Labor 6/2019

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2019 LABOR 6

L

issn 2531-4688

ABOR Il lavoro nel diritto

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novembre-dicembre 2019

Rivista bimestrale

D IRETTA DA Oronzo Mazzotta

www.rivistalabor.it

IN EVIDENZA La ritrovata dignità del lavoro autonomo Domenico Garofalo

Il sindacato nella Costituzione come elemento di democrazia sostanziale Federico Martelloni

Il principio di automatismo nella giurisprudenza di merito Antonino Sgroi

Giurisprudenza commentata Ombretta Dessì, Gianluca Urbisaglia, Alessia Matteoni, Eugenia Fiorelli

Pacini



Indici

Saggi Domenico Garofalo, La ritrovata dignità del lavoro autonomo (seconda parte)...............................p. 601 Federico Martelloni, Il sindacato nella Costituzione formale e materiale come elemento indefettibile di democrazia sostanziale................................................................................................... » 627 Antonino Sgroi, Il principio di automatismo: applicazioni e letture della giurisprudenza di merito.» 637

Giurisprudenza commentata Ombretta Dessì, Brevi riflessioni in tema di quietanze a saldo miste a rinunzie ai diritti del lavoratore.................................................................................................................................................. » 655 Gianluca Urbisaglia, La Corte di Cassazione non cambia idea: il diritto alla liquidazione del Tfr è un «diritto futuro» e la sua rinuncia è «radicalmente nulla»................................................................. » 669 Alessia Matteoni, Autoferrotranvieri: dubbi sulla legittimità costituzionale della sanzione della retrocessione............................................................................................................................................. » 679 Eugenia Fiorelli, Collaborazioni etero-organizzate: l’esistenza di un Accordo collettivo nazionale esclude l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato............................................................. » 699


Indice analitico delle sentenze Lavoro (rapporto) – Autoferrotramvieri – Sanzioni disciplinari – Retrocessione – Incostituzionalità – Rinvio alla Corte Costituzionale (Cass., 20 maggio 2019, ord. n. 13525, con nota di Matteoni) – Rinunzie e transazioni – Tfr – Rapporto di lavoro non cessato – Rinunzia a diritto duturo – Nullità della rinunzia (Cass., 28 maggio 2019, n. 14510, con nota di Urbisaglia) – Differenze retributive spettanti – Lavoro straordinario – Indennità di trasferta – Quietanza a saldo – Negozio di rinunzia – Diritti indeterminabili – Volontà abdicativa – Insussistenza (Cass., 18 settembre 2019, ord. n. 23296, con nota di Dessì) Parasubordinazione – Collaborazioni outbound di call center – Collaborazioni etero-organizzate – Sussistenza elementi – Accordo collettivo nazionale – Ipotesi derogatoria – Sussistenza – Applicazione disciplina del lavoro subordinato – Esclusione (Trib. Roma., 6 maggio 2019, n. 4243, con nota di Fiorelli)

Indice cronologico delle sentenze Giorno

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Autorità 2019 Maggio Trib. Roma, n. 4243 Cass., ord. n. 13525 Cass., n. 14510 Settembre Cass., ord. n. 23296

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Notizie sugli autori

Ombretta Dessì – ricercatrice nell’Università degli Studi di Cagliari Eugenia Fiorelli – dottoranda di ricerca nell’Università di Pisa Domenico Garofalo – professore ordinario nell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro Federico Martelloni – professore associato nell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Alessia Matteoni – collaboratrice di cattedra nell’Università di Pisa Antonino Sgroi – avvocato presso l’Avvocatura centrale INPS Gianluca Urbisaglia – dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Verona


Saggi



Domenico Garofalo

La ritrovata dignità del lavoro autonomo* Sommario : 6. Le tutele lavoristico-previdenziali. – 6.1. La tutela fiscale del reddito. – 6.1.1. La deducibilità fiscale delle spese per prestazioni alberghiere e di somministrazione di alimenti e bevande. – 6.1.2. La deducibilità fiscale di taluni oneri connessi alla formazione professionale. – 6.2. La promozione dell’occupazione – 6.2.1. L’accesso alle informazioni sul mercato e sui servizi personalizzati di orientamento, riqualificazione e ricollocazione. – 6.2.2. Le informazioni e l’accesso agli appalti pubblici e ai bandi per l’assegnazione di incarichi e appalti privati. – 6.3. La tutela per la mancanza di lavoro e per gli eventi impeditivi della prestazione. – 6.3.1. La stabilizzazione della DIS-COLL. – 6.3.2. Il congedo parentale (anche per adozione e affidamento preadottivo). – 6.3.3. La reintroduzione della tutela a livello contrattuale nel caso di gravidanza, malattia e infortunio. – 6.3.4. Alcune tutele (previdenziali) in caso di malattia e maternità. – 6.4. Perché la disciplina della l. n. 81/2017 non è mera sostituzione di quella recata dal d.lgs. n. 276/2003 abrogata nel 2015. – 7. Le deleghe (scadute) sulle libere professioni. –8. Il sostegno al lavoro autonomo nell’azione del Governo giallo-verde. –8.1. Le misure riconducibili al crollo del viadotto sul torrente Polcevera di Genova. – 8.2. Il lavoro autonomo nel c.d. decreto sicurezza. – 8.3. La flat tax. – 8.4. La c.d. pace fiscale e contributiva. – 8.5. Il reddito di cittadinanza e le misure in favore del lavoro autonomo.

Sinossi. Attraverso l’esame della normativa introdotta con la l. n. 81/2017, l’A. mette in evidenza come il lavoro autonomo sia uscito dalla storica anomia che lo ha caratterizzato, pur se le tutele più incisive introdotte nel 2017 costituiscono l’estensione di quelle già adottate anni addietro in favore dell’impresa economicamente dipendente. Nello specifico è stato mutuato il concetto di dipendenza economica, senza che ne venga fornita una definizione specifica per il lavoratore autonomo. Il pacchetto di tutele è inoltre completato dalla riproposizione di misure già previste per le abrogate collaborazioni a progetto. La valutazione dell’intervento è positiva pur con riserva di verifica della sua ricaduta effettiva.

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La prima parte del contributo è stata pubblicata sul n. 5/2019.


Domenico Garofalo

Abstract. The A. analyses the Law No. 81/2017 to point out how autonomous work started being in the area of concern of the Legislator at last. However, the most effective protection was the extension of the one granted years ago in support of economically dependent enterprises. In particular, the concept of economic dependence was borrowed from corporate Law without a specific definition for autonomous workers. Furthermore, the package of protection measures was completed by the reproposal of the same measures set up for the now repealed project collaborations. The A. appreciates the above mentioned regulatory intervention subject to verification of its positive and effective impact. Parole

chiave:

Lavoro autonomo – L. 81/2017 – Dipendenza economica – Tutele

6. Le tutele lavoristico-previdenziali. Come già detto, nella terza tipologia di tutele sono riconducibili quelle che guardano al lavoratore autonomo in quanto soggetto che vive del proprio lavoro e con il reddito che ne trae. Questa terza tipologia può essere scomposta a seconda del profilo preso in considerazione dal legislatore: a) tutela fiscale del reddito (artt. 8 e 9, commi 1, 2 e 3); b) promozione dell’occupazione (artt. 10 e 12); c) tutela per la mancanza di lavoro o per eventi impeditivi della prestazione (artt. 7 e 8, commi 4, 11, 13, 14).

6.1. La tutela fiscale del reddito. 6.1.1. La deducibilità fiscale delle spese per prestazioni alberghiere e di somministrazione di alimenti e bevande.

La l. n. 81/2017 interviene sul regime delle deduzioni fiscali tratteggiando una disciplina più ordinata rispetto a quella previgente, eliminando il differente trattamento riservato alle spese a seconda che fossero sostenute dal lavoratore autonomo o direttamente dal committente. Inoltre, con riferimento alle spese di vitto e alloggio, se sostenute in proprio, esse soggiacciono ai limiti generali di deduzione, mentre se sostenute per l’esecuzione di un incarico (e analiticamente addebitate), si deducono integralmente. Come evidenziato dalla dottrina1, la presenza di due contestuali distinti regimi di deducibilità per le medesime spese potrebbe essere fonte di errori e contestazioni, nonostante la finalità semplificatrice reperibile al fondo della disposizione.

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Fortunato, Il regime di deducibilità delle spese per prestazioni alberghiere e di somministrazione di alimenti e bevande, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera del lavoro autonomo – agile – occasionale, cit., 192.

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La ritrovata dignità del lavoro autonomo

6.1.2. La deducibilità fiscale di taluni oneri connessi alla formazione professionale.

L’art. 9, l. n. 81/2017, sostanzialmente tripartisce gli oneri in questione in spese per formazione e aggiornamento professionale; spese mirate a sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e appropriati in relazione alle condizioni del mercato del lavoro; oneri per dotarsi di garanzie contro il mancato pagamento delle prestazioni di lavoro autonomo. Mentre le prime due tipologie di oneri sono sintoniche rispetto alla rubrica della disposizione, altrettanto non vale per l’ultima tipologia di spesa. In alcuni casi le deduzioni erano già presenti nel TUIR, e l’obiettivo della disposizione è stato quello di disciplinare in modo forse più razionale la fattispecie, si pensi alla deducibilità integrale nel limite di 10.000 euro per le spese sostanzialmente orientate alla manutenzione della professionalità del lavoratore autonomo. Il ricorso alla locuzione ««spese di iscrizione» in luogo della precedente «spese di partecipazione» potrebbe deprimere la funzione dell’istituto, se si tiene ben presente la differenza tra i due tipi di spese, anche se l’estensione qualitativa delle occasioni formative (es. master e corsi di formazione) potrebbe bilanciare gli effetti riduttivi derivanti dalla differenza tre le due locuzioni, ovvero la non riconducibilità di alcune iniziative formative tra quelle per le quali è prevista la deducibilità (si pensi ai workshop), specie in relazione ad eventi riconducibili alla c.d. formazione obbligatoria dei liberi professionisti2. Il passaggio, poi, dalla deducibilità a percentuale a quella con limite massimo consente di sopperire ai paradossali effetti derivanti dagli oneri formativi obbligatori per i liberi professionisti (si pensi agli avvocati, agli architetti e agli ingegneri), sebbene il limite fissato a 10.000 euro impone di orientare la propria attività formativa verso iniziative locali o low cost, poiché il rischio è quello di saturare l’intera fascia deducibile a causa di spese ricoducibili alla infelice logistica, ma riducendo il fenomeno del c.d. turismo formativo, poiché una volta raggiunto il tetto massimo di deducibilità, tutte le spese vengono considerate voluttuarie e come tali non deducibili. La situazione si complica nel caso di associazioni professionali, per le quali il limite di 10.000 euro andrebbe riferito al singolo professionista e non all’organismo associativo. Quanto ai c.d. collaboratori di studio, la norma si presta a meccanismi di incentivazione dell’attività formativa, con risvolti di fidelizzazione, ove il professionista finanzi l’iniziativa formativa, sotto forma di compenso per la collaborazione prestata, contabilizzando l’onere versato direttamente al collaboratore per la frequenza quale costo del lavoro, mentre il collaboratore utilizzerebbe la somma ricevuta per la propria formazione, imputandola ad onere deducibile. Quanto alla deducibilità delle spese per il miglioramento della propria condizione occupazionale, esse possono essere riconducibili all’erogazione di servizi come la certificazione delle competenze, l’orientamento, la ricerca e il sostegno all’auto-imprenditorialità, a condizione che queste spese siano destinate a sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e appropriati in relazione alle condizioni del mercato del lavoro, erogati dagli

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V. Lamonaca, op. cit., 201 ss.

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organismi accreditati ai sensi della disciplina vigente. L’onere deducibile è pari alla metà di quello previsto per le spese di formazione. Tutta da interpretare è la locuzione “effettivamente esistenti e appropriati”, comunque di chiaro stampo antielusivo. Infine, un cenno va fatto alla integrale deducibilità degli oneri sostenuti per la garanzia contro il mancato pagamento delle prestazioni di lavoro autonomo, con cui si cerca di ovviare alle ricadute sul lavoratore autonomo dell’insolvenza del committente, fenomeno purtroppo molto ricorrente. In questo modo si incentivano le polizze assicurative, anche se non giova al fine la copertura solitamente parziale offerta dalle compagnie.

6.2. La promozione dell’occupazione. 6.2.1. L’accesso alle informazioni sul mercato e sui servizi personalizzati di orientamento, riqualificazione e ricollocazione.

La disposizione amplia le opportunità per i lavoratori autonomi di accesso alle informazioni sul mercato ed ai servizi personalizzati di orientamento. In particolare, si prevede che «i centri per l’impiego e gli organismi autorizzati alle attività di intermediazione in materia di lavoro ai sensi della disciplina vigente si dotano, in ogni sede aperta al pubblico, di uno sportello dedicato al lavoro autonomo, anche stipulando convenzioni non onerose con gli ordini professionali e le associazioni costituite ai sensi degli articoli 4, comma 1, e 5, l. 14 gennaio 2013, n. 4, nonché con le associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale dei lavoratori autonomi iscritti e non iscritti ad albi professionali». Come si può notare, oltre ai CPI sono valorizzati anche gli organismi “autorizzati” (e non “accreditati”) che possano dotarsi di uno sportello dedicato ai lavoratori autonomi, sebbene in entrambi i casi l’impressione è quella di un approccio passivo all’incontro domanda-offerta di lavoro autonomo3, che nelle intenzioni del legislatore dovrebbe avvenire, secondo una visione naif, in modo spontaneo e non spintaneo, senza alcuna provvista finanziaria (attività a costo zero) in grado di rendere il sistema performante. 6.2.2. Le informazioni e l’accesso agli appalti pubblici e ai bandi per l’assegnazione di incarichi e appalti privati.

La disposizione grava tutte le pubbliche amministrazioni dell’obbligo di favorire la partecipazione dei lavoratori autonomi alle procedure per l’aggiudicazione di appalti pubblici di servizi e ai bandi per l’assegnazione di incarichi di consulenza o di ricerca, attraverso il miglioramento dell’accesso alle informazioni relative alle gare pubbliche, collocandosi nel solco del codice dei contratti pubblici, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, con l’avvertenza che mentre il codice ha una evidente maggiore ampiezza, la l. n. 81/2017 ha quale

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Per le differenze tra autorizzazione e accreditamento con particolare attenzione all’art. 10, l. n. 81/2017, cfr. A. Olivieri, op. cit.

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La ritrovata dignità del lavoro autonomo

campo di azione il solo lavoro autonomo, manifestando una portata innovativa squisitamente formale sul versante normativo nazionale ed europeo, innestata su un quadro legislativo finalizzato alla tutela del lavoro autonomo che va oltre il rapporto tra quest’ultimo e la pubblica amministrazione committente, potendo riguardare anche le stazioni appaltanti private. A parte questo rilievo, ulteriore elemento significativo è rappresentato dall’estensione a lavoratori autonomi e liberi professionisti della possibilità di accesso a POR e PON a valere sui fondi strutturali europei. Infine, altra novità contenuta nell’art. 12, comma 3, riguada il consenso alla partecipazione ai bandi e al concorso all’assegnazione di incarichi e appalti privati, riconosciuta ai soggetti che svolgono attività professionale, a prescindere dalla forma giuridica rivestita. Si tratta di una disposizione funzionale a rimuovere ostacoli formali o sostanziali limitativi dell’accesso a mercati o finanziamenti pubblici agevolati e che rispecchia un approccio normativo già rinvenibile nel codice dei contratti pubblici, funzionale a consentire l’accesso a procedure complesse anche a concorrenti non strutturati e non organizzati, magari privi individualmente di determinati requisiti, integrabili in concorso, secondo un approccio non dissimile da quello reperibile al fondo del contratto di rete4.

6.3. La tutela per la mancanza di lavoro e per gli eventi impeditivi della prestazione.

La terza e ultima tutela, riconducibile all’area lavoristico-previdenziale, riguarda eventi importati dallo statuto protettivo del lavoro subordinato, accomunati dal venir meno del reddito o per il venire meno del lavoro (disoccupazione) o per l’impossibilità della prestazione (congedo parentale, per maternità, malattia e infortunio)5. Rispetto alle tutele introdotte dalla l. n. 81/2017, si tratta della parte meno innovativa, in gran parte riproducendo, con alcuni aggiustamenti, tutele già esistenti. Le ragioni di tale intervento sono varie, trattandosi in alcuni casi di reintroduzione di tutele venute meno a causa dell’abrogazione nel 2015 della disciplina del 2003 delle co.co. pro.; in altri casi di sistematizzazione di tutele già esistenti ma di natura sperimentale e transitoria; ed infine di aggiustamenti di discipline preesistenti. La disciplina del 2017 è stata poi in parte modificata in parte completata dal d.l. n. 101/2019, convertito nella l. n. 128/2019. L’articolo 1, comma 1, lett. b), di tale decreto ha inserito nel d.lgs. n. 81/2015, l’art. 2-bis, che da un lato sembra essere l’attuazione fuori delega di quanto previsto dall’art. 6, l. n. 81/2017; dall’altro lato, completa quanto previsto dal successivo art. 8 (commi 4-5-10), della stessa legge, in tema di congedo parentale e di

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V. Caffio, La protezione “nel mercato” per i lavoratori autonomi: accesso alle informazioni e nuove forme di aggregazione, cit. Di garanzie di stampo welfaristico parla Perulli, La legge di tutela del lavoro autonomo: profili introduttivi, cit., spec. 7; sulla tutela previdenziale del lavoro autonomo v. Nunin, La tutela della gravidanza e la sospensione in ipotesi di maternità, malattia e infortunio, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 409 ss., ma anche Gentile, La nuova frontiera della previdenza sociale, Lanzalonga, La tutela della genitorialità e della malattia per i lavoratori iscritti alla Gestione separata Inps, e Schiavone, Gravidanza, malattia ed infortunio nel Jobs Act degli autonomi, tutti in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., rispettivamente alle pagine 28 ss., 239 ss., 248 ss.; per una critica all’approccio della l. n. 81/2017 nel settore del Welfare con riferimento ai lavoratori autonomi v. Bronzini, op. cit., 2.

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malattia. Il successivo art. 2 modifica l’art. 15, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 22/2015, in tema di DIS-COLL. Sul piano sistematico non può farsi a meno di evidenziare l’incongruenza della collocazione dell’art. 2-bis, all’interno del d.lgs. n. 81/2015, a ridosso della disposizione sui collaboratori coordinati e continuativi, pur se non riguarda solo questi ultimi ma tutti gli iscritti alla gestione separata. Più logico sarebbe stato collocare tale norma nella l. n. 81/2017, modificandone l’art. 8. Mettendo da parte ogni pretesa di sistematicità, rileva che entrambe le disposizioni riducono il requisito contributivo minimo per l’accesso alle tutele previdenziali ivi previste, estendendole a tutti gli iscritti alla Gestione Separata INPS, alla doppia condizione di non essere titolari di pensione e di non essere iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie. Come si vede tale assetto normativo finisce con l’azzerare, quanto meno in ambito previdenziale, ogni differenza tra collaborazione coordinata e continuativa e lavoro autonomo c.d. puro (sul punto si rinvia alla prima parte del presente contributo in questa rivista n. 5/2019, e segnatamente alle pagine 484-485). La ragione di tale “estensione” sta tutta nel progressivo ampliamento dell’obbligo di iscrizione e di contribuzione alla Gestione separata INPS, così tentando di superare le diffuse (e condivise) critiche relative a una contribuzione senza prestazione, che fa di questa gestione l’antitesi di quella che presidia il bracciantato agricolo connotato da prestazioni senza (un’equivalente) contribuzione. 6.3.1. La stabilizzazione della DIS-COLL.

L’intervento normativo sulla Dis-Coll, in ragione della natura originariamente sperimentale dell’istituto, è stato quasi ciclico, e condensato nelle disposizioni solitamente incluse nelle leggi di stabilità susseguitesi dal 2015 ad oggi6. Infatti, rispettivamente gli artt. 1, comma 310, l. 28 dicembre 2015, n. 208 e 3, comma 3-octies, d.l. 30 dicembre 2016, n. 244 convertito, con modificazioni, nella l. 27 febbraio 2017, n. 19, hanno esteso la tutela indennitaria in questione agli eventi di disoccupazione verificatisi nell’anno 2016 e nel primo semestre del 2017. L’art. 7, l. n. 81/2017, modificando l’art. 15, d.lgs. n. 22/2015, ha previsto la stabilizzazione della Dis-Coll in favore dei precedenti beneficiari (lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa) e l’estensione dal 1 luglio 2017 dell’indennità agli assegnisti e ai dottorandi di ricerca con borsa di studio7, in relazione agli eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dalla data del 1 luglio 2017, così superando l’inter-

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D. Garofalo, Stabilizzazione ed estensione della Dis-Coll, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., 180. Su questa novità «di portata eccezionale poiché per la prima volta in Italia si riconosce un sussidio di disoccupazione alle eccellenze della ricerca universitaria, già da tempo previsto in diversi paesi come Austria, Belgio, Spagna, Finlandia, Francia, Grecia, Olanda, Bulgaria, Repubblica Ceca, Lussemburgo e Norvegia» cfr. Cagnin, Art. 7, l. 22 maggio 2017, n. 81: la conferma della DIS-COLL quale sussidio alla disoccupazione per i collaboratori e la sua estensione ad assegnisti e dottorandi di ricerca con borsa di studio, in Fiorillo, Perulli (a cura di), op. cit., 61; ma v. anche Garbuio, Profili regolativi e condizionalità dell’indennità di disoccupazione per i collaboratori: la recente estensione a dottorandi e assegnisti di ricerca, in RIDL, 2017, III, 153 ss., spec. 164, secondo la quale l’estensione della Dis-Coll ai dottorandi di ricerca «pare più un ammortizzatore sociale “in costanza di rapporto” che un sostegno per affrontare un periodo di transizione, poiché con l’indennità il dottorando che non ha ancora ufficialmente terminato il suo ciclo di studi e non può dedicarsi ad una nuova attività, percepisce nell’attesa di discutere i risultati della sua ricerca un aiuto economico».

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pretazione contraria fornita dal Ministero del lavoro a margine di un interpello promosso dalla CGIL8. Il riconoscimento della Dis-Coll in favore delle nuove categorie, possibile anche nel caso in cui sia stata erroneamente presentata domanda di NASpI in luogo di quella di Dis-Coll9, viene accompagnato dall’introduzione di una contribuzione aggiuntiva pari allo 0,51% a decorrere dal 1° luglio 2017 per i collaboratori, gli assegnisti e i dottorandi di ricerca con borsa di studio che hanno diritto di percepire la Dis-Coll10, nonché per gli amministratori e i sindaci, pur se esplicitamente esclusi dalla fruizione stessa11. L’estensione della Dis-Coll anche a dottorandi ed assegnisti di ricerca pone il problema della oggettiva compatibilità tra gli obblighi in materia di condizionalità, l’indubbio bagaglio specialistico di conoscenze possedute e le concrete iniziative di attivazione lavorativa o di riqualificazione professionale che i centri per l’impiego possono mettere in campo in loro favore, condividendo l’opinione di chi ritiene praticamente impossibile offrire a costoro un ventaglio di politiche attive coerenti rispetto alla propria esperienza professionale, non essendo peregrina l’idea di coinvolgere gli Atenei in una attività di questo genere12. Gli oneri relativi al finanziamento della stabilizzazione e dell’estensione della Dis-Coll, previste dall’art. 7, comma 15-bis, l. n. 81/2017, sono quantificati in un arco decennale di previsione di spesa dal successivo comma 15-ter, con oneri progressivamente crescenti13.

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Risposta ad interpello Min. lav. 22 dicembre 2015, n. 31. In tal senso v. msg. Inps 30 novembre 2017, n. 4804, secondo cui se la domanda di NASpI ha tutti i requisiti per essere valutata come Dis-Coll e solo per errore materiale sia stata presentata a titolo di NASpI, è possibile la trasformazione di quest’ultima in istanza di Dis-Coll per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1 gennaio 2017, anche a valere sulle risorse residue stanziate dall’art. 1, comma 310, l. n. 208/2015. Ovviamente, le categorie beneficiarie dell’estensione potranno veder trasformate le relative istanze solo per le cessazioni aventi decorrenza 1 luglio 2017. 10 Circ. Inps 19 luglio 2017, n. 115, § 2.7, legittima la presentazione della domanda di Dis-Coll esclusivamente da parte del dottorando di ricerca che abbia terminato la percezione della borsa di studio, prevedendo che la stessa sia presentata a pena di decadenza entro sessantotto giorni dalla data di cessazione della borsa di studio. Il riferimento esclusivo al “dottorando di ricerca” e la previsione dell’anzidetto termine colloca il momento di presentazione della domanda nella fase temporale successiva alla cessazione dell’erogazione della borsa di studio, ma antecedente il conseguimento del titolo con il naturale passaggio dallo stato di dottorando a quello di dottore di ricerca. In tal senso v. Garbuio, op. cit., 165-166, secondo la quale il successivo conseguimento del titolo di dottore di ricerca prima che i sei mesi di indennità siano esauriti non comporta la decadenza dalla percezione del trattamento di sostegno al reddito, non essendo espressamente prevista tra quelle che la determinano. Analoga soluzione viene avanzata nel caso in cui il titolo venga conseguito dopo la presentazione della domanda, ma entro il termine decadenziale dei sessantotto giorni. 11 Secondo M. Cinelli, C.A. Nicolini, Dai vouchers alle prestazioni occasionali – Riforme e controriforme degli ammortizzatori sociali – tutele per smart working e lavoro autonomo – la delega per l’introduzione del reddito di inclusione, in RIDL, 2017, III, 118 ss., spec. 126, la contribuzione aggiuntiva è stata introdotta per far fronte ai maggior oneri conseguenti all’estensione e stabilizzazione della Dis-Coll, ma tale ratio non spiegherebbe l’accollo della contribuzione aggiuntiva ad amministratori e sindaci, espressamente esclusi dalla fruizione dell’indennità, specie se si considera che altri soggetti parimenti inclusi nella Gestione Separata e non beneficiari della Dis-Coll non vengono gravati dalla contribuzione aggiuntiva citata. Ritiene l’aumento dell’aliquota contributiva per queste categorie di soggetti l’unica nota dolente della disposizione di riferimento Cagnin, Art. 7, l. 22 maggio 2017, n. 81: la conferma della DIS-COLL quale sussidio alla disoccupazione per i collaboratori e la sua estensione ad assegnisti e dottorandi di ricerca con borsa di studio, in Fiorillo, Perulli (a cura di), op. cit., spec. 61. 12 Così Garbuio, op. cit., 169. 13 Nello specifico gli oneri sono quantificati in 14,4 milioni di euro per l’anno 2017, 39 milioni di euro per l’anno 2018, 39,6 milioni di euro per l’anno 2019, 40,2 milioni di euro per l’anno 2020, 40,8 milioni di euro per l’anno 2021, 41,4 milioni di euro per l’anno 2022, 42 milioni di euro per l’anno 2023, 42,7 milioni di euro per l’anno 2024, 43,3 milioni di euro per l’anno 2025 e 44 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2026. Si provvede, altresì, tenuto conto degli effetti fiscali indotti, mediante l’utilizzo delle maggiori entrate derivanti dall’incremento dell’aliquota contributiva disposto ai sensi del terzo periodo del comma 15-bis. 9

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Ai sensi dell’art. 7, comma 15-quater, l. n. 81/2017, viene affidata all’Inps la consueta funzione di monitoraggio dell’andamento gestionale della fattispecie (entrate vs. uscite), con tempestiva trasmissione al Ministero del lavoro e delle politiche sociali e al Ministero dell’economia e delle finanze dei dati per le conseguenti iniziative di carattere finanziario, ai sensi dell’art. 17, commi da 12 a 13, l. 31 dicembre 2009, n. 196. Una ulteriore estensione della tutela contro la disoccupazione viene affidata alla riduzione del requisito contributivo che il lavoratore deve possedere per godere del trattamento, portandolo da tre mesi ad un mese nel periodo che va dal primo gennaio dell’anno solare precedente l’evento di cessazione dal lavoro al predetto evento14. L’estensione della Dis-Coll viene ricondotta dalla dottrina alla tendenza estremizzante del nostro sistema di sicurezza sociale di avvalersi della coppia opposizionale «estensione vs. riduzione» delle tutele e più nello specifico alla estensione dell’an con corrispondente riduzione del quantum15. Se tale tendenza dovesse corrispondere al vero si pone il problema della compatibilità delle prestazioni previdenziali erogate rispetto all’art. 38 Cost., atteso che un quantum irrisorio, in primis frustrerebbe la sostanza dell’an, ma soprattutto alimenterebbe una deriva assistenzialistica del sistema previdenziale, che sembra complessivamente trarre un notevole vantaggio economico comparativo se si considera il rapporto tra contribuzioni versate e prestazioni erogate16. 6.3.2. Il congedo parentale (anche per adozione e affidamento preadottivo).

Poco opportunamente abbinata a disposizioni fiscali si introduce una tutela per congedo parentale anche nei casi di adozione o affidamento preadottivo. Condizione per godere di detta tutela è l’iscrizione alla Gestione separata INPS, il non essere titolare di pensione e non essere iscritto ad altre forme previdenziali obbligatorie e, infine, l’essere tenuti al versamento della maggiorazione contributiva del 0,5%17. Il trattamento economico è corrisposto a condizione che risultino accreditate almeno tre mensilità di quest’ultima contribuzione nei dodici mesi precedenti l’inizio del periodo indennizzabile ed è pari al 30% del reddito da lavoro su cui si calcola la contribuzione. Come già anticipato, il requisito contributivo è stato ridotto da 3 ad 1 mese con l’art. 2-bis, introdotto nel d.lgs. n. 81/2015, dall’art. 1, comma 1, lett. b), d.l. n. 101/2019. Sono esonerate dal requisito contributivo le lavoratrici o i lavoratori che hanno titolo all’indennità di maternità o paternità, ove il congedo sia fruito entro il primo anno di vita del bambino.

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V. art. 15, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 22/2015, come modificato dall’art. 2 comma 1, d.l. n. 101/2019, c.d. “decreto riders”, sul quale v. infra. Per la copertura finanziaria v. il successivo art. 3. 15 V. Filì, Stabilizzazione ed estensione dell’indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuative, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 347 ss. 16 V. Filì, op. ult. cit., 355. 17 Art. 59, comma 16, l. n. 449/1997.

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La durata del trattamento è di massimo sei mesi entro i primi 3 anni di vita del bambino, ridotti in proporzione ai mesi di congedo fruiti da entrambi i genitori anche in altra gestione o cassa di previdenza18. 6.3.3. La reintroduzione della tutela a livello contrattuale nel caso di gravidanza, malattia e infortunio.

In aggiunta alla tutela previdenziale degli eventi sospensivi del rapporto di collaborazione19 la Riforma Biagi del 2003 aveva introdotto, con l’art. 66, d.lgs. n. 276/2003, una tutela nel rapporto, prevedendone, entro certi limiti e a certe condizioni, la permanenza, mettendo in crisi la configurazione della fattispecie avente ad oggetto un’obbligazione di risultato, essendole totalmente estraneo il tempo o la durata del vincolo contrattuale. Tale disciplina è stata azzerata nel 2015 dalla Riforma Renzi che abrogando tutte le disposizioni sul lavoro a progetto ha finito col travolgere anche quelle, come la tutela in esame, che ben potevano sopravvivere alle co.co.pro. afferendo piuttosto alle co.co.co.20. Tale inaspettato e incomprensibile vuoto normativo è stato colmato dalla l. n. 81/2017 che, con l’art. 14, ha reintrodotto detta tutela. Salvo che il committente non dimostri il venire meno dell’interesse alla permanenza del vincolo contrattuale, in presenza di un evento sospensivo quale gravidanza, malattia e infortunio, il collaboratore può richiedere la sospensione del rapporto, senza diritto al corrispettivo, per un periodo non superiore a 150 giorni per anno solare. Inoltre, solo in caso di maternità, previo consenso del committente, è prevista la possibilità di sostituzione delle lavoratrici autonome, già riconosciuta dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 151/2001, ma solo con lavoratori subordinati o somministrati, ora anche da parte di altri lavoratori autonomi di fiducia delle lavoratrici stesse e in possesso dei necessari requisiti professionali, nonché dei soci, consentendosi anche forme di compresenza della lavoratrice e del suo/a sostituto/a21. Per rendere effettiva la fruizione della sospensione ove dovuta ad una malattia o infortunio gravi, che impediscono lo svolgimento dell’attività per oltre 60 giorni, è prevista la

18

V. art. 8, commi da 4 a 9, l. n. 81/2017. V. gli artt. 59, comma 16, l. n. 449/1997; 80, comma 12, l. n. 388/2000; 1, comma 778, l. n. 296/2006. Per una ricognizione v. D. Garofalo, Statuto protettivo del lavoro parasubordinato e tutela della concorrenza, in De Luca Tamajo, Rusciano, L. Zoppoli (a cura di), Mercato del lavoro, riforma e vincoli di sistema. Dalla Legge 14 febbraio 2003, n. 30, al D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Editoriale Scientifica, 2004, 215 ss. 20 L’art. 52, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 ha abrogato gli artt. 61-69 bis, d.lgs. n. 276/2003. 21 Positivamente sulla disposizione Razzolini, Il d.d.l. sul lavoro autonomo: dalla tutela della dipendenza alla tutela della persona, cit., 1, che la ritiene paradigmatica della valorizzazione della dimensione personale del lavoro autonomo; a sua volta G. Santoro Passarelli, Il lavoro autonomo non imprenditoriale, il lavoro agile e il telelavoro, cit., § 1, rammenta che l’art. 14, comma 1, si applica solo alle collaborazioni aventi ad oggetto una prestazione continuativa. Per un giudizio positivo sulle intenzioni del legislatore, ma critico sul prodotto normativo finale, v. Lanzalonga, op. cit., 239 ss., secondo la quale «le intenzioni, seppure condivisibili del legislatore, di migliorare le tutele esistenti per i lavoratori autonomi trovano, però, una forte deterrenza insita nella natura stessa del rapporto di lavoro autonomo, tanto da depotenziare comunque, in termini di efficacia ed effettività, le novità introdotte dalla l. n. 81/2017». In argomento v. anche Schiavone, op. cit., 248 ss.; R. Nunin, op. cit.; M.D. Ferrara, La sostituzione nelle prestazioni di lavoro autonomo in caso di maternità, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), op. cit., 419 ss.; M.L. Vallauri, Tutela della salute e sostegno alla genitorialità, in Fiorillo, Perulli (a cura di), op. cit., 125 ss. 19

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sospensione del versamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi per l’intera durata dell’evento, fino ad un massimo di due anni, decorsi i quali il lavoratore dovrà versare i contributi e i premi maturati in un numero di rate mensili pari a tre volte i mesi di sospensione. Ovviamente tale disposizione riguarda solo gli autonomi “puri” o i liberi professionisti sui quali gravano per intero gli obblighi contributivi, e non anche i co.co. co. la cui contribuzione è assolta dal committente, obbligato per i 2/3, al momento della corresponsione dei compensi. 6.3.4. Alcune tutele (previdenziali) in caso di malattia e maternità.

Completano il pacchetto di tutele qui esaminate alcune disposizioni specifiche in tema di malattia e di maternità. La prima, sempre circoscritta agli iscritti alla Gestione separata INPS, equipara, ai fini del trattamento, alla degenza ospedaliera i periodi di malattia, certificata come conseguente a trattamenti terapeutici di malattie oncologiche o di gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti o che comunque comportino una inabilità lavorativa temporanea del 100%22. La seconda, modificando sul punto la norma del t.u. sulla genitorialità del 2001, libera il diritto a percepire il trattamento di maternità spettante per i due mesi ante e i tre mesi post partum da parte delle iscritte alla Gestione separata INPS “dalla effettiva astensione dall’attività lavorativa”23, in aderenza al principio enunciato anni fa per le libere professioniste24. Sugli eventi impeditivi alcune novità sono reperibili nel d.l. 3 settembre 2019, n.101. La prima riguarda il riconoscimento dell’indennità giornaliera di malattia, l’indennità di degenza ospedaliera, il congedo (rectius il trattamento) di maternità e il congedo (rectius il trattamento) parentale a tutti i soggetti iscritti alla gestione separata INPS, non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie, a condizione che, fermo restando i requisiti reddituali vigenti, risulti attribuita una mensilità della contribuzione dovuta alla predetta gestione nei dodici mesi precedenti la data di inizio dell’evento o dell’inizio del periodo indennizzabile25. La seconda aumenta del 100% l’indennità di degenza ospedaliera, con conseguente aggiornamento della misura dell’indennità giornaliera di malattia26.

22

V. art. 8, commi 10-11, l. n. 81/2017. V. l’art. 13, commi 1, l. n. 81/2017, che ha modificato l’art. 64, comma 2, d.lgs. n. 151/2001. 24 V. C. cost., 29 gennaio 1998, n. 3, con note di Cinelli, Indennità di maternità e lavoro libero professionale, in GC, 1998, 1201; Miscione, La maternità per le donne professioniste, in LG, 1998, 6, 465; Pera, Indennità di maternità senza danno ?, in RIDL, 1998, II, 226. 25 V. art. 2-bis, comma 1, d.lgs. n.81/2015 aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett.b), d.l.n.101/2019. Per la copertura finanziaria vedi il successivo art. 3. 26 V. art. 2 bis, comma 2, d.lgs. n.81/2015 aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. b), d.l.n.101/2019. Per la copertura finanziaria vedi il successivo art. 3. 23

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6.4.

Perché la disciplina della l. n. 81/2017 non è mera sostituzione di quella recata dal d.lgs. n. 276/2003 abrogata nel 2015.

Al termine della disamina delle norme definite come “lavoristico-previdenziali”, prima facie si potrebbe ritenere che con esse la l. n. 81/2017 sostituisca l’abrogata disciplina in tema di collaborazioni a progetto di cui agli artt. 61-69 bis, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 27627; impressione in parte fondata, in quanto alcune tutele previste dalla l. n. 81/2017 riprendono quelle introdotte con il d.lgs. n. 276/2003, ma con una rilevante differenza, che afferisce proprio al campo di applicazione di tale disciplina, considerato che la vecchia copriva solo l’area delle co.co.pro., mentre la nuova copre, sia pure a certe condizioni, l’intera area del lavoro autonomo, arrestandosi alle soglie della piccola impresa (v. supra). La partita normativa, quindi, non si gioca solo sul versante delle tutele, ma anche sul terreno definitorio della fattispecie di riferimento, che in un primo momento storico ha visto il contratto a progetto elevarsi a «figura negoziale tendenzialmente esclusiva a disposizione dei committenti interessati a fare ricorso ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276)»28. L’uso sovente fraudolento dello strumento contrattuale del lavoro a progetto ha indotto in un primo momento il legislatore (l. n. 92/2012) ad incidere sulla nozione di progetto, nella speranza di poter contenere il fenomeno, mentre a distanza di oltre dieci anni dall’introduzione della fattispecie si è addivenuti alla decisione del suo totale superamento, attraendo, quantomeno sotto il profilo delle tutele, al lavoro subordinato le prestazioni di lavoro esclusivamente personali e continuative, organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015), e facendo ricadere tutte le altre nell’ampio contenitore rappresentato dall’art. 409 c.p.c. Va segnalato che l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, è stato oggetto di una doppia manomissione, ad opera una del d.l. n. 101/2019 e l’altra della legge di conversione, n. 128/2019. Partendo dalla seconda, l’espressione «esclusivamente personali» è stata sostituita con quella «prevalentemente personali», così eliminandosi il disallineamento esistente con l’art. 409, n. 3, c.p.c. Inoltre, l’etero-organizzazione è stata sganciata dai tempi e dal luogo di lavoro, con la soppressine dell’originario riferimento a questi due indici, in tal modo facendo venire meno la presunzione connessa alla loro eventuale ricorrenza. Alla “ridefinizione” della fattispecie concorre, infine, il richiamo delle modalità di esecuzione della prestazione “organizzate mediante piattaforme anche digitali. L’effetto normativo più appariscente è rappresentato dalla espansione della subordinazione in funzione antifraudolenta, tendenzialmente ex post e non ex ante, rispetto alle opzioni contrattuali manifestate dalle parti29, con ricadute importanti in ordine a vincoli e costi, appunto mutuati dal lavoro subordinato, che in teoria dovrebbero indurre il potenziale datore di lavoro a optare subito per il lavoro subordinato, piuttosto che avventurarsi

27

V. Corti, Sartori, op. cit., spec. 93. Così Voza, L’intervento della l. n. 81/2017 sulla nozione di collaborazione coordinata e continuativa, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., 294; adde Paolitto, op. cit., 260 ss. 29 S. Ciucciovino, op. cit., 338. 28

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nel campo minato di una potenziale riqualificazione postuma del rapporto di collaborazione in subordinato, sempre dietro l’angolo e pronta a colpire nel caso in cui siano rilevate tracce di etero-organizzazione nelle co.co.co. Viceversa, esclusa l’etero-organizzazione e rilevata la presenza del requisito dell’autonomia organizzativa, la capacità di attrazione del lavoro subordinato si annulla, conferendo alla collaborazione quel crisma di autonomia giuridica richiesto dall’art. 409, n. 3 c.p.c. che le consente di avere una vita propria: in sostanza, è la presenza di una organizzazione del prestatore d’opera opposta a quella del preponente che funge da elemento di neutralizzazione della vis attractiva del lavoro subordinato sulla collaborazione. Quindi, si va oltre la valorizzazione del profilo esecutivo della prestazione, al centro dell’autonomia della fattispecie del lavoro a progetto ante abrogazione, esigendosi piena autonomia (organizzativa) da parte del collaboratore, a sua volta perfetto addentellato dell’elemento del coordinamento, «nel senso che l’attività lavorativa può essere organizzata autonomamente dal prestatore, benché sia coordinata con l’organizzazione del committente»30.

7. Le deleghe (scadute) sulle libere professioni. I dati statistici relativi all’evoluzione del lavoro libero-professionale testimoniano la capacità di questo settore di attrarre (anche) chi non è riuscito a collocarsi nel mercato del lavoro subordinato, costituendo una sorta di ripiego lavorativo in attesa di tempi migliori31. La rinnovata attenzione del legislatore verso il lavoro autonomo, almeno nelle intenzioni del Governo in carica nel 2017, non si sarebbe dovuta arrestare alla l. n. 81/2017, ma sarebbe continuata con l’esercizio delle deleghe di cui agli artt. 5, 6, 11, del medesimo provvedimento, da realizzare nel rispetto delle procedure previste dal successivo art. 16. Le deleghe dovevano essere esercitate entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge (14 giugno 2017 - 13 giugno 2018), termine abbondantemente scaduto, essendo coinciso in buona parte con l’avvio della XVIII legislatura e l’entrata in carica del Governo Lega-5 Stelle. Attraverso l’attuazione delle deleghe si puntava a: a) semplificare l’attività delle amministrazioni pubbliche e ridurne i tempi di produzione, demandando al Governo la predisposizione di uno o più decreti legislativi in materia di rimessione di atti pubblici alle professioni ordinistiche, trasformando in opportunità, per i professionisti, l’esigenza di snellimento burocratico e di sgravio dell’attività delle p.a.: in sintesi, l’intenzione era quella di esternalizzare una parte delle attività amministrative pubbliche, creando lavoro (art. 5)32;

30

Così Voza, L’intervento della l. n. 81/2017 sulla nozione di collaborazione coordinata e continuativa, cit., 294; adde Paolitto, op. cit., 260 ss. 31 Sul punto v. Filì, Nuove sfide, tutele e opportunità per i professionisti nelle deleghe della l. n. 81/2017, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera, cit., 332 ss. 32 I principi e criteri direttivi contenuti nella delega individuavano: gli atti delle amministrazioni pubbliche che potevano essere rimessi

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b) rafforzare sempre a costo zero le prestazioni di sicurezza e protezione sociale dei professionisti iscritti a ordini o collegi chiamando in soccorso le casse libero – professionali, autorizzandole ad attivare, anche in forma associata, sia prestazioni complementari di tipo previdenziale e socio-sanitario, sia prestazioni sociali, finanziate da apposita contribuzione, con particolare riferimento agli iscritti che abbiano subito una significativa riduzione del reddito professionale (art. 6, comma 1); c) allargare la platea delle lavoratrici autonome in grado di accedere alle prestazioni di maternità, riducendo i requisiti di accesso e allargando il periodo di tempo entro cui individuare i requisiti contributivi minimi per l’accesso, prevedendo altresì l’apposizione di minimali e massimali per tali prestazioni (art. 6, comma 2)33; d) semplificare gli adempimenti meramente formali legati all’ottemperanza del d.lgs. n. 81/2008 con riferimento agli studi professionali (art. 11). L’art. 16 prevedeva che gli schemi di decreti legislativi avrebbero dovuto essere adottati su proposta, nel caso dell’art. 5, del Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, con obbligo della «previa intesa» in sede di Conferenza unificata, mentre per quelle sub artt. 6 e 11 del Ministro del lavoro, e in tutti i casi sempre di concerto con i Ministri competenti. Con specifico riferimento all’art. 11 si prevedeva che dovesse essere solo «sentita» la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. Le deleghe erano a costo zero per il bilancio dello Stato, come si evince anche dall’art. 16, che prevede una relazione tecnica che dia conto del rispetto del vincolo di neutralità finanziaria, con ulteriore vaglio sul punto delle competenti Commissioni della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Infine, come accade spesso, la l. n. 81/2017 riservava al Governo la possibilità, entro dodici mesi dall’entrata in vigore dei decreti delegati, di adottare, con le medesime procedure, disposizioni integrative e correttive in considerazione delle evidenze attuative nel frattempo emerse. Al pari delle deleghe in materia di lavoro libero-professionale inattuate, non si hanno notizie del «Tavolo tecnico di confronto permanente sul lavoro autonomo» che, ai sensi dell’art. 17, avrebbe dovuto essere istituito presso il Ministero del lavoro «al fine di coordinare e di monitorare gli interventi in materia di lavoro autonomo». Sorvolando su composizione e neutralità finanziaria, va sottolineato il compito assegnato al «Tavolo» di formulare proposte e indirizzi operativi in materia di «politiche del lavoro autonomo» con particolare riferimento a modelli previdenziali, di Welfare e di formazione professionale. Tale previsione denota la piena consapevolezza dei Governi della XVII

anche alle professioni organizzate in ordini e collegi in relazione al carattere di terzietà di queste; le misure che garantissero il rispetto della disciplina in materia di tutela dei dati personali nella gestione degli atti rimessi ai professionisti ordinistici; le circostanze che potessero determinare condizioni di conflitto di interessi nell’esercizio delle funzioni rimesse ai professionisti. 33 Sull’importanza di questa delega v. Filì, Nuove sfide, tutele e opportunità per i professionisti nelle deleghe della l. n. 81/2017, cit., poiché «anche se non attuata, ci dà un segnale importante di attenzione del legislatore all’area del lavoro parasubordinato, autonomo, financo libero professionale, sebbene in assenza di ordini o collegi, con particolare riferimento a quegli eventi che possono frequentemente comportare una riduzione dell’attività lavorativa, e quindi di reddito, quali la malattia e la maternità, e che ancora oggi mettono in luce la fragilità dei lavoratori (e specialmente delle lavoratrici) non subordinati rispetto ai lavoratori dipendenti, stanti le ripercussioni anche sulle future occasioni di lavoro che questi eventi della vita possono comportare».

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legislatura dei reali bisogni dei lavoratori autonomi, cosa che suggerisce l’opportunità di estendere la presente indagine al “dopo l. n. 81/2017”, cioè all’operato del primo Governo della XVIII legislatura per verificare l’attenzione dello stesso verso il ‘pianeta lavoro autonomo’ e le eventuali iniziative messe in campo34, avendo già dato conto nelle pagine precedenti dell’intervento del secondo Governo (c.d. Conte 2), condensato nel d.l. n. 101/2019 e, soprattutto, nella legge di conversione n. 128/2019.

8. Il sostegno al lavoro autonomo nell’azione del Governo giallo-verde.

L’analisi del materiale normativo a disposizione mostra un approccio asistematico e contingente in tema di lavoro autonomo da parte del primo Governo della XVIII legislatura, c.d. Governo giallo-verde (in quanto formato da due partiti, Lega e 5 Stelle), il cui interesse si è incentrato su alcuni aspetti specifici (es. flat tax). Al ridotto appeal normativo del lavoro autonomo fa da pendant la maggiore capacità di catalizzazione sprigionata dal lavoro subordinato a tempo indeterminato rispetto a qualunque altro strumento occupazionale e la cartina di tornasole è rappresentata, ovviamente, non solo dal decreto dignità, ma dalla successiva produzione normativa, caratterizzata da un massiccio ricorso alla decretazione d’urgenza (d.l. n. 109/2018 – c.d. decreto Genova; d.l. n. 113/2018 – c.d. decreto sicurezza; d.l. semplificazione n. 135/2018; d.l. n. 4/2019 – c.d. decreto su reddito di cittadinanza e quota 100), ovvero alla questione di fiducia (l. n. 145/2018). Si tratta, quindi, di un intervento normativo estemporaneo ed episodico, sovente “a rimorchio” di disposizioni adottate per il lavoro dipendente ed estese poi a quello autonomo, in assenza di una visione di insieme. Le aree di intervento in materia sono le seguenti: a) misure riconducibili al crollo del Ponte Morandi di Genova; b) lavoro degli stranieri; c) pace fiscale e contributiva per situazioni di difficoltà economica; d) lotta alla povertà ed incentivazione del lavoro autonomo.

8.1. Le misure riconducibili al crollo del viadotto sul torrente Polcevera di

Genova.

Per completezza di analisi si vuole dedicare un focus alle misure varate a seguito del crollo del Ponte Morandi a Genova. In primis vanno evidenziate le misure a sostegno delle imprese danneggiate in conseguenza dell’evento del crollo, con il ristoro economico per il decremento del fatturato e l’indennità per la perdita di attrezzature, macchinari, materiali aziendali ovvero della spesa

34

Così L. Zoppoli, Il diritto del lavoro gialloverde: tra demagogia, cosmesi e paralisi regressiva, in WP D’Antona, It., n. 377/2018, spec. 5.

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per il loro recupero o trasferimento nell’area metropolitana di Genova o, per motivate ragioni tecniche, organizzative o produttive, nelle province limitrofe; in secundis, il sostegno al reddito dei lavoratori subordinati; infine, il sostegno al reddito dei lavoratori autonomi. La necessità di robusti interventi a sostegno della drammatica situazione dell’economia di Genova e del suo porto è corroborata da uno studio del 22 novembre 2018 della Camera di Commercio di Genova, Confindustria e Università di Genova, recante una stima preliminare degli effetti economici determinati dal crollo del Ponte Morandi, rappresentati da danni diretti e da uno stato di grave crisi del sistema di mobilità genovese con gravi danni indiretti, specie per le imprese ed i professionisti ricompresi nelle aree individuate, ai fini del riconoscimento degli indennizzi previsti dall’art. 4, d.l. n. 109/2018, dal decreto n. 21 del 21 dicembre 2018, adottato dal Commissario Straordinario per la ricostruzione del Viadotto Polcevera dell’Autostrada A10 (ex d.p.c.m. 4 ottobre 2018), in quelle corrispondenti ai Municipi Val Polcevera, Centro ovest e Medio ponente. L’art. 4, d.l. n. 109/2018 apre l’elenco delle previsioni normative funzionali a dare ossigeno all’economia genovese e riguarda le imprese danneggiate in conseguenza del crollo, valorizzandosi il nerbo della finanza locale, riconoscendo previa domanda, una somma fino al 100% del decremento del fatturato rispetto al valore mediano del corrispondente periodo del triennio 2015-2017, nel limite massimo di Euro 200.000, alle imprese e ai liberi professionisti aventi sede operativa all’interno della zona delimitata dalle ordinanze di sgombero35. La prova del decremento di fatturato è affidata a una dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte dell’interessato, accompagnata dall’estratto autentico delle pertinenti scritture contabili; quanto al lasso temporale cui fare riferimento per liquidare gli indennizzi erogabili esso è compreso tra il 14 agosto 2018 e il 29 settembre 2018, giorno di entrata in vigore del d.l. 28 settembre 2018, n. 109. La determinazione delle modalità di pagamento delle misure economiche di sostegno alle imprese e ai liberi professionisti, ai sensi dell’art. 4, comma 2, d.l. n. 108/2019, è stata rimessa ad un provvedimento del Commissario delegato ad hoc36, prevedendo tra l’altro un limite minimo di decremento del fatturato ammissibile pari a 1.000 euro e la priorità per la liquidazione della somma fino al 100% del decremento in favore di imprese e liberi professionisti con sede operativa nella zona rossa/arancione e solo dopo nelle restanti zone individuate dal Commissario Straordinario con decreto n. 21/2018. Questa misura di ristoro, quindi, non è fissa, ma collocata in un range minimo/massimo (euro 1.000/ euro 200.000) che valorizza le differenze tra operatori economici, sebbene proprio la previsione di un massimale la renda comunque una misura satisfattiva parziale e non totale. Come anticipato, oltre al ristoro economico per il decremento del fatturato, il d.l. n. 109/2018 (art. 4 bis) si occupa del sostegno a favore degli operatori economici sempre in

35

Cfr. le ordinanze n. 282 del 14 agosto 2018, n. 307 del 26 agosto 2018, n. 310 del 30 agosto 2018 e n. 314 del 7 settembre 2018, adottate dal Sindaco di Genova e nell’aree di cui al decreto n. 21 del 21 dicembre 2018 del Commissario straordinario. 36 V. l’art. 1 dell’ordinanza del Capo del Dipartimento della Protezione civile n. 539 del 20 agosto 2018, emanato in data 11 gennaio 2019 (decreto n. 2/2019).

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conseguenza del crollo del Ponte, prevedendo l’erogazione di una indennità per la perdita di attrezzature, macchinari, materiali aziendali ovvero a rimborso della spesa per il loro recupero o trasferimento nell’area metropolitana di Genova o, per motivate ragioni tecniche, organizzative o produttive, nelle province limitrofe. L’indennità è liquidata dal concessionario, ovvero dal Commissario straordinario in via sostitutiva, entro trenta giorni dal deposito di una perizia giurata che attesti l’entità e la congruità della spesa, anche tenuto conto dei valori residui di ammortamento. Al fine di evitare forme di indebito arricchimento, il riconoscimento delle indennità in questione avviene deducendo l’aliunde perceptum assicurativo o risarcitorio proveniente da altri soggetti pubblici o privati, nonchè sotto forma di agevolazioni pubbliche eventualmente percepite dall’interessato per le medesime finalità. Il finanziamento della misura è collocato sempre nell’ambito della contabilità speciale di cui all’art. 1, comma 8, d.l. n. 109/201837. In sede di conversione del d.l. n. 109/2018 sono state poi introdotte le misure a sostegno del reddito dei lavoratori subordinati ed autonomi colpiti dagli effetti economici del crollo del Ponte Morandi di Genova (art. 4-ter, d.l. n. 109/2018). Al pari dell’intero provvedimento, quindi, la disposizione in questione spiega la sua efficacia su un bacino territoriale di riferimento sostanzialmente limitato con l’effetto di renderne l’analisi forse superflua. Ciò che interessa, però, non è tanto l’hic et nunc della norma, quanto il modello di tutela prescelto e la sua eventuale generalizzabilità per situazioni analoghe , viste le pessime condizioni in cui versa la rete viaria del nostro Paese.. Nel caso di specie si prevede una indennità a sostegno del reddito dei lavoratori dipendenti pari al trattamento massimo di CIG, con la relativa contribuzione figurativa, a decorrere dal 14 agosto 2018, per un massimo di dodici mesi, in favore dei lavoratori del settore privato, compreso quello agricolo, impossibilitati o penalizzati a prestare l’attività lavorativa, in tutto o in parte, a seguito del crollo del ponte Morandi, dipendenti da aziende, o da soggetti diversi dalle imprese, operanti nelle aree del territorio della città metropolitana di Genova (individuate con provvedimento del Commissario delegato, sentiti la regione Liguria e il comune di Genova), che hanno subito un impatto economico negativo e per i quali non trovano applicazione le vigenti disposizioni in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro o che hanno esaurito le tutele previste dalla normativa vigente38. Si tratta, quindi, del classico ammortizzatore in deroga, o meglio di un ammortizzatore sociale “cucito” addosso all’economia genovese e ligure, cui si aggiunge l’indennità prevista a sostegno dei titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di agenzia e di rappresentanza commerciale, dei lavoratori autonomi, ivi compresi i titolari

37

L’importo è pari a 35 milioni di euro per l’anno 2018, ripartito in 25 milioni di euro per l’indennità posta a ristoro della perdita dei macchinari et similia (art. 4-bis, comma 6), attingendo alle risorse INAIL per il finanziamento di progetti di cui all’art. 11, comma 5, d.lgs. n. 81/2018, e in 10 milioni per l’avvio del pagamento delle indennità per i danni subiti dagli immobili collocati nelle zone interessate dal crollo. 38 V. art. 4 ter, comma 1, d.l. n. 109/2018.

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di attività di impresa e professionali, iscritti a qualsiasi forma obbligatoria di previdenza e assistenza, che abbiano dovuto sospendere l’attività a causa del crollo del Ponte Morandi, riconoscendo loro un’indennità una tantum pari a 15.000 euro, nel rispetto della normativa dell’Unione europea e nazionale in materia di aiuti di Stato39. Come si può notare, quest’ultima indennità non tiene conto delle reali perdite del lavoratore autonomo ed è erogata in modo indifferenziato a soggetti economici ben diversi tra loro, venendo condizionata esclusivamente alla prova della sospensione delle attività in ragione del crollo del Ponte. Di conseguenza, l’indennità ha il pregio di rappresentare comunque una forma di ristoro che lo Stato riconosce agli operatori economici non escludendosi un’azione per il risarcimento danni a carico dei responsabili del crollo40. Le indennità in questione e cioè, sia quella erogabile ai lavoratori dipendenti, sia l’una tantum per gli autonomi sono caratterizzate da ovvi limiti di spesa41. Dal punto di vista procedurale le domande sono presentate alla Regione che le istruisce secondo l’ordine cronologico di presentazione e, insieme al decreto di concessione, invia la lista dei beneficiari all’INPS, incaricato dell’erogazione delle indennità; l’INPS provvede anche al monitoraggio del rispetto del limite di spesa42. Le condizioni per l’accesso agli incentivi in favore delle imprese con sede in zona fran43 ca prevedono la presenza della sede principale o di una sede operativa all’interno della zona ed una riduzione del fatturato (a causa del crollo) almeno pari al 25% nel periodo dal 14 agosto 2018 al 30 settembre 2018, rispetto al valore mediano del corrispondente periodo del triennio 2015-2017. Gli incentivi previsti dagli artt. 3, 4 e 8, d.l. n. 109/2018, sono tra loro alternativi, con l’effetto che la scelta dell’uno o dell’altro implica una attenta valutazione economica. Ai sensi dell’art. 8, gli incentivi si configurano quali esenzioni a tre diversi tipi di imposta, e cioè: a) imposta sul reddito derivante dall’attività d’impresa svolta nella zona franca fino a concorrenza, per ciascun periodo di imposta, dell’importo di euro 100.000 riferito al reddito derivante dallo svolgimento dell’attività svolta dall’impresa nella zona franca; b) imposta regionale sulle attività produttive del valore della produzione netta derivante dallo

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V. art. 4-ter, comma 2, d.l. n. 109/2018. Le disposizioni applicative della misura sono state adottate dal Commissario delegato, Giovanni Toti, ai sensi dell’art. 4-ter, con decreto n. 25/2018, modificato con decreto n. 3/2019, di approvazione dell’Accordo Quadro per l’anno 2018 per la concessione del sostegno al reddito dei lavoratori, in seguito al crollo del Ponte Morandi, ivi prevedendosi che per i lavoratori autonomi (ed affini) la sospensione dell’attività deve essere riferita a un periodo che intercorre tra il 14 agosto 2018 e il 19 novembre 2018, data di entrata in vigore della legge 16 novembre 2018 n. 130. 41 Le risorse finanziarie stanziate sono pari a 11 milioni di euro per l’anno 2018 e 19 milioni di euro per l’anno 2019, oneri posti a carico del Fondo sociale per occupazione e formazione, di cui all’articolo 18, comma 1, lettera a), d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2. 42 Anche in questo caso v’è la previsione che a tanto si provveda con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, fornendo i risultati dell’attività di monitoraggio al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al Ministero dell’economia e delle finanze e alla regione Liguria. 43 Con riferimento all’istituzione della zona franca urbana, l’art. 8, comma 1, d.l. n. 109/2018, rinviava la definizione del suo ambito territoriale, inerente comunque il territorio della Città metropolitana di Genova, ad un provvedimento del Commissario delegato, sentiti la Regione Liguria e il Comune di Genova, ai sensi dell’art. 1, comma 340, l. n. 296/2006, provvedimento effettivamente adottato il 21 dicembre 2018 dal Commissario Straordinario per la ricostruzione del Viadotto Polcevera dell’Autostrada A10 (ex d.p.c.m. 4 ottobre 2018) con decreto n. 21. 40

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svolgimento dell’attività svolta dall’impresa nella zona franca, nel limite di euro 200.000 per ciascun periodo di imposta, riferito al valore della produzione netta; c) imposte municipali proprie per gli immobili siti nella zona franca, posseduti e utilizzati per l’esercizio dell’attività economica. Come si può notare anche gli incentivi fiscali (tranne l’esenzione dalle imposte municipali) prevedono un limite e sono topograficamente orientati alla zona franca, al pari di quelli contributivi che consistono nell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, con esclusione dei premi INAIL, a carico dei datori di lavoro, sulle retribuzioni da lavoro dipendente, spettante alle medesime condizioni, anche ai titolari di reddito di lavoro autonomo che svolgono l’attività all’interno della zona franca. Le esenzioni sono ricondotte espressamente al regime de minimis e si configurano come incentivi “a tempo”, in quanto concessi per il periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto Genova e per quello successivo, quindi per gli anni fiscali 2018-2019, con slittamento degli effetti pratici sulle dichiarazioni per gli anni 2019 e 2020. Interessante, poi, è la torsione data dal legislatore all’incentivo delle esenzioni fiscali e contributive, concesso non solo a chi già operava in zona franca e quindi ha risentito concretamente degli effetti nefasti del crollo del ponte, ma anche alle imprese che avviano la propria attività all’interno della zona franca entro il 31 dicembre 2019, limitatamente al primo anno di attività, nella speranza di catalizzare investimenti in una zona economicamente depressa quale è stata definita la città metropolitana di Genova. Le risorse messe a disposizione per il finanziamento delle esenzioni non appaiono comunque di portata soddisfacente essendo concesse fino a un massimo di 10 milioni di euro per l’anno 2018 e di 50 milioni di euro annui per ciascuno degli anni 2019 e 2020.

8.2. Il lavoro autonomo nel c.d. decreto sicurezza. Il d.l. n. 113/2018, conv. con modificazioni in l. n. 132/2018, c.d. decreto sicurezza, contenente disposizioni urgenti in materia di immigrazione e sicurezza pubblica, prevede anche alcune misure tangenti al lavoro autonomo. In sintesi, il legislatore ha collegato la concessione del permesso “speciale” di soggiorno per le vittime di violenza domestica (ex art. 18-bis, d.lgs. n. 286/1998), ovvero di violenza in generale (ex art. 18-bis, comma 1-bis, d.lgs. n. 286/1998), all’accesso ai servizi assistenziali e allo studio, nonché all’iscrizione nell’elenco anagrafico di cui all’art. 4 del d.p.r. n. 442/2000, o allo svolgimento di lavoro subordinato e autonomo, fatti salvi i requisiti minimi di età, consentendo la convertibilità del permesso in questione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o autonomo, secondo le modalità stabilite per quest’ultimo, ovvero in permesso di soggiorno per motivi di studio qualora il titolare sia iscritto ad un corso regolare di studi [art. 1, comma 1, lett. f), n. 2 d.l. 113/2018]. Analogamente, anche il permesso di soggiorno per le vittime di particolare sfruttamento lavorativo (ex art. 22, comma 12-quater ss., d.lgs. n. 286/1998, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. i), d.l. 113/2018) si qualifica come permesso per casi speciali e consente lo svolgimento di attività lavorativa e può essere convertito, alla scadenza, in permesso di soggiorno per lavoro subordinato o autonomo.

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A seguito, poi, di particolari atti di eroismo, posti in essere da stranieri irregolari, è stato introdotto il permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile (ex art. 42-bis, d.lgs. n. 286/1998, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. q), d.l. 113/2018) concesso allo straniero nei casi di cui all’art. 3, l. n. 13/1958, sostituendo alle medaglie d’oro, d’argento e di bronzo o all’attestato di pubblica benemerenza (di cui lo straniero irregolare non saprebbe cosa fare), il rilascio di uno speciale permesso di soggiorno da parte del Ministro dell’interno, su proposta del Prefetto competente, salvo che ricorrano motivi per ritenere che lo straniero risulti pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato. In tali casi, il Questore rilascia un permesso di soggiorno della durata di due anni, rinnovabile, che consente l’accesso allo studio nonché allo svolgimento di attività lavorativa e può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato. Come si può notare le previsioni relative al lavoro autonomo non sono centrali, ma rappresentano una possibilità di inserimento offerta allo straniero la cui posizione “speciale” merita una tutela rafforzata e una possibilità ampia di inserimento nel nostro tessuto socio-economico.

8.3. La flat tax. Ulteriore campo di intervento, tangente rispetto alle misure innanzi esaminate, è quello fiscale della flat tax, un’imposta ad aliquota unica e non progressiva la cui ratio dovrebbe essere quella di ridurre l’evasione fiscale, in forza del postulato secondo cui una pressione fiscale ridotta ad aliquota fissa e non progressiva incentiverebbe anche gli evasori fiscali a pagare le imposte. Ovviamente, non è escluso che siffatto sistema possa deprimere le entrate e quindi determinare un taglio della spesa pubblica per servizi pubblici fondamentali, oltre ad impoverire i nuclei familiari che attualmente traggono beneficio dalle numerose detrazioni e deduzioni fiscali per familiari a carico e spese mediche non erogate dal S.S.N. Il sistema impositivo italiano si fonda su aliquote progressive a scaglioni di reddito, cui corrisponde una percentuale di prelievo sempre più elevata, diversamente dalla flat tax che si caratterizza per un appiattimento valutativo, sebbene temperato da alcuni peculiari meccanismi di riequilibrio. Nelle intenzioni del Governo, quindi, la flat tax dovrebbe lentamente sostituire l’attuale regime fiscale, ma per ora la transizione si caratterizza per l’applicazione del regime forfettario a partire dal 1° gennaio 2019 per tutti coloro che, nell’anno fiscale precedente, non abbiano conseguito ricavi o percepito compensi per un importo superiore a 65.000 euro e che non abbiano partecipazioni in associazioni, imprese familiari o società di persone. Chi beneficia del regime forfettario, poi, non deve avere il controllo di società a responsabilità limitata o di associazioni in partecipazione che esercitano attività connesse (anche indirettamente) con quelle svolte.

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A proposito dei meccanismi di temperamento, si evidenzia che il calcolo della base imponibile della flat tax prevede vari coefficienti di redditività, distinti per diverse tipologie di attività, dai quali poi detrarre i contributi previdenziali obbligatori44. L’introduzione graduale del nuovo regime fiscale, che poi altro non è che l’estensione del regime forfettario di cui alla l. n. 190/2014, prevede nel 2019 una flat tax del 15% che concerne i redditi degli insegnanti che impartiscono lezioni private (art. 1, comma 13, l. n. 145/2018), i liberi professionisti e le imprese che conseguano ricavi inferiori ai 65.000 euro (art. 1, comma 9, l. n. 145/2018). Al regime fiscale agevolato, poi corrisponde un trattamento di maggior favore anche sotto il profilo contributivo, con una riduzione percentuale dei contributi previdenziali dovuti. L’art. 1, commi 17-22, l. n. 145/2018, introduce, poi, la flat tax per i redditi da 65.001 a 100.000 euro dal 2020. In particolare, la disposizione modifica in più punti l’art. 1, commi da 54 a 87, l. n. 190/2014, che già disciplinava il c.d. regime forfettario per le partite IVA, collegato a precisi indici di redditività. Viene elevata a 65.000 euro la soglia reddituale entro cui è possibile aderire al regime forfettario. In sintesi, sono aboliti i limiti differenziati in base al codice ATECO, per cui se sono esercitate contemporaneamente più attività con codici ATECO diversi, si considera il limite più elevato dei ricavi relativi alle varie attività. Quanto al meccanismo di tassazione da applicare su ricavi e compensi per i soggetti fiscali che applicano il regime forfettario, mentre con la flat tax le partite Iva al di sotto dei 65 mila euro subiscono un prelievo del 15%, quelle con reddito annuo compreso tra 65 mila e 100 mila euro, dal 2020 in poi avranno un prelievo fiscale collocato al 20% (art. 1, commi 17 ss.). In caso di start up, l’aliquota prevista è pari al 5%. Chi applica questo regime può usufruire di un trattamento di maggior favore anche in ambito previdenziale, applicandosi una riduzione del 35% sulla contribuzione dovuta ai fini previdenziali a seguito di specifica richiesta all’INPS. Mettendo da parte le valutazioni di carattere generale sui possibili effetti della flat tax, prima solo accennati, e restringendo il discorso all’area del lavoro autonomo, non pare dubitabile che tale misura vada incontro alle esigenze di una vasta platea di lavoratori autonomi e di professionisti sui quali pesa il decennio di crisi economica non ancora alle spalle45.

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I coefficienti sono: 40% per alloggio e ristorazione, commercio al dettaglio e all’ingrosso, commercio di alimenti e bevande, industrie alimentari e delle bevande; 54% per commercio ambulante non alimentare; 62% per intermediari del commercio; 67% per altre attività economiche; 78% per attività professionali, scientifiche, tecniche, sanitarie di istruzione, servizi finanziari e assicurativi; 86% per costruzione e attività immobiliari. 45 Sul punto v. le brevi ma dense considerazioni di G. Santoro Passarelli, Trasformazioni socio-economiche e nuove frontiere del diritto del lavoro, cit., 423-424.

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8.4. La c.d. pace fiscale e contributiva. Nella stessa direzione va la misura introdotta dall’art. 1, commi 184 – 192, l. n. 145/2018, c.d. pace fiscale e contributiva per situazioni di comprovata difficoltà economica, locuzione che serve a dissimulate un vero e proprio mini-condono fiscale e contributivo, collegato a situazioni di difficoltà economica. In sintesi i debiti delle persone fisiche, diversi da quelli di cui all’art. 4, d.l. n. 119/2018, conv., con modif., nella l. 17 dicembre 2018, n. 136 (trattasi di quelli al di sotto dei 1000 euro), e risultanti dai singoli carichi affidati all’agente della riscossione dal 1° gennaio 2000 alla data del 31 dicembre 2017, derivanti dall’omesso versamento di imposte risultanti dalle dichiarazioni annuali e dalle attività di cui agli artt. 26-bis, d.p.r. 600/1973, e 54-bis, d.p.r. n. 633/1972, a titolo di tributi e relativi interessi e sanzioni, possono essere estinti dai debitori che versano in una grave e comprovata situazione di difficoltà economica versando una somma determinata secondo le modalità indicate dai commi 187 e 188. La pace non è solo fiscale, visto che il comma 185 ammette l’estinzione dei debiti derivanti dall’omesso versamento dei contributi dovuti dagli iscritti alle casse previdenziali professionali o alle gestioni previdenziali dei lavoratori autonomi dell’INPS (ad esclusione di quelli richiesti a seguito di accertamento) che si trovano in una grave e comprovata situazione di difficoltà economica, sempre versando una somma determinata secondo le modalità indicate dai commi 187 e 188, da utilizzare ai fini assicurativi secondo le norme che regolano la gestione previdenziale interessata. La grave e comprovata situazione di difficoltà economica, utile ai fini della pace fiscale e contributiva, sussiste qualora l’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) del nucleo familiare (stabilito ai sensi del d.p.c.m. 5 dicembre 2013, n. 159) non sia superiore ad euro 20.000. In questi casi i debiti “pacificabili” possono essere estinti senza corrispondere le sanzioni comprese in tali carichi, gli interessi di mora di cui all’art. 30, comma 1, d.p.r. n. 600/1973, ovvero le sanzioni e le somme aggiuntive di cui all’art. 27, comma 1, d.lgs. n. 46/199946. Inoltre, v’è presunzione assoluta di grave e comprovata situazione di difficoltà economica per i soggetti per cui è stata aperta alla data di presentazione della dichiarazione da formulare all’agente di riscossione (ex comma 189) la procedura di liquidazione di cui all’art. 14-ter l. n. 3/201247. Articolata è la procedura di adesione al condono e di estinzione agevolata della debitoria48.

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Il contribuente deve corrispondere le seguenti somme: a) le somme affidate all’agente della riscossione a titolo di capitale e interessi, in misura pari: 1) al 16%, qualora l’ISEE del nucleo familiare risulti non superiore a euro 8.500; 2) al 20%, qualora l’ISEE del nucleo familiare risulti superiore a euro 8.500 e non superiore a euro 12.500; 3) al 35%, qualora l’ISEE del nucleo familiare risulti superiore a euro 12.500; b) le somme maturate a favore dell’agente della riscossione, ai sensi dell’art. 17, d.lgs. n. 112/1999, a titolo di aggio sulle somme di cui alla lettera a) e di rimborso delle spese per le procedure esecutive e di notifica della cartella di pagamento. 47 I debiti fiscali e contributivi di tali soggetti possono essere estinti versando le somme di cui alla lettera a) (v. supra) in misura pari al 10% e quelle di cui alla lettera b) (v. supra). A tal fine, alla dichiarazione all’agente è allegata copia conforme del decreto di apertura della liquidazione previsto dall’art. 14-quinquies, l. n. 3/2012. 48 Dal punto di vista procedurale è previsto che il debitore manifesta all’agente della riscossione la sua volontà di procedere alla

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I debiti pacificabili possono essere estinti anche se già ricompresi in dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 6, comma 2, d.l. n. 193/2016, conv. con modif. in l. n. 225/2016, e dall’art. 1, comma 5, d.l. n. 148/2017, conv. con modif. in l. n. 172/2017, per le quali il debitore non ha perfezionato la relativa definizione con l’integrale e tempestivo pagamento delle somme dovute. I versamenti eventualmente effettuati a seguito delle predette dichiarazioni restano definitivamente acquisiti e non ne è ammessa la restituzione; gli stessi versamenti sono comunque computati ai fini della definizione della pace fiscale e contributiva. Ai fini di cui all’art. 11, comma 6, d.p.c.m. 5 dicembre 2013, n. 159, l’agente della riscossione, in collaborazione con l’Agenzia delle entrate e con la Guardia di finanza, procede al controllo sulla veridicità dei dati dichiarati ai fini della certificazione di cui al comma 186 dell’art. 1, l. n. 145/2018, nei soli casi in cui sorgano fondati dubbi sulla veridicità dei medesimi. Tale controllo può essere effettuato fino alla trasmissione degli elenchi di cui all’art. 3, co. 19, d.l. 119/2018, conv. con modif. in l. n. 136/2018. All’esito dei predetti controlli, in presenza di irregolarità o omissioni non costituenti falsità, il debitore è tenuto, anche nei casi di cui all’art. 11, comma 5, del d.p.c.m. 5 dicembre 2013, n. 159, a fornire, entro un termine di decadenza non inferiore a venti giorni dalla relativa comunicazione, la documentazione atta a dimostrare la completezza e veridicità dei dati indicati nella dichiarazione. In caso di mancata tempestiva produzione della documentazione a seguito della comunicazione di cui al comma 196, dell’art. 1, l. n. 145/2018, ovvero nei casi di irregolarità o omissioni costituenti falsità, non si determinano gli effetti pacificatori e l’ente creditore, qualora sia già intervenuto il discarico automatico di cui all’art. 3, comma 19, d.l. n. 118/2019, procede, a seguito di segnalazione dell’agente della riscossione, nel termine di prescrizione decennale, a riaffidare in riscossione il debito residuo. Restano fermi gli adempimenti conseguenti alle falsità rilevate49.

definizione secondo la pace fiscale, rendendo, entro il 30 aprile 2019, apposita dichiarazione, con le modalità e in conformità alla modulistica che lo stesso agente pubblica nel proprio sito internet nel termine massimo di venti giorni dalla data di entrata in vigore della l. n. 136/2018, di conversione del d.l. n. 119/2018; in tale dichiarazione il debitore attesta la presenza dei requisiti previsti dal comma 186 o dal comma 188 e indica i debiti che intende definire ed il numero di rate con cui intende effettuare il pagamento, entro il limite massimo previsto dal comma 190. Il versamento delle somme “pacificabili” può essere effettuato in unica soluzione entro il 30 novembre 2019, o in rate pari a: il 35% con scadenza il 30 novembre 2019, il 20% con scadenza il 31 marzo 2020, il 15% con scadenza il 31 luglio 2020, il 15% con scadenza il 31 marzo 2021 e il restante 15% con scadenza il 31 luglio 2021. In caso di pagamento rateale, si applicano, a decorrere dal 1° dicembre 2019, gli interessi al tasso del 2% annuo e non si applicano le disposizioni dell’art. 19, d.p.r. n. 602/1973. Entro il 31 ottobre 2019, l’agente della riscossione comunica ai debitori che hanno presentato la dichiarazione “pacificatoria” l’ammontare complessivo delle somme dovute ai fini dell’estinzione, nonché quello delle singole rate, il giorno e il mese di scadenza di ciascuna di esse. Entro la stessa data, l’agente della riscossione comunica altresì, ove sussistenti, il difetto dei requisiti prescritti o la presenza nella predetta dichiarazione di debiti diversi da quelli pacificabili e la conseguente impossibilità di estinguere il debito come previsto dalla speciale procedura. In questi ultimi casi, l’agente della riscossione avverte il debitore che i debiti inseriti nella dichiarazione, ove definibili ai sensi dell’art. 3, d.l. n. 119/2018, sono automaticamente inclusi nella definizione disciplinata dallo stesso articolo 3 e indica l’ammontare complessivo delle somme dovute a tal fine, ripartito in diciassette rate, e la scadenza di ciascuna di esse. La prima di tali rate, di ammontare pari al 30% delle predette somme, scade il 30 novembre 2019; il restante 70% è ripartito nelle rate successive, ciascuna di pari importo, scadenti il 31 luglio e il 30 novembre di ciascun anno a decorrere dal 2020. Si applicano, a partire dal 1° dicembre 2019, gli interessi al tasso del 2% annuo. 49 Per tutto quanto non previsto dai commi da 184 a 197 dell’art. 1, l. n. 145/2018, si applicano, in quanto compatibili, i commi 6, 7, 8, 9, 10, 12, 13, 14, 14-bis, 18, 19 e 20 dell’art. 3, d.l. n. 119/2018, conv. con modif. in l. n. 136/2018.

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8.5. Il reddito di cittadinanza e le misure in favore del lavoro autonomo. Una riflessione finale merita la disciplina del reddito di cittadinanza (d’ora in poi RDC) nella parte in cui intercetta le attività di lavoro autonomo. Com’è noto, il reddito di cittadinanza è stato “vessillo elettorale” del M5S ed è confluito nel c.d. Contratto per il Governo del cambiamento, documento politico-programmatico alla base dell’azione dell’esecutivo “giallo-verde”. Con il d.l. n. 4/2019, conv. con modif. in l. n. 96/2019, l’istituto ha preso forma seppur caratterizzato da non poche criticità normative ed operative. La disciplina del reddito di cittadinanza che in questa sede appare rilevante è essenzialmente quella che si occupa del cumulo tra RDC e redditi da lavoro e degli incentivi all’avvio di attività di lavoro autonomo o di impresa da parte dei percettori. Quanto al cumulo, esso non è stato escluso, anzi è espressamente disciplinato dal d.l. n. 4/2019; per altro la fissazione di precisi limiti reddituali già indirettamente consente, in una certa misura, lo svolgimento di lavoro subordinato o autonomo in sintonia con l’obbligo di attivazione che grava sul percettore (art. 2). Di fatto, però, ed al fine di non alimentare il deprecabile fenomeno del lavoro nero, il cumulo di redditi da lavoro con il RDC è stato disciplinato in modo tale da favorire l’emersione delle occasione di impiego medio tempore reperite. Infatti, in caso di variazione della condizione occupazionale a seguito del reperimento di attività di lavoro dipendente da parte di uno o più componenti il nucleo familiare nel corso dell’erogazione del RDC, il maggior reddito da lavoro concorre alla determinazione del beneficio economico nella misura dell’80%, a decorrere dal mese successivo a quello della variazione e fino a quando il maggior reddito non è ordinariamente recepito nell’ISEE per l’intera annualità. Questo doppio meccanismo, quindi, prevede una concorrenza parziale con decorrenza differita (sebbene di un solo mese), ma soprattutto un differimento ben più significativo sul computo dell’ISEE, per consentire al nucleo familiare di avere più chances di cumulabilità. La disciplina delle variazioni delle condizioni reddituali derivanti da occasioni di lavoro è sottoposta ad un doppio regime di comunicazioni. Infatti, con riferimento al reddito da lavoro dipendente la variazione si desume dalle comunicazioni obbligatorie telematiche, ex art. 9-bis, d.l.n. 510/1996, che dal mese di aprile 2019 devono contenere l’informazione relativa alla retribuzione o al compenso. A sua volta, l’avvio dell’attività di lavoro dipendente è comunicato dal lavoratore all’INPS secondo modalità definite dall’Istituto, che mette l’informazione a disposizione delle piattaforme dedicate al RDC di cui all’art. 6, comma 1, d.l. n. 4/201950. Analoga modalità di comunicazione è prevista in caso di avvio di attività d’impresa o di lavoro autonomo, svolta sia in forma individuale che di partecipazione, da parte di uno o più componenti il nucleo familiare, nel corso dell’erogazione del RDC. Diversa, invece, è l’individuazione del reddito che avviene secondo il principio di cassa, come differenza tra

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V. l’art. 3, comma 8, d.l. n. 4/2019.

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Domenico Garofalo

i ricavi e i compensi percepiti e le spese sostenute nell’esercizio dell’attività ed è comunicato entro il quindicesimo giorno successivo al termine di ciascun trimestre dell’anno51. A titolo di incentivo, il beneficiario fruisce senza variazioni del RDC per le due mensilità successive a quella di variazione della condizione occupazionale, ferma restando la durata del beneficio, che è successivamente aggiornato ogni trimestre avendo a riferimento il trimestre precedente. Il beneficio non è cumulabile con l’incentivo di cui all’art. 8, comma 4, d.l. n. 4/201952. È possibile, infine, che taluni redditi non siano rilevati per l’intera annualità ISEE in corso di validità utilizzato per l’accesso al beneficio, ed in tal caso l’art. 3, comma 10, d.l. n. 4/2019, prevede che si applichino le medesime previsioni in materia di comunicazione di avvio di attività di lavoro dipendente (comma 8) o autonomo (comma 9)53. Oltre alle comunicazioni relative alle variazioni reddituali, il beneficiario è tenuto a comunicare all’ente erogatore, nel termine di quindici giorni, ogni variazione patrimoniale che comporti la perdita dei requisiti patrimoniali, ovvero relativa al godimento dei beni durevoli, il tutto come precisato in sede di conversione54. Con riferimento, invece, all’apparato incentivante, la qualificazione del RDC «quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro» resterebbe una petizione di principio se ad esso non si accompagnasse un robusto sistema di incentivi, in grado di indurre le imprese ad assumere i beneficiari e di svegliare dal “torpore” una cospicua fetta di soggetti, inoccupati e disoccupati, che costituiscono comunque una risorsa sociale per il nostro sistema Paese. L’apparato incentivante si regge su due tipologie di misure: un primo gruppo destinato ai datori di lavoro ed un secondo ai lavoratori. Sorvolando per economia espositiva sugli incentivi rivolti ai datori di lavoro, giova evidenziare comunque che il modello di incentivo prescelto dal legislatore è sempre quello economico, con chiaro indirizzo verso forme di impiego social-tipico, confermando quindi quell’orientamento politico-ideologico già emerso in occasione del decreto dignità e cioè della lotta al precariato, il cui modello elettivo è rappresentato dal contratto a termine. Anche con riferimento agli incentivi erogabili direttamente ai beneficiari del RDC, l’opzione normativa è indirizzata verso incentivi di tipo economico, ovviamente previsti nel caso di avvio di un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o di società cooperativa entro i primi dodici mesi di fruizione del RDC, riconoscendosi in un’unica soluzione (alla stregua del modello già previsto per l’indennità di mobilità dall’art. 7, l. n. 223/199155 e per l’ASpI dall’art. 2, comma 19, l. n. 92/201256) un beneficio addizionale pari a sei mensilità del RDC, nei limiti di 780 euro mensili, rinviando ad un emanando decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia

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V. l’art. 3, comma 9, d.l. n. 4/2019. V. l’art. 3, comma 9, d.l. n. 4/2019. 53 V. l’art. 3, comma 10, d.l. n. 4/2019. 54 V. l’art. 3, comma 11, d.l. n. 4/2019. 55 Per l’attuazione della misura v. il d.m. n. 142/1993. 56 Su cui v. il d.m. 29 marzo 2013. 52

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La ritrovata dignità del lavoro autonomo

e delle finanze e il Ministro dello sviluppo economico le modalità di richiesta e di erogazione del beneficio addizionale, senza prevedere un termine entro cui emanare il citato provvedimento57. Appare evidente che i vantaggi derivanti dall’opzione per l’incentivo all’autoimprenditorialità decrescano man mano che il beneficiario fruisce del RDC, essendo decisamente vantaggioso l’esercizio dell’opzione nella prima fase di fruizione del beneficio. L’agevolazione in questione, al pari degli altri incentivi, ricade nel regime de minimis58 e di siffatta previsione va correttamente intesa la finalità, in quanto potrebbe apparire contraddittorio richiamare il regime de minimis e al contempo porre una serie di condizioni ai fini della fruizione dei benefici previsti dal d.l. n. 4/2019. Invero, la contraddizione è solo apparente, in quanto il richiamo del regime de minimis, che dovrebbe escludere l’applicazione di condizioni non essendo considerato a livello comunitario quale incentivo alle imprese, è finalizzato nel caso di specie a tettificare l’ammontare del beneficio fruibile (in concorso con altri, massimo euro 200.000 nel triennio). Per altro verso, il regime de minimis opera a livello di normativa europea, non soggiacendo in quanto tale alle condizioni poste da queste ultime per gli incentivi alle imprese, in quanto si tratta di incentivi di entità tale da non essere in grado di falsare la libera concorrenza. Ma la non operatività dei vincoli comunitari non preclude allo Stato membro di assoggettare gli incentivi adottati a regole di fruibilità, come accaduto nel caso che ci occupa. L’analisi delle singole misure a sostegno del lavoro autonomo varate dal Governo giallo-verde conferma il giudizio espresso in apertura, cioè di un approccio asistematico e contingente, che quindi nulla toglie e nulla aggiunge all’impianto della l. n. 81/2017, la cui valutazione resta, pertanto, pienamente confermata59.

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V. l’art. 8, comma 4, d.l. n. 4/2019. L’art. 8, comma 6, d.l. n. 4/2019, più precisamente prevede che le agevolazioni disciplinate dal medesimo articolo sono concesse ai sensi e nei limiti del regolamento (UE) n. 1407/2013 della Commissione, del 18 dicembre 2013, relativo all’applicazione degli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea agli aiuti «de minimis», del regolamento (UE) n. 1408/2013 della Commissione, del 18 dicembre 2013, relativo all’applicazione degli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea agli aiuti «de minimis» nel settore agricolo e del regolamento (UE) n. 717/2014 della Commissione, del 27 giugno 2014, relativo all’applicazione degli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea agli aiuti «de minimis» nel settore della pesca e dell’acquacoltura. 59 Una valutazione negativa in termini di effettività della l. n. 81/2017 è espressa da Cairoli, Giuseppe Santoro Passarelli, cit., 441. 58

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Federico Martelloni

Il sindacato nella Costituzione formale e materiale come elemento indefettibile di democrazia sostanziale Sommario : 1. Premessa. – 2. Il sindacato nella Costituzione formale. – 3. Il sindacato nella costituzione materiale. – 4. L’attualità sopravvenuta dell’art. 39, II parte, Cost. – 5. Il sindacato risolutore, tra positivizzazione del salario convenzionale e disciplina del lavoro flessibile.

Sinossi. Il contributo sottolinea il ruolo del sindacato sia nella Costituzione formale del 1948 sia nella dinamica sociale e nell’evoluzione normativa del secondo dopoguerra, per evidenziare la sua importanza nello sviluppo di un assetto democratico maturo. Una volta descritto il compromesso individuato nell’art. 39, l’articolo ne evidenza la perdurante attualità e, soprattutto, si sofferma su una rinnovata centralità del sindacato a fronte delle più recenti tendenze legislativa in materia di diritto sindacale e di diritto del rapporto e del mercato del lavoro. Abstract. The essay underlines the role of the union both in the formal Italian Constitution of 1948 and in the social dynamics and regulatory evolution of the post-war period, to highlight its importance in the development of a mature democratic structure. Once the compromise of art. 39 is described, the article highlights its ongoing relevance and, above all, focuses on a renewed centrality of the union in the face of the most recent legislative trends in the field of trade union law and the law of labour relations and the labour market. Parole

chiave:

Sindacato – Costituzione – Democrazia


Federico Martelloni

1. Premessa. Per molti studiosi di diritto, con l’eccezione, forse, dei giuslavoristi, il trinomio lavoro, diritto e democrazia suona classico come può esserlo, nell’iconografia religiosa, una pala trecentesca di Giotto. Eppure, non è così. L’incontro tra lavoro, diritto e democrazia è stato possibile solo grazie al protagonismo di un attore, il sindacato, che riuscì a favorirlo, con immensa fatica e assai tardivamente, nei cantieri della costituzione di Weimar (1919)1 e a ridosso del primo biennio rosso italiano (1919-20), culminato con l’occupazione delle fabbriche nel settembre 19202. Il legame poté, poi, essere cementato nel secondo dopo-guerra, con le Carte fondamentali di alcuni importanti paesi dell’Europa continentale quali la Francia (1946), l’Italia (1948), la Germania (1949) e, ancor più tardi, la Spagna (1978), quando il lavoro e il suo diritto furono innalzati sulle vette alpine del diritto costituzionale. Prima di quell’aspra stagione, funestata da due guerre mondiali e altrettante esperienze totalitarie – il fascismo italiano e il nazional-socialismo tedesco – un diritto del lavoro propriamente detto non esisteva né in Europa né altrove, atteso che tutto il materiale normativo impiegato per regolare il fenomeno dell’attività personale resa a favore di altri, riassunto nello scarno schema civilistico della locazione di opere, appena ingentilito dai toni pastello della frammentaria legislazione sociale comparsa a cavallo tra ’800 e ’9003, risultava privo del profilo teleologico che gli avrebbero conferito soltanto le democrazie costituzionali: il fine di riequilibrare un rapporto a naturale vocazione asimmetrica4, compensando, con l’integrazione eteronoma del contratto (attraverso la legge statuale e le norme del contratto collettivo), il “deficit democratico”5 connaturato al regime di subordinazione all’altrui potere. Con specifico riferimento al caso italiano, non si può dubitare del fatto che furono alcune leggi degli anni ’20 a dare un contributo rilevante alla genealogia del diritto del lavoro moderno. Fu, infatti, la legislazione di quel periodo a profilare, per la prima volta, gli istituti cardine del rapporto di lavoro, benché dei soli impiegati (costituzione, svolgimento, sospensioni e cessazione del rapporto di lavoro) e ad accogliere, come tecnica di tutela, l’inderogabilità delle norme giuslavoristiche6: ai sensi dell’art. 17 del regio decreto n. 1825 del 1924, le norme ivi contenute si sarebbero dovute osservare “malgrado ogni patto contrario”.

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3 4 5 6

Vedi Vardaro, Il diritto del lavoro nel «laboratorio Weimar», in Vardaro, Arrigo (a cura di), Laboratorio Weimar. Conflitti e diritto del lavoro nella Germania prenazista, Edizioni Lavoro, 1982, 7-42. Dalla Casa, Composizione di classe, rivendicazioni e professionalità nelle lotte del “biennio rosso” a Bologna, in Aa. Vv., Bologna 1920; le origini del fascismo, a cura di Casali, Cappelli, 1982, 179 ss.; Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, Vol. I, Il Mulino, 2012, spec. 120-124; 352-366; 471-488. Spagnuolo Vigorita, Subordinazione e diritto del lavoro. Problemi storico-critici, Morano, 1967, spec. Cap. I. Caruso, Lo Statuto dei lavoratori è molto: “viva lo Statuto”, in LD, 2010, 85, qui 88. Davidov, A Purposive Approach to Labour Law, OUP, 2016. De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Jovene, 1976.

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Il sindacato nella Costituzione formale e materiale come elemento indefettibile di democrazia sostanziale

Non a caso, nel disegnare l’architettura del Codice civile del 1942 – ove trova ancora la propria fondamentale disciplina il rapporto di lavoro subordinato (art. 2094 c.c. e ss.) – il legislatore italiano si mostrò sin troppo ossequioso nei confronti della legislazione del ventennio: molte regole del regio decreto del ’24 furono solo sistematizzate nel libro V del Codice civile, che ne generalizzò l’applicazione a tutto il lavoro dipendente, articolato nelle categorie legali di operai, impiegati e dirigenti (art. 2095 c.c.); altre di poco successive furono lasciate sopravvivere, fuori dal codice, anche per lunghissimo tempo, come accaduto alle norme sul limite legale massimo all’orario di lavoro, fissato in 8 ore giornaliere e in 48 settimanali dalla legge n. 473 del 1925. Ciò nonostante, ha scritto Umberto Romagnoli, “soltanto un tardo-pandettista potrebbe sostenere che il diritto del lavoro c’era anche in età corporativa, al tempo dell’emanazione della Carta del lavoro del 1927, che disegnava l’ideale fascista di una società pacificata, assistita e gerarchicamente ordinata, ma senza classi contrapposte”7. Come a dire: senza un sindacato libero e autonomo, senza libertà e pluralismo sindacale, senza conflitto e contropotere collettivo, non vi era né vi sarebbe potuto mai essere un diritto del lavoro degno di questo nome. Per coniugare lavoro, diritto e democrazia si è, dunque, dovuto attendere non soltanto che la produzione di norme di diritto positivo fosse affidata a un parlamento legittimato dalla sovranità popolare (art. 1), ma anche che una Repubblica “fondata sul lavoro” si adoperasse per combinare sovranità democratica e azione dei corpi intermedi, sfera individuale e dimensione collettiva (art. 2, 18, 39, 40, 46 e 49 cost.), quali elementi indefettibili del costituzionalismo democratico del secondo dopo-guerra.

2. Il sindacato nella Costituzione formale. Osservando la Costituzione italiana, rappresentano indicatori inconfutabili della “svolta” sia l’agognato riconoscimento della libertà e del pluralismo sindacale (art. 39, co. 1)8 sia il diritto al conflitto collettivo (art. 40), a valle di una stagione che li aveva misconosciuti e repressi anche attraverso lo strumento penale (artt. 330, 333, 502 ss. c.p.), incorniciati dall’impegno della Repubblica a perseguire l’uguaglianza sostanziale (art. 3, co. 2) sia mediante la progressività fiscale sia – e soprattutto – tramite il riconoscimento del diritto ad un lavoro stabile, dignitoso e sicuro (art. 4 e 41 Cost.), tale da assicurare un pieno ed effettivo godimento dei diritti di cittadinanza. Ciò, a partire dal riconoscimento del diritto ad una retribuzione non soltanto proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto ma pure “sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.).

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Romagnoli, La tela di Penelope del Diritto del Lavoro, in Centro internazionale di Studi sociali – Insight, Articles & Opinions, visibile all’indirizzo: http://www.insightweb.it/web/content/la-tela-di-penelope-del-diritto-del-lavoro. Sul punto v. Bellocchi, Libertà e pluralismo sindacale, Cedam, 1998.

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Federico Martelloni

Non può, del resto, tacersi – nell’economia del nostro ragionamento – la circostanza che la sua determinazione venisse affidata non già all’attività di un democratico parlamento eletto a suffragio universale, bensì all’azione collettiva dei corpi intermedi deputati alla rappresentanza sociale degli interessi. Col senno di poi, per vero, si potrebbe anche sostenere, aiutati dal più consolidato dei filoni giurisprudenziali in materia di lavoro, che la retribuzione è equa perché fissata dal sindacato; quando è il sindacato a stabilirla. Peraltro, se il diritto a una giusta retribuzione si profila come diritto individuale per eccellenza, è parimenti significativa la scelta, compiuta in assemblea costituente, di affidarne la concreta determinazione a un soggetto collettivo, provvisto di personalità giuridica di diritto pubblico – come era stato il sindacato corporativo – ma libero e autonomo come il sindacato fascista non avrebbe, mai, potuto essere9. Da questi punti di vista, l’art. 39 della Costituzione rompe con il col passato più di ogni altra norma costituzionale e, al contempo, come nessuna altra norma dialoga col passato: mentre afferma, al comma primo, che “l’organizzazione sindacale è libera”, congedandosi in modo radicale dal corporativismo fascista che conosceva un sindacato unico sottoposto ad un forte controllo statuale, la sua seconda parte ha la funzione di assicurare al sindacato democratico (comma 3) la stessa natura giuridica di quello corporativo (obbligo di registrazione e personalità giuridica di diritto pubblico ex art. 39, comma 2) e al contratto collettivo post-costituzionale la medesima efficacia soggettiva (comma 4) di cui erano dotate le norme corporative. Afferrare la chimera di un contratto collettivo provvisto della stessa efficacia soggettiva generale del contratto corporativo (con obbligo di iscrizione delle maestranze a un sindacato unico, sottoposto a un penetrante controllo pubblico) in regime di libertà e pluralismo sindacale non era impresa da poco. Il capolavoro d’ingegneria giuridica fu compiuto – come noto – dal quarto comma del 3910, ma la legge di attuazione costituzionale non arrivò mai. Si è finto di ritenere, per lungo tempo e da parte di molti, che le principali resistenze, anche sindacali, riguardassero la registrazione, trovando fondamento nel timore d’ingerenze statuali negli affari interni di un sindacato che, sfuggito alla palude del sistema corporativo, aveva appena iniziato a muovere i suoi passi e farsi i muscoli delle gambe sul solido terreno delle libertà; e tuttavia, dopo gli anni’50, il nemico pubblico numero uno non era la registrazione, bensì il principio di rappresentanza unitaria proporzionata agli iscritti: un principio, in fondo, sovranamente democratico, il cui limite principale era semmai quello di premiare, nel mondo della rappresentanza sociale degli interessi, il sindacato legato al principale partito d’opposizione nel mondo della rappresentanza politica. Lo dimostra, oggi che i partiti della prima Repubblica non esistono più, a partire dalla Democrazia cristiana e dal Partito comunista, il trentanovismo di ritorno in via di diffu-

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Sul punto vedi, per tutti, Dell’Olio, L’organizzazione e l’azione sindacale in generale, in Dell’Olio - Branca (a cura di), L’organizzazione e l’azione sindacale, Cedam, 1980, 3. 10 Cfr. il classico studio di D’Antona, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, oggi, in DLRI, 1998, 665, nonché, per una sua rilettura, Caruso, Nella bottega del maestro: “Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, oggi” (sapere, tecnica e intuizione nella costruzione di un saggio), in DLRI, 2009, 53.

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Il sindacato nella Costituzione formale e materiale come elemento indefettibile di democrazia sostanziale

sione, tra studiosi e parti sociali, da alcuni anni a questa parte: sommo riconoscimento, per certo tardivo, del fatto che il problema dell’art. 39 seconda parte non albergava nella vetustà dei materiali normativi impiegati per il suo congegno bensì in prosaiche ragioni di convenienza politica di maggioranze parlamentari (troppo) legate a minoranze sindacali11.

3. Il sindacato nella Costituzione materiale. La miglior sorte indubitabilmente toccata all’articolo 39, primo comma, si deve ad almeno due fattori, l’uno, squisitamente normativo, l’altro prevalentemente storico-sociale: in primo luogo, la sua formulazione insieme scarna e polisemica, sollecitava – ed ha effettivamente sollecitato presso tutti i formanti – le più varie declinazioni del principio di libertà sindacale, autorizzando due grandi maestri ad osservare, in un noto manuale di diritto sindacale12 che ha formato svariate generazioni di giuslavoristi, come risultasse davvero “difficile dire di più, con meno parole”. In secondo luogo, notoriamente, all’ombra del primo comma dell’art. 39 si è sviluppato – in condizioni di sostanziale anomia – un intero sistema di relazioni industriali, benedetto dalla dottrina più autorevole disposta a fornirvi un sostrato scientifico con la teoria dell’ordinamento intersindacale13 e, soprattutto, agìto da un movimento operaio organizzato e dinamico come pochi altri in Europa14. L’anomia non ha, peraltro, significato neutralità o disinteresse per il sistema sindacale in seno al diritto dello Stato. Sarà lo Statuto dei lavoratori del 1970 a puntellare il sommo principio in vario modo: non soltanto attraverso i divieti di discriminazione per motivi sindacali (art. 15 e 16 st. lav.) ma anche, e soprattutto, attraverso una straordinaria norma processuale, l’art. 28, che consente di reagire, in modo efficace e tempestivo, al comportamento antisindacale del datore di lavoro. Se lo sciopero, inteso come diritto individuale ad esercizio collettivo, è la spada che il sindacato brandisce contro il padrone, l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori dota il sindacato di uno scudo prezioso e robusto, consentendogli di agire in giudizio, iure proprio, ogniqualvolta il datore di lavoro si renda colpevole di una condotta tesa a ledere tre beni giuridici di rango costituzionale, protetti innanzitutto dall’art. 39. Il retroterra sul quale la disposizione monta è esattamente l’opposto della rappresentazione di “una società pacificata e interclassista”: c’è, nella disposizione di chiusura del Titolo III St. lav., un pieno riconoscimento del carattere conflittuale delle relazioni industriali e a questo riconoscimento si affianca la scelta di tutelare il protagonista collettivo

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Per un’attenta ricostruzione della genealogia della disposizione nonché delle ragioni storico-politiche della sua mancata attuazione v. Gaeta, Nascita, infanzia e prima adolescenza dell’art. 39 della Costituzione, in Labor, 2017, 135. 12 Ghezzi, Romagnoli, Il diritto sindacale, Zanichelli, 1987. 13 V. Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Giuffré, 1960 (ma v. già dello stesso A. Introduzione a Perlman, Ideologia e pratica dell’azione sindacale, Firenze, 1956, rist. con il tit. Per una teoria dell’azione sindacale, 1980) e, per una rivisitazione critica della teoria dell’ordinamento intersindacale a valle della stagione della conflittualità permanente, Carabelli, Libertà e immunità del sindacato: ordinamento statuale, organizzazione sindacale e teoria della pluralità degli ordinamenti, Jovene, 1986. 14 Ex multis, Aa. Vv., Lotte operaie e sindacato in Italia (1968-1972), a cura di Pizzorno, Il Mulino, 1974.

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di quel conflitto dai colpi bassi che potrebbero falsarne le regole, rendendo il gioco sporco e scorretto: vale a dire, non ad armi pari. Norma provvista di giovanile vitalità, a dispetto dei suoi cinquant’anni, grazie alla quale, in tempi relativamente recenti, la Fiom-Cgil è riuscita a conseguire importanti risultati nel contenzioso che l’ha vista protagonista insieme alla Fiat di Sergio Marchionne, dai cui stabilimenti era stata indebitamente estromessa. Ma c’è di più. Se, in ampia misura, la legislazione statutaria ha costituito un supporto all’azione collettiva del sindacato in una stagione di suo inedito attivismo, promuovendone la presenza nei luoghi di lavoro (art. 19 ss.) e puntellandone le prerogative con la richiamata “valvola di chiusura” (art. 28), in qualche caso essa ha sussunto, quasi testualmente, prodotti normativi dell’autonomia privata collettiva, tanto sul versante del diritto sindacale quanto sul fronte del diritto del rapporto individuale di lavoro. Due esempi particolarmente significativi sono costituiti dagli articoli 20 e 7 dello Statuto, i quali, l’uno nel regolamentare il diritto d’assemblea e l’altro nel procedimentalizzare il potere disciplinare del datore di lavoro, si limitano, in sostanza, a trasporre in norme di legge disposizioni pattizie del contratto collettivo dei metalmeccanici15, la cui sottoscrizione, a pochi giorni dal Natale del ’69, concludeva (felicemente) l’autunno più caldo del secondo dopoguerra. In definitiva, se resta indubitabilmente vero che lo Statuto fu “epifenomeno giuridico di un grande momento di conflitto sociale”16 e, ad un tempo, legge di attuazione costituzionale, è testualmente dimostrabile che esso rappresentò anche frutto materiale e tangibile dell’azione negoziale del sindacato, il quale, in qualche caso, anticipò, sin dalla piattaforma contrattuale presentata nel luglio ’69, soluzioni normative poi positivizzate e generalizzate nel maggio del 1970, a valle della sottoscrizione del contratto nazionale dei meccanici.

4. L’attualità sopravvenuta dell’art. 39, II parte, Cost. La mancata attuazione dell’art. 39 II parte Cost. ha determinato, numerosi problemi che si sono, nel tempo, acuiti. Innanzitutto, esistono da sempre, ma crescono in numero e importanza, datori di lavoro che non applicano alcun contratto collettivo. In secondo luogo, è ancor più ricorrente il caso di datori di lavoro che non applicano alcun contratto collettivo nazionale di lavoro, a partire dalla Fiat, la quale, come noto, nel 2011 ha abbandonato la compagine confindustriale a beneficio di un proprio sistema di contrattazione collettiva; in terzo luogo, proliferano, specie – ma non solo – nel settore dei servizi all’impresa, nel comparto, strategico,

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Cfr. i punti 13 e 16 de’ Il testo del nuovo contratto per le imprese metalmeccaniche del 21 dicembre 1969 pubblicato ne’ Il Sole 24 Ore del 23 dicembre, in http://archivio.fiom.cgil.it/autunno69/testo_intesa_69.pdf 16 Garofalo, Complessità del modo di produzione e possibilità di go- verno attraverso il diritto del lavoro, in Pedrazzoli (a cura di), Lavoro subordinato e dintorni, , il Mulino, 1989, 193.

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della logistica17 e, più ancora, nel mondo cooperativo18, datori di lavoro che applicano contratti collettivi stipulati da rappresentanze sindacali poco o per nulla rappresentative, che forniscono trattamenti economici e normativi anche molto inferiori a quelli assicurati dai contratti conclusi dalle confederazioni sindacali storiche (Cgil-Cisl_Uil e Confindustria)19; in quarto luogo, la moltiplicazione dei contratti collettivi, anche di matrice confederale, pone svariati problemi relativi ai confini della categorie e all’ambito di applicazione dei relativi CCNL20, che l’autonomia privata collettiva non riesce a sciogliere anche in ragione di incomprensioni e problemi di natura endo-associativa. In ultimo, ma non per ultimo, la crisi della rappresentanza collettiva investe anche – per alcuni, soprattutto – le organizzazioni dei datori di lavoro21, afflitte da un’emorragia assai difficile da contenere in mancanza di una disciplina di legge. Per superare questi problemi non compiutamente risolti dagli accordi collettivi del triennio 2011-2014 e neppure dell’accordo interconfederale del 9 marzo 2018 – i quali, pur ispirandosi all’art. 3922 lasciano insoddisfatto, per l’efficacia soggettiva limitata delle intese, il fondamentale obbiettivo di contrastare il dumping contrattuale posto in essere da rappresentanze alternative a quelle tradizionali23 – si torna a parlare dell’opportunità di una legge sindacale, pure contemplando l’ipotesi di percorrere la via maestra rappresentata dall’attuazione dell’art. 39, seconda parte, con oltre settant’anni di ritardo. Più che stupire, deve far riflettere la circostanza che molti autorevoli giuristi, anche storicamente contrari a questa soluzione, siano, oggi, favorevoli all’attuazione costituzionale: oltre a scongiurare i funesti scenari di “contrattazione separata”, verificatisi in un passato non troppo remoto in alcuni rilevanti settori merceologici (a partire da quello del commercio e dell’industria metalmeccanica), essa avrebbe il duplice effetto di assicurare trattamenti economici e normativi uniformi, razionalizzando e riconducendo nell’alveo della rappresentanza democratica la competizione tra le diverse organizzazioni sindacali e le (oramai) numerose rappresentanze datoriali. Se, per lungo tempo, l’unità d’azione tra le grandi centrali sindacali, accompagnata a un alto tasso di sindacalizzazione e rappresentatività degli attori sociali, sia sul versante dei lavoratori sia sul fronte datoriale, avevano costituito un efficace sostituto funzionale dell’attuazione dell’art. 39, II parte, dai primi anni del nuovo secolo le crepe dell’ordina-

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Lassandari, La contrattazione collettiva nella logistica, in Aa.Vv., Logistica e lavoro, Ediesse, 2018, 54-68. Barbieri, In tema di legittimità costituzionale del rinvio al Ccnl delle organizzazioni più rappresentative nel settore cooperativo per la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente, in RGL, 2015, II, 493 ss. 19 Cfr., da ultimo, Lassandari, Retribuzione e contrattazione collettiva, in RGL, 2019, 210. 20 Cfr. Centamore, Contrattazione collettiva e categorie, BUP, 2020, in corso di pubblicazione. 21 Cfr. Papa, L’attività sindacale delle organizzazioni datoriali, Giappichelli, 2017; Magnani M., Riflessioni sulla misurazione della rappresentanza datoriale nell’ordinamento statale e intersindacale, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 376/2018; Vitaletti, La rappresentanza datoriale. Riflessioni intorno alla costruzione di un modello contrattuale simmetrico, in LLI, 1/2018; Forlivesi, La rappresentatività datoriale: funzioni, modelli, indici di accertamento, in LD, 2018, 521. 22 Maresca, Contratto collettivo nazionale di lavoro e “regole sulla rappresentanza” sindacale: verso l’attuazione negoziale dell’art. 39, co. 4, della Costituzione?, in Aa. Vv., Il contributo di Mario Rusciano all’evoluzione teorica del diritto del lavoro: studi in onore : lavoro pubblico, rappresentanza sindacale, contratto collettivo, diritto di sciopero, Giappichelli, 2013, 179. 23 V., di recente, Marazza, Perimetri e rappresentanze sindacali, in LLI, n. 2, 2018, XII; ma già all’indomani del “trittico confederale”, Scarpelli, Il Testo Unico sulla rappresentanza tra relazioni industriali e diritto, in DRI, 2014, 687 ss. 18

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mento intersindacale si sono allargate, rendendo l’edificio così instabile da suscitare domande sempre più pressanti attorno alla necessità di una messa in sicurezza di carattere legislativo24. Non è escluso, peraltro, che una soluzione di tal fatta si profili anche come efficace forma di sostegno e rilancio di un sindacato in crisi, indubbiamente spiazzato dal carattere sovranazionale della produzione (mentre la sua azione è soprattutto nazionale) e indebolito dalla proliferazione di forme contrattuali non standard che scoraggiano la sindacalizzazione sia nell’ambito del lavoro subordinato, sia nel mondo del lavoro autonomo. Non tutte le proposte di legge, maturate nell’arco di una breve e convulsa stagione25, militano per l’attuazione della norma costituzionale. Ma è difficile negare che, per le circostanze sopra richiamate, quasi tutte si muovano nel solco del modello disegnato dal costituente, tanto da autorizzare a parlare di un’attualità sopravvenuta del 39.

5. Il sindacato risolutore, tra positivizzazione del salario

convenzionale e disciplina del lavoro flessibile.

Pur spiazzato dalla globalizzazione26, indebolito dalle flessibilità dell’impresa e del lavoro, mortificato dalle statistiche sui tassi di sindacalizzazione27, importunato da imbarazzanti domande sulla sua stessa utilità28, ignorato e insultato dalla politica della disintermediazione29 il sindacato è, per vero, ancora e sempre lì sulla scena, diversamente dai partiti dai quali, un tempo, riceveva impulso attraverso la nota cinghia di trasmissione30. Non è questa la sede per indugiare sul perdurante esercizio di una storica e strategica funzione negoziale, anche a livello decentrato: si tratta del mestiere tradizionale del sindacato, che certo interferisce con le politiche pubbliche in senso lato, ma non è indicatore, come tale, di alcun inedito investimento politico sul suo ruolo o di alcuna particolare attestazione di rinnovata centralità.

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Marazza, Dalla “autoregolamentazione” alla “legge sindacale”? La questione dell’ambito di misurazione della rappresentatività sindacale, in ADL, 2014, 608. 25 Oltre alle numerose proposte di legge d’iniziativa parlamentare presentate nel corso della XVII legislatura, v. la Proposta della rivista DLM, Disciplina delle relazioni sindacali, della contrattazione collettiva e della partecipazione dei lavoratori, in DLM, 2014, 155 ss.; la Proposta di intervento legislativo in materia sindacale (Gruppo Frecciarossa), in RIDL, 2015, III, 205 ss., nonché la proposta di attuazione dell’art. 39, seconda parte, contemplata all’art. 35 dalla Carta dei diritti universali del lavoro elaborata dalla Cgil, in RGL, 2016, I, 233 ss. 26 Lassandari, Il sindacato, la globalizzazione e l’interesse collettivo trasnazionale, in Perulli (a cura di), L’idea di diritto del lavoro oggi, Cedam, 2016, 23-35. 27 Panetto, Sindacati: le ragioni di una lenta disaffezione, 10 giugno 2019, visibile all’indirizzo https://ilbolive.unipd.it/it/news/ sindacati-ragioni-lenta-disaffezione. 28 Ichino, A che cosa serve il sindacato?, Mondadori, 2005. 29 V., da ultimo, Mariucci, Giuslavorismo e sindacati nell’epoca del tramonto del neoliberismo, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, 407/2020, 15; Caruso, La rappresentanza delle organizzazioni di interessi tra disintermediazione e re-intermediazione, in ADL, 2017, 555 ss. 30 Mariucci, op. cit., spec. 5 s. e 8 s., per il quale non solo i sindacati “continuano a esistere”, ma “si potrebbe dire che continuano a declinare crescendo” (8).

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Il sindacato nella Costituzione formale e materiale come elemento indefettibile di democrazia sostanziale

Vi sono, però, altri rilevanti indicatori dai quali non si può, oggi, prescindere. Essi riguardano, a ben vedere, i grandi temi attorno a cui ruota il dibattito politico odierno, se non vere e proprie emergenze sociali generalmente riconosciute: il tema salariale, la flessibilità del lavoro, l’ambito d’applicazione del suo diritto e la modulazione delle tutele oltre i confini del lavoro subordinato in senso stretto. Quanto al tema salariale, va osservato che, con un interessante e positivo rovesciamento di prospettiva, l’idea di introdurre un salario minimo legale si stia rivelando non più una minaccia per la sorte del contratto collettivo nazionale di lavoro31, bensì un modo per ribadire la funzione del sindacato come autorità salariale per eccellenza. Se in passato ogni ipotesi di introdurre una retribuzione minima per via legislativa, specie in Italia ignorava e, nei fatti, minacciava la consolidata prassi giurisprudenziale di costituzionalizzazione del salario minimo convenzionale32, oggi le più accreditate proposte in materia – a partire dal d.d.l. n. 658 del 2018 recante Disposizioni per l’istituzione del salario minimo orario – si profilano, innanzitutto, come estensione erga omnes dei trattamenti economici complessivi previsti dai contratti collettivi sottoscritti dai sindacati più rappresentativi, mentre il minimo salariale orario, fissato a 9 euro lordi, occupa un ruolo meramente residuale e sussidiario33,34. Sempre al contratto nazionale di lavoro è riservato il delicatissimo compito di modulare la disciplina del lavoro subordinato applicabile anche alle collaborazione etero-organizzate ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, disposizione il cui raggio d’azione è, oggi, indubbiamente più esteso che in passato, a seguito della novella introdotta dal l. n. 128/2019 (di conversione del c.d. “decreto riders”). L’art. 2, comma 2 prevede, infatti, che la disposizione del primo comma del medesimo articolo non trovi applicazione ove le collaborazioni etero-organizzate siano destinatarie di una specifica disciplina pattizia (come avviene per il lavoro nei call center in modalità out-bound) di carattere economico e normativo, di tal ché il legislatore, nei fatti, finisce per assegnare al CCNL sottoscritto dalle organizzazioni sindacali più rappresentative il difficilissimo compito di disporre (se non della nozione di lavoro subordinato, quantomeno) della disciplina del lavoro dipendente, dopo averla resa finalmente applicabile oltre i bastioni, troppo angusti, del lavoro eterodiretto. Non meno rilevante, da ultimo, la modulazione della disciplina del lavoro flessibile ad opera del contratto collettivo di ogni livello (art. 51, d.lgs. n. 81/2015), per i molteplici rinvii di cui è costellato il decreto legislativo n. 81/2015 sul riordino delle figure contrattuali35.

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Bellavista, Il salario minimo legale, in DRI, 2014, 741 ss.; Speziale, Il salario minimo legale, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, 244/2015. 32 Cfr. Bavaro, Il salario minimo legale e le relazioni industriali, in Il diario del lavoro, 22 ottobre 2014, il quale, a proposito dell’art. 1, comma 7, lettera f) l. delega n. 183/2014 (c.d. Jobs Act) sulla «introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo , applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» parla di “de-costituzionalizzazione del salario minimo contrattuale”. 33 Per un approfondimento critico del tema v. Delfino, Salario legale, contrattazione collettiva e concorrenza, Editoriale scientifica, 2019 e ivi ampi riferimenti dottrinali. 34 Bavaro, Note sul salario minimo legale nel disegno di legge n. 658 del 2018, 5 marzo 2019, spec. 7. 35 V. per tutti, Alvino, I rinvii legislativi al contratto collettivo. Tecniche e interazioni con la dinamica delle relazioni sindacali, Jovene,

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Federico Martelloni

Il ruolo del contratto collettivo è estremamente rilevante - come noto – specie con riguardo ai limiti temporali concernenti il contratto di lavoro a tempo determinato e al contingentamento previsto sia per esso sia per la somministrazione di lavoro, soprattutto dopo la reintroduzione della causali e la modifica dell’arco temporale massimo di 36 mesi previsto per uno o più contratti a termine, ridotto a 24 mesi dal c.d. decreto dignità (d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito in legge 9 agosto 2018, n. 96)36. Alla contrattazione collettiva spetta, infatti, l’arduo compito di conciliare le esigenze occupazionali, fortemente avvertite anche dalle maestranze, e il necessario rigore con cui dev’essere apprezzata la temporaneità dell’esigenza che legittima il ricorso ai contratti flessibili decorsi i primi 12 mesi di a-causalità del contratto, sicché il sindacato è, qui, caricato di un’imponente responsabilità che lo espone su ogni fronte: al cospetto di lavoratori e lavoratrici, deve assicurare la continuità occupazionale per i casi in cui il datore non si mostri disposto alla (immediata) conversione dei rapporti a scadenza; dinanzi alla società nel suo complesso, al mondo del lavoro in generale e alla sua stessa ragione sociale, deve evitare di legittimare prassi elusive e comportamenti opportunistici o ricattatori da parte delle imprese.

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2018. Sul questo aspetti si sono concentrate le relazioni di Pacchiana Parravicini, Colosimo, Mangione e Staropoli ospitate nel modulo Contratto collettivo e flessibilità degli standard normativi (contratto a termine, somministrazione, mansioni, orario di lavoro) del Corso di Alta formazione della Fondazione Giuseppa Pera in tema di “Diritto sindacale e regolazione collettiva dei rapporti di lavoro”, Lucca, 29 marzo 2019.

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Antonino Sgroi

Il principio di automatismo: applicazioni e letture della giurisprudenza di merito Sommario : 1. Modelli interpretativi utilizzati dai giudici di merito ai fini dell’ampliamento dell’ambito di efficacia del principio di automatismo – 2. Il principio di automatismo e la sua applicazione ai lavoratori autonomi collaboratori coordinati e continuativi iscritti alla gestione separata.

Sinossi. Lo scritto, dopo avere delineato le ragioni che, secondo la giurisprudenza di merito, conducono ad ampliare l’ambito di applicazione del principio di automaticità delle prestazioni anche ai lavoratori autonomi collaboratori coordinati e continuativi, si pone l’obiettivo di illustrare le ragioni che, all’opposto, non consentono siffatto ampliamento e che invece confermano ancora la soluzione di limitare l’applicazione del predetto principio ai soli lavoratori subordinati, sino a quando non vi sarà un intervento del legislatore. Abstract. The present paper analyses both the case law, which extends the automatic entitlement to benefits to term and semi- independent contracts (short-term labour), as well as the views against this extension, which limits instead this automatic entitlement to benefits to wage earners, at least until the law in this regard is settled. Parole

chiave:

Automatismo previdenziale – Prestazioni – Giurisprudenza – Applicazioni

1. Modelli interpretativi utilizzati dai giudici di merito ai fini

dell’ampliamento dell’ambito di efficacia del principio di automatismo.

La prevalente giurisprudenza di merito, nell’affrontare e risolvere la questione dell’applicazione o meno del principio di automatismo ai collaboratori coordinati e continuativi iscritti alla gestione separata, afferma l’ampliamento di applicazione del predetto princi-


Antonino Sgroi

pio, e a tal fine utilizza un metodo interpretativo che ha indifferentemente chiamato talvolta interpretazione estensiva, talaltra interpretazione analogica1. La soluzione accolta dai giudici di merito passa attraverso l’utilizzo di uno schema argomentativo che si rinviene sin dalla prima delle decisioni che constano essere state emesse, ovverosia la sentenza del Tribunale di Bergamo del 12 dicembre 2013, n. 9412. Lo schema argomentativo utilizzato dalla giurisprudenza di merito può, per comodità espositiva, essere così sintetizzato: a) affermazione che il principio di automatismo, inserito all’interno del sistema regolato da una legislazione speciale, costituisca all’interno di tale ordinamento un principio di carattere generale; b) corroborazione di tale affermazione con il richiamo all’argomentazione utilizzata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 374 del 5 dicembre 19973; c) utilizzo di un modello interpretativo sostanzialmente omologa, ma che è denominato indifferentemente interpretazione analogica o estensiva4 con riferimento all’art. 2116

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A quel che consta le ultime decisioni che hanno accolto la menzionata soluzione sono state quelle della App. Trento, 25 luglio 2019, n. 79 (la si v. www.ilgiuslavorista.it, 20 gennaio 2020), che ha confermato la decisione di prime cure emessa da Trib. Rovereto, n. 50 del 20 settembre 2018, n. 50 (la si v. in RGL, 2019, 2, II, 344, con nota di Di Meo, Automaticità delle prestazioni e lavoratori parasubordinati: ancora un contributo dalla giurisprudenza); e la sentenza della Corte di appello di Roma del 19 febbraio 2019, n. (la si v. in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it). Si v. la sentenza, fra l’altro, in RIDL, 2014, 2, 439, con nota di Canavesi, L’automaticità delle prestazioni previdenziali per i lavoratori a progetto. Dalla giurisprudenza un segnale importante ma insufficiente. Si v. altresì le note alla medesima sentenza di: Olivelli, Sull’applicabilità del principio di automaticità delle prestazioni anche ai collaboratori a progetto, in GI, 2014, 12, 2804; Nicolini, Ma davvero i collaboratori continuativi e coordinati possono invocare il principio di automaticità delle prestazioni?, in RDSS, 2014, 2, 285; Mastantuono, Il Tribunale di Bergamo riconosce ai collaboratori a progetto il principio di automaticità delle prestazioni, in www. mefop.it/doc/osservatorio-giuridico, 2014, n. 34, 21; D’onghia, Automaticità delle prestazioni e lavoro parasubordinato: un eloquente riconoscimento giurisprudenziale, in ADL, 2014, 4-5, 116; Croce, L’applicazione del principio di automaticità delle prestazioni ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e a progetto, in www.giustiziacivile.com, 12 giugno 2014. Successivamente a questa decisione e con riferimento alle argomentazioni utilizzate per sostenere l’ampliamento della sfera soggettiva di applicabilità del principio di automatismo delle prestazioni ai lavoratori a progetto, si v. App Brescia, 29 maggio 2014 e App. Torino, 22 maggio 2014, in RGL, 2015, 4, II, 651, con nota di Bonanomi, Automaticità delle prestazioni e rapporti di collaborazione a progetto. Prospettive de jure condendo; App. Milano, 19 ottobre 2015, in RDSS, 2105, 4, 835, con nota di Fabbrizio, Ancora sull’estensione del principio di automaticità delle prestazioni ai lavoratori subordinati; Trib. Trento 13 marzo 2018, in www.ilgiuslavorista.it, 23 maggio 2018, con nota di Apa, Tutela previdenziale dei collaboratori coordinati e continuativi. La si v. in RGL, 1999, II, 390, con nota di Boer, Ricongiunzione dei periodi assicurativi e automaticità delle prestazioni nella giurisprudenza della Corte costituzionale. La Corte, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale, compie nei limiti della questione sottoposta al suo vaglio una ricognizione riguardante l’efficacia del principio di automatismo. E, dalla lettura delle argomentazioni, si evince che tale ricognizione conduce il Giudice delle leggi a ritenere che il principio di automatismo ha un’efficacia generale ma all’interno della categoria dei lavoratori subordinati, e che all’interno di questa categoria di beneficiari riguardi solo il sistema di sicurezza sociale per invalidità, vecchiaia e superstiti. Si osservi che alcuni giudici affermano utilizzare lo strumento dell’analogia, mentre altri affermano utilizzare lo strumento dell’interpretazione estensiva; ma, dalla lettura delle decisioni, si evince che la motivazione è sostanzialmente sovrapponibile. E ciò a fronte di un modello ricostruttivo dei due tipi di interpretazione secondo il quale, con la tecnica dell’interpretazione analogica si tende a eliminare una lacuna dell’insieme di precetti dati e si afferma che il suo intervento è necessario per porre rimedio a una défaillance del legislatore in quanto soggetto regolatore. Mentre l’interpretazione estensiva, come sottolineato dalla dottrina (si v. Belfiore, L’interpretazione della legge. L’Analogia, in Studium juris, 2008, 4, 425, scritto dal quale si sono tratte le menzioni qui utilizzate), evidenzia una lacuna della formula/del testo e perciò vale a porre rimedio a una défaillance del legislatore in quanto soggetto locutore. Altro Autore (Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, in Tratt CM, Giuffré, 2004, 158) nel porre a confronto l’interpretazione estensiva e l’applicazione analogica evidenzia che solo la prima è un’operazione genuinamente interpretativa, mentre la seconda è un atto di creazione normativa, che consiste nell’applicare una conseguenza giuridica a una fattispecie non

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Il principio di automatismo: applicazioni e letture della giurisprudenza di merito

c.c., e quindi applicazione del principio di automatismo “a fattispecie per le quali non vi sia una specifica disciplina e per le quali ricorra la medesima «ratio»” (in questi termini testualmente App. Trento, n. 76/19); d) individuazione della ratio sottesa alla disciplina dell’art. 2116 c.c.; e) affermazione che la posizione fatta dall’ordinamento previdenziale al collaboratore coordinato e continuativo sia da un verso omologa a quella del lavoratore subordinato “per gli aspetti che vengono in rilievo nella definizione della «ratio» dell’art. 2116 c.c.” (in questi termini da ultimo sempre la corte di appello trentina sub c) e da altro verso lo differenzi dalla posizione degli altri lavoratori iscritti alla gestione separata. L’argomentazione sistemica, su cui si regge la decisione, è costituita dall’utilizzo dell’analogia. Argomentazione che porta i giudici ad affermare che l’applicazione del principio di automatismo a favore di una sottocategoria di lavoratori autonomi, i collaboratori co-

prevista, ancorché simile a quella prevista. L’argomento analogico utilizzato dalla giurisprudenza nelle proprie decisioni, continua l’Autore (Guastini, op. ult. cit., 192), è pertanto un argomento produttivo di diritto, lo si usa per fondare non una scelta interpretativa (cioè una decisione intorno al significato di una data disposizione), ma piuttosto la creazione giurisprudenziale di una norma nuova. L’utilizzo dell’argomentazione analogica (o a simili) passa attraverso la dimostrazione che tra due fattispecie, l’una espressamente disciplinata e l’altra no, vi è un tratto comune essenziale che giustifica l’applicazione della disciplina anche alla seconda. E ciò, come evidenziato dalla dottrina (si v. Guastini, op. ult. cit., 156 e dello stesso Autore, Interpretare e argomentare, in Tratt CM, Giuffré, 2011, 280), presuppone la previa identificazione della sua ratio, cioè della ragione, del motivo, dello scopo per cui la norma fu disposta. Ratio della norma alla quale altro Autore (Sacco, Processo ermeneutico, in Dig. civ., sez. civ., Aggiornamento, 2012, in www. pluris-cedam.utetgiuridica.it/digesto.it, prg. 16) disconosce che abbia un significato più univoco del significato linguistico, del testo; dato che, fra l’altro, le rationes possibili sono molte, perfino di fronte a un significato unico e accettato. La scelta del significato da assegnare a una disposizione, filtrata attraverso la considerazione della ratio, continua l’Autore, non è il riconoscimento di un dato oggettivo. È una scelta. Sacco evidenzia che l’analogia, strumento della giustizia, deve fare i conti con il soggettivismo di chi ha il potere di individuare l’elemento caratterizzante dell’ipotesi normativa, la ratio che giustifica la decisione. E che la stessa opera tanto più volentieri quanto più la soluzione in questione abbia meriti o abbia acquistato prestigio, validità culturale, successo politico, efficienza (op. ult. cit., prg. 11). Quest’ultima osservazione si connette con le osservazioni critiche fatte da attenta dottrina nei confronti della giurisprudenza creativa a fronte del compito assegnato a questa di interpretazione della legge, intesa come attività cognitiva che comporta la scelta, inevitabilmente discrezionale e proprio per questo razionalmente argomentata del significato ritenuto il più plausibile tra quelli associabili all’enunciato interpretato (in questi termini testualmente Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, in Questione Giustizia, 4, 2016, 13 e in specie p. 26. Da ultimo altro Autore (Rodio, Alcune riflessioni su anomie, lacune e limiti dell’interpretazione giurisprudenziale, in www.rivistaaic.it, 2019, 1, consultato il 24.11.2019) riconosce in via generale alla giurisprudenza il potere di colmare il vuoto di un singolo istituto (o di un suo specifico aspetto) in via interpretativa, sia con l’utilizzo o dell’interpretazione analogica o dell’interpretazione sistematica (p. 21). Ma tale potere, sempre secondo l’Autore, ha delle strutturali limitazioni che trovano la loro giustificazione nella differenza tra attività legislativa e attività giurisdizionale, escludendosi interventi di tipo integrativo in specie nelle ipotesi di lacune sopravvenute (passim). Per quanto riguarda la giurisprudenza e con riguardo all’ordinamento previdenziale appare ancora proficuo l’utilizzo dell’argomentazione contenuta nella sentenza della Corte costituzionale del 12 gennaio 1995, n. 18 (in DL, 1995, II, 327). La Corte richiama un passaggio motivazionale contenuto nella precedente decisione 526 del 28.11.1990 e afferma che si verte ancora nel campo dell’interpretazione quando l’estensione della norma a un caso non compreso nella lettera legislativa sia giustificata da un giudizio di meritevolezza del medesimo trattamento, fondato sulla ratio legis indipendentemente dalla somiglianza al caso previsto. La Corte di cassazione, in una recente decisione in tema di diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini, la sentenza del 23 marzo 2018, n. 6963 (in GCost, 2018, 3, 1504, con nota di Astone, Sul diritto dell’adottato a conoscere le generalità delle proprie sorelle), giustifica l’utilizzo dell’interpretazione estensiva, radicandola su un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 28.5 della l. n. 184/93. In materia previdenziale la Corte di cassazione, con ordinanza del 24.6.2019, n. 16828, ha escluso l’uso dell’analogia per interpretare una disposizione in tema di riscatto nei confronti di lavoratore autonomo iscritto alla gestione separata.

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Antonino Sgroi

ordinati e continuativi, non espressamente prevista nella norma che disciplina il principio di automatismo in seno alla disciplina codicistica, è giustificata per medesimezza di ratio5. La soluzione accolta dai giudici di merito, pur condivisibile nell’obiettivo di politica del diritto che si intende perseguire, non appare raggiungibile a diritto costante. La dimostrazione di tale asserto, nel prosieguo e nei limiti dell’odierna trattazione, passa attraverso l’esame da un verso della posizione fatta al principio di automatismo all’interno del sistema di previdenza obbligatoria e da altro verso della posizione fatta ai lavoratori autonomi coordinati e continuativi in seno alla gestione separata6 ed eventualmente ad altri lavoratori in seno ad altre gestioni di lavoratori autonomi. Qualora questi ultimi abbiano un modello di versamento della contribuzione omologo a quello dei collaboratori coordinati e continuativi. Modello questo che è stato utilizzato dai giudici di merito quale ponte logico-giuridico di sovrapponibilità strutturale fra la posizione dei lavoratori subordinati e la posizione della individuata categoria di lavoratori autonomi, fondante l’ampliamento dell’ambito soggettivo di operatività del principio di automatismo ai collaboratori coordinati e continuativi.

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Interpretazione analogica che è stata esclusa, nella questione investigata, anche dagli autori che avallano un’applicazione del principio di automatismo ai menzionati lavoratori e che a tal fine prospettano invece un’interpretazione giudiziale estensiva dell’art. 2116 c.c., ancorché limitatamente ai predetti lavoratori e non a tutti quei lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata o iscritti ad altre gestioni di lavoratori autonomi, per i quali l’obbligo contributivo è assolto da soggetti diversi dal lavoratore autonomo medesimo (si v. Canavesi, Effettività della tutela previdenziale delle collaborazioni coordinate e continuative e principio di automaticità delle prestazioni, in ADL, 2008, 1, 55, in specie, 68; Canavesi, L’automaticità delle prestazioni previdenziali…e D’onghia, Automaticità delle prestazioni…, op. cit., nota 2). Interpretazione estensiva della cui forza persuasiva dubitano gli stessi autori che la propongono, tant’è che costoro ritengono auspicabile un intervento legislativo. Interpretazione alla quale si contrappone l’opzione ermeneutica di altri autori (si v. per tutti Nicolini, Prescrizione dei contributi, automaticità delle prestazioni e tutela dell’anzianità previdenziale dopo la l. n. 335 del 1995, in RIDL, 1996, 3, 295) secondo la quale il principio di automaticità si riferisce solo ai lavoratori subordinati (in specie prg. 6 e 7). Questo Autore rileva fra l’altro che il prospettato ampliamento di applicazione del predetto principio ai soli lavoratori autonomi coordinati e continuativi, radicato sulle modalità di adempimento dell’obbligo contributivo, sconta la mancata considerazione della circostanza che tale modalità di pagamento è utilizzata anche per altri lavoratori autonomi iscritti e non alla Gestione separata (si v. C. Nicolini, Ma davvero i collaboratori continuativi…, op. cit., si v. nota 2). Si ricordi che la tutela previdenziale apprestata nei confronti dei lavoratori autonomi collaboratori coordinati e continuativi o quanto meno per quelli che di essi rientrano nell’ambito di applicazione della novella legislativa rappresentata dall’art. 2, primo comma, del d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81, è mutata a far data dall’1 gennaio 2016. Il legislatore prevede l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato e quindi anche della tutela previdenziale apprestata per i lavoratori subordinati, ivi compreso il principio di automatismo, nei confronti di quelle collaborazioni che, secondo il dettato legislativo alla cui lettura si rimanda, si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente (come fra l’altro si evince dalla lettura della circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali dell’1 febbraio 2016, n. 3). È evidente, alla luce della menzionata novità legislativa, che la questione oggetto delle odierne considerazioni assume nei confronti dei lavoratori coordinati e continuativi una valenza per lo più limitata a rapporti o a spezzoni di essi antecedenti all’1 gennaio 2016. Mentre la stessa questione e il suo rilievo resta fermo nei confronti di altri lavoratori autonomi, per i quali l’adempimento dell’obbligo contributivo in loro favore è affidato ad altri soggetti o di quei collaboratori coordinati e continuativi individuati in seno alla citata disposizione nel successivo comma e per i quali non si applica la regola fissata dal primo comma.

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Il principio di automatismo: applicazioni e letture della giurisprudenza di merito

2. Il principio di automatismo e la sua applicazione ai

lavoratori autonomi collaboratori coordinati e continuativi iscritti alla gestione separata.

La ricognizione legislativa evidenzia che, a fronte di una disposizione a valenza generale contenuta nel codice civile, l’art. 2116, comma 1, si hanno una serie di disposizioni confermative, integrative o modificative di quella. Disposizioni queste che si rinvengono in seno a un reticolato legislativo che, tempo per tempo, ha disciplinato uno o più segmenti della tutela di sicurezza sociale apprestata dall’ordinamento7. Il codice civile fissa, al primo comma dell’art. 2116, la regola che le prestazioni individuate dall’art. 21148 sono riconosciute al lavoratore, anche quando il proprio datore di lavoro non ha versato regolarmente i contributi, fatte salve diverse disposizioni fissate dalle leggi speciali9. Le disposizioni speciali rilevanti agli odierni fini sono quelle che si rinvengono nella legislazione che, tempo per tempo, ha disciplinato o le prestazioni erogate dall’Inps o quelle erogate dall’Inail. Con riguardo all’Inps si è davanti non a una ma a più disposizioni speciali che, prima e dopo l’entrata in vigore del codice civile, hanno disciplinato l’istituto. La regola speciale, che comprende nel suo campo di applicazione più prestazioni, la si rinviene nell’art. 27 del Regio decreto legge del 14 aprile 1939, n. 636. In esso si rivengono due regole: - l’una, contenuta nel primo comma e che attiene all’assicurazione per la tubercolosi, la disoccupazione e la nuzialità e la natalità10, che applica senza limitazioni il principio

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Si v. Pera, L’automaticità (parziale) delle prestazioni nell’assicurazione invalidità e vecchiaia, in SS, 1970, 1; Terzago, Rapporto giuridico previdenziale ed automaticità delle prestazioni, Giuffré, 1971; Miscione, Commento art. 2116 c.c., in Commentario al codice civile, Cendon (diretto da), vol. V, Utet, 1991, 377; Canavesi, Contribuzione prescritta e automaticità delle prestazioni nell’ordinamento italiano e nella dimensione comunitaria, in RGL, 1992, I, 470; Nicolini, Prescrizione dei contributi, automaticità…, op. cit., nota 5); Capurso, Le eclissi del principio di automaticità delle prestazioni previdenziali, in RDSS, 2017, 3, 499; Mesiti, I limiti soggettivi di applicazione del principio di automatismo, in LG, 2017, 8-9, 751; Casale, L’automaticità delle prestazioni previdenziali. Tutele, responsabilità e limiti, BUP, 2017. 8 Il richiamo all’art. 2114 c.c., come noto, non è esauriente, dato che questo articolo a sua volta rinvia alle leggi speciali che determinano i casi e le forme di previdenza e assistenza obbligatoria e le contribuzioni e prestazioni relative. 9 L’inadempimento del datore di lavoro che, sulla scorta della richiamata regola, non consente la fruizione della prestazione porta con sé innanzitutto la responsabilità del datore inadempiente (art. 2116.2 c.c.). Ma porta anche con sé il possibile utilizzo da parte del lavoratore, danneggiato da siffatto inadempimento, dell’istituto della rendita vitalizia introdotto nel sistema di sicurezza sociale dall’art. 13 della L. 12 agosto 1962, n. 1332. Si osservi che la giurisprudenza, nell’applicare l’art. 2116, lo pone all’interno di un quadro di riferimento che sintetizza nell’uso dell’espressione “diritto all’integrità della posizione assicurativa”. Diritto questo che, secondo la ricostruzione pretoria, pur strumentale all’accesso alle prestazioni previdenziali, costituisce un bene suscettibile di lesione tutelabile giuridicamente a prescindere dalla maturazione del diritto alle relative prestazioni previdenziali; ma a condizione che sussista un’attuale e pregiudizievole situazione di incertezza del rapporto assicurativo (in questi termini da ultimo Cass., 15 aprile 2019, n. 10477). 10 L’elenco delle prestazioni assicurate, alla luce delle modificazioni legislative nel frattempo intercorse, porta a ritenere de plano che ora è assicurata la prestazione di maternità, stante la scomparsa dell’assicurazione di nuzialità e natalità. Parimenti si deve ritenere che qualsivoglia prestazione connessa alla perdita del lavoro o alla sospensione dello stesso, che necessiti, per il suo riconoscimento, di un requisito contributivo, rientri nell’ambito di applicazione della disposizione in commento. Altro e diverso pare invece debba essere il ragionamento connesso al riconoscimento della prestazione previdenziale che sostituisce il pagamento del trattamento di

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di automatismo, riconoscendo il diritto alle prestazioni anche quando i contributi non siano stati effettivamente versati ma risultino dovuti; - l’altra, contenuta nel secondo comma, che attiene alle prestazioni di vecchiaia, invalidità e superstiti, che applica il principio di automatismo nei limiti della prescrizione decennale11 dei contributi il cui versamento è stato omesso12. Altra disposizione, che attiene all’istituto investigato, la si rinviene nella legge dell’11 gennaio 1943, n. 138, che disciplina la prestazione di malattia. L’art. 11 riconosce al lavoratore il diritto alla prestazione quando è ammalato, anche se il datore di lavoro non abbia pagato la contribuzione dovuta13.

fine rapporto e delle ultime tre mensilità, ai fini della tutela dei crediti retributivi dei lavoratori. La regola speciale, che limita il principio di automatismo fissato dal legislatore del codice, è stata introdotta dall’art. 40 della l. 30 aprile 1969, n. 153. La regola menzionata è stata disapplicata per un periodo, con applicazione quindi del principio anche in ipotesi di contribuzione prescritta su richiesta del lavoratore, con riferimento al lavoro compreso tra la data di applicazione nelle singole province del nuovo sistema di denuncia e versamento della contribuzione fissato con il decreto ministeriale del 5 febbraio 1969, n. 70800 e la data del 31 dicembre 1977. La dottrina, nel commentare la disposizione, sottolinea che si è davanti a una parziale introduzione del principio di automaticità delle prestazioni, ponendola in raccordo da un verso con l’art 2116 c.c. e da altro verso con la legge istitutiva della rendita vitalizia (si v. Pera, op, cit., nota 7, 4-5). Lo stesso Autore è consapevole che, anche in presenza di una parziale automaticità delle prestazioni si assiste in parallelo alla riduzione della responsabilità del datore di lavoro come fissata dal secondo comma dell’art. 2116 c.c. e ciò, come si legge testualmente “giuoca, ironia della sorte, a favore del soggetto responsabile”, dato che, come noto, l’ente previdenziale non può recuperare la contribuzione prescritta. Tale assetto d’interessi pertanto porta a un approdo di tutela, da un verso del lavoratore in quanto soggetto debole e da altro verso del datore di lavoro in quanto soggetto forte del rapporto di lavoro che viene esentato dalla responsabilità economica connessa al suo inadempimento. Esito necessitato di tale delineata scelta legislativa è che il rischio economico, costituito da un verso dall’inadempimento del datore di lavoro e da altro verso dal pagamento della prestazione previdenziale, è definitivamente posto a carico dell’ente previdenziale e quindi del sistema di sicurezza sociale. La connessione posta dal legislatore fra principio di automatismo e sussistenza del credito contributivo in capo all’ente previdenziale trova la sua giustificazione, oltre che in evidenti ragioni economiche tese a limitare i costi sociali dell’inadempimento del datore di lavoro, anche nella necessità di porre un limite temporale all’accertamento dei fatti pregressi sottesi al sorgere del diritto (in questi termini Boer, Ricongiunzione dei periodi assicurativi…, op. cit., nota 3, in specie 397). La modificazione legislativa introdotta dall’art. 3, nono comma, l. 8 agosto 1995, n. 335, ha poi comportato la riduzione del termine di prescrizione della contribuzione I.V.S. da dieci a cinque anni e pertanto, con riguardo all’istituto investigato, il riferimento al decennio deve intendersi ora al quinquennio, a meno che non vi sia stata, nel corso del predetto termine, una denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti (si v. da ultimo sulla prescrizione dei contributi: Piovesana, La prescrizione dei contributi previdenziali, in LG, 2019, 4, 484; Casale, La diversità di ratio della prescrizione dei contributi nel privato e nel pubblico, confermata dal D.L. n. 4/2019, in LG, 2019, 6, 545). Ferme restando altresì ipotesi di sospensione del termine di prescrizione della contribuzione, quale quella disciplinata dal settimo comma dell’art. 38 della l. 27 dicembre 2002, n. 289. Disposizione questa che introduce un’ipotesi di sospensione della prescrizione, di diciotto mesi a partire dall’1 gennaio 2003, per le omissioni contributive risultanti dall’estratto conto introdotto dall’art. 1.6, terzo periodo, l. n. 335/95. 12 Si osservi che solo il secondo comma dell’art. in commento prevede espressamente che, per l’applicazione del principio di automatismo, il rapporto di lavoro deve risultare da documenti o prove certe. Ma tale allocazione topografica della predetta regola non ha impedito l’applicazione della medesima anche con riferimento al riconoscimento delle prestazioni temporanee del primo comma dello stesso articolo. La giurisprudenza pacificamente pone a carico del lavoratore gli oneri processuali di allegazione e prova dei periodi lavorativi ed eventualmente della più alta retribuzione percepita sulla quale il datore di lavoro avrebbe dovuto pagare i contributi (si v. da ultimo Cass., 21 febbraio 2019, n. 5185). La regola fissata dalla giurisprudenza può sintetizzarsi in questa affermazione: Il principio dell’automaticità presuppone il duplice requisito sia dell’esistenza del rapporto di lavoro subordinato, che deve essere provato dal lavoratore mediante elementi certi, sia del mancato decorso della prescrizione talché il pagamento tardivo possa essere effettuato dal datore di lavoro volontariamente o coattivamente su richiesta dell’Inps (si v. Cass., 27 agosto 1986, n. 5263). 13 Anche in questo caso, al pari delle altre prestazioni temporanee, non si connette il riconoscimento del diritto al mancato decorso del termine di prescrizione per il pagamento volontario o coattivo della contribuzione da parte del datore di lavoro. Siffatto mancato richiamo all’istituto della prescrizione, per l’operatività o meno del principio di automatismo con riguardo a tali tipi di prestazione, è giustificato dalla dottrina nella circostanza che le prestazioni temporanee sono azionabili in un ristretto arco temporale, rispetto alla prestazione pensionistica (in questi termini BOER, Ricongiunzione dei periodi assicurativi…, op. cit., nota 3, in specie 397).

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L’ultima delle disposizioni speciali rilevanti ai fini odierni la si rinviene in seno al decreto legislativo del 27 gennaio 1992, n. 80. Testo legislativo che, come noto, appresta una tutela dei lavoratori in adempimento della legislazione comunitaria, con riferimento ai crediti retributivi e previdenziali degli stessi14. L’art. 3, al fine di tutelare la posizione pensionistica del lavoratore, applica il principio di automatismo delle prestazioni anche in caso di prescrizione della contribuzione. I beneficiari dell’applicazione di tale principio sono però solo i lavoratori subordinati che sono stati dipendenti di datori di lavoro sottoposti alle procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero alla procedura dell’amministrazione straordinaria, e che non abbiano utilizzato l’istituto della rendita vitalizia e il cui credito sia rimasto integralmente o parzialmente insoddisfatto in seno a una delle predette procedure15 16. Al contestuale verificarsi dei predetti requisiti, sorge in capo al lavoratore danneggiato il diritto all’accreditamento della contribuzione non versata in suo favore dal datore di lavoro, ancorché prescritta, ai fini del riconoscimento e della misura della prestazione. Prestazione che, in considerazione del richiamo fatto in seno alla disposizione alla rendita

L’affermazione pare però scontare la mancata considerazione della disciplina in tema di intervento del Fondo di garanzia per il pagamento della prestazione previdenziale che sostituisce il mancato pagamento del trattamento di fine rapporto e delle ultime tre mensilità da parte del datore di lavoro inadempiente. Prestazione questa che tendenzialmente è pagata dall’ente previdenziale non nella prossimità dello svolgimento del rapporto di lavoro al quale è connessa, in considerazione degli adempimenti che il legislatore pone a carico del lavoratore/creditore insoddisfatto, prima di potere chiedere l’intervento del Fondo di garanzia. 14 Con riferimento alla legge istitutiva del Fondo di garanzia (art. 2, l. 29 maggio 1982, n. 297) e alla tutela in essa apprestata con riguardo al trattamento di fine rapporto, si v. per il versante previdenziale Boer, Garanzia della retribuzione e della pensione nella direttiva comunitaria ed inadempimento dello Stato membro, in Aa. Vv., Dimensione sociale del mercato unico europeo, Giuffré, 1990, 195. 15 Antecedentemente a tale disposizione, come noto, il sistema di sicurezza sociale apprestava una tutela simile con l’art. 39 della l. 30 aprile 1969, n. 159. Articolo che atteneva però solo al fallimento e ai contributi non prescritti e che si concretizzava nell’accredito dei contributi sulla posizione previdenziale del lavoratore e, in via mediata pertanto, nel riconoscimento della prestazione. L’ultima applicazione del cit. art. da parte della Corte di cassazione, a quel che consta, è rappresentata dalla sentenza del 7 agosto 2012, n. 14204. Decisione ove è stato affermato che tal genere di tutela non è condizionata alla ricorrenza di una connessione di dipendenza tra l’omissione contributiva e il fallimento, essendo sufficiente che la prima vi sia stata e che il datore di lavoro sia stata dichiarato fallito, ben potendo l’omissione dipendere da una causale diversa dal fallimento. 16 Il legislatore parla di credito del lavoratore ma, come noto, la contribuzione previdenziale costituisce un credito dell’ente previdenziale ed è questi chiamato dall’ordinamento a riscuoterlo in via bonaria o esecutiva dal datore di lavoro inadempiente. Ciò nonostante la Corte, nella decisione del 22 maggio 2014, n. 11392, ha riconosciuto al lavoratore, dipendente di un datore di lavoro sottoposto a liquidazione giudiziale e che non abbia effettuato il pagamento della contribuzione, il diritto a chiedere direttamente, in via prudenziale o in caso di inerzia dell’Inps, l’ammissione, oltre che di quanto a lui spettante a titolo di retribuzione, anche della somma corrispondente alla quota dei contributi previdenziali posti a carico dello stesso lavoratore, rispondendo tale soluzione al principio di integrità della retribuzione, che, altrimenti, resterebbe frustrata senza giustificazione causale, dovendosi escludere che il curatore ove l’Inps non si sia insinuato al passivo possa trattenere dette somme mediante accantonamenti in prevenzione. La soluzione accolta dalla Corte di legittimità appare condivisibile ma la stessa passa attraverso l’applicazione della regola fissata dall’art. 23 della l. 4 aprile 1952, n. 218. Regola questa che pone definitivamente a carico del datore di lavoro anche la quota di contribuzione a carico del lavoratore, qualora non provveda al pagamento della contribuzione a tempo debito e nella misura dovuta. In tal caso pertanto l’unico ed esclusivo debitore della stessa rimane il datore di lavoro, mentre il lavoratore ha diritto a ricevere dal datore di lavoro la somma pari alla quota mensile di contribuzione posta a suo carico a titolo di retribuzione e sulla stessa il datore di lavoro deve provvedere a pagare l’ulteriore quota di contribuzione previdenziale dovuta. Quest’ultima soluzione è stata affermata dalla Corte di cassazione nell’ordinanza del 15 luglio 2019, n. 18897, la cui massima recita «In tema di contributi previdenziali, quando il datore di lavoro corrisponde tempestivamente i crediti retributivi può legittimamente operare la trattenuta dei contributi da versare all’ente previdenziale, non può farlo, invece, in caso di intempestività, da valutarsi con riferimento al momento di maturazione dei crediti e non a quello di accertamento giudiziale degli stessi, sicché in detta ipotesi il credito retributivo del lavoratore si estende automaticamente alla quota contributiva a suo carico».

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vitalizia, non può che riguardare esclusivamente il trattamento pensionistico, con esclusione di prestazioni di carattere temporaneo Altra e diversa la tutela sempre apprestata in seno al medesimo testo legislativo e che riguarda il pagamento da parte del Fondo di garanzia dei crediti retributivi, precisamente il trattamento di fine rapporto e le ultime tre mensilità, vantati dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro inadempiente17. Prestazione economica quest’ultima che, una volta che sia annoverata nell’ambito delle prestazioni di sicurezza sociale, ricade nell’ambito di applicazione del principio di automatismo18, predicando l’applicazione dell’art. 2116.1 c.c. in seno al sistema di previdenza obbligatoria a tutte le prestazioni previdenziali e non solo alle prestazioni pensionistiche19. Esaurita, nei limiti dell’odierna esposizione, la disamina dei testi legislativi che applicano il principio di automatismo con riguardo all’Inps, può progredirsi, esaminando i testi legislativi che attengono all’Inail e quindi al pagamento dei premi assicurativi e al riconoscimento delle prestazioni erogate.

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Prestazione la cui provvista, ai sensi dell’art. 3.8, l. 29 maggio 1982, n. 297, è assicurata dal versamento di una contribuzione posta a carico esclusivo del datore di lavoro. 18 In questi termini si v. Cass., 16 giugno 2006, n. 13930. La Corte afferma da un verso l’applicazione del predetto principio e da altro verso ne limita l’ambito di efficacia alla sola ipotesi che i contributi non pagati, non siano prescritti. La Cassazione, in forza di tale affermazione, riconobbe nel caso di specie il diritto alla prestazione previdenziale al posto del trattamento di fine rapporto in favore di un lavoratore nei confronti del quale era stato previamente riconosciuta l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con una cooperativa. Lo stesso principio lo si rinviene nella, di poco posteriore, decisione del 5 luglio 2007, n. 15155. In una successiva decisione, resa con ordinanza del 22 giugno 2017, n. 15589 (si v. la nota di Carchio, L’intervento del Fondo di garanzia per le prestazioni economiche per il lavoratore non è condizionato all’adempimento contributivo del datore, in DRI, 2018, 1, 245), la Corte di cassazione da un verso riafferma l’applicazione del principio di automatismo alle prestazioni economiche garantite dal Fondo di garanzia a tutela dei crediti retributivi del lavoratore; e da altro verso, difformemente dai suoi precedenti del 2006 e 2007, afferma che il predetto principio trova applicazione anche in caso di prescrizione della contribuzione dovuta dal datore di lavoro inadempiente. Nel caso esaminato dalla Corte, al pari del precedente del 2006, si trattava del riconoscimento giudiziale di un rapporto di lavoro subordinato, precedentemente qualificato come rapporto di lavoro autonomo a progetto, ma non atteneva al pagamento sostitutivo del trattamento di fine rapporto, bensì a quello delle ultime tre mensilità. La Corte, in consapevole dissenso dai menzionati precedenti (che avevano affermato, ma non argomentato, che il principio di automatismo era limitato ai contributi non prescritti), impernia la propria decisione sui seguenti ragionamenti: - forza di norma generale alla disposizione contenuta nell’art. 2116, primo comma; - richiamo alla sentenza della Corte di giustizia del 2 febbraio 1989, procedimento C-22/87 (in www.curia.eu e si v. nota di De Luca, Salvaguardia dei diritti dei lavoratori, in caso di «insolvenza» del datore di lavoro, nel diritto comunitario, in FI, 1992, IV, c. 23), ove i Giudici del Lussemburgo hanno condannato l’Italia per il tardivo ritardo nell’adempimento della direttiva 80/987 del Consiglio del 20.10.1980 e affermazione della funzione di garanzia che il legislatore comunitario assegna all’intervento del Fondo di garanzia; - verifica di inesistenza norma espressa di diritto nazionale che, con riferimento alle prestazioni erogate dal Fondo di garanzia, condiziona l’applicazione dello stesso alla circostanza che i contributi non siano prescritti. Il nocciolo duro dell’argomentazione utilizzata dalla Corte risiede nell’interpretazione del diritto nazionale e specificamente nell’affermazione che il principio di automatismo fissato dal codice civile ha una valenza generale e una forza espansiva che può essere imbrigliata solo da una contraria ed espressa disposizione; e nell’affermazione successiva che la disciplina istitutiva del Fondo di garanzia, con riguardo alla tutela dei crediti retributivi vantata dal lavoratore, non contiene una disposizione con le predette caratteristiche. La sommatoria di questi due ragionamenti conduce pertanto la Corte di cassazione ad affermare che, con riferimento alla tutela dei crediti retributivi, vantati dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro inadempiente, apprestata dal Fondo di garanzia, opera il principio di automatismo senza limitazioni connesse all’eventuale prescrizione della contribuzione il cui pagamento è stato omesso dal datore di lavoro, conseguendone l’allocazione definitiva del mancato pagamento della contribuzione sull’ente previdenziale. 19 Il senso di quest’affermazione sarà più chiaro, nel prosieguo, allorché si esaminerà la motivazione sottesa alla sentenza della Corte costituzionale n. 374/97.

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La norma speciale di riferimento è costituita dall’art. 67 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 che applica il principio di automatismo delle prestazioni senza limitazioni di sorta alcuna. Solo con il comma 19 dell’art. 59 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, si escludono dall’ambito di applicazione della disposizione i lavoratori autonomi20. Esclusione che è ulteriormente ampliata, con il terzo comma dell’art. 9 della legge 3 dicembre 1999, n. 493, comprendendovi anche coloro che svolgono in via esclusiva attività di lavoro non retribuito in ambito domestico21. A fronte del sunteggiato quadro legislativo delineatosi nel tempo in seno al sistema di sicurezza sociale, si è giunti da parte della dottrina e della giurisprudenza a una sistemazione consolidata del modello che si sintetizza nelle seguenti affermazioni: il principio di automatismo riguarda tutti e solo i lavoratori dipendenti22, consente la valorizzazione della contribuzione non versata dal datore di lavoro ai fini dell’accesso al diritto e alla misura della prestazione, può essere utilizzato anche in sede di ricongiunzione, ovverosia di trasferimento, di contribuzione non versata. Con riguardo al versante giurisprudenziale appare utile soffermarsi sulla nota decisione resa dalla Corte costituzionale, la n. 374 del 5 dicembre 1997; sentenza che è utilizzata dai giudici di merito quale leva per predicare l’estensione del principio di automatismo ai lavoratori autonomi coordinati e continuativi. Il Giudice delle Leggi, in una fattispecie di richiesta da parte di un lavoratore subordinato di trasferimento di contribuzione a seguito domanda di ricongiunzione, ancorché il datore di lavoro non avesse pagato la medesima all’ente previdenziale trasferente, rigetta la questione di legittimità costituzionale. La sentenza, pertanto, non ha alcun tasso di innovatività dell’ordinamento, limitandosi a fotografare lo stato dell’arte. All’interno di tale ricognizione, si ritrova da un verso l’affermazione che il principio di automaticità delle prestazioni, con riguardo ai sistemi di previdenza e assistenza obbligatorî, trova applicazione salvo diverse disposizioni di leggi speciali. Da altro verso l’affermazione che detto principio costituisce una fondamentale garanzia per il lavoratore assicurato, intesa a non

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Lavoratori autonomi che, con riferimento alle prestazioni erogate dall’Inps, erano e sono esclusi dall’ambito di applicazione del predetto principio. 21 Lavoratori che, con riguardo al versante previdenziale, possono accedere a una forma di tutela non obbligatoria rappresentata dal Fondo di previdenza per le persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari (si v. il d. lgs. 16 settembre 1996, n. 565). La lettura dell’art. 1 del predetto testo legislativo rende evidente la situazione di soggezione economica dei soggetti tutelati e per essi appare oltremodo riduttiva l’introduzione di una forma di tutela previdenziale definita volontaria nonostante il valore socio-economico dell’attività svolta e la certezza che non si possa parlare di inadempimento contributivo da parte dei medesimi, stante la strutturale impossibilità di reperire dall’attività di lavoro svolta somme di denaro utili al pagamento della contribuzione previdenziale. Ciò nonostante, nessuno a quel che consta, si è mai interrogato sull’opportunità o meno innanzitutto di apprestare una forma di tutela previdenziale obbligatoria, in considerazione del fatto che tali lavoratori sono per lo più donne che sostengono il nostro modello di welfare mediterraneo; né tanto meno di estendere il principio di automatismo a tali lavoratori. 22 La Corte di cassazione, nella sentenza 14 giugno 2019, n. 15643, ricorda che il principio generale dell’automatismo delle prestazioni previdenziali vigente, ai sensi dell’art. 2116 c.c., nel rapporto fra lavoratore subordinato e datore di lavoro, da un lato, ed ente previdenziale, dall’altro, non trova applicazione nel rapporto fra lavoratore autonomo ed ente previdenziale – nel difetto di esplicite norme di legge (o di legittima fonte secondaria) che eccezionalmente dispongano in senso contrario – con la conseguenza che il mancato versamento dei contributi obbligatori impedisce, di regola, la stessa costituzione del rapporto previdenziale e, comunque, la maturazione del diritto alle prestazioni.

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far ricadere su di lui il rischio di eventuali inadempimenti del datore di lavoro in ordine agli obblighi contributivi e rappresenta perciò un logico corollario della finalità di protezione sociale inerente ai sistemi di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti. La piana lettura di tali passaggi argomentativi evidenzia che, nella ricostruzione della Corte costituzionale e tenendo sempre ben presente il caso di specie sul quale è innestato il giudizio incidentale di legittimità costituzionale che ha confermato l’attuale assetto legislativo, il principio di automatismo costituisce sì un principio generale, ma con riguardo ai soli lavoratori subordinati, per assicurarli dal rischio di inadempimento del datore di lavoro. E ancora, che il predetto principio, così come fissato nel codice civile, attiene all’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti. Il primo corollario, connesso alla prima affermazione fatta dalla Corte costituzionale, evidenzia la strutturale debolezza di quelle ricostruzioni che tendono, con l’utilizzo della tecnica dell’analogia o dell’estensione, ad applicare il principio di automatismo a lavoratori non subordinati, quali i lavoratori coordinati e continuativi. È lo stesso Giudice delle leggi, alla luce della fattispecie sottoposta al suo vaglio, a ritenere consapevolmente e ad affermare espressamente che il principio di automatismo, per scelta legislativa che non è posta in discussione anzi è ritenuta legittima costituzionalmente dal medesimo Giudice, ha quale suo riferimento necessario e sufficiente la categoria dei lavoratori subordinati. Né si può, alla luce della questione incidentale di costituzionalità sollevata dal giudice a quo e dal tenore del testo della sentenza che ha deciso della predetta questione, ragionevolmente dedurre che l’affermazione contenuta nella sentenza, di valenza generale del principio di automatismo fissato dal primo comma dell’art. 2116 c.c. conduca a un’estensione dell’ambito di efficacia della disposizione che sfoci nell’applicazione del principio anche nei confronti di una categoria di lavoratori autonomi. Il secondo corollario, connesso alla seconda affermazione fatta dal Giudice delle leggi in tema di applicazione del principio all’assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti, conduce a ritenere che, al di fuori della menzionata assicurazione, il principio di automatismo previsto e disciplinato dall’art. 2116, comma 1, c.c. non possa trovare applicazione. Tale approdo, se condiviso, conduce pertanto a ritenere che per gli altri tipi di prestazione cc. dd. temporanee, contrariamente a quanto affermato (si v. da ultimo Cass., n. 15589/17), la regola non si rinviene nella disposizione dettata dal c.c. ma si rinviene nella legislazione che, tempo per tempo, ha introdotto e disciplinato ciascuna delle prestazioni, dovendosi escludere pertanto che si sia davanti a un modello legislativo, principio generale-art. 2116 c.c. e principi derogatori di questo espressamente contenuti nelle leggi speciali; ma si è davanti a un modello legislativo ove coesistono in seno al sistema previdenziale principi posti sullo stesso grado. L’uno individuato dall’art. 2116 c.c. e avente come suo campo elettivo di applicazione l’assicurazione vecchiaia, invalidità e superstiti, principio a valenza generale nel predetto campo e che può essere derogato da una regola speciale. L’altro o gli altri che disciplinano

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o non disciplinano l’applicazione del principio di automatismo per le prestazioni temporanee, quali a titolo esemplificativo l’indennità di maternità23. L’affermazione dell’esistenza di un principio generale di automaticità fissato dall’art. 2116, primo comma, c.c.24. Principio valevole sì per i lavoratori subordinati, ma per tutti i tipi di prestazioni previdenziali a costoro assicurati e senza che possa opporsi l’ostacolo della prescrizione della contribuzione previdenziale dovuta dal datore di lavoro, a meno che non esista una norma speciale derogatoria di tale principio generale, porta con sé necessariamente una corrispondente riduzione dell’ambito di applicazione degli altri due istituti apprestati dall’ordinamento per la tutela della posizione creditoria del lavoratore subordinato, ovverosia la responsabilità dal ristoro del danno posta a carico del datore di lavoro e la costituzione della rendita vitalizia. Il primo istituto, fissato nel secondo comma dell’art. 2116 c.c. e di stampo squisitamente civilistico, con il quale, secondo le regole generali sull’inadempimento, si riconosce al lavoratore un’azione risarcitoria del danno subito, consistente nella perdita del trattamento pensionistico ovvero nella percezione di un trattamento pensionistico inferiore a quello spettante. L’azione risarcitoria può essere esercitata nel momento in cui il danno (costituito dalla perdita totale o parziale della prestazione previdenziale) si determina, ossia nel momento in cui avrebbe potuto essere attivato (per esserne maturati i requisiti) ovvero è stato attivato il trattamento previdenziale rispettivamente perso o goduto in misura inferiore al dovuto. E, prima di questo momento (e dopo la data di prescrizione dei contributi omessi), il lavoratore soffre solo di un danno potenziale, nel senso che ha una posizione assicurativa carente (o addirittura, in caso di omissione totale dei contributi, è privo di alcuna posizione assicurativa). Tale mera potenzialità del danno comunque consente al lavoratore da una parte di richiedere misure cautelari conservative della garanzia patrimoniale del datore di lavoro, d’altra parte di domandare una pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno25. Il secondo istituto, introdotto nell’ordinamento previdenziale nel 1962 dall’art. 13 della legge 12 agosto n. 1338, riconosce in capo al lavoratore subordinato il potere di chiedere all’ente previdenziale la costituzione di una rendita vitalizia a tutela del periodo di lavoro, per il quale non vi è stata da parte del datore di lavoro il versamento della contribuzione

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La Corte di cassazione, successivamente e con la sentenza 10 maggio 2002, n. 6772 (in FI, 2002, I, 2354), ha applicato il principio di automatismo in presenza di domanda di ricongiunzione, utilizzando, trascrivendoli, i passaggi motivazionali della sentenza n. 374/97. 24 Il ragionamento condotto nel testo è valido sia se si utilizza l’opzione interpretativa che il principio di automatismo delle prestazioni fissato dall’art. 2116.1 c.c. costituisca un principio generale dell’ordinamento previdenziale efficace per tutti i tipi di prestazione erogati dall’Inps o dall’Inail. Sia se si accoglie la prospettiva interpretativa qui delineata secondo la quale la regola fissata dalla predetta disposizione ha quale suo esclusivo campo di applicazione l’assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti come si evince dalla lettura della sentenza della Corte costituzionale. 25 In questi termini testualmente, da ultimo, Cass., 30 ottobre 2018, n. 27660; ma anche ante conf. Cass., 16 marzo 2018, n. 6600 e Cass., 7 febbraio 2018, n. 2964. Responsabilità del datore di lavoro che ha condotto la giurisprudenza a riconoscere in capo al lavoratore il diritto di insinuare nel passivo del fallimento a titolo di risarcimento danni la somma pari alla somma determinata dall’Inps per la costituzione della rendita vitalizia (Cass. ord. 29 dicembre 2017, n. 31184, con nota di Surdi, Sull’insinuazione nel passivo fallimentare del credito risarcitorio per danno pensionistico da omissione contributiva, in RDSS, 2018, 2, 368).

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ormai prescritta, con il pagamento da parte dello stesso debitore inadempiente o, in subordine, del lavoratore/creditore di una somma di denaro26. Agli odierni fini espositivi siffatto strumento assume rilievo, in forza dell’ampliamento della sfera soggettiva di applicazione compiuta dalla Corte costituzionale, in favore di quelle categorie di lavoratori autonomi, per i quali l’adempimento dell’obbligo contributivo è affidato dall’ordinamento a soggetti diversi. La Corte, con decisione interpretativa di rigetto del 25 gennaio 1995, n. 18, riconosce alla rendita vitalizia connotati di generalità e astrattezza tali da renderla applicabile a tutte le forme assicurative delle varie categorie di lavoratori che non hanno una posizione previdenziale. E, con riferimento alla gestione artigiani, individua altresì un nesso di collegamento nel richiamo espresso che la disciplina previdenziale di questi lavoratori fa al R.d.l. 4 ottobre 1935, n. 182727. Sulla scorta di tale decisione e della successiva ordinanza del 23 gennaio 2001, n. 21, l’Inps ha esteso l’applicazione della rendita vitalizia a tutti i coadiutori familiari di imprenditore e, da ultimo, anche a tutti coloro iscritti alla gestione separata, che però non sono obbligati al versamento diretto della contribuzione, essendo questa versata dal committente28. L’estensione alla predetta categoria di lavoratori autonomi della rendita vitalizia però, contrariamente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza di merito, non conduce l’ente previdenziale ad affermare anche l’applicazione alla predetta categoria, recte solo a un gruppo di soggetti compreso in essa29 i collaboratori coordinati e continuativi, del principio di automatismo delle prestazioni. Quest’ultima constatazione ci conduce alla gestione separata e, per quel che rileva ai fini della presente disamina, ai lavoratori autonomi nei confronti dei quali è apprestato siffatto genere di tutela previdenziale obbligatoria, nonché alle modalità di pagamento della contribuzione da costoro dovuta. La gestione separata prevista in origine, per individuate categorie di lavoratori autonomi (si v. l’art. 26.1, l. 8 agosto 1995, n. 335), fra le quali si annovera quella dei titolari di

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Sull’istituto si v. da ultimo Centofanti, L’utilizzabilità effettiva della rendita vitalizia ex art. 13, l. n. 1338/1962, in RDSS, 2016, 4, 623. Si osservi che, mentre un richiamo di tal fatta lo si rinviene nella disciplina legislativa che ha esteso l’assicurazione obbligatoria per invalidità vecchiaia e superstiti ai lavoratori autonomi, artigiani e commercianti; lo stesso richiamo non si rinviene allorquando il legislatore del 1995 ha istituito la gestione separata. 28 Si tratta della circolare del 26.7.2010, n. 101 che, pertanto, estende in via generale la rendita vitalizia a tutti i lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata, per i quali il pagamento della contribuzione sia affidato al committente. Ancorché, si osservi, per nessuno di costoro, fatta eccezione per i collaboratori coordinati e continuativi, si è posto il dubbio dell’applicabilità del principio di automatismo e ciò nonostante l’omologa forma di pagamento dei contributi da parte del committente. Caratteristica questa che, secondo la giurisprudenza di merito, fonda la contiguità logico-strutturale fra la posizione fatta in seno all’ordinamento previdenziale ai lavoratori dipendenti e ai lavoratori autonomi coordinati e continuativi, e che giustificherebbe l’applicabilità del principio di automatismo a questi ultimi. 29 Una ricognizione, non esaustiva, degli iscritti alla gestione separata, per i quali l’adempimento dell’obbligo contributivo posto a loro carico è affidato dal legislatore al committente, conduce a individuare, fra l’altro, gli associati in partecipazione, i titolari di borse di studio per dottorato di ricerca, i venditori porta a porta. 27

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Il principio di automatismo: applicazioni e letture della giurisprudenza di merito

collaborazione coordinata e continuativa30, ha nel corso degli anni subito un progressivo ampliamento per via legislativa e per via giurisprudenziale31. Il cennato ampliamento della categoria dei lavoratori autonomi32, tutelati con iscrizione alla gestione speciale, è garantito - al pari di quel che accadeva per i soggetti originariamente tutelati al momento dell’istituzione della gestione - a quei soggetti che esercitano, per professione abituale33, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo. Requisito strutturale della fattispecie appare essere pertanto lo svolgimento abituale di un’attività lavorativa autonoma. Ma, dalla ricognizione del tessuto normativo, si evince che il predetto requisito non è necessario, ai fini del sorgere di siffatto tipo di tutela previdenziale obbligatoria, per scelta del legislatore, allorché la predetta tutela è estesa a coloro che svolgono prestazioni occasionali (art. 61.2 d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276) e a coloro che svolgono prestazioni originariamente definite accessorie e ora di lavoro occasionale (si v. da ultimo art. 54 bis l. 21 giugno 2017, n. 96, di conv.ne con modif.ni del d. l. 24 aprile 2017, n. 50)34. Constatazione che trova corroborazione in seno alla legislazione previdenziale allorché si estende la tutela previdenziale apprestata dalla gestione separata ai lavoratori autonomi occasionali (art. 44.2 d. l. 30 settembre 2003, conv.to con modif.ni dalla l. 24 novembre 2003, n. 326)35.

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La giurisprudenza di legittimità, con riguardo al versante lavoristico, ha costantemente affermato che tale tipo di rapporto, unitamente al contratto a progetto disciplinato dall’art. 61 del d. lgs. 10 settembre 2003, n. 273, integra una forma particolare di lavoro autonomo svolta con attività prevalentemente personale (si v. da ultimo Cass., 26 settembre 2019, n. 24100). 31 L’ultima, in ordine di tempo, delle categorie di lavoratori carenti di tutela previdenziale obbligatoria e per le quali il legislatore ha previsto la tutela della gestione separata è quella dei giudici onorari di pace e dei vice procuratori onorari (si v. art. 25.3, d. lgs. 13 luglio 2017, n. 117). Infine il legislatore non ha sinora ritenuto di estendere la forma di tutela previdenziale prevista dall’art. 2.1 del d. lgs. 81/2015 ai lavoratori delle piattaforme anche digitali. L’ultima, sempre in ordine di tempo, delle categorie di lavoratori per i quali, in via interpretativa, si è riconosciuta la tutela previdenziale della gestione citata, è costituita dai lavoratori subordinati che svolgono contemporaneamente un lavoro libero professionale, per il quale la corrispondente Cassa di previdenza non prevede la tutela previdenziale I.V.S. (si v. per tutte Cass. 14 dicembre 2018, n. 32508). 32 Garofalo, nel commentare la disciplina di tutela del lavoro autonomo del d. lgs. 22 maggio 2017, n. 81, evidenzia la differente tutela previdenziale apprestata nel sistema di sicurezza sociale fra lavoro autonomo reso nell’impresa e per il quale esistevano le forme di tutela previdenziale per artigiani, commercianti e agricoli; e lavoro autonomo svolto senza l’apprestamento di un’impresa, nei confronti del quale la prima forma di tutela previdenziale è stata introdotta con l’istituzione della gestione separata (Garofalo, La ritrovata dignità del lavoro autonomo, in Labor, 2019, 481 ss., in specie 484). 33 Abitualità che la giurisprudenza di legittimità individua nello svolgimento dell’attività lavorativa con continuità e stabilità, contrapponendo queste due caratteristiche al lavoro svolto in via straordinaria od occasionale, e precisando che per sussistere l’abitualità non è necessaria la presenza quotidiana e ininterrotta sul luogo di lavoro (si v. da ultimo Cass. 23 settembre 2019, n. 23584). Nella stessa sentenza la Corte individua anche il significato da assegnare all’ulteriore e diversa caratteristica necessaria per il sorgere della tutela previdenziale per i lavoratori autonomi artigiani e commercianti, la prevalenza. Requisito questo che si concretizza, sempre secondo la Corte, nella preponderanza, rispetto ad altre attività di lavoro, del tempo dedicato per svolgere l’attività di lavoro costituente il presupposto del sorgere della tutela previdenziale. Infine, con riguardo al versante processuale e specificamente all’aspetto probatorio, è opportuno ricordare che è onere del soggetto, che invoca il sorgere della tutela previdenziale, provare i fatti costitutivi della domanda e quindi, ritornando alla gestione separata, lo svolgimento in concreto e con la caratteristica dell’abitualità dell’attività lavorativa svolta. La Cassazione applica pianamente tale principio a tutte le fattispecie di iscrizione da parte dell’Inps alle forme di tutela previdenziale dei lavoratori autonomi. Da ultimo, nella sentenza 28 febbraio 2017, n. 5210, il principio lo si trova applicato nei confronti di un socio accomandatario, nei confronti del quale è stato escluso l’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti, non essendo stata provata dall’Inps la partecipazione personale al lavoro aziendale, con le caratteristiche dell’abitualità e dalla prevalenza. 34 Per un commento della disciplina si v. Valente, Il lavoro occasionale: precedenti e disciplina, in MGL, 2017, 11, 742. 35 L’ampliamento della tutela previdenziale ai lavoratori autonomi occasionali non porta con se un’alterazione dell’assetto legislativo con riferimento ai criteri legittimanti il sorgere di quella. Infatti pare potersi ritenere che l’asse portante legittimante l’iscrizione sia da

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In entrambe le fattispecie individuate dal legislatore, dapprima nel 2003 e poi nel 2017, appare oltremodo arduo parlare di abitualità dell’attività lavorativa svolta e pertanto pare possa concludersi che il legislatore, con scelta ragionevole e di apprestamento di una forma di tutela previdenziale obbligatoria nei confronti anche di questi lavoratori, garantisce l’iscrizione alla gestione separata, ancorché non sia presente uno dei requisiti costitutivi del sorgere della tutela previdenziale, ovverosia l’abitualità; ma sempre che un’attività lavorativa, ancorché in via occasionale, sia svolta36. All’ampliamento delle categorie di lavoratori autonomi iscrivibili alla gestione separata, non è però sempre corrisposto un ampliamento, comune a tutti i soggetti, delle tutele previdenziali scaturenti dall’iscrizione alla predetta gestione. Infatti, il legislatore ha ampliato, tempo per tempo, le forme di tutela garantite dall’iscrizione alla predetta gestione talvolta senza distinzioni di sorta, talaltra con riferimento ai soli collaboratori coordinati e continuativi e a quei lavoratori autonomi iscritti nei confronti dei quali espressamente si richiamava la disciplina dei primi (l’esemplificazione di tale modello la si rinviene con riferimento ai lavoratori occasionali). Il predetto ampliamento di tutele ha condotto, senza alcuna pretesa di esaustività, a disporre espressamente l’applicazione del principio di automatismo nei confronti degli iscritti alla gestione separata e non iscritti ad altre forme obbligatorie, con riferimento all’indennità di maternità (art. 64 ter D. Lgs. 26 marzo 2001, n. 151)37. A disporre, sempre nei confronti di tutti gli iscritti alla gestione separata il diritto all’indennità giornaliera di malattia, all’indennità di degenza ospedaliera, al congedo di maternità e parentale38. A disporre il riconoscimento dell’indennità di disoccupazione ma solo nei confronti dei collaboratori coordinati e continuativi e degli assegnisti e dottorandi ricerca (art. 15 d. lgs. 4 marzo 2015, n. 22), senza alcuna menzione del principio di automatismo39.

rinvenirsi nell’abitualità e solo eccezionalmente, con scelta affidata al legislatore come puntualmente avvenuto, si può predicare un ampliamento dei soggetti tutelati, comprendendovi anche lavoratori autonomi, che svolgano la loro attività in maniera non abituale. 36 L’utilizzo della parola occasionale rimanda a uno svolgimento di attività lavorativa priva di uno svolgimento prefissato e regolare, del tutto eventuale e rarefatto nel corso dell’anno e, ovviamente, rinvia a un accertamento di fatti in sede giudiziale. La Cassazione, nell’ordinanza del 9.1.21019, n. 32034, individua l’occasionalità contrapponendola alla mancanza di abitualità e ponendola in collegamento con la durata dell’attività. Mentre la stessa corte concretizza la prevalenza nell’impegno richiesto per lo svolgimento dell’attività lavorativa e nel reddito ricavato. 37 L’applicazione per via legislativa del principio di automatismo ai fini del riconoscimento dell’indennità di maternità ai lavoratori iscritti alla gestione separata comporta, sotto il profilo interpretativo, l’affermazione che l’ordinamento prima di tale norma non poteva prevedere l’applicazione del predetto principio nei confronti di una categoria delimitata di lavoratori autonomi, i collaboratori coordinati e continuativi, iscritti sempre alla gestione separata. A ciò si aggiunga che il principio opera, sulla scorta del tenore letterale della norma, anche nei confronti di lavoratori autonomi che non si vedono versare la contribuzione da parte di altri soggetti, il ché, prefigura una scelta legislativa di assoluta tutela della maternità da parte del sistema di sicurezza sociale, restando del tutto irrilevante la circostanza che il soggetto beneficiario della prestazione, abbia omesso di pagare la contribuzione previdenziale posta a suo carico. 38 Il riconoscimento di tale diritto è condizionato, fra l’altro, all’esistenza di una mensilità di contribuzione, senza che il legislatore, come accaduto per l’indennità di maternità, garantisca l’erogazione della prestazione con l’applicazione del principio di automatismo (art. 2 bis d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81). 39 La mancata menzione in seno al testo legislativo in un senso o nell’altro del principio di automatismo ovviamente non è di alcun aiuto per la risoluzione dell’odierna questione. L’unica considerazione che può farsi attiene da un verso alla circostanza che al momento di pubblicazione del decreto delegato n. 22 del 2015 si deve presumere che era nota la legislatore la problematica. Da altro verso che nella successiva legge di stabilità del 2015, al comma 310 dell’art. 1, si legge che la prestazione sarà riconosciuta dall’Inps in base all’ordine cronologico di presentazione delle domande e nel caso di insufficienza delle risorse lo stesso ente previdenziale non esaminerà ulteriori domande. Orbene pare che le due considerazioni possano deporre a favore della circostanza che il principio di

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Infine, il tasso di complessità del sistema sinora sommariamente delineato, trova ulteriore conferma nel disposto dell’art. 14 della l. 22 maggio 2017, n. 81. Articolo questo che, al terzo comma, riconosce in favore dei lavoratori autonomi, in caso di malattia o infortunio di gravità tale da impedire lo svolgimento dell’attività lavorativa per oltre sessanta giorni, il diritto a sospendere, per l’intera durata del periodo di malattia o infortunio fino a un massimo di due anni, il versamento dei contributi e dei premi40. La situazione variegata sin qui delineata, con riferimento ai soggetti iscrivibili alla gestione separata e con riferimento alle prestazioni riconosciute a costoro o a una parte di essi, trova ulteriore conferma in sede di modalità di pagamento della contribuzione dovuta. Le forme di pagamento che l’ordinamento prevede, nonostante si tratti di lavoratori autonomi, non sono sempre quelle che ordinariamente e per altri lavoratori autonomi sono previste e disciplinate e che pongono a carico dei medesimi l’obbligo di pagamento della contribuzione in loro favore. Infatti, questa forma di pagamento non è applicata nei confronti dei collaboratori coordinati e continuativi41 e di tutti gli altri lavoratori autonomi iscritti alla medesima gestione e per i quali il legislatore, nel disciplinare il rapporto previdenziale, rinvia alla disciplina dei collaboratori predetti. Nei confronti di costoro l’adempimento dell’obbligo contributivo è affidato al soggetto che beneficia dell’attività del lavoratore autonomo, e ciò in parallelismo a quel che accade da prima con riguardo ai lavoratori autonomi coadiutori familiari del lavoratore autonomo imprenditore. Se il modello di pagamento descritto non è peculiare dei collaboratori coordinati e continuativi, ma riguarda altri lavoratori autonomi iscritti alla medesima gestione separata e altri lavoratori autonomi iscritti ad altre gestioni previdenziali, appare fallace affermare che tale modalità è un requisito strutturale tipico del lavoro subordinato ed esclusivo solo dell’attività di lavoro autonomo svolta dai collaboratori coordinati e continuativi e che tale caratteristica pertanto possa giustificare, solo nei confronti di questi ultimi, l’applicazione del principio di automatismo. Mentre, a fronte di tale asserto, si lascia inalterata sotto tale versante la posizione fatta dall’ordinamento alle altre cennate categorie di lavoratori, nonostante anche per esse possa predicarsi l’esistenza dei requisiti legittimanti l’applicazione del principio di automatismo, ovverosia lo svolgimento di un lavoro autonomo nei confronti dello stesso soggetto e l’obbligo di pagamento della contribuzione che non è nella loro disponibilità, essendo lo stesso affidato per legge a chi utilizza la loro prestazione. In conclusione, pare potersi affermare, allo stato della legislazione e dell’interpretazione più ampia predicabile della medesima, che, contrariamente a quanto auspicato dalla giurisprudenza di merito, non vi è alcuno spazio interpretativo che legittimi l’applicazione

automatismo non trovi accesso in sede di riconoscimento della predetta prestazione. La disposizione, pur inserita in un articolo il cui primo comma individua specificamente i lavoratori autonomi beneficiari, facendo riferimento alla circostanza che l’attività è svolta in via continuativa per il committente, appare si riferisca solo ai lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata, che provvedono autonomamente al versamento dei contributi previdenziali e non già a quei lavoratori, sempre iscritti alla predetta gestione, quali i collaboratori coordinati e continuativi, per i quali il versamento della contribuzione sia posto a carico del committente. Altro e diverso confine interpretativo è quello che si potrebbe raggiungere qualora si ritenesse che le regole previste nel predetto articolo possano essere applicate a quei lavoratori autonomi iscritti alla gestione previdenziale artigiani, commercianti, agricoli se la loro attività sia svolta in favore di un unico committente. 41 Fattispecie questa che, dopo la novella legislativa dell’art. 2 del d. lgs. n. 81/15, è destinata a divenire residuale. 40

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tout court a una categoria delimitata di lavoratori autonomi, allorché la posizione lavorativa e previdenziale fatta dall’ordinamento agli stessi è sovrapponibile alla posizione che hanno altri lavoratori autonomi iscritti alla medesima gestione o ad altre gestioni. La soluzione congrua appare essere quella legislativa che, consapevolmente, conduca a uniformare situazioni identiche quali quelle esaminate, ai fini non solo dell’applicazione del principio di automatismo, ma anche della responsabilità del committente che utilizza tali lavoratori, con applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 2116 c.c. L’auspicata prospettiva allargherebbe innovativamente lo spettro di applicazione delle predette regole a tutte le categorie di lavoratori autonomi che prestano la loro opera a favore di un singolo committente tenuto per legge al pagamento della contribuzione nei loro confronti. E ancora, la prospettata soluzione costituirebbe il tassello finale di una ricostruzione sistemica che ha riconosciuto l’utilizzabilità della rendita vitalizia da parte di tutte le categorie di lavoratori autonomi individuati.

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Giurisprudenza commentata



Giurisprudenza C orte di C assazione , ord. 18 settembre 2019, n. 23296; Pres. Nobile – Est. Garri – IVS ITALIA S.P.A. (avv. Toffoletto, Morone, De Luca Tamajo, Salimbeni) c. RM (avv. Rognoni). Conferma App. Genova, sent. n. 584/2013. Lavoro (rapporto) – Rinunzie e transazioni – Differenze retributive spettanti – Lavoro straordinario – Indennità di trasferta – Quietanza a saldo – Negozio di rinunzia – Diritti indeterminabili – Volontà abdicativa – Insussistenza.

La quietanza a saldo – contenente una dichiarazione di rinuncia del lavoratore a non meglio specificate maggiori somme relative ad una serie indeterminata di pretese astrattamente ipotizzabili nei confronti del datore di lavoro in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto – non può assumere il valore di rinuncia o transazione che il lavoratore ha l’onere di impugnare nel termine di cui all’art. 2113 c.c. salvo che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. «– Omissis. Rilevato che convenne in giudizio la IVS ITALIA S.P.A. e chiese l’accertamento del suo diritto ad essere inquadrato nel 30 livello del C.C.N.L. delle imprese commerciali, in luogo del 4° livello riconosciutogli, e la condanna della convenuta al pagamento delle differenze retributive maturate o in subordine al pagamento dei compensi spettanti a titolo di lavoro straordinario che quantificava in Euro 19.918,75. Il Tribunale di Genova respinse le domande. La Corte di appello di Genova, investita del gravame da parte del «– Omissis.» ha accertato che gli era dovuta la somma di Euro 2.162,69, così ridotta la somma per tale titolo dovuta, avendo accertato che il «– Omissis.» aveva sì lavorato mediamente per cinquanta ore settimanali ma che aveva percepito degli importi a titolo di indennità di trasferta che andavano imputati a lavoro straordinario non essendo risultato dimostrato che avesse mai svolto trasferte. Detraeva perciò tali importi dalla somma chiesta e riteneva nel contempo che nessun rilievo poteva essere attribuito alla lettera del 3 agosto 2009 che attribuiva all’indennità di trasferta valore di compenso onnicomprensivo dello straordinario trattandosi di disposizione intervenuta successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro. 2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la IVS ITALIA S.P.A., che articola quattro motivi. Resiste con controricorso «– Omissis.». Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 380 bis 1 cod. proc. civ. Considerato che 3. Il primo motivo di ricorso, con il quale è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 434 cod. proc. civ. per avere la Corte di merito

ritenuto ammissibile l’appello che invece non era sufficientemente specifico non può trovare accoglimento. 3.1. Va premesso che la censura è generica poiché non riporta né il testo della sentenza di primo grado né quello dell’appello e non consente alla Corte di verificare, ex actis, la fondatezza della censura che, peraltro, avrebbe dovuto essere formulata quale error in procedendo ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ. e non come violazione di legge ai sensi del n. 3 della citata disposizione. 3.2. In ogni caso la decisione della Corte di merito è in linea con la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non vi è ragione di discostarsi, che ha ripetutamente affermato che l’art. 434, primo comma, cod. proc. civ., nel testo introdotto dall’art. 54, comma 1, lettera c) bis del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 cod. proc. civ., non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il “quantum appellatum”, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata (cfr. Cass. 05/02/2015 n. 2143, 16/11/2017 n. 27199, 30/05/2018 n. 13535, 12/02/2019 n. 4136).


Giurisprudenza

4. Anche il secondo motivo - con il quale è denunciata la nullità della sentenza per omessa pronuncia sull’eccezione di inammissibilità dell’appello per violazione degli artt. 436 bis e 348 bis cod. proc. civ. così incorrendo nella violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. avendo trascurato di pronunciare, come avrebbe dovuto, su tutta la domanda - è infondato. 4.1. Va rilevato che la Corte di merito ha ritenuto che sussistessero i presupposti per l’accoglimento del gravame ed ha individuato l’errore commesso da parte del giudice di primo grado in una errata gestione delle prove e del materiale probatorio. Ne deriva che, perciò, ha ritenuto assorbite le eccezioni con le quali si sollecitava il rigetto in relazione ad una pretesa manifesta infondatezza del gravame. Va qui ribadito che non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (cfr. Cass. n. 29191 del 2017 relativa proprio ad un caso di implicito rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’appello nella sentenza che aveva valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame). 5. Quanto al terzo motivo di ricorso - con il quale è dedotta la violazione degli artt. 414 comma 1 n. 4 cod. proc. civ. dell’art. 420 comma 5 in relazione all’omessa valutazione complessiva del ricorso alla luce della documentazione in esso richiamata ed all’erronea valutazione di ammissibilità delle prove - rileva la Corte che anche a voler tralasciare la scarsa chiarezza della censura, questa in ogni caso è generica. Pur dolendosi della mancata ammissione di uno dei capitoli di prova articolati (il capitolo 8) e dell’ammissione di altri (cap. 5, 5 a, 5 b) tuttavia non ne riporta il contenuto ed in tal modo è preclusa alla Corte la verifica della denunciata contraddizione. 7. Con il quarto motivo infine è dedotta la violazione dell’art. 2113 primo comma cod. civ. in relazione alla mancata qualificazione della lettera inviata al Montalbano dalla IVS il 3 agosto 2009 e da questi sottoscritta, come rinuncia al compenso per straordinario. 7.1. Ad avviso della ricorrente con la sottoscrizione apposta dal lavoratore, seppure successiva alla cessazione del rapporto, questi avrebbe rinunciato al compenso dello straordinario, rinuncia possibile e valida tenuto conto del fatto che il lavoratore era ben con-

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sapevole dei suoi diritti e l’oggetto della rinuncia era determinabile. 8. La censura non può essere accolta. 8.1. La quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme e che sia riferita, in termini generici, ad una serie di titoli di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione, che il lavoratore abbia l’onere di impugnare nei termini di cui all’art. 2113 cod. civ., alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi; infatti enunciazioni di tal genere sono assimilabili alle clausole di stile e non sono sufficienti di per sé a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell’interessato. (cfr. Cass. 11/07/2001 n. 9407 e 1657 del 2008). Nella dichiarazione liberatoria, per essere ravvisabili gli estremi di un negozio di rinunzia o transazione in senso stretto, è necessario che per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione, o desumibili aliunde, risulti che la parte l’abbia resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti (cfr. Cass. 31/01/2011 n. 2146, 15/09/2015 n.18094 e 06/05/2015 n. 9120). Tale accertamento è riservato al giudice del merito, implicando un apprezzamento di fatto censurabile, in sede di legittimità, solo in caso di violazione dei criteri d’ermeneutica contrattuale o di vizi di motivazione (cfr Cass. 17/05/2006 n. 11536 oltre a quelle già citate cui si aggiunga, tra le tante, in motivazione 24/01/2017 n. 1748). 8.2. Orbene, nel caso di specie, la censura, in disparte la sua rubrica, non deduce alcuna violazione dei canoni di interpretazione limitandosi a proporne inammissibilmente, una lettura diversa. 9. In conclusione il ricorso deve essere complessivamente rigettato e le spese, che sono liquidate in dispositivo, devono essere poste a carico della società soccombente. Omissis.


Ombretta Dessì

Brevi riflessioni in tema di quietanze a saldo miste a rinunzie ai diritti del lavoratore Sommario :

1. Premessa: la controversia sottoposta all’attenzione della Corte di Cassazione. – 2. La questione delle quietanze a saldo o liberatorie miste a rinunzie. – 3. La volontà ricognitiva e/o dispositiva del dichiarante secondo la Corte di Cassazione. – 4. L’assunto sistematico a sostegno dell’orientamento della prevalente giurisprudenza di legittimità: il dato letterale. – 5. Segue: il canone oggettivo-integrativo. – 6. Conclusioni.

Sinossi. La nota all’ordinanza in epigrafe si propone di esaminarne il testo, al fine di verificare la congruità della decisione della Corte di Cassazione rispetto ai principi generali del diritto del lavoro. Per centrare l’obiettivo l’autrice, dopo aver fatto un cenno alla controversia che ne costituisce l’oggetto, analizza in via generale la questione delle quietanze a saldo o liberatorie miste a rinunzie. Successivamente, si concentra sul provvedimento in commento e sulla posizione assunta dai giudici di legittimità in rapporto all’orientamento prevalente al riguardo. Abstract. The note to the order in epigraph aims to examine the text, in order to verify the congruity of the decision of the Court of Cassation with the general principles of labor law. In order to achieve the objective, the author, after having reported the controversy that constitutes its object, analyzes in general the question of balance discharges or disclaimers mixed with renunciations. Subsequently, she focuses on the document in question and on the position taken by the judges of legitimacy in relation to the prevailing orientation in this regard.

1. Premessa: la controversia sottoposta all’attenzione della

Corte di Cassazione.

Con la sentenza n. 23296 del 18 settembre 2019, la Corte di Cassazione riesamina un tema classico del diritto del lavoro, vale a dire la quietanza a saldo mista a rinunzia sottoscritta dal lavoratore e rilevante ai sensi dell’art. 2113 c.c. La controversia verte sul ricorso giudiziale con il quale un lavoratore ha preteso l’accertamento del suo diritto ad essere inquadrato in un livello professionale del C.C.N.L. superiore a quello riconosciutogli. In aggiunta, ha chiesto la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive maturate, o in subordine, al pagamento dei compensi a lui spettanti a titolo di lavoro straordinario.

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Giurisprudenza

L’azienda si è costituita in giudizio e ha chiesto il rigetto del ricorso, sul presupposto che il dipendente avrebbe validamente rinunciato a maggiori somme imputabili ad una serie di pretese astrattamente ipotizzabili in relazione alla prestazione resa. Avendo il Tribunale di primo grado respinto le domande, lo stesso lavoratore ha investito del gravame la Corte d’Appello, la quale ha accertato che gli era dovuta una somma di gran lunga inferiore, perché le ore di lavoro svolte gli erano state pagate. Secondo i giudici di secondo grado l’avvenuto pagamento, che risultava da lui percepito sotto forma di indennità di trasferta, avrebbe dovuto essergli imputato a titolo di lavoro straordinario, non essendo stato dimostrato che avesse mai svolto trasferte. Infatti, gli stessi giudici hanno ritenuto irrilevante la lettera del 3 agosto 2009, sottoscritta dal lavoratore, che attribuiva all’indennità di trasferta valore di compenso onnicomprensivo dello straordinario. Il datore di lavoro ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, individuando, tra i motivi giustificativi dello stesso, la mancata qualificazione della suddetta lettera come valida rinunzia al compenso per lavoro straordinario. Ad avviso del ricorrente, infatti, sottoscrivendola, seppure dopo la cessazione del rapporto, il lavoratore ha validamente espresso una volontà abdicativa al riguardo, essendo ben consapevole dei suoi diritti, ritenuti determinabili. La Corte di Cassazione, confermando la decisione della Corte d’Appello, afferma che la quietanza a saldo o liberatoria sottoscritta dal lavoratore può assumere valore dismissorio. La ragione è che contiene una dichiarazione di rinunzia a maggiori somme, riferita, in termini generici, ad una serie di titoli e pretese relative al rapporto di lavoro ed alla conclusione dello stesso. Ha, quindi, accertato che è stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi. L’accertamento, naturalmente, è riservato al giudice di merito, implicando un apprezzamento di fatto censurabile, in sede di legittimità, solo in caso di violazione dei criteri d’ermeneutica contrattuale o di vizi di motivazione. Secondo la sentenza, infatti, le enunciazioni contenute nelle quietanze sono assimilabili alle clausole di stile e sono sufficienti, di per sé, a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell’interessato. Pertanto, il negozio di rinunzia invalido si segnala per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione o altrimenti desumibili.

2. La questione delle quietanze a saldo o liberatorie miste a rinunzie.

Un profilo che deve essere esaminato nell’ambito di un commento all’ordinanza in epigrafe è quello della relazione tra le quietanze a saldo o liberatorie e le rinunce del lavoratore di cui all’art. 2113 c.c.

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Per risolvere il problema, che nel corso degli anni è stato oggetto di un’ampia considerazione da parte della dottrina e della giurisprudenza1, si deve preliminarmente chiarire che cosa si intenda con l’espressione “quietanze a saldo” o “quietanze liberatorie”, quale sia la disciplina in materia e quando assumano un’efficacia dispositiva. La quietanza consiste in un’attestazione mediante la quale il lavoratore afferma di aver ricevuto dal datore di lavoro una determinata somma di denaro, idonea a saldare quanto dallo stesso (datore) dovuto2. Ad essa si aggiungono, spesso, contemporanee dichiarazioni liberatorie (per il datore di lavoro), con cui il prestatore asserisce di non avere più nulla da pretendere3. Dato che si riferiscono al precorso rapporto di lavoro, infatti, può capitare che quest’ultimo le impieghi al solo ed unico scopo di rinunziare comunque a qualsiasi altra pretesa4. La disciplina dell’istituto deve essere ricercata in seno all’art. 1199 c.c., in virtù del quale il debitore può pretendere che il creditore attesti l’avvenuto pagamento, liberandolo dal debito. Posto ciò, la quietanza si connota come una dichiarazione di scienza, priva di rilievo negoziale, e costituisce la prova documentale del pagamento. Si distingue, quindi, dalla rinunzia, che, invece, consiste in una libera manifestazione di volontà negoziale con cui il lavoratore dismette un diritto di cui è titolare, senza alcuna formalità5. Posta questa premessa, occorre stabilire quando le quietanze a saldo siano qualificabili come rinunzie e quando, quindi, siano riconducibili all’ambito di applicazione dell’art. 2113 c.c. Il problema non si pone se il lavoratore le contesta nel termine di sei mesi e nelle forme ivi previste, poiché in tal caso la dichiarazione può essere caducata. Se, invece, decide di impugnarle dopo che il termine di decadenza sia decorso inutilmente, si deve verificare se essa corrisponda a un’attestazione di scienza o a una rinunzia6. Non sembrano esistere dubbi circa l’interpretazione della natura delle affermazioni indicanti che il lavoratore ha ricevuto determinati emolumenti da parte del datore di lavoro. Queste ultime non si configurano come negozi giuridici7, ma come manifestazioni con le quali questi asserisce di aver ricevuto quanto dovutogli8 e di non avere più nulla da pre-

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In questi termini Magnani, Disposizione dei diritti, in DDP comm., 1990, V, 62; Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, Art. 2113 c.c., Giuffrè, 1990, 56. Sulle quietanze a saldo nel diritto del lavoro cfr. Scarano, Tra scienza e volontà: appunti sulla rilevanza negoziale della quietanza mista a rinunzia, in ADL, 2010, n. 4-5, 870 ss.; Gambacciani, L’efficacia delle dichiarazioni di quietanza, in MGL, 2010, 718 ss. Si vedano anche Richard, In tema di clausole liberatorie apposte a quietanze, in RDL, 1957, II, 218 ss.; Natoli, In tema di interpretazione delle cosiddette quietanze liberatorie, in RGL, 1957, II, 217 ss. Circa gli effetti della fattispecie nel rapporto di lavoro, si considerano ancora attuali Benanti, Sul valore negoziale delle cosiddette quietanze liberatorie nel diritto del lavoro, in RGL, 1959, I, 1 ss.; Napoletano, Le quietanze liberatorie nel rapporto di lavoro, Giuffrè, 1953, 1 ss. Sul punto si rinvia a De Litala, Rinunce e transazioni in materia di contratto di lavoro con particolare riferimento alle quietanze a saldo, in DE, 1956, 999 ss.; Brunetti, Quietanze, rinunzie e transazioni nei rapporti di lavoro, in MGL, 1965, n. 1, 23 ss. In materia si considerano ancora attuali Bozzi, voce Rinuncia (diritto pubblico e privato), in NDI, 1968, XV, 1141; Piras, La rinunzia nel diritto privato, Jovene, 1940. In proposito cfr. Cosattini, Rinunzie e transazioni, in Diritto del Lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, III, Utet, 2007, 687 e 705. In questi termini anche Aranguren, La tutela dei diritti del lavoratore, in Mazzoni (diretto da), Enciclopedia giuridica del lavoro, VII ed., Cedam, 1981, 67; Cester, Rinunzie e transazioni (diritto del lavoro), in EP, XL, 1989, 1001; Pera, op. cit., 54 ss. In questi termini si veda sia la giurisprudenza di legittimità (Cass., 1 giugno 2004, n. 10537, in OGL, 2004, I, 397; Cass., 14 ottobre 2003, n. 15371, in GC Mass, 2003, 10; Cass., 11 ottobre 1989, n. 4064, in DPL, 1989, 2957, con nota di D’Avossa; Cass., 25 febbraio 1988, n. 2009, in NGL, 1988, 400; Cass., 10 marzo 1987, n. 2491, in DPL, 1987, 2245) sia la giurisprudenza di merito (App. Ancona, 22 dicembre 2003, in DLMarche, 2004, 82).

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tendere9. Inoltre, essendo tali dichiarazioni di scienza prive di rilevanza giuridica, nulla impedisce a chi le ha effettuate di agire per la differenza o per i crediti non soddisfatti. L’eventuale impugnazione, con il limite del termine di prescrizione, è ipotizzabile solo se il dichiarante si è accorto che il suo originario convincimento era erroneo. In relazione a ciò la quietanza acquista il rilievo di una confessione, ai sensi dell’art. 2732 c.c., e può essere revocata solo per violenza o per errore di fatto10. L’indagine si rivela più difficile, invece, se è diretta a stabilire quale sia la natura delle dichiarazioni aventi una funzione genericamente “liberatoria”, che si accompagnano a quelle “ricognitive”11. Secondo l’impostazione prevalente, le attestazioni liberatorie acquisiscono un contenuto di volta in volta differente, cioè che varia al variare del negozio giuridico posto in essere dalle parti12. Non è questa la sede idonea all’analisi dei problemi interpretativi al riguardo, anche se sono di estremo interesse sul piano teorico-ricostruttivo e degli effetti pratici derivanti dall’una o dall’altra soluzione. I dubbi sono due: chiarire se le dichiarazioni liberatorie possano o meno racchiudere manifestazioni di volontà dispositiva; isolare i criteri idonei alla valutazione del tenore delle medesime. In generale, non sembra potersi evincere dalle quietanze liberatorie l’espressione di una volontà dispositiva13, perché, se così fosse, risulterebbe «che (…) sia stata rilasciata con la (…) consapevolezza di specifici diritti e con il cosciente intento di abdicare ai primi»14. Ciò significa che simili dichiarazioni, in ragione della loro estrema genericità, non devono essere intese come atti unilaterali contenenti una rinuncia del lavoratore a diritti di credito rientranti nella sua titolarità15. Può accadere, tuttavia, che si configurino come manifestazioni di volontà dismissoria del lavoratore quando constano di affermazioni esplicite, più significative di quelle normalmente adoperate in tali documenti. In particolare, per essere configurate in questi termini devono evidenziare la presenza di un reale intento abdicativo e di circostanze concomitanti egualmente idonee a denunziare il concreto proposito dismissorio del lavoratore16. In sintesi, come meglio si vedrà nelle pagine che seguono, l’attribuzione ad una quietanza della natura di mera dichiarazione di scienza o di vera e propria manifestazione

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Così Cass., 27 maggio 1996, n. 4872, in LG, 1996, 951 (concernente un rapporto di agenzia); Cass., 15 dicembre 1994, n. 10762, in GC Mass, 1994, 12; Cass., 10 giugno 1993, n. 6473, in DPL, 1993, 2463; Cass., 9 dicembre 1992, n. 12983, in DPL, 1993, 352. 10 Sul punto cfr. Aranguren, op. cit., 69 ss.; Cester, op. cit., 1001; Ferraro, Rinunzie e transazioni del lavoratore, in EGT, XXVII, 1991, 4. 11 Le quietanze a saldo costituiscono l’oggetto di opinioni dottrinali divergenti, per l’analisi delle quali si veda Smuraglia, Il comportamento concludente nel rapporto di lavoro, Giuffrè, 1963, 123 ss., note 41, 42, 43, 44 e 45. 12 Sul tema cfr. Smuraglia, op. cit., 123 ss. 13 In questi termini anche Magnani, op. cit., 62. 14 Cass., 10 giugno 1993, n. 6473, cit. Sul punto cfr. Cass., 16 maggio 2006, n. 11356, in www.iureconsult.com/areeatema/contratti/ caparra_confirmatoria/index.htm; Cass., 25 febbraio 1995, n. 2220, in LG, 1995, 780; Cass., 1 gennaio 1987, n. 8921, in RFI, 1987, voce Lavoro (rapporto), 2083. 15 Secondo un orientamento riconducibile alla giurisprudenza di merito una quietanza liberatoria rileva come manifestazione di una volontà abdicativa qualora contenga l’indicazione precisa e dettagliata dei diritti ai quali il lavoratore intende rinunciare (Pret. Milano, 26 agosto 1994, in OGL, 1994, 582) o, in aggiunta, dell’espressa riserva di azione per un ulteriore titolo (Pret. Roma, 8 giugno 1991, in RIDL, 1992, II, 493, con nota di Bartesaghi). 16 Cass., 4 marzo 1986, n. 1367, riportata da Magnani, op. cit., 63. Cfr. anche Cass., 22 luglio 1998, n. 7306, in www.cortedicassazione.it; Cass., 11 luglio 2001, n. 9407, in www.cortedicassazione.it; Cass., 12 luglio 2002, n. 10193, in www.csmb.unimore.it.

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di volontà dispositiva appare come una questione d’interpretazione sia delle espressioni letterali concretamente utilizzate sia del più generale contesto in cui avviene la sottoscrizione17.

3. La volontà ricognitiva e/o dispositiva del dichiarante

secondo la Corte di Cassazione.

Il secondo passo della riflessione concerne l’analisi dell’orientamento, seguito dalla Cassazione nell’ordinanza in commento, rispetto alla rilevanza giuridica della dichiarazione di avvenuto pagamento. Le pronunce giudiziali riguardanti le prime manifestazioni del fenomeno risalgono al periodo probivirale18, mentre in età corporativa si afferma la tendenza della Suprema Corte a considerarle come dichiarazioni di scienza19. Pochi anni più tardi, tuttavia, la giurisprudenza di merito comincia a dubitare dell’efficacia meramente ricognitiva delle quietanze20. Getta, così, le basi dell’orientamento più diffuso presso quella di legittimità, per il quale queste ultime, anche se ricognitive, esprimono una volontà dispositiva se rispondono a certe condizioni21. Secondo l’ordinanza in esame, in linea con l’opinione prevalente della Cassazione, la dichiarazione di avvenuto pagamento del lavoratore ha efficacia negoziale, anziché attestativa, solo se presenta alcuni requisiti indispensabili22. Si tratta della consapevolezza del lavoratore di essere titolare di diritti determinati o determinabili e del suo intento di abdicarvi. Non basta, quindi, il riferimento generico ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione eseguita e alla conclusione del rapporto di lavoro. Occorre, invece, che il giudice di merito accerti tali requisiti in base alla formulazione letterale della quietanza o ad altre specifiche circostanze desumibili aliunde23.

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Un orientamento giurisprudenziale non troppo recente sostiene che l’accertamento della natura dichiarativa o negoziale della quietanza a saldo competa al giudice di merito e che sia insindacabile dinanzi alla Corte di Cassazione quando sia sorretta da una motivazione congrua e immune da vizi logici o giuridici (cfr. Cass., 5 dicembre 1997, n. 12374, in NGL, 1998, 93; Cass., 9 luglio 1983, n. 4667, in GC, 1983, I, 3219; Cass., 22 giugno 1982, n. 3812, in GC, 1983, I, 217). 18 Cfr. Redenti, Massimario della giurisprudenza dei probiviri, IBS, 1906, ripubblicato di recente (Caprioli (a cura di), Massimario della giurisprudenza dei probiviri (Roma, 1906), Giappichelli, 1992). 19 Per la giurisprudenza di legittimità cfr. Cass., 18 novembre 1938-5 gennaio 1939, n. 17, in ML, 1939, 184 ss.; Cass. Regno, 16 febbraio-22 marzo 1937, in GLav, 1937, 302 ss.; Cass. Regno, 25 novembre-21 dicembre 1936, in GLav, 1936, 511 ss. Per la giurisprudenza di merito cfr. Trib. Milano, 3-19 luglio 1940, in GLav, 1940, 228 ss.; Trib. Foggia, 20 novembre 1933, in RIPPMC, 1933, 29 ss. Cfr. anche Pret. Brescia, 6-12 ottobre 1936, in GLav, 1937, 292 ss. 20 Cass., 13 maggio 1941, n. 1434, in RGL, 1941, 488 ss.; Cass., 29 marzo 1940, n. 1034, in RGL, 1940, 264 ss.; Cass., 11 gennaio 1939, n. 56, in RGL, 1939, 44 ss. 21 Al riguardo cfr. la giurisprudenza citata da Scarano, op. cit., 888 ss. 22 Così Pera, op. cit., 51; Smuraglia, op. cit., 123 ss.; Napoletano, op. cit., 21 ss. 23 Cfr. Cass., 25 gennaio 2008, n. 1657, in GC Mass, 2008, 90 ss.; Cass., 15 giugno 2006, n. 15792, in RGL, 2006, II, 622 ss., con nota di Zitti; Cass., 20 ottobre 2004, n. 20516, in NGL, 2005, 240 ss.; Cass., 1 giugno 2004, n. 10537, cit.; Cass., 12 luglio 2002, n. 10193, cit.; Cass., 13 dicembre 1999, n. 13975, in GC Mass., 1999, 2515 ss.; Cass., 8 novembre 1999, n. 12411, in OGL, 1999, 996 ss.; Cass., 11 gennaio 1999, n. 206, in NGL, 1999, 243 ss.

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Nel provvedimento in epigrafe i giudici di legittimità non affrontano la questione, per cui appare opportuno comprendere quali siano le ragioni di una simile presa di posizione. Si reputa significativo il fatto che essi non si esprimano riguardo alla violazione degli artt. 1341 e 1342 c.c. quale motivo giustificativo dell’impugnazione della sentenza della Corte d’Appello. Dato il suddetto riserbo, ci si chiede se la normativa ivi contemplata possa essere impiegata per individuare l’eventuale efficacia dispositiva della dichiarazione di avvenuto pagamento. Nell’unica ipotesi in cui il ricorrente ha utilizzato l’inosservanza, da parte del giudice di secondo grado, dell’art. 1342 c.c. come motivo di impugnazione della decisione di secondo grado, la Suprema Corte si è trovata di fronte ad una quietanza dal contenuto generico24. Secondo il lavoratore la Corte d’Appello, in quell’occasione, non è riuscita a dimostrare che egli fosse consapevole del proprio diritto e che intendesse rinunciarvi. Essa avrebbe, quindi, travisato del tutto il concetto di determinatezza e/o determinabilità dell’oggetto della pretesa rinunzia da parte sua. Inoltre, avrebbe frainteso quello dell’analiticità dei titoli oggetto del citato negozio abdicativo, rinvenibile, tra l’altro, su un modulo predisposto dal datore di lavoro. La stessa, infatti, non farebbe riferimento ad una specifica pretesa avanzata nei confronti dell’azienda, ma a tutte le possibili pretese dei dipendenti nei suoi confronti. Mancherebbe, inoltre, al suo interno, l’indicazione della somma a cui il lavoratore avrebbe rinunciato, eventualmente desumibile dalla percentuale di invalidità coinvolta. Infatti, in base a quanto si evince dalla quietanza, l’importo, del cui percepimento la stessa dà atto, sarebbe solo quello dovutogli al termine del rapporto di lavoro. A conferma di ciò, il ricorrente richiama alcune decisioni della Cassazione, che imporrebbero un estremo rigore nella valutazione della sua volontà abdicativa25. Il silenzio dei giudici di legittimità in merito al ruolo che la normativa in parola potrebbe svolgere per chiarire il dubbio sull’efficacia della dichiarazione di avvenuto pagamento ha una sua ragion d’essere26. Probabilmente, è dovuto al fatto che gli artt. 1341 e 1342 c.c. sono rivolti alla ricostruzione dell’intento negoziale del lavoratore dichiarante. Pertanto, se accertano l’assenza di una volontà dispositiva all’interno della quietanza, gli stessi giudici reputano fuori luogo ogni richiamo alla normativa ivi prevista27. L’unica circostanza che potrebbe integrarne i presupposti pare essere quella in cui l’azienda adempie dopo che il lavoratore ha sottoscritto la quietanza. Se la premessa sussiste, si tende a interpretare la dichiarazione contrariamente agli interessi di chi l’ha predisposta, in base al rinvio che l’art. 1342 c.c. effettua all’art. 1370 c.c.28. Appare evidente, comunque, come la più diffusa giurisprudenza di legittimità non concordi con tale orientamento, tanto da non prenderlo neppure in considerazione. Il motivo che sembra essere alla base di tale presa di posizione

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Cass., 14 dicembre 2009, n. 26165, in D&L, 2010, I, 137 ss. Cfr. Cass., 11 luglio 2001, n. 9407, in MGL, 2001, 842 ss.; Cass., 15 dicembre 1994, n. 10762, in GC Mass, 1994, 12; Cass., 1 dicembre 1987, n. 8921, in GC Mass, 1987, fasc. 12; Cass., 30 luglio 1987, n. 6615, in GC Mass, 1987, fasc. 7. 26 In senso favorevole all’idoneità degli artt. 1341 e 1342 c.c. a fungere da criteri di tutela del lavoratore in caso di quietanza mista a rinunzia o transazione cfr. Scarano, op. cit., 879. 27 Cfr. Cass., 21 maggio 1986, n. 3379, in GC Mass, 1986, n. 5. 28 Cfr. Ziccardi, Interpretazione. III. Interpretazione del negozio giuridico, in EGT, XVII, 1989, 7. 25

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è l’esclusione delle rinunzie dal novero delle clausole richiamate dagli artt. 1341 e 1342 c.c.29. Non per nulla la tesi ha avuto un riscontro minimo non solo presso la Cassazione ma anche in dottrina30, mentre è stata accolta solo da una risalente giurisprudenza di merito31.

4. L’assunto sistematico a sostegno dell’orientamento della prevalente giurisprudenza di legittimità: il dato letterale.

Un ulteriore aspetto che merita di essere approfondito è quello dell’assunto sistematico a sostegno dell’orientamento della prevalente giurisprudenza di legittimità in materia. Dall’ordinanza in nota emerge che un apprezzamento di fatto censurabile, in sede di legittimità, circa l’efficacia della quietanza è ammesso solo in caso di violazione dei criteri d’ermeneutica contrattuale o di vizi di motivazione32. Per risolvere la questione, quindi, la Cassazione si rifà alla disciplina codicistica generale sull’interpretazione del contratto (artt. 1362-1371 c.c.). Ciò significa che ricerca gli elementi giustificativi delle sue convinzioni nel testo della stessa o aliunde, con un’esegesi caratterizzata da una fase soggettiva e da una oggettiva. Posto il riferimento all’iter seguito, la Suprema Corte sembra aver proceduto, inizialmente, ad un’interpretazione “soggettiva”, ricostruendo la volontà del dichiarante in base al dato testuale33 (artt. 1362-1365 c.c.). Secondo l’ermeneutica formale, in quello stadio le estrinsecazioni del lavoratore sono intese come clausole di stile, alle quali è assegnato un significato letterale34. Una simile conclusione si evince dal fatto che, secondo i giudici di legittimità, i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un vero e proprio principio di gerarchia. In forza di quest’ultimo, in sostanza, i modelli strettamente interpretativi (artt. 13621365 c.c.) prevalgono su quelli interpretativi-integrativi (artt. 1366-1371 c.c.). La suddetta prevalenza comporta che la concreta applicazione dei criteri di carattere soggettivo risulti, da sola, sufficiente a rendere conto della comune intenzione delle parti35. Nell’ambito di esso, inoltre, si impone il criterio fondato sul significato letterale delle parole, di cui all’art. 1362, comma 1, c.c. La conseguenza è che quest’ultimo può, in alcuni casi, orientare in maniera conclusiva, vale a dire da solo, l’operazione esegetica in commento. Nell’ipotesi in cui il dato letterale sia ambiguo, invece, si rende necessario ricorrere agli altri canoni

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Cfr. Cass., 29 ottobre 1988, n. 5889, in GC Mass, 1988, n. 10. Cfr. Napoletano, op. cit., 218. 31 Cfr. App. Milano, 20 marzo 1954, in DL, 1955, II, 22 ss.; App. Messina, 16 maggio 1953, in DL, 1954, II, 121 ss.; Trib. Lucca, 22 marzo 1957, in GI, 1957, I, 221 ss.; Trib. Napoli, 14 febbraio 1956, in RGL, 1956, II, 269 ss. 32 Cfr., per tutte, Cass., 25 febbraio 1988, n. 2009, cit.; Cass., 20 febbraio 1988, n. 1806, in NGL, 1988, 266 ss. 33 Cfr. Cass., 24 giugno 2009, n. 14864, in GC Mass, 2009, 976 ss. Si veda anche Cass., 25 febbraio 1988, n. 2009, cit. 34 Cfr. Delle Noci, In tema di quietanza a saldo, in GM, 1981, I, 970 ss.; De Litala, op. cit., 999 ss. 35 Cfr., al riguardo, Cass., 9 febbraio 2006, n. 9553, in www.cortedicassazione.it. 30

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strettamente interpretativi, in particolare a quello di cui all’art. 1363 c.c. sull’interpretazione complessiva delle clausole36. Posto ciò, quando desume la presenza o meno di una volontà dispositiva in seno a una quietanza liberatoria, la Cassazione si premura di analizzarne compiutamente il dato letterale. A tale scopo coniuga termini normalmente indicativi di una dichiarazione di scienza a causali molteplici e indicate in maniera congiunta37, sebbene abbiano un effetto sovrapponibile38. Si esclude che la medesima sia esaminata adeguatamente se si riferisce a diritti risarcitori indicati con il rinvio alla disciplina codicistica generale e qualificati come eventuali39. L’adesione della Suprema Corte all’orientamento prevalente rende necessario soffermarsi su alcune criticità che, visto il modello ermeneutico prescelto, possono caratterizzare l’ordinanza in commento. Anzitutto, con l’impiego del canone soggettivo la Cassazione può trovarsi dinanzi ad un testo essenziale, ossia che indica il riconoscimento del pagamento e la liberazione del datore di lavoro dall’obbligazione. In alternativa, il contenuto dell’atto unilaterale in parola può essere analitico, cioè può fornire notizie ulteriori sulle affermazioni del lavoratore. Per quanto concerne gli addebiti, invece, essa rileva che non sempre le quietanze a saldo o liberatorie si riferiscono a tutte le imputazioni a carico del dichiarante. Dal che si evince che quest’ultimo può avanzare ulteriori pretese, purché vanti, nei confronti del datore di lavoro, un credito non quietanzato40. Bisogna, inoltre, considerare, sull’onda di quanto asserito in precedenza, che non sempre la dichiarazione di avvenuto pagamento riporta chiaramente la prestazione eseguita e l’obbligazione a cui si riferisce41. L’ambiguità del rinvio ai suddetti requisiti si reputa problematica, perché può indurre il giudice a decretarne la mancanza, esponendo la quietanza a nullità42. Il che non sorprende, perché entrambi hanno un’importanza centrale per la ricostruzione della volontà del dichiarante da parte della Cassazione. Infatti, la prima appare utile a individuare la consapevolezza, da parte del lavoratore, dei suoi diritti determinati o determinabili, mentre la seconda può servire ai fini della valida espressione della sua volontà. Un ulteriore aspetto degno di nota è dato dalla formulazione dell’attestazione di scienza in questione dal punto di vista strettamente linguistico, perché le clausole in uso sono varie e diverse43. Non sempre si può accertare se la quietanza si connoti o meno come un mo-

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Cfr. Cass., 10 marzo 2008, n. 6366, in RFI, 2008, Lavoro (rapporto), n. 921, 3890; Cass., 28 agosto 2007, n. 18180, in MGI, 2007, 1536. Si pensi all’espressione “dichiara di essere stato tacitato”, che compare spesso nelle quietanze a saldo o liberatorie facenti capo al lavoratore. 38 Si vedano, a questo proposito, le formule “anche in via di transazione”, “stralcio e rinuncia”, etc. 39 Cass., 18 aprile 2008, n. 10218, in www.cortedicassazione.it. 40 Per la giurisprudenza di legittimità Cass., 9 dicembre 1992, n. 129883, cit.; Cass., 19 gennaio 1990, n. 296, in DPL, 1990, 81 ss. Per quella di merito Trib. Bari, 1° ottobre 1997, in FI, 1998, I, 920 ss. 41 Cfr. Cass., 13 gennaio 2001, n. 429, in Rep.GL, 2004, n. 709 ss. 42 Cfr. Cass., 26 maggio 2006, n. 12561, in NGL, 2006, 695 ss. 43 Cfr. Ianniruberto, Rinunce e transazioni e quietanze a saldo nel diritto del lavoro, Pem, 1969; Brunetti, op. cit., 23 ss.; Sandulli, Questioni in materia di quietanze liberatorie rilasciate dal lavoratore, in FI, 1961, I, 822 ss. 37

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dello standardizzato e predisposto «burocraticamente in sede amministrativa aziendale»44. Il chiarimento del dilemma appare fondamentale, perché, quando si conforma in tal modo, la stessa è interpretata in senso contrario agli interessi del predisponente45 (art. 1370 c.c.). Un’altra evidenza importante sembra essere l’assenza o meno, all’interno della dichiarazione di avvenuto pagamento, di un richiamo testuale al concetto di “rinunzia”46. Per quanto nel diritto del lavoro il principio del nomen iuris non rilevi47, si ritiene che la sua presenza faciliti l’accertamento dell’efficacia dismissoria della quietanza48. Al contrario, se il concetto non compare, la Suprema Corte, spesso, reputa quest’ultima irrilevante come negozio dispositivo, inquadrandola come attestazione di scienza49. Occorre, comunque, precisare che il rinvio letterale al concetto di rinunzia non comporta necessariamente la presenza di una volontà negoziale. Allo stesso modo, essa può riscontrare l’intento dismissorio di chi ha rilasciato la quietanza, nonostante l’assenza di qualunque riferimento testuale in tal senso50.

5. Segue: il canone oggettivo-integrativo. Dalla lettera dell’ordinanza in epigrafe non emerge alcun riferimento della Suprema Corte all’impiego del metodo oggettivo-integrativo per risolvere la questione della quietanza mista a rinunzia. In base al criterio gerarchico menzionato, solo se la prima fase ha un esito incerto51, i giudici di legittimità proseguono l’indagine52, avente lo stesso scopo, mediante il ricorso ad un’interpretazione “oggettiva”53 (artt. 1366-1371 c.c.). Quest’ultima, di carattere eventuale, è “logica”, perché implica il tentativo di ricostruire la volontà del dichiarante sulla base di parametri diversi dalla lettera della quietanza54. Pertanto, la Cassazione, per garantire una

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Pera, op. cit., 56. Sul punto Brunetti, op. cit., 38 ss.; Napoletano, op. cit., 17 ss. Si veda anche Pret. Napoli, 10 luglio 1992, in D&L, 1992, n. 1, 153 ss.; Trib. Milano, 5 luglio 1974, in RGL, 1975, n. 6, II, 1059 ss. 46 Cfr. Cass., 26 settembre 2006, n. 20867, in D&L, 2007, 15 ss.; Cass., 17 maggio 2006, n. 11536, cit.; Cass., 26 maggio 2004, n. 10172, in GC Mass, 2004, 5 ss. 47 Nello stesso senso Cass., 20 novembre 1997, n. 11581, in NGL, 1997, 806 ss.; Cass., 30 luglio 1987, n. 6615, in GC Mass, 1987, fasc. 7. Contra, Cass., 22 giugno 1982, n. 3812, in GC, 1983, I, 217 ss. 48 Cfr. Cass., 25 luglio 1998, n. 7306, cit.; Cass., 13 giugno 1998, n. 5930, in D&L, 1998, 1003 ss.; Cass., 14 gennaio 1998, n. 304, in NGL, 1998, 218 ss.; Cass., 5 dicembre 1997, n. 12374, in NGL, 1998, 93 ss.; Cass., 11 ottobre 1989, n. 4064, cit.; Cass., 7 luglio 1981, n. 4465, in GC, 1981, I, 2510 ss.; Cass., 21 aprile 1979, n. 2256, in RGL, 1979, II, 934 ss. 49 Per la giurisprudenza di legittimità Cass., 4 maggio 1999, n. 4442, in www.cortedicassazione.it; Cass., 1 dicembre 1987, n. 8921, in GC Mass, 1987, fasc. 12. Per quella di merito Trib. Milano, 5 luglio 1974, in RGL, 1975, II, 1059; Trib. Pistoia, 4 marzo 1999, in D&L, 1999, 648 ss., con nota di Balli, Quietanze a saldo e onere della prova del mancato pagamento della somma indicata. 50 Cfr. Cass., 3 marzo 1999, n. 1787, in RCP, 2000, 1073 ss., con nota di Coppola, Prova del contratto di transazione ed atto di quietanza; Cass., 26 gennaio 1995, n. 933, in GI, 1995, I, 2075 ss. 51 Cfr. Ziccardi, op. cit., 6. 52 Le espressioni “filologica” e “grammaticale” sono di Ziccardi, op. cit., 3 ss. 53 Cfr. Cass., 11 luglio 2001, n. 9407, cit.; Cass., 22 aprile 1995, n. 4563, in Labor, 1995, II, 964 ss.; Cass., 14 gennaio 1986, n. 157, in AC, 1986, 508 ss. 54 Cfr. Cass., 21 ottobre 2005, n. 20449, in GC Mass, 2005, 10 ss. 45

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buona esegesi55, tiene conto non di quest’ultima, ma di altre specifiche circostanze, connesse all’intento del dichiarante, desumibili aliunde56. In particolare, dà rilievo ad alcuni episodi, come il fatto che la stessa sia stata predisposta oppure no in un modulo prestampato dal datore di lavoro. Ancora, tiene conto dell’istante in cui la stessa è stata rilasciata, dello scopo che la giustifica e della sua sottoscrizione da parte di un lavoratore isolato e non assistito57. Secondo una tendenza emersa in concomitanza con l’affermarsi dell’orientamento prevalente, talvolta il ricorso al modello interpretativo-integrativo è effettuato primariamente dai giudici di legittimità58. Ciò significa che essi manifestano sin dall’inizio un totale distacco dal testo delle quietanze, concentrandosi sul contesto in cui la volontà del dichiarante è maturata59. Il problema, tuttavia, è che il superamento della rigorosa e gerarchica applicazione dei canoni ermeneutici di tipo testuale è puramente formale60. Infatti, gli stessi giudici ribadiscono l’importanza del parametro grammaticale, dichiarando di servirsi del modello oggettivo-integrativo quando quello letterale è ambiguo61. Nonostante l’impiego di tale fictio iuris si basi sull’equivocità del dato testuale, anche quando le clausole di stile sono chiarissime62, si registra il superamento del carattere ancillare dell’interpretazione oggettivo-integrativa63. La conseguenza è che l’esegesi di tipo soggettivo-letterale perde la sua priorità ed è relegata in una posizione secondaria, divenendo più o meno irrilevante. Per effetto di tale capovolgimento di fronte il perno della ricostruzione è il contesto in cui la dichiarazione di avvenuto pagamento è resa dal lavoratore64. Il problema del ricorso al meccanismo interpretativo oggettivo è che può rivelarsi controproducente per il prestatore, perché i giudici di legittimità trascurano l’analisi del testo della quietanza65. Pertanto, nell’ipotesi in cui la stessa contenga un rimando all’intento dispositivo del dichiarante, che, però, non emerge dal contesto, quest’ultimo è considerato inesistente66. Il paradosso è che, in tale situazione, l’onere di provare che il documento non ha rilevanza negoziale, per annullarne il contenuto, non spetta al lavoratore. Si ravvisa, invece, in capo al datore di lavoro il compito di dimostrare che si tratta di una dichiarazione di scienza operata in assenza di qualunque sollecitazione da parte sua67. Una simile conclusione desta perplessità, perché sembra che la “presunzione d’inesistenza di una volontà dispositiva” sia il frutto di una “valutazione dell’ordinamento”68. In

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Al riguardo Prosperetti, Considerazioni sulla funzione regolatoria della quietanza a saldo, in MGL, 1976, 377 ss. Così, per tutti, Scarano, op. cit., 877. 57 Cfr. Cass., 14 dicembre 2009, n. 26165, cit. 58 Cfr. Scarano, op. cit., 887. 59 Cfr. Cass., 8 novembre 1999, n. 12411, cit.; Cass., 21 aprile 1979, n. 2256, cit. 60 Nel senso di un’interpretazione rigida delle quietanze liberatorie Natoli, op. cit., 216 ss. 61 La tendenza a trascurare il dato letterale si riscontra già in Cass, 21 aprile 1979, n. 2256, cit. 62 Cfr. Cass., 14 dicembre 2009, n. 26165, cit. 63 Si veda Scarano, op. cit., 888. 64 Si veda Cass., 1 dicembre 1987, n. 8921, cit. 65 Così Scarano, op. cit., 888. 66 Cfr. Cass., 2 novembre 1993, n. 10793, in RIDL, 1994, II, 707 ss. 67 Cass., 2 novembre 1993, n. 10793, cit. 68 Così, per tutti, Scarano, op. cit., 889. 56

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altre parole, l’idea è che la Suprema Corte reputi improbabile che, nel momento in cui il datore di lavoro paga quanto dovuto, il lavoratore intenda disporre di diritti non soddisfatti. Per ovviare a simili inconvenienti, la giurisprudenza di legittimità dovrebbe impiegare il modello esegetico integrativo-oggettivo, senza, però, trascurare la lettera della dichiarazione sottoscritta dal lavoratore. Se, da un lato, si esclude che il metodo soggettivo sia esaustivo per la ricostruzione della volontà del dichiarante, dall’altro si rilevano le criticità di quello oggettivo. La via da seguire per raggiungere l’obiettivo nel miglior modo possibile, quindi, si ritiene essere quella di fare ricorso a entrambi i meccanismi ermeneutici. Naturalmente, li si dovrebbe applicare al di là dell’ordine gerarchico assegnato loro dalla giurisprudenza tradizionale, ossia in base alle esigenze del singolo caso concreto. Ciò detto, «le parti contrapposte debbono fare i conti con questa giurisprudenza, cavandone in fatto espedienti di cautela reciproca al fine di evitare non gradite sorprese»69.

6. Conclusioni. L’ordinanza in epigrafe conferma l’orientamento tradizionale che ravvisa la presenza di una rinunzia all’interno di una quietanza solo se quest’ultima fa riferimento alla consapevolezza dei diritti determinati o determinabili del lavoratore e al suo intento dispositivo. Secondariamente, essa sembra riprendere l’iter classico, imperniato sul ricorso al modello interpretativo letterale, come primo passo per risolvere la questione, nel rispetto del principio di gerarchia, in virtù del quale lo stesso (criterio letterale) prevale su quello integrativo. Inoltre, appare evidente come la pronuncia non introduca nuovi argomenti sistematici su cui fondare la (ir)rilevanza dispositiva della quietanza, né si rifaccia alle conclusioni dei giudici di legittimità riscontrabili nel provvedimento del 2009. In particolare, non ravvisa negli artt. 1341 e 1342 c.c., accanto alle norme sull’interpretazione del contratto, il fondamento normativo della (in)efficacia negoziale della medesima. Ombretta Dessì

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Pera, op. cit., 58.

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Giurisprudenza C orte di C assazione , sentenza 28 maggio 2019, n. 14510 – Pres. Tria – Est. Tria – Omissis (Avv.ti Vitali P., Huge S., Scorcelli O. R.) c. Omissis S.p.A. (Avv.ti Celebrano A., Celebrano G., Olgiati M. E., Trifirò S.). Cassa con rinvio App. Milano, sent. n. 695/2014. Lavoro (rapporto) – Rinunzie e transazioni – Tfr – Rapporto di lavoro non cessato – Rinunzia a diritto duturo – Nullità della rinunzia.

Il diritto alla liquidazione del Tfr, nonostante l’avvenuto accantonamento delle somme, non può ritenersi ancora parte del patrimonio del lavoratore prima della cessazione del rapporto, sicché per il dipendente ancora in servizio costituisce un diritto futuro, la cui rinuncia è radicalmente nulla, per mancanza dell’oggetto, ai sensi dell’art. 1418, comma 2, c.c., e dell’art. 1325 c.c.. «Svolgimento del processo. – Rilevato che: 1. La Corte d’Appello di Milano, con sentenza pubblicata l’11 settembre 2014, ha rigettato l’appello di Omissis avverso la sentenza di primo grado, che aveva accolto il ricorso proposto da Omissis S.p.A. In opposizione al decreto ingiuntivo con cui era stato ingiunto alla società il pagamento della somma di euro 89.350,00 a titolo di integrazione del TFR seguito di transazione; 2. la Corte di merito ha ritenuto che “l’affermazione del carattere generale e novativo della transazione trovi […] precisazione e chiarimento nella espressa rinuncia […] (oltre al TFR – espressione comunque infelice dato che lo stesso rimaneva pacificamente esigibile) all’incidenza sugli istituti legali e contrattuali di tutte le voci retributive espressamente indicate ivi incluse rimborsi spese, bonus, stock options, fringe benefits”; inoltre, ha argomentato che “tale rinuncia non è in contraddizione con l’affermazione che il corrispettivo della transazione verrà corrisposto in aggiunta alle competenze di fine rapporto per legge e contrattualmente dovute, trattandosi di una rinuncia espressa, nell’ambito di una conciliazione sindacale […] a parti variabili della retribuzione in ordine alle quali è notorio possa sorgere contenzioso circa la computabilità nella base di calcolo del TFR”; tale interpretazione non contrasta, ad avviso della Corte territoriale, “con la riserva dell’appellante di ‘verifica dell’esattezza dei conteggi relativi delle competenze contrattuali di fine rapporto’, riserva che sicuramente lascia aperte possibili successive contestazione, ma che, a fronte delle espresse rinunce contenute nella transazione medesima, non può che riferirsi ai conteggi del TFR, vale a dire all’esattezza contabile, per le voci non oggetto di espressa rinuncia, e quindi ad esempio per errori di calcolo o di coefficienti con riferimento alle voci retributive non in contestazione”; 3. in ordine al profilo della nullità della rinuncia, ex art. 1418 c.c. – sostenuta dall’appellante – in quanto concernente un diritto futuro, la Corte di merito ha ritenuto che ci fosse una sostanziale contestualità tra

il momento della rinuncia all’integrazione del TFR (10 gennaio 2008) e la cessazione del rapporto (31 gennaio 2008) e, inoltre, ha osservato che “il momento della cessazione del rapporto di lavoro va considerato solo quale condizione di esigibilità del credito a titolo di TFR, rammentando che il TFR costituisce un diritto di credito a pagamento differito che matura anno per anno e che è possibile oggetto di accertamento giudiziale, quanto alle modalità di calcolo ed entità, anche prima della risoluzione del rapporto”; 4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Omissis con due motivi cui ha resistito Omissis con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memorie;» «Motivi della decisione. – Considerato che: 1. i motivi di ricorso possono, come di seguito, essere sintetizzati: 1.1 il primo motivo denuncia “omessa disamina di fatti decisivi ai fini del giudizio, violazione e falsa applicazione degli artt. 1965, 1362, 1363 e 1364 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.”; a dire del ricorrente, per quel che concerne l’incidenza del TFR sulla retribuzione variabile, “la Corte d’Appello ha erroneamente applicato le norme di legge sull’interpretazione dei contratti, allorché ha fondato le sue motivazioni solo su una lettura (per altro erronea) del testo negoziale”; in particolare, il ricorrente si duole del fatto che “il Collegio ha fondato le proprie argomentazioni sul presupposto, assolutamente destituito di fondamento, che il Omissis con la sottoscrizione del verbale di conciliazione, avesse deliberatamente e scientemente inteso rinunciare all’incidenza della retribuzione variabile percepita sul TFR”, dunque, senza tener conto della volontà negoziale del lavoratore in senso abdicativo; difatti, sostiene il ricorrente, “sia l’elemento della consapevolezza che della determinazione volontaristica […] non emergono in alcun modo dal testo del verbale sottoscritto dalle parti in sede sindacale”; 1.2 il secondo motivo contesta “violazione e falsa applicazione degli artt. 1418, 1325 c.c. e 2120 c.p.c. e L. 297/82 in


Giurisprudenza

relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”; il ricorrente si duole del fatto che “la Corte d’Appello di Milano è altresì incorsa in una violazione degli artt. 1418 e 1325 c.c. e dell’art. 2120 c.c. nonché L. 297/82, allorché ha ritenuto valida l’asserita rinunzia/transazione sul rilievo che il diritto del lavoratore manifestata antecedentemente all’effettiva cessazione del rapporto […] sarebbe del tutto illegittima […] avendo ad oggetto un diritto non ancora entrato a far parte del patrimonio giuridico del lavoratore”; 2. per ragioni di pregiudizialità logicogiuridica può essere esaminato il secondo motivo di ricorso che il Collegio reputa fondato; infatti, premesso che la rinunzia può avere effetto abdicativo di un diritto in quanto risulti specificamente che la parte l’abbia resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su di essa (cfr. Cass. n. 18094 del 2015) e che la stessa rinunzia è ammissibile in riferimento a diritti già maturati e dal contenuto determinato (v. Cass. n. 3064 del 2013; Cass. n. 12561 del 206; Cass. n. 9747 del 2005), la sentenza impugnata si pone in contrasto con il seguente principio ancora di recente ribadito da questa Corte: “il diritto alla liquidazione del trattamento di fine rapporto del lavoratore ancora in servizio è un diritto futuro, la rinuncia effettuata dal lavoratore è radicalmente nulla ai sensi degli artt. 1418, secondo comma, e 1325 c.c., per mancanza dell’oggetto, non essendo ancora il diritto entrato nel patrimonio del la-

voratore e non essendo sufficiente l’accantonamento delle somme già effettuato (Cass. n. 23087 del 2015; conf. a Cass. n. 4822 del 2005); né vale ad escludere l’applicazione di tale principio l’assunto speso dalla Corte territoriale secondo cui vi sarebbe stata una “sostanziale contestualità” tra il momento della rinuncia all’integrazione del TFR (10 gennaio 2008) e la cessazione del rapporto di lavoro (31 gennaio 2008), essendo comunque pacifico che al momento dell’accordo il rapporto di lavoro non era cessato e tanto basta a consentire l’applicazione del principio innanzi richiamato; 3. conclusivamente il secondo motivo di ricorso deve essere accolto, con cassazione della sentenza impugnata in relazione ad esso e rinvio alla Corte indicata in dispositivo, che si uniformerà a quanto statuito e regolerà anche le spese; tanto assorbe il primo motivo perché una volta ritenuta la radicale nullità dell’atto di disposizione di un diritto futuro la ragione più liquida della decisione (Cass. n. 363 del 2019; Cass. n. 11458 del 2018; Cass. n. 23531 del 2016; Cass. n. 17214 del 2016; Cass. SS.UU. n. 23542 del 2015) rende ultronea ogni questione concernente l’accertamento della volontà negoziale delle parti; P.Q.M. La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, assorbito il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello Milano in diversa composizione, anche per le spese.»

La Corte di Cassazione non cambia idea: il diritto alla liquidazione del Tfr è un «diritto futuro» e la sua rinuncia è «radicalmente nulla» Sommario : 1. La vicenda giudiziaria. – 2. L’accoglimento del ricorso. – 3. “Dietro le quinte” di una rinuncia ad un credito. – 3.1. La rinuncia ai c.d. “Diritti futuri”. – 3.2. Il momento della maturazione del diritto di credito al Tfr. – 4. Il divergente comportamento della giurisprudenza di merito e di legittimità. – 5. I due problemi sollevati dalla sentenza.

Sinossi. Con questa sentenza, la Corte di Cassazione si pone come estrema protezione del lavoratore nei casi di scarsa o formale tutela che, invece,da alcuni organismi – deputati dalla legge – dovrebbero essere garantiti quando si effettua una conciliazione in sede protetta. Ribadendo ancora una volta che la liquidazione del Tfr «è un diritto futuro» e, pertanto, la sua rinunzia è «radicalmente nulla», la Suprema Corte sterilizza l’art. 2113, comma 4, c.c. che renderebbe a

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contrario inattaccabile la conciliazione in cui il lavoratore ha rinunciato inconsapevolmente ad una parte del suo Tfr. Abstract. With this judgment, the “Corte di Cassazione” sets itself as extreme protection of the worker in cases of insufficient or formal protection that, instead, should fully guarantee some organism – appointed from the law – when conciliation is took place in a protected basis. Reiterating once again that the payment of the end-of-service is a «future right» and, therefore, its resignation is «invalid», the Supreme Court sterilizes art. 2113, paragraph 4, c.c. which, instead, would make unassailable that conciliation where the worker has unwittingly renounced a part of his Tfr.

1. La vicenda giudiziaria. Con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione torna nuovamente su quanto già in precedenza aveva espresso in merito alla rinuncia del c.d. “Trattamento di fine rapporto” – da ora in poi, Tfr – del lavoratore. La vicenda giudicata riguarda una richiesta di integrazione del Tfr liquidato in sede protetta a seguito di una transazione, nella quale il lavoratore ricorrente aveva espressamente rinunciato all’incidenza sugli istituti legali e contrattuali di tutte le voci retributive rigorosamente elencate, includendo anche rimborsi spese, bonus, stock options e fringe benefits. Tale richiesta veniva rigettata sia in primo grado sia dalla Corte d’Appello di Milano e, pertanto, il lavoratore ricorreva in Cassazione. Riguardo il primo motivo di ricorso alla Suprema Corte, il lavoratore riteneva che la Corte di merito avesse erroneamente fondato le proprie argomentazioni giuridiche sul presupposto che lo stesso ricorrente, per mezzo della sottoscrizione del verbale di conciliazione, avesse scientemente e deliberatamente inteso rinunciare all’incidenza della retribuzione variabile percepita sul Tfr. Secondo il lavoratore, la Corte di Appello non aveva invero tenuto conto dell’effettiva volontà negoziale del ricorrente in senso abdicativo, essendo gli elementi della consapevolezza e della determinazione volontaristica completamente assenti all’interno del citato verbale sottoscritto dalle parti in sede sindacale. In merito alla seconda motivazione, il lavoratore contestava la decisione della Corte d’Appello di Milano che aveva ritenuto valida la rinuncia del lavoratore all’incidenza del Tfr su alcuni istituti della retribuzione, sull’erroneo presupposto che il diritto del lavoratore al Tfr maturerebbe in costanza di rapporto e non alla cessazione dello stesso.

2. L’accoglimento del ricorso. La Corte di Cassazione accoglie le richieste di parte ricorrente, poggiando la sua decisione esclusivamente sul secondo motivo di ricorso. La Corte di legittimità precisa in primis che «la rinuncia può avere effetto abdicativo di un diritto in quanto risulti specificamente che la parte l’abbia resa con la chiara e piena

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consapevolezza di abdicare o transigere su di esso, e che la stessa rinunzia è ammissibile in riferimento a diritti già maturati e dal contenuto determinato». Non discostandosi, infatti, dalle sue precedenti decisioni (Cass. n. 23087 del 2015, Cass. n. 5707 del 2010, Cass. n. 4822 del 2005, Cass. n. 16826 del 2005), la Corte di legittimità ribadisce che il diritto alla liquidazione del Tfr, nonostante l’avvenuto accantonamento delle somme, non può ritenersi ancora parte del patrimonio del lavoratore prima della cessazione del rapporto, sicché per il dipendente ancora in servizio costituisce un c.d. “diritto futuro”, la cui rinuncia è radicalmente nulla, per mancanza dell’oggetto, ai sensi dell’art. 1418, comma 2, c.c., e dell’art. 1325 c.c. Ai fini dell’applicazione di tale principio, non rileva nemmeno «la sostanziale contestualità» considerata dalla Corte territoriale tra il momento della rinuncia all’integrazione del Tfr (10 gennaio 2008) e la cessazione del rapporto di lavoro (31 gennaio 2008), essendo chiaro che, al momento dell’accordo, il rapporto di lavoro non era cessato. Riguardo, infine, il secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione sceglie di non sindacare l’accertamento della volontà negoziale del lavoratore poiché, una volta stabilita la nullità dell’atto di disposizione di un diritto futuro, ciò rende ultroneo l’approfondimento di altri elementi legati sempre alla medesima transazione. In tale modo, il primo motivo di ricorso viene completamente assorbito dal secondo.

3. “Dietro le quinte” di una rinuncia ad un credito. L’oggettiva brevità della sentenza in commento inganna sulle dimensioni ed importanza delle tematiche ivi affrontate poiché la Suprema Corte non esamina sic et simpliciter la rinunzia di un credito – sebbene particolare – come il Tfr. Ancora una volta, essa si esprime indirettamente anche su due storiche questioni – del Diritto civile prima e del Diritto del lavoro poi, come si apprezzerà infra – non ancora pienamente risolte dalla dottrina e, pertanto, potenzialmente motivi di difficoltà pratiche di non poco conto nella gestione del rapporto di lavoro nella sua fase terminale e nell’eventuale successiva fase di contenzioso: (i) la rinunzia ai diritti futuri e (ii) il momento della maturazione del diritto di credito al Tfr. A ciò, inoltre, si devono sommare gli strettissimi legami posseduti dai due temi sopracitati che fanno della rinuncia al Tfr una questione ancora più complessa. Per tali ragioni, al fine di comprendere al meglio l’importanza soprattutto pratica della sentenza in analisi, si permetterà di descrivere brevemente le diatribe dottrinali e le diverse interpretazioni fornite dalla giurisprudenza di Cassazione sui due temi citati. Successivamente si affronteranno le questioni afferenti alla sentenza e, in modo particolare, i risvolti pratici di quest’ultima.

3.1. La rinuncia ai c.d. “Diritti futuri”. Prima fra le problematiche – in termini cronologici – è la vexata quaestio riguardante la rinunzia dei diritti futuri, da sempre dibattuta a causa dell’assenza di norme specifiche e

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dell’impossibilità di estendere per analogia i divieti di disposizione di diritti futuri presenti già in norme speciali1-2 . Nel corso del tempo, la dottrina si è chiesta così come possa essere valida la rinuncia di un diritto futuro quando il presupposto logico di rinunciarvi è proprio la sua attualità o, comunque, la sua titolarità da parte del rinunciante3. La rinuncia ad un diritto soggettivo ha effetto, invero, solamente se il diritto dal quale si vuole abdicare sia attuale oppure se il rinunciante abbia la titolarità del medesimo diritto. Del resto, come asserisce il brocardo, nemo trasferre potest plus iuris quam habet. Tuttavia, ad una prima netta chiusura da parte della dottrina civilistica4 si è giunti successivamente alla possibilità di ammettere la rinunzia di diritti non ancora entrati nella disponibilità della persona, divenendo l’orientamento maggioritario5. Sostanzialmente la letteratura si è concentrata sul combinato disposto dell’art. 1348 c.c. e dell’art. 1346 c.c., secondo cui l’oggetto del contratto deve essere, tra l’altro, determinato o determinabile. In tal modo si sono create due divergenti ipotesi: (i) una rinuncia che avesse ad oggetto un diritto futuro indeterminato o indeterminabile; (ii) una rinunzia che avesse ad oggetto un diritto futuro non determinato al compimento del negozio ma che fosse determinabile – e, quindi, certo – in futuro. Optando per la seconda ipotesi, la dottrina ha potuto ammettere un atto abdicativo di un diritto non attuale, con l’unica vincolo di verificare, caso per caso, se l’oggetto del contratto fosse anche lecito, determinato o determinabile6. Tale apertura ha coinvolto anche una parte della dottrina giuslavorista7, con un orientamento non privo di critiche8. Si è ammessa, infatti, la rinunzia a diritti futuri purché sia determinato o determinabile l’oggetto della dismissione oppure se quest’ultima sia limitata a singoli rapporti obbligatori, circoscritti nell’oggetto e nel tempo9. In sostanza, tali rinun-

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Come l’art. 458 c.c. sul divieto di patti successori, l’art. 179 c.c. in materia di beni personali della comunione legale e l’art. 771 c.c. riguardante le donazione di beni futuri. Per dettagli, si rinvia a: Smuraglia, Indisponibilità e inderogabilità dei diritti del lavoratore, in Riva Sanseverino, Mazzoni, (a cura di), Nuovo trattato di diritto del lavoro, Cedam, 1971, II, 760 e ss. Per approfondimenti, si rinvia a: Pugliatti, Il trasferimento della situazione soggettiva, Giuffrè, 1964, 72; Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, 1962, 214; Bozzi, voce Rinuncia (Diritto pubblico e privato), in NDI, 1968, Vol. XV, 1140 e ss. Bozzi, op. cit., 1141; Atzeri, Vacca, Delle rinunzie secondo il codice civile italiano, UTET, 1915, 320; Perlingeri, I negozi sui beni futuri. I. La compravendita di cosa futura, Esi, 1962, 24 e ss.; Macioce, voce Rinuncia (Diritto privato), in Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, 1989, Vol. XL, 940 e ss. In tal senso, si vedano: Messineo, Manuale di Diritto civile e commerciale, Giuffrè, 1950, Vol. I, 170; Stolfi, Teoria del negozio giuridico, Cedam, 1947, 53; Moscarini, voce Rinunzia, in EGT, 1991, Vol. XXVII, 5. Per dettagli, si rinvia a: Novella, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, in Carinci, (a cura di), Trattato di diritto privato, Giappichelli, 2007, Vol. XXIV “Il lavoro subordinato”, Tomo III “Il rapporto individuale di lavoro: estinzione e garanzie dei diritti”, 595-596. Prosperetti, L’invalidità delle rinunce e delle transazioni del prestatore di lavoro, Giuffrè, 1950, 120; Corrado, Trattato di diritto del lavoro, UTET, 1965-1969, Vol. III, 990; Cester, voce Rinunce e transazioni (Diritto del lavoro), in Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, 1989, Vol. XL, 996; Aranguren, La tutela dei diritti del lavoratore, in Mazzoni, (diretto da), Enciclopedia giuridica del lavoro, Cedam, 1979, Vol. VII, 56; Massart, Le impugnative delle cosiddette quietanze liberatorie, in DL, 1960, n. 10, I, 365 e ss. Per dettagli, si rinvia a: Lumia, Calogero, Sulle rinunce e transazioni dei lavoratori, in RDL, n. 4, I, 467; Carullo, Richard, (a cura di), Art. 2113, in Nicolò, Stella Richter, Torrente, (diretto da), Rassegna di giurisprudenza sul codice civile, Giuffrè, 1963, Libro V – “Titoli 1-4”; Ferraro, Rinunzie e transazioni del lavoratore, in EGT, 1998, XXVII, 6; Torrente, Art. 2113, in Torrente, Fanelli, Ruperto (a cura di), Commentario al Codice Civile, UTET, 1961; Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, Giuffrè, 1969, 671; Giugni, Mansioni e qualifiche nel rapporto di lavoro, Jovene, 1961, 223. Di tale avviso: Cester, op. cit., 996.

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zie sarebbero eventualmente assoggettabili all’annullabilità ex art. 2113 c.c., esonerandole contestualmente dalla sanzione di nullità prevista ex art. 1418, comma 1, c.c. Come già accennato supra, le critiche a tale interpretazione sono state notevoli ed essenzialmente fondate sulla distinzione esistente tra un “semplice” contratto disciplinato dal diritto comune e un contratto di lavoro che, per sua stessa natura, risulta contraddistinto da una regolazione di carattere prevalentemente inderogabile: «rinunciare per il futuro significa regolamentare diversamente, in contrarietà alla normativa inderogabile, lo svolgimento per l’avvenire del rapporto; significa porre nel contratto individuale, come fonte immediata di regolamentazione del rapporto, una disciplina contrastante rispetto a quella inderogabile di legge o di contrattazione collettiva»10. Laddove, infatti, il diritto oggetto di rinuncia nasce da un rapporto di lavoro, abdicare vuol dire stipulare un patto modificativo del contratto di lavoro e, nel caso in cui il diritto per il quale si sta rinunciando derivi da norma inderogabile, vuol dire stipulare un contratto contra legem. Risulta evidente, quindi, che questo patto è nullo e la nullità può essere dedotta senza limiti di tempo, con la conseguenza che l’atto di dismissione non è più assoggettato alla più tenue annullabilità ex art. 2113 c.c., bensì alla radicale nullità ex art. 1418, comma 1, c.c.11. Essenzialmente12 del medesimo avviso risulta anche la giurisprudenza di Cassazione, sia di recente giudizio13 sia di più risalente intervento14.

3.2. Il momento di maturazione del diritto di credito al Tfr. La problematica dei diritti futuri appena esposta si collega strettamente alla seconda storica questione del momento della maturazione del diritto di credito al Tfr, poiché in funzione delle diverse opinioni dottrinali su questo ultimo tema, si conferma o meno la natura di tale diritto come diritto futuro. Una prima tesi15 colloca, invero, la maturazione del diritto al Tfr solo alla cessazione del rapporto di lavoro e, pertanto, durante lo svolgimento di questo ultimo si avrebbero dei meri accantonamenti contabili del Tfr. Il prestatore d’opera, durante il corso del contratto di lavoro, si troverebbe al massimo in una mera aspettativa di diritto, pur rimanendo la cessazione del rapporto il momento costitutivo della fattispecie. Il lavoratore potrebbe, pertanto, solamente agire ex art. 1356 c.c. per compiere atti conservativi o per l’accertamento delle quote maturate.

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Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, Giuffrè, 1990, 34-35. In tal senso, si vedano: Ferraro, op. cit., 7; Bozzi, op. cit., 1142; Smuraglia, op. cit., 761. 12 Sebbene risalenti nel tempo, si vogliono comunque evidenziare le due sole sentenze della Corte di Cassazione che ammettono la rinuncia di diritti futuri. Sostanzialmente in questi due giudizi la Corte di legittimità afferma che la rinuncia, in quanto espressione tipica dell’autonomia negoziale privata, può avere ad oggetto un diritto anche futuro ed eventuale, trovando gli unici limiti nell’ipotesi in cui la legge lo vieti oppure che il diritto sia irrinunciabile o indisponibile (Cass. n. 745 del 1977 e Cass. n. 1222 del 1975). 13 Si vedano, in proposito: Cass., 14 dicembre 1998, n. 12548; Cass., 13 luglio 1998, n. 6857; Cass., 13 marzo 1992, n. 3093. 14 Si vedano, in particolare: Cass., 8 luglio 1988, n. 4529; Cass., 11 marzo 1988, n. 2405; Cass.; 15 febbraio 1988, n. 1622; Cass., 2 febbraio 1988, n. 983; Cass., 8 agosto 1987, n. 6823; Cass., 28 dicembre 1983, n. 7633; Cass. n. 103 del 1979. 15 Giugni, De Luca Tamajo, in NLCC, 1983, 262; Pessi, Trattamento di fine rapporto: la maturazione del diritto, in DLRI, 1983, n. 18, 338; Ghera, Diritto del lavoro, Cacucci, 2006, 287. 11

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Seguendo la tesi di questa parte della dottrina, la rinuncia del diritto di credito al Tfr risulterebbe un’abdicazione ad un diritto futuro. A questa prima tesi si contrappone la posizione16 di chi sostiene che il credito – rectius, il diritto di credito al Tfr – sorga già con la costituzione del rapporto, accrescendosi progressivamente durante il suo svolgimento, divenendo esigibile alla cessazione dello stesso, ovvero prima ed in parte nelle ipotesi in cui è consentita l’anticipazione17. La cessazione del rapporto indicherebbe così il termine di adempimento dell’obbligazione relativa al Tfr e il momento del pagamento del relativo importo. In questa situazione, al contrario della precedente dottrina, la rinunzia del diritto di credito al Tfr non si configurerebbe come un’abdicazione ad un diritto futuro. Sebbene entrambe le visioni abbiano avuto seguito, l’evoluzione della normativa riguardante il Tfr ha dato sostanzialmente maggiore cittadinanza alla seconda tesi: la natura previdenziale dell’istituto18, la sua base di calcolo, la creazione di un Fondo di garanzia per il Tfr – al fine di rendere effettivo l’istituto nel caso di insolvenza del datore di lavoro – nonché i regimi di anticipazione di parte del Tfr ex art. 2120, comma 6, c.c. e dei diritti su questo ultimo da parte dei superstiti del lavoratore ex art. 2120, comma 10, c.c., hanno spostato l’ago della bilancia della dottrina sulla seconda tesi.

4. Il divergente comportamento della giurisprudenza di merito e di legittimità.

Da questa breve rassegna dottrinale risulta chiaro come nel caso in commento la giurisprudenza della Suprema Corte abbia accolto l’interpretazione civilistica più radicale riguardante i diritti futuri e, di conseguenza, abbia seguito la dottrina oramai minoritaria per quanto concerne la maturazione del diritto di credito al Tfr, che sorgerebbe nel momento della cessazione del rapporto di lavoro. Quello che risulta meno chiaro è, invece, l’alternativo percorso ermeneutico delle Corti territoriali rispetto a quello della Corte di legittimità: le prime sembrerebbero abbracciare una più “aggiornata” definizione di diritti futuri rispetto alla seconda e, conseguentemente, una visione della maturazione del diritto al Tfr appartenente alla dottrina maggioritaria. Risulta tuttavia impensabile ritenere che le Corti di merito siano più “in linea” con la realtà fattuale rispetto alla Corte di Cassazione: come dire che le prime sono maggiormente aggiornate sulla dottrina e su quello che accade in alcune realtà economiche, tale da riuscire a comprendere meglio alcuni modus operandi di molto aziende, tra cui i frequenti incentivi all’esodo del proprio personale, dove il Tfr è oggetto di conciliazione.

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Napoli, Il trattamento di fine rapporto nella nuova legge di riforma, in RTDPC, 1983, 78; Alleva, Trattamento di fine rapporto, in EGT, 1994, 8. 17 In tal senso, si veda: Pessi, Sulla natura del tfr: riflessioni dopo la legge n. 190/2014, in RDSS, 2015, n. 1, 128. 18 Rimasta sostanzialmente tale nonostante i numerosi interventi del legislatore.

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Ovviamente la realtà è un’altra. Come si accennava poc’anzi sta diventando molto frequente l’utilizzo di incentivi economici per l’“uscita anticipata” dei lavoratori, rispetto alle normali tempistiche per maturare il diritto alla pensione, grazie anche alla crisi economica che sta attraversando il Paese da anni. Ciò sta avvenendo soprattutto in alcuni settori, come il Credito, i cui lavoratori, non rientrando nell’alveo della c.d. “Cassa integrazione guadagni”, sono economicamente tutelati da situazioni di crisi aziendali grazie ai c.d. “Fondi di solidarietà bilaterali”19. Tecnicamente tali “uscite anticipate” sono frutto di accordi sindacali che prevedono una sorta di “pensione anticipata” per quei dipendenti che hanno raggiunto una precipua anzianità contributiva ed età anagrafica. In seguito, mediante lo strumento della conciliazione in sede protetta, ogni lavoratore cesserà il proprio rapporto di lavoro e accederà alle prestazioni economiche del Fondo – nella misura dell’80-100% della retribuzione normalmente spettante – per un periodo di tempo pari agli anni in cui avrebbe dovuto lavorare fino al giorno del pensionamento. Quando poi si aprirà la finestra pensionistica stabilità dalla propria anzianità anagrafica e contributiva, il lavoratore c.d. “esodato” andrà effettivamente in quiescenza percependo il trattamento pensionistico direttamente dall’Istituto previdenziale. Queste conciliazioni, sebbene si sottoscrivano in sede protetta, in molte occasioni non si realizzano in coincidenza della cessazione del rapporto di lavoro stabilita precedentemente, ma qualche giorno prima, persino settimane o mesi prima, esclusivamente per agevolare la gestione amministrativa20 nonché il coordinamento delle risorse umane (aziendali, sindacali, etc.; non contando i dipendenti destinatari della conciliazione) utilizzate per le conciliazioni in sede protetta. Si devono immaginare decine se non centinaia di verbali di conciliazione sottoscritti in poche giornate, essendo insostenibile organizzare una sola conciliazione in sede tutelata per ogni lavoratore e con scadenze diverse di accesso al Fondo di solidarietà21. In sede di conciliazione accade però che l’accordo abbia ad oggetto anche il Tfr: in alcuni casi ambigui – sia in occasioni di grandi esuberi di personale sia in caso di poche eccedenze –, le aziende propongono una clausola non concordata con la quale il lavoratore dichiara apparentemente di rinunziare al giusto calcolo del suo Tfr, dichiarando come esatta la futura somma che verrà liquidata per il Tfr, prima ancora di averla effettivamente percepita e, alcune volte, anche prima di conoscerla. Oppure accade, come nel caso in commento, che la rinunzia abbia ad oggetto l’incidenza di alcune voci retributivi sul calcolo del Tfr inficiando la somma finale da valutare e successivamente da liquidare. Avendo fornito un esempio di quanto avviene nella realtà di alcuni settori, si è chiarito il diverso atteggiamento della Corte di Cassazione rispetto a quello delle Corti territoriali.

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Accesi presso l’INPS e alimentati dai datori di lavoro. Per non parlare delle tempistiche di invio all’INPS della comunicazione di accesso al Fondo di un lavoratore che può essere persino, in alcuni casi, non meno di 40 giorni prima della cessazione del rapporto di lavoro. 21 Per ogni lavoratore, la data di accesso alle prestazioni economiche del Fondo è funzione della proprio finestra pensionistica quindi varierà da dipendente a dipendente. 20

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La diversa interpretazione della Suprema Corte in merito ai diritti futuri e al momento di maturazione del diritto di credito al Tfr risulta, infatti, l’extrema ratio per rendere nulla una conciliazione che, al contrario, sarebbe fatta salva dalle Corti territoriali per merito dell’art. 2113, comma 4, c.c. L’intento della Corte di legittimità è fornire, infatti, una maggiore tutela al prestatore di lavoro in quelle situazioni – come per l’appunto quella in esame – nelle quali il datore di lavoro ha scientemente cercato di non remunerare una parte considerevole del Tfr maturato, ai soli fini di risparmio economico. Al contempo, però, il giudizio opposto della Corte di Cassazione rispetto a quello di merito potrebbe apparire come una complicazione nella gestione finale del rapporto di lavoro mettendo in pericolo tutte le conciliazioni aventi ad oggetto anche il Tfr – come nello specifico –. L’utilizzo dello strumento della conciliazione in un contesto di maggiore protezione per il lavoratore dovrebbe infatti, da un lato, garantire maggiormente il dipendente e, dall’altro, evitare contenziosi in merito alla cessazione anticipata del rapporto di lavoro. Si ritiene, tuttavia, che la Corte di legittimità non pregiudichi il sistema delle conciliazioni e delle collegate rinunzie, tanto meno crei problemi pratici soprattutto nella gestione degli esuberi. Tenta invece di risolvere situazioni in cui l’assistenza sindacale è carente o, comunque, sono carenti/formali le garanzie che dovrebbero fornire alcuni organismi deputati dalla legge in sede protetta. L’unica problematica pratica che si ravvisa è per le rinunzie elusive come quelle oggetto di commento.

5. I due problemi sollevati dalla sentenza. I problemi sollevati da questo intervento della Corte di Cassazione sono due: il primo riposa nell’affidabilità22 della sede protetta, risultando compromessa più dalle pratiche elusive accennate e dagli attori/organismi che indirettamente le permettono23, che da un giudizio della Suprema Corte, per la verità, non nuova a proteggere il lavoratore in questi specifici casi24. La sentenza si ritiene, invero, uno di quegli esempi in cui il lavoratore riesce ad essere alla fine garantito, sebbene solo dopo tre sentenze – non contando il rinvio – e lunghi tempi di attesa per ottenere giustizia. Il secondo problema risiede nella scarsa attenzione di alcune Corti territoriali quando si propone loro di esaminare una rinunzia al Tfr mediante una conciliazione realizzata in sede garantita. Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Milano è sembrata consapevole delle dinamiche aziendali e delle problematiche di una conciliazione – rinuncia del 10 gennaio 2008, fine rapporto il 31 gennaio 2008 –. Allo stesso tempo, però, non è riuscita

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Nel senso di riuscire a tutelare il contraente debole assistendolo nel momento della stipula di una conciliazione. Al massimo si presume la superficialità di questi attori/organismi, derivante anche dalla mole di lavoro, e non il dolo. 24 Ma anche in tutti quei casi in cui la Corte di Cassazione ha ravvisato un’eccessiva generalità nelle rinunce (Cass., 21 febbraio 2017, n. 4420, Cass., 19 settembre 2016, n. 18321, Cass., 15 settembre 2015, n. 18094) o carente assistente sindacale/degli organismi preposti durante la conciliazione in sede protetta (Cass., 23 ottobre 2013, n. 24024, qui in linea con App. L’Aquila, 10 marzo 2016). 23

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a considerare il fatto che applicare sic et simpliciter l’art. 2113, comma 4, c.c. – e qui non si sta considerando anche la dottrina maggioritaria sulla maturazione del Tfr fatta propria da questa Corte – ha avuto l’effetto di blindare perché effettuata in sede garantita. Se le Corti dei territori conoscono ciò che giudicano come conoscono la dottrina più recente e maggioritaria sulla maturazione del diritto al Tfr, devono sapere anche delle pratiche elusive presenti nella gestione di esuberi del personale di un’azienda e dovrebbero almeno conoscere la linea di giudizio della Corte di Cassazione sul tali episodi, sempre la stessa da oramai 15 anni. Non si sta affermando che le Corti di merito non devono applicare la legge – rectius applicare l’art. 2113, comma 4, c.c. – ma non devono concedere piena ed incondizionata fiducia al lavoro di assistenza svolto nelle sedi protette solo perché si presuppone che lì la debolezza negoziale del lavoratore venga meno grazie alla presenza di soggetti o organismi che assistono il lavoratore rendendolo edotto sua cosa stia rinunciando. Soprattutto se si considera la numerosità delle conciliazioni dove qualcosa può sicuramente sfuggire: come tutte le cose create dall’uomo, anche quelle particolari sedi non sono perfette ma perfettibili. Le Corti territoriali dovrebbero, pertanto, verificare almeno quelle conciliazioni in cui le rinunzie hanno ad oggetto particolari diritti, come il Tfr, oppure dove non è presente o è poco chiara la volontà negoziale del lavoratore in senso abdicativo. Si deve ritenere più che positiva l’esistenza di due diverse linee interpretative dottrinali sia per quanto concerne il diritti futuri sia per quanto riguarda la maturazione del diritto al credito del Tfr. In tal modo, infatti, la Suprema Corte riesce a garantire una maggior tutela nelle condizioni sopra descritte perché utilizza una di quelle interpretazioni come grimaldello per aprire la cassaforte dell’art. 2113, comma 4, c.c. La Corte di Cassazione fino ad ora non ha cambiato idea ponendosi come estrema difesa del lavoratore, ancora una volta. Gianluca Urbisaglia

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Giurisprudenza C orte di Cassazione , ordinanza interlocutoria 20 maggio 2019, n. 13525 – Pres. Bronzini – Est. De Gregorio – P.M. Celentano (concl. negat.) – P.M. (Avv. Della Vite) c. A.T.B. Servizi S.p.a. (Avv.ti Vesci, Golferini, Caggese). Lavoro (rapporto) – Autoferrotramvieri – Sanzioni disciplinari – Retrocessione – Incostituzionalità – Rinvio alla Corte Costituzionale.

È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale riferita agli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost. della «punizione» della «retrocessione» prevista dagli artt. 37, 44 e 55 comma 2 dell’Allegato A (Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione) al r.d. 8 gennaio 1931, n. 148, in quanto irragionevole, umiliante e degradante. Svolgimento del processo. – Il sig. P.M., dipendente di ATB Servizi S.p.a., concessionaria di servizio pubblico di trasporto, chiese al giudice del lavoro di Bergamo di essere reintegrato nel profilo professionale di addetto all’esercizio con parametro retributivo 193 e di dichiarare la cessazione di ogni effetto della proroga del termine previsto per gli aumenti retributivi contrattualmente previsti, il tutto con decorrenza 23 luglio 2009, data in cui l’azienda gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della retrocessione di due gradi nella carriera (perciò retrogradazione al parametro retributivo 175 e assegnazione del profilo di operatore di esercizio), prevista dal R.D. n. 148 del 1931, art. 37, all. A, nonché la correlata sanzione di cui all’art. 44 dello stesso Regio Decreto, ossia in aggiunta la “proroga del termine normale per l’aumento della retribuzione, per la durata di mesi sei, con riguardo a tutti gli aumenti retributivi spettanti dopo quello che sarà per primo ritardato a seguito dell’applicazione della retrocessione disposta” con lo stesso provvedimento. Il giudice adito, ritenuto che l’attore non contestava il merito della sanzione inflittagli, ma quale unico motivo della domanda la legittimità costituzionale delle citate norme di cui al suddetto decreto 148, per contrasto con gli artt. 3 e 35 Cost., rigettava il ricorso, ritenendo la manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale. Il P. impugnava la suddetta pronuncia, sostenendo l’erroneità della decisione. La società convenuta resisteva all’interposto gravame spiegando a sua volta appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza impugnata nella parte in cui aveva respinto l’eccezione di inammissibilità della domanda, dal momento che l’unica censura svolta dal lavoratore in ordine alle sanzioni irrogategli era l’eccezione d’incostituzionalità. La Corte d’Appello di Brescia con sentenza n. 327 in data 27 giugno 2014, pubblicata il successivo 10 luglio, rigettava l’appello principale e quello incidentale,

dichiarando compensate le spese relative al secondo grado del giudizio. La Corte territoriale osservava che, come correttamente già rilevato dal primo giudicante, il lavoratore non aveva contestato la sussistenza dell’illecito disciplinare (fatto accaduto il 6 novembre 2008 nell’esercizio delle mansioni di controllore, per cui il P. era stato rinviato a giudizio, con successiva applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. in ragione di mesi undici di reclusione), ma aveva chiesto la rimozione degli effetti delle anzidette sanzioni, sostenendo, incidentalmente, l’illegittimità delle stesse, siccome risultando incostituzionali le norme che le prevedevano. La Corte d’Appello, quindi, condivideva la qualificazione della domanda negli anzidetti termini, per cui la stessa era stata ritenuta ammissibile. Infatti, l’accertamento dell’illegittimità costituzionale delle norme di cui al R.D. n. 148 del 1931 non era il petitum diretto della domanda, ma lo strumento per ottenere quel determinato petitum, inteso come il bene della vita che si intende conseguire, ossia la reintegrazione del profilo professionale di addetto all’esercizio con parametro retributivo 193 e la cessazione della proroga del termine per l’aumento stipendiale. Tanto bastava, ad avviso della Corte bresciana, per ritenere l’infondatezza dell’appello incidentale. Non essendo stata riproposta la questione della giurisdizione, occorreva quindi passare al merito del gravame, però giudicato anch’esso infondato, condividendo la Corte distrettuale le argomentazioni del giudice di primo grado in ordine alla assoluta specialità, sia pure residuale, della disciplina dettata dal suddetto Regio Decreto, di modo che non sarebbe manifestamente irragionevole o palesemente arbitrario il mantenimento di un regime speciale riservato agli autoferrotranvieri. In particolare, si richiamava l’insegnamento della Corte costituzionale, la quale in relazione all’art. 3 Cost., aveva chiarito che il rapporto di lavoro degli addetti ai pubblici servizi di trasporto in regime di conces-


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sione costituisce una forma intermedia tra l’impiego pubblico e quello privato ed è appunto assoggettato alla normativa speciale di cui al Regio Decreto, giusta la sentenza n. 190 del 2000 pronunciata dalla Consulta, nonché le ordinanze della stessa nn. 439 del 2002 e 301 del 2004. La specialità del rapporto era giustificata dall’interesse collettivo, ritenuto preminente, al buon funzionamento e all’efficienza del servizio pubblico del trasporto, avuto riguardo alle variegate multiformi tipologie di gestione da parte di aziende autonome o da parte di soggetti privati, tutti in regime di concessione e con poteri derivanti dal trasporto di concessione in ordine anche alla sicurezza e alla polizia di trasporti. Alla luce della specialità del rapporto, era dunque condivisibile l’affermazione del primo giudicante, secondo cui proprio la permanenza nell’ordinamento della specialità del rapporto faceva sì che la scelta discrezionale del legislatore di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione delle sanzioni disciplinari per i dipendenti delle aziende - in mano pubblica o privata - di trasporto non era censurabile sul piano costituzionale, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria. Non residuava, quindi, alcuno spazio per un paragone comparativo tra la disciplina in esame, ed in particolare la parte normativa concernente le anzidette sanzioni, con quella di lavoratori subordinati privati o dei lavoratori pubblici. Infatti, il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. non era invocabile proprio per la diversità della materia in questione, inerente al rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, rispetto al rapporto di lavoro di diritto privato e al rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. Ed invero non era prospettabile una violazione dell’art. 3, occorrendo in proposito soltanto lo stesso trattamento per le situazioni identiche, ma non anche parità di trattamento riguardo a situazioni diverse. Secondo la Corte territoriale, era altresì manifestamente infondata l’eccezione d’incostituzionalità dell’anzidetta normativa in relazione all’art. 35 Cost., comma 1. Infatti, la questione andava esaminata non in relazione al diritto alla qualifica e alla violazione dello stesso, bensì sotto il profilo della legittimità costituzionale di una sanzione disciplinare comportante, in funzione punitiva, una retrocessione in carriera e quindi una sanzione diversa da quelle prevista dalla legge nell’ambito degli altri rapporti di lavoro, pubblici e privati, retrocessione in carriera, la quale ad ogni modo non restava bloccata, potendo comunque progredire. Ad avviso della Corte, inoltre, l’art. 35 Cost., tutelando il diritto, alla formazione e alla elevazione professionale dei lavoratori, non aveva introdotto limiti al legislatore in materia di sanzioni disciplinari, di modo che il suo richiamo non appariva pertinente. Era chiaro, poi, che la specialità del rapporto comportava diverso trattamento, anche sotto tale profilo, rispetto ai dipendenti privati e pubblici.

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La Corte di merito condivideva anche l’affermazione del primo giudicante, secondo cui, pur volendosi ipotizzare una limitazione del diritto quesito alla qualifica, si tratterebbe comunque di una limitazione temporale, visto che del cit. R.D. n. 148, art. 44, u.c., prevedeva la possibilità di ottenere la reintegrazione, trascorso almeno un anno dalla retrocessione, per gli agenti ritenuti meritevoli, donde la restituzione a ciascuno della qualifica in precedenza rivestita, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga e restando pure salva la facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione ai sensi dell’art. 43, commi 3 e 4. Né poteva assumere rilevanza che il giudizio sulla meritevolezza fosse riservato al datore di lavoro, laddove in caso di ingiustificata negazione dell’istanza di reintegrazione restava comunque assicurato il diritto del lavoratore di rivolgersi al giudice per far valere le proprie ragioni. Infine, la Corte distrettuale rilevava come la retrocessione fosse meno afflittiva del licenziamento o, con riferimento agli autoferrotranvieri, della destituzione, sanzione la cui legittimità era fuori discussione. Avverso la succitata sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione il sig. P.M. come da atto notificato il 5 gennaio 2015, affidato a quattro motivi, cui ha resistito A.T.B. Servizi S.p.a., mediante controricorso notificato a mezzo p.e.c. in data 11 febbraio 2015, nonché tramite ufficiale giudiziario in data 12-13 febbraio 2015, in seguito illustrato da memoria depositata in vista dell’adunanza in camera di consiglio fissata per il giorno 17 ottobre 2018. All’esito di detta adunanza, quindi, il collegio ha ritenuto necessaria la trattazione in pubblica udienza come da relativa ordinanza. Ragioni dell’ordinanza. – Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 2, 3, 4 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, la cui disciplina si assume in contrasto con quella invece dettata al R.D. n. 148 del 1931, art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, all. A. Violazione diritto al lavoro (che si attua non solo attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e soprattutto con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di lavoro, tra i quali senz’altro pure il diritto alla qualifica. La qualifica in realtà costituisce il criterio di identificazione del tipo di prestazione espletabile dal lavoratore e discende congiuntamente sia dall’astratta formazione tecnico professionale del medesimo, sia dal complesso delle concrete esperienze lavorative maturate nel corso della sua attività. In quanto espressione delle capacità tecnico professionali del lavoratore la qualifica appare, quindi, non solo connaturata alla qualità di lavoratore subordinato, ma addirittura strettamente legata alla persona del lavoratore, poiché esprime appunto il livello di esperienze da lui personalmente maturato e


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formalmente riconosciutogli nel corso del rapporto). Secondo il ricorrente, proprio per l’essenziale rilievo che la qualifica riveste nel rapporto di lavoro e per l’ontologica connessione di essa con la personalità del lavoratore, appare chiaramente ricompresa nel concetto di tutela del lavoro di cui all’art. 35 Cost., anche la tutela della professionalità maturata dal lavoratore e divenuta parte di esso, il cui relativo diritto si presenta quale diritto essenziale della persona del lavoratore, come principio generale dell’ordinamento del lavoro. La tutela di lavoro deve estrinsecarsi anche nella corretta ed equa utilizzazione delle capacità lavorative del prestatore e nella garanzia di riconoscimento della qualifica, la quale è soggetta a variazioni in relazione alla modificazione della stessa capacità lavorativa del prestatore, ma non per motivi puramente disciplinari. Poiché la qualifica non costituisce di certo un beneficio accordato discrezionalmente dal datore di lavoro, né tantomeno un accessorio delle obbligazioni principali derivanti dal rapporto di lavoro, ma rappresenta e si identifica con la persona del lavoratore, in ciascun momento storico del rapporto considerato, individuando le qualità essenziali e ontologiche della sua capacità professionale e lavorativa, appare inammissibile, secondo il ricorrente, che il datore di lavoro possa, con un mero provvedimento disciplinare, privare lavoratore della capacità lavorativa da lui raggiunta, retrocedendolo ad una qualifica inferiore, ovvero azzerando - anche attraverso ripetute retrocessioni, teoricamente possibili, secondo la normativa de qua - addirittura i progressi tecnici maturati dal dipendente. Di conseguenza, si assume da parte ricorrente, altresì, illegittima la norma di legge che possa consentire l’anzidetta privazione mediante la contestata retrocessione ad una qualifica inferiore, stante il palese contrasto con la tutela generale del lavoro di cui sopra. Del resto, una tale possibilità appare già in contrasto con la disciplina ormai generalmente fissata dalla legislazione ordinaria più recente, rispetto a quella speciale, relativamente alla materia trattata per tutti i lavoratori subordinati in materia di qualifica e di mansioni. Infatti, l’art. 2103 c.c., come modificato dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 13 (ovviamente, secondo il testo nella specie ratione temporis applicabile con riferimento alla sanzione applicata il 23 luglio 2009), afferma il diritto del lavoratore a vedere sempre rispettate le mansioni e la qualifica di assunzione, ovvero quella successivamente acquisite, sancendo indirettamente la inderogabilità in pejus del livello lavorativo raggiunto e comunque sottraendo alla sfera di efficacia dei provvedimenti disciplinari la materia della qualifica. Tale normativa costituirebbe, dunque, diretta attuazione proprio dell’art. 35 Cost. D’altro canto, la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, sancisce che, fermo restando quanto disposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti defi-

nitivi del rapporto di lavoro. Quindi, secondo il ricorrente, è previsto, come principio generale dell’ordinamento in materia di lavoro, che l’unica modificazione definitiva consentita come sanzione disciplinare possa consistere nel licenziamento, quando ne ricorrano gli estremi previsti specificamente dalla relativa disciplina. La ratio delle anzidette disposizioni di legge era ravvisabile nell’esigenza di sottrarre alla disponibilità delle parti, in particolare del datore di lavoro, la gestione della qualifica del lavoratore e cioè della sua capacità tecnico-professionale, che si estrinseca proprio nella qualifica, la quale progredisce con il progredire delle esperienze del lavoratore. Disparità di trattamento. Inoltre, sulla scorta della richiamata legislazione ordinaria, le disposizioni del R.D. n. 148 del 1931, art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, allegato A, ad avviso del ricorrente, appaiono in contrasto con l’ art. 3 Cost., in quanto, prevedendo una regolamentazione speciale e peggiorativa delle sanzioni disciplinari per i soli dipendenti delle aziende ferrotranviarie, attuano una disparità di trattamento rispetto tutti gli altri lavoratori dipendenti, per i quali la legge non prevede e non ammette la possibilità di una perdita della qualifica raggiunta quale particolare tipo di sanzione disciplinare. Tale diversità di trattamento non sembra giustificabile neppure sulla base dell’asserita specialità del lavoro dei dipendenti di aziende di trasporto, dal momento che non trova comunque fondamento in alcuna peculiarità di tale rapporto, ma attiene invece ad un aspetto generale, quale il potere disciplinare del datore di lavoro, e alla tipologia delle sanzioni. Proprio tale tipologia non appare ragionevolmente condizionabile della specialità del rapporto, quanto meno non al punto da consentire alla parte datoriale di incidere sulla qualifica del lavoratore e sulle corrispondenti mansioni. Pertanto, ad avviso del ricorrente, la questione di legittimità costituzionale dei succitati art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, non poteva dirsi manifestamente infondata, risultando la sua definizione rilevante e preliminare ai fini della decisione della controversia. D’altro canto, per diritti inviolabili dell’uomo si intendono quei diritti e quelle libertà considerati essenziali e incancellabili, in quanto strettamente connessi alla natura umana. Come tali questi diritti sono sottratti al potere dispositivo del legislatore ordinario e oltretutto immuni anche dalle procedure di revisione costituzionale. Pure il diritto al lavoro e, di conseguenza alla qualifica e alla mansione corrispondente, andrebbe ricompreso tra i diritti inviolabili, giacché l’attività lavorativa non può essere esaminata esclusivamente sotto il profilo dello strumento di sostentamento, ma più propriamente come una modalità di manifestazione della personalità del lavoratore; con l’ulteriore conseguenza per cui la lesione dei valori costituiti in capo al prestatore di lavoro subordinato si pone anche conflitto con le previsioni di cui all’art. 2 Cost.

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Giurisprudenza

Né potrebbe correttamente sostenersi che da nessuna norma costituzionale emerga espressamente un limite al potere disciplinare del datore di lavoro, avuto riguardo in primo luogo all’espressa previsione dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo di cui all’art. 2 Cost., sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Ed un primo ordine di limiti generali al potere datoriale di incidere disciplinarmente sui beni e diritti fondamentali, materiali e morali, dell’uomo è più concretamente poi individuato da tutte quelle norme che tutelano la libertà fondamentali della persona. Tali garanzie dei diritti e delle libertà si pongono come limiti generali non solo per il legislatore, che non può cancellarli, se non per particolari e tipizzate esigenze di interesse generale, ma anche per qualsiasi ordinamento privato di fonte contrattuale che voglia prevedere sanzioni a carico degli aderenti al medesimo. Anche per quanto concerne la specifica disciplina del lavoro, secondo il ricorrente, la Costituzione prevede molteplici limiti al potere datoriale, sia con riguardo agli aspetti economici che agli aspetti professionali dell’attività prestata dal lavoratore, dei quali taluni espressamente indicati, ma altri necessariamente impliciti per ovvie ragioni di sintesi e di stringatezza del testo costituzionale, benché chiaramente deducibili per via interpretativa da tenore generale delle norme costituzionali. In particolare, allorché la Costituzione esprime esigenze di tutela del lavoro, ciò implica che siano da intendersi come inammissibili e illeciti tutti i comportamenti risultanti in contrasto con tale esigenza ed illegittime quindi le norme di legge che li autorizzano. Sempre ad avviso del ricorrente, inoltre, art. 37 e art. 44, all. A al Regio Decreto si pongono in netto contrasto con l’art. 4 Cost., norma che riprende ampliandolo ciò che l’art. 1 della medesima sancisce quale fondamento della Repubblica. La norma, infatti, assegna al lavoro il duplice ruolo di diritto e di dovere, intesi non in senso strettamente giuridico, ma rispettivamente come un fine, cui lo Stato deve tendere, ed un dovere morale che ciascun individuo, cittadino o meno, dovrebbe adempiere, nel rispetto della libertà della persona. Il riconoscimento del lavoro come uno dei principi fondanti della Repubblica rimanda alla funzione sociale del lavoro svolto come mezzo di produzione e di ricchezza materiale e morale per la persona, non come merce necessaria alla massimizzazione dei profitti, né come fattore di produzione, ma come realizzazione dell’individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali. Con il secondo motivo (formulato, presumibilmente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c. comma 1, n. 5) è stata denunciata la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la opinata specialità del rapporto di lavoro in questione, relativo agli autoferrotranvieri,

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“problematica” da considerarsi fatto controverso e decisivo, già oggetto di discussione tra le parti. Si contesta la motivazione fornita dai giudici di merito, secondo cui non sussiste il paventato dubbio di legittimità costituzionale, attesa la assoluta specialità, sia pure residuale, della disciplina contenuta nel citato Regio Decreto, trattandosi in effetti ad avviso del ricorrente di affermazioni tralaticie, che non hanno offerto alcuna plausibile spiegazione circa le ragioni dell’asserita specialità caratterizzante il rapporto degli autoferrotranvieri, e del perché la stessa dovrebbe giustificare una così stridente disparità di trattamento, rispetto ad altre categorie di lavoratori, con riguardo ad un aspetto di carattere generale quale il potere disciplinare del datore di lavoro. In effetti, la disciplina dettata dai suddetti artt. 37 e segg., si assume lontanissima da quella prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori e il mantenimento di sanzione disciplinare definitiva, come la retrocessione, non si fonda e non si giustifica su alcuna peculiarità del rapporto considerato. Anche a voler ritenere che il rapporto con gli addetti ai pubblici servizi di trasporto costituisca una forma intermedia tra l’impiego pubblico a quello privato, non è possibile reperire una sola plausibile motivazione per il mantenimento nell’ordinamento giuslavoristico di una sanzione quale la retrocessione. La quale non è neppure menzionata nel codice di disciplina previsto per i dipendenti della pubblica amministrazione. Se anche fosse vero che la specialità del rapporto è giustificata dall’interesse collettivo al buon funzionamento del servizio pubblico di trasporto, ciò non potrebbe, comunque, legittimare la permanenza di una sanzione, dal permanente carattere afflittivo come la retrocessione, espunta invece dalla vigente legislazione nei confronti dei pubblici dipendenti. Anzi, proprio l’odiosa e irragionevole disparità di trattamento in danno dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri si pone in contrasto, evidente e incontrovertibile, con l’art. 3 Cost. Infatti, nel settore dei trasporti di lavoro del personale civile, pubblico e privato, la sanzione della retrocessione costituisce un unicum che penalizza esclusivamente gli autoferrotranvieri. Il trattamento deteriore in questione non risulta previsto per i ferrovieri o gli autoferrotranvieri internavigatori delle autolinee private. Rispetto a questi ultimi l’art. 66 della c.c.n.l. 23 luglio 76 prevede le sanzioni del rimprovero, della multa, della sospensione del licenziamento, ma non la retrocessione. Tale misura non è neanche prevista per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato (per i quali il c.c.n.l. 6 febbraio 1998 all’art. 95 contempla esclusivamente il rimprovero scritto e verbale, la multa, la sospensione e il licenziamento), né per i dipendenti delle aziende di trasporto merci come da art. 31 c.c.n.l. 22-07-1991. In realtà la contestata sanzione punitiva, secondo il ricorrente, era stata palesemente tratta dall’arma-


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mentario sanzionatorio previsto per i militari, per cui tuttavia non sussiste più alcuna ragione legittimante l’equiparazione tra appartenenti alle forze armate e i dipendenti del settore autoferrotranviario. Oltretutto la materia disciplinare era l’unica parte normativa sopravvissuta alle modifiche, introdotte successivamente, che avevano eliminato ogni diversificazione di trattamento tra i lavoratori. Tuttavia, nonostante la situazione sopra delineata circa il dubbio fondato di legittimità costituzionale delle anzidette norme residuali, la Corte d’Appello aveva ritenuto che la violazione dell’art. 3 della Costituzione non avrebbe avuto alcuna ragion d’essere. Per contro, una volta ammesso che a colpi di contrattazione collettiva e sulla base di ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali la maggior parte delle disposizioni della legge speciale era stata travolta, ne derivava inevitabilmente la necessità di una completa parificazione, anche sul piano disciplinare, dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri ai colleghi dell’analogo settore pubblico e privato. A mero titolo esemplificativo, infatti, parte ricorrente ha segnalato che i ferrovieri, a suo tempo anch’essi sottoposti alla disciplina dettata dal suddetto Regio Decreto, sono rimasti soggetti alla sanzione della retrocessione soltanto fino al momento della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato e all’adozione di criteri dettati, in tema di provvedimenti disciplinari, della L. n. 300 del 1970. Non si vedeva dunque la ragione per la quale una punizione così afflittiva e ingiusta dovesse permanere con riguardo soltanto ai dipendenti di aziende speciali, come la A.T.B. Servizi, la quale in quanto società per azioni aveva adottato pienamente il regime privatistico, tanto nei rapporti con il personale quanto nel relazionarsi con i soggetti terzi, a conferma dunque che anch’essa operava sul mercato del trasporto in assenza di qualsivoglia privilegio o primato legato ad una sua presunta genesi pubblica (residuo di potestà e poteri pubblicistici). Con il terzo motivo il ricorrente ha denunciato, ex art. 360 c.p.c. n. 3, la violazione del D. Lgs. n. 112 del 1998, art. 102, comma 1, lett. B, nonché della L. n. 300 del 1970, art. 7. Il D. Lgs. n. 112 del 1998 in attuazione della cosiddetta riforma Bassanini aveva previsto la soppressione delle norme relative alla nomina dei consiglieri disciplina. Anche la Regione Lombardia era intervenuta sul punto con la L.R. n. 1 del 2000, sopprimendo le funzioni amministrative sino ad allora per la nomina dei componenti dei consigli di disciplina delle aziende di trasporto pubblico locale. Il Consiglio di Stato con il parere reso in data 19 aprile 2000 aveva, inoltre, sostenuto che l’intervenuta modifica normativa aveva comportato non solo l’abolizione dei consigli di disciplina, ma anche una sostanziale abrogazione della normativa pseudo-pubblicistica dedicata alle sanzioni disciplinari per gli autoferrotranvieri, sostanziale e procedurale, sicché aveva opinato nel senso che non vi fossero più

ostacoli alla piena applicazione in tale ambito della disciplina di diritto comune dettata dalla L. n. 300 del 1970. Quanto, poi, alla limitazione temporanea della sanzione, come sul punto ritenuto dalla Corte d’Appello, il ricorrente ha osservato che in realtà, a mente dell’art. 44, u.c., del suddetto allegato A al Regio Decreto, il prestatore può ottenere la restituzione della qualifica rivestita prima della retrocessione, purché sia trascorso almeno un anno dal provvedimento. Trattasi, però, di mera eventualità subordinata ad un discrezionale giudizio di meritevolezza da parte dell’azienda. Alla medesima valutazione del datore di lavoro è subordinato anche l’eventuale accantonamento della proroga del termine per l’aumento dello stipendio, pena accessoria usualmente inflitta unitamente alla retrocessione, di modo che qualora l’azienda non reputi il dipendente meritevole della reintegrazione nella qualifica, la sanzione opera con effetti permanenti e definitivi. Proprio questa disdicevole situazione si era verificata nel caso di specie, poiché il P. si era visto reiteratamente respingere le istanze indirizzate alla società resistente, volte ad ottenere la restituzione allo stato precedente. Vi era, d’altro canto, da dubitare che, ove il datore di lavoro nell’esercizio del potere discrezionale riconosciutogli dal Regio Decreto negasse la reintegrazione nell’originaria qualifica, fosse possibile per la parte danneggiata adire il giudice onde far valere le proprie ragioni, essendo ogni relativa scelta rimessa alle insindacabili determinazioni della stessa parte datoriale. Con il quarto motivo di ricorso è stata dedotta la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in ordine alla dedotta violazione degli artt. 2 e 4 Cost., “problematica da considerarsi fatto controverso e decisivo per il giudizio, già oggetto di discussione tra le parti” - Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7 poiché soltanto per i ferrotranvieri in base alla suddetta normativa vi sarebbe la possibilità di una definitiva perdita della qualifica raggiunta, quale particolare sanzione disciplinare in base alla denunciata normativa di cui al Regio Decreto, in violazione dunque ed ancora pure dell’art. 3 Cost. Non era stato esaminato, inoltre, dalla Corte d’Appello il profilo inerente alla violazione degli artt. 2 e 4 Cost., donde il difetto di motivazione. Tanto premesso, appaiono in larga parte giustificate le doglianze prospettate da parte ricorrente, per quanto concerne i rilevati dubbi di legittimità costituzionale, che nei seguenti limiti risultano indubbiamente rilevanti nel caso di specie in ordine alla definizione della controversia di cui è processo. Ed invero, pur indipendentemente da talune errate rubricazioni sub art. 360 c.p.c. da parte ricorrente, che ad ogni modo non precludono al giudicante la corretta qualificazione sotto il profilo giuridico delle questioni sostanziali prospettate, le stesse meritano un appro-

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Giurisprudenza

fondito vaglio di merito da parte del compente Giudice delle leggi, con specifico riferimento alla contestata sanzione della retrocessione, la quale non solo appare inattuale, a distanza di circa 88 anni dal varo dell’ormai remoto R.D. n. 148 del 1931 ma altresì irragionevole per effetto delle novità politico-sociali e normative intervenute nelle more del lungo tempo trascorso, caratterizzate essenzialmente dal mutato regime costituzionale, laddove i principi fondanti (segnatamente quelli di cui ai primi tre articoli dalla Costituzione) risultano poco compatibili con una sanzione disciplinare punitiva e mortificante, di durata notevole quanto meno nel minimo, che trae origine evidentemente dal risalente inquadramento militare degli autoferrotranvieri, però da lustri scomparso. Va, inoltre, rilevato che nella specie deve ritenersi pacificamente operante la giurisdizione ordinaria, visto che le pronunce di merito non risultano essere state impugnate sul punto, con conseguente formazione di giudicato al riguardo, peraltro in linea con la giurisprudenza questa Corte ormai consolidata in proposito (cfr. in part. Cass. sez. un. civ., sentenza n. 460 del 13/01/2005), secondo cui le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58,all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 193, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58 (conformi Cass. sez. un. nn. 1728 del 28/01/2005, n. 6999 del 05/04/2005, n. 9939 del 12/05/2005, n. 613 del 15/01/2007, 7939 del 27/03/2008. Cfr. ancora Cass. sez. un. civ. n. 15917 del 22/04 - 13/06/2008, che nel confermare la giurisdizione ordinaria ribadiva quanto statuito dalle Sezioni Unite con ordinanza n. 464 del 13 gennaio 2005, nel senso che “le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58”, in base a molteplici argomentazioni: in primo luogo, la progressiva privatizzazione del settore dei trasporti pubblici, realizzata con la trasformazione dell’azienda delle Ferrovie dello Stato prima in ente pubblico economico e successivamente in società per azioni, che ha marcatamente evidenziato gli elementi di specialità “residuale” del regime disciplinato dal R.D. n. 148 del 1931; inoltre un significativo momento del lungo processo di delegificazione di quest’ultima disciplina è contrassegnato dalla L. 12 luglio 1988, n. 270, il cui

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art. 1,comma 2, prevedeva che, a partire dal novantesimo giorno dalla sua entrata in vigore, “le disposizioni contenute nel regolamento allegato al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, ivi comprese le norme di legge modificative, sostitutive od aggiuntive a tale regolamento non potevano essere derogate dalla contrattazione nazionale di categoria ed i regolamenti d’azienda non potevano derogare ai contratti collettivi”. «La tendenza verso un graduale avvicinamento della disciplina del rapporto di lavoro in questione a quella del rapporto privato trovò il suo culmine nella L. 23 ottobre 1992, n. 421, la quale delegò il Governo alla “razionalizzazione e revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”. Tale obiettivo fu realizzato - già con il primo dei decreti delegati (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29) - attraverso la graduale soggezione dei rapporti alle norme di diritto civile ed alla contrattazione collettiva e individuale, nonché alla giurisdizione del giudice ordinario “salvi, per ciò che attiene ai rapporti di pubblico impiego, i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzati”. In particolare, quanto alla materia disciplinare, il generale principio dell’assoggettamento alle norme contenute nella L. n. 300 del 1970, art. 7, ed alla contrattazione collettiva fu realizzato attraverso l’abrogazione del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, artt. 100 - 123, da parte della L. 15 marzo 1997, n. 59. Già a questo stadio dell’evoluzione normativa può dirsi che la generale attrazione del pubblico impiego - salvo specifiche eccezioni - nell’area del diritto privato e il suo assoggettamento alla disciplina generale del lavoro privato, minavano fortemente le ragioni della permanenza della specialità del regime disciplinare configurato dall’antica L. del 1931. Per altro verso, l’avvenuta completa “devitalizzazione” dell’art. 58, ha trovato una ennesima conferma nel D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, - attuativo della delega disposta dalla L. 15 marzo 1997, n. 59, sul conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali - il cui art. 102, lett. b), ha soppresso le funzioni amministrative relative alla nomina dei consigli di disciplina. In proposito, non può non convenirsi con quanto sostenuto dall’Adunanza plenaria del Cons. Stato, nel parere reso in data 19 aprile 2000 (richiamato nel giudizio davanti alla Corte costituzionale conclusosi con l’ordinanza n. 301 del 2004) nel senso che l’effetto abrogativo della norma da ultimo citata non può limitarsi alla caducazione delle sole norme procedimentali sulla nomina e composizione dei consigli di disciplina e che la soppressione dei consigli di disciplina ha confermato l’avvenuta abrogazione implicita delle norme dei R.D. che postulano l’operatività di tali organi, inclusa la devoluzione alla giurisdizione amministrativa dei ricorsi avverso le loro decisioni. Ma il processo di privatizzazione (rectius “contrattualizzazione”) dei


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rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni aveva già in precedenza registrato un decisivo intervento anche in materia di competenza a decidere delle relative controversie, con la conseguenza che anche questo versante ha contribuito a travolgere l’assetto complessivo del R.D. del 1931, sottraendo sin da allora ogni residuo spazio di operatività dell’art. 58. Ed infatti - come già si è rilevato più sopra - il trasferimento dal giudice amministrativo a quello ordinario del contenzioso dell’”ex pubblico impiego”, già anticipato dalla Legge Delega del 1992, è stato introdotto, come regime generale, già con il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 68, comma 1, ai sensi del quale venivano “in ogni caso devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice dal lavoro, le controversie attinenti al rapporto di lavoro in corso, in tema di 1) sanzioni disciplinari”, mentre restavano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative ai rapporti di impiego del personale di cui all’art. 2, commi 4 e 5. Tale norma - destinata, peraltro ad operare “a partire dal terzo anno successivo alla data di entrata in vigore” del medesimo decreto e, comunque “non prima della fase transitoria di cui all’art. 72” (art. 68, comma 4) - è stata riprodotta, con qualche modifica (non rilevante ai fini che interessano in questa sede) dal D. Lgs. n. 546 del 1993, art. 33, poi dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 29, quindi, dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 18, e, finalmente dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63 (T.U. del pubblico impiego). Se ne può trarre, dunque, la conclusione che sin dall’operatività della disposizione ordinaria del 1993, deve ritenersi compiuta l’abrogazione implicita del R.D. n. 148 del 1931, art. 58, oggetto del presente giudizio, proprio perché l’indubbia portata generale della disposizione del 1993 non avrebbe consentito più al giudice amministrativo, trascorso l’indicato periodo transitorio, di occuparsi di controversie di lavoro se non nei casi espressamente tenuti fuori dal processo di privatizzazione (art. 3 del T.U. cit.). A fronte della chiara ed univoca evoluzione della disciplina complessiva del rapporto di pubblico impiego, diventa, d’altro canto più difficile sostenere ancora la specialità del rapporto degli autoferrotranvieri. Tale specialità, vistosamente sbiadita dai numerosi interventi normativi appena rievocati, appare ormai in tutta la sua anomalia, proprio sul terreno della giurisdizione poiché la competenza del giudice amministrativo a decidere delle controversie relative a quei rapporti di lavoro trarrebbe la sua ragione proprio in quella specialità che, invece, è ormai venuta del tutto meno. È pure il caso di aggiungere che non sarebbe comprensibile sottovalutare il descritto processo evolutivo subito da una disciplina che - concepita in epoca precostituzionale - non può più essere interpretata senza tener conto del mutato sistema di riferimento nel quale l’art. 58, è venuto ad operare, nel corso di oltre settanta anni: con la conseguenza che non appare

più possibile limitarsi a prendere atto di una mancata espressa abrogazione di tale norma...». Di conseguenza, possono dirsi superate anche tutte le questioni connesse alla giurisdizione, già ritenute non fondate o inammissibili dalla Corte Costituzionale, anche con specifico riferimento alla sanzione della retrocessione, di cui è invece causa in questo processo, sulla quale peraltro non consta alcuna espressa pronuncia del Giudice delle Leggi circa la sua conformità, o meno, agli anzidetti principi della Carta fondamentale (cfr. in part. Corte Cost. n. 458 del 1992: secondo l’indirizzo giurisprudenziale vigente, alla stregua della L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 6, per i ricorsi delle organizzazioni sindacali volti ad ottenere non solo la repressione del comportamento antisindacale ma anche la rimozione dei provvedimenti concretanti il detto comportamento - ad es. sanzione disciplinare della retrocessione - la giurisdizione spetta al T.A.R.. Pertanto, essendo il difetto di giurisdizione del pretore - che, adito nel caso di specie, aveva promosso l’incidente di costituzionalità- rilevabile “ictu oculi”, la sollevata questione doveva essere dichiarata manifestamente inammissibile. V. parimenti Corte Cost. n. 60 del 1994: il principio, più volte ribadito, per cui nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale una questione già sottoposta, come nel caso esaminato, alla Corte, non può essere nuovamente sollevata dallo stesso giudice nel corso dello stesso giudizio non consente di pronunciarsi una seconda volta sulla questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, nella parte in cui prevedono, per i lavoratori dipendenti di aziende di trasporto, la sanzione disciplinare della retrocessione. Nè rilevava in contrario il motivo che, riguardo al merito della questione - peraltro già dichiarata dalla Corte, nel precedente giudizio, manifestamente inammissibile con l’ord. n. 458 del 1992, perché proposta da giudice ordinario in materia devoluta, dal R.D. n. 148, art. 58, all. A, alla giurisdizione amministrativa - era stato prospettato dal giudice rimettente, secondo cui l’ente convenuto, nella specie, era una privata società per azioni, giacché le norme del citato All. A si applicano al personale dei pubblici servizi di trasporto anche se esercitati dall’industria privata. Cfr. ancora l’ordinanza n. 301 del 2004, con la quale veniva dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), nella parte in cui risultava all’epoca devoluta al giudice amministrativo, anziché a quello ordinario, la cognizione delle controversie in materia di sanzioni disciplinari degli autoferrotranviari, essendo rimasti immutati i presupposti, di diritto e di fatto, in base ai quali era stata ritenuta non censurabile, sul piano costituzionale, la scelta operata dal legislatore, nell’ambito della discrezionalità spettategli in tema di

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ripartizione della giurisdizione ordinaria ed amministrativa, di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione di cui è causa, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria). D’altro canto, la controversia di cui è causa nemmeno appare risolvibile mediante una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in argomento, stante la sua inequivoca portata testuale, a fronte della quale l’organo giudicante è tenuto ad osservarla, salvo il potere di sollevare in via incidentale la questione d’illegittimità costituzionale, come appunto nel caso di specie. Per di più il legislatore, sebbene con eccentrica tecnica normativa, ha di recente mostrato di voler ripristinare, indistintamente, il vetusto Regio Decreto in questione, senza quindi nemmeno considerare l’evoluzione normativa stratificatasi in materia nel corso degli anni, secondo la corrispondente sua interpretazione giurisprudenziale, con conseguente residuale vigenza del medesimo originario testo del decreto, segnatamente in campo giuslavoristico. Infatti, il D.L. 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito con modificazioni dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, aveva disposto (con l’art. 27, comma 12-quinquies - misure sul trasporto pubblico locale) che “Il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, la L. 24 maggio 1952, n. 628 e la L. 22 settembre 1960, n. 1054, sono abrogati, fatta salva la loro applicazione fino al primo rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro di settore e, comunque, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Tuttavia, il D.L. n. 20 giugno 2017, n. 91 (Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 2017, n. 123 (in G.U. 12/08/2017, n. 188, in vigore dal 13-8-2017) all’art. 9-quinquies (Modifica del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27) ha diversamente disposto, stabilendo che “1. del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, il comma 12-quinquies è abrogato”. Deve, pertanto, ritenersi tuttora in vigore ed applicabile nella fattispecie qui in esame il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, che nell’all. A all’art. 37 elenca “Le punizioni che si possono infliggere agli agenti”: 1 la censura, che è una riprensione per iscritto; 2 la multa, che è una ritenuta dello stipendio o della paga; 3 la sospensione dal servizio, che ha per effetto di privare dello stipendio o paga l’agente che ne è colpito, per una durata che può estendersi a 15 giorni od, in caso di recidiva entro due mesi, fino a 20 giorni; 4 la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o della paga, per la durata di tre o sei mesi od un anno per le aziende presso le quali siano stabiliti aumenti periodici dello stesso stipendio o paga; 5 la retrocessione; 6 la destituzione.

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L’art. 44, indica i casi in cui si incorre nella retrocessione. Stabilisce, inoltre, che per effetto della retrocessione gli agenti vengono trasferiti al grado immediatamente inferiore; però quando il provvedimento stesso viene applicato, a norma dell’art. 55, in sostituzione della destituzione può farsi luogo eccezionalmente alla retrocessione di due gradi; e quando trattisi di togliere o non ridare le funzioni nelle quali fu commessa, la mancanza da punirsi, oppure di rimettere gli agenti nelle funzioni esercitate prima che siano stati promossi al grado da cui debbano essere retrocessi, viene assegnato quel grado che risulta necessario secondo la tabella graduatoria. Per gli agenti, per i quali la retrocessione non è possibile, si fa luogo alla sospensione estensibile fino a 30 giorni con o senza trasloco punitivo cogli stessi effetti della retrocessione per quanto riguarda il disposto dell’art. 50 e dell’alinea seguente. Alla retrocessione va sempre aggiunta la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o paga, per la durata di tre o di sei mesi. Dopo trascorso almeno un anno dalla retrocessione, gli agenti che ne siano ritenuti meritevoli possono ottenere la reintegrazione, per effetto della quale è restituita a ciascuno la qualifica che prima rivestiva, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga, e salva la facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione, ai sensi dell’art. 43, commi 3 e 4 (in tema di proroga del termine per l’aumento dello stipendio: 3. “Ove però l’agente ne sia riconosciuto meritevole, l’azienda ha facoltà di togliere l’effetto della ripercussione, accordando di tre o sei mesi o di un anno, a seconda della proroga inflitta, il periodo di tempo normale necessario per il raggiungimento di uno degli aumenti successivi”. 4. “L’azienda può esercitare questa facoltà in ogni tempo, ma non mai prima che l’agente punito abbia avuto ritardato, dopo l’applicazione della punizione, il primo aumento spettantegli, salvo il caso che l’agente sia stato, prima di subire il ritardo, promosso di grado”). Infine, l’art. 55, dispone che le autorità competenti a giudicare delle singole mancanze possono, a seconda delle circostanze e nel loro prudente criterio, applicare una punizione di grado inferiore a quella stabilita per le mancanze stesse. Ed al comma 2, così recita: “Quando, per effetto di questo articolo, in luogo della destituzione si infligge la retrocessione, la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o della paga o la sospensione dal servizio, a tali provvedimenti può essere aggiunto, come punizione accessoria e con le norme dell’art. 37, il trasloco punitivo”. Da ultimo, il comma 3 stabilisce che le punizioni inflitte possono essere condonate, commutate o diminuite per deliberazione delle stesse autorità competenti a giudicare delle mancanze relative. Come è agevole desumere dal testo normativo, spicca evidente il carattere punitivo e militaresco della sanzione in esame, che si ripercuote di regola a


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tempo indeterminato sulla qualifica professionale conseguita dal lavoratore, salvo diverso apprezzamento, meramente discrezionale da parte datoriale circa la meritevolezza di un ripristino, meritevolezza che per la sua vaga formulazione implica una pura facoltà di concessione da parte aziendale, perciò anche difficilmente verificabile nella eventuale sede giudiziale in caso di tutela in proposito invocata dal dipendente, ad ogni modo con effetti duraturi sotto il profilo retributivo. In tale contesto appare irragionevole la retrocessione, per come regolata dalla legge, che assume i connotati di una vera e propria pena, piuttosto che di una mera sanzione disciplinare, la quale non trova analogo riscontro afflittivo, umiliante e degradante in diversi trattamenti disciplinari riservati ad altri dipendenti civili, quali sono pure gli autoferrotranvieri al pari di categorie similari (si pensi soprattutto ai ferrovieri, personale viaggiante e di terra del gruppo Ferrovie dello Stato). Né può trascurarsi il retrivo aspetto etico-sociale della retrocessione in argomento, la quale sembra porsi in aperto contrasto con i valori solennemente affermati dall’art. 2 della Carta costituzionale (garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità). Parimenti, dicasi per quel che concerne l’art. 35 Cost., segnatamente laddove al comma 2 è affermato che la Repubblica cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, formazione ed elevazione che appaiono in stridente contrasto con il carattere afflittivo e tendenzialmente a tempo indeterminato della retrocessione in commento. Quest’ultima, di conseguenza, attesa la rilevata indeterminatezza cronologica e stante l’anzidetta vaga possibilità di ripristino, finisce anche per poter incidere negativamente sul diritto alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, nei sensi di cui all’art. 36 Cost. La stessa Corte Costituzionale, del resto, pure con la recente sua pronuncia n. 194/18, depositata l’otto novembre 2018 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il successivo giorno 14, nella sua ricca ed articolata motivazione ha richiamato, confermandola, la sua precedente giurisprudenza in materia, laddove ha rilevato anche il vulnus recato dalla previsione ivi impugnata all’art. 4 Cost., comma 1 e art. 35 Cost., comma 1: «... Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che il D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa dell’art. 4 Cost.,

comma 1 e art. 35 Cost., comma 1, che tale interesse, appunto, proteggono. L’irragionevolezza del rimedio previsto dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (art. 1 Cost., comma 1, artt. 4 e 35 Cost.), per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana (sentenza n. 163 del 1983, punto 6. del Considerato in diritto). Il “diritto al lavoro” (art. 4 Cost., comma 1) e la “tutela” del lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35 Cost., comma 1) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai “principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa” (punto 4. del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che “il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti” (punto 3. del Considerato in diritto)...» (cfr. peraltro, da ultimo, quanto, nelle more della pubblicazione di questo provvedimento, ricordato ancora da questa Corte - VI civ. L, con l’ordinanza n. 10023 in data 8 gennaio - 10 aprile 2019: «La privazione totale delle mansioni, che costituisce violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto di tutela costituzionale (cfr. Cassazione civile sez. un., 22/02/2010, n. 4063 resa in fattispecie di “sostanziale privazione di mansioni” in un rapporto di pubblico impiego privatizzato), non può essere invece una alternativa al licenziamento...»). P.Q.M. TANTO PREMESSO. La Corte, visti l’art. 134 Cost. e della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23: - dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, limitatamente alla “punizione” della “retrocessione”, artt. 44 e 55 (comma 2, limitatamente all’ipotesi della retrocessione) dell’Allegato A (Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione) al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148 in relazione agli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost.,nei sensi meglio indicati nella motivazione che precede; - dispone la sospensione di questo giudizio; - Omissis. - dispone, infine, l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte Costituzionale. - Omissis.

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Autoferrotranvieri: dubbi sulla legittimità costituzionale della sanzione della retrocessione Sommario : 1. Il caso. – 2. Il quadro di riferimento. – 3. Le sanzioni e il procedimento disciplinare. – 4. Le censure di illegittimità costituzionale. – 5. Le argomentazioni della Corte remittente. – 6. Alcune considerazioni conclusive.

Sinossi. Il commento si apre con la descrizione del caso sottoposto all’attenzione dei giudici di merito. Dopo aver analizzato le vicende che nel corso degli anni hanno interessato la disciplina del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, ci si concentra sull’analisi delle censure di illegittimità costituzionale concernenti la sanzione disciplinare della retrocessione e quindi sulle argomentazioni della Corte remittente che ha ritenuto la stessa sanzione disciplinare «irragionevole», «umiliante» e «degradante». Abstract. The commentary begins with the description of the case brought to the attention of the merit judges. After analyzing the events that over the years have affected the regulation of the employment relationship of rail and tram operators, the focus is on the analysis of the complaints of constitutional illegitimacy concerning the disciplinary sanction of downgrading and then on the arguments of the referring Court that considered the same disciplinary sanction «unreasonable», «humiliating» and «degrading».

1. Il caso. Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 37, 44 e 55 dell’Allegato A (Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione) al r.d. 8 gennaio 1931, n. 148 riguardanti la sanzione disciplinare della retrocessione. La vicenda ha visto protagonista un dipendente di una società concessionaria di servizio pubblico di trasporto che, destinatario della sanzione disciplinare della retrocessione di due gradi nella carriera e della correlata sanzione della «proroga del termine normale per l’aumento della retribuzione per la durata di sei mesi» di cui agli artt. 37, 44 e 55, All. A) al r.d. n. 148 del 1931, si è rivolto al Giudice del lavoro di Bergamo chiedendo la rimozione degli effetti delle sopracitate sanzioni in quanto illegittime, risultando le stesse disposizioni che le prevedono in contrasto con gli artt. 3 e 35 Cost. Il ricorso del lavoratore veniva respinto sia in primo grado che dalla Corte di Appello.

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In particolare la Corte di Appello di Brescia, osservato che l’attore non contestava il merito della sanzione ma unicamente la legittimità costituzionale delle disposizioni poste alla base dei provvedimenti comminatigli, ritenendo – in piena condivisione con le argomentazioni dedotte dal Tribunale – manifestamente infondata la prospettata questione, rigettava il ricorso. La Corte territoriale ha evidenziato che il rapporto di lavoro degli addetti ai pubblici servizi di trasporto costituisce una forma intermedia tra l’impiego pubblico e quello privato e che proprio in virtù di tale specialità risulta giustificata la permanenza nell’ordinamento di una speciale regolamentazione delle sanzioni disciplinari. Per cui non residuava alcuno spazio per un giudizio comparativo ai sensi dell’art. 3 Cost. tra la disciplina in esame e quella prevista per i lavoratori subordinati privati o dei lavoratori pubblici. In ordine all’art. 35 Cost., la Corte di merito osservava, invece, che la questione andasse esaminata non in relazione al diritto alla qualifica e alla violazione dello stesso, ma sotto il profilo di legittimità costituzionale di una sanzione disciplinare comportante, in funzione punitiva, una retrocessione in carriera e quindi una sanzione diversa da quella prevista dalla legge per gli altri rapporti di lavoro, pubblici e privati. Tuttavia la Corte sottolineava che la disposizione costituzionale, tutelando il diritto alla formazione e all’elevazione professionale dei lavoratori, non aveva introdotto limiti al legislatore in materia di sanzioni disciplinari, per cui il suo richiamo non appariva pertinente. Aggiungeva poi che, anche volendosi ipotizzare una limitazione del diritto alla qualifica, si tratterebbe comunque di una limitazione temporale considerando che l’art. 44, r.d. n. 148/1931 prevede la possibilità, per gli agenti ritenuti meritevoli, trascorso almeno un anno dalla retrocessione, di ottenere la reintegrazione nella qualifica precedentemente rivestita (fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga, e salva la facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione, ai sensi dell’art. 43, commi 3 e 4 all. A)). Contro la sentenza di appello il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione.

2. Il quadro di riferimento. La disciplina del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri è contenuta nel r.d. 8 gennaio 1931, n. 148, recante il «Coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione» nonché nel «Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tramvie e linee di navigazione interna in regime di concessione» (c.d. allegato A al r.d. n. 148/1931). Il r.d. n. 148/1931, allegato A, originariamente si rivolgeva unicamente ai dipendenti delle aziende che svolgono servizi di trasporto tranviario, ferroviario e sulle linee di navigazione interna in regime di concessione; con la l. n. 24 maggio 1952, n. 628 tale regolamentazione è stata estesa al personale delle filovie urbane ed extraurbane e delle

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autolinee urbane e con la l. n. 22 settembre 1960, n. 1054 anche al personale degli autoservizi extraurbani1. In ragione dello speciale regime che caratterizza(va) lo status giuridico di tali lavoratori, giustificato dalla «peculiarità delle scelte organizzative nelle aziende di trasporto» e dall’«interesse pubblico al buon funzionamento ed efficienza del servizio pubblico»2, tradizionalmente il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri è stato considerato alla stregua di un tertium genus rispetto al lavoro privato e a quello pubblico3. In giurisprudenza si era così affermata l’idea secondo cui il regio decreto costituisse un corpus compiuto ed organico, con la conseguenza che il ricorso alla normativa generale sarebbe stato possibile solo laddove si fossero riscontrate lacune tali da non poter essere superate neppure attraverso l’interpretazione estensiva o analogica di altre disposizioni appartenenti allo stesso corpus4. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Ottanta le mutate caratteristiche strutturali e organizzative del settore dei trasporti pubblici locali hanno mostrato l’inadeguatezza del regio decreto e quindi la necessità di un ammodernamento della relativa disciplina5. In risposta a tali esigenze di riforma, nell’arco di un decennio si sono succeduti diversi interventi legislativi che hanno accompagnato un generale processo di privatizzazione e liberalizzazione dell’intero settore6. Si ricordano, in particolare, la l. 12 luglio 1988, n. 270 che ha disposto la delegificazione del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri autorizzando la contrattazione collettiva nazionale di categoria a derogare alle disposizioni contenute nel r.d. n. 148/1931(art. 1, comma 2, l. n. 270/1988) nonché la l. 8 giugno 1990, n. 142 e il d.lgs. 19 novembre 1997, n. 422 sui processi di liberalizzazione e societarizzazione delle forme di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali 7.

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Relativamente al campo di applicazione, le imprese destinatarie del r.d. n. 148/1931 e del relativo regolamento allegato A) sono quelle che occupano più di venticinque dipendenti. A tutte le altre imprese si applicano le disposizioni codicistiche e legislative che regolano il rapporto di lavoro subordinato in generale. L’art. 1 della l. n. 1054/1960 prevede infatti che «Le disposizioni del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, i relativi allegati e le successive aggiunte e modificazioni, sono estesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, al personale addetto agli autoservizi di linea extraurbani, anche se non direttamente dipendente da azienda concessionaria, e sempreché, a giudizio del Ministero dei trasporti - Ispettorato generale della motorizzazione civile e trasporti in concessione - risulti superiore a 25 il numero di personale occorrente per le normali esigenze di tutti gli autoservizi, anche se urbani, ovunque esercitati dall’azienda». 2 Nespor, Specialità del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri: è la fine di un mito? in nota a Cass., sez. un. 13 gennaio 2005, n. 460, in Rivista dell’impiego e della dirigenza pubblica, 2, 2005, 23. 3 V. Corte cost., 27 aprile 1988, n. 500 in Banca Dati DeJure; in dottrina, Treu – Tiraboschi, Modernizzazione del quadro legale in materia di disciplina dei rapporti di lavoro nell’ambito del trasporto pubblico locale, Studio di Fattibilità, 30 ottobre 2002, WP 4/2002, 18 in www.hermesricerche.it. 4 Cass., 29 maggio 2006, n. 12734; Cfr. Cass., 6 marzo 2013, n. 5551; Cass., 22 maggio 2009, n. 11929 in Banca Dati DeJure. In questo senso il regio decreto ha resistito anche a fronte delle importanti riforme che si sono succedute negli anni e che hanno modificato il nostro ordinamento giuridico (per citare le tappe più rilevanti si pensi all’entrata in vigore del Codice Civile del 1942 e della Costituzione): Cass., sez. un., 13 gennaio 2005, n. 460, cit. 5 C. cost., 27 aprile 1988, n. 500 in Banca Dati DeJure. Nel frattempo la l. 17 maggio 1985, n. 210 aveva privatizzato e contrattualizzato il rapporto di lavoro dei dipendenti delle Ferrovie dello Stato, con conseguente applicazione delle norme di diritto comune (art. 21, l. n. 210/1985). 6 Megna, Rapporti di lavoro e autoferrotranvieri – Autoferrotranvieri: risolto il dilemma sulla disciplina applicabile al rapporto di lavoro in GI, 2017, 10, 2162. 7 Tra gli interventi più incisivi si può annotare altresì il d.l. 20 maggio 1993, n. 148, art. 6, comma 17 convertito in l. 19 luglio 1993,

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Proprio facendo leva su tale evoluzione normativa, le Sezioni Unite della Cassazione, con la storica sentenza del 2005 (la numero 460 del 13 gennaio 2005), hanno evidenziato che la specialità del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri era «vistosamente sbiadita»8. La successiva giurisprudenza tuttavia ha privilegiato ora un’interpretazione più restrittiva riconoscendo e accentuando la «specialità» del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri per affermare l’applicazione tout court delle norme del r.d. n. 148/19319, ora un’interpretazione evolutiva e «storicamente adeguata» che, pur continuando ad affermare la sopravvivenza nel nostro ordinamento del regio decreto, ne attenuava le differenze rispetto alla disciplina generale per sottoporre a quest’ultima il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri10. In tale quadro di continue oscillazioni giurisprudenziali le Sezioni Unite nel 2016 hanno confermato la perdurante vigenza della disciplina speciale di cui al regio decreto del 1931, sottolineando però la necessità di integrare o sostituire i singoli istituti nelle ipotesi in cui la relativa specifica regolamentazione risulti incompatibile con il sistema generale, e quindi con i principi fondamentali anche di carattere comunitario «che devono presiedere nell’esegesi delle norme disciplinanti qualsiasi rapporto di lavoro»11.

3. Le sanzioni e il procedimento disciplinare. In nome della specialità del rapporto sono sopravvissuti nel corpus del regio decreto istituti ben lontani dai principi del diritto del lavoro contemporaneo quali l’opinamento del direttore dell’azienda sul comportamento del dipendente e sanzioni disciplinari di tipo paramilitare come la retrocessione nel grado e nello stipendio, la proroga dell’aumento dello stipendio nonché il trasloco punitivo del dipendente, intesa come pena accessoria alla sanzione disciplinare12.

n. 236, nel testo risultante dalla modifica introdotta dal d.l. 23 ottobre 1996, n. 542, art. 7, convertito in l. 23 dicembre 1996, n. 649, che ha aggiunto nel corpo della l. 23 luglio 1991, n. 223, art. 3, il comma 4-bis, il quale ha previsto che «Le disposizioni in materia di mobilità ed il trattamento relativo si applicano anche al personale il cui rapporto sia disciplinato dal r.d. 8 gennaio 1931, n. 148, che sia stato licenziato da imprese dichiarate fallite, o poste in liquidazione, successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge». 8 In particolare la Corte di cassazione a sezioni unite con la sent. n. 460 del 13 gennaio 2005 ha evidenziato la progressiva “devitalizzazione” dell’art. 58 del r.d. n. 148/1931 riconoscendo la competenza del giudice ordinario a decidere (anche) in ordine alle controversie sorte a seguito dell’irrogazione di sanzioni disciplinari. Cfr. Cass., sez. un., 13 gennaio 2005, n. 460, con nota di Lupoli in D&G, 8, 2005, 19. 9 Si tratta in realtà dell’orientamento più risalente: v., ad. es., Cass., 24 dicembre 1997, n. 13037 in Banca Dati DeJure e i precedenti qui richiamati (Cass., 29 giugno 1979 n. 3702; Cass., 20 ottobre 1978, n. 475). 10 Cass., 5 ottobre 2016, n. 19932; Cass., 2 settembre 2015, n. 17436; Cass., 6 marzo 2015, n. 4609; Cass., 10 luglio 2012, n. 11543 in Banca Dati DeJure. 11 Cass., sez. un., 27 luglio 2016, n. 15540 in Banca Dati DeJure. 12 Nespor, op. cit., ibidem. L’art. 37 del r.d. n. 148/1931, all. A) prevede tra le punizioni che si possono infliggere agli agenti: la censura; la multa; la sospensione dal servizio; la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o della paga; la retrocessione e la destituzione. Mentre con deliberazione del Consiglio di disciplina di cui all’art. 54 si prevede che agli agenti può essere inflitto, come punizione accessoria, il trasloco punitivo, che priva l’agente delle indennità regolamentari, salvo il rimborso delle spese vive.

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La Corte Costituzionale ha in più occasioni precisato che stante la specialità (sia pure residuale) del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, la scelta discrezionale del legislatore di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione delle sanzioni disciplinari per i dipendenti delle aziende – in mano pubblica o privata – di trasporto, non è censurabile sul piano costituzionale, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria13. L’art. 53 del regolamento allegato A) al r.d. n. 148/1931 contempla un procedimento disciplinare articolato in più fasi14: la contestazione dell’addebito all’agente con invito a presentare eventuali giustificazioni; la redazione da parte dei funzionari delegati di una relazione scritta su fatti emersi dalle indagini, corredati da apposita documentazione, dalle considerazioni a carico e discarico dell’incolpato e dalle conclusioni circa le infrazioni accertate; il c.d. opinamento del direttore o di un suo delegato in ordine alla sanzione da irrogare tra quelle previste dagli artt. da 43 a 45 del medesimo regolamento. Entro i successivi cinque giorni dalla notifica dell’opinamento si prevede il diritto per l’incolpato di presentare a voce o per scritto eventuali nuove giustificazioni al fine di contestare la sanzione prospettata. In mancanza di giustificazioni, il provvedimento disciplinare proposto diviene definitivo ed esecutivo. Ai sensi dell’art. 54 del medesimo regolamento, le «punizioni per le mancanze di cui agli articoli 43, 44 e 45 sono inflitte con deliberazione del Consiglio di disciplina costituito presso ciascuna azienda». Per le sanzioni più rilevanti quali la proroga del termine per l’aumento dello stipendio, la retrocessione e la destituzione, il procedimento disciplinare sfocia nel giudizio di un organo amministrativo di nomina ministeriale (il Consiglio di disciplina) con impugnativa delle sue decisioni dinanzi al giudice ordinario15. Il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (attuativo della delega disposta dalla l. 15 marzo 1997, n. 59 sul conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali) è intervenuto con l’art. 102, lett. b) prevedendo che fossero «soppresse le funzioni amministrative relative [...] alla nomina dei consigli di disciplina». In proposito, il Consiglio di Stato, con parere reso in data 19 aprile 2000, aveva sostenuto che l’effetto abrogativo del d.lgs. n. 112/1998 non poteva limitarsi alla caducazione delle sole norme procedimentali sulla nomina e composizione dei consigli di disciplina ma doveva ritenersi che il legislatore avesse inteso sopprimere gli stessi consigli di disciplina quali organi preposti alla irrogazione di sanzioni disciplinari, con conseguente abrogazione implicita di tutte le norme del r.d. n. 148/1931 che postulavano l’operatività di tali

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C. cost., 29 settembre 2004, n. 301; C. cost., 7 novembre 2002, n. 439; C. cost. 13 giugno 200, n. 190 in Banca Dati DeJure. La Corte di Cassazione con sentenza n. 13804 del 31 maggio 2017 ha ritenuto pienamente applicabile lo speciale procedimento disciplinare delineato dall’art. 53 del regolamento allegato A) al r.d. n. 148/1931 il quale, prevedendo una «doppia fase di contestazione», viene a delineare una procedura «maggiormente garantita» per il dipendente del settore autoferrotranviario, rispetto a quella prevista dalla l. 20 maggio 1970, n. 300: v. Cass., 31 maggio 2017, n. 13804 con nota di Megna, Rapporti di lavoro e autoferrotranvieri – Autoferrotranvieri: risolto il dilemma sulla disciplina applicabile al rapporto di lavoro in GI, 2017, 10, 2161. Cfr. Cass., 3 luglio 2015, n. 13654 in Banca Dati DeJure. 15 Lupoli, Autoferrotranvieri, si cambia giudice, in D&G, 8, 2005, 20, nota a Cass., sez. un., 13 gennaio 2005, n. 460.

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organi16. Si era quindi posta la questione della totale soppressione, o meno, dei consigli di disciplina che, tuttavia, è stata risolta nel senso della persistenza degli stessi consigli per la generalità delle aziende di trasporto, salvo che per le gestioni governative, i cui consigli sono stati invece considerati soppressi dall’art. 102, comma 1, lett b), d.lgs. n. 112/199817.

4. Le censure di illegittimità costituzionale. Proponendo ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia il lavoratore ha denunciato l’illegittimità costituzionale della sanzione disciplinare della retrocessione, ritenuta in contrasto con gli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. La sanzione della retrocessione, per effetto della quale gli agenti vengono trasferiti al grado immediatamente inferiore, è contemplata dagli artt. 37, comma 1, n. 5 e 44 all. A) r.d. n. 148/1931; ai sensi dell’art. 44 all. A) quando il provvedimento stesso viene applicato a norma dell’art. 55 all. A) in sostituzione della destituzione, si prevede che possa farsi luogo eccezionalmente alla retrocessione di due gradi. I giudici di merito avevano già dubitato della legittimità costituzionale della sanzione della retrocessione, tuttavia la Corte Costituzionale aveva dichiarato inammissibile la questione per difetto di giurisdizione del giudice a quo18. In particolare, il lavoratore ha ritenuto la disciplina della retrocessione in contrasto con la tutela del lavoro e quindi della professionalità del prestatore assicurate dall’art. 35 Cost. Il lavoratore ha infatti precisato che la qualifica, esprimendo il livello di esperienze maturato dal prestatore e formalmente riconosciutogli nel corso del rapporto, appare strettamente legata alla sua persona. E poiché rappresenta e si identifica con la persona del lavoratore – e non costituisce un beneficio accordato discrezionalmente dal datore di lavoro – secondo il ricorrente appare inammissibile che il datore possa privare con un mero provvedimento disciplinare il

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Cons. Stato, Parere 19 aprile 2000 n. 453 con nota di Duranti in www.lexitalia.it. Il Consiglio di Stato su richiesta della Regione Lombardia che, dopo aver provveduto (con l. regionale 5 gennaio 2000, art. 3, comma 126, in attuazione del d. lgs. n. 112/1998) a sopprimere «le funzioni amministrative sinora svolte dalla Regione, concernenti la nomina dei consigli di disciplina delle aziende di trasporto pubblico locale», aveva evidenziato la necessità di individuare le procedure ed i soggetti legittimati ad irrogare le sanzioni disciplinari nelle ipotesi delineate dagli articoli 43, 44 e 45 del citato r.d. n. 148 del 1931, aveva stabilito che dovesse essere «riconsiderata la possibilità di applicazione anche nella materia in esame delle nome procedurali e processuali di cui alla legge 20 maggio 1970, n. 300». «Abrogate, infatti, le norme del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148 che regolavano il procedimento di irrogazione delle sanzioni disciplinari previste dagli articoli 43, 44 45 del medesimo decreto, e venuta, quindi, meno, limitatamente a questo profilo, la normativa speciale vigente nella materia del rapporto di lavoro del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione, non vi sono più ostacoli alla piena applicazione in tale ambito della disciplina di diritto comune dettata dalla L. n. 300 del 1970». «In particolare, le sanzioni disciplinate di cui agli articoli 43, 44 e 45 del R.D. n. 148 del 1931 saranno ora comminabili dai soggetti competenti in base all’ordinamento interno dell’impresa, nel rispetto delle garanzie sancite dalla L. n. 300 del 1970. Deve, inoltre, ammettersi la possibilità che la materia disciplinare costituisca oggetto di ulteriore regolamentazione in sede di contrattazione collettiva». 17 Cass., 17 giugno 2015, n. 12490 in Banca Dati DeJure. 18 V. in particolare C. cost., 17 novembre 1992, n. 458 e C. cost., 23 febbraio 1994, n. 60 in Banca Dati DeJure. La questione era stata proposta da giudice ordinario quando ancora si riteneva operante la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

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lavoratore della capacità lavorativa raggiunta, retrocedendolo ad una qualifica inferiore o addirittura azzerando – attraverso ripetute retrocessioni – i progressi tecnici maturati dal dipendente stesso. Il lavoratore ha altresì sottolineato che il diritto al lavoro (e di conseguenza il diritto alla qualifica e alla mansione corrispondente) deve essere ricompreso tra i diritti inviolabili dell’uomo in quanto l’attività lavorativa non costituisce solo strumento di sostentamento ma anche una modalità di manifestazione della personalità del lavoratore. Per cui la lesione dei valori costituiti in capo al prestatore di lavoro subordinato si pone in conflitto anche con le previsioni di cui all’art. 2 Cost. Richiamando la legislazione ordinaria, e in particolare l’art. 2103 c.c. (come modificato dalla l. n. 300/1970, secondo la versione applicabile ratione temporis) e l’art. 7 della l. 20 maggio 1970, n. 300, il ricorrente ha asserito il contrasto delle disposizioni del r.d. n. 148/1931 (artt. 37, comma 1, n. 5 e 44 all. A)) con l’art. 3 Cost. in quanto, prevedendo una regolamentazione speciale e peggiorativa delle sanzioni disciplinari per i soli dipendenti delle aziende autoferrotranviarie, attuano una disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri lavoratori dipendenti per i quali la legge non prevede né ammette la possibilità di una definitiva perdita della qualifica raggiunta quale sanzione disciplinare. Ad avviso del lavoratore gli artt. 37 e 44 all. A) al r.d. n. 148/1931 si pongono in netto contrasto anche con l’art. 4 Cost. che, riconoscendo nel lavoro uno dei principi fondanti della Repubblica, rimanda alla funzione sociale del lavoro svolto come mezzo di realizzazione dell’individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali.

5. Le argomentazioni della Corte remittente. Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore ritenendo che le censure mosse da quest’ultimo meritassero un approfondito vaglio di merito da parte del Giudice delle leggi. La Suprema Corte ha innanzitutto evidenziato che alla luce delle novità politico-sociali e normative intervenute nelle more del lungo tempo trascorso dall’emanazione del vetusto r.d. n. 148/1931 è divenuto «difficile sostenere ancora la specialità del rapporto degli autoferrotranvieri»19 e che la sanzione della retrocessione appare non solo «inattuale» ma altresì «irragionevole». Dal testo degli artt. 37, 44 e 55 all. A) al r.d. n. 148/1931 – sostengono gli Ermellini – emerge il «carattere punitivo e militaresco» della retrocessione che assumendo i connotati di una «vera e propria pena» piuttosto che di una mera sanzione disciplinare, non trova

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La Corte ha richiamato in particolare Cass., sez. un., 13 gennaio 2005, n. 460, cit.; Cfr. Cass., sez. un., 28 gennaio 2005, n. 1728; Cass. sez. un., 5 aprile 2005, n. 6999; Cass. sez. un., 12 maggio 2005, n. 9939; Cass. sez. un., 15 gennaio 2007, n. 613; Cass., sez. un., 27 marzo 2008, n. 7939; Cass., sez. un.,13 giugno 2008, n. 15917 in Banca Dati DeJure.

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analogo riscontro «afflittivo», «umiliante» e «degradante» nei diversi trattamenti disciplinari riservati agli altri dipendenti civili. Siamo di fronte ad una sanzione che si ripercuote normalmente a tempo indeterminato sulla qualifica professionale conseguita dal lavoratore: l’art. 44 r.d. n. 148/1931, all. A) all’ultimo comma prevede la possibilità per il lavoratore di ottenere la restituzione della qualifica rivestita prima della retrocessione, purché sia trascorso almeno un anno dal provvedimento; si tratta tuttavia di una «pura facoltà di concessione aziendale», essendo rimessa alla valutazione (e quindi alla discrezionalità) del datore la meritevolezza di un eventuale ripristino della stessa sanzione. Laddove l’azienda reputi il lavoratore non meritevole della reintegrazione nella qualifica di provenienza, la sanzione opererà con effetti permanenti e definitivi. Il carattere afflittivo e tendenzialmente a tempo indeterminato della retrocessione si pone in aperta collisione con l’art. 35, comma 2, Cost. il quale prevede che «la Repubblica cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori». Tale indeterminatezza cronologica e quindi la vaga possibilità di ripristino incidono negativamente anche sul diritto alla «retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa» nei sensi di cui all’art. 36 Cost. È evidente il contrasto della sanzione della retrocessione di cui agli artt. 37 e 44 r.d. n. 148/1931 all. A) con i principi dettati dall’art. 7 della l. n. 300/1970. L’art. 7, comma 4, della l. n. 300/1970 stabilisce che, fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro. E proprio tale divieto, come ha osservato autorevole dottrina, inibisce la retrocessione di qualifica e/o di mansioni adottata a titolo di sanzione20. Allo stesso modo la Cassazione ha ritenuto qualificabile come sanzione disciplinare e quindi illegittimo anche il mutamento di mansioni nel quale sia ravvisabile una portata ontologicamente punitiva21. Del resto, nel rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri non si rinviene alcuna peculiarità in grado di giustificare una deroga a tali principi generali.

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Pera, Art. 7, in Assanti – Pera, Commento allo Statuto dei diritti dei lavoratori, Cedam, 1972, 81; Freni – Giugni, Lo Statuto dei lavoratori, Giuffrè, 1971, 174. In giurisprudenza: Pret. Milano, 24 dicembre 1997, in RCDL, 1998, 134. 21 V. Cass., 19 novembre 1997, n. 11520 in RIDL, 1998, II, 521 con nota di Bano. «Ove il mutamento di mansioni equivalenti segua immediatamente ad una contestazione disciplinare e ad una prima sanzione disciplinare, senza essere accompagnata da una autonoma motivazione, in maniera tale da far ragionevolmente ritenere che il comportamento sanzionato sia stata la ragione determinante, o comunque prevalente, della sottrazione delle mansioni, non può negarsi che quel provvedimento assuma tutti i connotati ed i contenuti punitivi tipici di una sanzione disciplinare. Tale contenuto ontologicamente punitivo, di per sé idoneo ad incidere sulla immagine e dignità del lavoratore, reclama l’adozione delle cautele previste dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori, non potendosi negare l’interesse del lavoratore a difendere la sua dignità ed immagine di fronte ad una contestazione inesistente». È invece stata ritenuta legittima la previsione da parte della contrattazione collettiva del trasferimento come sanzione disciplinare sull’assunto che esso non implica un mutamento definitivo del rapporto di lavoro ma incide solo sul luogo di adempimento della prestazione: Cass., 24 marzo 2010, n. 7045; Cass., 6 agosto 2003, n. 11882; Cass., 27 giugno 1998, n. 6383; Cass., 28 settembre 1995, n. 10252; Cass., 23 maggio 1991, n. 5797 in Banca Dati DeJure. Contra Ballestrero, Il trasferimento dei lavoratori in Pera (a cura di) L’applicazione dello Statuto dei lavoratori: tendenze ed orientamenti, Milano, 1973, 169-171.

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Parimenti, la sanzione della retrocessione non è contemplata nell’ambito degli altri rapporti di lavoro caratterizzati dalle medesime esigenze: non è prevista né per i ferrovieri o gli autoferrotranvieri internavigatori delle autolinee private, né per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato, né per i dipendenti delle aziende di trasporto merci22. Emerge dunque una irragionevole disparità di trattamento in danno dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri. La Corte remittente ha dunque messo in evidenza anche il contrasto della sanzione della retrocessione con gli artt. 1, comma 1, 4 e 35 Cost., sottolineando la particolare importanza attribuita dalla Costituzione al lavoro al fine di realizzare il pieno sviluppo della personalità umana 23. In questo senso è opportuno richiamare anche il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, che ha riconosciuto in capo al lavoratore il diritto all’effettivo svolgimento della propria prestazione. Gli Ermellini hanno individuato il fondamento del diritto del lavoratore a svolgere effettivamente le mansioni dedotte in contratto, oltreché sulla base del dato testuale dell’art. 2103 c.c. (che, ricordiamo, in virtù dell’art. 3 r.d. n. 148/1931, allegato A), non è applicabile al rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri), proprio in riferimento a quella che è la funzione del lavoro, che costituisce non solo un mezzo di sostentamento e di guadagno ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore, ai sensi degli artt. 2, 4, e 35 Cost24. Emerge così chiaramente il «retrivo aspetto etico-sociale» della sanzione della retrocessione, che si pone in aperto contrasto anche con i valori solennemente affermati dall’art. 2 della Carta Costituzionale, che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.

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Il CCNL Autoferrotranvieri – mobilità 23/7/1976, all’art. 66 prevede le sanzioni del rimprovero (verbale e scritto), della multa, della sospensione dal lavoro e della relativa perdita della retribuzione e del licenziamento. Il CCNL Ferrovie dello Stato 6/2/1998, all’art. 95 contempla le sanzioni del rimprovero verbale e scritto; della multa, della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione e del licenziamento. Il CCNL Trasporto e spedizioni merci 25/7/1991, all’art. 31 tra le sanzioni disciplinari prevede: a) rimprovero verbale; b) rimprovero scritto; c) multa in misura non superiore a 3 ore di retribuzione da versarsi all’Istituto di Previdenza Sociale; d) sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un periodo da 1 a 10 giorni. 23 La Corte, in particolare, ha richiamato C. Cost., 8 novembre 2018, n. 194 che ha ritenuto incostituzionale l’art. 3, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 nella parte in cui dispone la liquidazione dell’indennità per licenziamento ingiustificato in misura fissa e non modificabile di «due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». V. Mazzotta, Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in www.rivistalabor.it, 1° dicembre 2018. 24 V. tra le molte, Cass., 3 giugno 1995, n. 6265; Cass., 1 giugno 2002, n. 7967; Cass., 5 ottobre 2004, n. 19899; Cass., 18 maggio 2012 n. 7963 in Banca Dati DeJure.

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6. Alcune considerazioni conclusive. Come si è cercato di mettere in luce, siamo di fronte ad un quadro normativo «vetusto»25, frammentato, farraginoso ed estremamente complesso che rappresenta un unicum nel diritto del lavoro. Per mettere ordine alla disciplina del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri il legislatore nel 2017 con il d.l. 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla l. 21 giugno 2017, n. 96 aveva disposto l’abrogazione del r.d. n. 148/193; tuttavia con «eccentrica tecnica normativa» con il d.l. 20 giugno 2017, n. 91, convertito con modificazioni dalla l. 3 agosto 2017, n. 123 è stato ripristinato il regio decreto, senza tra l’altro tener conto dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale intervenuta medio tempore in materia. Se in generale sembrano essere venuti meno i presupposti per continuare a giustificare la vigenza di un siffatto regime speciale, la inadeguatezza di tale disciplina emerge senz’altro sul piano delle sanzioni disciplinari e in particolare con riguardo alla sanzione della retrocessione, che appare in tutta evidenza in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. Alla luce delle argomentazioni contenute nell’ordinanza di rinvio alla Corte Costituzionale, sembra tuttavia potersi ragionevolmente attendere l’espunzione dal regio decreto della sanzione della retrocessione. Anche se rimane auspicabile l’estensione al rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri dell’intera disciplina di diritto comune. Alessia Matteoni

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Cass., sez. un., 13 gennaio 2005, n. 460, cit.

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Giurisprudenza Tribunale di R oma, sez. lav., sentenza 6 maggio 2019, n. 4243; Giudice Daniela Bracci – A. C. C. Spa (Avv. ti Parisi, Larussa, Gallo) c. A.S., A.S., C.A., E.V., W.F. (Avv. Colabraro). Parasubordinazione – Collaborazioni outbound di call center – Collaborazioni etero-organizzate – Sussistenza elementi – Accordo collettivo nazionale – Ipotesi derogatoria – Sussistenza – Applicazione disciplina del lavoro subordinato – Esclusione.

In materia di collaborazioni organizzate dal committente, non è applicabile la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai collaboratori outbound di call center in ragione dell’esistenza di un Accordo collettivo nazionale che, per particolari esigenze produttive ed organizzative, prevede una disciplina specifica riguardante il trattamento economico e normativo di tali collaboratori. Svolgimento del processo. – Con distinti ricorsi depositati il 13.7.2018, A. C. C. spa adiva il Tribunale di Roma in funzione di GL chiedendo di accertare e dichiarare che i rapporti di collaborazione intercorsi tra la società ricorrente e ciascuno dei convenuti erano legittimi e non erano in alcun modo riconducibili al rapporto di lavoro subordinato. Deduceva di essere una società esercente attività di customer care tramite canali di front office e back office, assistenza commerciale e tecnica, gestione reclami; che i convenuti, dal 2016 al 2018, avevano stipulato con la ricorrente diversi contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento dell’attività di collaboratore “out bound” di call center, nell’ambito di due campagne telefoniche affidate in gestione dalla T. spa ad A. C. C. spa e afferenti la gestione dei disservizi tecnici eventualmente riscontrati dagli utenti di T. sulle loro linee telefoniche fisse e/o mobili e/o su modem «– Omissis.»; che nella campagna “Collaudi”, l’attività del collaboratore consisteva nel contattare gli utenti che avevano riscontrato un disservizio sulla loro linea telefonica e/o modem e per accertarsi che fosse andato a buon fine l’intervento tecnico richiesto e verificare che vi fosse stato un gradimento del servizio ricevuto proponendo eventualmente anche l’eventuale adesione a specifiche offerte bundle e/o a una particolare articolazione tariffaria dati più vantaggiosa «– Omissis.»; con riferimento alla Commessa BOM, l’attività del collaboratore consisteva invece nel contattare gli utenti che avevano riscontrato un disservizio sulla loro linea telefonica e/o modem per poi prendere direttamente in carico il c.d. “ticket” creato dal sistema a seguito della segnalazione del disservizio/guasto da parte dell’utente, per poi cercare di trovare, a seconda dei casi, la soluzione migliore per dare supporto all’utenza nella risoluzione del problema; «– Omissis.»; che a fronte della segnalazione del disservizio il sistema creava un ticket di disservizio; che il collaboratore decideva quando rendere la prestazione; che visualizzando l’elenco dei ticket presen-

ti nel sistema, l’operatore poteva decidere di togliere qualcuno dall’elenco procedendo a contattare il ticket scelto; che nel caso non vi fossero ticket in elenco, l’operatore poteva scegliere se restare o meno in attesa che l’elenco si riempisse, per poi valutare se procedere o meno alla lavorazione; che il collaboratore non aveva vincoli di orario, rimanendo libero di scegliere se e quando rendere la prestazione; che il collaboratore comunicava alla ricorrente la sua disponibilità di giorno e orario, prenotando la postazione; che in caso di eventuale mancanza di disponibilità a rendere la propria prestazione professionale, il collaboratore non era tenuto a giustificare la sua assenza e non era soggetto ad alcun tipo di sanzione disciplinare; «– Omissis.»; che era interesse della ricorrente adire il Tribunale di Roma, ove sussisteva la sede dell’azienda, al fine di vedere accertata la legittimità dei contratti di collaborazione intercorsi tra le parti. Svolte articolate considerazioni in diritto, concludeva chiedendo al GL l’accoglimento della domanda con il favore delle spese di lite. Fissata l’udienza si costituivano in giudizio A.S., A.S., C.A., e W.F. «– Omissis.». Nel merito chiedeva il rigetto della domanda. Deducevano di aver lavorato per la ricorrente dal 2016 al 2018 senza soluzione di continuità in forza di numerosi contratti di lavoro, denominati inizialmente “Contratto di collaborazione esclusivamente personale e continuativa” e dall’1.2.2018 “ contratto di collaborazione coordinata e continuativa «– Omissis.»; che l’attività svolta per tutto il rapporto di lavoro era inerente l’assistenza tecnica a clienti Tim, sia residenziali che imprese; che tale assistenza costituiva una fase fondamentale del ciclo produttivo inerente la commessa T.; «– Omissis.»; che T. valutava la qualità del servizio reso dall’operatore Bom in base: ai tempi medi (diversi per tipologia di guasto), alle richiamate (cd rework, consistenti nella richiamata del cliente entro i tre e i sette giorni dalla prima segnalazione), alle percentuali degli invii on field (cioè al tecnico di zona: maggiori erano le richiamate o gli invii ai tecnici di


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zona, minore è la qualità del servizio secondo T.); che tali attività e parametri di valutazione erano identici a quelli dell’operatore del 187 che rispondeva al cliente in front end (che era inquadrato con rapporto di lavoro subordinato in quanto operatore inbound); che l’azienda A., attraverso i propri team leader, pretendeva la lavorazione di un tot ticket ad ora, generalmente 10, al fine di ottenere il vantaggio del pagamento a provvigioni; «– Omissis.»; i team leader davano precise direttive non solo sulla durata della telefonata ma anche sulle modalità di svolgimento, in concreto, delle telefonate e dunque dell’attività del resistente; che i turni di 4 ore (da svolgere all’interno di una macrofascia 8/21) venivano scelti settimanalmente dal lavoratore; che l’azienda li limitava nel numero decidendo, in base alle proprie esigenze, quante postazioni rendere disponibili; che quindi se tutti i posti del turno prescelto dal lavoratore erano occupati, lo stesso o sceglieva un altro turno o non andava a lavoro; che per modificare il turno (nella stessa settimana) era necessario comunicarlo al team leader il quale verificava che il turno originariamente scelto venisse comunque coperto; che le assenze e i ritardi dovevano essere comunicate «– Omissis.»; che dal mese di maggio 2018 i team leader avevano iniziato ad imporre delle tabelle di turni ove si poteva lavorare senza problemi tre giorni scelti giovedì, venerdì e domenica ma imponevano due assenze settimanali ad ogni lavoratore; che i giorni di assenza erano, pure, scelti proprio dai team leader tra i giorni di lunedì, martedì, mercoledì e sabato; che l’Accordo del 31.7.2017 non era applicabile al rapporto de quo, in quanto detto accordo concerneva i collaboratori che svolgevano attività di vendita diretta di beni e di servizi; che i resistenti, come tutti i colleghi del reparto BOM/Collaudo, avevano svolto attività di assistenza non finalizzata (a dispetto di quanto scritto nei contratti) alla vendita di beni o servizi, ma alla risoluzione diretta dei problemi di fonia e internet dei clienti T.; che A. C. C. non aveva rispettato l’accordo collettivo perché aveva decurtato arbitrariamente la retribuzione; di avere i resistenti diritto ad ottenere la conversione del rapporto di lavoro in un normale e ordinario rapporto di lavoro subordinato, alle differenze retributive ed alla riammissione in servizio; che le mansioni svolte dai resistenti erano riconducibili al IV livello ccnl Telecomunicazioni. Svolte considerazioni in diritto, concludevano chiedendo l’inammissibilità o il rigetto del ricorso; in via riconvenzionale chiedevano di accertare e dichiarare che «– Omissis.» fra le parti era intercorso nei fatti un rapporto di lavoro subordinato «– Omissis.».; in subordine accertare e dichiarare che nei periodi sopra indicati era intercorso un rapporto ex art. 2, c. 1 D.lgs. 81/15, dichiarare la non applicabilità dell’accordo collettivo del 31.7.2017 o di altri accordi collettivi di settore (di cui all’art. 2, c. 2 D.ls 81/15), e conseguentemente qualificare il rapporto come subordinato a tempo indeterminato ex tunc, per

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mansioni di 4° liv. Ccnl Telecomunicazioni, qualifica di “Specialista di interventi tecnici”, (o in subordine la minore qualifica ritenuta di giustizia) part time 24 ore settimanali; conseguentemente condannare la A. C. C. Spa alla reintegra di ciascun resistente (ricorrente in riconvenzionale) nel posto di lavoro con la qualifica di “Specialista di interventi tecnici”, 4° liv. Ccnl Telecomunicazioni, part-time 24 ore settimanali ed alla corresponsione delle differenze retributive fra quanto percepito nel corso del rapporto di lavoro e quanto avrebbe dovuto percepire sulla base del ccnl Telecomunicazioni come specialista di interventi tecnici, 4° livello, part-time 24 ore «– Omissis.». Motivi della decisione. – Osserva il Giudice che «– Omissis.». Nel merito va accolto perché fondato. Sul lavoro subordinato. Ai fini della distinzione fra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo, assume valore determinante «– Omissis.» l’accertamento della avvenuta assunzione, da parte del lavoratore, dell’obbligo contrattuale di porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative e di impiegarle con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro e in funzione dei programmi cui è destinata la produzione, per il perseguimento dei fini propri dell’impresa datrice di lavoro (cfr. Cass. n. 2842 del 26.2.2002 «– Omissis.»). Nel caso di specie è pacifico che il collaboratore (cioè i resistenti) poteva prenotarsi in fasce orarie di quattro ore e che una volta prenotata la postazione, egli poteva decidere di non presentarsi e di non rendere alcuna prestazione o di lavorare meno delle quattro ore prenotate. Conseguentemente il ricorrente poteva disporre della prestazione lavorativa dei resistenti solo se questi decidevano di prenotare la postazione lavorativa nell’ambito delle fasce orarie stabilite. È vero che si trattava di fasce orarie predeterminate dalla società A. ma è anche vero che la stessa non aveva il potere di imporre ai collaboratori di lavorare nelle ore prenotate o di non revocare la disponibilità data, a dimostrazione della insussistenza del vincolo della subordinazione. «– Omissis.». Pertanto deve escludersi la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti. In relazione alla riconducibilità o meno del rapporto de quo alla fattispecie prevista dall’art. 2 d.lgs. n. 81/2015, si osserva che tale norma «– Omissis.» individua un terzo genere (le co.co.org.), che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 cc e la collaborazione coordinata e continuativa come prevista dall’art. 409 n. 3 c.p.c. L’art. 2, comma 1, individua quindi tre elementi che devono sussistere contemporaneamente perché alla collaborazione si possa applicare la disciplina del lavoro subordinato. Come prima caratteristica le prestazioni di lavoro devono essere “esclusivamente personali”, elemento, questo, tipico del lavoro subordinato impli-


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cante l’impossibilità sia di delegare ad un altro soggetto sia di farsi aiutare da lavoratori assunti e retribuiti direttamente dal lavoratore. Anche nel lavoro autonomo, però, la prestazione oggetto del contratto d’opera o libero-professionale può essere esclusivamente personale per volontà delle parti o perché coessenziale all’oggetto della prestazione, senza che ciò si traduca nella mutata qualificazione del rapporto da autonomo a subordinato. «– Omissis.». Ulteriore caratteristica prevista dall’art. 2 comma 1 citato è che queste collaborazioni debbano anche essere “continuative”. Tratto, anche questo, tipico del lavoro subordinato ma non incompatibile con il lavoro autonomo e caratteristica propria delle co.co.co. di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c.; di per sé quindi si tratta di un elemento non dirimente per la qualificazione del rapporto nell’area della subordinazione o dell’autonomia, anche parasubordinata. Ai fini della norma in esame, la continuatività deve peraltro intendersi come non occasionalità e dall’altro, riguardo alla esecuzione della prestazione, come svolgimento di attività che vengono (anche se intervallate) reiterate nel tempo al fine di soddisfare i bisogni delle parti (cfr. Corte Appello Lavoro Torino n. 26 del 4.2.2019). Infine, tali rapporti di collaborazione si devono concretare in prestazioni di lavoro “le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, così enucleando l’elemento della “etero-organizzazione”, che appare certamente qualcosa di più invasivo rispetto al mero “coordinamento” con il committente, tipico delle co.co.co. di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c., , nelle quali le modalità di esecuzione della prestazione sono il frutto di un accordo delle parti, ma rappresentando necessariamente qualcosa di meno rispetto all’esercizio del potere direttivo e di conformazione (eterodirezione) della prestazione da parte del datore di lavoro. La norma postula quindi un concetto di etero-organizzazione in capo al committente che viene così ad avere il potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa del collaboratore e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi di lavoro. Pur senza “sconfinare” nell’esercizio del potere gerarchico, disciplinare (che è alla base della eterodirezione) la collaborazione è qualificabile come eteroorganizzata quando è ravvisabile un’effettiva integrazione funzionale del lavoratore nella organizzazione produttiva del committente, in modo tale che la prestazione lavorativa finisce con l’essere strutturalmente legata a questa (l’organizzazione) e si pone come un qualcosa che va oltre alla semplice coordinazione di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c., poiché qui è il committente che determina le modalità della attività lavorativa svolta dal collaboratore. Abbiamo così l’esercizio del potere gerarchico-disciplinare-direttivo che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato ex art 2094 cc (in cui il prestatore è comunque tenuto all’obbedienza), l’etero-organizzazione produttiva del committente

che ha le caratteristiche sopra indicate (e rientra nella previsione di cui all’art. 2 d.lgs. n. 81/2015) e la collaborazione coordinata e continuativa ex art. 409 n. 3 c.p.c. in cui è il collaboratore che, pur coordinandosi con il committente, organizza autonomamente la propria attività lavorativa (in questo caso le modalità di coordinamento sono definite consensualmente e quelle di esecuzione della prestazione autonomamente). Giova evidenziare che l’applicazione dell’art. 2 comma 1 d.lgs. n. 81/2015 in ogni caso non comporta la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra le parti (cfr. Corte Appello Torino sentenza del 4.2.2019 n. 26). Invero la norma stabilisce solo che a far data dal 1°gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione autonoma etero-organizzata (in essere), che però continuano a mantenere la loro natura. Ciò significa che il lavoratore etero-organizzato resta, tecnicamente, “autonomo” ma per ogni altro aspetto, e in particolare per quel che riguarda sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (quindi inquadramento professionale), limiti di orario, ferie e previdenza, il rapporto è regolato nello stesso modo. Viene, pertanto, fatto salvo l’assetto negoziale stabilito dalle parti in sede di stipulazione del contratto con l’estensione delle tutele previste per i rapporti di lavoro subordinato. Mette conto osservare che i rapporti di collaborazione intercorsi tra le parti presentano tutti e tre gli elementi sopra evidenziati, caratterizzanti la fattispecie prevista dall’art. 2 d.lgs. n. 81/2015; peraltro nello specifico non è applicabile la disciplina del rapporto di lavoro subordinato per effetto dell’ipotesi derogatoria prevista dall’art. 2 comma 2 d.lgs. n. 81/2015. Tale norma stabilisce che: “la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento: a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore; «– Omissis.»”. La prima ipotesi derogatoria, unica rilevante ai fini di causa, corrobora indubbiamente l’interpretazione del comma 1 sopra esposta e cioè che le co.co.org. non modifichino, in senso espansivo, l’area della subordinazione ma restino nell’area del lavoro parasubordinato, assimilato, quanto alla disciplina del rapporto, al lavoro subordinato. Tale conclusione si ricava dalla considerazione che se fosse vero che le co.co.org. allargano la fattispecie del 2094 c.c. venendo comunque in essa risucchiate, allora la contrattazione collettiva non potrebbe disporre così liberamente delle tutele per tali lavoratori senza alcun tipo di limite o paracadute, costituendo ciò violazione dei principi generali in tema di inderogabilità delle norme poste a tutela del lavoratore subordinato, indisponibilità dei diritti del lavoratore e probabilmente

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violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevolezza della disparità di trattamento con il lavoro etero-diretto; si consentirebbe una deroga alle norme di legge addirittura più ampia di quella consentita dall’art. 8 d.l. n. 138/2011, convertito in legge n. 148/2011. Ritenendo invece che le co.co.org. non subiscono una mutazione genetica e non perdono la loro natura di lavoro autonomo parasubordinato, allora diventa perfettamente ammissibile che “gli accordi collettivi nazionali” - si noti che il legislatore non usa nemmeno il termine “contratti collettivi” - stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedano “discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore”. Giova osservare che il legislatore non fa riferimento ai contratti collettivi nazionali dei lavoratori subordinati ma a quelli dei lavoratori parasubordinati, che vengono convenzionalmente indicati proprio attraverso la suddetta espressione. L’ipotesi esclusa finisce allora per confermare la lettura che si è proposta del comma 1 e cioè che non si vuole riqualificare la fattispecie ma solo individuare la disciplina applicabile che è quella del lavoro subordinato, salva diversa previsione degli accordi collettivi nazionali, trattandosi comunque di disciplina migliorativa rispetto a quella davvero scarna applicabile al lavoro autonomo parasubordinato non etero-organizzato, cioè alle co.co. co., e quindi senza che si pongano problemi di inderogabilità delle norme o indisponibilità dei diritti e nemmeno di parità di trattamento ex art. 3 Cost., ma di valorizzazione dell’autonomia contrattuale (ex art. 1322 c.c.) che comunque nel corso degli anni ha prodotto alcuni accordi collettivi per i parasubordinati. Le associazioni sindacali vengono quindi autorizzate a disapplicare la normativa che regola il rapporto di lavoro subordinato se sussistono determinati presupposti: 1) le collaborazioni oggetto dell’intervento devono essere co.co.org. di cui al comma 1, pur ovviamente potendosi estendere la tutela anche alle co.co.co. proprio in virtù di quanto sopra detto; 2) i soggetti stipulanti devono essere comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, in modo da garantire la loro forza e genuinità; 3) la deroga deve essere giustificata da particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore, che quindi dovranno essere esplicitate e comprovate e consentiranno di ammorbidire l’impatto

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dell’equiparazione disposta dal comma 1 in certi settori in cui il rischio di un aumento repentino del costo (in senso lato) del lavoro parasubordinato può addirittura essere quello della delocalizzazione; 4) l’alternativa alla disciplina legale deve essere una disciplina specifica riguardante sia il trattamento economico sia normativo, quindi non solo una tutela economica con riferimento al compenso minimo, come era per l’art. 63 d.lgs. n. 276/03, ma anche con la previsione di tutele sul piano normativo. Il potere demandato ai sindacati nella ideazione di uno statuto protettivo alternativo a quello legale è ampio, pur dovendosi evidenziare che la selezione dei contraenti, la necessaria giustificazione dell’intervento della normazione autonoma e il fatto che la disciplina contrattuale debba essere specifica e riguardare sia il trattamento economico sia normativo, fanno dedurre che la voluntas legis sia quella di porre dei limiti ben chiari, anche di carattere sostanziale, all’autonomia sindacale, con l’obiettivo di fornire una maggior tutela ai collaboratori. Nello specifico settore delle collaborazioni out bound le OO.SS hanno sottoscritto un primo Accordo collettivo nazionale l’1.8.2013 (doc 4 ricorso), espressamente richiamato nel successivo Accordo del 30.7.2015 «– Omissis.». Con gli Accordi collettivi nazionali successivi, e segnatamente con l’accordo del 28.6.2016 (doc. 6) e del 31.7.2017 (doc. 7), le parti sociali hanno, poi, espressamente ribadito ed integrato ulteriormente la disciplina economica e normativa dei collaboratori di call center già disciplinata dai precedenti accordi appena sopra ricordati. «– Omissis.» l’Accordo del 2017 continua a prevedere il riferimento al “collaboratore che svolga attività di vendita diretta di beni, servizi, agenda presa di appuntamenti, recupero crediti e ricerche di mercato…”. Dunque, secondo il tenore letterale dell’Accordo collettivo, rientra nella previsione contrattuale anche l’attività call center out bound di assistenza tecnica sganciata dalla vendita. Ne consegue quindi la scarsa rilevanza sul punto dell’assunto del resistente di aver svolto principalmente attività di call center out bound di assistenza tecnica e solo marginalmente di vendita di servizi. «– Omissis.». Alla luce di siffatti rilievi, in accoglimento del ricorso, devono quindi escludersi profili di illegittimità dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa intercorsi tra le parti. Si impone pertanto il rigetto della domanda riconvenzionale. «– Omissis.».


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Collaborazioni etero-organizzate: l’esistenza di un Accordo collettivo nazionale esclude l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato Sommario : 1. Il caso. – 2. Collaborazioni etero-organizzate: quadro di riferimento. – 3. Contrattazione collettiva e qualificazione del rapporto: spunti critici. – 4. Osservazioni conclusive.

Sinossi. Il Tribunale di Roma non applica alle collaborazioni outbound di call center oggetto di causa la disciplina del rapporto di lavoro subordinato per effetto dell’ipotesi derogatoria configurata dall’art. 2, comma 2, lettera a) del d.lgs. n. 81/2015 e cioè in ragione dell’esistenza di un Accordo collettivo nazionale applicabile ai suddetti rapporti. Il commento anzitutto analizza la decisione alla luce del panorama dottrinale e giurisprudenziale in argomento, dopodiché approfondisce il tema del rapporto tra autonomia collettiva e qualificazione del rapporto di lavoro, rilevando alcune criticità. Abstract. The court of Rome does not apply the rules and regulations of employer-employee relations to the call center outbound services. The non-interference is due to the existence of a national collective Agreement enforceable to the above-stated relations which accomplishes the exemption hypothesis represented art. 2, subsection 2, letter a), d.lgs. n. 81/2015. First of all these notes examine the resolution in light of the doctrinal and jurisdicional scene under discussion; afterwards they study in depth the relationship between collective autonomy and the definition of working relations by pointing out some criticisms.

1. Il caso La sentenza in commento ha ad oggetto la qualificazione di cinque rapporti di lavoro intercorsi tra una società esercente attività di customer care – alla quale era stata affidata da parte di T. s.p.a. la gestione di eventuali disservizi tecnici riscontrati dagli utenti di T. – e i convenuti, i quali avevano svolto attività di call center in modalità outbound. Secondo quanto affermato dalla ricorrente l’attività dei collaboratori consisteva nel contattare i clienti di T. che avessero riscontrato disservizi, in alcuni casi supportando l’utenza nella risoluzione del problema, in altri prendendo contatto dopo l’intervento tecnico per accertarsi che esso fosse andato a buon fine ed eventualmente proporre tariffe vantaggiose. Ciascun collaboratore era libero di scegliere se (e quando) rendere la prestazione, pertanto la società aveva adito il Giudice del Lavoro per chiedere l’accertamento della

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legittimità dei rapporti di collaborazione, in quanto non riconducibili a rapporti di lavoro subordinato. I convenuti, per contro, sostenevano che la loro attività di assistenza tecnica doveva svolgersi secondo precise modalità stabilite dalle direttive dei team leader, che tale attività era esaminata e valutata da parte di T. (sulla base di parametri identici a quelli degli operatori inbound) e che la scelta dei turni non era in realtà pienamente libera. I resistenti quindi avevano chiesto l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato o, in subordine, di un rapporto di collaborazione organizzata dal committente ex art. 2, comma 1, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 811, ritenendo non applicabile l’Accordo collettivo nazionale del 31 luglio 2017 in materia di collaborazioni outbound2 in quanto concernente la vendita di beni e servizi, e non la risoluzione di problemi tecnici. Nella pronuncia de qua, il Giudice ha preliminarmente escluso la natura subordinata dei rapporti di lavoro intercorsi tra le parti, non avendo ravvisato gli elementi tipici della subordinazione3; successivamente, ha verificato se in concreto tali rapporti di lavoro fossero riconducibili allo schema delle collaborazioni etero-organizzate4.

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Il testo dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 è stato recentemente modificato dall’art. 1, co. 1, lett. a) del d.l. 3 settembre 2019, n. 101, conv. con mod. in l. 2 novembre 2019, n. 128. Tuttavia, essendo le suddette modifiche non retroattive, con riferimento alla fattispecie in esame deve prendersi in considerazione il testo previgente dell’art. 2 cit. Per visionare le due versioni della disposizione v. nota 4. L’Accordo, reperibile su www.bollettinoadapt.it, è stato inizialmente sottoscritto da Assotelecomunicazioni-Asstel e Assocontact con Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil. Tuttavia Assocontact ha successivamente ritirato la firma, sottoscrivendo poi per adesione l’Accordo collettivo nazionale per collaboratori telefonici in modalità outbound dei call center in outsourcing stipulato il 1° marzo 2018 da Assocall e Ugl Terziario. Nella sentenza in commento si afferma che «È vero che si trattava di fasce orarie predeterminate dalla società [...] ma è anche vero che la stessa non aveva il potere di imporre ai collaboratori di lavorare nelle ore prenotate o di non revocare la disponibilità data, a dimostrazione della insussistenza del vincolo della subordinazione» e si richiama Cass., n. 26 febbraio 2002, n. 2842 che, al fine di riconoscere la sussistenza della subordinazione, aveva attribuito valore determinante all’accertamento dell’obbligo del lavoratore di porsi a disposizione del datore di lavoro con continuità e nel rispetto delle direttive impartite. Tuttavia esiste anche un altro e diverso orientamento giurisprudenziale in base al quale invece la libertà del lavoratore di accettare o meno l’offerta di presentarsi al lavoro è un elemento esterno al contenuto del rapporto. Cfr. per questa differente opinione Cass., 13 febbraio 2018, n. 3457, reperibile nella sezione SentenzeWeb del sito www.cortedicassazione.it: «Poiché la subordinazione è limitata al rapporto effettivamente svoltosi, il fatto che, nel caso in esame, il singolo lavoratore fosse libero di accettare o non accettare l’offerta, e di presentarsi o non presentarsi al lavoro e senza necessità di giustificazione, nonché, con il preventivo consenso del datore, di farsi sostituire da altri […], resta irrilevante». La versione dell’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 precedente alle menzionate recenti modifiche disponeva che «A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. La disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento: a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore; b) alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali; c) alle attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni; d) alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289. […]». Per attribuire un corretto significato a tale complicata formulazione sono state proposte molteplici soluzioni interpretative della norma (cfr. infra, sub § 2). V. anche la Circolare ministeriale n. 3/2016 dove si legge che «La formulazione utilizzata dal Legislatore, di per sé generica, lascia intendere l’applicazione di qualsivoglia istituto, legale o contrattuale […] normalmente applicabile in forza di un rapporto di lavoro subordinato. In altri termini il Legislatore, rispetto alle fattispecie indicate dall’art. 2, comma I, in esame, ha inteso far derivare le medesime conseguenze legate ad una riqualificazione del rapporto». Per completezza preme comunque rilevare che, dopo le modifiche intervenute, nel primo periodo del comma 1 dell’art. 2 la parola “esclusivamente” è

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Nel corso del proprio iter argomentativo, il Giudice ha affermato che, affinché alla collaborazione possa essere applicata la disciplina del lavoro subordinato, devono sussistere contemporaneamente tre elementi. Anzitutto la prestazione deve essere esclusivamente personale, nel senso che il collaboratore non può avvalersi di altri collaboratori; in secondo luogo la collaborazione deve essere continuativa, cioè deve soddisfare un interesse durevole del creditore; infine, le modalità di esecuzione della prestazione devono essere organizzate da parte del committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Per quanto concerne l’elemento della c.d. etero-organizzazione, il più rilevante e al contempo equivoco5, nella sentenza in commento si chiarisce che «pur senza “sconfinare” nell’esercizio del potere gerarchico, disciplinare (che è alla base della eterodirezione) la collaborazione è qualificabile come etero-organizzata quando è ravvisabile un’effettiva integrazione funzionale del lavoratore nella organizzazione produttiva del committente, in modo tale che la prestazione lavorativa finisce con l’essere strutturalmente legata a questa (l’organizzazione) e si pone come un qualcosa che va oltre alla semplice coordinazione di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c., poiché qui è il committente che determina le modalità della attività lavorativa svolta dal collaboratore». Dall’esame dei fatti dedotti in giudizio, il Giudice ha ravvisato la sussistenza degli elementi tipici della fattispecie prevista dall’art. 2 d.lgs. n. 81/2015. Tuttavia, nonostante i rapporti di lavoro intercorsi tra le parti siano stati qualificati come collaborazioni etero-organizzate, la pronuncia ha statuito che non trova applicazione la disciplina del rapporto di lavoro subordinato per effetto dell’ipotesi derogatoria prevista dall’art. 2, co. 2, lett. a) d.lgs. n. 81/2015. Il Giudice, infatti, ha ritenuto applicabile ai rapporti di lavoro oggetto di causa l’Accordo collettivo del 31 luglio 2017, affermando in proposito che, «secondo il tenore letterale dell’Accordo collettivo, rientra nella previsione contrattuale anche l’attività call center outbound di assistenza tecnica sganciata dalla vendita». In definitiva, il Tribunale ha stabilito che «devono quindi escludersi profili di illegittimità dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa intercorsi tra le parti», decidendo di conseguenza per l’accoglimento del ricorso promosso dalla società.

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stata sostituita dalla parola “prevalentemente” e le parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” sono state soppresse. Inoltre, dopo il primo periodo è stato aggiunto il seguente: “Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali.”. V. le considerazioni di Santoro, Eterorganizzazione e attività lavorative tipologicamente subordinate, in LG, 2015, 8-9, 814 ss., il quale tra le altre cose rileva che il meccanismo di cui all’art. 2 si ispira ad un recente orientamento giurisprudenziale di legittimità che ha valorizzato il criterio della etero-organizzazione, ritenendolo di per sé idoneo alla configurazione della natura subordinata delle prestazioni (822). Getta uno sguardo alla nozione di subordinazione delineata dalla giurisprudenza europea – secondo la quale non è tanto l’elemento della eterodirezione, bensì quello della eterorganizzazione, ad individuare la condizione di subordinazione (574) – Ichino, Sulla questione del lavoro subordinato ma sostanzialmente dipendente nel diritto europeo e in quello degli stati membri, RIDL, 2015, 2, 566 ss.

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2. Collaborazioni etero-organizzate: quadro di riferimento Per comprendere l’importanza della sentenza in commento non si può prescindere dall’esame della questione giuridica che costituisce la premessa teorica della decisione, concernente il significato da attribuire alla norma di cui all’art. 2, 1° comma del d.lgs. n. 81/2015, oggetto di diverse e contrastanti letture6. Tuttavia, sul versante applicativo, nonostante il copioso dibattito scientifico che ha lungamente impegnato la dottrina sull’argomento, non è ancora possibile individuare un orientamento giurisprudenziale che possa definirsi “consolidato”, a fronte delle poche pronunce concernenti la disposizione in commento. In base ad una prima opzione interpretativa prospettata in dottrina l’art. 2 sarebbe una norma priva di efficacia propriamente normativa. In tale prospettiva, a fronte del contenuto che l’art. 2094 c.c. ha acquisito nel diritto vivente attraverso la costante applicazione giurisprudenziale (e non nella sua formulazione codicistica), la norma in argomento non produrrebbe alcun nuovo effetto giuridico7. Tale orientamento è stato fatto proprio da Trib. Torino 7 maggio 2018, n. 7788 che ha affermato che «la disposizione di cui all’art. 2 del D.lgs. 81/2015 non ha un contenuto capace di produrre nuovi effetti giuridici sul piano della disciplina applicabile alle diverse tipologie di rapporti di lavoro. La norma dispone infatti che sia applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro […]. Così come è stata formulata, la norma viene quindi ad avere addirittura un ambito di applicazione più ristretto di quello dell’art. 2094 c.c.»9. Secondo un’altra opzione ermeneutica i rapporti individuati dall’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 si collocherebbero nell’area del lavoro autonomo, risultando dunque estranei all’art. 2094 c.c. La previsione introdotta dal Legislatore nel 2015 si limiterebbe quindi ad estendere la disciplina del lavoro subordinato a tale specifica tipologia di collaborazioni10.

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Per un’accurata ricostruzione delle diverse opinioni dottrinali cfr. Diamanti, Il lavoro etero-organizzato e le collaborazioni coordinate e continuative, in DRI, 2018, 1, 105 ss., il quale a p. 107 sottolinea che l’individuazione dell’esatta portata della norma rappresenta un problema di inquadramento teorico non meramente astratto, bensì che si riflette sulle modalità applicative dello stesso art. 2. 7 Tosi, L’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015: una norma apparente?, in ADL, 2015, 6, 1117 ss., il quale afferma che al più l’art. 2, co. 1 si risolve in un intervento di sostegno alla giurisprudenza nella sua opera di prudente valutazione della ricorrenza, nel caso concreto, degli indici di soggezione del lavoratore a un pieno potere organizzativo del datore di lavoro (p. 1139); Tosi, Autonomia, subordinazione e coordinazione, in Labor, 2017, 3, 245 ss.; Mazzotta, Lo strano caso delle «collaborazioni organizzate dal committente», in Labor, 2016, 1-2, 7 ss., il quale precisa che la disposizione evoca i tratti caratteristici della subordinazione (p. 9) e che non è possibile attribuire al concetto di etero-organizzazione un significato diverso da quello che usualmente si attribuisce all’elemento della eterodirezione (p. 10). 8 Reperibile in LG, 2018, 8, 721 ss., con nota di Recchia, Gig economy e dilemmi qualificatori: la prima sentenza italiana. V. anche il commento di Ichino, Subordinazione, autonomia e protezione del lavoro nella gig-economy, in RIDL, 2, 2018, 294 ss., il quale critica la lettura che il Tribunale di Torino dà alla norma ritenendola non corrispondente all’intendimento del Legislatore e non rispettosa del «canone ermeneutico secondo il quale tra due significati possibili della norma deve preferirsi quello che le attribuisca un qualche effetto pratico rispetto a quello che di ogni effetto pratico la privi» (p. 298). 9 Trib. Torino, 7 maggio 2018, n. 778, cit. 10 Per tale orientamento, che a sua volta si articola in vari indirizzi, v. in dottrina ad es. Perulli, Costanti e varianti in tema di subordinazione e autonomia, in LD, 2015, 2, 271 ss.; Marazza, Collaborazioni organizzate e subordinazione: il problema del limite (qualitativo) di intensificazione del potere di istruzione, in ADL, 2016, 6, 1168 ss.; A. Zoppoli, La collaborazione eterorganizzata:

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Quest’ultimo orientamento è stato ripreso in alcune recenti pronunce giurisprudenziali aventi ad oggetto la qualificazione dei lavoratori su piattaforma digitale. In particolare, il Tribunale di Milano con la sentenza 31 maggio 2018, n. 145211 ha affermato che la previsione normativa di cui all’art. 2 d.lgs. n. 81/2015 «non muta la natura giuridica dei rapporti ivi considerati che è – e resta – quella della collaborazione autonoma»12. Sul punto la Corte d’Appello di Torino13 con la sentenza 4 febbraio 2019, n. 26 ha ulteriormente precisato che «l’applicazione dell’articolo 2 d.lgs. 81/2015 non comport[a] la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra le parti […] Ciò significa che il lavoratore etero-organizzato resta, tecnicamente, “autonomo” ma per ogni altro aspetto […] il rapporto è regolato nello stesso modo»14 del rapporto di lavoro subordinato. Tale opzione interpretativa sembra infine essere stata scelta anche dalla Suprema Corte con la recentissima pronuncia n. 1663 del 24 gennaio 202015, in cui si legge che non ha senso interrogarsi sulla collocazione delle nuove forme di lavoro, varie e complesse e dunque difficilmente qualificabili come subordinate ovvero autonome, perché «per esse […] l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina.». Nel circoscritto panorama delle pronunce finora edite, la sentenza in commento si iscrive a pieno titolo entro l’indirizzo appena descritto – quindi ad oggi prevale in giurisprudenza – laddove afferma che «giova evidenziare che l’applicazione dell’art. 2 comma 1 d.lgs. n. 81/2015 in ogni caso non comporta la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra le parti […]. Invero la norma stabilisce solo che a far data dal 1°gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione autonoma etero-organizzata (in essere), che però continuano a mantenere la loro natura.». Infine, occorre segnalare anche un’altra lettura dell’art. 2 fatta propria da varie voci in dottrina che, allo stato, non sembra essere stata accolta in giurisprudenza. Si tratta di un’opzione interpretativa ricca di varianti, ma che in estrema sintesi riconduce i rapporti di lavoro (parasubordinati o autonomi) descritti dalla norma al tipo contratto di lavoro subordinato, dilatandone così la fattispecie16.

fattispecie e disciplina, in DLM, 2016, 1, 33 ss.; Zilio Grandi-Sferrazza, Le collaborazioni organizzate dal committente, in ADL, 2016, 4-5, 765 ss.; Filì, Le collaborazioni organizzate dal committente nel D.Lgs. n. 81/2015, in LG, 2015, 12, 1091 ss. 11 Reperibile in Banca Dati DeJure. 12 Trib. Milano, 31 maggio 2018, n. 1452, cit. 13 Reperibile in LG, 2019, 4, 398 ss, con nota di Recchia, Contrordine! I riders sono collaboratori eterorganizzati. V. anche i commenti di De Luca Tamajo, La Sentenza della Corte d’Appello Torino sul caso Foodora. Ai confini tra autonomia e subordinazione, in Lav. Dir. Eur., 2019, 1; Meiffret, L’appello di Torino sul caso dei riders di Foodora: la terza via tra autonomia e subordinazione, in Ilgiuslavorista.it, 19 marzo 2019, il quale attribuisce alla sentenza il merito di aver indicato il campo di applicazione dell’art. 2; Spinelli, Per la Corte d’Appello di Torino i riders sono collaboratori etero-organizzati: sovvertito il verdetto di primo grado, in GiustiziaCivile. com, 6 maggio 2019, la quale obietta al ragionamento del Giudice la qualificazione della fattispecie delle collaborazioni eteroorganizzate come un terzo genere. 14 App. Torino, 4 febbraio 2019, n. 26, cit. 15 Reperibile nella sezione SentenzeWeb del sito www.cortedicassazione.it. 16 V. ad es. F. Carinci, La subordinazione rivisitata alla luce dell’ultima legislazione: dalla “subordinazione” alle “subordinazioni”?, in ADL, 2018, 4-5, 968; M. T. Carinci, Introduzione, in M. T. Carinci-Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, XIX; Razzolini, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, in WP D’Antona,

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3. Contrattazione collettiva e qualificazione del rapporto:

spunti critici

Proseguendo nell’analisi delle considerazioni svolte dal Giudice è doveroso soffermarsi poi sul punto saliente della pronuncia in commento, costituito dalla mancata applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato per effetto dell’ipotesi derogatoria prevista dalla lett. a) del comma 2, art. 2, d.lgs. n. 81/2015. Tale lett. a), infatti, consente agli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale di escludere l’applicabilità della fattispecie di cui al 1° comma dello stesso art. 217. Siffatta possibilità – da alcuni vista come «grande apertura di credito»18 del Legislatore alla regolazione autonoma, da altri invece considerata un’opzione volta a ‘scaricare’ sulle parti sociali il compito di attutire gli effetti del 1° comma19 – è per legge subordinata ad alcuni presupposti. Nella stessa sentenza annotata infatti si sottolinea che, affinché le associazioni sindacali possano disapplicare la normativa che regola il rapporto di lavoro subordinato, anzitutto le collaborazioni oggetto dell’intervento devono essere quelle di cui al comma 1; inoltre, i soggetti stipulanti devono essere comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale e la deroga deve essere giustificata da particolari esigenze produttive e organizzative del relativo settore; infine, la disciplina alternativa a quella legale deve essere specifica e riguardare il trattamento sia economico che normativo. Sebbene, da una parte, la legge consideri il realizzarsi di tali condizioni sufficiente per poter disapplicare la disciplina del lavoro subordinato e, dall’altra, il Giudice dalle medesime deduca la voluntas legis «di porre dei limiti ben chiari, anche di carattere sostanziale, all’autonomia sindacale, con l’obiettivo di fornire una maggior tutela ai collaboratori», pare opportuno anzitutto segnalare alcuni profili critici concernenti i suddetti presupposti, soprattutto ove si consideri l’ampio margine d’azione che viene in tal modo lasciato all’autonomia collettiva. In primo luogo, e accantonando il problema della limitata efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune, dall’utilizzo della nozione di “accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano

It., n. 266/2015, 4, secondo la quale l’art. 2, co. 1 allarga la nozione di subordinazione in modo da farle ricomprendere, oltre a quelle etero-dirette, anche le prestazioni di lavoro etero-organizzate; G. Santoro Passarelli, Lavoro eterorganizzato, coordinato, agile e il telelavoro: un puzzle non facile da comporre in un’impresa in via di trasformazione, in DRI, 2017, 3, 776, secondo il quale l’art. 2, co. 1 andrebbe a positivizzare una serie di indici di qualificazione del rapporto di lavoro subordinato, sussidiari rispetto al potere direttivo, elaborati dalla giurisprudenza; Nuzzo, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, in WP D’Antona, It., n. 280/2015, 8-9, secondo la quale la disposizione recepisce l’orientamento giurisprudenziale sulla c.d. subordinazione attenuata; Nogler, La subordinazione nel d.lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’«autorità del punto di vista giuridico», in ADL, 2016, 1, 47 ss, il quale ritiene che la norma in commento, in presenza dei requisiti della prestazione richiesti dalla stessa, introduca una presunzione di subordinazione; una lettura in parte simile a quest’ultima la dà Persiani, Note sulla disciplina di alcune collaborazioni coordinate, in ADL, 2015, 6, 1260, che però a seguito della Circolare ministeriale n. 3/2016 (v. nota 3) rileva che, così interpretata, la disposizione diventa irragionevole (Persiani, Ancora note sulla disciplina di alcune collaborazioni coordinate, in ADL, 2016, 2, 314). 17 Tale esclusione si realizza anche al verificarsi delle altre ipotesi derogatorie del comma 2 dell’art. 2 (v. nota 3), che secondo Nuzzo, op. cit., 12, avrebbe quindi introdotto una specie di presunzione di autonomia per alcuni lavori. 18 Filì, op. cit., 1093. 19 Voza, Collaborazioni organizzate dal committente e autonomia collettiva, in DLM, 2016, 3, 532.

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nazionale”20 potrebbero sorgere alcune difficoltà riguardanti l’individuazione dell’Accordo con funzione derogatoria del 1° comma dell’art. 2. Infatti, potrebbero coesistere più Accordi collettivi nello stesso settore21, con la conseguente necessità di identificare quello comparativamente più rappresentativo22, e fermo restando il problema della rappresentatività delle organizzazioni sindacali che stipulano accordi appositi per i lavoratori autonomi23. Inoltre, come è già stato rilevato24, per come formulata, la lett. a) attribuisce la facoltà derogatoria agli Accordi di anche una sola associazione sindacale comparativamente più rappresentativa, dando così l’impressione di non disdegnare i cc.dd. accordi separati25. In ogni caso, opportunamente la norma abilita alla contrattazione in deroga soltanto il livello nazionale. In merito agli altri due presupposti (sussistenza di particolari esigenze produttive e organizzative del settore e specificità della disciplina alternativa rispetto a quella legale), occorre evidenziare che tali espressioni sono di una genericità tale26 che sembrano delineare quella che alcuni hanno definito una delega “in bianco” alla contrattazione collettiva27. Volendo comunque prescindere dalle problematiche concernenti le condizioni per poter escludere l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, la delega conferita alla contrattazione è indubbiamente molto ampia, tanto che l’eccezione di cui alla lett. a), 2° comma, art. 2 si traduce nell’applicazione della disciplina del lavoro subordinato solo in via sussidiaria, laddove non sia intervenuta una specifica disciplina collettiva28. Ed è proprio per questo motivo che l’applicazione della deroga di cui alla suddetta lett. a) rappresenta uno dei maggiori profili d’interesse della sentenza in commento. La soluzione

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In proposito v. Tomassetti, La nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo nel decreto legislativo n. 81/2015, in DRI, 2016, 367 ss., il quale rileva che se un contratto collettivo nazionale privo del requisito della maggiore rappresentatività comparata prevedesse la possibilità di utilizzare le collaborazioni etero-organizzate in deroga alla presunzione di cui al 1° co., ai predetti rapporti verrebbe applicata la disciplina del lavoro subordinato, anche in assenza di analoghi interventi da parte di contratti collettivi sottoscritti da associazioni comparativamente più rappresentative (p. 379). Sul punto v. anche l’interpello n. 27/2015 con cui il Ministero del lavoro e delle politiche sociali riepiloga «gli indici sintomatici già indicati dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, cui occorre fare riferimento ai fini della verifica comparativa del grado di rappresentatività in questione» – cioè il numero complessivo dei lavoratori occupati, delle imprese associate e dei contratti collettivi nazionali sottoscritti, e la diffusione territoriale – e afferma che l’esclusione di cui al 2° comma dell’art. 2 opera solo in relazione alle collaborazioni «che trovano puntuale disciplina in accordi sottoscritti da associazioni sindacali in possesso del maggior grado di rappresentatività determinata all’esito della valutazione comparata degli indici summenzionati». 21 Possibilità non remota considerato che, proprio nel settore dei collaboratori telefonici in modalità outbound dei call center in outsourcing, esistono perlomeno due Accordi collettivi nazionali (v. nota 1). 22 Ove si riscontrasse un ulteriore contratto nella stessa categoria stipulato da organizzazioni più rappresentative, soltanto a quest’ultimo andrebbe attribuita la funzione regolamentare delegata: cfr. Santoro, La delega “in bianco” alla contrattazione collettiva sulle collaborazioni “etero-organizzate” e prime applicazioni concrete, in DRI, 2015, 4, 1169. 23 Voza, op. cit., 549. V. anche G. Santoro Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409, n. 3, cod. proc. civ., in ADL, 2015, 6, 1142, che sottolinea la difficoltà di individuare il soggetto effettivamente rappresentativo di lavoratori autonomi, spesso contraddistinti da interessi molto eterogenei. 24 F. Carinci, op. cit., 973. 25 Cfr. A. Zoppoli, op. cit., 62; Voza, op. cit., 537. 26 F. Carinci, op. cit., 973. 27 Santoro, La delega “in bianco” alla contrattazione collettiva, cit., 1167, il quale inoltre rileva che nell’Accordo nazionale del settore delle organizzazioni non governative stipulato il 14 settembre 2015 le parti si limitano soltanto a richiamare testualmente le «discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo» e le «particolari esigenze produttive ed organizzative» (p. 1168-1169). 28 G. Santoro Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente, cit., 1141-1142. Dello stesso avviso Imberti, L’eccezione è la regola?! Gli accordi collettivi in deroga alla disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente, in DRI, 2016, 2, 429, il quale rileva che di fatto la portata dell’eccezione alla regola insidia la stessa effettività ed efficacia della norma generale.

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adottata dal Tribunale di Roma infatti s’inserisce all’interno di un dibattito più ampio concernente il nesso tra la contrattazione collettiva e la qualificazione del rapporto di lavoro. Come visto l’art. 2, comma 2, lett. a) abilita, infatti, l’autonomia collettiva ad esercitare una funzione propriamente derogatoria del disposto di legge29 in quanto la autorizza a selezionare rapporti ai quali non verrà applicata la disciplina del lavoro subordinato, e ciò a prescindere dalla sussistenza o meno delle caratteristiche che, ai sensi dell’art. 2, 1° comma, giustificano l’applicazione di tale disciplina30. Ciò significa che, almeno nella sostanza, le parti sociali hanno il potere di applicare la disciplina del lavoro autonomo alle collaborazioni che presentino il requisito della etero-organizzazione, nonostante la ricorrenza degli elementi di cui al 1° comma31. Emerge così dalla lett. a) del 2° comma dell’art. 2 quella che in dottrina è stata definita «un’attitudine qualificatoria»32 del contratto collettivo. Il tema della qualificazione del rapporto deve, peraltro, essere necessariamente coordinato con il fondamentale principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale33, in ossequio al quale non può essere negata la qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato a un rapporto che, dalle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, risulti obiettivamente tale34. La qualificazione è quindi vincolata soltanto al concreto atteggiarsi del rapporto, ossia all’assetto di interessi che le parti hanno obiettivamente realizzato35. Infatti, il procedimento di qualificazione dell’attività dei privati è affidato al giudice36,

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Voza, op. cit., 542; Santoro, La delega “in bianco” alla contrattazione collettiva, cit., 1167. Razzolini, op. cit., 21. 31 Santoro, La delega “in bianco” alla contrattazione collettiva, cit., 1166-1167. V. anche Razzolini, op. cit., 21. 32 Pedrazzoli, Sulla cosiddetta indisponibilità del tipo lavoro subordinato: ricognizione e spunti critici, in Studi in onore di Edoardo Ghera, Cacucci, 2008, 859, nota 21. V. in tema anche Pedrazzoli, Qualificazione dell’autonomia collettiva e procedimento applicativo del giudice, in LD, 1990, 3, 255 ss. 33 L’esistenza di tale principio è stata esplicitata negli anni Novanta dalla Corte Costituzionale, la quale ha affermato che «non sarebbe comunque consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato» (Corte Cost., 29 marzo 1993, n. 121, in FI, 1993, 1, 2432) e che «a maggior ragione non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le parti ad escludere direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato. I principi, le garanzie e i diritti stabiliti dalla Costituzione in questa materia, infatti, sono e debbono essere sottratti alla disponibilità delle parti» (Corte Cost., 31 marzo 1994, n. 115, in FI, 1994, 1, 2656). Tale principio in sostanza impedisce alle parti e al Legislatore di scegliere il tipo contrattuale nel senso di escludere a priori che si tratti di un rapporto di lavoro subordinato. 34 Sul tema si veda ad es. D’Antona, Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale nel diritto del lavoro, in ADL, 1995, 1, 63 ss.; D’Antona, Contrattazione collettiva e autonomia individuale nei rapporti di lavoro atipici, in GDLRI, 1990, 3, 529 ss; De Luca, Rapporto di lavoro subordinato: tra «indisponibilità del tipo contrattuale», problemi di qualificazione giuridica e nuove sfide della economia postindustriale, in RIDL, 2014, 1, 397 ss.; Ghera, Il nuovo diritto del lavoro. Subordinazione e lavoro flessibile, Giappichelli, 2006, 122-166; Mazzotta, Autonomia individuale e sistema del diritto del lavoro, in Aa.Vv., Autonomia individuale e rapporto di lavoro. Atti del X Congresso nazionale di diritto del lavoro. Udine 10-11-12 maggio 1991, Giuffrè, 1994, 3 ss.; Pedrazzoli, Sulla cosiddetta indisponibilità del tipo lavoro subordinato, cit., 851 ss. 35 D’Antona, Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale, cit., 75, e quindi la subordinazione si ricava dall’assetto di interessi che si realizza effettivamente nell’attuazione del rapporto (p. 74). Le parti pertanto non possono disporre del contenuto del contratto di lavoro, ossia dargli un contenuto in contrasto con la disciplina inderogabile: cfr. Mazzotta, Autonomia individuale e sistema del diritto del lavoro, cit., 9-11. 36 Posto che il procedimento di riconduzione dell’assetto di interessi determinato dalle parti a una specifica tipologia contrattuale esistente è opera del giudice: Mazzotta, Autonomia individuale e sistema del diritto del lavoro, cit., 9. 30

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«organo essenziale in ordine alla qualificazione del caso singolo, che è l’occasione istituzionale in cui si verifica la disposizione del tipo»37. Come la stessa Corte Costituzionale ha affermato, il principio di indisponibilità riguarda non solo le parti individuali e il Legislatore – le effettive modalità di svolgimento della prestazione prevalgono infatti sia sul nomen iuris definito nel contratto che sull’eventuale qualificazione legislativa del medesimo rapporto – ma anche la contrattazione collettiva38, nel senso che il Legislatore non può autorizzarla ad escludere l’applicabilità della disciplina inderogabile a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato. Alla luce di tutto ciò la lett. a), 2° comma, art. 2 non si limita soltanto a valorizzare il ruolo della contrattazione collettiva, bensì, in modo più pregnante, consente a quest’ultima di ingerirsi nella questione della qualificazione del rapporto di lavoro. A tal proposito non possono trascurarsi le perplessità destate dalla lett. a) cit. riguardanti proprio il nesso tra contrattazione collettiva e qualificazione del rapporto. La questione più spinosa riguarda l’evidente violazione del principio di indisponibilità del tipo contrattuale che colpirebbe la lett. a) se si ritenesse che le collaborazioni eteroorganizzate rientrino – a vario titolo (v. nota 16) – nella categoria del lavoro subordinato, dato che in tale prospettiva la lett. a) consentirebbe ad un Accordo collettivo di disporre del tipo39. Secondo alcuni autori, la Corte Costituzionale ha recentemente40 dimostrato una «certa benevolenza nei confronti del legislatore»41, in quanto ha ritenuto legittima una norma che avrebbe ben potuto essere interpretata in modo tale da privare delle tutele dello statuto del lavoro subordinato una categoria di rapporti che, per come sono da essa stessa disciplinati, presentano gli elementi tipici della subordinazione. Ma anche prescindendo dalla discussione relativa all’intrinseca natura dei rapporti regolati dal 1° comma dell’art. 2, resta in ogni caso il problema della disparità di trattamento riservata alle eccezioni di cui al 2° comma dell’art. 2 e, in particolare, a quelle rientranti nella lett. a), dato che, attraverso la mediazione collettiva, alle prestazioni di lavoro effettuate nei settori in cui sono intervenuti Accordi collettivi viene disapplicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato42.

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Pedrazzoli, Sulla cosiddetta indisponibilità del tipo lavoro subordinato, cit., 852, nota 2. De Luca, op. cit., 405. 39 Come diffusamente rilevato, ad es. v. Mazzotta, Lo strano caso delle «collaborazioni organizzate dal committente», cit., 10-11; G. Santoro Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente, cit., 1151; Tosi, L’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015, cit., 1128. In proposito Razzolini, op. cit., 22, afferma che, se verrà accolto tale orientamento, la legittimità costituzionale delle esclusioni potrà essere salvata solo ammettendo l’esistenza di una nozione di subordinazione parzialmente disponibile. 40 Corte Cost., 7 maggio 2015, n. 76, reperibile in Banca Dati DeJure. Si vedano note di Bertocco, Indisponibilità del tipo legale tra certezze della giurisprudenza e nuovi orientamenti dogmatici, in ADL, 2016, 2, 318 ss; Bini, Lungo lo scosceso confine tra autonomia e subordinazione: nuove e vecchie prospettive, in GI, 2016, 1, 131 ss, che considera il contributo offerto dalla Corte Costituzionale di “pregevole interesse” nell’ottica di una valorizzazione dell’autonomia contrattuale ai fini qualificatori del rapporto di lavoro; Fabozzi, La natura del rapporto di lavoro del personale sanitario non appartenente ai ruoli dell’amministrazione penitenziaria, in GCost, 2015, 3, 697 ss.; Ghera, La Corte alle prese con una norma di dubbia compatibilità con il c.d. principio di “indisponibilità del tipo”, in GCost, 2015, 3, 690 ss.; Ferraro, Subordinazione e autonomia tra pronunzie della Corte costituzionale e processi evolutivi, in LG, 2016, 3, 221 ss., il quale pone in evidenza la presa di distanza dalle pronunce degli anni Novanta (224). 41 Ghera, La Corte alle prese con una norma di dubbia compatibilità, cit., 690 ss. 42 Imberti, op. cit., 423-424. 38

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4. Osservazioni conclusive Come si è già avuto modo di constatare, la sentenza in commento fornisce una serie di spunti critici sul complesso tema delle c.d. collaborazioni etero-organizzate e, più nello specifico, sulla possibilità per la contrattazione collettiva di interferire sull’applicazione della disciplina del lavoro subordinato. In tale sede si intende soprattutto rilevare come la delicata questione concernente il rapporto tra contrattazione collettiva e qualificazione del rapporto di lavoro non può essere semplicisticamente risolta collocando i rapporti di cui al 1° comma dell’art. 2 nell’area del lavoro autonomo, al fine spesso dichiarato, forse criticabile43, di evitare conflitti con il principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale44. Si tratta peraltro della soluzione utilizzata anche nella sentenza in commento, dove si legge, in proposito, che l’ipotesi derogatoria prevista dalla lett. a) corrobora quell’interpretazione del 1° comma in base alla quale le collaborazioni etero-organizzate non allargherebbero l’area della subordinazione, bensì resterebbero nell’area del lavoro parasubordinato, assimilato, quanto alla disciplina applicabile al rapporto, al lavoro subordinato. Infatti, se così non fosse, «allora la contrattazione collettiva non potrebbe disporre così liberamente delle tutele per tali lavoratori». Ciò premesso, non si può infine non rilevare che la ricostruzione del Tribunale di Roma è in ogni caso aderente alla volontà del Legislatore il quale, se da una parte ha assecondato la tradizionale c.d. tendenza espansiva del diritto del lavoro, dall’altra ha contestualmente affidato all’autonomia collettiva il compito di inibire tale tendenza autorizzandola a disattivare l’operazione espansiva realizzata ex lege45. Potrebbe risultare difficile comprendere l’interesse dei sindacati a stipulare accordi che garantiscano un trattamento meno favorevole di quello legale46; tuttavia, il motivo pratico alla base di questi accordi sindacali è forse quello di riuscire a mantenere operative attività che, se ‘gravate’ della disciplina e dei costi del rapporto di lavoro subordinato, sarebbero a rischio di cessazione o delocalizzazione47. Eugenia Fiorelli

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Nuzzo, op. cit., 14, afferma che «non sembra corretto dedurre il significato della norma principale da una disposizione che introduce una deroga, al fine di rendere la “eccezione” compatibile con l’assetto costituzionale». 44 Ad es. Perulli, op. cit., 273; Filì, op. cit., 1098. 45 Cfr. Voza, op. cit., 528 e 542. 46 G. Santoro Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente, cit., 1142. 47 Imberti, op. cit., 395-396, il quale rileva anche che il settore dei call center è uno di quelli in cui sono stati stipulati accordi ad hoc per garantire la possibilità di continuare a stipulare collaborazioni autonome in luogo di rapporti di lavoro subordinato. Anzi, come constata Magnani, Autonomia, subordinazione coordinazione nel d.lgs., n. 81/2015, in WP D’Antona, It., n. 294/2016, 18, la lett. a) cit. trae ispirazione proprio dal caso dei call center. Ciò è confermato dal fatto che in tale settore gli accordi ex art. 2, co. 2, lett. a) hanno perlopiù semplicemente proceduto a perpetuare la vigenza di quelli precedenti: Imberti, op. cit., 417-418.

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