuzione o alla risoluzione del contratto, e che la legge applicabile sarebbe stata quella irlandese. Inoltre, il contratto specificava che le prestazioni di personale di cabina svolte dal sig. Moreno Osacar avrebbero dovuto essere considerate come realizzate in Irlanda, poiché effettuate su aerei immatricolati in Irlanda e appartenenti alla compagnia aerea in questione, avente sede, come premesso, in Irlanda. Il contratto di lavoro individuava altresì come «base di servizio» l’aeroporto belga di Charleroi e impegnava il lavoratore a risiedere ad un’ora di distanza da quest’ultimo, cosa che il sig. Moreno Osacar aveva fatto, dovendo sempre partire e ritornare da e tornare verso l’aeroporto di Charleroi ogni qualvolta prestasse servizio. Nella seconda causa C-169/16, la sig.ra Nogueira ed altri lavoratori, di cittadinanza portoghese, spagnola o belga, stipulavano (nel 2009 e 2010) contratti di lavoro con la Crewlink, persona giuridica con sede in Irlanda. Anche in tal caso, i contratti erano stati redatti in inglese e specificavano che la legge applicabile ai rapporti sarebbe stata quella irlandese, così come irlandesi sarebbero stati i giudici competenti a conoscere delle eventuali controversie. I contratti prevedevano che i lavoratori sarebbero stati impiegati dalla Crewlink e distaccati come personale di cabina presso la Ryanair, con funzioni paragonabili a quelle ricoperte dal sig. Moreno Osacar; anche per loro, come, per quest’ultimo, l’unica base di servizio formalmente prevista nel contratto ed effettivamente tale nella relazione di lavoro è sempre stata l’aeroporto di Charleroi. In entrambe le ipotesi, i rapporti di lavoro, terminati nel 2011, avevano dato luogo a controversie in relazione ad alcuni emolumenti di natura economica rivendicati dai lavoratori nei confronti del datore di lavoro; in ambedue i casi, i lavoratori ritenevano competente il Tribunal du travail de Charleroi, ma le loro domande venivano respinte in primo grado per difetto di competenza. In sede di appello, la Cour de travail de Mons sospendeva il procedimento e sottoponeva ai giudici una questione pregiudiziale relativa all’interpretazione dell’art. 19, comma 2, Regolamento di Bruxelles I, ai sensi del quale il datore di lavoro domiciliato in uno Stato membro può essere convenuto, a scelta del lavoratore, davanti al giudice del luogo dove il lavoratore svolge abitualmente la propria
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Che ha spesso a che vedere con ipotesi di esternalizzazione. V. Corazza, “Contractual Integration” e rapporti di lavoro. Uno studio sulle tecniche di tutela del lavoratore, Cedam, 2004.
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attività. La domanda posta all’attenzione della Corte era se la nozione di luogo abituale della prestazione di lavoro potesse essere interpretata come il luogo in cui il lavoratore solitamente inizia e conclude lo svolgimento della propria prestazione.
2. L’oggetto del rinvio pregiudiziale: l’interpretazione dell’articolo 19, comma 2, del Regolamento (CE), n. 44/2001, «Regolamento di Bruxelles I».
In via preliminare, il giudice del rinvio, con identica motivazione in ambedue i casi, non riteneva opponibile alle parti la clausola contrattuale attributiva della competenza, per violazione dell’art. 21 del regolamento di Bruxelles I. La suddetta norma prevede, in effetti, che tali clausole possano essere negoziate solo successivamente al sorgere della controversia, o, in alternativa, che siano valide se ed in quanto consentano al lavoratore di adire un foro scelto secondo criteri diversi da quanto stabilito all’art. 19, comma 2, Regolamento di Bruxelles 1. Dal canto suo, l’art. 19 stabilisce che il datore di lavoro possa essere convenuto, nel territorio di un altro Stato membro rispetto a quello in cui sia domiciliato, «davanti al giudice del luogo dove il lavoratore svolge abitualmente la propria attività o a quello dell’ultimo luogo dove la svolgeva abitualmente» (lettera a) o, in subordine, «qualora il lavoratore non svolga o non abbia svolto abitualmente la propria attività in un solo paese, davanti al giudice del luogo in cui è o era stabilita la sede d’attività presso la quale è stato assunto» (lettera b)7. Il giudice del rinvio domandava, pertanto, se fosse applicabile al caso di specie la lettera (a) della norma, interpretando il concetto di “luogo abituale” conformemente alla precedente giurisprudenza della Corte di Giustizia (relativa all’interpretazione dell’art. 5, punto 1, della Convenzione di Bruxelles 27 settembre 1968, antecedente del Regolamento di Bruxelles I), secondo la quale, (C. giust.,10 luglio 1993, causa C-125/92, Mulox IBC), «si deve considerare luogo dell’esecuzione dell’obbligazione contrattuale (…) il luogo nel
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La precedente versione della disciplina in materia di competenza giurisdizionale, quella della Convenzione di Bruxelles, firmata nel 1968 (72/454/CEE) ed entrata in vigore nel 1973, non considerava espressamente i rapporti di lavoro, ma conteneva, all’art. 5, punto 1, la regola per cui il convenuto avrebbe potuto essere chiamato in un altro Stato membro, «in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita». Sul passaggio dalla convenzione di Bruxelles al successivo Regolamento di Bruxelles 1 (n. 44/2001), v. De Cesari, Diritto internazionale privato dell’Unione Europea, Giappichelli, 2011, 66 ss. Il 10 gennaio 2015 è entrato in vigore il Regolamento (UE) n. 1215/2012, “Regolamento di Bruxelles Ibis”, che ha abrogato e sostituito il precedente Regolamento di Bruxelles I. Per quanto qui interessa, le principali novità del nuovo testo sono tre. In primo luogo, l’art. 21, comma 2, prevede che anche il datore di lavoro non domiciliato in uno Stato membro possa essere convenuto davanti a un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro. Secondariamente, è possibile, ai sensi dell’art. 20, comma 1, che il lavoratore citi il datore di lavoro presso il luogo dove è domiciliata la società capogruppo. In terzo luogo, la nuova disciplina consente di coordinar le regole sul foro competente con la direttiva europea in materia di distacco dei lavoratori. Sulle novità apportate dal nuovo Regolamento, v. Salerno, Giurisdizione ed efficacia delle decisioni straniere nel regolamento (UE) n.1215/2012 (rifusione), Cedam, 2015; Pesce, Tutela dei cd. Contraenti deboli nel nuovo Regolamento UE n. 1215/2012 (Bruxelles Ibis), in Diritto del commercio internazionale, 2014, 3, 579 ss.
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quale, o a partire dal quale, il lavoratore adempie principalmente le sue obbligazioni nei confronti del datore di lavoro». A tale argomentazione, si aggiungeva peraltro la domanda se la nozione di luogo abituale, cui all’art. 19, comma 2, lett. a) del Regolamento di Bruxelles I, potesse essere interpretata in modo analogo a quella di «base di servizio», come contenuta nell’allegato III del Regolamento (CEE) del 16 dicembre 1991, n. 3922/1991, concernente l’armonizzazione di regole tecniche e di procedure amministrative nel settore dell’aviazione civile, e successivamente utilizzata dal Regolamento (CE) del 29 aprile 2004, n. 883/2004 per determinare la legislazione di sicurezza sociale applicabile ai membri degli equipaggi di condotta e di cabina (a partire dal 28 giugno 2012)8. In tali disposizioni, la base di servizio è intesa come luogo designato dall’operatore per ogni membro dell’equipaggio, dal quale il lavoratore deve iniziare e concludere un periodo di servizio o una serie di periodi di servizio. La lettura della questione oggetto di rinvio pregiudiziale implica due ragionamenti. Il primo, preliminare, consiste nell’osservazione di come sia fisiologico, per lo svolgimento di un servizio aereo, che il lavoratore, assunto in un determinato Stato membro, sorvoli il territorio dell’Unione europea a partire da una base di servizio, magari situata in un altro Stato dell’Unione. Questo crea una costante scollatura, per gli operatori del settore, fra il luogo di inizio e fine della prestazione lavorativa e la nazionalità del mezzo su cui effettivamente è prestato il servizio, normalmente coincidente con il Paese in cui è domiciliato il datore di lavoro. Il secondo, di natura giuridica, è che l’inconveniente interpretativo – dal punto di vista dell’individuazione del foro più vicino alla realtà del rapporto di lavoro – potrebbe essere ridimensionato avendo cura di interpretare in modo adeguato la nozione di luogo di esecuzione della prestazione. Mentre per i ricorrenti ciò coinciderebbe con l’aeroporto belga di partenza e di ritorno, per le società convenute il foro competente sarebbe quello irlandese, sia perché prevarrebbe l’elezione del foro contenuta nel contratto, sia per lo svolgimento della prestazione su velivoli battenti bandiera dello Stato di domiciliazione del datore di lavoro. La questione è stata inquadrata dal giudice del rinvio con attenzione alle specificità del settore aereo, così come delle esigenze, non solo di certezza del diritto, ma anche (e specialmente) di tutela del lavoratore. Queste ultime, che costituiscono la ratio delle norme contenute nella quinta sezione (artt. da 18 a 21) del Regolamento di Bruxelles I (C. giust., 19 luglio 2012, causa C-154/11, Mahamdia)9, avevano già portato in passato la Corte a ampliare il concetto di luogo abituale della prestazione, come nel citato caso Mulox IBC. A tali considerazioni si può aggiungere che il criterio che coinvolge paese di partenza e di ritorno del lavoratore nell’esecuzione della propria prestazione – criterio che ben si presta a descrivere il luogo l’effettività dei rapporti di lavoro nei due casi di specie – ha rappresentato la risultante di un processo interpretativo della CGUE che ha contribuito a
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V. in proposito Mattei, La legge applicabile al lavoro transnazionale a partire da un caso recente, in LD, 2013, 3, 455. La Corte affermava in tale pronuncia che le disposizioni della quinta sezione del Regolamento di Bruxelles I (artt. Da 18 a 21) «devono essere interpretate tenendo in debito conto la necessità di garantire un’adeguata tutela al lavoratore in quanto parte contraente più debole». V. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:62011CJ0154&from=IT.
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favorire il lavoratore altresì sotto il profilo della legge applicabile al rapporto di lavoro, regolata attualmente dall’art. 8, comma 2, del Regolamento (CE) sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I) del 17 giugno 2008, n. 593/2008, che si riferisce espressamente al paese nel quale o a partire dal quale il lavoratore svolge abitualmente il proprio lavoro. Tramite la giurisprudenza della Corte si è realizzato, infatti, un progressivo ampliamento del concetto di luogo di esecuzione abituale della prestazione lavorativa, contenuto nell’art. 6, comma 2, lett. a) della Convenzione di Roma I sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (80/934/CEE), aperta alla firma il 19 giugno 1980. Ciò ha probabilmente contribuito a portare alla successiva affermazione, sul piano legislativo, dell’idea per cui ciò debba ricomprendere anche il luogo a partire dal quale il lavoratore svolga la prestazione, come stabilito dall’art. 8, comma 2, del successivo Regolamento di Roma I10.
3. Il significato del «luogo dove il lavoratore svolge
abitualmente la propria attività» nelle pronunce della Corte di Giustizia. Conformemente a quanto osservato dal giudice del rinvio, anche ad avviso della Corte, la clausola attributiva della competenza non è opponibile ai lavoratori ricorrenti, poiché l’art. 21 del Regolamento di Bruxelles I è volto, in generale, ad impedire la validità di clausole di tal genere che siano antecedenti al sorgere della controversia. Solamente in via d’eccezione, ossia quando ciò consenta al lavoratore – in quanto parte debole – di scegliere un foro che ritenga più favorevole di quello invocabile mediante le regole stabilite in via generale dall’art. 19, la legge ammette la validità delle clausole sulla competenza antecedenti al sorgere delle controversia. Evidentemente, questo genere di clausole è opponibile solo al datore di lavoro. Sgomberato il campo da tale precisazione, il Giudice osserva, in via preliminare, che l’interpretazione giurisprudenziale relativa alla Convenzione di Bruxelles del 1968 vale anche rispetto al successivo Regolamento di Bruxelles I n. 44/2001 (C. giust., 17 luglio 2016, Causa C-222/15, Hőszig, punto 30), per l’esigenza di fornire un quadro interpretativo
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Secondo il predetto art. 6 della Convenzione di Roma, per i contratti di lavoro, qualora non sia stata effettuata dalle parti la scelta della legge applicabile (ai sensi del precedente art. 3) e in ogni caso con riferimento alle norme imperative della legge che regolerebbe il contratto in assenza di scelta, si prevede un criterio di selezione della disciplina applicabile che si basa in prima battuta sul paese in cui il lavoratore compie abitualmente il proprio lavoro (anche se inviato temporaneamente altrove) e solo in via suppletiva sul luogo ove il datore di lavoro abbia la propria sede, a meno che il contratto non risulti avere comunque un legame più stretto con un altro paese. L’art. 8 del regolamento di Roma I riprende la logica della norma precedente, ma considera espressamente come luogo di svolgimento abituale della prestazione il paese nel quale «o, in mancanza, a partire dal quale, il lavoratore, in esecuzione del contratto, svolge abitualmente il suo lavoro». Rispetto all’evoluzione che ha portato all’adozione del Regolamento di Roma I, v. Max Planck Institute for Comparative and International Private Law, Comments on the European Commissions’ Proposal for a Regulation of the European Parialment and the Council on the law applicable to contracutal obligations (Rome I), in RabelsZ, 2007, 225 ss. Sulla progressiva comunitarizzazione del diritto internazionale privato, De Cesari, op. cit., 8 ss.
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unitario alla materia. Benché l’art. 5 della prima non contenesse una regola specifica per i rapporti di lavoro, come invece l’art.19 della seconda, la Corte aveva già ritenuto in passato che la logica della Convenzione fosse quella di individuare una regola di competenza autonoma per i contratti di lavoro (C.giust., 10 aprile 2003, C-437/00, Pugliese) rispetto alle altre controversie in materia civile. La possibilità di adoperare l’interpretazione più risalente si rivela utile, in quanto l’art. 5 della Convenzione di Bruxelles è stato interpretato in passato dalla stessa Corte nel senso che, per individuare il luogo con il quale la controversia presenti il nesso più stretto, occorre riferirsi a quello in cui o a partire da cui il lavoratore adempie la parte principale delle proprie obbligazioni (C. giust., 27 febbraio 2000, causa C-37/00, Weber, punto 49). La logica di fondo è, secondo il giudizio della CGUE, quella di tutelare il lavoratore, in quanto contraente più debole, con norme di competenza più favorevoli ai suoi interessi, perché più prossime al luogo in cui egli sia in grado effettivamente di porre in essere un’azione verso la controparte (C. giust. C. giust., 19 luglio 2012, causa C-154/11, Mahamdia, punti 43-45). Pertanto, la possibilità di ampliare il significato di luogo della prestazione in modo favorevole al lavoratore rispecchierebbe tale logica. Al punto 55 della sentenza in commento si trova la vera chiave di volta della decisione, in cui si riconosce la possibilità di far uso altresì della precedente giurisprudenza relativa alla Convenzione di Roma I sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (e successivo Regolamento)11. Ciò è motivato sulla base del fatto che anche la Convenzione di Roma, come quella di Bruxelles (e successivo Regolamento), dettata in materia di competenza giurisdizionale, persegue l’obiettivo di unificare le regole di diritto internazionale privato per le controversie su questioni contrattuali. In questo modo, se anche il conflitto di leggi12 non è in sé oggetto della pronuncia in esame, l’interpretazione della Convenzione di Roma e del Regolamento di Roma I hanno comunque costituito, per il Giudice europeo, un valido appiglio interpretativo, sia nell’ottica di costruire un sistema di regole di diritto internazionale privato coerente nel suo insieme, sia in quella di incrementare il livello di tutela processuale accordato al lavoratore. La giurisprudenza europea, in effetti, tende da tempo ad ampliare la nozione di luogo abituale della prestazione, fino a ricomprendervi anche luogo di partenza e ritorno, al fine di adottare una definizione adeguata a rappresentare la realtà del rapporto di lavoro. La logica perseguita – l’identificazione del luogo con cui la prestazione di lavoro abbia il collegamento più stretto – è assimilabile alla così detta clausola di eccezione europea (o clausola di salvaguardia) contenuta nella Convenzione di Roma all’ultimo comma dell’art. 613. L’adozione di un criterio sostanzialistico consente di evitare che elementi formali, quali
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, Ubertazzi, Il regolamento di Roma I sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, Giuffrè, 2008. Rispetto alle peculiarità del conflitto di leggi nel caso dei lavoratori distaccati, Orlandini, I lavoratori distaccati nell’ambito del mercato dei servizi, in Sciarra (a cura di), Manuale di diritto sociale europeo, Giappichelli, 2000, 232 ss. 13 Come regola di chiusura, la disposizione recita: «a meno che non risulti dall’insieme delle circostanze che il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto con un altro paese. In questo caso si applica la legge di quest’altro paese». Sulla clausola d’eccezione, v. Lloebra Vila, L’art. 8 del Regolamento di Roma I, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, alla luce delle sentenze Koelzsch, Voogsgeerd e Schlecker, in DRI, 2016, 2, 615 ss. 12
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il luogo di assunzione del lavoratore o la bandiera del veicolo, siano strumentalizzabili al fine di “allontanare” la scelta del foro competente da quella del Paese più prossimo al reale svolgimento della prestazione lavorativa. In particolare, nelle decisioni Koelzsch e Voogsgeerd, richiamate nella pronuncia in commento (C. giust. 15 marzo 2011, C‑29/10, punti 46-48 e C. giust. 15 dicembre 2011, C‑384/10) e relative alla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, la giurisprudenza aveva affermato che la Convenzione di Roma deve essere interpretata nel senso che consente di realizzare in concreto il favor laboratoris (rectius, prestatoris). Per questa ragione, la Corte riteneva che la regola di conflitto contenuta nella convenzione di Roma, che si riferiva allora al luogo di svolgimento della prestazione (e non ancora espressamente a quello a partire dal quale, il lavoratore, in esecuzione del contratto, svolge abitualmente il suo lavoro, come farà successivamente l’art. 8 del Regolamento di Roma I), avrebbe dovuto essere interpretata in senso ampio, considerando anche i luoghi di partenza e di ritorno del lavoratore (Koelzsch, 46-48; Voogsgeerd, punto 35). Si consideri che nel caso Koelzsch l’avvocato generale V. Trstenjak (punti 51-57 della relazione), pur vertendo la causa sull’interpretazione della legge applicabile al rapporto, aveva preso in esame la giurisprudenza relativa alla Convenzione di Bruxelles sulla competenza giurisdizionale (C. Giust.13 luglio 1993, C-125/92, Mulox; 9 gennaio 1997, Rutten, C-383/95, Rutten; C. giust., 17 febbraio 2002, C-37/00, Weber e Pugliese, cit.)14, in cui si ampliava il concetto di luogo di svolgimento della prestazione contenuto nell’art. 5, punto 1, della Convenzione di Bruxelles. Ad avviso dell’avvocato generale (punti 58 ss.), e conformemente a quanto poi stabilito dalla pronuncia del Giudice, lo stesso ragionamento valido per l’ampliamento del criterio rispetto all’art. 5, punto 1 della Convenzione di Bruxelles sarebbe stato applicabile anche all’analogo criterio dell’art. 6, n. 2, lett. a) della Convezione di Roma. In qualche modo, si può osservare che il cerchio si è chiuso e, come ricorda la stessa pronuncia in commento, è ormai un orientamento consolidato – rispetto sia alla legge applicabile che al foro competente – quello per cui il criterio dello Stato membro in cui il lavoratore svolga abitualmente la propria attività debba essere interpretato in senso ampio, in modo da garantire un’adeguata tutela processuale al lavoratore (la Corte cita, ad adiuvandum, C.giust. 12 settembre 2013, C‑64/12, Schlecker). Inoltre, si potrebbe aggiungere che il Regolamento di Roma I, all’art. 8, prende in considerazione espressamente il luogo a partire dal quale sia svolta la prestazione, fornendo una base ancora più solida al ragionamento. Se il “favore processuale” verso il lavoratore deve essere interpretato in modo simile per la legge applicabile e per il foro competente, allora si deve ritenere che l’art. 19, comma 2, del Regolamento di Bruxelles I consente la scelta del giudice del foro del luogo di partenza e di ritorno abituale dell’operatore del
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Queste pronunce ribaltavano il precedente orientamento restrittivo adottato dalla Corte nelle cause De Bloos e Tessili, entrambe del 6 ottobre 1976, enumerate rispettivamente C-14/76 e C-12/76. Un ragionamento analogo si trova all’interno della menzionata pronuncia Mahamdia del 2012, segno che l’orientamento si è progressivamente consolidato.
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servizio aereo, ove ciò gli consenta di adire il foro effettivamente più prossimo alla realtà del suo rapporto di lavoro. Il ragionamento analogico non è stato ritenuto applicabile dalla Corte rispetto alla possibilità di riferirsi alla nozione di «base di servizio», contenuta nell’allegato III del Regolamento n. 3922/91, poiché tale disciplina persegue un diverso scopo: non favorire il lavoratore, ma armonizzare le regole in materia di sicurezza dell’aviazione civile. Tuttavia, a parere della Corte, quella di base di servizio è una nozione che può essere utile all’interprete dal punto di vista indiziario, al fine di identificare il luogo con il quale la prestazione lavorativa presenti il suo nesso più significativo. In definitiva, la CGUE conclude nel senso che l’art. 19, punto 2, lett. a) del Regolamento di Bruxelles I deve essere interpretato nel senso che il riferimento al luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività non è equiparabile alla nozione di base di servizio, contenuta nell’allegato III del Regolamento (CEE) n. 3922/91, ma che quest’ultima costituisce nondimeno un indizio significativo per determinare la prima. Poiché costituisce base di servizio, ai sensi del predetto allegato, il luogo designato dall’operatore per ogni membro dell’equipaggio, dal quale il lavoratore deve iniziare e concludere un periodo di servizio o una serie di periodi di servizio, è evidente che, nel caso in cui ciò coincida con il luogo in cui abitualmente il lavoratore presti la propria attività, le due nozioni vengono di fatto a coincidere. Tale soluzione amplia, pertanto, il criterio di conflitto previsto a favore del lavoratore all’interno del summenzionato art. 19, punto 2, lett. a) del Regolamento di Bruxelles I. Si tratta a questo punto di chiarire con maggiore esattezza cosa debba intendersi per “favore” in materia di individuazione del foro competente.
4. Il favor prestatoris nel diritto internazionale privato “comunitarizzato”.
Se per principio di favore si vuole intendere l’idea classica per il giuslavorista, ossia quella per cui l’ordinamento ha il compito di tutelare la posizione del lavoratore rispetto agli interessi della ben più forte controparte contrattuale15, una simile logica non emerge direttamente né dal testo né dai considerando che precedono la Convenzione di Bruxelles del 1968 e il Regolamento di Bruxelles I, applicabili ai fatti di cui è causa. Il principio cardine delle regole che hanno uniformato alcuni aspetti del diritto internazionale privato16 – centrale anche nel successivo Regolamento di Bruxelles Ibis – è contenuto
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Imprescindibili sul tema, Cessari, Il favor verso il prestatore di lavoro subordinato, Giuffrè, 1966; Simi, Il favore dell’ordinamento giuridico per i lavoratori, Giuffrè, 1967. 16 A seguito del Trattato di Amsterdam, l’art. art. 65 TCE, ora 81 TFUE, sono state attribuite all’allora Comunità Europea le competenze necessarie ad una effettiva unificazione delle regole di diritto internazionale privato in materia di conflitto di leggi e competenza giurisdizionale. V. Luzzatto, Riflessioni sulla c.d. comunitarizzazione del diritto internazionale privato, in Venturini, Bariatti (a cura di), Nuovi strumenti del diritto internazionale privato, Liber Fausto Pocar, Giuffrè, 2009, 613 ss.
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nei considerando n. 11 e 12 del Regolamento di Bruxelles I, dai quali emerge, rispettivamente, che «le norme sulla competenza devono presentare un alto grado di prevedibilità ed articolarsi intorno al principio della competenza del giudice del domicilio del convenuto» e che, tuttavia, ciò «deve essere completato attraverso la previsione di fori alternativi, ammessi in base al collegamento stretto fra l’organo giurisdizionale e la controversia». In questo senso, probabilmente, risulta più corretto parlare di principio di prossimità che di favore17, in quanto il meccanismo di individuazione del foro competente permette semplicemente al lavoratore di scegliere se adire il datore presso il domicilio di questi o presso il foro del luogo in cui sia stata in prevalenza svolta l’attività lavorativa, ma non ha alcuna attinenza con il contenuto della tutela accordata al lavoratore. Del resto, questa è una tecnica normativa caratteristica anche della scelta della legge applicabile al rapporto di lavoro, in base a quanto desumibile dal Regolamento di Roma I. Infatti, in proposito, la regola generale è quella della scelta negoziale della disciplina da parte dei contraenti, salve le norme a cui non è possibile derogare convenzionalmente, per le quali si applica la disciplina del Paese nel quale o a partire dal quale il lavoratore svolga abitualmente il proprio lavoro o rispetto al quale il rapporto di lavoro presenti il collegamento più stretto. Tuttavia, l’individuazione di questo nucleo di norme, da un lato, pone numerosi dubbi interpretativi (se non altro per la rilevanza costituzionale del diritto del lavoro in vari ordinamenti); dall’altro, non può garantire che la disciplina inderogabile all’interno di un determinato paese corrisponda a quella di maggiore tutela per il lavoratore18. C’è da aggiungere che, nonostante i progressi interpretativi compiuti dalla Corte di Giustizia sulle norme che non sono derogabili convenzionalmente, per il resto, la tutela sostanziale, ossia quella legata alla scelta della regola più favorevole (non del foro più prossimo), è lasciata, nel diritto internazionale privato, alle norme di applicazione necessaria, che prevalgono sulle altre indipendentemente dalle regole di conflitto. Ai sensi dell’art. 9, Regolamento di Roma I) esse sono attualmente definite come «disposizioni il cui rispetto è ritenuto cruciale da un paese per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali la sua organizzazione politica, sociale o economica, al punto da esigerne l’applicazione a tutte le situazioni che rientrino nel loro campo d’applicazione, qualunque sia la legge applicabile al contratto» e devono essere interpretate in senso restrittivo, senza che vi possa rientrare tout court la disciplina posta a tutela del lavoratore subordinato19. Per queste ragioni, è stato scritto in proposito che «il processo di trasformazione della Convenzione di Roma in uno strumento comunitario» (con l’approvazione del Regolamento di Roma I) ci consegna un meccanismo che resta improntato «alla c.d. giustizia
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La distinzione è di Lagarde, Le principe de proximité dans le droit international privé contemporain: cours général de droit international privé, M. Nijhoff, 1987, ripreso anche da Orlandini, op. cit., 10. 18 Sulla complessità delle interpretazioni possibili delle regole di soluzione del conflitto di leggi v. Krebber, Conflict of laws in employment in Europe, in Comp. Labor Law & Pol’y Journal, 2000, 501 ss. 19 Bonomi, Prime considerazioni sul regie delle norme di applicazione necessaria nel nuovo Regolamento Roma I sulla legge applicabile ai contratti, in Venturini, Bariatti (a cura di), Nuovi strumenti del diritto internazionale privato, Liber Fausto Pocar, Giuffrè, 2009, 107 ss.
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internazionalprivatistica piuttosto che al metodo della giustizia c.d. materiale»20. In effetti, «l’identità tra ius e forum, malgrado i vantaggi (…), non sempre è in grado di condurre alla massima protezione del lavoratore»21, perché non rappresenta una regola di giustizia sostanziale. Essa persegue il diverso obiettivo di rendere unitarie e prevedibili le regole applicabili al contratto e bilancia tale esigenza con una minima salvaguardia di quei principi che siano ritenuti fondamentali all’interno dei diversi ordinamenti giuridici europei. È vero che per il lavoratore esiste un occhio di riguardo, una regola eccezionale, nel diritto internazionale privato comunitario, rispetto alla scelta della legge applicabile o del foro competente; ma questa preferenza si limita a tutelare la posizione di contraente debole sotto il profilo processuale e nulla dice – del resto, il diritto internazionale privato di per sé ha una funzione di mero coordinamento – dal punto di vista dei contenuti delle garanzie accordate al lavoratore subordinato. Tornando alla questione del foro competente – per sua natura, lo si ribadisce, la meno incisiva sulla tutela sostanziale della parte debole – si può certamente ritenere che la soluzione adottata dalla Corte di Giustizia sul luogo abituale di svolgimento della prestazione agevoli la scelta del lavoratore di agire in giudizio; peraltro, l’esistenza di un orientamento piuttosto consolidato elimina quei dubbi interpretativi che in passato avevano dato luogo alle soluzioni nazionali più disparate da parte della giurisprudenza nazionale22. Tuttavia, la portata della decisione non deve essere caricata eccessivamente di significato, come è stato fatto dai giornali nell’immediato (non senza una certa confusione fra la questione del foro competente e quella della legge applicabile al rapporto)23. Se colossi come la Ryanair, che basano la propria competitività sulle strategie di abbassamento dei costi (anche del lavoro)24, hanno modo di gestire la legge applicabile al contratto, la sentenza in commento ricorda un po’ la vecchia favola di Esopo sulla montagna che partorì, in fin dei conti, un topolino. Il problema di fondo è ben più complesso e la Corte di Giustizia – suo malgrado? – non può scalfirlo, giocando con queste carte, in alcun modo: l’«esclusività territoriale del diritto»25 si scontra con una sempre maggiore a-territorialità delle prestazioni lavorative. Resta così difficile comprendere, anche dopo le sentenze sul recente caso Ryanair, se e quali possano essere meccanismi di tutela effettivi accordati dalla legge ad un lavoratore la cui relazione contrattuale si svolge nel crocevia (in questo caso, aereo) fra Stati membri differenti. Cinzia Carta
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Clerici, Quale favor per il lavoratore nel Regolamento Roma I?, in Venturini, Bariatti (a cura di), Nuovi strumenti del diritto internazionale privato, Liber Fausto Pocar, Giuffrè, 2009, 224-226. 21 Clerici, op. cit., 229. 22 V. Amici, Forum loci executionis e contratto internazionale di lavoro, in RIDL, 2010, II, 653 ss., in cui le SS.UU. decidevano in modo diametralmente opposto a quanto stabilito dalla pronuncia in commento; o, in materia previdenziale, Frosecchi, La legge previdenziale applicabile ai lavoratori di compagnie aeree internazionali. I casi Ryanair, in RGL, 2016, 1, II, 105 ss. 23 Si cita, per esempio, l’articolo pubblicato il 14 settembre 2017, Lillo, La Corte di giustizia Ue contro Ryanair: “Non può imporre al personale la legge irlandese”. La sentenza dei giudici di Lussemburgo potrebbe avere ripercussioni per il settore aereo low cost, http://www.lastampa.it/2017/09/14/ esteri/la-corte-di-giustizia-ue-contro-ryanair-non-pu-imporre-al-personale-la-legge-irlandese-B9XyKSXTdQH8mIGZjfdmrK/pagina.html 24 V. Creaton, Ryanair. Il prezzo del low-cost, Egea, 2008. Sulla conquista dei cieli europei da parte della compagnia, v. in particolare le pagine 155 ss. 25 Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, 2006, 156.
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Giurisprudenza Corte di Cassazione , sez. un., sentenza 6 giugno 2017, n. 13978; Pres. Rordorf – Est. Manna – P.M. Matera (concl. conf.) – Alenia Aermacchi S.p.a. (avv. Morrico e Cosentino) c. FIOM - CGIL – Comprensorio territoriale di (– Omissis.) (avv. Garzilli e Lauri). Cassa App. Napoli, sent. n. 2240/2012. Assemblea – RSU – RSA – A.I. del 20 dicembre 1993 – Art. 20 St. lav. – T.U. del 10 gennaio 2014 – Prerogative del componente di RSU – Legge sulla rappresentanza sindacale.
Ai sensi dell’accordo interconfederale del 20 dicembre 1993, il riconoscimento pattizio delle prerogative del Titolo III St. lav. al singolo rappresentante sindacale non è limitato solo a quelle attribuite ai singoli dirigenti delle RSA, e si estende a quelle riconosciute alle RSA, quale il diritto di indire l’assemblea ex art. 20 Statuto dei Lavoratori. Pertanto, nell’ottica dell’accordo interconfederale, una data associazione sindacale, malgrado la sua presenza all’interno della RSU, può anche singolarmente indire l’assemblea, in quanto non tutti i diritti attribuiti dalla legge alla singola RSA sono stati attratti e si sono disgregati all’interno delle RSU. Svolgimento del processo. – 1. Con sentenza pubblicata il 27.7.12 la Corte d’appello di Napoli, in totale riforma della sentenza di rigetto emessa dal Tribunale di Nola e in accoglimento della domanda L. n. 300 del 1970, ex art. 28 proposta da FIOM-CGIL, Comprensorio territoriale di – Omissis. –, ha dichiarato il carattere antisindacale del comportamento di Alenia Aeronautica S.p.A. consistito nel rifiuto della richiesta di assemblea retribuita avanzata da FIOM-CGIL per la data del 17 ottobre 2002. Per l’effetto, ha ordinato alla società la cessazione di tale condotta e la rimozione di ogni suo effetto o conseguenza economica e normativa. 2. Hanno statuito i giudici d’appello che, sebbene il combinato disposto della L. n. 300 del 1970, artt. 19 e 20 attribuisca alle rappresentanze sindacali aziendali (qui di seguito, anche, RSA) di cui allo stesso art. 19, come organismi distinti dai singoli dirigenti sindacali che le compongono, la legittimazione a chiedere assemblee retribuite dei lavoratori, nondimeno l’autonomia contrattuale collettiva ben può prevedere organismi di rappresentanza, quali le rappresentanze sindacali unitarie (qui di seguito, anche, RSU) di cui all’accordo interconfederale 20.12.1993, diversi da quelli del cit. art. 19 e attribuire loro prerogative sindacali (come il diritto di indire assemblee retribuite) non necessariamente identiche a quelle delle RSA (fermo restando il limite di non introdurre ingiustificate posizioni differenziate a favore d’una data organizzazione sindacale quale interlocutore privilegiato del datore di lavoro). 3. Per la cassazione della sentenza ricorre Alenia Aermacchi S.p.A. – Omissis. – affidandosi a tre motivi. 4. FIOM-CGIL, Comprensorio territoriale di – Omissis. –, resiste con controricorso.
5. Con ordinanza interlocutoria n. 24443/2016, la sezione lavoro ha rilevato un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte Suprema riguardo all’individuazione dei soggetti legittimati ad esercitare il diritto di chiedere assemblee retribuite L. n. 300 del 1970, ex art. 20 e, per l’effetto, ha rimesso il ricorso al Primo Presidente, il quale lo ha poi assegnato alle sezioni unite – Omissis. Motivi della decisione. – 1.1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5 e 7 dell’Accordo Interconfederale del 20.12.1993 e della L. n. 300 del 1970, artt. 19 e 20, là dove la sentenza impugnata, dopo avere ripercorso i due fondamentali indirizzi formatisi in tema di interpretazione dell’art. 20 cit., fa riferimento alla pronuncia n. 1895/2005 di questa S.C., secondo cui non può escludersi che il singolo componente della rappresentanza sindacale unitaria possa indire l’assemblea dei lavoratori L. n. 300 del 1970, ex art. 20, poiché l’autonomia contrattuale può prevedere organismi di rappresentatività sindacale in azienda – quali le RSU dell’accordo interconfederale del 20.12.1993 – diversi rispetto alle RSA di cui all’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori e può assegnare prerogative sindacali (quali il diritto di chiedere l’assemblea) non necessariamente identiche a quelle delle RSA medesime. La conclusione cui perviene la sentenza è che in questo sistema, per impedire l’uso poco responsabile del diritto di indire l’assemblea, è stato stabilito che le riunioni possano essere convocate dalle RSA – cui sono subentrate le RSU – congiuntamente o singolarmente e che sulla stessa linea si pone l’art. 4 dell’accordo interconfederale del 13.12.1993.
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Obietta, invece, la società ricorrente che tale esito interpretativo non è conforme al tenore letterale né del citato accordo interconfederale né della L. n. 300 del 1970, art. 20, atteso che, nella logica statutaria, ogni RSA è dotata di una propria soggettività destinata, in ipotesi di unificazione delle singole RSA in un organismo che le inglobi, a dissolversi in quella del nuovo organismo; pertanto – prosegue il ricorso – il punto focale è valutare se la creazione d’un nuovo organismo rappresentativo come le RSU implichi la perdita di soggettività delle sigle che lo compongono o, se, viceversa, le stesse conservino intatta la propria soggettività, tenendo conto altresì del fatto che, ai sensi dell’art. 20, il diritto di indire l’assemblea non si configura come un diritto individuale, ma collettivo, che spetta non al singolo, ma alla RSA. 1.2. Con il secondo mezzo si lamenta vizio di motivazione, perché la Corte di merito non ha affrontato il problema del superamento o meno del monte ore da parte di una singola componente delle RSU o da parte di quest’organo nella sua collegialità, dando per assodato che, in mancanza di contestazioni da parte aziendale circa il superamento del monte ore annuo anche con riferimento al limite delle tre ore, la richiesta di indire un’assemblea (nei termini sopra esplicitati) debba ritenersi legittima; in tal modo è stato omesso – prosegue il ricorso – l’esame d’un fatto decisivo consistente nell’avvenuto superamento del limite delle tre ore annue a disposizione delle singole sigle sindacali, superamento specificamente riportato nella memoria difensiva della società sia nella fase a cognizione sommaria che nella memoria di appello. 1.3. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., perché la Corte territoriale, muovendo dall’erroneo presupposto che la società non avesse avanzato perplessità circa il superamento del monte ore annuo, ha trascurato una circostanza decisiva e tempestivamente allegata dalla società che, anzi, non era stata specificamente contestata dall’organizzazione sindacale (odierna controricorrente). 2.1. Osserva questa S.C. che il primo motivo di ricorso è infondato. La società ricorrente ha respinto la richiesta di assemblea per cui è causa perché proveniente da una sola componente della RSU presente in azienda (ossia da FIOM-CGIL) anziché dalla sua composizione unitaria. Il problema sottoposto all’attenzione delle sezioni unite – se debba riconoscersi il diritto di convocare l’assemblea sindacale di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 20, oltre che alle RSU come organo collegiale, anche alle sue singole componenti – ha ricevuto soluzioni non univoche da parte di questa Suprema Corte. Inizialmente la sentenza n. 2855/2002 ha affermato la natura di organo collegiale delle RSU, chiamate a deliberare a maggioranza e in piena autonomia sulle scelte di politica sindacale e di esercizio dei relativi
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diritti nell’ambito dell’unità produttiva, negando che la sua singola componente (come, nel caso di specie, quella facente capo a FIOM CGIL) possa esercitare autonomamente il potere di indire l’assemblea. Secondo altro orientamento, espresso da Cass. n. 1892/2005, in tema di rappresentatività sindacale l’autonomia collettiva può prevedere organismi di rappresentanza (quali le RSU di cui al cit. accordo interconfederale 20.12.1993) diversi rispetto alle rappresentanze sindacali aziendali di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 19 e assegnare loro prerogative sindacali (quali il diritto di indire l’assemblea sindacale) non necessariamente identiche a quelle delle RSA (sempre con il limite, desumibile dall’art. 17 della stessa L. n. 300, del divieto di riconoscere ad un sindacato un’ingiustificata posizione differenziata che lo collochi quale interlocutore privilegiato del datore di lavoro). É poi intervenuta la sentenza n. 21909/2009, con cui la Corte ha ritenuto esente da vizi logico-giuridici l’interpretazione dell’accordo interconfederale 20.12.93 fornita dai giudici di merito – Omissis. – secondo la quale esso prevede il subentro dei singoli componenti della RSU nei diritti e nelle prerogative che lo Statuto dei Lavoratori riconosce non alle RSA, ma ai loro dirigenti come singole persone, escluso – quindi – il diritto di indire l’assemblea. L’orientamento successivamente espresso da Cass. n. 15437/2014 (subito condiviso da Cass. n. 17458/14), invece, riprendendo Cass. n. 1892/2005, attribuisce il diritto di indire assemblee, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 20, non solo alla RSU considerata collegialmente, ma anche a ciascun suo componente purché eletto nelle liste di un sindacato che, nell’azienda di riferimento, sia di fatto munito di rappresentatività ai sensi dell’art. 19 della L. n. 300 citata, quale risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013. 2.2. Le fonti legislative e contrattuali direttamente rilevanti nella presente controversia sono la L. n. 300 del 1970, art. 19, comma 1, e la L. n. 300 del 1970, art. 20, nonché gli artt. 4, 5 e 7 dell’accordo interconfederale 20.12.1993. Recita l’art. 19 (nel testo risultante dall’esito referendario dell’11.6.1995): «Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito: ... b) delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva». La Corte costituzionale, con sentenza 3-23 luglio 2013, n. 231, ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale della lettera b) del cit. art. 19 nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla loro negoziazione quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda.
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Dispone il successivo art. 20: «I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori dell’orario di lavoro, nonché durante l’orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere stabilite dalla contrattazione collettiva. Le riunioni – che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi – sono indette, singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell’unità produttiva, con ordine del giorno su materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l’ordine di precedenza delle convocazioni, comunicate al datore di lavoro. Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale. Ulteriori modalità per l’esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro, anche aziendali». L’art. 4 dell’accordo interconfederale 20.12.1993 prevede quanto segue: «I componenti delle RSU subentrano ai dirigenti delle RSA nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti; per effetto delle disposizioni di cui al titolo 3 della L. n. 300 del 1970. Sono fatte salve le condizioni di miglior favore eventualmente già previste nei confronti delle associazioni sindacali dai CCNL o accordi collettivi di diverso livello, in materia di numero dei dirigenti della RSA, diritti, permessi e libertà sindacali. Nelle stesse sedi negoziali si procederà, nel principio dell’invarianza dei costi, all’armonizzazione nell’ambito dei singoli istituti contrattuali, anche in ordine alla quota eventualmente da trasferire ai componenti della RSU. In tale occasione, sempre nel rispetto dei principi sopra concordati, le parti definiranno in via prioritaria soluzioni in base alle quali le singole condizioni di miglior favore dovranno permettere alle organizzazioni sindacali con le quali si erano convenute, di mantenere una specifica agibilità sindacale. In tale ambito sono fatti salvi in favore delle organizzazioni aderenti alle associazioni sindacali stipulanti il CCNL applicato nell’unità produttiva, i seguenti diritti: a) diritto ad indire, singolarmente o congiuntamente l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue retribuite, spettanti a ciascun lavoratore L. n. 300 del 1970, ex art. 20; b) diritto ai permessi non retribuiti di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 24; c) diritto di affissione di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 25». Recita, poi, il successivo art. 5: «Le RSU subentrano alle RSA ed ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni ad essi spettanti per effetto di disposizioni di legge.
La RSU e le competenti strutture territoriali delle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro, possono stipulare il contratto collettivo aziendale di lavoro nelle materie, con le procedure, modalità e nei limiti stabiliti dal contratto collettivo nazionale applicato nell’unità produttiva». Dispone, infine, l’art. 7 (sempre del citato accordo interconfederale): «Le decisioni relative a materie di competenza delle r. s. u. sono assunte dalle stesse in base ai criteri previsti da intese definite dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori stipulanti il presente accordo». Nel caso di specie non è, invece, direttamente applicabile (ratione temporis, atteso che all’origine della presente controversia vi è una richiesta di indizione di assemblea che risale all’ottobre 2002) l’accordo interconfederale contenente il t.u. sulla rappresentanza sindacale del 10.1.14 (su ciò v. infra). 2.3. Il tenore letterale dell’art. 20 cit. è nel senso che l’indizione dell’assemblea può avvenire «singolarmente o congiuntamente» da parte delle RSA di cui al precedente art. 19. Dunque, nell’originaria ottica statutaria la legittimazione a chiedere l’assemblea è sicuramente (anche) della singola rappresentanza. A sua volta l’art. 4, comma 1, del cit. accordo interconfederale 20.12.93 stabilisce che i componenti delle RSU subentrano ai dirigenti delle RSA nella titolarità dei diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti per effetto delle disposizioni di cui al titolo III della L. n. 300 del 1970 (la clausola si riferisce ai diritti dei singoli lavoratori dirigenti di RSA e opera su un piano di tutele squisitamente personali), mentre il successivo art. 5, comma 1, prevede che alle RSA e ai loro dirigenti subentrino le RSU. Il precedente costituito da Cass. n. 2855/02 ricava il diniego del diritto della singola organizzazione (SLAI COBAS, in quel caso) di indire l’assemblea dal non essere tale sindacato firmatario di contratto alcuno applicato in azienda. Dunque, si tratta d’un caso particolare maturato, per di più, in un contesto normativo ormai venuto meno a seguito della cit. sentenza n. 231/2013 della Corte cost. (in virtù della quale per poter costituire una RSA basta che l’associazione sindacale abbia comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti collettivi applicati in azienda, sebbene poi – in ipotesi – da essa non sottoscritti). In breve, la sentenza n. 2855/02, pur affermando la natura collegiale delle RSU previste dal cit. accordo interconfederale 20.12.93, in realtà sfiora, ma non affronta direttamente il tema che si dibatte in questa sede. Lo affrontano, invece, i successivi arresti giurisprudenziali ricordati nel paragrafo che precede. In particolare, Cass. n. 1892/2005 e Cass. n. 15437/2014 esprimono un orientamento interpretativo
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che queste sezioni unite ritengono di dover condividere. Osserva la sentenza n. 1892/05 che nel testo del cit. accordo interconfederale del 20.12.93 nulla autorizza a ritenere che il riconoscimento pattizio delle prerogative sindacali sia limitato solo a quelle (come le prerogative di cui alla L. n. 300 del 1970, artt. 22, 23 e 24) attribuite alle persone dei singoli dirigenti delle RSA e non si estenda anche a quelle riconosciute alle RSA (quale il diritto di indire l’assemblea ex art. 20). L’ampia formulazione dell’art. 5 cit. («Le RSU subentrano alle RSA ed ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni ad essi spettanti per effetto di disposizioni di legge») suggerisce, anzi, il contrario. Certa dottrina ha anche ipotizzato che il riconoscimento alla singola componente della RSU – e non (solo) a quest’ultima come organismo a funzionamento collegiale – del diritto di indire l’assemblea possa ricavarsi dall’uso del plurale nell’art. 5 cit., là dove ci si riferisce alle rappresentanze sindacali unitarie. Tuttavia è un argomento letterale abbastanza debole, ben potendo essere compatibile con il riferimento non al fenomeno del subentro in sé, ma alle numerose RSU destinate ad essere presenti nelle varie realtà aziendali del Paese. A sua volta, il combinato disposto dell’art. 20 cit. (là dove afferma che le riunioni sindacali possono essere convocate «singolarmente o congiuntamente») e dell’art. 5 cit. (per cui le RSU sono subentrate alle RSA e ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni che la legge conferisce loro), non fa emergere alcun aggancio letterale che possa far ritenere che tale subentro sia sì avvenuto, ma con contestuale mutamento di quella legittimazione ad indire l’assemblea che il cit. art. 20 espressamente prevedeva (e ancora oggi prevede) come non necessariamente congiunta. Bisogna allora domandarsi se tale legittimazione congiunta (rectius, collegiale all’interno di una RSU), portato ineluttabile di tale subentro e della natura elettiva delle RSU, risulti incompatibile con il permanere di quella legittimazione (anche) singola a chiedere l’assemblea che resta delineata all’interno dell’immutato art. 20. La questione risiede non nella natura collegiale delle RSU alla stregua di composizione, durata e rinnovo disciplinati dal successivo art. 6 stesso a.i., bensì nella verifica se, accanto alle competenze delle RSU proprie di tale organismo, persistano prerogative proprie delle sue singole componenti, in quanto tali esercitabili anche singolarmente e non necessariamente congiuntamente. In quest’ultimo senso deve ritenersi dirimente il comma 5 dell’art. 4 del cit. accordo interconfederale, là dove fa salvo – fra gli altri – in favore delle organizzazioni aderenti alle associazioni sindacali stipulanti il
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CCNL applicato nell’unità produttiva il diritto di indire, singolarmente o congiuntamente, l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue. Si consideri la scansione dell’articolo. Il comma 1 prevede il subentro dei componenti delle RSU ai dirigenti delle RSA nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti per effetto delle disposizioni di cui al titolo III della L. n. 300 del 1970. Tutti i commi che seguono prevedono eccezioni e puntualizzazioni rispetto a tale generale subentro. I commi 2, 3 e 4 si occupano delle condizioni di miglior favore eventualmente già previste a livello contrattuale nei confronti delle associazioni sindacali dai CCNL o accordi collettivi di diverso livello, in materia di numero dei dirigenti della RSA, diritti, permessi e libertà sindacali e delle successive armonizzazioni negoziali nell’ambito dei singoli istituti contrattuali. Assai significativo è il comma 4, che prosegue in tale regime di eccezione stabilendo che le parti definiranno in via prioritaria soluzioni in base alle quali le singole condizioni di miglior favore dovranno permettere alle organizzazioni sindacali, con le quali si erano convenute, di mantenere una “specifica agibilità sindacale”. Il mantenere una “specifica” agibilità sindacale delle singole organizzazioni e il salvare, al successivo comma 5, il diritto di indire, singolarmente o congiuntamente, l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue, delinea un quadro di esplicite eccezioni rispetto al comma 1, esplicite eccezioni che smentiscono l’ipotesi ricostruttiva secondo cui le prerogative delle singole RSA si sarebbero tutte confuse e dissolte all’interno del principio di maggioranza che regge le RSU. Ciò vuol dire che nell’ottica del cit. accordo interconfederale una data associazione sindacale, malgrado la sua presenza all’interno della RSU, può anche singolarmente indire l’assemblea, ovvero che non tutti i diritti attribuiti dalla legge alla singola RSA sono stati attratti e si sono disgregati all’interno delle RSU. Anche il successivo art. 5 cit. («Le RSU subentrano alle RSA ed ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni ad essi spettanti per effetto di disposizioni di legge») va letto tenendo presente il regime di esplicite eccezioni di cui al comma 5 del precedente art. 4. L’esplicita eccezione in tema di assemblea (oltre che di permessi non retribuiti e di diritto di affissione) prevista in tale ultima clausola non è una sorta di infortunio lessicale, ma una soluzione di compromesso (all’interno dello schieramento dei sindacati dei lavoratori) perfettamente spiegabile proprio alla luce della matrice storica dell’accordo interconfederale in discorso.
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Infatti, la logica unitaria posta a monte dell’accordo poteva comportare un arretramento di spazi di “specifica agibilità sindacale” per quelle associazioni che – essendo stipulanti il CCNL applicato nell’unità produttiva e, in quanto tali, già munite del diritto di costituire RSA e, conseguentemente, di indire singolarmente l’assemblea ai sensi del combinato disposto dell’art. 20, comma 2, e dell’art. 19, comma 1, lett. b) – avrebbero potuto nutrire più d’una remora rispetto al subentro delle RSU, remore superate una volta assicurata la salvaguardia di già acquisite condizioni di miglior favore di origine sia negoziale che legislativa. Non tragga, poi, in inganno il riferimento alle associazioni stipulanti il CCNL applicato nell’unità produttiva, poiché esso ben si spiegava alla luce del previgente L. n. 300 del 1970, art. 19 che, prima della cit. sentenza n. 231/13 della Corte cost., vedeva ancora l’essere l’associazione firmataria di contratti applicati all’interno dell’unità produttiva come uno dei criteri attributivi del diritto di costituire una propria RSA, tale da far godere, grazie al combinato disposto con il successivo art. 20, del diritto (esercitabile anche singolarmente da parte della rappresentanza medesima) di indire l’assemblea. Insomma, il riferimento alle associazioni firmatarie di contratti applicati all’interno dell’unità produttiva è una mera riproduzione del criterio legislativo contenuto nell’art. 19, comma 1, lett. b), dello Statuto dei lavoratori. Ma ora che la sentenza n. 231/13 ha previsto un ulteriore criterio di rappresentatività (non più soltanto l’essere la singola organizzazione firmataria di contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, ma anche il solo aver partecipato alla relativa negoziazione), è del tutto naturale che esso si riverberi pure sull’interpretazione del comma 5 dell’art. 4 cit., che ha lo scopo dichiarato di salvaguardare condizioni di miglior favore maturate in via di contratto collettivo o di disposizione normativa. 2.4. Nessuna delle obiezioni mosse alla dirimente portata interpretativa della clausola di cui al cit. art. 4, comma 5, regge ad un’approfondita disamina. Sotto un profilo strettamente letterale è neutra la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 8 stesso accordo interconfederale, secondo la quale le organizzazioni di cui all’art. 19 cit., firmatarie dell’accordo medesimo o comunque ad esso aderenti, partecipando alla procedura di elezione della RSU rinunciano formalmente ed espressamente a costituire RSA ai sensi del medesimo art. 19. Infatti, la clausola può avere tanto il significato di evitare che le organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo interconfederale o che comunque vi aderiscano finiscano, mantenendo proprie RSA, con il far proliferare in maniera incontrollata organismi di rappresentanza sindacale all’interno dei luoghi di lavoro (con sovrapposizione di competenze e sostanziale impossibilità di far funzionare quelle stesse RSU cui pure
hanno deciso di partecipare), quanto quello di rinunciare alle prerogative che la legge (v. ad esempio l’art. 20 cit.) riconosce alla singola rappresentanza sindacale (ormai confluita nella RSU). Ma quest’ultima esegesi sostanzialmente collide con il summenzionato art. 4, comma 5, dello stesso accordo interconfederale, così dando luogo ad una insolubile aporia all’interno del medesimo testo negoziale: infatti, non si vede come far convivere la legittimazione ad indire l’assemblea anche in capo alla singola associazione firmataria di contratti applicati all’interno dell’unità produttiva con la rinuncia alle prerogative (compresa quella dell’art. 20) che la legge riconosce alla singola rappresentanza sindacale e, quindi, al sindacato di cui è emanazione. La prima opzione interpretativa, invece, consente di mantenere, sotto un profilo sistematico, quella coerenza interna dell’accordo doverosa in un approccio ermeneutico che rispetti l’art. 1363 cod. civ. Né la clausola dell’art. 4, comma 5, cit. può riferirsi, come pure si è supposto in dottrina, alle organizzazioni “esterne” alla RSU, ossia a quelle che, pur munite di rappresentatività (perché firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva o, oggi, perché anche soltanto partecipi della relativa negoziazione), tuttavia non facciano parte (per le più svariate ragioni) della RSU presente in azienda. Siffatta esegesi attribuirebbe all’accordo interconfederale 20.12.93 una valenza, appunto, esterna, vale a dire quella di “riservare” il diritto di indire, anche solo singolarmente, l’assemblea (per 3 delle 10 ore annue retribuite), nonché di godere dei permessi retribuiti e del diritto di affissione, alle confederazioni non firmatarie dell’accordo del 20.12.93 e/o alle organizzazioni che, pur aderendo a tali confederazioni firmatarie, nondimeno in concreto restino al di fuori di una o più delle RSU costituite all’interno delle varie aziende. Ma una valenza esterna, proprio perché tale, mal si concilia con un testo avente natura pur sempre negoziale. Infatti, le parti stipulanti dell’accordo interconfederale del 20.12.93 non avrebbero mai potuto riservare diritti (peraltro già esistenti a livello legislativo) a parti non stipulanti, cioè a terzi, perché res inter alios acta, tertio neque nocet neque prodest. Neppure si può dire che l’abbiano fatto in favore delle organizzazioni che, pur aderendo a tali confederazioni stipulanti, nondimeno in concreto siano rimaste al di fuori di una o più delle RSU costituite all’interno delle varie aziende: in realtà l’intero contesto dell’art. 4 cit. è, invece, quello d’una armonizzazione del passaggio da RSA a RSU e delle modalità di mantenimento di eventuali condizioni di miglior favore, affinché tale passaggio non si risolva in un decremento di prerogative già per altra via acquisite. Neppure convince l’obiezione che, con la ricostruzione qui accolta, il tema dell’indizione di assemblea,
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prevedendo legittimazioni concorrenti sia della RSU (quale organismo collegiale che delibera a maggioranza) sia della sua singola componente, risulterebbe disciplinato in maniera non coincidente con l’impianto della L. n. 300 del 1970, artt. 19 e 20: quand’anche ciò fosse, ad ogni modo resterebbe insuperabile il rilievo, già evidenziato fin da Cass. n. 1892/05 cit., che l’autonomia collettiva garantita ex art. 39 Cost. può prevedere prerogative diverse o ulteriori rispetto a quelle riconosciute a livello legislativo, ben potendo anche tracimare dalla relativa cornice di riferimento, con gli unici limiti della L. n. 300 del 1970, art. 17 e dell’esistenza d’una effettiva rappresentatività (cfr. Corte cost. n. 492/95 e Corte cost. n. 975/88), limiti che in nessun caso risulterebbero varcati. 2.4. Una consistente parte della dottrina interessatasi del tema in oggetto obietta – in estrema sintesi – che l’affermazione di legittimazioni concorrenti (sia della RSU quale organismo collegiale che delibera a maggioranza sia della sua singola componente sindacale) urta contro il principio democratico, necessariamente maggioritario, spezza il legame tra rappresentanza, rappresentatività e democrazia sindacale, riduce la RSU ad una mera sommatoria di distinte rappresentanze associative. É, invece, agevole notare che la limitata eccezione di cui al cit. art. 4, comma 5, non solo non svaluta né snatura la RSU, ma neppure pregiudica il principio maggioritario implicitamente evocato dal successivo art. 6, comma 3 (che stabilisce la decadenza della RSU in caso di dimissioni e conseguenti sostituzioni dei relativi componenti in numero superiore al 50% degli stessi), e dall’art. 7 (in forza del quale le decisioni relative a materie di competenza delle RSU sono assunte dalle stesse in base ai criteri previsti da intese definite dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori stipulanti l’accordo). In altre parole, ben possono un organismo elettivo come la RSU e il principio di maggioranza convivere con limitate prerogative di singole componenti dell’organismo medesimo. Inoltre, il richiamo dottrinario al principio maggioritario come inscindibile da quello democratico muove, ad avviso di questa Corte Suprema, da una falsa prospettiva. Il principio di maggioranza è sicuramente proprio di quello democratico nel momento decisionale, ma è estraneo al momento del mero esercizio di diritti che non importino decisioni vincolanti nei confronti di altri. Invero, sempre per restare nell’ambito delle libertà sindacali, è sintomatico che, mentre nella L. n. 300 del 1970, art. 21 si legge che l’indizione di referendum deve essere effettuata «da tutte le rappresentanze sindacali aziendali», nel precedente art. 20, comma 2, la richiesta di assemblea risulta poter essere avanzata «singolarmente o congiuntamente».
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Non è un caso: il referendum, a differenza da un’assemblea (che può anche limitarsi a mera discussione e confronto), importa sempre un contarsi, una votazione; e il referendum in tanto ha un senso in quanto dia un determinato esito numerico, esito che non può che emergere a maggioranza, conformemente – appunto – al principio democratico. Ma la democrazia, se richiede pur sempre decisioni a maggioranza, al di fuori del momento decisionale presuppone – anzi – il conflitto dialettico (o confronto) degli interessi e delle idee, conflitto pur sempre governato da regole e destinato poi a comporsi in decisioni adottate a maggioranza, ma la cui potenziale fecondità è connaturata alla democrazia medesima. In breve, è proprio l’insistito richiamo (che si legge in larga parte della dottrina) al principio di maggioranza o di democrazia sindacale maggioritaria a dimostrare, invece, che là dove si parli di (mere) assemblee, vale a dire di momenti di confronto che precedono e preparano quelli decisionali propriamente detti, la tutela delle voci singole (ed eventualmente dissenzienti) è irrinunciabile. 2.5. La conclusione cui si è pervenuti non muta neppure alla luce dell’accordo interconfederale 10.1.2014, c.d. testo unico sulla rappresentanza sindacale, siglato da Confindustria e da CGIL, CISL e UIL in applicazione dei precedenti accordi siglati dalle stesse parti il 28.6.2011 e il 31.5.2013. Si tratta d’un accordo – la cui immediata applicabilità è stata già esclusa (ratione temporis) nella controversia in oggetto – che in dottrina è stato evocato a sostegno dell’asserito funzionamento a maggioranza delle RSU. Si è infatti notato che mentre l’art. 4, sezione seconda, sostanzialmente riproduce quasi alla lettera l’art. 4 dell’accordo del 20.12.93, così come il successivo art. 5 fotografa il tenore dell’art. 5, comma 1, del suo omologo del 1993, l’art. 7, comma 1, stabilisce invece che «Le decisioni relative a materie di competenza delle RSU sono assunte dalle stesse, a maggioranza, in base a quanto previsto nella parte terza del presente accordo che recepisce i contenuti dell’accordo interconfederale 28 giugno 2011», così introducendo un esplicito richiamo al funzionamento a maggioranza della RSU che (pur se da considerarsi come implicito) non si leggeva nel testo del 20.12.93. Ma a prescindere dal fatto che tale richiamo abbia natura meramente ricognitiva o innovativa e che, pertanto, possa o non confermare ex post l’opzione interpretativa in questa sede non condivisa, resta il rilievo che la ricostruzione delineata nei paragrafi che precedono non nega affatto che le RSU funzionino secondo il principio di maggioranza: nega soltanto che esso sia incompatibile con la concorrente legittimazione (anche) singola a richiedere l’assemblea, legittimazione desunta da quell’art. 4, comma 5, dell’accordo del 1993
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che lo stesso accordo interconfederale del 10.1.2014 ha espressamente ribadito. 3.1. Il secondo e il terzo mezzo, da esaminarsi congiuntamente perché connessi, sono da disattendersi. Non è esatto che la sentenza impugnata abbia omesso di esaminare il fatto decisivo consistente nel superamento o meno del limite delle tre ore annue a disposizione delle singole sigle sindacali: in realtà il fatto è stato espressamente preso in considerazione e giudicato pacifico, nel senso che i giudici di merito hanno ritenuto che nessuna delle parti abbia dubitato del mancato superamento del monte ore annuo (superamento che avrebbe avuto efficacia dirimente della controversia, a prescindere da ogni ulteriore considerazione sulla legittimazione a richiedere l’assemblea). Sostiene la società ricorrente l’erroneità di tale affermazione, nel senso che – anzi – sarebbe stato vero
il contrario, cioè sarebbe stato non contestato da parte di FIOM-CGIL l’avvenuto superamento del monte ore annuo allegato da parte aziendale. Ma a tale proposito il ricorso si palesa non specifico perché non trascrive (neppure parzialmente) gli atti difensivi in cui tale superamento si sostiene essere stato allegato né quelli in cui, ex adverso, sarebbe rimasto non contestato. 4.1. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi. Le spese del giudizio di legittimità si compensano tra le parti, considerata la problematicità della materia del contendere alla luce dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale sul tema della legittimazione ad indire assemblee sindacali. Omissis.
Rsu e diritto di assemblea: le sezioni unite alla ricerca di un difficile compromesso Sommario : 1. Fattispecie e principio di diritto. – 2. Dal confronto tra collegialità e prerogative del singolo componente di RSU, verso una soluzione di compromesso. – 3. Il T.U. sulla rappresentanza: un cambio di paradigma? – 4. Alcune proposte de iure condendo: verso una RSU “maggioritaria”. – 5. Conclusioni.
Sinossi. La nota di commento affronta la questione relativa alla titolarità del diritto di convocare l’assemblea sindacale ex art. 20 St. lav., alla luce della recente pronuncia delle Sezioni Unite del giugno 2017. In particolare, dopo un esame del percorso dottrinario e giurisprudenziale che ha condotto alla recente sentenza, l’attenzione dell’Autore si concentra sull’applicabilità del principio di diritto enunciato dalla Cassazione al T.U. sulla rappresentanza del 2014, che ha innovato il regime delle RSU, e sulle prospettive de iure condendo.
1. Fattispecie e principio di diritto. L’ampio dibattito sviluppatosi negli ultimi anni, in dottrina e giurisprudenza, relativamente all’identificazione dei soggetti titolari del diritto di indire l’assemblea sindacale di
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cui all’art. 20 St. lav.1 pare avere trovato, nella sentenza in epigrafe, un nuovo – e, forse, l’ultimo – capitolo. Il caso di specie, in particolare, ha ad oggetto il rifiuto del datore di lavoro di concedere l’assemblea sindacale richiesta da un singolo componente di RSU. Nel corso del procedimento innanzi alla Suprema Corte, la parte datoriale giustifica tale condotta sostenendo che il combinato disposto dell’Accordo interconfederale concluso tra Confindustria, Intersind, CGIL, CISL e UIL il 20 dicembre 1993 e della l. 20 maggio 1970, n. 300 avrebbe determinato la perdita di soggettività delle sigle che vanno a comporre le rappresentanze sindacali unitarie. In ragione di ciò, secondo la ricorrente, «ai sensi dell’art. 20, il diritto di indire l’assemblea non si configura come un diritto individuale, ma collettivo, che spetta non al singolo», ma alla RSU. L’organizzazione sindacale resiste a tali argomentazioni, con controricorso. La Corte di Cassazione, al fine di risolvere la vertenza, rigetta le istanze di parte datoriale, specificando che il diritto di convocare l’assemblea sindacale spetta «non solo alla RSU considerata collegialmente, ma anche a ciascun suo componente purché eletto nelle liste di un sindacato che, nell’azienda di riferimento, sia […] munito di rappresentatività ai sensi dell’art. 19» della l. n. 300/19702.
2. Dal confronto tra collegialità e prerogative del singolo
componente di RSU, verso una soluzione di compromesso. Come evidenziato dalla Suprema Corte, le norme che disciplinano il diritto ad indire l’assemblea sindacale sono, in relazione alla pronuncia in commento, gli artt. 19 e 20 St. lav., e gli artt. 4 e 5 dell’A.I. del 20 dicembre 1993. L’art. 20 St. lav. disciplina, in generale, il diritto allo svolgimento di assemblee sindacali nei luoghi di lavoro, specificando, al comma 1, che tale prerogativa non riscontra limitazioni temporali se l’assemblea è svolta al di fuori dell’orario lavorativo, mentre è limitata ex lege a 10 ore di lavoro annue retribuite. Il potere di convocazione dell’assemblea sindacale, secondo il comma 2 dell’art. 20 St. lav. spetta «singolarmente o congiuntamente» alle RSA, le quali possono essere costituite, secondo quanto previsto dall’art. 19 St. lav. come modificato dal referendum del 19953, solamente dalle associazioni sindacali che abbiano
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In generale, sull’art. 20 St. lav. e sulle problematiche connesse all’assemblea sindacale, si vedano Vallebona, Il diritto sindacale, CEDAM, 2017, 125 ss.; Di Cerbo, Assemblea, in Amoroso, Di Cerbo, Maresca (a cura di), Il diritto del lavoro, vol. II, 2014, Giuffrè, 1064 ss.; Meucci, Le rappresentanze e i diritti sindacali in azienda, Ediesse, 2010, 187 ss. 2 Il richiamo all’art. 19 della L. 300/1970 – come specificato dalle stesse Sezioni Unite – deve essere inteso nell’accezione enunciata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 231/2013, ai sensi della quale hanno diritto a costituire una RSA anche le «associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione […]»; cfr. sul punto, tra gli altri, Caruso, La Corte Costituzionale tra don Abbondio e il passero solitario: il sistema di rappresentanza sindacale dopo la sentenza n. 231/13, in RIDL, 2013, I, 901 ss.; Romagnoli, La garanzia costituzionale del dissenso sindacale, in GC, 2013, 4, 3436 ss. e Romei, L’art. 19 st. lav. è incostituzionale, ma nessuno lo sapeva, in RIDL, 2013, 4, II, 979 ss. 3 Di “eterogenesi dei fini” del referendum del 1995, che ha finito per consolidare la forza dei sindacati già firmatari dei contratti
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effettivamente preso parte alle trattative per la stipulazione dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva. L’A.I. del 20 dicembre 1993 detta, invece, la disciplina generale delle RSU con un compromesso tra canale unico e canale doppio di rappresentanza4 e fonda le prerogative spettanti a tali organi mediante un richiamo alla regolamentazione delle RSA. L’art. 4 del predetto A.I. prevede, in particolare, che i componenti delle RSU subentrano ai dirigenti delle RSA nei diritti, permessi e libertà sindacali loro attribuiti dal Titolo III St. lav., mentre l’art. 5 del medesimo accordo collettivo provvede a trasferire alle RSU i poteri e le funzioni spettanti ex lege alle RSA e ai loro dirigenti. Tale quadro normativo, prodotto dall’azione concorrente di attori eterogenei quali il legislatore del 1970, l’autonomia collettiva di primi anni ‘90 e la volontà popolare manifestata con il referendum del 1995 presenta, inevitabilmente, alcune ambiguità, tra cui una delle più rilevanti concerne il funzionamento – come organo collegiale-maggioritario o come insieme di rappresentanti di singole sigle sindacali – delle RSU. Tale zona d’ombra ha dato luogo a una notevole conflittualità giurisprudenziale che ha visto protagonista, in primo luogo, la Corte di Cassazione. La posizione inizialmente assunta dalla Suprema Corte era favorevole a un rigido principio collegiale nell’esercizio del diritto ex art. 20 St. lav.: alla luce di tale orientamento, le assemblee sindacali avrebbero potuto essere convocate dalla maggioranza della RSU, ma non da un suo singolo componente. Il ragionamento compiuto dai giudici di legittimità nel 2002, in particolare, era basato su un’interpretazione letterale degli artt. 4 e 5 dell’A.I. del 20 dicembre 1993. Nello specifico, si affermava che ai componenti delle RSU sarebbero stati trasferiti, ex art. 4 dell’A.I., i «diritti, permessi e libertà sindacali e tutele» previsti dal Titolo III St. lav. a sostegno delle prerogative della “persona” del sindacalista, vale a dire gli istituti di cui agli artt. 22, 23 e 24 St. lav., inerenti alla disciplina in materia di trasferimenti e ai permessi, retribuiti e non. L’art. 5 dell’A.I. del 20 dicembre 1993 avrebbe, invece, posto tutte le ulteriori prerogative spettanti alle RSA – incluse quelle di cui all’art. 20 St. lav. – in capo alle RSU, intese come organo collegiale5. Il favor per l’“opzione collegiale”, infine, era rafforzato dalla posizione assunta dalle Sezioni Unite con riferimento all’ambito del lavoro pubblico dove, seppur in un contesto in cui lo Statuto dei Lavoratori trova applicazione in via residuale e nei limiti della compatibilità con la regolazione ad hoc dettata per il lavoro a favore della P.A., si era specificato che «il diritto di indire assemblee dei dipendenti spetta alla RSU […] che assume ogni decisione secondo il regolamento eventualmente adottato, o, in mancanza, a maggioranza» e che «di converso, deve escludersi che tale diritto spetti ai singoli componenti»6.
collettivi applicati nell’unità produttiva, contrariamente alle intenzioni dei promotori, trattano Giugni, Diritto Sindacale, Cacucci, 2014, 69 ss. e Imberti, R.S.U. e titolarità dei diritti sindacali: avanti in ordine sparso, in ADL, 2007, 2, 482 ss. 4 Sulla compresenza dell’elemento associativo e di quello elettivo nelle RSU, cfr., inter alia, Laforgia, L’accordo interconfederale del 10 gennaio 2014 e le “nuove” RSU, in RGL, 2014, 3, 1, 516 ss. e Santini, Le rappresentanze sindacali unitarie del settore privato nell’elaborazione giurisprudenziale, in ADL, 2011, 2, 426. 5 Santini, op. cit., 432-433 ss.; sul punto, anche Di Stasi, Le rappresentanze dei lavoratori in azienda, in Proia (a cura di), Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, in Carinci, Persiani (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, CEDAM, 2014, 283 ss. 6 Cass., sez.un., 16 febbraio 2005, n. 3072, in LPA, 2005, 387 ss., con nota di Macioce.
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Dal 2005 in poi, tuttavia, è andata affermandosi7 una linea interpretativa distinta dalla precedente, tale da configurare il diritto di convocare l’assemblea di cui all’art. 20 St. lav. in capo a qualsiasi componente della RSU, poi consolidatasi negli anni successivi8. Per giustificare tale revirement, la Corte di Cassazione poneva l’accento sul diritto generale di tutti i lavoratori a riunirsi e svolgere attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, di cui all’art. 39 Cost. e all’art. 14 St. lav., collocando, invece, in secondo piano l’art. 19 St. lav., che avrebbe perso il suo carattere cogente in seguito alle modifiche derivanti dal referendum abrogativo del 1995. Alla luce di tale ragionamento, veniva, pertanto, riconosciuta all’autonomia collettiva la facoltà di «spaziare nell’ambito delle prerogative sindacali, prevedendone di nuove e diverse rispetto a quelle di cui al Titolo III St. lav.»9 e si riconosceva che le parti sociali, con l’A.I. del 20 dicembre 1993, avevano individuato nelle RSU una nuova forma di rappresentanza, caratterizzata da regole proprie e della quale «non è predicata la natura di organism(i)o a funzionamento collegiale»10. Corollario di tale orientamento era, quindi, che, nell’ambito delle RSU, l’assemblea sindacale potesse essere convocata da un singolo componente dell’organo rappresentativo. Con tali argomentazioni la Suprema Corte pareva richiamare la distinzione tra “diritti fondamentali” e “diritti aggiuntivi”11 spettanti alle diverse forme di organizzazione dei lavoratori in azienda in seguito all’introduzione della l. 300/197012. In particolare, la Corte di Cassazione sembrava suggerire – onde bilanciare il rischio di un’eccessiva compressione dei diritti promozionali esercitabili dalle organizzazioni minoritarie all’interno della RSU, ma dotate di un consistente seguito tra i lavoratori – che l’A.I. del 20 dicembre 1993 avrebbe sostanzialmente ampliato il novero dei diritti fondamentali, per quanto riguarda le sole organizzazioni dei lavoratori che avessero eletto componenti all’interno della RSU, permettendo ai loro rappresentanti, uti singuli, di esercitare almeno parte dei c.d. “diritti di organizzazione” – e, nello specifico, il diritto di assemblea ex art. 20 St. lav. La divergenza tra gli orientamenti assunti, nel corso di pochi anni, dai giudici di legittimità, ha influenzato anche la giurisprudenza di merito13 e la dottrina. Nel dibattito tra gli esperti ha prevalso l’opinione volta a sostenere il carattere collegiale delle RSU anche in occasione dell’esercizio del diritto a convocare l’assemblea sindacale14,
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Cass., 1 febbraio 2005, n. 1892, in RIDL, 2005, II, 549 ss., con nota di Romei. Cass., 31 luglio 2014, n. 17458, in GD, 2014, 38, 36 e Cass., 16 ottobre 2014, 21931, D&G, 2014, 16 ottobre. 9 Cass., 1 febbraio 2005, n. 1892 cit. 10 Inter alia¸ Cass., 16 ottobre 2014, n. 17458 cit. 11 Per tale distinzione si veda, tra gli altri, Giugni – Curzio, Commento all’art. 19, in Giugni (a cura di), Lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Commentario, Giuffré, 1979, 305-306; sul punto, anche Di Cerbo, Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, in Amoroso, Di Cerbo, Maresca (a cura di), Il diritto del lavoro, vol. II, 2014, Giuffrè, 1024 ss. 12 La legittimità dell’attribuzione, mediante l’art. 19 St. lav., di prerogative aggiuntive alle organizzazioni sindacali in possesso di specifici requisiti di rappresentatività era stata già riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 54/1974, in GD, 2013, 34-35, 23, con nota di Tatarelli. 13 Tra gli altri, Santini, op. cit., 437 ss. 14 Ferrari, Ancora sul carattere (non) unitario della RSU ai fini della indizione dell’assemblea, in ADL, 2015, 1, 206-209; Carvello, Diritti sindacali: il Governo dimezza, la Cassazione raddoppia, in LG, 2014, 12, 1088; Ratti, Condotta antisindacale, legittimazione ad agire e titolarità del diritto di convocare l’assemblea, in ADL, 2007, 3, 795 ss. e Gragnoli, Le rappresentanze sindacali unitarie e i contratti 8
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basata su valutazioni di carattere sistematico, che hanno rimarcato come la scelta, compiuta nel 1993, di introdurre una rappresentanza di tipo democratico aperta alla partecipazione di tutti i lavoratori presenti in azienda avrebbe scisso i rapporti di carattere associativo tra il singolo eletto e l’organizzazione sindacale di provenienza15, oltre che sulla previsione di decadenza della RSU in caso di dimissione di più del 50% dei componenti, ex art. 6, comma 3, del medesimo A.I., considerata un indice incompatibile con il concetto di organo rappresentativo inteso come somma di singole rappresentanze di ciascun sindacato16. L’argomento principale attorno al quale vertevano le tesi opposte, che disconoscevano il carattere maggioritario delle RSU, era, invece, l’assenza di una disposizione esplicita, nel sistema degli accordi del 1993, che imponesse l’esercizio in forma esclusivamente collegiale dei diritti trasferiti a tali organi di rappresentanza17. I giudici di primo grado si sono, invece, equamente divisi lungo le due linee interpretative già adottate dalla Suprema Corte18, dando vita a una serie di pronunce tra loro contrastanti. Per mediare tra le opposte esigenze, oltre che per prevenire il rischio, più volte sottolineato in dottrina19, che il prevalere di un orientamento eccessivamente “liberale” permettesse a sindacati privi dei requisiti dell’art. 19 St. lav. di accedere ai diritti del Titolo III St. lav., la Corte di Cassazione ha sviluppato, con la sentenza n. 15437/2014, una terza linea interpretativa del combinato disposto degli artt. 19 e 20 St. lav. e 4 e 5 dell’A.I. 20 dicembre 199320. Il nuovo ragionamento della Suprema Corte, in particolare, è incentrato sull’evoluzione del concetto di rappresentatività rilevata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 231/2013. Tale evoluzione in senso “aperturista”, permette, infatti, alla Cassazione, di continuare a riconosce la piena legittimità delle RSU nel deviare, nella loro strutturazione, dal criterio di cui all’art. 19 St. lav.21, creandone uno autonomo basato sull’elezione dei propri
aziendali, in RGL, 2003, 1, 817 ss. Di Stasi, op. cit., 287-288; Cester, Membri di rappresentanza sindacale unitaria e vincolo sindacale, in Aa. Vv., Rappresentanza, rappresentatività, sindacato in azienda ed altri studi. Studi in onore di Mario Grandi, CEDAM, 2005, 159 ss.; in giurisprudenza, T. Milano 5 aprile 2007, in D&L, 2007, 397. 16 Di Stasi, op. cit., 292-293. 17 L’art. 7 dell’A.I. del 20 dicembre 1993 rinviava, per la determinazione delle modalità decisionali delle RSU, a future intese tra le organizzazioni sindacali stipulanti, senza fare alcun riferimento al principio maggioritario, cfr. Ferrari, op. cit., 207; su tale orientamento della dottrina, cfr. anche Bellocchi, Il contratto collettivo stipulato dalle Rappresentanze sindacali unitarie: problemi in tema di efficacia soggettiva, in ADL, 1997, 4, 281 ss. 18 Per quanto concerne la posizione volta a riconoscere al singolo componente di RSU il diritto alla convocazione dell’assemblea sindacale, cfr. tra le altre, Trib. Milano 25 febbraio 2004, GMil, 2004, 420 ss.; Trib. Milano 15 marzo 2004, D&L, 2004, 575 ss.; Trib. Milano 27 aprile 2006, D&L, 2006, 3, 745, con nota di Vescovini; Trib. Monza 20 ottobre 2009 e Trib. Monza 23 marzo 2010, RGL, 2010, 3, 540 ss.; Trib. Monza 26 febbraio 2013, D&L, 2012, 915 ss., con nota di Bianco. Di orientamento opposto, inter alia, Trib. Crema 30 marzo 2001, OGL, 2001, 1 ss.; Trib. Monza 4 dicembre 2002, D&L, 2003, 70 ss.; Trib. Milano 26 marzo 2004, OGL, 2004, I, 28 ss.; Trib. Milano, 4 luglio 2006, LG, 2007, 4, 419 ss.; Trib. Piacenza, 13 dicembre 2006, ADL, 2007, 3, 798 ss. e Trib. Trieste 25 giugno 2012, DRI, 2013, 1, 145 ss., con nota di Crevatin. 19 Inter alia, Imberti, op. cit., 482 ss. nonché Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu, Diritto del lavoro. 1. Diritto sindacale, UTET, 2016, 134 e Romei, La rappresentatività frammentata, in RIDL, 2005, 3, II, 550 ss. 20 Cass., 7 luglio 2014, n. 15437, in MGC, 2014; si veda anche Fontana, Note critiche sulla giurisprudenza in materia di RSU, in RIDL, 2005, I, 557 ss.; in chiave critica, Ferrari, op. cit., 203 ss.; 21 Sul punto, già Cass., 1 febbraio 2005, n. 1892 cit. e Cass., 24 gennaio 2006, n. 1307, in GC, 2007, 1, I, 206. 15
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componenti e aperto ad ogni associazione sindacale che abbia anche solo aderito all’A.I. del 20 dicembre 199322. Ciò è possibile, tuttavia, a condizione che l’attribuzione degli strumenti di garanzia di cui al Titolo III St. lav. ai singoli componenti delle RSU sia «valutata sempre con riferimento alla rappresentatività sindacale dedotta dall’art. 19 St. lav., nel nuovo significato risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 231/2013» e quindi intesa in senso ampio, e idoneo a non escludere dall’accesso a tali prerogative le organizzazioni effettivamente dotate di consenso tra i lavoratori, ma che non hanno sottoscritto il contratto collettivo aziendale. Si tratta, quindi, di un temperamento della posizione favorevole ad attribuire il potere di convocazione dell’assemblea ad ogni singolo componente della RSU: da un lato, è fatta salva la possibilità, per il rappresentante sindacale, di convocare autonomamente l’assemblea; per converso, tale diritto è riconosciuto solamente se questi è iscritto ad una organizzazione sindacale in possesso dei requisiti di rappresentatività previsti dall’art. 19 l. n. 300/197023. Le Sezioni Unite, con la pronuncia in commento, si adeguano a tale orientamento “di compromesso”, ribadendo la centralità del concetto di rappresentatività. Di conseguenza, l’accesso alle tutele promozionali del Titolo III St. lav. viene riconosciuto solo ai componenti delle RSU iscritti a sindacati dotati dei requisiti ex art. 19 l. n. 300/1970, ma i giudici di legittimità sottolineano come l’esercizio di tali prerogative spetti (anche) singolarmente a ciascun rappresentante sindacale eletto, salvo i casi in cui il principio di collegialità è espressamente imposto dalla legge24.
3. Il T.U. sulla rappresentanza: un cambio di paradigma? L’A.I. 10 gennaio 201425, meglio noto come Testo Unico sulla rappresentanza, giunge al termine di una fase di importante evoluzione della disciplina delle RSU e pare destinato a regolare il funzionamento delle rappresentanze sindacali per i prossimi anni. Di conseguenza, le Sezioni Unite hanno ritenuto opportuno esprimersi anche in relazione ai contenuti di tale testo, sebbene esso non sia applicabile ratione temporis al caso di specie, specificando che la conclusione cui si è pervenuti relativamente all’A.I. del 20
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Cass., 10 gennaio 2005, n. 269, in MGC, 2005, 1; Cass., 27 gennaio 2011, n. 1955, in MGC, 2011, 1, 132; Cass., 7 marzo 2012, n. 3545, in MGC, 2012, 3, 282; Cass., 24 aprile 2013, n. 10001, in DeJure. 23 Da questo punto di vista, quindi, la sentenza n. 15437/2014 appare come un tentativo di rettificare l’orientamento assunto dalla Cassazione fin dal 2005, anziché un tertium genus tra le due correnti interpretative, tra loro antitetiche, dei primi anni 2000. 24 È il caso, a titolo di esempio, del referendum di cui all’art. 21 St. lav. che deve essere indetto «da tutte le rappresentanze sindacali aziendali», cfr., sul punto, anche Corso, I diritti sindacali, in Proia (a cura di), Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, Cedam, 2014, 373-374. 25 L’Accordo interconfederale del 10 gennaio 2014 rappresenta il punto di arrivo del percorso iniziato, dalle parti stipulanti, con l’Accordo interconfederale del 28 giugno-21 settembre 2011 e con il Protocollo di intesa del 31 maggio 2013, cfr. inter alia, F. Carinci, Il lungo cammino per Santiago della rappresentatività sindacale, in WP D’Antona, It., n. 205/2014; Scarpelli, Il testo unico sulla rappresentanza tra relazioni industriali e diritto, in DRI, 2014, 3, 687 ss.; Valente, Rappresentanza sindacale: l’Accordo tra le parti sociali, in DPL, 2014, 8, 458 ss.
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dicembre 1993 «non muta neppure alla luce dell’accordo interconfederale del 10.1.2014» e che la pronuncia del giugno 2017, «non nega affatto che le r.s.u. funzionino secondo il principio di maggioranza», ma «soltanto che esso sia incompatibile con la concorrente legittimazione […] singola a richiedere l’assemblea […] che lo stesso accordo interconfederale del 10.1.2014 ha espressamente ribadito». La posizione assunta dal Supremo Collegio deve essere valutata alla luce del nuovo assetto conferito dal T.U. del 2014 alla disciplina delle RSU. In primo luogo, gli articoli 4 e 5 dell’A.I. del 20 dicembre 1993 sono ripresi dal T.U. in una versione pressoché identica alla precedente26, confermando quindi le consuete modalità di trasferimento delle prerogative sindacali dalle RSA alle RSU. Le innovazioni introdotte nel 2014, invece, si collocano lungo due linee tra loro divergenti. Nella direzione di un rafforzamento della natura collegiale e unitaria delle rappresentanze sindacali27 vanno gli artt. 2 e 3, parte II, sezione II, del T.U. 2014, che formalizzano la rimozione della clausola volta a riservare un terzo dei componenti dell’organo rappresentativo ad associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva28, e l’art. 7, comma 1, della parte II, sezione II del T.U. 201429, il quale introduce, per la prima volta, seppur con una formulazione non scevra da criticità30, un generale richiamo al principio maggioritario per quanto concerne le modalità decisionali delle RSU31. Sull’altro versante, paiono qualificare gli eletti nella RSU come esponenti della singola organizzazione sindacale di provenienza sia l’art. 4, parte II, sezione II, che l’art. 6, parte II, sezione II del T.U. 201432. Il primo, nel far salvo il diritto per le organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva di indire l’assemblea sindacale per 3 delle 10 ore di cui all’art. 20 St. lav., sembra indicare, con riferimento alla materia dei diritti sindacali, un criterio decisionale diverso da quello – maggioritario – impiegato in ambito negozia-
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Vengono modificati, invece, gli artt. 1, 2, 6, 7 e 8, cfr. Laforgia, op. cit., 3, 1, 523-524. Zoppoli, Le nuove rappresentanze sindacali unitarie e il gattopardo democratico, in RIDL, 2014, III, 75; Lambertucci, La rappresentanza sindacale e gli assetti della contrattazione collettiva dopo il testo unico sulla rappresentanza del 2014: spunti di riflessione, in RIDL, 2014, I, 260. 28 Inter alia, Fontana, op. cit. 579-581; Laforgia, op. cit., 3, 1, 525-526. 29 L’art. 7, parte II, sezione II, del T.U. del 2014 prevede che «Le decisioni relative a materie di competenza delle RSU sono assunte dalle stesse, a maggioranza, in base a quanto previsto nella parte terza del presente accordo». 30 Pare, infatti, non esservi chiarezza né su quali siano le decisioni relative a materia di competenza delle RSU cui il principio si applica né se, come evidenzia parte della dottrina, tale norma intenda riferirsi solamente alla materia della contrattazione collettiva, stante il riferimento alla parte III del T.U. 2014, cfr. Giasanti, Il testo unico sulla rappresentanza del 2014 e la facoltà di indizione di assemblea da parte della RSU, in RIDL, 2015, II, 779-782; Maffei, Il diritto di indizione dell’assemblea retribuita e le RSU. Quali novità dopo il 10 gennaio 2014, in DRI, 2015, 4, 1159. 31 Bavaro, Il principio maggioritario nelle relazioni industriali, in LD, 2014, 4; Tomassetti, Condotta antisindacale e assemblea retribuita per la parte di monte ore che il CCNL riserva alle organizzazioni stipulanti, in DRI, 2016, 4, 1157, sostiene che tale norma sia idonea a determinare la natura esclusivamente collegiale delle RSU, stante la sostanziale identità con l’art. 8, comma 1, del CCNQ del 7 agosto 1998 valevole per il pubblico impiego, che è stato interpretato in tal senso da Cass., SS.UU., 16 febbraio 2005, n. 3072. 32 Laforgia, op. cit., 3, 1, 527.
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le33. L’art. 6, parte II, sezione II del T.U. 2014, inoltre, conferma, in materia di “cambio casacca”34 che la modifica dell’organizzazione sindacale di appartenenza «di un componente della RSU ne determina la decadenza dalla carica […]». Viene, quindi, introdotto una sorta di vincolo di mandato tra il singolo rappresentante eletto e l’organizzazione di origine: si tratta di un rilevante strumento di autotutela per le organizzazioni sindacali, che si pone in linea con la giurisprudenza più rigorosa35 e in contrapposizione rispetto ad una legittimazione esclusivamente elettorale dei componenti delle RSU36. Il carattere delle modifiche derivanti dal T.U. del 2014 è, quindi, ambivalente e, come tale, non consente di affermare che con la sottoscrizione del nuovo accordo interconfederale si sia effettivamente pervenuti ad un cambio di paradigma37. Tale condizione di incertezza trova riscontro nelle prime pronunce della giurisprudenza di merito, che hanno assunto orientamenti contrastanti, in particolare con riferimento all’art. 7, parte II, sezione II, del T.U. 2014. Secondo i giudici più critici, in particolare, tale clausola non avrebbe natura novativa o, in ogni caso, non sarebbe idonea, stante la sua ambiguità, ad introdurre in via generale un principio di maggioranza privo, nelle norme in esame, di chiara corrispondenza testuale38. Alla luce dei dubbi derivanti dall’analisi delle disposizioni del T.U. del 2014 e dalle prime pronunce di merito, pertanto, non sembra sostenibile il ragionamento secondo cui il T.U. del 2014 avrebbe introdotto, per la prima volta, un metodo decisionale esclusivamente collegiale e maggioritario all’interno delle RSU; a contrario, nei fatti, l’istituzionalizzazione unitaria della rappresentanza sembra essere limitata solamente alla funzione deliberativa delle RSU (39).
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Maffei, op. cit., 1160. Tale clausola era già stata introdotta dall’art. 6, parte I, del Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013. 35 Cass., 18 agosto 2000, n. 10769, in RIDL, 2001, II, 192, con nota di Campanella, Trib. Milano, 27 aprile 2006, in D&L, 2006, 745 ss., con nota di Vescovini, Trib. Milano, 2 agosto 2004, in D&L, 2004, 841 ss.; contra Cass., 7 marzo 2012, n. 3545, in MGC, 2012, 3, 282, Trib. Parma, 13 novembre 2007, in ADL, 2009, 1, II, 230 ss.; per il caso intermedio che ritiene la decadenza efficace solo se prevista dallo statuto dell’associazione di appartenenza, o dal regolamento aziendale per l’elezione della RSU cfr., rispettivamente, Trib. Parma, 3 marzo 2006, in MGC, 2006, 540 e Trib. Milano, 23 dicembre 2002, in D&L, 2003, 72. 36 Federici, Limiti alla immunità del singolo componente della RSU, in RGL, 2015, 1, 2, 150 ss.; Giasanti, op. cit., 780-781; Maio, Struttura e articolazione della contrattazione collettiva, in Proia (a cura di), Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, Cedam, 2014, 559. Si sottolinea, in ogni caso, che l’art. 6, parte II, sezione II del T.U. del 2014 può rappresentare un utile strumento per determinare il venir meno di uno dei casi di richiesta di convocazione dell’assemblea sindacale da parte del singolo componente di RSU: tale fenomeno, infatti, in circostanze abbastanza frequenti, si verifica qualora un componente della RSU appartenente, al momento dell’elezione, a un sindacato avente i requisiti di cui all’art. 19 St. lav., abbandona la propria organizzazione di provenienza per trasferirsi presso un altro sindacato privo di tali caratteristiche. Ancor prima di richiamare il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite con la pronuncia in commento, sarà, in tal caso, sufficiente che il sindacato originario attivi la regola del “cambio casacca”, determinando la decadenza del componente di RSU che aveva abbandonato tale organizzazione, per prevenire un utilizzo surrettizio del diritto di indire l’assemblea sindacale da parte di un’associazione di rappresentanza dei lavoratori priva dei requisiti ex lege previsti per beneficiare delle prerogative di cui al Titolo III St. lav. 37 Laforgia, op. cit., 3, 1, 527-528; in precedenza, anche Natullo, L’incerta rappresentanza dei lavoratori in azienda tra legge e contratti, in Aa. Vv., Il contributo di Mario Rusciano all’elaborazione teorica del diritto del lavoro, Giappichelli, 2013, 283 ss. 38 Trib. Torino, 2 gennaio 2015, in ilgiuslavorista.it, 2015, 9 aprile; Trib. Nola, 17 marzo 2015, in ilgiuslavorista.it, 2015, 31 marzo. Contra Trib. Torino, 10 marzo 2015, Trib. Torino, 12 marzo 2015, entrambe in DRI, 2015, 4, 1153 ss., con nota di Maffei e Trib. Vicenza, 28 febbraio 2016, in DRI, 2016, 4, 1152, che contestano, in particolare, le ricostruzioni dirette a riferire l’art. 7 al solo ambito della contrattazione collettiva. 39 Fontana, op. cit. 581; Bavaro, op. cit., 13-14. 34
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In ragione di ciò le Sezioni Unite paiono suggerire – con la finalità di prevenire l’apertura di un nuovo e ampio contrasto interpretativo – di estendere il principio “compromissorio” enunciato con la sentenza in commento anche al T.U. del 2014. È verosimile, quindi, anche alla luce dell’autorevolezza dell’organo giurisdizionale che ha emesso la sentenza qui commentata, che anche pro futuro la convocazione dell’assemblea sindacale da parte di un singolo componente di una RSU venga considerata legittima, a condizione che questi sia iscritto ad un’organizzazione sindacale in possesso dei requisiti dell’art. 19 St. lav.
4. Alcune proposte de iure condendo: verso una RSU “maggioritaria”.
L’acceso dibattito in merito alla titolarità del potere di convocare l’assemblea ex art. 20 St. lav. si inserisce, in un’ottica de iure condendo, nella più ampia discussione relativa all’introduzione di una disciplina legislativa della rappresentanza sindacale nel settore privato40. Da questo punto di vista, si evidenziano due iniziative di carattere organico: la Proposta di intervento legislativo in materia sindacale avanzata dal gruppo di giuslavoristi “Freccia Rossa”41 e quella denominata Disciplina delle relazioni sindacali, della contrattazione collettiva e della partecipazione dei lavoratori, avanzata da alcuni esperti afferenti alla rivista Diritti Lavori Mercati42. Con riferimento alle prerogative ex art. 20 St. lav., entrambe le teorizzazioni esprimono, seppur con accenti diversi, un favor verso la logica collegiale e maggioritaria. In particolare, la proposta di legge sindacale della rivista Diritti Lavori Mercati pare non lasciare spazio, in materia di convocazione delle assemblee, ai singoli componenti della RSU: il comma 5 dell’art. 1, capo I del testo di legge prevede, infatti, che «La rappresentanza sindacale unitaria assume ogni decisione a maggioranza semplice dei presenti alle riunioni»43. Più articolato, invece, appare il percorso seguito dal gruppo “Freccia Rossa”. L’art. 13, comma 1, della proposta di legge prevede che «Ogni decisione delle rappresentanze sindacali unitarie è assunta a maggioranza semplice, salvo diversa previsione di legge o contratto collettivo»44, ed è strettamente connesso all’art. 16, che disciplina nel dettaglio le nuove modalità di convocazione dell’assemblea sindacale. Tale norma, in particolare, prevede,
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Con riferimento alla necessità di un intervento eteronomo in materia di rappresentanza sindacale si vedano, inter alia, Caruso, Per un intervento eteronomo sulla rappresentanza sindacale: se non ora quando!, in WP D’Antona, It., n. 204/2016 e, con specifico riferimento alle criticità connesse alla misurazione della rappresentatività, Marazza, Dall’“autoregolamentazione” alla “legge sindacale”? La questione dell’ambito di misurazione della rappresentatività sindacale, in WP D’Antona, It., n. 209/2014. 41 Caruso, De Luca Tamajo, Del Punta et al., Proposta di intervento legislativo in materia sindacale, in RIDL, 2015, 4, 205 ss. 42 Aa. Vv., Disciplina delle relazioni sindacali, della contrattazione collettiva e della partecipazione dei lavoratori, in DLM, 2014, 1, 155 ss. 43 Ivi, 156. 44 Caruso, De Luca Tamajo, Del Punta et al., op. cit., 215.
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al comma 2, la sostituzione dei commi 1 e 2 dell’art. 20 St. lav. con una disposizione la quale indica che «I lavoratori hanno diritto di riunirsi nell’unità produttiva in cui operano, durante l’orario di lavoro, in assemblee indette dalla rappresentanza sindacale unitaria nel limite complessivo di 7 ore annue retribuite» mentre, in via generale, le associazioni sindacali firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva si vedono attribuito il «diritto di indire, singolarmente o congiuntamente, l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro per complessive tre ore annue retribuite»45. Di conseguenza, come affermato dagli stessi promotori nelle Linee guida di una proposta di “Legge sindacale”, il diritto di convocazione dell’assemblea in orario di lavoro verrebbe espressamente attribuito per 7 ore annue alla RSU intesa come organo collegiale, che lo esercita con decisioni prese a maggioranza ai sensi dell’art. 13 della proposta, anche al fine di superare «l’attuale criterio di ripartizione delle assemblee tra componenti della RSU sulla base della priorità temporale richiesta»46. L’art. 20 St. lav. nella versione de iure condendo, inoltre, darebbe veste legislativa al diritto, già riconosciuto dagli Accordi del 1993 e dal T.U. del 2014, delle associazioni sindacali firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva di beneficiare, nel limite massimo di 3 ore annue, del diritto di convocare l’assemblea durante la giornata lavorativa, facendo, quindi, in ogni caso salvo il monte complessivo annuale di 10 ore di assemblea già ad oggi riconosciuto dal comma 1 dell’art. 20 l. 300/197047. Un criterio più attento alle esigenze delle minoranze sindacali è quello, indicato come via alternativa, di cui al capo III, punto H) delle Linee guida, dove si affaccia la possibilità di sostituire il criterio maggioritario all’interno della RSU, per l’esercizio delle prerogative di cui all’art. 20 St. lav., con «una ripartizione del diritto di indizione tra singole componenti della RSU in proporzione ai risultati elettorali»48. Tale principio, seppur non alieno da criticità, apparirebbe in ogni caso idoneo a evitare un’egemonizzazione della RSU a discapito – in specifici casi-limite – delle organizzazioni di maggioranza relativa, tenendo conto, quindi, delle conseguenze del venire meno dell’unità di azione tra le principali confederazioni sindacali49. L’analisi delle proposte di cui sopra, pertanto, sottolinea, seppur con accenti diversi, un apprezzamento generalizzato della dottrina per l’adozione di un criterio maggioritario nell’esercizio del diritto di assemblea da parte delle RSU, con la finalità, inter alia, di prevenire contenziosi e conflitti in merito alla titolarità e alle modalità di esercizio di tale prerogativa. Il pronunciamento di entrambe le proposte su tale fattispecie, tuttavia, è altresì un elemento a conferma del fatto che, nell’assetto attuale, l’attribuzione del diritto di
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Ivi, 217. Ivi, 209. 47 Ivi, 217; anche con riferimento all’A.I. del 20 dicembre 1993 la giurisprudenza è giunta ad affermare che le 3 ore di assemblea sindacale riservate alle organizzazioni firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva, assegnate in base all’ordine di precedenza nella richiesta, vanno sottratte al monte complessivo di 10 ore annuo di cui all’art. 20 St. lav.; per differenza, quindi, le restanti 7 ore sono riservate alle assemblee convocate, in questo caso «singolarmente o congiuntamente», dalle RSU, cfr. Cass., 30 agosto 2010, n. 18838, in GD, 2010, 40, 75 e Cass., 22 luglio 2010, n. 27217, in DRI, 2011, 1, 130 ss., con nota di Santini. 48 Ivi, 209. 49 Ibidem; in merito, anche Fontana, op. cit., 587. 46
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indire l’assemblea in capo alla sola RSU, a discapito dei suoi singoli componenti, è un fatto tutt’altro che pacifico, come evidenziato anche dalle Sezioni Unite con il provvedimento in commento.
5. Conclusioni. Fermo quanto sopra, la posizione assunta dalla Suprema Corte con la pronuncia in esame, favorevole a riconoscere al singolo componente di RSU un diritto “temperato” di convocare l’assemblea sindacale, appare, a chi scrive, condivisibile. Con riferimento all’A.I. del 20 dicembre 1993, la scelta è ispirata da una apprezzabile logica di compromesso, finalizzata, da un lato, a salvaguardare l’orientamento maggioritario presso i giudici di legittimità50 e, dall’altro a ribadire la centralità del principio di rappresentatività sindacale di cui all’art. 19 St. lav., escludendo che i componenti della RSU aderenti ad organizzazioni prive dei requisiti previsti ex lege possano accedere, anche parzialmente, alle tutele del Titolo III. L’orientamento assunto dalle Sezioni Unite pare tenere conto, sul punto, anche dei rilievi sollevati dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 231 del 2013, in relazione al mutamento della struttura delle rappresentanze sindacali. Il venir meno dell’unità di azione tra le sigle sindacali maggiormente rappresentative, infatti, ha posto problemi inediti e – probabilmente – non previsti al momento della stipulazione degli Accordi del 1993: uno di essi è affrontato dalla sentenza in commento, e riguarda la necessità di evitare che il sindacato di maggioranza relativa in molti contesti aziendali, ma minoritario nell’organo collegiale, si trovi per tale ragione costretto a non esercitare – o ad esercitare solo parzialmente – le prerogative di cui al Titolo III l. n. 300/197051. Tali valutazioni sembrano applicabili anche al T.U. 2014. A ciò deve aggiungersi che, nel testo del T.U., gli elementi a sostegno di una strutturazione delle RSU secondo uno schema generalmente maggioritario non sono egemoni. Il richiamo compiuto dall’art. 7, parte II, sezione II del T.U. al principio maggioritario è caratterizzato, infatti – come evidenziato supra con argomentazioni condivise anche in dottrina52 – da elementi di ambiguità, e non chiarisce se esso vada riferito o meno a tutte le prerogative di competenza delle RSU. In direzione opposta, peraltro, si muove il nuovo art. 6, parte II, sezione II del medesimo T.U. che, riaffermando la decadenza del componente della RSU in caso di “cambio casacca”, rafforza il vincolo associativo tra componente dell’organo rappresentativo e associazione sindacale di riferimento, indebolendo le argomentazioni dirette a configurare le RSU come organi integralmente collegiali53.
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Cfr. note 7 e 8. Sull’esigenza di contrappesi ad una impostazione maggioritaria nelle RSU v., anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, Fontana, op. cit., 582 ss. 52 Giasanti, op. cit. 781-782. 53 Inter alia, Federici, op. cit., 150 ss. 51
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Il quadro che emerge dall’esame delle norme prodotte dall’autonomia collettiva, quindi, non è abbastanza nitido per costituire un presupposto funzionale a sostenere che, pro futuro, sarebbe stato sottratto ai singoli componenti delle RSU il diritto di convocare l’assemblea sindacale di cui all’art. 20 L. 300/197054. Il perdurare di orientamenti divergenti sottolinea, tuttavia, l’esigenza di un intervento da parte del legislatore, già evocato anche dalle proposte de iure condendo esaminate supra55, che, nel disciplinare l’intera materia della rappresentanza sindacale nel settore privato, specifichi anche quali siano i soggetti titolari delle prerogative di cui all’art. 20 St. lav. Matteo Avogaro
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Anche se tale soluzione non è esente da criticità, quale, ad esempio, il rischio che una delle organizzazioni sindacali, sfruttando le 3 ore di assemblea riservate alle associazioni che hanno sottoscritto il CCNL applicato nell’unità produttiva e, per le restanti 7 ore attribuite alle RSU, la convocazione “disgiunta” da parte del proprio rappresentante, “monopolizzi” le 10 ore di assemblea retribuita prenotandole in anticipo sulle altre. L’art. 20 St. lav. prevede, infatti, che in caso di richieste plurime, si applichi il criterio cronologico con riferimento alla data di convocazione; cfr. sul punto, anche Cass., 10 febbraio 2015, n. 2548, in D&G, 2015, 11 febbraio; Cass., 22 luglio 2010, n. 27217, in RIDL, 2011, 2, II, 396 ss., con nota di Del Vecchio. Si noti inoltre che l’applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, in particolare nel quadro del T.U. del 2014 che prevede l’elezione da parte dei lavoratori di tutti i membri della RSU, finisce per determinare una singolare situazione per cui vi saranno componenti dell’organo di rappresentanza che, pur avendo la medesima fonte di legittimazione elettiva, beneficeranno di diritti tra loro diversi, in base al fatto che l’organizzazione sindacale a cui sono iscritti disponga o meno dei requisiti dell’art. 19 St. lav. 55 V. par. 4.
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Giurisprudenza Corte di Cassazione, sentenza 21 marzo 2017, n. 18020; Pres. Amoroso – Rel. Garri – P.M. Celeste (concl. conf.) – M.P. (avv. Miraglia, Giannubilo) c. Alitalia - Compagnia Aerea Italiana S.p.A. (avv. Morrico). Cassa con rinvio App. Roma sent. n. 6360/2015. Licenziamenti – Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Impossibilità sopravvenuta del lavoratore – Mancata risoluzione automatica in virtù dell’art. 15 CCNL –Qualificazione del recesso quale licenziamento ex art. 2119 c.c. – Obbligo di verifica di adibizione ad altre mansioni compatibili.
Nel caso di licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore che sia stata accertata essere temporanea e senza che il datore di lavoro abbia provveduto a reimpiegare il lavoratore in mansioni diverse, trova applicazione l’art. 18, comma 7 primo alinea, dello Statuto dei Lavoratori (l. n. 300/1970), nel testo modificato dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, che prevede espressamente la reintegrazione per il caso in cui si accerti il difetto di giustificazione del licenziamento senza attribuire al giudice alcuna discrezionalità.
(Omissis) Svolgimento del processo. – 1. La Corte di appello di Roma, decidendo sul reclamo ex art. 1, comma 58 proposto da P.M., ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società Alitalia Compagnia Aerea Italiana s.p.a. in data 30 novembre 2012 in seguito all’accertata inidoneità permanente al volo. 1.1. Il giudice di appello ha ritenuto che la clausola di risoluzione automatica del rapporto di lavoro, prevista dall’art. 15 del c.c.n.l. di settore per il caso di inidoneità permanente al volo degli assistenti dichiarata dall’Istituto Medico Legale, legata unicamente all’accertata inidoneità permanente dichiarata dall’Istituto Medico legale senza la previsione di una qualche tutela o garanzia per il lavoratore, fosse nulla. 1.2. Ha sottolineato che nello specifico l’atto risolutivo era stato qualificato dal Tribunale come licenziamento, e non come mera presa d’atto dell’effetto risolutivo della clausola del contratto collettivo, e che tale qualificazione, non essendo stata impugnata, era coperta da giudicato. 1.3. Ha poi osservato che, ai fini della verifica della sussistenza del giustificato motivo oggettivo, l’inidoneità permanente al volo non poteva giustificare il recesso essendo necessario verificare l’esistenza di mansioni equivalenti, anche di terra, cui adibire il lavoratore. 1.4. Ha inoltre accertato, attraverso una consulenza medico legale, che al momento della cessazione del rapporto il lavoratore non era permanentemente inidoneo al rinnovo della licenza ma solo rivedibile dopo un congruo periodo ed ha concluso che non sussisteva il giustificato motivo posto a fondamento del recesso e che, comunque, l’inabilità accertata non pregiudicava la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni.
1.5. Ha escluso che il fatto posto a fondamento del licenziamento – per il cui accertamento si era reso necessario sia un accertamento medico legale dell’Istituto dell’aereonautica militare sia, in giudizio, una consulenza – potesse essere ritenuto manifestamente insussistente e, per conseguenza, in applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 5 e ss.mm., ha confermato l’avvenuto scioglimento del rapporto essendo esclusa la reintegrazione nel posto di lavoro, ma ha condannato la società al pagamento di un’indennità risarcitoria che ha liquidato in diciotto mensilità di retribuzione, con accessori dalla sentenza al saldo, tenuto conto dell’anzianità lavorativa del ricorrente e delle dimensioni della società datrice. 2. Per la cassazione della sentenza ricorre P.M. che articola tre motivi cui resiste con controricorso Alitalia CAI s.p.a. che propone contestuale ricorso incidentale basato su quattro motivi. P.M. ha resistito con controricorso. P.M. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. Motivi della decisione – 3. I motivi del ricorso principale:3.1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2118 e 1418 c.c., della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4 e della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Sostiene il ricorrente P. che la sentenza, pur avendo correttamente accertato e dichiarato la nullità dell’art. 15 del c.c.n.l. di categoria, ha erroneamente affermato che la qualificazione come licenziamento e non come presa d’atto della risoluzione di diritto del rapporto, effettuata dal Tribunale in sede di opposizione, non era stata specificatamente impugnata e sarebbe perciò passata in giudicato. Osserva che la Corte di appello, pur avendo esattamente accertato la nullità della clausola contrattuale collettiva che
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prevedeva la risoluzione di diritto del rapporto e, correttamente, rammentato che lo stesso non poteva che risolversi con una comunicazione di recesso – essendo i modi estintivi del contratto di lavoro tipici e definiti per legge – aveva errato, poi, nel ritenere necessaria l’impugnazione della qualificazione giuridica data dal giudice dell’opposizione al provvedimento risolutivo atteso che all’inesistenza di un valido recesso conseguiva, necessariamente, la prosecuzione del rapporto di lavoro, con obbligo della società di ripristinarlo corrispondendo tutte le retribuzioni medio tempore maturate. Precisa poi che, solo con la consulenza disposta in sede di reclamo era stato accertato che non sussisteva quella inidoneità permanente all’attività di assistente di volo su cui era fondato il recesso e che, per conseguenza, questo doveva essere considerato inesistente. In ultimo sottolinea che la comunicazione, che richiama una disposizione collettiva di cui si è accertata la nullità, non sarebbe idonea a produrre alcun effetto sul contratto di lavoro e, pertanto, mancando di fatto una comunicazione scritta di licenziamento, troverebbe applicazione la L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1 e la Corte avrebbe dovuto disporre la reintegrazione nel posto di lavoro con tutte le conseguenze di legge. 3.2. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4, 5 e 7 e della L. n. 604 del 1966, art. 2. Sostiene il ricorrente che, anche ove si volesse confermare la qualificazione giuridica di licenziamento dell’atto risolutivo, in ogni caso la sentenza avrebbe erroneamente limitato la tutela alla sola indennità risarcitoria, senza disporre la reintegrazione, sebbene il motivo posto a base del recesso – inidoneità fisica/ psichica del lavoratore – fosse risultato insussistente. 3.3. Con il terzo motivo di ricorso, in ulteriore subordine, si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 5 e 7, e della L. n. 604 del 1966, art. 2. Erroneamente il giudice del reclamo avrebbe ritenuto che dalla necessità di procedere ad accertamenti potesse desumersi una non manifesta insussistenza del fatto sottostante il licenziamento. Ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria, è necessario procedere ad una verifica dell’insussistenza del fatto al momento del licenziamento. La consulenza disposta in sede di reclamo aveva accertato, diversamente dal giudizio dell’IML, che lo stato ansioso con note distimiche era temporaneo ed in miglioramento, che non pregiudicava il possesso delle licenze di volo e che comunque era compatibile con lo svolgimento di servizio a terra. Conseguentemente, poichè il fatto posto a base del recesso era risultato insussistente e la società era rimasta inadempiente all’obbligo di provare l’impossibilità del repechage, si sarebbe dovuto procedere alla reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18, comma 4 citato. 4. I motivi del ricorso incidentale. 4.1. Con il primo motivo di ricorso incidentale è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art.
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1362 c.c.. Sostiene la società che erroneamente la Corte di appello avrebbe ritenuto che il rapporto si era risolto ai sensi dell’art. 15 del c.c.n.l. di settore laddove invece, senza alcun richiamo alla disposizione collettiva, la decisione di risolvere il rapporto di lavoro era stata adottata “a seguito del giudizio di inidoneità permanente, emesso dall’Istituto Medico Legale dell’A.M. di Roma in data (Omissis) con Estratto del Processo verbale di visita n. (Omissis) (...)”. Pertanto la verifica giudiziale doveva riguardare la legittimità o meno del licenziamento entro tali confini e non la nullità della clausola collettiva. 4.2. Con il secondo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 15, comma 1 del contratto collettivo di settore. Nel rammentare che alla declaratoria di nullità della clausola collettiva non sarebbe potuta conseguire nella specie una illegittimità del recesso atteso che di tale disposizione non era fatto alcun richiamo nella lettera di risoluzione del rapporto di lavoro, la società ricorrente sostiene che, comunque, le parti sociali, nel prevedere che per effetto dell’inidoneità permanente dichiarata dall’IML si “determina la risoluzione di diritto del rapporto di lavoro” non hanno introdotto una ipotesi di risoluzione automatica ma hanno piuttosto esplicitato un principio di carattere generale espressione della regola dettata dagli artt. 1463 e 1464 c.c. in base al quale l’impossibilità della prestazione costituisce causa di risoluzione del contratto. Evidenzia poi come, nel rapporto di lavoro aereonautico l’impossibilità sopravvenuta è regolamentata dal Codice della navigazione che agli artt. 343 e 914 prevede casi di risoluzione di diritto del contratto di arruolamento ed inoltre sottolinea come la disposizione collettiva risulti coerente con la speciale normativa aereonautica applicabile di tal che ove l’assistente di volo, all’esito della visita di controllo, risulti inidoneo alle attività previste all’atto dell’assunzione il datore di lavoro è tenuto ad attivarsi per evitare che questi continui a svolgerle. 4.3. Con il terzo motivo di ricorso incidentale, poi, è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1256, 1463 e 1464 c.c. per non avere la Corte di merito adeguatamente considerato che la risoluzione era intervenuta per effetto di una impossibilità sopravvenuta del lavoratore a rendere la prestazione e dunque in applicazione della disciplina dettata in via generale dal codice civile e non delle norme in tema di licenziamento. In sostanza, secondo la società, una volta accertata l’inabilità e la conseguente ridotta capacità lavorativa del dipendente con riferimento alle normali e abituali prestazioni assegnate il datore di lavoro poteva recedere dal rapporto ai sensi dell’art. 1464 c.c. non avendo un interesse apprezzabile ad un parziale adempimento della prestazione. 4.4. Con l’ultimo motivo di ricorso incidentale, infine, è lamentata la violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3. Sostiene la ricorrente che, come risulta documentalmente, la società non è receduta
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immediatamente, dopo il primo giudizio di inidoneità del (Omissis), ma ha sospeso il lavoratore per sei mesi e solo nel novembre, avendo accertato che persistevano le condizioni di inabilità, ha risolto il rapporto di lavoro. Tanto premesso sostiene la ricorrente in via incidentale che erroneamente la Corte di appello avrebbe ritenuto sussistente in capo al datore di lavoro un obbligo di sospendere il rapporto al di fuori dei casi previsti dall’art. 2110 c.c. o da altre leggi speciali; del pari erroneamente avrebbe ritenuto che fosse onere della società trovare al dipendente un’altra collocazione compatibile con la sua residua idoneità alla prestazione; ha evidenziato che l’obbligo di repechage, ove pure esistente posto che nello specifico la risoluzione del rapporto non era frutto di una riorganizzazione datoriale, avrebbe dovuto essere valutato con riferimento alle allegazioni del lavoratore relative ad altre posizioni lavorative in cui sarebbe stato possibile ricollocarlo; ha sottolineato infine che, ad ogni buon conto, sin dalla prima fase di giudizio si era chiesto di provare che il personale navigante non era ricollocabile, in ragione delle specifiche competenze, nei servizi di terra. 5. Per ragioni di ordine logico vanno esaminate con precedenza le censure formulate nel ricorso incidentale proposto da Alitalia Compagnia Aerea Italiana s.p.a. che sono infondate e devono essere rigettate. 5.1. Va rammentato che, come affermato da questa Corte, proprio con riferimento ad una controversia che coinvolgeva personale in servizio presso una compagnia aerea, “In tema di sopravvenuta inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnate, il licenziamento disposto dal datore di lavoro va ricondotto, ove il lavoratore possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse, al giustificato motivo oggettivo ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3 (...) diversamente dall’ipotesi in cui la prestazione sia divenuta totalmente e definitivamente impossibile, senza possibilità di svolgere mansioni alternative, nel qual caso va ravvisata una causa di risoluzione del rapporto che non ne consente la prosecuzione, neppure provvisoria ai sensi dell’art. 2119 c.c. (...).” (cfr. Cass. 29/03/2010 n. 7531 ed ivi ampi riferimenti di giurisprudenza) e la qualificazione del recesso è demandata al giudice di merito. Ed infatti, secondo il prevalente indirizzo di questa Corte dal quale non vi è ragione di discostarsi, i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, fatta eccezione per le specifiche ipotesi previste dalla legge, sono suscettibili di risoluzione soltanto a seguito di iniziativa del datore di lavoro senza che operi un’estinzione determinata dall’impossibilità sopravvenuta prevista in generale per tutti i contratti a prestazioni corrispettive in ragione della definitiva alterazione del sinallagma contrattuale. Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato non si risolve in via automatica per la sopravvenuta impossibilità della prestazione, esclusa la compatibilità con la disciplina di settore degli effetti risolutori regolati dal diritto comune agli artt. 1256, 1463 e 1464 c.c.. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa per una causa imputabile al datore di lavoro ovvero per altra ragione co-
munque non imputabile al lavoratore (quasi sempre per casi di inidoneità fisica, carcerazione preventiva e revoca di permessi o concessioni amministrative indispensabili al dipendente per eseguire la propria attività) configura un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3 (cfr. in termini tra le tante oltre alla citata Cass. n. 7531 del 2010, più recentemente, Cass. 11/06/2015 n. 22410 in motivazione). In definitiva l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa deve essere fatta valere mediante il licenziamento e le sue regole, anche causali a garanzie degli interessi coinvolti e tutelati dall’ordinamento particolarmente evidenti in occasione di eventi impeditivi non necessariamente incompatibili con la permanenza del rapporto di lavoro. Si è allora affermato che ove il licenziamento sia intimato a cagione di una inabilità al lavoro, oltre ad accertare anche con una consulenza d’ufficio l’esistenza delle condizioni di inabilità (a prescindere dalla valutazione espressa, in quel caso dalla Commissione medica ospedaliera, di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 5 priva di valore vincolante anche il datore di lavoro), si deve verificare ai fini della risoluzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, e l’onere probatorio grava sul datore di lavoro, che non sia possibile in alcun modo destinare il lavoratore ad altre mansioni (anche inferiori) compatibili con lo stato di salute ed attribuibili senza alterare l’organizzazione produttiva, sempre che il dipendente non abbia già manifestato a monte il rifiuto di qualsiasi diversa assegnazione (cfr. Cass. 17/06/2015 n. 12489). 5.2. A tali principi si è attenuta la Corte di merito che nell’interpretare la lettera di licenziamento ha verificato che la ragione della risoluzione del rapporto era proprio una impossibilità sopravvenuta della prestazione connessa all’inidoneità permanente al volo accertata dall’Istituto Medico Legale di Roma. Ha poi – strumentalmente alla verifica dell’esistenza di tale inidoneità permanente – accertato che la clausola collettiva (l’art. 15 del c.c.n.l. evidentemente sottinteso all’esercizio del potere di recesso dal rapporto di lavoro) non era di per sé sufficiente a giustificarne la risoluzione automatica e che la legittimità del licenziamento doveva essere verificata alla luce dei principi generali in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo o, tutt’al più, alla luce della regola generale dettata dall’art. 2119 c.c. Ha quindi in concreto verificato, per il tramite di una consulenza medico legale, con accertamento di merito che in questa sede non è censurabile, che il P. al momento della cessazione del rapporto non era permanentemente inidoneo al rinnovo delle licenze ma, piuttosto rivedibile, dopo un congruo periodo di tempo ferma la possibilità di adibirlo a mansioni diverse. In sintesi ha dato corretta applicazione ai principi sopra richiamati escludendo che al momento del recesso si fosse realizzata quella situazione di impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti e compatibili con le sue residue capacità lavorative, senza che ciò comporti una modifica dell’assetto aziendale.
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5.3. Per le ragioni esposte il ricorso incidentale deve essere rigettato. 6. Le censure formulate nel ricorso principale, da esaminare congiuntamente in ragione della connessione delle questioni dalle stesse sottoposte all’attenzione del Collegio, investono sotto vari profili le conseguenze della accertata insussistenza di una valida ragione di risoluzione del rapporto di lavoro e sono fondate nei termini di seguito esposti. 6.1. Va premesso che, come si è verificato nel rispondere al ricorso incidentale della società, la Corte territoriale ha correttamente accertato che il P. era stato licenziato a cagione di una insussistente inidoneità permanente al lavoro. In esito ad una indagine medico legale aveva verificato, infatti, che il lavoratore era solo temporaneamente inidoneo allo svolgimento delle mansioni proprie dell’assistente di volo, con giudizio da rivedere e che, comunque, residuava una capacità lavorativa in mansioni di terra. 6.2. Va rilevato allora che alla caso in esame trova applicazione la L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7 nel testo modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92 il quale dispone che, nell’ipotesi in cui il licenziamento sia stato intimato per un giustificato motivo oggettivo individuato, tra le altre ipotesi, “nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore”, “il giudice applica la medesima disciplina di cui al comma 4 del presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione” (cfr. per una applicazione della disposizione in esame Cass. 04/10/2016 n. 19774 ed anche Cass. 30/11/2015 n. 24377). 6.3. Erroneamente allora la Corte di merito ha ritenuto di dover applicare la disposizione nella parte in cui autorizza il giudice solo per il caso di manifesta insussistenza del fatto laddove invece nel caso in cui, come quello in esame, il licenziamento sia stato intimato “per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore” trova applicazione l’art. 18, comma 7, primo alinea, che prevede espressamente la reintegrazione per il caso in cui si accerti il difetto di giustificazione del licenziamento senza attribuire al giudice alcuna discrezionalità (cfr. Cass. 30/11/2015 n. 24377). Ne consegue che sul punto la sentenza deve
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essere cassata e rinviata alla Corte di appello di Roma in diversa composizione che stabilirà le conseguenze dell’accertata illegittimità del recesso in base al disposto della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4 come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92. 6.4. Alla Corte del rinvio è rimessa anche la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità. 6.5. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014). Ne consegue che la Società ricorrente in via incidentale sarà tenuta al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello già versato a norma dell’art. 13, comma 1 bis citato D.P.R. P.Q.M. La Corte, accoglie nei sensi di cui in motivazione il ricorso principale, rigettato il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis citato D.P.R.
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Licenziamento intimato per motivo oggettivo a seguito di accertata inidoneità fisica del lavoratore: obbligo di reimpiego se residua la capacità lavorativa Sommario : 1. Il caso. – 2. Ambito normativo e orientamenti giurisprudenziali. – 3. Le questioni di diritto affrontate e la soluzione adottata dalla Corte di legittimità.
Sinossi. Con la sentenza in esame la Cassazione ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni. Secondo la ricorrente sussiste una impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa che, in ragione del combinato dell’art. 1256 c.c. e degli artt. 1463 e 1464 c.c., giustifica la risoluzione del rapporto. Tuttavia la Corte ha osservato che i rapporti a tempo indeterminato sono suscettibili di risoluzione soltanto a seguito di iniziativa del datore, senza una risoluzione automatica per la sopravvenuta impossibilità della prestazione. Essa, se riconducibile a ragioni non imputabili al lavoratore, configura un g.m.o. di licenziamento con applicazione dei principi dettati per tale istituto. La Corte ha concluso affermando che in tale caso il datore deve verificare la possibilità di reimpiego in altre mansioni compatibili ed attribuibili senza alterare l’organizzazione aziendale. In difetto di tale verifica, il recesso deve ritenersi illegittimo, trovando applicazione la disciplina detta dall’art. 18, comma 7, l. n. 300/1970.
1. Il caso. La Corte di Cassazione affronta, nella sentenza in commento, la questione della validità del recesso per giustificato motivo oggettivo in caso di sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore con specifico riferimento all’ipotesi contemplata dall’art. 15 CCNL di settore (trasporto aereo), approfondendo altresì il tema della qualificazione della avvenuta risoluzione del rapporto quale atto di licenziamento intimato dal datore di lavoro e/o diversamente quale automatico effetto risolutivo della clausola del contratto collettivo citato. La fattispecie in esame prende le mosse dal ricorso ex art 1, comma 48, l. n. 92/2012 promosso da un assistente di volo che ha impugnato il licenziamento intimatogli dalla compagnia aerea presso la quale era impiegato, adducendo l’insussistenza di validi motivi a fondamento della risoluzione di diritto del rapporto e quindi la totale assenza di un giustificato motivo di recesso in violazione dell’art. 3 della l. n. 604/66. A definizione del giudizio sommario e di opposizione il Giudice del lavoro di Civitavecchia ha ritenuto legittimo il licenziamento del ricorrente rilevando la correttezza del giudi-
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zio medico e dunque la totale e definitiva impossibilità della prestazione, senza possibilità di svolgere mansioni alternative, con conseguente risoluzione del rapporto di lavoro ex art. 2119 c.c. La Corte di Appello di Roma, dopo aver qualificato la risoluzione del rapporto di lavoro come “licenziamento”, ha ritenuto la nullità della clausola di risoluzione automatica del rapporto di lavoro prevista dall’art. 15 CCNL di settore: Ha quindi disposto una consulenza medico-legale al fine di accertare la capacità residua lavorativa in capo all’ex dipendente. Quindi, ritenuto che il fatto posto a base del recesso non fosse manifestamente insussistente, conseguentemente in applicazione del V comma dell’art. 18, l. n. 300/1970, ha ritenuto l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo dichiarando risolto il rapporto di lavoro, con condanna dell’azienda al pagamento dell’indennità risarcitoria.
2. Ambito normativo e orientamenti giurisprudenziali. In questo quadro normativo e giurisprudenziale si inserisce la sentenza ivi annotata della Corte di legittimità il cui orientamento interpretativo, in parziale difformità a quello espresso dalla Corte di appello romana in punto di sanzione applicabile al caso di specie, è concentrato nel seguente principio di diritto affermato per il giudizio di rinvio: “La Corte territoriale ha correttamente accertato che il lavoratore era stato licenziato a cagione di una insussistente inidoneità permanente al lavoro. In esito ad una indagine medico legale aveva verificato, infatti, che il lavoratore era solo temporaneamente inidoneo allo svolgimento delle mansioni proprie dell’assistente di volo, con giudizio da rivedere e che, comunque, residuava una capacità lavorativa in mansioni di terra. Va rilevato allora che al caso in esame trova applicazione l’art. 18, comma 7, della L. n. 300 del 1970 nel testo modificato dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012 il quale dispone che, nell’ipotesi in cui il licenziamento sia stato intimato per un giustificato motivo oggettivo individuato, tra le altre ipotesi, ‘nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore’, il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione” (cfr. per una applicazione della disposizione in esame Cass. 4/10/2016 n. 19774 ed anche Cass. 30/11/2015 n. 24377)”. La pronuncia in commento giunge alla suestesa conclusione affermando previamente che il provvedimento di licenziamento in oggetto, conferente la sopravvenuta inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnate, deve essere ricondotto – ove il lavoratore possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse – al giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3, l. n. 604/1966; solo nel caso in cui la prestazione sia divenuta “totalmente e definitivamente” impossibile potrà essere ravvisata una causa di risoluzione del rapporto ai sensi dell’art. 2119 c.c., deferendo al giudice di merito la qualificazione del recesso. L’art. 3 della l. n. 604/1966 definisce il licenziamento per giustificato motivo oggettivo quello determinato “da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Rientrano quindi nell’ambito del giustificato motivo oggettivo sia i licenziamenti determinati da esigenze aziendali sia quelli che concernono vicende del lavoratore prive di valenza disciplinare ma incidenti sul regolare funzionamen-
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to dell’azienda ed inquadrabili come ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione (inidoneità fisica o psichica del lavoratore, intervenuta carcerazione, etc.). Quanto alla prima tipologia, devono distinguersi le scelte del datore di lavoro che sono libere e insindacabili ai sensi dell’art. 41 Cost., dalle ragioni che, essendo inerenti, come stabilisce l’art. 3, all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, rilevano oggettivamente, e infatti sono concisamente definite nella prassi «esigenze oggettive dell’azienda», e quindi, ben si può dire che la loro effettività è controllabile dal giudice1. Ancor più chiaramente si deve dire che le scelte sono indicate dal datore di lavoro e competono esclusivamente a lui che sopporta il rischio, ma le ragioni di cui all’art. 3 non possono essere decise dal datore di lavoro, perché derivano da regole di normalità tecnico-organizzativa e per questo si dice che sono addotte dal datore di lavoro in giudizio come requisiti che integrano il giustificato motivo oggettivo2. Al riguardo, merita menzione una recente sentenza della Suprema Corte3 la quale ha riconosciuto la rilevanza della ragione non solo economica ma anche organizzativa come requisito estremo del giustificato motivo oggettivo. Secondo la menzionata pronuncia, al di là delle situazioni economiche sfavorevoli non contingenti oppure delle spese straordinarie, che come è noto, secondo una parte della giurisprudenza sono le sole ragioni che integrano il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, anche una ragione esclusivamente organizzativa è di per sé sufficiente ad integrare le “ragioni” di cui all’art. 3 l. n. 604/19664.
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In generale sul licenziamento per ragioni economiche si veda: Perulli (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Giappichelli, 2017; Ferraresi, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, Giappichelli, 2016; Varva, Il licenziamento economico, Giappichelli, 2015; Brun, Il licenziamento economico tra esigenze dell’impresa e interesse alla stabilità, Cedam, 2012. G. Santoro Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: dalla ragione economica alla ragione organizzativa, in LG, 2017, 429.; Ballestrero, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Una rilettura della giurisprudenza della Cassazione alla luce della riforma dell’art. 18, in LD, 2013,559 ss.; Natullo, La cassazione delimita il controllo del giudice sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in RGL, 2017, II, 257. 2 «In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 cost.; ove, però, il giudice accerti in concreto l’inesistenza della ragione organizzativa o produttiva, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta». Così Cass. 3 maggio 2017, n. 10699, inedita a quanto consta. « Ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale necessario del recesso, essendo sufficienti ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, ivi comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, purché idonee a determinare un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo; ciò, peraltro, non significa assimilare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ad un recesso ad nutum perché, sebbene la decisione imprenditoriale di ridurre la dimensione occupazionale dell’azienda possa essere motivata anche da finalità che prescindano da situazioni sfavorevoli e che perseguano l’obiettivo dell’aumento di redditività dell’impresa, tuttavia è pur sempre necessario: che la riorganizzazione aziendale sia effettiva; che la stessa si ricolleghi causalmente alla ragione dichiarata dall’imprenditore; che il licenziamento si ponga in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all’operata ristrutturazione». Così Cass. civ., 15 febbraio 2017, n. 4015, inedita a quanto consta. 3 Cass., 7 dicembre 2016, n. 25201, in FI, 2017, 123 e 569 con note di G. Santoro Passarelli e Ferrante. 4 G. Santoro Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: dalla ragione economica alla ragione organizzativa, in MGL, 2017, 318; Perulli, Giustificato motivo oggettivo, soppressione del posto e paradigma del diritto del lavoro, in Perulli (a cura di), Il licenziamento, cit. 92.
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Quanto invece al licenziamento per motivo oggettivo derivante da impossibilità sopravvenuta – fattispecie all’esame della Suprema Corte nella sentenza in commento – lo stesso si configura alla sopravvenienza di condizioni che impediscono al lavoratore di rendere la prestazione per motivi indipendenti dalla sua volontà, ex artt. 1256, 1463 e 1464 c.c., quale, tra le diverse ipotesi, l’infermità permanente sopravvenuta cui consegue una incapacità totale o parziale del lavoratore a svolgere le proprie mansioni per un periodo determinabile o indeterminabile5. L’esame della questione involve problematiche teoriche e pratiche di particolare rilievo, già oggetto in passato di ricostruzioni discordanti da parte della giurisprudenza e sulle quali i Supremi Giudice intervengono nuovamente, assecondando l’indirizzo più recente e consolidato. Antecedentemente alla sentenza n. 7755 del 7 agosto 1998 resa dalle sezioni unite della Cassazione6, il lavoratore che nel corso dello svolgimento del rapporto fosse divenuto inidoneo alle mansioni precedentemente disimpegnate, a seguito di flessione dello stato di salute determinativo di una parziale inabilità psico-fisica (di durata indeterminata e non temporanea e comunque non ascrivibile a colpa datoriale), non aveva alcun diritto a che l’azienda si attivasse per mantenerlo in organico, eventualmente ricercando – tra le molteplici mansioni sussistenti e disimpegnabili in azienda – una di quelle che risultasse confacente con il suo menomato stato di resa lavorativa. La prevalente giurisprudenza di legittimità dell’epoca riconduceva la legittimità della risoluzione del rapporto del lavoratore (incorso in situazione di sopravvenuta inabilità parziale al lavoro) alla previsione codicistica ex art. 1464 c.c. in luogo di ricondurre l’ipotesi risolutiva del rapporto sotto l’art. 3 della L. n. 604/66, ovvero entro l’ambito del “giustificato motivo oggettivo”, notoriamente implicante il tentativo datoriale di rêpechage del lavoratore, sempreché organizzativamente possibile e senza dover creare ad hoc mansioni o posizioni di lavoro7. Il delineato contrasto di opinioni8 determinò l’intervento delle sezioni unite della Cassazione che con la decisione n. 7755/19989, ribaltando un orientamento ultradecennale legittimante il licenziamento del lavoratore, ex art. 1464 c.c., divenuto inidoneo al disimpegno delle mansioni assegnategli, affermò che anche per tale fattispecie vige l’obbligo di repêchage asserito come condizione propedeutica per il licenziamento per “giustificato motivo oggettivo” (ex art. 3, l. n. 604/1966)10.
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Serrano, Prime osservazioni sulla nuova disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo per sopravvenuta inidoneità fisica in D&L, 2012, 552; Ferraresi, Inidoneità permanente al volo, impossibilità sopravvenuta della prestazione e giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in ADL, 2011, 136; Calcaterra, La giustificazione oggettiva del licenziamento. Tra impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009. Cfr. sul punto, Cass., 30 novembre 2015, n. 24377, in Il Giuslavorista.it, 7 marzo 2016, con nota di Patrizio: «non può costituire giustificato motivo di licenziamento la sopravvenuta inidoneità fisica allo svolgimento di mansioni diverse e non superiori rispetto a quelle per le quali il lavoratore è stato assunto, attesa la nullità del relativo atto di adibizione, prevista dall’art. 2103 c.c.». 6 Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755, in RIDL, 1999, II, 170, con nota di Pera. 7 Ex plurimis, Cass., 20 aprile 1998, n. 4012, in RIDL, 1999, II, 326, con nota di Mautone. 8 Cass., 21 maggio 1991, n. 5686; Cass., 26 giugno 1991, n. 7196; Cass., 21 maggio 1992, n. 6106; Cass., 14 maggio 1994, n. 7423; Cass., 13 marzo 1996, n. 2067; Cass., 6 novembre 1996, n. 9684. 9 Cass., 7 agosto 1998, n. 7755. 10 Le sezioni unite così motivarono la propria decisione, mutando radicalmente l’impostazione precedente: «Nel rapporto di lavoro
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3. Le questioni di diritto affrontate e la soluzione adottata
dalla Corte di legittimità.
Fermo quanto sopra premesso, la prima questione affrontata dai Giudici di legittimità attiene ai motivi di gravame sollevati in via incidentale dall’azienda, ed essenzialmente relativi alla riconducibilità del licenziamento intimato alla condizione di sopravvenuta impossibilità del lavoratore a rendere la prestazione e dunque ai sensi degli artt. 1463 e 1464 c.c. e non in virtù della disposizione contrattuale ex art. 15. Sul punto osserva la Suprema Corte che la giurisprudenza di legittimità ha sempre affermato che i rapporti di lavoro sono suscettibili di risoluzione solo a seguito di iniziativa del datore di lavoro, tale che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione non importa l’automatica estinzione del contratto. Con la conseguenza che laddove il provvedimento di risoluzione del contratto di lavoro consegua ad un giudizio di inabilità, ciò che si deve accertare, oltre alle condizioni di inabilità (non essendo vincolante il giudizio della commissione medica ospedaliera), è la possibilità di adibire il lavoratore – salvo suo espresso rifiuto – ad altre mansioni compatibili con lo stato di salute ed attribuibili senza alterare l’organizzazione produttiva. Ciò in quanto l’onere del repechage connesso alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo è sempre stato teorizzato dalla giurisprudenza come collegato alla tesi del licenziamento come extrema ratio, dimodoché il licenziamento può considerarsi legittimo soltanto se il datore di lavoro prova di non avere nessuna altra possibilità di occupazione del dipendente11. Laddove peraltro con l’introduzione da parte del legislatore dell’art. 3, d. lgs. n. 81/2015 che ha modificato l’art. 2103 c.c., prevedendo la facoltà per il datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore originariamente assegnate anche di livello di inquadramento inferiore, si è ampliato il potere del datore di modificare l’accordo sulle mansioni12.
subordinato la tutela dell’interesse del lavoratore all’adempimento trova il suo fondamento nei richiamati artt. 4 e 36 della Costituzione e serve quale criterio di interpretazione e di determinazione secondo buona fede degli effetti del contratto, il quale dà luogo non solo ad un rapporto di scambio ma inserisce il prestatore nella comunità d’impresa e destina la sua prestazione all’organizzazione produttiva. Ne discende che l’evento impeditivo, quale la sopravvenuta inidoneità ad una certa attività, dev’essere valutato, quanto alle sue conseguenze, in relazione agli obblighi di cooperazione dell’imprenditore-creditore, così tenuto non soltanto a predisporre gli strumenti necessari all’esecuzione del lavoro ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti dell’oggetto del contratto, ossia nei già detti limiti posti dall’art. 2103 del codice civile». 11 «In questa prospettiva si spiega anche la crescente dilatazione del ripescaggio: prima circoscritto alle mansioni equivalenti, poi anche a quelle inferiori, quindi ad ogni posizione lavorativa dislocata in qualsiasi unità produttiva dell’azienda, anche in rapporti di lavoro ad orario ridotto o, addirittura, in altre società appartenenti allo stesso gruppo». Così Maresca, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento: il prius, il posterius ed il nesso causale, in Perulli (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, cit. 79; da ultimo, sull’obbligo/onere di repechage, v. M.T. Carinci, Obbligo di “ripescaggio” nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del jobs act, in RIDL, 2017, I, 203. Si vedano anche: Cass., 5 gennaio 2017, n. 160, in RGL, 2017, II, 245, con nota di Calvellini; Cass., 7 dicembre 2016, n. 25192, in LG, 2017, 253, con nota di Garofalo e in NGCC, 2017, 348,con nota di G. Mazzotta. 12 «Muovendo da questa premessa, nell’ambito dell’art. 2103 c.c. si deve distinguere lo spostamento a mansioni appartenenti allo stesso livello di inquadramento (art. 2103, co 1) che costituisce una modalità ordinaria di esercizio del potere direttivo in quanto non richiede alcuna giustificazione causale, nessuna forma né il rispetto di specifiche condizioni, dallo spostamento a mansioni inferiori che, invece, rappresenta, in un caso, una modalità di esercizio di tale potere connotata da evidenti tratti di specialità (art. 2103, co. 2) e, nell’altro, l’oggetto di una pattuizione da concludere nell’interesse del lavoratore ed in forme tipiche che ne segnalano la singolarità art. 2103, co. 6)», così Maresca, op. cit.
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In ragione dei succitati principi la Suprema Corte, nel confermare la sentenza della Corte territoriale, evidenzia che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa deve essere fatta valere mediante il licenziamento e le sue regole e che in ipotesi – come nel caso di specie - di recesso intimato in ragione di una inabilità al lavoro – il datore, oltre ad accertare la sussistenza della condizione di inabilità, deve verificare l’esistenza di altre mansioni cui poter adibire il lavoratore, compatibili con il suo stato di salute. Di talché, la clausola collettiva ex art. 15 ccnl di settore non è sufficiente a giustificare la risoluzione automatica del rapporto di lavoro laddove la legittimità di detto licenziamento deve essere verificata alla luce dei principi generali in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo o al più alla luce della regola generale dettata dall’art. 2119 c.c. Ciò posto, passando alla disamina delle censure formulate nel ricorso principale e dunque alla seconda questione affrontata dalla Suprema Corte, previo richiamo di una precedente pronuncia13, la stessa ha affermato che in ipotesi – come nel caso di specie – di licenziamento intimato a seguito dell’accertamento di una inabilità al lavoro, il datore di lavoro deve verificare, con onere probatorio a suo carico, la concreta possibilità di destinare il lavoratore ad altre mansioni compatibili con il suo stato di salute, al medesimo attribuibili senza alterare l’organizzazione produttiva, approvando dunque il percorso argomentativo della Corte territoriale la quale, recependo i suesposti principi di diritto, ha ritenuto che la clausola ex art. 15 CCNL di settore non fosse di per sé sufficiente a giustificare la risoluzione automatica del contratto di lavoro che invece doveva essere valutata alla luce dei principi generali di cui alla l. n. 604/1966 e della regola altrettanto generale dettata dall’art. 2119 c.c. In ragione di ciò, comprovato alla luce della consulenza medico legale lo stato “temporaneo” di inabilità del lavoratore e dunque venuta meno la condizione di risoluzione in via automatica contemplata dalla norma contrattuale dichiarata nulla, non è risultato sussistente il motivo oggettivo posto a fondamento del recesso, in assenza di verifica da parte datoriale della possibilità di adibire il dipendente a mansioni diverse e comunque compatibili con quelle per le quali era stato assunto. Da qui la Suprema Corte, mutuando da una precedente decisione assunta in un caso analogo in materia di pubblico impiego, ha ritenuto applicabile il comma 7 dell’art. 18, L. n. 300 del 1970, laddove la norma richiamata non distingue tra inabilità assoluta e relativa alle mansioni svolte, facendo ampio e generale richiamo al motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, così che esso può trovare esattamente applicazione nel caso concreto. Lorena Carleo
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Cass., 17 giugno 2015, n. 12489.
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Giurisprudenza Corte di C assazione, sentenza 10 aprile 2017, n. 9166; Pres. Napoletano – Est. Amendola – P.M. Ceroni (concl. conf.) - C.B.M., C.F. (Avv. Vespaziani) c. Allianz s.p.a. (Avv. Trifirò, Favalli e Zucchinali). Cassa con rinvio App. Napoli sent. n. 6815/2014. Infortuni e malattie professionali – danno complementare – presupposto – inadempimento – danno differenziale – presupposto – reato – quantificazione danno differenziale – sottrazione al danno civilistico per poste omogenee di quanto indennizzato dall’Inail.
In caso di infortunio o malattia professionale, per verificare l’esistenza di un danno differenziale, il Giudice deve accertare l’inadempimento datoriale e se ricorrono le condizioni soggettive ed oggettive per l’applicabilità della assicurazione obbligatoria Inail. Accertato l’inadempimento deve verificare quali voci di danno sono immediatamente sottoponibili alle regole del risarcimento per inadempimento, perché non coperte da assicurazione obbligatoria (danno c.d. complementare), e, verificata anche ex officio l’applicabilità dell’art. 10 DPR 1124/1965, accertare se vi sono voci di danno differenziale in presenza dei presupposti che fanno venire meno l’esonero (reato perseguibile d’ufficio) per i danni coperti dall’assicurazione Inail. Se esiste una responsabilità penale del datore o dei lavoratori, dovrà quindi liquidare il danno differenziale. A tal fine, valutato il danno civilistico, da esso deve essere detratto ex officio quanto indennizzabile dall’Inail, a prescindere dal fatto che l’Inail abbia in concreto provveduto all’indennizzo, mettendo a confronto le medesime componenti di danno (quota di danno biologico indennizzato dall’Inail).
Fatti di causa. – (Omissis). 1. Il Tribunale di Napoli, adito da CBM, condannò la datrice di lavoro RAS - Riunione Adriatica di Sicurtà Spa al pagamento in favore del dipendente di una somma pari al 100% della retribuzione da costui goduta per il periodo dal 27.9.2002 al 23.2.2004 a titolo di risarcimento del danno per dequalificazione professionale, di euro 24.880,00 a titolo di risarcimento del danno biologico e di euro 1.072,00 a titolo di risarcimento del danno morale, oltre accessori. Proposto appello da parte della società soccombente, la Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 13 dicembre 2013, in parziale riforma della decisione di prime cure, ha condannato la RAS al pagamento di una somma pari al 50% della retribuzione goduta dal CBM a titolo di risarcimento del danno professionale per il periodo indicato; ha poi rigettato le altre domande proposte dal lavoratore. La Corte territoriale ha condiviso la valutazione già operata in fatto dal Tribunale per cui dalle risultanze istruttorie sarebbe emerso che “l’istante ha subito un sistematico isolamento lavorativo e tale condizione si è congiunta con una privazione effettiva delle mansioni” per il periodo dal settembre 2002 al febbraio 2004, tuttavia dimidiando il risarcimento del danno determinato dal primo giudice per la lesione alla professionalità. Con riferimento al risarcimento del danno biologico e del danno morale, come riconosciuti in primo grado, la Corte napoletana ha invece accolto
l’appello della società datrice di lavoro, respingendo le pretese attoree, in quanto indennizzabili dall’INAIL a mente del Decreto Legislativo n. 38 del 2000. 2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso CBM con dieci motivi. Ha resistito Allianz Spa con controricorso contenente impugnazione incidentale affidata ad otto motivi. A quest’ultima ha opposto controricorso il CBM Entrambe le parti hanno comunicato memorie ex articolo 378 c.p.c. Ragioni della decisione - (Omissis) 3. I motivi del ricorso principale del lavoratore attingono, invece, la sentenza della Corte di Appello nella parte in cui ha negato, riformando la sentenza del locale Tribunale, il risarcimento del danno biologico e morale. Come risulta dalla stessa sentenza qui impugnata, con la pronuncia di primo grado era stato riconosciuto che dall’illecito contrattuale posto in essere dalla datrice di lavoro, “in violazione degli obblighi sulla stessa gravanti ex articolo 2087 c.c.”, era scaturito per il CBM un danno biologico permanente, “costituito dal disturbo dell’adattamento con umore depresso di grado medio”. Si era dunque proceduto, sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano, alla liquidazione del danno biologico con riferimento ad una percentuale di menomazione psichica determinata, sulla scorta di una consulenza medico legale, nella misura del 15%, nonché alla quantificazione del danno morale in misura pro quota della
Giurisprudenza
somma liquidata a titolo di danno biologico. Al cospetto dell’appello della soccombente con cui si ribadiva il “difetto di legittimazione passiva”, sull’assunto che, in seguito alla riforma di cui al Decreto Legislativo n. 38 del 2000 che ha assorbito le lesioni all’integrità psicofisica nell’ambito della copertura assicurativa obbligatoria, ogni pretesa in tal senso doveva essere oramai indirizzata nei confronti dell’INAIL, la Corte territoriale ha accolto il gravame. Ha rilevato, infatti, che “nel ricorso introduttivo non vi è alcuno specifico riferimento ad eventuali profili di danno differenziale sui quali fondare l’azione risarcitoria nei confronti del datore di lavoro, di tal che deve conclusivamente ritenersi condivisibile la prospettazione della resistente circa il proprio difetto di legittimazione passiva sul punto”. Quanto al danno morale la stessa Corte, premesso che esso, “inteso quale sofferenza soggettiva, costituisce necessariamente una componente del danno biologico, atteso che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica”, ha ritenuto “inammissibile una autonoma liquidazione dello stesso”. (Omissis) 6. I residui motivi di ricorso principale possono essere come di seguito sintetizzati. Con il terzo motivo si denuncia “omesso esame del fatto impeditivo, costituito dalla ricorrenza degli elementi di reato di lesioni personali gravi da cui è derivata la malattia professionale, implicitamente accertato dal Tribunale di Napoli con la sentenza di primo grado n. 22014/06, oggetto di discussione nel giudizio di appello RG n. 6815/2007, e decisivo per la definizione del giudizio e per l’affermazione della permanenza della responsabilità civile del datore di lavoro e non del suo completo esonero; in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5”. Con il quarto mezzo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1218, 1223, 2087 e 2059 c.c., degli articoli 583 e 590 c.p., del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 10, commi 1, 2, 3, 5. Si deduce che la questione della astratta ricorrenza del reato di lesioni personali gravi, nella forma della malattia professionale, è questione immanente e contenuta nella domanda di risarcimento del danno biologico nella forma della permanente lesione della propria integrità fisica avanzata dal lavoratore per fatti avvenuti in occasione del rapporto di lavoro e riconducibili all’inadempimento doloso o colposo del datore di lavoro. Si afferma che il giudice del risarcimento non può automaticamente sussumere il caso del danno biologico, preteso a titolo di risarcimento, nella fattispecie di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 10, comma 1 e su tale base esonerare il datore di lavoro dalla propria responsabilità civile, al mero riscontro che il danno conseguenza costituisce anche un evento di malattia professionale non tabellata. Con il quinto motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione di norme di legge e di Costituzione censurando la sentenza impugnata per avere affermato che la domanda di
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risarcimento del danno sarebbe automaticamente preclusa dall’operatività del Decreto Legislativo n. 38 del 2000, articolo 13 anche nell’ipotesi della permanenza della responsabilità civile del datore di lavoro e nella parte in cui ha ritenuto che tale permanente responsabilità potrebbe essere invocata solo a titolo di danno differenziale. Con il sesto motivo si deduce violazione di plurime norme legge, processuale e sostanziale, censurando la parte della sentenza impugnata che avrebbe respinto la domanda risarcitoria “presupponendo... che fosse onere del lavoratore articolare fin dall’origine la domanda risarcitoria, allegando un danno differenziale”. Si contesta, tra l’altro, che fosse onere del lavoratore, che aveva agito con l’azione di responsabilità, dedurre e provare anche, persino in grado d’appello ed a fronte dell’accoglimento della domanda da parte del primo giudice, che il danno complessivo ascendesse a somma maggiore rispetto a quella liquidabile dall’INAIL. Con il settimo motivo si denuncia omesso esame del fatto, costituito dalla non coincidenza delle somme astrattamente liquidabili al dott. CBM a titolo di indennizzo per danno biologico ai sensi del Decreto Legislativo n. 38 del 2000, articolo 13 e del Decreto Ministeriale 12 luglio 2000, con le somme riconosciute dal Tribunale di Napoli a titolo di risarcimento del danno biologico. Con l’ottavo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 38 del 2000, articolo 13 e del Decreto Ministeriale 12 luglio 2000, tabella 3, per vizio di sussunzione della sentenza impugnata per avere ritenuto che la menomazione dell’integrità psichica subita dal dott. CBM rientrasse nella copertura assicurativa dell’Inail, pur in assenza di specifica previsione in detta tabella che non reca il “disturbo dell’adattamento con umore depresso di grado medio”. Con il decimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione di legge per avere la sentenza impugnata ritenuto che la voce del danno morale, quale componente del complessivo ed unitario danno non patrimoniale, sia anch’essa assorbita nel danno biologico indennizzabile dall’INAIL. I motivi esposti devono essere scrutinati congiuntamente, per la loro intima e reciproca connessione, e sono fondati nei confini segnati dalle considerazioni che seguono. 7. La controversia pone questione della possibile interferenza delle regole che presiedono il sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali nei giudizi promossi dal lavoratore per il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, asseritamente subiti in conseguenza di inadempimenti del datore di lavoro connessi all’espletamento dell’attività lavorativa. Ai fini di un ordinato iter motivazionale occorre muovere dal dato normativo. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 10, comma 1, nella formulazione tuttora vigente: “L’assicurazione a norma del presente decreto esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro”. La norma è applicabile anche agli eventi di malattia professionale in ragione del
Riccardo Diamanti
generale rinvio contenuto nell’articolo 131 stesso Testo Unico. Dal disposto chiaramente si ricava che, ex lege, per tutti i danni coperti dall’assicurazione obbligatoria il datore di lavoro non può essere chiamato a rispondere civilmente. Letta in positivo la regola è che l’esonero del datore di lavoro sussiste solo nei limiti in cui il danno sia indennizzabile. La stessa Corte costituzionale, nella pur progressiva espansione delle tutele del lavoratore, ha illustrato che “l’istituto dell’esonero ... è strettamente inserito nel vigente sistema previdenziale-assicurativo, come uno degli aspetti del complesso rapporto tra oggetto dell’assicurazione, erogazione dei contributi, prestazioni assicurative. Esso costituisce una garanzia per la quale – nell’ambito dei rischi coperti da assicurazione, ed in relazione ai quali il datore di lavoro eroga contributi egli non è tenuto al risarcimento del danno... L’esonero opera pertanto all’interno e nell’ambito dell’oggetto dell’assicurazione, cosi come delimitata dai suoi presupposti soggettivi ed oggettivi. Laddove la copertura assicurativa non interviene per mancanza di quei presupposti, non opera l’esonero: e pur trovando il danno origine dalla prestazione di lavoro, la responsabilità è disciplinata dal codice civile, senza i limiti posti dall’articolo 10 Testo Unico del 1965. Come è stato affermato in sintesi in dottrina, se non si fa luogo alla prestazione previdenziale, non vi è assicurazione: mancando l’assicurazione, cade l’esonero” (Corte cost. n. 356 del 1991; v. poi Corte cost. n. 405 del 1999; principi ribaditi anche da questa Corte: Cass. n. 1114 del 2002; Cass. n. 16250 del 2003; Cass. n. 8386 del 2006; Cass. n. 10834 del 2010). Ne consegue che ove l’assicurazione obbligatoria, notoriamente selettiva, non operi, per ragioni soggettive od oggettive, di esonero del datore di lavoro non è dato parlare. In tali casi vigono per il debitore le regole generali del diritto comune per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale. Per comodità espositiva tali tipologie di danni possano sinteticamente definirsi, come convenzionalmente accade, “danni complementari”, nel senso di danni non coperti dall’assicurazione obbligatoria. 8. Se l’esonero opera esclusivamente in relazione alle conseguenze dannose derivanti da infortuni o malattie professionali che rientrano nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria è indispensabile individuare quali siano gli eventi indennizzabili secondo le regole vigenti tempo per tempo. Vuole dirsi che, per come è strutturata la disciplina, all’ampliamento ovvero al restringimento dei limiti soggettivi ed oggettivi dell’assicurazione obbligatoria corrisponde una dilatazione o un ridimensionamento della responsabilità del datore di lavoro. Tale fenomeno si è reso particolarmente evidente proprio in relazione al danno biologico, originariamente non coperto dall’INAIL, per cui costituiva danno complementare sottratto alla regola dell’esonero ed il datore di lavoro poteva sempre essere chiamato a rispondere con azione diretta del lavoratore danneggiato, secondo i comuni presupposti della responsabilità civile (cfr. Corte cost. n. 87 del 1991); successivamente
il Decreto Legislativo 28 febbraio 2000, n. 38, articolo 13 ha esteso la tutela INAIL al danno biologico definito come “la lesione all’integrità psico-fisica, suscettibile di valutazione medico-legale, della persona”, al cui ristoro vengono destinate “prestazioni... determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato” e secondo una tabella di calcolo dell’indennizzo che sia “comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali”. In sintesi la nuova disciplina – applicabile alla fattispecie che ci occupa – così delimita i danni coperti dall’assicurazione obbligatoria: le menomazioni permanenti comprese tra il 6% ed il 15%, danno luogo ad un indennizzo in somma capitale, rapportato al grado della menomazione; le menomazioni pari o superiori al 16%, danno luogo ad una rendita ripartita in due quote: la prima quota è determinata in base al grado della menomazione, cioè al danno biologico subito dall’infortunato, la seconda tiene conto delle conseguenze di natura patrimoniale della lesione. Per i danni di natura biologica inferiori al 6% o temporanei non vi è copertura assicurativa. L’INAIL è esclusivo debitore limitatamente alle prestazioni di tipo indennitario predeterminate in base alla legge. Tutto ciò che non è riconducibile a menomazioni che, per natura o grado, non costituiscono danno biologico – inteso secondo il Decreto Legislativo n. 38 del 2000 – superiore al 6% ovvero danno patrimoniale pari o superiore al 16% non è coperto dall’assicurazione obbligatoria e, quindi, è escluso dalla disciplina dell’esonero. 9. Tuttavia anche per gli eventi ed i danni riconducibili all’assicurazione obbligatoria i commi successivi al primo del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 10 prevedono un meccanismo in relazione al quale permane la responsabilità del datore di lavoro. Il secondo comma dell’articolo citato stabilisce che l’esonero viene meno “a carico di coloro che abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato”. In seguito a plurimi interventi della Corte costituzionale, stante l’autonomia del giudizio civile rispetto a quello penale, non è più necessaria una condanna penale perché operi il meccanismo per il quale viene meno la salvaguardia dell’esonero; è sufficiente che in sede civile venga accertato “che i fatti da cui deriva l’infortunio costituiscano reato sotto il profilo dell’elemento soggettivo ed oggettivo” (Corte cost. n. 102 del 1981). Nel caso, dunque, di responsabilità penale del datore di lavoro, “non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore dell’indennità che, per effetto del presente decreto, è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto” (comma 6); ma, “per la parte che eccede le indennità liquidate”, il risarcimento “è dovuto” dal datore di lavoro (comma 7). Di qui la nozione di “danno differenziale”, rettamente inteso come quella parte di risarcimento che eccede l’importo dell’indennizzo dovuto in base all’assicurazione obbligatoria e che resta a carico del datore di
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Giurisprudenza
lavoro ove il fatto costituisca reato perseguibile d’ufficio. Esso è quello che rientra nel tipo già considerato dall’assicurazione obbligatoria, ma che, in ragione del carattere indennitario di questa, può presentare delle differenze dei valori monetari rispetto al danno civilistico, primariamente sia per la diversa valutazione del grado di inabilità in sede INAIL in confronto al diritto comune (dove il grado di invalidità permanente viene determinato con criteri non imposti dalla legge ma elaborati dalla scienza medico legale), sia per il diverso valore del punto di inabilità. Parallelamente l’articolo 11 dello stesso decreto consente all’INAIL di agire in regresso nei confronti del datore di lavoro penalmente responsabile “per le somme pagate a titolo di indennità”. L’INAIL ha inoltre azione surrogatoria contro soggetti diversi responsabili del fatto da cui è derivato l’infortunio (articolo 1916 c.c.) e può agire contro l’assicuratore della responsabilità civile da circolazione stradale, se l’infortunio deriva dal fatto che da’ luogo a responsabilità da circolazione stradale (L. n. 990 del 1969, articolo 21). Pertanto l’esonero cade nell’ipotesi in cui l’infortunio o la malattia professionale sia conseguenza di una condotta datoriale integrante gli estremi di una fattispecie di reato perseguibile d’ufficio ed il datore si trova esposto sia all’azione di regresso dell’istituto assicuratore per le somme versate all’assicurato sia all’azione di risarcimento da parte del lavoratore, seppur limitatamente al ristoro del danno differenziale. 10. Dal punto di vista del lavoratore danneggiato da infortunio sul lavoro o da malattia professionale si presenta un primo e più immediato ambito di tutela da far valere nei confronti dell’INAIL, caratterizzato dall’irrilevanza della componente soggettiva, in quanto l’indennizzo viene erogato a prescindere da ogni valutazione di responsabilità, e dall’automaticità delle prestazioni, le quali spettano anche se il datore di lavoro non sia adempiente ai suoi obblighi assicurativi; inoltre, dal punto di vista quantitativo, le prestazioni assicurative, svincolate dalla personalizzazione del danno, sono erogate sulla base di criteri predeterminati stabiliti dalla legge. Con tale tutela può concorrere, pur restando autonoma, quella azionabile nei confronti del datore di lavoro che resta civilmente responsabile per i danni che abbiamo definito complementari e differenziali, basati su diversi presupposti e condizioni, ma che hanno la caratteristica di non essere quantitativamente determinabili a priori; essi prefigurano un ammontare composito potenzialmente più esteso rispetto a quello conseguibile con la mera garanzia assicurativa, sicché quest’ultima non necessariamente lo contiene. I confini posti al concorso di tutele sono quelli fissati, ad un estremo, dal divieto di occulte duplicazioni o indebite locupletazioni risarcitorie in favore del danneggiato, ma, all’estremo opposto, dalla necessità di garantire al lavoratore l’integrale risarcimento, tanto più quando vengano coinvolti beni primari della persona, in particolare il nucleo irriducibile del diritto fondamentale alla salute protetto
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dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana (Corte cost. n. 309 del 1999). 11. Il precipitato logico del descritto assetto normativo ha indotto questa Corte ad escludere “che le prestazioni eventualmente erogate dall’INAIL esauriscano di per se’ e a priori il ristoro del danno patito dal lavoratore infortunato od ammalato” (Cass. n. 777 del 2015; successive conformi: Cass. n. 13689 del 2015; Cass. n. 3074 del 2016; in precedenza v. Cass. n. 18469 del 2012; Cass. n. 5437 del 2011; tutte in motivazione). Esaminando il Decreto Legislativo n. 38 del 2000, articolo 13 si è rilevato “che la prospettiva della norma non è quella di fissare in via generale ed omnicomprensiva gli aspetti risarcitori del danno biologico, ma solo quella di definire i meri aspetti indennitari agli specifici ed unici fini dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali. Infatti, l’erogazione effettuata dall’INAIL è strutturata in termini di mero indennizzo, indennizzo che, a differenza del risarcimento, è svincolato dalla sussistenza di un illecito (contrattuale od aquiliano) e, di conseguenza, può essere disposto anche a prescindere dall’elemento soggettivo di chi ha realizzato la condotta dannosa e da una sua responsabilità”. Si è tenuto presente “che, anche riguardo al consolidamento degli effetti patrimoniali in capo all’avente diritto, l’indennizzo INAIL si struttura in modo diverso da un risarcimento del danno, dal momento che la rendita cessa con la morte del lavoratore (e non passa nell’asse ereditario), mentre il diritto al risarcimento, una volta consolidatosi, entra a far parte del patrimonio dell’avente diritto e si trasferisce agli eredi”. Si è trovata la conferma delle notevoli divergenze strutturali tra l’indennizzo erogato dall’INAIL e il risarcimento del danno biologico nella considerazione che “mentre quest’ultimo trova titolo nell’articolo 32 Cost., l’indennizzo INAIL è invece collegato all’articolo 38 Cost., e risponde alla funzione sociale di garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore”. Dalla “differenza strutturale e funzionale tra l’erogazione INAIL ex articolo 13 cit. e il risarcimento del danno biologico” ne è conseguita la preclusione “a ritenere che le somme eventualmente a tale titolo versate dall’istituto assicuratore possano considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato od ammalato, nel senso che esse devono semplicemente detrarsi dal totale del risarcimento spettante al lavoratore”, anche perché ritenere il contrario significherebbe attribuire al lavoratore “un trattamento deteriore – quanto al danno biologico – del lavoratore danneggiato rispetto al danneggiato non lavoratore”, con dubbi di legittimità costituzionale. Tale esigenza di detrazione è confermata da altre recenti pronunce della Corte che hanno chiarito alcuni criteri che presiedono allo scomputo. Così Cass. n. 20807 del 2016, in continuità con Cass. n. 13222 del 2015, ha affermato il principio secondo cui: “in tema di liquidazione del danno biologico cd. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi
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in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall’ammontare complessivo del danno biologico, va detratto non già il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza del Decreto Legislativo n. 38 del 2000, articolo 13 il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato, volta all’indennizzo del danno patrimoniale”. Nell’ambito di un giudizio di surrogazione per i danni derivanti da circolazione stradale si è altresì affermato che “quando la vittima di un illecito aquiliano abbia percepito anche l’indennizzo da parte dell’INAIL, per calcolare il danno biologico permanente differenziale è necessario: (a) determinare il grado di invalidità permanente patito dalla vittima e monetizzarlo, secondo i criteri della responsabilità civile, ivi inclusa la personalizzazione o “danno morale” che dir si voglia, attesa la natura unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale; (b) sottrarre dall’importo sub (a) non il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’INAIL, ma solo il valore capitale della quota di rendita che ristora il danno biologico” (Cass. n. 17407 del 2016, in cui si è altresì precisato che “per quanto riguarda il risarcimento del danno biologico temporaneo, esso in nessun caso potrà essere ridotto per effetto dell’intervento dell’assicuratore sociale, dal momento che l’Inali non indennizza questo tipo di pregiudizio”). 12. In definitiva, a fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore il risarcimento dei danni connessi all’espletamento dell’attività lavorativa, il giudice adito, una volta accertato l’inadempimento, innanzitutto dovrà verificare se, in relazione all’evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965 (sul punto v., da ultimo, Cass. n. 23146 del 2016; per l’assunto secondo cui per le malattie non tabellate i fattori di rischio comprendono anche quelle situazioni di dannosità che, seppure ricorrenti anche per attività non lavorative, costituiscono un rischio specifico cd. improprio v. Cass. n. 3227 del 2011; entrambe in motivazione). In tal caso potrà procedere alla verifica di applicabilità dell’articolo 10 decreto citato nell’intero del suo articolato meccanismo, anche ex officio ed indipendentemente da una richiesta di parte in quanto si tratta dell’applicazione di norme di legge al cui rispetto il giudice è tenuto (in tal senso, circa i criteri di liquidazione del danno differenziale, v. Cass. n. 20807/2016 cit.). Prima individuando i danni richiesti dal lavoratore che non siano riconducibili alla copertura assicurativa e che abbiamo definito, per comodità di sintesi, complementari; per essi non opera l’esonero del datore di lavoro di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del
1965, articolo 10, comma 1 e quindi gli stessi andranno risarciti secondo le comuni regole della responsabilità civile, anche in punto di presunzione di colpa. Indi, ove siano dedotte in fatto dal lavoratore circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio, attuato il giudizio di sussunzione e di qualificazione giuridica che compete al giudice, questi potrà accertare in via incidentale autonoma la sussistenza dell’illecito penale e, in caso di esito positivo circa tale accertamento, procedere alla determinazione dell’eventuale danno differenziale, secondo le regole dettate dai successivi commi dell’articolo 10 più volte citato. Valuterà, cioè, il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni, e da esso detrarrà quanto indennizzabile dall’INAIL, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale (come già sancito da Cass. n. 20807/2016 cit.). Reputa il Collegio che anche tale operazione di scomputo vada effettuata ex officio ed anche se l’INAIL non abbia in concreto provveduto all’indennizzo, come accaduto nella fattispecie che ci occupa. Depone per tale soluzione il tenore letterale del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 10 cit. compatibile anche col caso del difetto di un già intervenuto indennizzo. Infatti, i commi 6, 7 ed 8 della disposizione parlano di indennità o rendita “liquidata a norma” del decreto. Dunque non dicono “che è stata liquidata”, né “pagata”, ma parlano di mera “liquidazione”, che è operazione contabile astratta che qualsiasi interprete può eseguire ai fini del calcolo del differenziale. Di contro l’articolo 11 dello stesso decreto n. 1124/65, in materia di regresso, usa la ben diversa espressione di “somme pagate”, certamente presupponendo il reale ed effettivo pagamento degli importi. Quindi, l’indennizzo può essere anche un termine di raffronto solo virtuale, cioè astrattamente liquidabile secondo un puro criterio tabellare. Altrimenti ragionando, il lavoratore locupleterebbe somme che il datore di lavoro comunque non sarebbe tenuto a pagare né al dipendente (perché il risarcimento al lavoratore, anche in casi di responsabilità penale, è dovuto solo per l’eccedenza), né all’INAIL (che può agire in regresso solo per le somme versate e, quindi, senza indennizzo non vi sarebbe regresso). Inoltre la mancata liquidazione dell’indennizzo potrebbe essere dovuta allo stesso comportamento del lavoratore, che, ad esempio, non ha denunciato l’infortunio o la malattia ovvero ha lasciato prescrivere l’azione; detta condotta non può determinare una maggiore esposizione del datore ed il lavoratore non può incidere, con una sua scelta, sull’esonero parziale da responsabilità civile inderogabilmente prescritto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 10. 13. Alle stregua delle considerazioni che precedono, in relazione ai motivi del ricorso principale innanzi espo-
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sti al paragrafo n. 6, la sentenza della Corte territoriale deve essere cassata in parte qua. Erra, prima di tutto, detta sentenza laddove, a fronte di una pronuncia di primo grado che aveva condannato la società a risarcire, senza decurtazioni, il danno biologico e morale per patologia contratta in violazione dell’articolo 2087 c.c., accoglie il gravame della società secondo cui, in seguito alla riforma di cui al Decreto Legislativo n. 38 del 2000 che ha assorbito le lesioni all’integrità psico-fisica nell’ambito della copertura assicurativa obbligatoria, “ogni pretesa in tal senso non può che essere oramai indirizzata nei confronti dell’INAIL”, configurando, così’, un “difetto di legittimazione passiva” del datore di lavoro, anche per il danno morale ritenuto “necessariamente una componente del danno biologico”. Per quanto detto, le prestazioni dovute dall’INAIL a titolo di indennizzo in seguito all’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 38 del 2000 non sono a priori integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno in capo al soggetto infortunato o ammalato; il datore di lavoro, anche ove ricorra una ipotesi in cui è operante l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, resta debitore e titolare dal lato passivo dell’obbligazione di risarcire i danni complementari e differenziali. Non può neanche essere condiviso il rilievo della Corte di Appello per il quale “nel ricorso introduttivo non vi è alcuno specifico riferimento ad eventuali profili di danno differenziale sui quali fondare l’azione risarcitoria nei confronti del datore di lavoro”. In tale rilievo si scorge l’adesione a rigorose opinioni dottrinali, seguite anche da giurisprudenza di merito, secondo cui la domanda di danno differenziale, ai fini dell’accoglimento, dovrebbe contenere una puntuale e formale qualificazione dei fatti in termini di illiceità penale nonché la specifica deduzione del preteso quantum in termini differenziali rispetto all’indennizzo INAIL, liquidato o liquidabile. Si ribadisce invece che, ai fini dell’accertamento del danno differenziale, è sufficiente che siano dedotte in fatto dal lavoratore circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio, sottolineando che anche la violazione delle regole di cui all’articolo 2087 c.c., norma di cautela avente carattere generale, è idonea a concretare la responsabilità penale (Corte cost. n. 74 del 1981; Cass. n. 1579 del 2000). Spetterà poi al giudice il compito di qualificare giuridicamente i fatti e sussumerli nell’alveo della fattispecie penalistica, accertando autonomamente ed in via incidentale la sussistenza del reato. Inoltre la richie-
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sta del lavoratore di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, derivanti dall’inadempimento datoriale, è idonea a fondare un petitum rispetto al quale il giudice dovrà applicare il meccanismo legale previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 10 anche ex officio, pur dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all’indennizzo, atteso che, rappresentando il differenziale normalmente un minus rispetto al danno integrale preteso, non può essere considerata incompleta al punto da essere rigettata una domanda in cui si richieda l’intero danno. In proposito opportuno rammentare la giurisprudenza di questa Corte che, in materia di azioni di risarcimento del danno, pone in rilievo non la qualificazione formale ma la natura e le caratteristiche del pregiudizio stesso (v. Cass. n. 12236 del 2012, secondo cui ciò che conta è che il pregiudizio sia stato prospettato o addirittura sia insito nelle caratteristiche della fattispecie di cui costituisca conseguenza naturale, a prescindere da quale sia stata la sua qualificazione formale). Inoltre è stato affermato più volte che la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale è una domanda di carattere onnicomprensivo e che l’unitarietà del diritto al risarcimento e la normale non frazionabilità del giudizio di liquidazione comportano che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta; ne consegue che, laddove nell’atto introduttivo siano indicate specifiche voci di danno, a tale specificazione deve darsi valore meramente esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intenda ottenere il ristoro, a meno che non si possa ragionevolmente ricavarne la volontà di escludere dal petitum le voci non menzionate (Cass. n. 22514 del 2014; Cass. n. 23147 del 2013; Cass. n. 3718 del 2012; Cass. n. 17879 del 2011; Cass. n. 26505 del 2009; Cass. n. 22884 del 2007; Cass. n. 10441 del 2007; Cass. n. 3936 del 2007; Cass. n. 11761 del 2006). 14. Conclusivamente il ricorso incidentale va respinto. Invece il ricorso principale deve essere accolto nei sensi di cui in motivazione, ogni altra censura disattesa o assorbita, con cassazione della sentenza impugnata nei limiti del predetto accoglimento e rinvio alla Corte indicata in dispositivo che si uniformerà a quanto innanzi statuito, regolando anche le spese ai sensi dell’articolo 385 c.p.c., comma 3. (Omissis).
Riccardo Diamanti
Il danno differenziale. Punti fermi e nuove prospettive Sommario : 1. Nuova messa a fuoco del c.d. danno differenziale. – 2. Alcuni snodi critici anche dopo la sentenza 9166/2017 della Corte di Cassazione. – 3. Individuazione della colpa penale alla luce dell’art. 2087 c.c. e relativi oneri probatori. – 4. Personalizzazione del danno non patrimoniale. – 5. Il danno da perdita di vita. – 6. Brevi osservazioni conclusive.
Sinossi. La Corte di Cassazione effettua una ricostruzione organica di tutte le problematiche relative al danno differenziale, indicando le modalità dell’accertamento che possono portare alla liquidazione dello stesso. Peraltro, restano ancora sul tappeto alcune problematiche di notevole rilevanza collegate al modo di operare della colpa e al relativo accertamento in presenza di danni complementari (non coperti dall’assicurazione obbligatoria), dove opera la presunzione di colpa ex art. 1218 c.c. e di danni differenziali dove deve essere verificata in positivo la responsabilità penale e quindi anche l’elemento soggettivo. Vi è poi una problematica tutt’ora aperta in materia di personalizzazione del danno non patrimoniale nell’ambito di quello differenziale, con spazio a valutazioni che attengono alla condotta. Infine può essere preso in considerazione il danno da perdita di vita, ove questo venisse recuperato nonostante l’approccio negativo delle Sezioni Unite con la sentenza n. 15350/2015. Il danno differenziale continua pertanto a collocarsi sulla frontiera tra tradizione e rinnovamento in materia di responsabilità civile.
1. Nuova messa a fuoco del c.d. danno differenziale. Con la sentenza 10 aprile 2017, n. 9166 in commento, la Cassazione, portando a termine un percorso iniziato dopo le sentenze delle Sezioni unite del 20081, mette a fuoco tutte
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Cass., sez. un., 11 novembre 2008 nn. 26972-26973-26974-26975 (tutte reperibili in FI on line), che definiscono in modo unitario il danno non patrimoniale, ricomprendendovi danno biologico, danno morale e danno esistenziale, con inevitabili interferenze con il tema del danno differenziale. Per una ricostruzione critica di tutte le varie problematiche relative al danno differenziale a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale (C. cost., 15 febbraio 1991, n. 87; C. cost., 18 luglio 1991 n. 356; C. cost., 27 dicembre 1991 n. 485), del d.lgs. 23 febbraio 2000 n. 38 che ha esteso la copertura assicurativa Inail al danno biologico e delle successive sentenze del 2008 delle Sezioni Unite v. De Matteis, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Giuffrè, 2016, 771 ss; ma v. anche Tullini, Il danno differenziale: conferme e sviluppi di una categoria in movimento, in RIDL, 2015, I, 485 ss, in part. 490-495; Poletti, Il danno non patrimoniale e il sistema previdenziale, in Navarretta (a cura di), Il danno non patrimoniale, Giuffrè, 2010, 177 ss.; Montuschi, Il risarcimento dei danni non patrimoniali: “personalizzare” si può, in RIDL, 2009, II, 908; Ferraro, Tecniche risarcitorie nella tutela del
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le problematiche relative al danno differenziale, con una notevole semplificazione nello sviluppo logico che sorregge la motivazione. Il giudice di legittimità parte dalla constatazione della inevitabile interferenza tra regole che presiedono al sistema indennitario e responsabilità civile e, poiché l’art. 10 del d.p.r. n. 1124/1965 è tutt’ora in vigore, giustamente porta inizialmente l’analisi su questa normativa. In particolare: a) La regola dell’esonero opera all’interno e nell’ambito dell’oggetto dell’assicurazione. Laddove la copertura assicurativa non interviene, proprio per mancanza dei presupposti della regola assicurativa, trovano piena applicazione le norme del Codice in tema di responsabilità civile, ed in particolare quelle relative al risarcimento del danno da inadempimento contrattuale. In tal caso siamo in presenza dei c.d. danni complementari, così definiti per evidenziare che non costituiscono una “differenza” quantitativa tra quanto coperto dall’assicurazione e il risarcimento integrale, ma sono danni di natura diversa, per cui si applicano le regole civilistiche. Alla luce di queste indicazioni, la Cassazione rileva come sia necessario individuare quali siano gli eventi indennizzabili per l’assicurazione obbligatoria. b) Il danno biologico originariamente escluso dal campo di operatività dell’assicurazione, vi è stato ricompreso dall’art. 13 del d.lgs. del 28 febbraio 2000 n. 38, che l’ha definito come «lesione all’integrità psicofisica suscettibile di valutazione medico legale della persona» che dà luogo «a prestazioni determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato, secondo una tabella di indennizzo comprensiva degli aspetti dinamico relazionali». Tuttavia restano aree non coperte dall’assicurazione anche all’interno del danno biologico. La Cassazione rileva: - Le menomazioni permanenti, comprese fra il 6% e il 15%, danno luogo ad un indennizzo in somma capitale, rapportato al grado della menomazione. - Le menomazioni pari o superiori al 16% danno luogo ad una rendita che è composta da due quote. La prima è collegata al grado di menomazione e quindi al danno biologico subito dall’infortunato, la seconda tiene conto delle conseguenze di natura patrimoniale della lesione. - Per i danni di natura biologica inferiori al 6% o temporanei non vi è copertura assicurativa, così come per i danni patrimoniali permanenti inferiori al 16%. - Tutto ciò che non è ricompreso in tali tutele è escluso dalla disciplina dell’esonero. Quindi, ricapitolando, è escluso dalla disciplina dell’esonero il danno biologico inferiore al 6%, il danno biologico temporaneo e il danno patrimoniale inferiore al 16%. In questi
lavoro, in RDSS, 2015, 6; Albi, Art. 2087. Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, in Comm Sch, 2008, Giuffrè, 285; Ferrari, Imputazione del danno tra responsabilità civile e assicurazione, ESI, 2008, 119; Ludovico, La persona del lavoratore tra risarcimento del danno e tutela dal bisogno: la questione del danno differenziale, in DRI, 2013, 1049 ss, in part. 1051; Tullini, Sicurezza sul lavoro: posizione di garanzia del datore e concorso di colpa del lavoratore, in Labor, 2017, 2, 125 ss; Luciani, Danni alla persona e rapporto di lavoro, ESI, 2007, 134 ss; Casola, Esonero da responsabilità del datore di lavoro e conseguenze processuali in tema di danno differenziale, in RIDL, 2009, I, 113 ss.
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casi troverà applicazione la disciplina civilistica e sotto il profilo dell’onere della prova la regola della presunzione della colpa ex art. 1218 c.c. c) Anche per gli eventi e i danni riconducibili all’assicurazione obbligatoria permane la responsabilità del datore di lavoro, qualora i fatti costituiscano reato sotto il profilo dell’elemento soggettivo ed oggettivo. In questi casi quando il risarcimento non superi l’indennità, non si provvede a liquidarlo pur in presenza di responsabilità penale. Viceversa, può sussistere il danno differenziale inteso come quella parte di risarcimento che eccede l’importo dell’indennizzo dovuto in base all’assicurazione obbligatoria. Ciò in quanto possono esistere differenze di valori monetari rispetto al danno civilistico, sia per diversa valutazione del grado di inabilità, sia per il diverso valore del punto di inabilità. L’azione di risarcimento convive in questi casi con l’azione di regresso da parte dell’Inail. d) Dal punto di vista del lavoratore danneggiato questi può godere dell’indennizzo Inail a prescindere dalla componente soggettiva e dalla responsabilità, operando automaticamente quando l’infortunio è accaduto in occasione di lavoro, anche senza alcuna responsabilità del datore di lavoro. Dal punto di vista quantitativo queste prestazioni sono svincolate dalla personalizzazione del danno, e sono erogate sulla base di criteri predeterminati stabiliti dalla legge. Questa tutela convive autonomamente con la responsabilità per i danni complementari e differenziali. Senza che da ciò possa ricavarsi una indebita duplicazione del risarcimento. I limiti al concorso di tutele sono dati dal divieto di occulte duplicazioni o inedite locupletazioni risarcitorie in favore del danneggiato e, sul versante opposto, dalla necessità di garantire al lavoratore l’integrale risarcimento, essendo coinvolti beni primari tutelati costituzionalmente. e) Le prestazioni Inail hanno natura indennitaria e, a differenze del risarcimento, sono svincolate dalla sussistenza di un illecito (contrattuale od aquiliano). La diversità di struttura si manifesta anche con la cessazione della rendita a seguito di morte del lavoratore, che non passa nell’asse ereditario, mentre il risarcimento del danno si trasferisce agli eredi. L’indennizzo Inail è collegato all’art. 38 Cost., il risarcimento del danno all’art. 32 Cost. Per questo le somme versate dall’Inail non sono integralmente satisfattive dal diritto del risarcimento del danno biologico, e devono detrarsi dal totale del risarcimento spettante dal lavoratore. f) Per quanto concerne il modo di operare la detrazione questa deve avvenire per poste omogenee2, così che «dall’ammontare complessivo del danno biologico, va detratto non già il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’Inail, ma solo il valore capitale della quota da essa destinata a ristorare, in forza dell’art. 13 del d.lgs. 38/2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato, volta all’indennizzo del danno patrimoniale». g) Per operare lo scomputo è necessario determinare il grado di invalidità permanente patito dalla vittima e monetizzarlo secondo i criteri della responsabilità civile, ivi inclusa la
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Così anche Cass., 14 ottobre 2016, n. 20807 in FI on-line e Cass., 26 giugno 2015, n. 13222, in FI, 2015, I, 3169.
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personalizzazione o danno morale, attesa la natura unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale. Da questo importo verrà sottratto il valore capitale della sola quota di rendita che ristora il danno biologico, e questo scomputo dovrà avvenire comunque, anche se l’Inail non abbia in concreto provveduto all’indennizzo. h) Pertanto, di fronte ad una richiesta di risarcimento danni da infortunio sul lavoro, il Giudice deve: - accertare l’inadempimento datoriale; - accertare se ricorrono le condizioni soggettive ed oggettive per l’applicabilità della assicurazione obbligatoria Inail; - accertato l’inadempimento verificare quali voci di danno sono immediatamente sottoponibili alle regole di risarcimento per inadempimento perché non coperte da assicurazione obbligatoria (danno c.d. complementare); - dovrà poi verificare anche ex officio l’applicabilità dell’art. 10 d.p.r. n. 1124/1965 e se vi sono voci di danno differenziale in presenza dei presupposti che fanno venire meno l’esonero (reato perseguibile d’ufficio) per quei danni coperti dall’assicurazione Inail. Quindi se esiste una responsabilità penale del datore o dei lavoratori, con relativa sussistenza della colpa penale, dovrà liquidare anche questi danni differenziali; - verrà valutato il danno civilistico e da esso verrà detratto ex officio quanto indennizzabile dall’Inail, a prescindere dal fatto che l’Inail abbia in concreto provveduto all’indennizzo, mettendo a confronto le medesime componenti di danno (quota di danno biologico indennizzato dall’Inail)3.
2. Alcuni snodi critici anche dopo la sentenza 9166/2017 della Corte di Cassazione.
La sentenza in commento ha certamente contribuito con chiarezza ad indicare il modo in cui deve essere ricostruito e valutato il danno differenziale, partendo, come abbiamo visto, dalla disciplina dell’esonero, per poi spiegarne significato e portata. Tuttavia restano sul tappeto alcune tematiche che rilevano nella definizione della violazione dell’obbligo di sicurezza e dei relativi oneri probatori nonché nella quantificazione dei danni complementari e differenziali, che vanno a confluire con alcuni dei temi centrali del danno non patrimoniale ancora oggetto di approfondimento. Il primo tema attiene alla individuazione della responsabilità che può far sorgere il diritto al danno differenziale o a quello complementare. È il tema della colpa e di come dovrebbe assumere una rilevanza diversa nei due tipi di accertamento, e dei relativi oneri di allegazione e probatori.
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Sui criteri di liquidazione del danno differenziale v. anche Cass., 14 ottobre 2016, n. 20807, cit., che ribadisce la necessità di confrontare poste omogenee.
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Il secondo tema attiene alla quantificazione del danno non patrimoniale e al particolare processo di personalizzazione che lascia indubbiamente spazio alla creatività del giudice, giustificata dalle particolarità del caso concreto, ed influisce nella determinazione del danno differenziale. Il terzo tema ha ad oggetto il danno da perdita di vita (o tanatologico), affermato nella sentenza della terza sezione della Cassazione n. 1361/2014 e negato dalle Sezioni Unite nella sentenza del 22 luglio 2015 n. 15350. Ove fosse considerato ammissibile individuare un danno da perdita di vita, si porrebbe la questione del suo rapporto con il danno differenziale e con quello complementare.
3. Individuazione della colpa penale alla luce dell’art. 2087
c.c. e relativi oneri probatori.
In ordine al primo tema abbiamo visto come il danno complementare abbia ad oggetto voci di danno che non sono coperte dall’assicurazione. La giurisprudenza, ed in particolare anche l’ultima giurisprudenza della Cassazione, sottolinea come in questo caso non si pone neppure un problema di esonero e di danno differenziale, ma si applicano le regole generali sulla responsabilità civile da inadempimento. Ciò produce riflessi sull’individuazione della colpa che, secondo i principi generali in materia di inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c., deve considerarsi presunta, con inversione dell’onere della prova. Il lavoratore o i suoi eredi devono dimostrare l’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e l’esposizione al fattore di rischio in relazione alle mansioni svolte, e il collegamento causale tra questi fattori. Ad avviso di alcuni, e mi sembra correttamente nonostante sia una posizione minoritaria, devono anche allegare l’obbligo che si pretende leso e la fonte da cui deriva, nonché la descrizione del comportamento che il debitore avrebbe dovuto tenere4. Il datore di lavoro, a sua volta, deve dimostrare l’assenza di colpa, e quindi di aver correttamente adempiuto all’obbligo di sicurezza, predisponendo le misure idonee ad evitare la lesione e il danno. Viceversa sul piano del danno propriamente differenziale, la responsabilità risorge dove siano integrati gli estremi della responsabilità penale per un reato perseguibile d’ufficio, e quindi, a mio avviso, con i parametri e gli oneri probatori propri della colpa penale, che non è mai presunta, ma deve essere dimostrata5.
4
Casola, op. cit., 127; Amendola, Oneri allegativi e probatori nelle domande di risarcimento del danno per inadempimento del datore di lavoro, in MGL, 2010, 780 ss, in part. 787. 5 Casola, op. cit., 142 ss.
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Giurisprudenza
Le differenze tra i due tipi di accertamento sono state spesso ridotte, se non annullate, in ragione dell’interpretazione molto rigorosa che la giurisprudenza penalistica ha dato dell’art. 2087 c.c. Se il limite della colpa ex art. 2087 c.c., è portato ai confini estremi della abnormità del comportamento del lavoratore, di fatto le differenze tra i due tipi di accertamento, e cioè quello relativo al danno complementare e quello relativo al danno differenziale, si attenuano. Ma se la colpa rilevante in sede penale venisse ricondotta ad una indagine rigorosa sulla sua esistenza effettiva, con onere di dimostrarla posto in capo al lavoratore, allora potrebbe avere ancora senso sottolineare la distinzione tra i due regimi, di cui uno proprio del danno complementare ed uno di quello differenziale. Certo, visto l’andamento della giurisprudenza e l’individuazione di una colpa in casi dove si giunge al limite della responsabilità oggettiva, quali quelli relativi all’amianto, distinguere potrebbe essere considerato uno sforzo inutile. Non di meno penso che il tema debba essere posto, anche per sottolineare possibili incongruenze in questo allargamento della colpa che depotenzia distinzioni non secondarie, quali quelle relative agli oneri di allegazione e probatori. Può suscitare perplessità leggere in alcune sentenze che sin dai primi del novecento vi era consapevolezza sulla pericolosità dell’amianto, e constatare come fino a non moltissimi anni orsono, veniva tollerato l’uso dell’amianto nelle più svariate situazioni (coperture di edifici, pannelli di separazione etc.), e vi erano anche aziende regolarmente autorizzate a produrre componenti in amianto. Se si ritiene che in quella situazione storica il datore di lavoro avrebbe avuto la possibilità di comprendere la pericolosità di queste lavorazioni e la sua ignoranza, e mancata predisposizione di cautele, deve essere considerata colpevole, non si vede come non possa essere considerata colpevole l’ignoranza ben più preoccupante degli organismi sanitari preposti alla tutela della salute pubblica in quei periodi. Al di là di queste considerazioni, che vanno oltre il tema, ma non ne sono poi così estranee, certamente sul piano probatorio, a mio avviso, non si può non rimarcare come la responsabilità contrattuale diretta, propria del danno complementare (posta al di fuori della regola dell’esonero), sia fondata su un regime presuntivo che non può in alcun modo essere esteso al regime della prova della responsabilità penale, pena uno stravolgimento dei principi fondanti della responsabilità civile e della responsabilità penale nel nostro ordinamento. In effetti non sono mancate voci in questa direzione. Alle opinioni minoritarie che sostengono che l’onere probatorio in caso di colpa penale, è posto integralmente in capo al lavoratore6, se ne sono contrapposte altre che ritengono applicabile l’ordinario criterio della colpa contrattuale ex artt. 2087 e 1218 c.c. anche
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Casola, Esonero da responsabilità del datore di lavoro e conseguenze processuali in tema di danno differenziale, in RIDL, 2009, I, 99 ss., in part. 145; Amendola, Oneri allegativi e probatori nelle domande di risarcimento del danno per inadempimento del datore di lavoro, in MGL, 2010, 780 ss, in part. 792 ss.
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al danno differenziale, che pur presuppone l’accertamento di una colpa penale, ponendo pertanto l’onere della non imputabilità dell’inadempimento in capo al datore di lavoro7. Con ciò dimenticando che quando si parla di danno differenziale in senso proprio, si applica una fattispecie che presuppone l’accertamento di una colpa penale con i relativi oneri probatori. A sostegno del proprio assunto, l’orientamento che afferma l’applicazione delle regole di cui all’art. 1218 c.c. al danno differenziale, richiama la sentenza delle Sezioni unite del 18 novembre 2008 n. 27337. In quel caso si ponevano alcune questioni collegate al rapporto tra azione penale e azione civile, relative ai sinistri stradali. È vero che le Sezioni Unite hanno affermato che «il giudice civile si può avvalere nell’ambito dei suoi accertamenti in merito all’esistenza del fatto considerato come reato, di tutte le prove che il rito civile prevede», ma è altrettanto vero che nel caso in esame il particolare meccanismo di cui all’articolo 10 del t.u. 1124/1965, prevede la permanenza della responsabilità civile a carico di coloro che abbiano riportato una condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato. A seguito degli interventi della Corte Costituzionale, già ricordati, al giudice civile è concesso di accertare se il fatto costituisce reato ma, nell’accertarlo, dovrebbe attenersi alle regole di accertamento della colpa penale, che deve essere pienamente provata da chi ne sostiene l’esistenza. Ciò in quanto non si tratta solo di questione probatoria, ma la piena dimostrazione della colpa (o del dolo) costituisce requisito sostanziale del reato, che esiste in quanto sia pienamente provato anche l’elemento soggettivo. Una presunzione non potrebbe mai portare a ritenere integrato un reato, e se non c’è reato, non può risorgere la responsabilità civile. È stato correttamente rilevato che «le regole di giudizio finale, cioè i canoni di accertamento degli elementi costitutivi delle diverse forme di responsabilità, sono esattamente opposte nella materia civile ed in quella penale. Infatti, il criterio derogatorio stabilito dall’art. 1218, vuole che il rischio della mancata prova del fatto considerato, cioè il dubbio circa l’esistenza della colpa, ricada a carico del debitore inadempiente. In senso diametralmente opposto, se l’istruttoria dibattimentale non arriva a dimostrare, fuori dal ragionevole dubbio, la concreta sussistenza della colpa, giusta il disposto di cui all’art. 530, secondo comma c.p.p., la responsabilità va esclusa …»8. Chi contrasta questa impostazione è giunto ad affermare che vi sarebbe una sopravvenuta incompatibilità della regola dell’esonero rispetto ai principi costituzionali9.
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Cass., 18 luglio 2013, n. 17585, in NGL, 2014, 164; Cass., 14 aprile 2008, n. 9817, in MGL, 2009, 175, con nota di Vallebona; Giubboni, Infortunio, malattia professionale e risarcimento del danno differenziale. Relazione all’incontro di studi su lavoro e salute, Roma, 2 - 4 maggio 2007, 8 ss, che trae spunto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 233/2003 che, nel respingere una questione di costituzionalità dell’art. 2059 c.c., ha precisato che ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale da reato è sufficiente che la fattispecie corrisponda in astratto ad un reato, accertabile in sede civile anche per effetto di una presunzione di legge. Gli stessi criteri, secondo l’autore, devono essere applicati in relazione al danno differenziale, anche in virtù di una lettura costituzionalmente orientata. 8 Casola, op. cit., 146. 9 Ludovico, La persona del lavoratore tra risarcimento del danno e tutela dal bisogno: la questione del danno differenziale, in DRI,
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In realtà, come confermato dalla sentenza in commento, l’art. 10 del t.u. 1124/1965, pur con le modifiche intervenute a seguito delle pronunce della Corte Costituzionale, esiste e la norma non può essere completamente stravolta. Sostenendo l’applicazione del regime dell’art. 1218 c.c. al danno differenziale in senso stretto, la responsabilità datoriale risorge non in conseguenza di una condanna penale (o di una verifica incidentale di tutte le condizioni che possono portare a tale condanna), ma in presenza dell’accertamento di un inadempimento contrattuale, impropriamente sovrapposto al reato. Si tratta di un presupposto che non ha nulla a che vedere con quanto previsto dalla normativa tuttora esistente, anzi, ne costituisce una sorta di abrogazione implicita, dal momento che affermare che l’eccezione ad una regola che esclude la responsabilità per inadempimento, è l’inadempimento stesso, è un’evidente contraddizione in termini. Senza considerare che l’Inail, in presenza delle condizioni che escludono l’esonero, ha diritto al regresso per le somme pagate. Per cui il datore di lavoro, accogliendo questa impostazione, si trova a pagare un premio per una prestazione mai esigibile, dal momento che se non è inadempiente non incorre in responsabilità alcuna, mentre se è inadempiente l’esonero non opererà mai, dal momento che il ritorno della responsabilità viene fatto coincidere con un inadempimento, obliterando il reato. Tanto più che il premio viene calcolato su base assicurativa, se pur nell’ambito di un intervento di natura previdenziale. Certamente non è così probabile che il Giudice definisca il giudizio sul filo dell’incertezza applicando la regola del 1218 c.c. per i danni complementari, e quella che presuppone la piena prova della colpa rilevante in sede penale, sul piano del danno differenziale. È possibile che vi sia una tendenza a considerare la colpa esistente o meno, magari con qualche forzatura sulle effettive risultanze probatorie. Tuttavia questa difficoltà materiale non deve, a mio avviso, far venir meno la necessità di distinguere i due piani di accertamento ed i relativi oneri allegativi e probatori. De jure condendo mi sembra che il sistema non abbia attualmente un soddisfacente equilibrio, e richieda un intervento legislativo che potrebbe anche essere nel senso della abrogazione della regola dell’esonero, ponendo la responsabilità in capo al datore di lavoro in caso di inadempimento, con obbligo di assicurazione, drastica riduzione del premio Inail, che assolverebbe esclusivamente alla funzione di indennizzo in presenza di infortunio non riconducibile ad alcuna responsabilità, e costituzione di un fondo di garanzia per le ipotesi in cui il datore di lavoro non abbia attivato la copertura assicurativa in violazione di legge.
2013, 1049 ss, in part. 1070 ss. Giunge a conclusioni analoghe, pur non recependo tale ricostruzione Tullini, Il danno differenziale: conferme e sviluppi di una categoria in movimento, in RIDL, 2015, 1, 485 ss, in part. 495-499, che sostiene che l’onere «…rigoroso e d’impronta penalista, che oggi si vorrebbe inderogabilmente imporre al lavoratore per azionare la sua pretesa risarcitoria, non è mai stato tale (si tratta di una sorta di falso storico)” precisando che l’art. 10 era destinato ad operare in un contesto caratterizzato dalla pregiudizialità dell’azione penale. Secondo l’autrice “il danno differenziale non costituiva (e non costituisce) un tipo di pregiudizio ibrido o intermedio, tra quello indennizzabile e quello liquidabile in sede civile, come tale sottoposto ad un paradigma speciale o simil-specialistico di trattamento. Oggi, come allora, si tratta più semplicemente del maggior danno (patrimoniale e non) che si riversa in un comune esercizio risarcitorio».
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4. Personalizzazione del danno non patrimoniale. Altro tema caldo, inevitabilmente connesso al danno differenziale, è quello relativo alla personalizzazione del danno non patrimoniale. La Cassazione ha precisato in più occasioni che «il principio dell’integrale risarcimento del danno non può subire restrizioni quando è in discussione la tutela dei diritti fondamentali ed individuali della persona …» e quindi «… alla inderogabilità di tale tutela (deve) conseguire, come è stato osservato in dottrina, una conseguenziale personalizzazione dei pregiudizi che tenga conto delle modalità del caso concreto e della sua specificità, al fine di pervenire ad una “totale restaurazione della persona»10. Questa prospettiva ha creato le condizioni per un possibile allargamento dell’area di risarcibilità dei danni non patrimoniali. Nel settore giuslavoristico, non di rado si assiste alla lesione dei diritti primari dei lavoratori aventi copertura costituzionale11, cui segue l’obbligo di garantire la piena tutela dell’integrità sia fisica che morale della persona, che a sua volta costituisce espressione primaria della dignità umana, e come tale tutelata dall’art. 1 della Costituzione, nonché dall’art. 1 della Carta di Nizza e ora dal Trattato di Lisbona12. Secondo la giurisprudenza prevalente, la tutela della dignità si realizza attraverso la personalizzazione del danno non patrimoniale, ed in particolare del danno morale soggettivo. Questa personalizzazione richiede una valorizzazione delle situazioni individuali esistenziali in cui versa il danneggiato e che, secondo parte della giurisprudenza, non trova adeguato riscontro nelle tabelle. Si tratta di una valutazione equitativa che richiede a sua volta una corrispondente puntuale motivazione. Si è detto che vanno considerate tutte le circostanze del caso concreto, e specificamente l’attività espletata, le condizioni sociali e familiari del danneggiato, la gravità delle lesioni e degli eventuali postumi permanenti13. I criteri valutativi vengono quindi parametrati alla specificità del caso esaminato «… dando il dovuto rilievo anche alla natura e all’entità delle sofferenze ed alle consequenziali ricadute sul vivere quotidiano del danneggiato»14. Recentemente la Cassazione ha sottolineato come le peculiarità del caso concreto sono quelle legate alla irripetibile singolarità dell’esperienza di vita individuale, con necessaria articolazione analitica di questa valutazione, che ricomprende anche «aspetti che attengano a una specifica e particolare sofferenza interiore patita dalla vittima dell’illecito»15. Sempre percorrendo questa direzione, la giurisprudenza, nonostante l’affermazione del carattere unitario del danno non patrimoniale, sta recuperando il danno morale e il dan-
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Cass., 17 dicembre 2014, n. 26590, in D&R, 2015, 503, con nota di Frigerio. Sul tema v. Montuschi, op. cit., 903. 12 V. sempre Cass., 17 dicembre 2014, n. 26590, cit. 13 V. Cass.,17 dicembre 2014, n. 26590, cit. e Cass., 12 maggio 2006, n. 11039, in FI on-line. 14 Cass., 17 dicembre 2014, n. 26590, cit. 15 Cass., 21 settembre 2017, n. 21939, inedita a quanto consta. 11
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no esistenziale, pur affermando che non si tratta di voci autonomamente risarcibili, ma di un aspetto dei danni non patrimoniali di cui il giudice deve tener conto nell’adeguare la liquidazione alla peculiarità del caso concreto16. Andando oltre, si possono cercare di individuare i parametri su cui dovrebbe misurarsi la lesione della dignità personale. È noto come la giurisprudenza17 abbia più volte affermato che nel nostro ordinamento il danno è sempre danno “conseguenza”, e non può mai essere danno “evento”. Non potrebbe quindi esserci una identificazione tra “evento” e “danno”. Tuttavia, quando si parla di sofferenze morali e lesione della dignità, mi sembra che non ci sia un metro che possa offrire un criterio certo. In questo caso, il danno “conseguenza” altro non è che il riflesso della gravità dell’evento. Se le modalità della condotta sono particolarmente riprovevoli ed offensive, si presume che il soggetto destinatario, sotto il profilo morale e della sua dignità, abbia sofferto un considerevole danno “conseguenza”. Ma allora, incrementando il risarcimento in sede di personalizzazione, in realtà si punisce la condotta. Si entra così nel terreno minato dei c.d. danni “punitivi”, in relazione ai quali si potrebbe porre un accostamento, forse audace, ma non del tutto improprio. La personalizzazione del danno non patrimoniale, che riguarda anche il danno differenziale, non ricomprende forse al suo interno anche una quota di danno “punitivo”? È noto come per molto tempo si sia sostenuto che il nostro ordinamento non riconosce il danno punitivo, che addirittura sarebbe contrario all’ordine pubblico e per alcuni anche all’art. 23 della Costituzione. L’affermazione è stata spesso contenuta all’interno di sentenze che hanno respinto la richiesta di delibazione di sentenze straniere di condanna al pagamento di somme di denaro a titolo di danni punitivi18. Peraltro, recentemente, la prima Sezione della Cassazione, con l’ordinanza del 16 maggio 201619, dovendo decidere in ordine all’efficacia di una sentenza straniera che aveva disposto il risarcimento di un danno in misura punitiva, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. La Cassazione ha ritenuto che la funzione riparatoria compensativa del risarcimento danno, seppur prevalente, non sia l’unica attribuibile, precisando altresì «quando l’illecito incide sui beni della persona, il confine tra compensazione e sanzione sbiadisce, in quanto la determinazione del quantum è rimessa a valori percentuali, indici tabellari e scelte
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Cass., 25 settembre 2017, n. 22288; Cass., 23 gennaio 2014, n. 1361, in FI on-line; Cass., 26 giugno 2013, n. 16041, in FI on-line; Cass., 12 febbraio 2013, n. 3290 in FI on-line; Cass., 3 ottobre 2013, n. 22585, in D&R, 2014, 55, con nota di Monateri; Cass., 9 marzo 2012, n. 3718, in FI on-line; Cass., 16 febbraio 2012, n. 2228 in FI on-line; Cass., 20 novembre 2012, n. 20292, in D&R, 2013, 129, con nota di Ponzanelli; Cass., 30 novembre 2001, n. 25575, inedita a quanto consta. V. anche Montuschi, op. cit., 909, secondo cui «personalizzare si può… tenendo conto della particolare gravità della lesione e dei suoi riflessi sul piano morale ed esistenziale». 17 V. Cass., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572 in Leggi d’Italia banca dati on-line, secondo cui il danno da demansionamento, sotto qualsiasi profilo lo si voglia far valere, deve sempre essere allegato e provato, eventualmente anche attraverso presunzioni. 18 Cass., 19 gennaio 2007, n. 1183, in NGCC, 2007, I, 981, con nota di Oliari. 19 Cass., 16 maggio 2016, n. 9978, in D&R, 2016, 831.
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giudiziali equitative, che non rispecchiano esattamente la lesione patita dal danneggiato». Infine le Sezioni Unite, investite del caso, con la sentenza 5 luglio 2017 n. 16601, nell’esaminare la questione relativa alla delibazione di tre sentenze emesse in Florida che avevano ad oggetto il risarcimento dei danni collegati a lesioni subite da un motociclista per un vizio del casco prodotto da azienda italiana, hanno confermato la sentenza della Corte di Appello di Venezia, che ha ritenuto efficaci ed esecutive nell’ordinamento italiano le tre sentenze divenute definitive nell’ordinamento statunitense, affrontando anche la problematica dei danni punitivi. In particolare, richiamando la propria giurisprudenza20, le S.U. hanno riconosciuto la possibile funzione sanzionatoria del risarcimento del danno, che non è più incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, al cui interno sono state introdotte disposizioni che hanno tale carattere. Tuttavia la funzione sanzionatoria deve essere relativa ad ipotesi che hanno copertura normativa. Il tutto in linea con la natura polifunzionale della responsabilità civile. L’importante recentissimo precedente delle Sezione Unite si inserisce in un quadro in cui la stessa Cassazione, in sentenze recenti, ha considerato la gravità dell’offesa un requisito di indubbia rilevanza ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale21. Anche in dottrina si riconosce una pluralità di funzioni alla responsabilità civile, tra cui quelle deterrente e sanzionatoria, con un superamento della concezione monofunzionale (come riparazione) della stessa22. Proprio con riferimento al diritto del lavoro, si è sempre considerata come un’ipotesi di risarcimento – sanzione23 la condanna minima di cinque mensilità prevista dall’art. 18 St. Lav., ora nella nuova versione della Legge Fornero, così come l’art. 2 del d.lgs. 23/2015, limitatamente a casi di nullità e discriminazioni, e tale è considerata dalle Sezioni Unite nella sentenza 16601/2017 Anche nel diritto antidiscriminatorio, il risarcimento può assumere carattere dissuasivo – sanzionatorio24, e le Sezione Unite hanno attribuito, forse non del tutto correttamente, tale natura anche all’art. 28, comma 2, d.lgs. 81/2015 relativamente alle tutele del lavoratore assunto illegittimamente a tempo determinato. Queste aperture al danno punitivo possono essere collegate alla presa di posizione di alcuni autori in relazione al danno non patrimoniale, che hanno rilevato come, nella sua quantificazione, non possa non assumere rilevanza la condotta del danneggiante.
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Cass., sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100, in FI, 2016, I, 272, con nota di Fabiani. Cass., 22 gennaio 2015, n. 1126, in D&R, 2015, 511, con nota di Quarta, Ponzanelli. 22 C. Scognamiglio, Focus sui danni punitivi, relazione corso su Le nuove frontiere del risarcimento del danno, Roma, 1-2 febbraio 2017. 23 C. Scognamiglio, op. cit., 13. 24 Sul tema v. Amoriello, Alla ricerca della dissuasività. Il difficile percorso di affermazione dei principi dell’Unione in tema di danno non patrimoniale da discriminazione, in Allamprese (a cura di), Il danno nel diritto del lavoro, Ediesse, 2015, 163 ss. Anche le Sezioni Unite nella sentenza 16601/2017 richiamano l’art. 28 del d.l.gs. 150/2011, considerandolo l’ipotesi danno-sanzione. In particolare la norma prevede la facoltà del Giudice di liquidare il danno, tenendo conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale o una ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso, volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. 21
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Si è così affermato che «il danno non patrimoniale sofferto per l’uccisione di una persona vittima di un incidente da circolazione stradale o, invece, colpito e massacrato in un agguato camorristico, non può essere lo stesso»25. Ed ancora «il maggior risarcimento dovuto, frutto di una valutazione personalizzata del danno, riflette una sensibilità deterrente ed acquista una chiara funzione punitiva»26. La personalizzazione del danno non patrimoniale differenziale può essere ancorata in parte alla condotta, che diviene così un elemento di valutazione per un risarcimento che assume connotati non rigidamente riparatori. Ciò che suscita perplessità, e non potrebbe essere accolto, è una manifesta sproporzione dei profili sanzionatori rispetto a quelli compensativi o riparatori. Nel nostro ordinamento, una volta aperta la porta dei danni punitivi comunque non si può giungere a risultati così sproporzionati come in alcune sentenze statunitensi. Del resto anche la Corte Suprema degli Stati Uniti è intervenuta per limitare questa eccessiva sproporzione del danno punitivo. Il danno, anche se incrementato in ragione della particolare gravità della condotta, deve attenersi ad una valutazione equitativa proporzionata27, e ciò è confermato con larga motivazione dalle stesse Sezioni Unite28. Il principio di proporzionalità tende anche ad evitare eccessive disparità di trattamento29; pertanto la personalizzazione va certamente applicata secondo la ragionevolezza, di cui costituisce manifestazione il principio di proporzionalità.
5. Il danno da perdita di vita. Il terzo aspetto problematico è relativo alla questione del danno da perdita di vita o tanatologico, le cui ricadute vanno ben oltre il settore del danno differenziale. È noto come all’apertura di Cass. 1361/2014, che ha ammesso questo tipo di danno e la sua natura, considerandolo trasmissibile agli eredi, si sono contrapposte le Sezioni Unite con la sentenza del 22 luglio 2015 n. 15350, che ha negato l’esistenza di questa tipologia di danno, in quando la vita è un bene distinto dalla salute e fruibile solo in natura dal titolare, con impossibilità di essere reintegrato per equivalente. Conseguentemente, per le Sezioni Unite, ove il decesso si verifichi immediatamente, non può maturare alcun credito
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Ponzanelli, I danni punitivi, in NGCC, 2008, II, 25 ss, in part. 31. V. ancora Ponzanelli, op. cit., 31. In una prospettiva analoga Monateri, commentando Cass., 16 maggio 2016, n. 9978, cit., 831 ss, che sottolinea una particolare efficienza sociale dei danni punitivi in caso di dolo, mentre Ponzanelli, pur non ritenendo i danni punitivi in contrasto con l’ordine pubblico, sostiene che devono essere ancorati a indici normativi sicuri, e quindi debbano passare attraverso l’intermediazione legislativa. Tuttavia lo stesso autore afferma che se fosse ammessa la figura del danno “evento” dovrebbe ritenersi riconosciuta la sussistenza di un danno dalle chiare tinte punitive. 27 Cass., 7 giugno 2011, n. 12408, in FI, 2011, I, 2274, con nota di Diana. 28 Cass., sez. un., 5 luglio 2017 n. 16601, cit. che precisa come «la proporzionalità del risarcimento, in ogni sua articolazione, è, a prescindere da questo disposto normativo, uno dei cardini della materia della responsabilità civile». 29 Cass., 23 gennaio 2014, n. 1361, cit. 26
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trasmissibile ad altri e, qualora viceversa il decesso si determini dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, vi è mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo, e di conseguenza non c’è alcuna possibilità di trasmissione agli eredi. La Cassazione, nella sentenza 1361 del 2014, con ampia motivazione, aveva rilevato che la vita è pur sempre il bene principale dell’uomo e, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, la sua lesione deve essere risarcita anche in caso di morte immediata, con possibilità di trasmissione agli eredi ed eccezionale deroga al principio della non risarcibilità del danno evento. Nonostante l’intervento delle Sezioni Unite, che in teoria dovrebbe aver posto la parola finale, può darsi che la questione non sia esaurita, viste le forti divergenze giurisprudenziali e dottrinali che esistono. Ove il danno tanatologico fosse considerato esistente, non rientrerebbe nel danno biologico risarcito nelle tabelle Inail e pertanto, in caso di morte del lavoratore infortunato, dovrebbe a mio avviso costituire una voce di danno complementare e non strettamente differenziale, trasmissibile agli eredi jure hereditatis.
6. Brevi osservazioni conclusive. Gli interventi della Corte Costituzionale, le riflessioni sul risarcimento del danno, sui beni tutelati e sulle funzioni della responsabilità civile, hanno accompagnato in tutti questi anni le valutazioni dottrinali e giurisprudenziali sul danno differenziale. Questo danno è diventato così un terreno di sperimentazione e di attuazione per processi interpretativi e per interventi normativi che, ogni qualvolta sembrano individuare punti fermi, aprono nuove porte verso prospettive evolutive ulteriori. Qualche volta ci si è spinti così in avanti da rovesciare completamente la prospettiva dell’esonero, fino ad affermare che l’esonero non c’è ove vi è responsabilità contrattuale: il che porta a chiedersi quale sia il senso di una previsione normativa che è nata proprio per garantire comunque un risarcimento, esonerando da responsabilità. Tirata troppo la corda, si è poi tornati alla norma, e cioè all’art. 10 del t.u.1124/65, cercando di distinguere per poter poi ricostruire le ipotesi in cui effettivamente l’esonero opera. Ma, come abbiamo visto, il tema va ad intrecciarsi con le problematiche più generali dell’interpretazione dell’art. 2087 c.c., con una dilatazione del suo campo di applicazione fino a trasformarlo in una responsabilità quasi oggettiva, suscitando così reazioni di tipo opposto, per riportare la norma ad una interpretazione ragionevole della colpa. Ma anche la quantificazione del danno non patrimoniale e la sua personalizzazione, aprono nuove prospettive, che peraltro dovranno tener conto anche degli interventi legislativi in atto. La Camera dei Deputati ha recentemente approvato un disegno di legge, poi trasmesso al Senato, dove il danno non patrimoniale derivante dalla lesione temporanea o permanente all’integrità psico fisica e il danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto di tipo familiare, dovrebbero essere liquidati dal giudice con valutazione equitativa, sulla base di tabelle che riprendono quelle milanesi, con possibilità di aumento in misura
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non superiore al 50%, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato. Anche nella prospettata definizione legislativa, potrebbero porsi problemi circa la esaustività della liquidazione prevista, dal momento che possono esistere altri profili di danno non considerati (ad es. dignità personale). In ogni caso la notevole variabilità in aumento fa riferimento alle condizioni soggettive del danneggiato ma, come si è visto, talvolta le condizioni soggettive del danneggiato si apprezzano soltanto in relazione alla condotta del danneggiante, specie ove si voglia risarcire la lesione della dignità e le sofferenze morali, e così si apre lo spazio ad una funzione sanzionatoria, affidata alla discrezionalità del Giudice. Insomma, tutte le tematiche relative al danno e alle sue funzioni vanno inevitabilmente a riflettersi su quello differenziale, collocato quindi sulla frontiera tra tradizione e rinnovamento. Riccardo Diamanti
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