Rivista Diritto Tributario 2/2020

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Vol. XXX - Aprile

Rivista di

Diritto Tributario

www.rivistadirittotributario.it

FONDATORI: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

2

Rivista bimestrale

Vol. XXX - Aprile 2020

2

DIREZIONE SCIENTIFICA Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin

2020

In evidenza: Il principio di competenza dopo la riforma degli OIC Francesco Crovato La qualificazione giuridica e il trattamento fiscale delle criptovalute Maria Pierro Le incertezze della Corte di Cassazione in merito all’individuazione del soggetto passivo dell’IMU nel caso di risoluzione anticipata del contratto di leasing immobiliare Franco Paparella Un passo verso la soluzione del problema della soggettività passiva all’IMU dopo la risoluzione del leasing immobiliare Gaetano Ragucci Prime osservazioni sulle modifiche al sistema sanzionatorio penale apportate dal D.l. n. 124/2019, convertito con la legge n. 157/2019: alla ricerca di nuovi equilibri tra esigenze di politica criminale e finalità di recupero del tributo evaso Giuseppe Ingrao

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

COMPONENTI ONORARI: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo

Pacini



Indici DOTTRINA

Angelo Busani

Rassegna ragionata e ricostruzione critica (alla luce di dottrina, prassi e giurisprudenza di merito) della “terza stagione” della Corte di Cassazione in tema di tassazione dell’atto di dotazione del trust.................................................................. II, 125 Alberto Comelli

La cessione di un terreno edificabile sul quale insiste un fabbricato, ai fini dell’IVA, tra la valutazione di elementi oggettivi e le intenzioni delle parti contraenti (nota a Corte giustizia UE, sentenza 4 settembre 2019, causa C-71/18)................. IV, 37 Francesco Crovato

Il principio di competenza dopo la riforma degli OIC.............................................. I, 153 Giuseppe Ingrao

Prime osservazioni sulle modifiche al sistema sanzionatorio penale apportate dal D.l. n. 124/2019, convertito con la legge n. 157/2019: alla ricerca di nuovi equilibri tra esigenze di politica criminale e finalità di recupero del tributo evaso........ III, 39 Franco Paparella

Le incertezze della Corte di Cassazione in merito all’individuazione del soggetto passivo dell’IMU nel caso di risoluzione anticipata del contratto di leasing immobiliare (nota a Cass., Sez. V civ., sentenza 12 aprile 2019 - 22 maggio 2019, n. 13793; Cass., Sez. V civ., 18 giugno 2019 - 20 dicembre 2019, n. 34243; Cass., Sez. V civ., sentenza 2 aprile 2019 - 17 luglio 2019, n. 19166; Cass., Sez. V civ., sentenza 3 luglio 2019 - 9 ottobre 2019, n. 25249; Cass., Sez. V civ., sentenza 11 settembre 2019 - 19 novembre 2019, n. 29973)........................................................ II, 88 Maria Pierro

La qualificazione giuridica e il trattamento fiscale delle criptovalute...................... I, 103 Gaetano Ragucci

Un passo verso la soluzione del problema della soggettività passiva all’IMU dopo la risoluzione del leasing immobiliare (nota a Cass., Sez. V civ., sentenza 12 aprile 2019 - 22 maggio 2019, n. 13793; Cass., Sez. V civ., 18 giugno 2019 20 dicembre 2019, n. 34243; Cass., Sez. V civ., sentenza 2 aprile 2019 - 17 luglio 2019, n. 19166; Cass., Sez. V civ., sentenza 3 luglio 2019 - 9 ottobre 2019, n. 25249; Cass., Sez. V civ., sentenza 11 settembre 2019 - 19 novembre 2019, n. 29973).......................................................................................................................... II, 108


II

indici

Stefano Maria Ronco

Considerazioni in merito all’autonomia tributaria ed agli spazi di equità orizzontale nel tempo del regionalismo differenziato........................................................... I, 127 Gianluca Selicato

La nuova dimensione europea della regolamentazione del transfer pricing e la progressiva trasformazione delle modalità di esercizio della funzione impositiva degli Stati.....................................................................................................................

V, 1

Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Gaetano Ragucci.......................................................................................... III, 39 Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 25 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

a cura di Guglielmo Maisto .......................................................................................

V, 1

Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna nel rispetto dei criteri stabiliti dall’ANVUR.

INDICE ANALITICO

IMPOSTA MUNICIPALE PROPRIA Contratto di leasing immobiliare – risoluzione anticipata del contratto – soggetto passivo del tributo – rilevanza della restituzione dell’immobile (Cass., Sez. V civ., sentenza 12 aprile 2019 - 22 maggio 2019, n. 13793; Cass., Sez. V civ., 18 giugno 2019 - 20 dicembre 2019, n. 34243; Cass., Sez. V civ., sentenza 2 aprile 2019 - 17 luglio 2019, n. 19166; Cass., Sez. V civ., sentenza 3 luglio 2019 - 9 ottobre 2019, n. 25249; Cass., Sez. V civ., sentenza 11 settembre 2019 - 19 novembre 2019, n. 29973, con note di Franco Paparella e di Gaetano Ragucci)........ II, 87 IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO Rinvio pregiudiziale – Articoli 12 e 135 della Direttiva 2006/112/CE – Cessione di un terreno edificabile sul quale insiste un fabbricato – Valutazione della realtà economica e commerciale – Valutazione degli elementi oggettivi – Intenzioni delle parti contraenti (Corte giustizia UE, sentenza 4 settembre 2019, causa C-71/18, con nota di Alberto Comelli)...................................................................... IV, 25


indici

III

INDICE CRONOLOGICO Corte Giustizia UE 4 settembre 2019, causa C-71/18............................................................................... IV, 25

***

Cass., Sez. V civ. 2 aprile 2019 - 17 luglio 2019, n. 19166.................................................................... II, 87 Cass., Sez. V civ. 3 luglio 2019 - 9 ottobre 2019, n. 25249................................................................... II, 87 Cass., Sez. V civ. 11 settembre 2019 - 19 novembre 2019, n. 29973.................................................... II, 87 Cass., Sez. V civ. 18 giugno 2019 - 20 dicembre 2019, n. 34243.......................................................... II, 87

Elenco dei revisori esterni Nicolò Abriani - Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Mario Bertolissi - Andrea Carinci - Alfonso Celotto – Marco Cian - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Giuseppe Corasaniti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro - Lorenzo Del Federico Eugenio Della Valle - Vittorio Domenichelli - Mario Esposito - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Gian Luigi Gatta - Emilio Giardina - Andrea Giovanardi - Alessandro Giovannini - Giuseppe Ingrao - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Alberto Marcheselli - Enrico Marello - Giuseppe Marini - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Giorgio Meo - Sebastiano Maurizio Messina - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Andrea Parlato Paolo Patrono - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Maria C. Pierro - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone – Barbara Randazzo - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Giovanni Strampelli - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Mauro Trivellin - Antonio Uricchio - Arianna Vedaschi Paolo Veneziani - Marco Versiglioni - Antonio Viotto - Giuseppe Zizzo.



Dottrina

La qualificazione giuridica e il trattamento fiscale delle criptovalute Sommario: 1. Il fenomeno delle criptovalute e la ragione della loro diffusione. – 2. La

problematica qualificazione giuridica delle ‘criptovalute’ e cenni sulla loro rilevazione contabile. – 3. La rilevanza fiscale delle operazioni in criptovalute. – 3.1. Inquadramento giuridico delle criptovalute ai fini IVA. – 3.2. segue ... e ai fini delle imposte dirette. – 3.3. Gli obblighi antiriciclaggio dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di criptovalute e dei prestatori di servizi di portafoglio digitale. – 4. Conclusioni. L’Amministrazione finanziaria, in controtendenza rispetto alle indicazioni della dottrina, di parte della giurisprudenza, della Banca d’Italia, della BCE, considera la criptomoneta al pari di una valuta estera, e la sottopone al trattamento impositivo per essa previsto ai fini delle imposte dirette e Iva. Un contributo importante ad una definizione generale applicabile in ogni settore dell’ordinamento giuridico è dato dalla V Direttiva antiriciclaggio che, recepita in Italia dal D.lgs. n. 125/2019, qualifica la criptomoneta quale mezzo di scambio per l’acquisto di beni e sevizi o per finalità di investimento. Contrary to the indications of the doctrine, part of the jurisprudence, the Bank of Italy, the ECB, Tax authorities consider the cryptomoneta as a foreign currency subject to the relevant tax treatment provided for direct taxes and VAT purposes. An important contribution to a general definition applicable in every area of law is given by the V Anti-Money Laundering Directive, as implemented in Italy by Legislative Decree no. 125 of 2019, that qualifies the cryptomoneta as a means of exchange for the purchase of goods and services or for investment purposes.

1. Il fenomeno delle criptovalute e le ragioni della loro diffusione. – Con il termine ‘criptovalute’ si intende comunemente fare riferimento a rappresentazioni digitali di valore, non emesse dalla Banca Centrale o da un’autorità pubblica, utilizzate come mezzo di scambio o come mezzo di pagamento al-


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ternativo alle monete aventi valore legale o detenute per finalità di investimento. Le criptovalute – da non confondere con la moneta elettronica (1) che identifica una particolare forma di archiviazione della valuta ufficiale e che costituisce uno strumento di pagamento che incorpora nel proprio supporto, magnetico o digitale (bancomat, carte di credito, carte prepagate, ecc.), un credito espresso in moneta avente corso legale nei confronti di un istituto finanziario o bancario – sono generate e veicolate sul mercato “digitale” da soggetti privati. Il blockchain (2) è un protocollo informatico, un registro “virtuale”, ove più soggetti, in forma anonima e tramite server delocalizzati ovunque nel mondo, condividono e scambiano peer to peer ‘informazioni economiche’ che vengono verificate, convalidate e crittografate attraverso un procedimento informatico – cosiddetto ‘sistema della doppia chiave pubblica-privata’ o crit-

(1) La moneta elettronica è definita dall’art. 1, comma 2, lett. h-ter), TUB, come modificato dal d. lgs. 16 aprile 2012, n. 45, in attuazione della Direttiva 2009/110/CE, quale “valore monetario memorizzato elettronicamente, ivi inclusa la memorizzazione magnetica, rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente che sia emesso dietro ricevimento di fondi per effettuare operazioni di pagamento [...] e che sia accettato da persone fisiche e giuridiche diverse dall’emittente”. La ‘moneta elettronica’ è memorizzata su carte prepagate o su wallet digitali e rappresenta un credito nei confronti dell’emittente pari alla somma previamente addebitata al cliente”; la sua emissione ex art. 114-bis TUB “è riservata alle banche e agli istituti di moneta elettronica”. La moneta elettronica si differenzia dunque dalla valuta virtuale sia perché quest’ultima rispetto alla prima non ha corso legale, sia perché i fondi sottostanti la “moneta elettronica” sono espressi in valuta corrente (euro o dollari americani), mentre nelle criptovalute l’unità di riferimento è un’entità virtuale, non riconducibile ad alcuna valuta legalmente riconosciuta, il cui valore è regolato solo dal meccanismo della domanda e dell’offerta. In tema si veda G. Guerrieri, La moneta elettronica. Profili giuridici dei nuovi strumenti di pagamento, Bologna 2015, passim; B. Inzitari, La natura giuridica della moneta elettronica, in S. Sica – P.V. Stanzione – V. Zeno Zencovich (a cura di), La moneta elettronica: profili giuridici e problematiche applicative, Milano 2006, 24 ss.; G. Lemme, Moneta scritturale e moneta elettronica, Torino 2003, passim. (2) F. Vergari, Noi e le criptovalute: un popolo di sognatori, minatori e investitori, in PC Professionale, 333/2018, reperibile in www.pcprofessionale.it, definisce il blockchain come “processo in cui un insieme di soggetti condivide risorse informatiche per rendere disponibile alla comunità di utenti un database virtuale generalmente di tipo pubblico in cui ogni partecipante conserva una copia dei dati”; V. De Stasio, Verso un concetto europeo di moneta legale: valute virtuali, monete complementari e regole di adempimento, in Banca Borsa e Titoli di Credito, n. 6/2018, 747 in particolare 756 e 757 ove si afferma che il blochchain è un protocollo informatico che determina la trasmissione di informazioni crittografate e provvede alla loro organizzazione in registri decentralizzati, costituenti la catena di blocchi, accessibili dalla comunità.


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tografia asimmetrica – che genera ‘blocchi chiusi’ (block), immodificabili (3) (se non tramite il coinvolgimento di tutti i soggetti che hanno partecipato alla operazione/transazione), che si legano in modo indelebile e irreversibile ai precedenti blocchi annotati sul Ledger (registro pubblico delle transazioni), in modo da creare una catena (chain). Il procedimento di criptazione della transazione attribuisce un ‘valore’ al blocco di informazioni (block) e consente poi all’utente di ‘estrarre’ una nuova unità e di aggiungere un nuovo blocco alla sequenza crittografica (un nuovo block che si aggiunge alla chain dei pagamenti). L’attività di estrazione del ‘nuovo valore’ (cd. mining), che prevede l’esecuzione di un complesso calcolo crittografico, permette di creare nuova criptovaluta partendo dall’algoritmo che la ha generata. La criptovaluta ‘acquistata’ viene attribuita all’utente e, in una percentuale, assegnata anche ai miners (processori/verificatori) quale remunerazione per l’attività svolta (4). Il meccanismo di creazione e validazione dei blocchi di transazioni, che certifica dunque la validità e il buon esito dell’operazione (cd. sistema di prova criptografica) (5), è in grado di ingenerare tra gli utenti fiducia nella regolarità delle transazioni; fiducia che invece, in relazione alla valuta avente corso legale, è assicurata dal monopolio delle emissioni attribuito normativamente alla Banca Centrale. Gli utenti, dunque, accedono direttamente al sistema di acquisto e di vendita di criptovalute con un una ‘chiave privata’ e si relazionano con altri che operano sul mercato con una ‘chiave pubblica’, acquistando e trasferendo direttamente la criptovaluta. L’acquisto e la vendita di criptovaluta avvengono, di regola, tramite l’iscrizione su portali on line – c.d. exchange – che favoriscono l’incontro della domanda e della offerta di criptovalute a fronte del pagamento di commissioni. Le piattaforme (cd. exchanger) mettono a disposizione degli operatori economici un portafoglio elettronico (wallet installato sul computer o sullo

(3) V. De Stasio, Verso un concetto europeo di moneta legale: valute virtuali, monete complementari e regole di adempimento, in Banca Borsa e Titoli di Credito, n. 6/2018, 747. (4) Le criptovalute possono essere acquistate sui portali on line (exchange) o attraverso l’attività di mining. (5) Satoshi Nakamoto, Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System in www. bitcoin.org il quale nel 2008 evidenziava “What is needed is an electronic payment system based on cryptographic proof instead of trust, allowing any two willing parties to transact directly with each other without the need for a trusted third party.”


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smartphone dell’utente che vi accede tramite una password personale), collegato a una carta di credito o di debito o a un conto corrente, che consente agli utenti sia di scambiare le criptovalute con valute aventi corso legale (ad esempio dollaro, euro, yen, ecc.) sulla base di un tasso di cambio predeterminato, sia di effettuare pagamenti a favore di soggetti che accettano la criptovaluta come modalità di adempimento del debito per l’acquisto di beni e di servizi on line o presso esercenti commerciali (in questo senso si parla di ‘moneta convenzionale o contrattuale’), sia di trasferirla (per esigenze di sicurezza e privacy) in un portafoglio digitale privato ove è custodita dai cd. wallet providers sino al momento in cui verrà utilizzata o convertita in euro o in altra valuta avente corso legale (6), o ancora in un’altra e differente valuta virtuale (7). Le criptovalute hanno assunto una importanza crescente nell’ultimo decennio, periodo durante il quale, dopo la prima transazione avvenuta tra il 2008 ed il 2009 in Bitcoin – forse la forma al momento più nota di criptomoneta – l’interesse nei confronti di questa tipologia di ‘asset’ è esploso, dando luogo alla creazione e alla diffusione di nuove e ulteriori cryptocurrencies (8).

(6) Banca D’italia, Avvertenza sull’utilizzo delle cosiddette “valute virtuali” – 30 gennaio 2015 – specifica che le valute virtuali “Inizialmente utilizzate all’interno di specifiche comunità virtuali (ad es. videogiochi online e social network), …sono oggi utilizzate anche per fare acquisti, non solo online ma anche presso alcuni esercenti commerciali. Ve ne sono vari tipi: valute virtuali spendibili solo entro la comunità virtuale che le accetta (c.d. valute virtuali non convertibili); valute virtuali che si possono acquistare con moneta tradizionale (ad esempio utilizzando la propria carta di credito o di debito), ma che non è possibile riconvertire in moneta tradizionale (c.d. valute virtuali a convertibilità limitata); valute virtuali che si possono acquistare e rivendere in cambio di moneta tradizionale (c.d. valute virtuali pienamente convertibili). Il prezzo delle valute virtuali – più precisamente il tasso a cui possono essere convertite in valute aventi corso legale (ad esempio euro) – può variare sensibilmente anche in poco tempo. Esse quindi hanno un’elevata volatilità che può rendere molto rischioso detenere somme denominate in valuta virtuale, qualora si intenda conservarle per un certo periodo di tempo e riconvertirle in moneta legale (ad esempio euro)”. (7) Questa ulteriore possibilità è stata espressamente prevista dal D.lgs. n. 125/19 che, nel precisare la definizione di ‘utilizzo di valute virtuali’, ha espressamente indicato che i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valute virtuali forniscono “a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali”. (8) L’ultima che dovrebbe essere introdotta sul mercato è la Libra di Facebook, ma ve ne sono molte altre tra le quali si segnalano Eos, Ethereum, Ripple, Litecoin nonché Tether. Quest’ultima registra scambi mensili superiori a quelli avuti dal Bitcoin in ragione di una fluttuazione di valore molto ridotta. Alla data dell’11 novembre 2019 1 Tether è scambiato a 0,90 euro; mentre 1 Bitcoin viene scambiato a 7904,80 euro.


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Da quel momento le operazioni realizzate con il ricorso alle criptomonete hanno avuto, sia a livello internazionale sia nazionale, un incremento esponenziale registrando valori da capogiro. Il volume di criptomonete, in particolare del Bitcoin, nel mese di novembre 2019 si aggirava intorno a 160 miliardi di dollari, con una movimentazione giornaliera di circa 19 miliardi (9). La diffusione delle operazioni e degli scambi in criptovaluta, sia in ambito nazionale, sia sovranazionale, è rilevante ed è stata favorita da una serie di fattori tra i quali: a) la possibilità di realizzare significativi guadagni in tempi molto brevi (a fronte di un rischio elevatissimo di perdere l’intera somma investita); b) l’assenza di un soggetto terzo e garante che eserciti un’attività di controllo analoga a quella prevista per gli intermediari finanziari autorizzati; c) l’anonimato o meglio il semi-anonimato degli utenti – pare infatti che sia possibile risalire alla cd. ‘chiave pubblica’ utilizzata dall’utente, e quindi a tutte le transazioni compiute, tramite l’incrocio di dati registrati nel blockchain e le tracce lasciate sul web da chi ha eseguito l’operazione – che favorisce transazioni che potrebbero essere “connesse ad attività di riciclaggio di denaro” (10); d) la mancanza di una regolamentazione che inquadri e definisca il fenomeno sotto il profilo giuridico, con effetti in tutti i settori dell’ordinamento e, in particolare, in quello fiscale, ove le decisioni in merito alla tassazione dei proventi derivanti dalle operazioni effettuate in criptovalute sono state assunte sino ad oggi dall’Amministrazione Finanziaria che dovrebbe invece limitarsi a interpretare (e non a ‘creare’) la disciplina legislativa. 2. La problematica qualificazione giuridica delle ‘criptovalute’ e cenni sulla loro rilevazione contabile. – L’assenza di una definizione univoca di criptovaluta ha determinato e determina forti criticità in merito, in particolare, al trattamento fiscale da applicare sia ‘ai proventi’ derivanti dalla sua cessione, sia alla remunerazione corrisposta ai prestatori di sevizi virtuali. Il legislatore nazionale, pur essendo intervenuto in tema, non è riuscito a proporne una nozione generale ritenuta utilizzabile in ogni settore dell’ordinamento, né ha regolamentato il fenomeno, rimettendo di fatto l’inquadramento giuridico e l’individuazione della disciplina di volta in volta applicabile a diversi interlocutori – Corte di Giustizia e giudici nazionali, Autorità di vigi-

(9) Questi dati sono stati estratti da https://coinmarketcap.com il 13 novembre 2019. (10) M. Cardillo – S. Rapuano, Le criptovalute tra evasione fiscale e reati internazionali, in DPT, 2019, 1, 42 ss. in particolare p. 57.


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lanza e regolamentazione bancaria (Banca d’Italia, Banca Centrale Europea – BCE, Autorità Bancaria Europea), Amministrazione Finanziaria e Consiglio Nazionale del Notariato – che, in vario modo e nel tempo, hanno tentato di colmare il ‘vuoto’ fornendo indicazioni non univoche e tra loro contrastanti. Le diverse definizioni proposte (11) – mezzo di pagamento, mezzo di scambio, bene (immateriale o di secondo grado), strumento finanziario, prodotto finanziario, valuta estera – hanno determinato una grande confusione concettuale all’interno della quale neppure il legislatore è riuscito a mettere ordine e a imporsi. Vero è infatti che, nel tentativo di fissare dei punti fermi e di razionalizzare la materia, all’art. 1, comma 1, lett. qq), D.Lgs n. 90/2017 – adottato in attuazione della Direttiva antiriciclaggio del 15 maggio 2015/849/UE e modificato dal D.Lgs. n. 125/2019, che ha recepito la V Direttiva antiriciclaggio del 30 maggio 2018/843/UE – il legislatore ha definito la criptovaluta o ‘valuta virtuale’ come “rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente” (12). Ciononostante, come anticipato, questa indicazione normativa è stata disattesa dagli operatori giuridici nazionali i quali, chiamati a individuare la disciplina applicabile alle criptovalute in settori diversi da quello proprio del contrasto al riciclaggio, hanno ’coniato’, a seconda delle circostanze e necessità, la nozione di criptovaluta di volta in volta valutata come la più corretta e adeguata. La formulazione ora contenuta all’art. 1, lett. qq), D.Lgs. 90/2017 è l’esito dell’elaborazione compiuta dagli organi legislativi dell’Unione Europea – poi recepita dal legislatore nazionale – che, dopo avere inizialmente considerato

(11) A. Caloni, Bitcoin: profili civilistici e tutela dell’investitore, in Riv. Dir. civ., 2019, 159 ss. Di recente si veda TAR Lazio 20 gennaio 2020, n. 01077 che, preso atto delle diverse soluzioni avanzate dalla dottrina sulla natura giuridica delle criptovalute, sottolinea la necessità di farvi riferimento in quanto la giurisprudenza “non è ancora pervenuta ad un quadro consolidato e univoco”. Evidenziano la necessità di qualificare il fenomeno delle criptovalute prima di individuare la disciplina ad essa applicabile A. Contrino-G. Baroni, The cryptocurrencies: fiscal issues and monitoring, in DPTI, 2019, I, 11 ss. (12) In corsivo sono indicate le modifiche apportate alla disposizione contenuta nell’ art. 1, comma 2, lett. qq) dall’art. 1, lett. h) D.Lgs. 4 ottobre 2019 n. 125 entrato in vigore il 10 novembre 2019.


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la criptovaluta come mezzo di pagamento, hanno modificato il loro orientamento, e nella direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018 la hanno qualificata quale mezzo di scambio, escludendo la sua riconducibilità allo status di moneta o valuta (13). L’approdo a questo risultato è frutto di una attenta valutazione delle posizioni espresse da un lato dalla Corte di Giustizia (14) che, chiamata a pronunciarsi sul trattamento fiscale delle remunerazioni derivanti dal cambio di virtual currency in moneta avente corso legale, aveva definito la criptovaluta quale ‘valuta convenzionale’ alternativa a quella avente corso legale, e quindi quale mezzo di pagamento; e dall’altro da quelle formulate dalla BCE (15) che, per contro, ha ritenuto che la criptomoneta sia da considerare solo un ‘mezzo di scambio” (“is not a currency, does not have the status of legal tender»; «is (...) not money or currency from a legal perspective” (16)). E questo nonostante il Parlamento Europeo con la Risoluzione del 26 maggio

(13) Nella Direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018 si segnala che al comma 3 della Direttiva 2015/849/Ue deve essere aggiunto il punto 18 che definisce le valute virtuali quali “rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente”. (14) CGE 22 ottobre 2015, C-264/14, Skatteverket contro David Hedqvist, par. 52. (15) Banca Centrale Europea, Virtual Currency Schemes – a Further Analysis, Frankfurt am Main, 2015 30 nonchè Parere della Banca Centrale Europea del 12 ottobre 2016 su una proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la Direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo e la Direttiva 2009/10/CE, par. 26 (16) Questa posizione è condivisa dall’Ufficio per la lotta contro i Crimini (Financial Crimes Enforcement Network Department Of The Treasury, Financial Crimes Enforcement Network, Application of FinCEN’s Regulations to Persons Administering, Exchanging, or Using Virtual Currencies, 1, www.fincen.gov) del Dipartimento del Tesoro statunitense per il quale la moneta può essere solo “the coin and paper money of the United States or of any other country that is designated as legal tender and that circulates and is customarily used and accepted as a medium of exchange in the country of issuance”, mentre per valuta virtuale deve intendersi “a medium of exchange that operates like a currency in some environments, but does not have all the attributes of real currency. In particular, virtual currency does not have legal tender status in any jurisdiction”. Su posizioni analoghe le Banche centrali e le autorita` di vigilanza di numerosi Paesi appartenenti all’area del G20, tra i quali l’Italia (Banca d’Italia, Comunicazione del 30 gennaio 2015 – Valute virtuali, www.bancaditalia.it), la Germania (Bundesanstalt fur Finanzdienstleistungsaufsichte, Bitcoins: Aufsichtliche Bewertung und Risiken fu¨r Nutzer, www.bafin.de), la Francia (Banque de France, L’e´mergence du bitcoin et autres crypto-actifs: enjeux, risques et perspectives, Focus, n. 16, 2018), il Regno Unito (Bank of England, Quarterly Bulletin, 2014 Q3, 54, 3, www.bankofengland.co.uk).


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2016 (17) e la Commissione Europea nella proposta di modifica della direttiva 2015/849/UE di data 5 luglio 2016 (18) avessero consigliato una definizione di criptovaluta (valuta virtuale) modellata sulle indicazioni dell’Autorità Bancaria Europea (ABE) (19), che la identificava espressamente quale ‘mezzo di pagamento”. I legislatori – europeo e nazionale – hanno preferito optare per la qualificazione proposta dalla BCE, poi recepita anche dalla Banca d’Italia, la quale a supporto della sua scelta aveva evidenziato che diversamente le criptocurrencies – volatili, manipolabili dal mercato, prive di garanzie sulla loro convertibilità in moneta tradizionale, e suscettibili per queste ragioni di essere impiegate anche per raccogliere ‘beni e denaro’ utilizzabile per finalità illecite e criminali – avrebbero seriamente messo in pericolo il sistema finanziario. Nonostante i tentativi di attribuire alla criptocurrency funzioni ulteriori rispetto a quelle espressamente contemplate dalla normativa, il legislatore nazionale con il D.Lgs. n. 125/19 ha dunque confermato le indicazioni della V Direttiva antiriciclaggio e ha considerato la criptovaluta sia quale mezzo di scambio, sia quale strumento di investimento, escludendo implicitamente non solo il suo impiego come mezzo di pagamento, ma anche la sua riconducibilità alla nozione di ‘moneta’. La definizione contenuta nella Direttiva 2018/843/UE, recepita dal D.Lgs. 125/19, evidenzia che essa è infatti priva di qualsiasi connotazione “monetaria” o “valutaria”. E questo in quanto le criptovalute non integrano le caratteristiche ‘giuridiche’ ed ‘economiche’ richieste per essere considerate moneta.

(17) La Risoluzione del 26 maggio 2016 del Parlamento Europeo, dopo aver rilevato che non è ancora stata stabilita una definizione universalmente valida, afferma che “le valute virtuali sono talvolta definite come denaro digitale e che l’Autorità bancaria europea (ABE) le considera rappresentazioni di valore digitali che non sono emesse né da una banca centrale o da un ente pubblico né sono necessariamente legate a una valuta a corso legale, ma sono accettate da persone giuridiche e fisiche come mezzo di pagamento e possono essere trasferite, archiviate o scambiate elettronicamente” (18) 450 final 2016/0208 – La Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio recepisce in modo piano la formulazione contenuta nella Risoluzione 26 maggio 2016. (19) European Bank Authority, EBA Opinion on ‘virtual currencies’, 5. Per l’ABE “VCs [Virtual Currencies] are a digital representation of value that is neither issued by a central bank or a public authority, nor necessarily attached to a FC [Fiat Coin], but is accepted by natural or legal persons as a means of payment and can be transferred, stored or traded electronically”


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La normativa civilistica vi fa ricorso solo per indicare che i debiti (le obbligazioni pecuniarie) possono essere estinti sia con monete “aventi corso legale nello Stato”, sia con monete estere (quelle “non aventi corso legale nello Stato”) (artt. 1277 e 1278 cod. civ.), quali non sono, come espressamente enunciato nella V direttiva antiriciclaggio, le criptovalute. Questa posizione è confermata dai Paesi (20) che hanno assunto iniziative legislative finalizzate a intervenire in modo organico sull’argomento i quali, formulata la definizione (asset digitale – mezzo di scambio – senza potere solutorio), ne hanno di fatto escluso la riconduzione al ‘genus’ moneta eliminando, quasi sempre (21), qualunque riferimento terminologico che potesse evocare il suo uso in quanto denaro.

(20) Si rinvia allo studio di G. Rinaldi, Approcci normativi e qualificazione giuridica delle criptomonete, in Contratto e impresa, 2019, 1, 257 ss. il quale, dopo avere evidenziato che solo alcuni ordinamenti sono intervenuti in modo organico sul tema delle criptovalute, dà conto di come sono definite e disciplinate in Giappone, nello Stato di New York, in Russia nonché nella Repubblica di Malta. In Giappone le valute virtuali sono considerate un asset. Esse rappresentano un valore proprietario e, quindi, un bene, al quale viene riconosciuta la capacità di assolvere alla funzione di strumento convenzionale di pagamento, come emerge nel c.d. Virtual Currency Act ((The Virtual Currency Act explained, consultabile sul sito https://bitflyer.com/), entrato in vigore nell’aprile del 2017 per il quale la virtual currency è una “proprietary value that may be used to pay an unspecified person the price of any goods purchased or borrowed or any services provided and may besold to or purchased from an unspecified person (...) and that may be transferred using an electronic data processing system; or 2) [a] proprietary value that may be exchanged reciprocally for proprietary value specified in the preceding item with an unspecified person and that may be transferred using an electronic data processing system”. Nello Stato di New York, nel cd. BitLicense – adottato dal Dipartimento dei servizi finanziari ed entrato in vigore nel 2015 – viene segnalato che “Virtual Currency means any type of digital unit that is used as a medium of exchange or a form of digitally stored value” (New York State, Department of Financial Services, New York Codes, Rules and Regulations, Section 200.2 – Definitions, lett. p). La definizione, che presenta analogie con quella formulata nel Virtual Currency Act giapponese, le qualifica contestualmente mezzo di scambio e asset digitale, suscettibile di autonoma valutazione economica. Nel progetto di legge federale del Governo Russo sui beni finanziari digitali (http://asozd2c. duma.gov.ru) presentato alla Duma il 20 marzo 2018, le criptomonete sono definite come bene finanziario digitale, creato e contabilizzato all’interno di un registro distribuito senza potere solutorio ex lege nel territorio della Federazione Russa. Ed infine nel progetto di legge del Governo di Malta, presentato al Parlamento il 24 marzo 2018 le criptovalute vengono definite virtual financial asset che non devono essere considerate strumenti finanziari ovverosia “[a] form of digital medium recordation that is used as a digital medium of exchange, unit of account, or store of value”. (21) Si fa riferimento al progetto di Legge Federale Russo e a quello proposto dalla Repubblica Maltese.


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Anche la Banca d’Italia le individua con il lemma “criptoattività” o “cryptoassets” (22) – non usa mai il termine valuta –, ferma l’impossibilità di poterle contestualmente considerate un mezzo di scambio, un’unità di conto e una riserva di valore; caratteristiche/funzioni queste che invece dovrebbero sussistere contemporaneamente per poterle qualificare “moneta”. Le criptovalute possono certamente essere impiegate quale ‘assets’ – beni, convenzionalmente accettati dalle parti in cambio di altri beni, e utilizzabili in ulteriori e successive operazioni economiche; ma non possono essere considerate, invece, quale unità di conto – criterio (metro) per calcolare il valore dell’oggetto dell’operazione o della transazione economica – non solo perché il loro impiego è scarso, ma anche perché il loro potere di acquisto è estremamente variabile; e infine non possono neppure essere considerate una riserva di valore in quanto non sono in grado di garantirne la conservazione nel tempo, assicurando la stabilità del loro potere di acquisto (23). Le criptovalute non sono dunque una moneta legale e di conseguenza non possono essere considerate un mezzo di pagamento in valuta (ex art. 17 bis, comma 1, d.lgs. n. 141/2010) con potere solutorio ex lege delle obbligazioni pecuniarie (24). È perciò evidente che sia il legislatore europeo, sia quello nazionale hanno preferito considerarle come ‘beni’ (immateriali o di secondo grado) da scambiare con altri beni, senza fare ricorso alla moneta. Non si può tuttavia neppure escludere che le criptovalute, acquistabili anche per finalità di investimento, possano essere qualificate strumenti finanziari, o in una prospettiva più ampia, ‘prodotti finanziari’, sul presupposto che queste ‘commodities’ sono altamente volatili e generano profitto sulla base delle variazioni del loro cambio rispetto alla moneta legale.

(22) La Banca d’Italia, Rapporto sulla stabilità finanziaria, 2018, 1, 8 rileva che “Con il termine criptoattività (cryptoassets) si indicano attività di natura digitale il cui trasferimento è basato sull’uso della crittografia e sulla distributed ledger technology. Alcune di esse, quali il Bitcoin, vengono comunemente chiamate ‘valute virtuali’, anche se non svolgono le funzioni economiche della moneta.” (23) G. Lemme – S. Peluso, Criptomoneta e distacco dalla moneta legale: il caso bitcoin, in Rivista di Diritto Bancario, n. 11/2016, 1. (24) B. Inzitari, Delle obbligazioni pecuniarie, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di Galgano, artt. 1277-1284, Bologna-Roma, 2011, 20. L’unica eccezione è data dal Venezuela che nel 2018 ha emanato il Pedro, criptovaluta di Stato, sviluppata dal governo bolivariano, accettata come forma di pagamento nell’ambito di una serie di rapporti che intercorrono tra cittadino e pubblica amministrazione.


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A tale conclusione è giunto il Tribunale di Verona (25) che, chiamato a pronunciarsi sulla qualificazione giuridica di un contratto di acquisto di criptovaluta con pagamento in euro, ha definito le criptomonete (in particolare i Bitcoin) – ex art. 67-ter, comma 1, lett. b) del D.lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo) e del regolamento CONSOB n. 18592 del 26 giugno 2013 – uno ‘strumento finanziario utilizzato per compiere una serie di particolari forme di transazioni online’, evidenziando in questo modo anche la finalità d’investimento della criptomoneta. Questa definizione trova però un serio ostacolo sia nell’art. 1, comma 4, del D.Lgs. n. 58/1998 (Testo Unico della Finanza) il quale non solo dispone che «i mezzi di pagamento non sono strumenti finanziari», ma esclude anche totalmente la possibilità di potere usare le criptomonete quale mezzo di pagamento; sia nell’art. 18, quinto comma, TUF che allo stato della legislazione non ricomprende tra gli strumenti finanziari le criptomonete, ferma la possibilità del MEF con regolamento, di individuarne di nuovi; sia nella disciplina contabile che li considera, a seconda del loro impiego, ora come rimanenze ai sensi dello IAS 2, ora come beni immateriali in applicazione dello IAS 38. In particolare l’IFRIC interpretations Commitee (26), nel giugno 2019 su richiesta dello IASB (International Accounting Standard Board), si è pronunciato sul loro trattamento contabile (27) e, dopo avere escluso che le criptocurren-

(25) Sentenza n. 195/2017 del Tribunale di Verona. (26) L’IFRIC – International Financial Reporting Interpretations Committee – è un comitato dello IASB che ha sostituito il SIC nel 2001 nell’elaborazione delle interpretazioni ufficiali del contenuto dei principi contabili internazionali. (27) https://www.ifrs.org/-/media/feature/supporting-implementation/agenda-decisions/ holdings-of-cryptocurrencies-june-2019.pdf relativo a Holdings of Cryptocurrencies—June 2019 ove in relazione alla ‘Nature of a cryptocurrency’ viene evidenziato “Paragraph 8 of IAS 38 Intangible Assets defines an intangible asset as ‘an identifiable non-monetary asset without physical substance’; Paragraph 12 of IAS 38 states that an asset is identifiable if it is separable or arises from contractual or other legal rights. An asset is separable if it ‘is capable of being separated or divided from the entity and sold, transferred, licensed, rented or exchanged, either individually or together with a related contract, identifiable asset or liability’. Paragraph 16 of IAS 21 The Effects of Changes in Foreign Exchange Rates states that ‘the essential feature of a non-monetary item is the absence of a right to receive (or an obligation to deliver) a fixed or determinable number of units of currency’. The Committee observed that a holding of cryptocurrency meets the definition of an intangible asset in IAS 38 on the grounds that (a) it is capable of being separated from the holder and sold or transferred individually; and (b) it does not give the holder a right to receive a fixed or determinable number of units of currency.” L’attività immateriale è “un’attività non materiale identificabile senza sostanza fisica”. L’attività identificabile è un ‘attività separabile o che deriva da diritti contrattuali o da altri


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cies possano essere qualificate sia come valute, iscritte tra le disponibilità liquide, sia come strumenti finanziari, trattati contabilmente come tali (28), ha evidenziato che la loro annotazione in bilancio, per le imprese che adottano i principi contabili internazionali IAS/IFRS, dipende dalla loro destinazione economica la quale assegna alle criptomonete, come anticipato, la natura ora di rimanenze, ora di beni immateriali. Più precisamente l’IFRIC ha affermato che le criptomonete, se sono detenute per la vendita – finalità di trading propria degli exchanges o wallet providers potenzialmente interessati ad avere ‘scorte’ di questi assets – devono essere esposte in bilancio tra le rimanenze “di magazzino” e valutate al minore tra il costo sostenuto per il loro acquisto e il valore di netto realizzo (cioè il presunto valore di cessione), come disposto dallo IAS 2 (29). Con la conseguenza che in questo caso in conto economico ‘l’impresa’ deve esporre il costo sostenuto per il loro acquisto e le rimanenze finali, e in stato patrimoniale le criptomonete devono essere classificate come rimanenze finali tra le attività correnti. Nel periodo successivo dovranno essere indicate tra le rimanenze iniziali (al costo o al valore di realizzo, se minore), dando luogo, se cedute, a ricavi.

diritti legali. Un’attività è separabile se “può essere separata o divisa dall’entità e venduta, trasferita, data in licenza, locata o scambiata, individualmente o insieme a un contratto, attività o passività identificabile” (Ias 38 paragrafi 8-12). (28) Sul punto si segnala S. Giorgi, Cripto-attività, tra polimorfismo e dubbi qualificatori in materia fiscale, in Riv. Dir. trib. Supplemento On line – 7 ottobre 2019, par. 6 la quale osserva come meglio evidenziato dallo IFRS (Interpretation Paper del marzo 2019) che “… le criptoattività possono assumere svariate funzioni, tra le quali anche conferire al detentore “particolari diritti”. “Nella disciplina contabile internazionale, viene tuttavia escluso che si tratti di asset finanziari nell’accezione di cui allo IAS 32 (par. 11), non trattandosi né di disponibilità liquide; né di strumenti rappresentativi di capitale di un’altra entità; né di diritti contrattuali a ricevere disponibilità liquide o scambiare attività/passività finanziarie. In ambito contabile, viene quindi ricostruita la natura delle valute virtuali come attività immateriali riconducibili allo Ias 38, sulla base del fatto che a) possono essere distinte dal loro detentore e trasferite individualmente; b) non conferiscono al loro detentore il diritto a ricevere un numero di unità fisse o determinabili. Data l’ampia nozione di cui allo Ias 38 sono sufficienti l’immaterialità e l’identificabilità dell’asset, intesa come autonomia giuridica del medesimo: il che si traduce nella possibilità per il detentore di cederlo, darlo in licenza, affitto o altre fattispecie contrattuali idonea a marcarne l’identificabilità. Al contempo, al fine di escluderne la natura monetaria, nella disciplina Ias il bene non deve conferire il diritto di ricevere un quantitativo fisso o determinabile di valuta (Ias 21, par. 16)”. (29) I commodity broker-traders – negoziatori in criptovalute per conto terzi o per conto proprio – possono valorizzare le rimanenze di criptovalute al fair value – valore corrente di mercato alla data del bilancio – al netto dei costi di vendita, con la rilevazione delle variazioni di valore che rappresentano utili/perdite non realizzati da imputare a conto economico.


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Se invece le criptocurrencies sono detenute per finalità diverse da quelle di vendita, quali ad esempio, quella di investimento, esse devono essere iscritte nello stato patrimoniale tra le attività non correnti, come attività immateriali, cioè quali attività non monetarie prive di consistenza fisica (paragrafo 12), e valutate al costo, fermo che dalla loro cessione si conseguono proventi od oneri come differenza tra il valore contabile e il valore di cessione. La scienza aziendale esclude dunque che le criptovalute siano da considerare strumenti finanziari (o valute estere) (30). La situazione potrebbe parzialmente cambiare se si qualificasse la criptomoneta come un prodotto finanziario atipico che viene definito dall’art. 1, lett. u) del TUF come “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”, identificandola con ‘ogni strumento idoneo alla raccolta del risparmio, comunque denominato o rappresentato, purché rappresentativo di un impiego di capitale’ (31). Queste le possibili “definizioni” delle criptovalute.

(30) La posizione è condivisa dalla KAI (Korea Accounting Institute), ente di contabilità coreano, che ha recepito la decisione assunta dall’IFRIC (International Financial Reporting Interpretations Committee). (31) Questa è la posizione della Consob, Le offerte iniziali e gli scambi di cripto­ attività, 19 marzo 2019, http://www.consob.it/documents/46180/46181/doc_disc_20190319. pdf/64251cef-d363-4442-9685-e9ff665323cf, che definisce la “criptoattività” un “prodotto finanziario”. “Vi sono tipologie di token che, per le peculiari caratteristiche, integrano la fattispecie degli strumenti finanziari o dei prodotti finanziari (investment-token o security-liketoken). Altri token presentano un mix variabile di caratteristiche, tanto da venire definiti hybridtoken, e sono quelli di più difficile trattazione e inquadramento rispetto alle vigenti discipline. In particolare, tale ultimo insieme di token può presentare un apprezzabile contenuto di tipo finanziario oltre a essere collocati a investitori retail con offerte pubbliche”. A favore della classificazione in bilancio come attività finanziarie M. Pozzoli – F. Paolone, Criptovalute: trattamento contabile alla luce dell’Ifric. Update di marzo 2019, in Guida alla Contabilità & Bilancio, 2019, 7/8, 21. Sono qualificabili come prodotti finanziari le attività che implicano a) impiego di capitale; b) aspettativa di rendimento di natura finanziaria; c) assunzione di un rischio direttamente connesso al capitale investito. Con la conseguenza che è applicabile la disciplina che sottopone gli operatori economici al controllo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (art. 94 TUF). In tema F. Di Vizio, Lo statuto giuridico delle valute virtuali: le discipline e i controlli tra oro digitale ed ircocervo indomito, in Convegno annuale BITGENERATION. Criptovalute tra tecnologia, legalità e libertà, Milano, 2018, 16; M. Passaretta, Bitcoin: il leading case italiano, in Banca borsa e titoli di credito, 2017 476; contra N. Vardi, “Criptovalute” e dintorni: alcune considerazioni sulla natura giuridica dei bitcoin, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2015, 3, 443-456 che considera l’elencazione dei prodotti finanziari tassativa.


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Tuttavia, tutte le qualificazioni segnalate incontrano un ostacolo ‘insormontabile’ nelle indicazioni dell’autorità amministrativa fiscale nazionale che, lo si anticipa, insensibile alle sollecitazioni degli studiosi, della BCE e della Banca d’Italia, le assimila alle valute estere. Con tutte le conseguenze che ne discendono sotto il profilo fiscale. Come si dirà qui di seguito. 3. La rilevanza fiscale delle operazioni in criptovalute. – Come si è avuto modo di evidenziare diverse sono le proposte di qualificazione giuridica delle criptomonete, tutte inefficienti rispetto allo scopo di garantire una definizione univoca e condivisa, applicabile trasversalmente in ogni settore dell’ordinamento giuridico. (32) Le indicazioni di cui si è dato conto, peraltro tra loro anche in parte incompatibili, sono state completamente disattese in ambito fiscale, settore nel quale non si rinviene alcuna traccia normativa in merito al trattamento fiscale – sia nell’ambito dell’imposizione diretta, sia in quello dell’imposizione indiretta – da applicare ai proventi che derivano dalle transazioni realizzate in criptomonete. Pare infatti che legislatore abbia preferito demandare, almeno per il momento e come anticipato, questo compito agli organi giurisdizionali, agli operatori giuridici, nonché all’Amministrazione Finanziaria i quali, chiamati a decidere questioni o a suggerire interpretazioni inerenti alle criptovalute, hanno formulato ognuno una ‘loro nozione’. Il tutto con spregio della certezza del diritto, e grande disorientamento tra gli operatori professionali attivi sul mercato e gli utenti. L’Amministrazione finanziaria (33), chiamata a pronunciarsi a seguito di interpello, sul trattamento fiscale da applicare alle operazioni di acquisto/vendita di criptovaluta eseguite da soggetti per conto della propria clientela (34), ha deciso di recepire le indicazioni formulate nella sentenza della Corte di

(32) G. Corasaniti, Il trattamento tributario dei Bitcoin tra obblighi antiriciclaggio e monitoraggio fiscale, in Strumenti finanziari e fiscalità, 2018, 45 ss. in particolare 51. (33) Si fa riferimento alla Risoluzione 2 settembre 2016, n. 72/E. Ma altre ne sono state pronunciate, di identico contenuto. (34) P. Claps – M. Pignatelli, L’acquisto e la vendita per conto terzi di “bitcoin” non sconta l’IVA ma rileva ai fini IRES ed IRAP, in Corr. trib., 2016, 40, 3075 ove viene evidenziato che oggetto di interpello è la rilevanza fiscale in generale delle operazioni di cambio di valute “tradizionali” con valute “virtuali”, stante l’assenza di una specifica disciplina fiscale, bancaria e civilistica. L’Agenzia delle Entrate si pronuncia infatti non solo in merito al trattamento da applicare ai fini Iva, Ires ed Irap, bensì anche sugli eventuali adempimenti collegati agli effetti fiscali in capo ai soggetti che chiedono di scambiare moneta tradizionale con bitcoin.


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Giustizia dell’Unione europea del 22 ottobre 2015 nella causa C-264/14 – “un punto di riferimento sul piano della disciplina applicabile alle monete virtuali” – che, dopo avere definito le criptovalute quali ‘mezzo di pagamento’, ha qualificato l’attività di cambio di valuta virtuale come prestazione di servizi a titolo oneroso esente IVA. In particolare la Corte, che era stata chiamata a pronunciarsi sulla disciplina IVA da applicare alle operazioni di cambio di criptomoneta contro valuta tradizionale e viceversa (35), ha evidenziato che la “valuta virtuale a flusso bidirezionale ‘Bitcoin’ che sarà cambiata contro valute tradizionali nel contesto di operazioni di cambio, non può essere qualificata come ‘bene materiale’ ai sensi dell’articolo 14 della direttiva IVA, dato che … questa valuta [come avviene per le valute tradizionali, che sono monete che costituiscono mezzi di pagamento legale] non ha altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento (36) ”. Sulla base di questa acquisizione, la Corte ha ritenuto che l’attività di cambio di criptovaluta contro moneta legale per conto di terzi, effettuata a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza tra il prezzo versato dall’operatore per l’acquisto delle criptovalute e il prezzo di vendita dallo stesso praticata ai clienti, non ricade nella nozione di ‘cessione di beni’, ma piuttosto in quella di prestazioni di servizi ai sensi dell’art. 24 della direttiva Iva, realizzate a titolo oneroso ex art. 2, par. 1, lett. c). Di modo che queste operazioni, “relative a valute non tradizionali, vale a dire diverse dalle monete con valore liberatorio in uno o più Paesi, costituiscono operazioni finanziarie in quanto tali valute siano state accettate dalle parti di una transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali – [ed è pacifico che la valuta virtuale ‘bitcoin’ non abbia altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento e che essa sia accettata a tal fine da alcuni operatori] – e non abbiano altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento”. Per queste ragioni, le operazioni in valuta virtuale devono rientrare tra le “operazioni, compresa la negoziazione, relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio” alle quali si applica il regime di esenzione IVA, in base art. 135, par. 1, lett. e) della Direttiva 2006/112/CE.

(35) M. Piasente, Esenzione IVA per i bitcoin: la strada indicata dalla Corte UE interpretando la nozione “divise”, in Corr. trib., 2016, 141 ss. (36) Sentenza Corte di Giustizia 22 ottobre 2015 C-264/14, par. 24 e par. 25 riportato in parentesi quadra.


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Diversamente “un’interpretazione di tale disposizione secondo la quale essa disciplina le operazioni relative alle sole valute tradizionali si risolverebbe nel privarla di parte dei suoi effetti” (37). Questa posizione è stata recepita dalla Amministrazione Finanziaria la quale, dopo avere affermato che l’attività di intermediazione di valute tradizionali con criptovaluta, svolta in modo professionale e abituale, costituisce una attività fiscalmente rilevante, ha indicato la disciplina da applicare sia ai fini Iva, sia ai fini delle imposte dirette. 3.1. Inquadramento giuridico delle criptovalute ai fini IVA. – Ai fini Iva l’Amministrazione finanziaria dichiara che l’attività di cambio di criptocurrency in valuta tradizionale e viceversa, remunerata con commissioni, deve essere considerata quale ‘prestazione di servizi esenti Iva ai sensi dell’art. 10, primo comma, n. 3) del DPR 26 ottobre 1972, n. 633. Questa affermazione implica un’importante presa di posizione, distonica – si ritiene – rispetto a quanto affermato dal legislatore nel D.Lgs. n. 90/2017. Infatti, nel richiamare l’art 10 cit. che si riferisce alle “operazioni relative a valute estere aventi corso legale e a crediti in valute estere, eccettuati i biglietti e le monete da collezione e comprese le operazioni di copertura dei rischi di cambio”, l’Agenzia considera la criptomoneta alla stregua di una valuta estera avente corso legale. E si spinge ben oltre le acquisizioni raggiunte dalla Corte di Giustizia la quale si era invece limitata ad affermare che le criptomonete, prive di corso legale, hanno valore liberatorio e assolvono alla funzione di pagamento, purché siano convenzionalmente accettate. (38) La posizione è stata successivamente confermata (39) dalla stessa Amministrazione la quale, richiamando la definizione contenuta all’art. 1, comma 2, lett. qq) D.Lgs. n. 90 del 2017, che invero la qualifica mezzo di scambio (40), ha affermato che le criptovalute sono riconosciute (sic!) “come strumento di pagamento alternativo a quelli tradizionalmente utilizzati nello scambio di beni e servizi.”.

(37) Sempre Sentenza CGE 22 ottobre 2015 C-264/14, par. 49-52. (38) G. Corasaniti, op.cit., 57 il quale osserva che “in nessuna parte della sentenza è presente una esplicita equiparazione tra bitcoin e valuta estera”; nonché S. Capaccioli, Regime impositivo delle monete virtuali: poche luci e molte ombre, in Il fisco, 2016, 37 (39) Risposta della Direzione Regionale della Lombardia all’Interpello n. 956-39/2018 (40) Si veda la definizione indicata al paragrafo 2.


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L’Agenzia delle Entrate, la cui posizione viene recepita dal Consiglio Nazionale del Notariato (41) – che del pari ha attribuito valore dirimente alle indicazioni della CGUE e ha qualificato le criptomonete un mezzo convenzionale di pagamento, alternativo alla moneta tradizionale avente corso legale – ritiene dunque applicabili alla virtual currency i principi generali che regolano le operazioni aventi ad oggetto le monete tradizionali, qualificando di fatto le criptovalute quali valuta estere (42). L’indicazione della Corte di Giustizia, e a seguire quella della Amministrazione Finanziaria, per quanto apprezzabili devono però fare i conti non solo con il legislatore europeo, che ha escluso che le criptocurrencies possano assumere lo status giuridico di valuta o moneta; ma anche con la definizione formulata all’art. 1, comma 1, lett qq) D.Lgs. n. 90/2017, come modificata dal D.Lgs. n. 125/2019 la quale, contrariamente a quanto affermato dall’Agenzia, oltre a escludere, seppure implicitamente, la qualità di mezzo di pagamento, evidenzia che la criptomoneta può essere utilizzata solo come ‘mezzo di scambio’ e ‘per finalità di investimento’. Quest’ultima possibilità, che presenta importanti rischi ‘insiti nell’utilizzazione e nell’investimento di valute virtuali’ mancando “un approccio condiviso” (43), è stata sdoganata dal nostro legislatore il quale in costanza di operazioni in criptovalute (pagamento o acquisti) ‘apre’ dunque ad una loro qualificazione ora come ‘quasi divise’, ora come strumenti finanziari negoziabili, ora ancora come prodotti finanziari o beni di secondo grado (rappresentativi di beni, servizi e anche beni digitali)

(41) U. Bechini – M.C. Cignarella, Consiglio Nazionale del Notariato, Quesito Antiriciclaggio n. 3-2018/B, Antiriciclaggio – Compravendita di immobile – Pagamento del Prezzo in Bitcoin avente ad oggetto la richiesta in ordine alla legittimità del pagamento del prezzo della vendita di un bene immobile in bitcoin – o altra criptovaluta. Più precisamente si chiedeva se in tale circostanza potessero essere violate le norme in materia di limitazione all’uso del denaro contante (art. 49 del D.Lgs. n. 231/2007, come modificato dal D.Lgs. n. 90/2017), nonché quelle in materia di indicazione analitica dei mezzi di pagamento (art. 35, comma 22 del D.L. n. 223/2006, convertito con modificazioni in L. n. 248/2006). (42) Per una precisa e puntuale ricostruzione delle argomentazioni svolte dalla Corte di Giustizia si rinvia per tutti a G. Corasaniti, op.cit., in particolare pp. 52-55, il quale opportunamente osserva che “nell’opinione della Corte, le criptovalute, sebbene non possiedano corso legale, devono essere considerate quali mezzi di pagamento assimilabili, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, alle valute estere. Tale circostanza tuttavia – ed è bene sottolinearlo sin d’ora – non significa che le valute virtuali siano equiparabili alle valute estere: difatti non è dato rinvenire, nelle parole della Corte, alcuna affermazione in tal senso.” (43) Banca d’Italia, Avvertenza sull’utilizzo delle cosiddette “valute virtuali”, 30 gennaio 2015.


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(44), ora – in ambito contabile – come attività immateriale come riconosciuto dallo IAS 38 (45) come rimanenze ai sensi dello IAS 2. Ma non di certo come moneta o valuta estera. Ferme queste considerazioni, che potrebbero trovare terreno fertile con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 125/2019, lascia comunque invero perplessi l’indicazione applicativa dell’Amministrazione finanziaria che attribuisce alla locuzione ‘mezzo di scambio’ – indicata dal legislatore nella definizione di ‘valuta virtuale’ – il significato di ‘strumento di pagamento’. La perplessità è dovuta al fatto non solo che il legislatore nell’ultima formulazione della definizione di criptovaluta contenuta nella V Direttiva antiriciclaggio 30 maggio 2018/843/UE, recepita dal D.lgs. n. 125/2019 ha voluto espungere dal testo l’espressione ‘mezzo di pagamento’ sostituendola con quella di ‘mezzo di scambio’ allo scopo evidente di marcare la differenza tra criptovaluta e moneta; ma anche alla circostanza che la qualificazione di criptovaluta come mezzo di pagamento troverebbe (trova) un ostacolo nel D. Lgs n. 11/2010 (relativo ai servizi di pagamento) e nella Direttiva 2007/64/ CE all’interno delle quali non vi è alcuna categoria in cui sarebbe possibile ricondurle (46). 3.2. Segue – … e ai fini delle imposte dirette. – Ferma l’assenza di regolamentazione, l’Amministrazione finanziaria, come anticipato, dopo avere indicato la disciplina Iva coglie l’occasione anche per segnalare il trattamento fiscale ai fini delle imposte dirette da applicare ai proventi (o alle perdite) derivanti dalle operazioni relative alle criptovalute. E specifica che i redditi che derivano dall’esercizio dell’attività di intermediazione nell’acquisto e vendita di criptovalute concorrono a formare il reddito d’impresa del soggetto che esercita l’attività di cambio criptovalute; mentre i proventi realizzati dalle persone fisiche non nell’esercizio dell’attività di impresa a seguito di cessione di criptovalute sono da classificare e indicare in dichiarazione (quadro RT) come redditi diversi (plusvalenze o minusvalenze), nel rispetto di alcune con-

(44) A. Magliocco, Bitcoin e tassazione, in Strumenti finanziari e fiscalità, 2016, 31 (45) Così evidenziato nello IFRS (Interpretation Paper del marzo 2019). Si rinvia a S. Giorgi, op. cit., par. 6. (46) L’ar. 1, lett. s del D.Lgs. 11/2010 dispone che per strumento di pagamento deve intendersi “qualsiasi dispositivo personalizzato e/o insieme di procedure concordate tra l’utilizzatore e il prestatore di servizi di pagamento e di cui l’utilizzatore di servizi di pagamento si avvale per impartire un ordine di pagamento”. Si rinvia alle riflessioni di G. Rinaldi, op. cit., 286.


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dizioni poste dalla disciplina, per essere sottoposti all’imposizione sostitutiva del 26%. Non solo. Le criptovalute, essendo assimilate dall’Agenzia alle valute estere, devono essere indicate anche nel quadro RW della dichiarazione, in cui devono essere annotate le attività finanziarie anche detenute in Italia al di fuori del circuito degli intermediari (Circolare 38/E/2013) (47). Con l’avvertenza che “il controvalore in euro della valuta virtuale deve essere determinato al cambio indicato a tale data dal sito ove il contribuente ha acquistato la valuta virtuale”. Il valore delle criptovalute archiviate nel Wallet non è soggetto a IVAFE (Imposta sul valore dei prodotti finanziari esteri) poiché l’imposta si applica, a detta dell’Agenzia, solo ai conti e ai depositi bancari (circolare 2 luglio 2012, n. 28/E) (48). Queste indicazioni si fondano, lo si ripete ancora una volta, sulla definizione formulata dall’Agenzia delle Entrate che ha qualificato le criptovalute quali valute estera. Su questo assunto è stato chiarito che i proventi derivanti dall’esercizio dell’attività di intermediazione nell’acquisto e nella vendita di criptovalute devono essere assoggettati a Ires – o Irpef nel caso in cui l’attività di cambio valute sia esercitata da una persona fisica (ipotesi del tutto residuale e difficilmente integrabile) – quale componente positiva del reddito d’impresa, al netto dei costi inerenti a tale attività, ferma l’applicazione dell’Irap sul valore della produzione netta. In particolare, in merito ai proventi derivanti dall’attività di ‘cambio criptovalute’, l’Amministrazione finanziaria precisa che si possono verificare due situazioni: quella in cui l’intermediario riceve un ordine di acquisto e quella in cui, invece, lo stesso deve dare seguito a un ordine di vendita. Nel primo caso, ferma l’anticipazione da parte del cliente delle risorse finanziarie necessarie per eseguire l’operazione, l’intermediario deve effettuare l’acquisto e deve poi provvedere alla sua registrazione nel wallet del cliente insieme ai codici relativi alla valuta virtuale acquistata. Nel secondo caso, invece, l’intermediario deve prelevare dal wallet del cliente la valuta virtuale per poi venderla

(47) L’articolo 4 del D.L. n. 167 del 1990 impone l’obbligo di compilazione del quadro RW del Modello Redditi – Persone Fisiche alle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato che, nel periodo d’imposta, detengono investimenti all’estero e attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia, tra le quali le valute estere. (48) Risposta all’interpello – Direzione Regionale Lombardia – n. 903-47/2018 del 22 gennaio 2018.


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e successivamente accreditare la somma convenuta sul conto o sulla carta di credito del cliente. In entrambe i casi l’attività può dare luogo a un utile (o a una perdita) dato dalla differenza tra quanto anticipato dal cliente e quanto speso dall’intermediario per l’acquisto, o tra quanto dallo stesso incassato per la vendita e quanto riversato al cliente. I proventi (o le perdite) derivanti dall’attività di cambio vengono rispettivamente qualificati come ricavi o costi dell’esercizio dell’attività di intermediazione e “contribuiscono quali elementi positivi (o negativi) alla formazione della materia imponibile soggetta ad ordinaria tassazione ai fini Ires (ed Irap).” Peraltro, nel caso in cui a fine esercizio l’intermediario ‘detenga (a titolo di proprietà) valuta virtuale la stessa dovrà essere valutata secondo il cambio in vigore alla data di chiusura dell’esercizio, ossia in base al loro valore normale ex art. 9 Tuir espresso in euro (o in qualsiasi altra valuta legale). Per quanto riguarda invece i proventi conseguiti dalle persone fisiche che detengono criptovalute al di fuori dell’attività d’impresa, l’Agenzia delle Entrate conferma che queste ‘entità’ possono produrre redditi diversi. L’art. 67, co. 1, lett. c-ter), Tuir prevede infatti espressamente che costituiscono redditi diversi di natura finanziaria “le plusvalenze … realizzate mediante cessione a titolo oneroso … di valute estere, oggetto di cessione a termine o rinvenienti da depositi i conti correnti “, intendendosi per “cessione a titolo oneroso anche il prelievo di valute estere dal deposito o conto corrente”. Queste plusvalenze “concorrono a formare il reddito a condizione che nel periodo d’imposta la giacenza dei depositi o conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento, sia superiore a €. 51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continui”. Al di sopra di tale limite, infatti, la finalità speculativa (49) si presume.

(49) Sul concetto di intento speculativo si veda L. Ferlazzo Natoli, Le plusvalenze speculative, Milano, 1984, passim, nonché F. Fedele, Considerazioni generali sulla disciplina fiscale degli atti e delle vicende dell’impresa, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel nuovo Testo Unico, Padova, 1988, 777 e in particolare 779 il quale evidenziava come l’intento speculativo, che connotava in passato anche il sistema del reddito d’impresa, avesse perso progressivamente rilevanza in quella sede. Si veda, in relazione all’intento speculativo proprio del reddito d’impresa, tra le molteplici sue pubblicazioni G. Falsitta, Plusvalenze e minusvalenze patrimoniali (dir. trib.), in Enc. Giur. Treccani, XXIII, Roma, 1991, passim. Di recente invece si rinvia al saggio di F. Paparella, Il contributo di Augusto Fantozzi e di Andrea Fedele in tema di plusvalenze nel reddito d’impresa, in DPT, 2019, 509 e in particolare 514 ss. ove si evidenzia con chiarezza l’importanza che ha assunto l’intento speculativo nell’esercizio dell’attività d’impresa ispirato alla logica dell’‘affare’.


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La ragione di questa disposizione si rinviene nella necessità di assoggettare a tassazione soltanto le plusvalenze significative (ossia quelle che integrano le condizioni appena indicate) derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute di cui si sia acquisita o mantenuta la disponibilità a fini di investimento (50). L’Agenzia ha precisato infatti che “l’imponibilità delle operazioni sulle valute estere riguarda soltanto quelle operazioni espressamente contemplate nella lett. c-ter) che si intendono come espressive, per presunzione di legge, di una attività di investimento e, cioè, il prelievo della valuta da depositi o conti correnti ovvero la sua cessione a termine.” Diversamente, invece, “non sono (…) mai rilevanti le cessioni a pronti delle valute”. Questo significa che le “operazioni a pronti”, in assenza di finalità speculativa, non generano redditi imponibili; mentre le plusvalenze conseguite a seguito di acquisto e vendita di criptovalute sono soggette a imposta sostitutiva se la giacenza dei depositi e dei conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente presso tutti gli intermediari, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento, sia superiore a 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui. L’Agenzia precisa poi che ai fini della tassazione è necessario verificare se il reddito che deriva dalla conversione della criptovaluta in valuta legale o viceversa derivi da una cessione a termine, oppure se la giacenza media del wallet abbia superato il controvalore di 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta. Questi redditi, come anticipato, sono soggetti all’imposta sostitutiva del 26% come previsto dall’art. 5 D.Lgs. n. 461/97, in sede di dichiarazione Vista la complessità degli adempimenti richiesti, vi è chi (51) ha opportunamente suggerito di ricondurre la tassazione delle plusvalenze derivanti dalle transazioni su criptovalute nel regime del risparmio amministrato, che prevede a cura dell’intermediario autorizzato, ‘presso i quali i titoli o altri strumenti finanziari sono depositati in custodia o amministrazione’, il prelievo fiscale ed il versamento del tributo in relazione a ciascuna operazione. Ma questo sarà possibile solo se il legislatore (e l’Amministrazione finanziaria) deciderà di qualificare le criptovalute quali prodotti finanziari, o comunque quali entità immateriali.

(50) (51)

Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 461/97. G. Corasaniti, op. cit., 61.


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3.3. Gli obblighi antiriciclaggio dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di criptovalute e dei prestatori di servizi di portafoglio digitale. – L’equiparazione tra criptovalute e valute estere ha determinato l’applicabilità della disciplina sul monitoraggio fiscale di cui al D.L. n. 167 del 1990 ai detentori di criptocurrency. L’Amministrazione, nella risposta all’interpello proposto alla Direzione Regionale Lombardia n. 956-39/2018, non ha potuto che evidenziare che dovevano essere estesi “gli obblighi di monitoraggio fiscale, ordinariamente previsti per gli intermediari bancari e finanziari, altresì ai soggetti (c.d. “operatori non finanziari”) che intervengono, anche attraverso movimentazione di ‘conti’, nei trasferimenti da o verso l’estero di mezzi di pagamento effettuati anche in valuta virtuale, di importo pari o superiore a 15.000 euro” (52). Questa indicazione applicativa ha trovato di recente conferma normativa. Per individuare, comprendere e mitigare i rischi collegati al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo il legislatore nazionale ha ritenuto opportuno estendere con il D.lgs. n. 125/19 l’ambito di applicazione del D.lgs. n. 231/2007 relativo agli adempimenti di contrasto al riciclaggio. In relazione alle operazioni realizzate con criptovalute ha infatti inserito tra i soggetti destinatari degli obblighi antiriciclaggio oltre ai ‘prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valute virtuali’ anche i prestatori di servizi di portafoglio digitale, vale a dire sia i soggetti che convertono la valuta legale in criptovaluta e viceversa e che forniscono i servizi a essa connessi (cd. exghanger), sia quelli che offrono servizi di custodia delle credenziali (chiavi crittografiche) necessarie per poter accedere alle criptovalute detenute e ‘annotate’ nel portafoglio virtuale (cd. wallet provider). Di conseguenza anche i “prestatori di servizi di portafoglio digitale ossia “ogni persona fisica o giuridica che fornisce, a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali” (art 1, comma 2, lettera ff bis ) sono tenuti al rispetto degli obblighi di adeguata verifica della clientela (aventi ad oggetto l’identificazione del cliente e del titolare effettivo, la conservazione dei documenti e dei dati raccolti, l’invio di segnalazioni di operazioni sospette alla UIF), nonché all’obbligo di iscrizione nella sezione speciale del registro dei cambia valute gestito dall’Organismo degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi (OAM) (53).

(52) (53)

Interpello n. 956-39/2018 Commi 8-bis e 8-ter, art. 17 bis D.Lgs. n. 141/2010 (attività di cambia valute)


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Il legislatore nazionale, nell’intervenire sugli obblighi di antiriciclaggio in adesione a quanto contenuto nella V direttiva 843/2018/UE, ha poi volutamente specificato cosa si debba intendere per ‘utilizzo di valute virtuali’. E recepite le indicazioni degli standard GAFI/FATF (54) ha precisato che in tale attività rientrano non solo la conversione di valute virtuale in altra e diversa valuta virtuale ma anche “i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute” (55). In questo modo ha cercato di chiarire e specificare le attività di cui le criptovalute possono costituire l’oggetto, allo scopo principale di estendere l’ambito di operatività della disciplina sul monitoraggio e sul riciclaggio. Ma non si può escludere che questa “precisazione” possa nel tempo produrre effetti ai fini di una corretta definizione delle criptovalute. 4. Conclusioni. – L’intervento del legislatore nazionale (ottobre 2019) potrebbe concorrere a mitigare l’incertezza normativa che connota la qualificazione della criptovaluta, definita ora, a seguito del recepimento della V Direttiva antiriciclaggio tramite il D.Lgs n. 125/2019, quale “rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente.” Tuttavia, si ritiene che molto ancora debba essere fatto. E questo nonostante gli sforzi volti sia a individuare le finalità per le quali è ‘consentito’ l’utilizzo delle criptovalute (quale mezzo di scambio o investi-

inseriti dall’ art. 8 D.Lgs n. 90/2017. (54) Si segnala che il Gruppo d’Azione Finanziaria - Financial Action Task Force (GAFI – FATF) è un organismo intergovernativo indipendente che sviluppa e promuove politiche finalizzate a proteggere il sistema finanziario globale contro il riciclaggio, il finanziamento del terrorismo e il finanziamento della proliferazione delle armi di distruzione di massa. Le raccomandazioni FATF sono riconosciute come standard internazionale. (55) Il D.Lgs. n. 125/2019 ha modificato l’art. 1, comma 3, lettera ff) D.Lgs. n. 231/2007 e ha definito prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valute virtuali “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute” (in corsivo le modifiche apportate dal D.Lgs n. 125/2019).


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mento), sia a specificare le attività che possono essere esercitate e gli obblighi antiriciclaggio che devono essere osservati dai prestatori di servizi relativi al loro utilizzo e alla gestione del portafoglio digitale. Le resistenze opposte dall’Amministrazione finanziaria che le qualifica valute estere, e dai giudici nazionali (56) che la definiscono ora ‘strumento finanziario utilizzato per compiere una serie di particolari forme di transazioni online” – costituito da “una moneta che può essere coniata da qualunque utente ed è sfruttabile per compiere transazioni, possibili grazie ad un software open source e ad una rete peer to peer” – ora “denaro, anche se, strutturalmente, presenta caratteristiche proprie dei beni mobili” (57), impongono una presa di coscienza e una reazione decisa che porti a introdurre nel sistema una definizione di portata generale, applicabile in ogni settore dell’ordinamento. Solo in questo modo si metterà fine alla confusione concettuale che ruota intorno al fenomeno delle criptovalute e che consente, oggi, agli operatori professionali e agli utenti di compiere operazioni non solo appetibili sotto il profilo speculativo e fiscale, ma anche, purtroppo, in casi non marginali, finalizzate a perseguire obbiettivi criminali e terroristici.

Maria Pierro

(56) Si intende fare riferimento al Tribunale di Verona sentenza n. 195/2017 (57) Così si sono espressi il Tribunale e la Corte d’Appello di Brescia rispettivamente con il decreto n. 7556/2018 e il decreto n. 26/2018. Chiamata a pronunciarsi sulla idoneità delle criptovalute a costituire oggetto di conferimento imputabile a capitale sociale di una SRL, la Corte di Appello ha afferma che “la criptovaluta deve essere assimilata, sul piano funzionale, al denaro, anche se, strutturalmente, presenta caratteristiche proprie dei beni mobili (...). Essa serve, infatti, come l’euro, per fare acquisti, sia pure non universalmente ma in un mercato limitato, ed in tale ambito opera quale marcatore (cioè quale contropartita), in termini di valore di scambio, dei beni, servizi, o altre utilità ivi oggetto di contrattazione”. Il Giudice, ha dunque equiparato la criptovaluta al denaro e ha escluso che il valore economico della prima possa determinarsi ai sensi degli artt. 2464 e 2465 c.c., riservata a beni, servizi ed altre utilità, “non essendo possibile (…) attribuire valore di scambio ad un’entità essa stessa costituente elemento di scambio (contropartita) nella negoziazione.”. Si veda D. Masi, Il conferimento in criptovaluta, in Innovazione e diritto, 2019, 5 ss., nonché M. Passaretta, Conferimenti di criptovalute in società. Principi e problemi applicativi, in Riv. notariato, 2018, 1300 ss.


Considerazioni in merito all’autonomia tributaria ed agli spazi di equità orizzontale nel tempo del regionalismo differenziato Sommario: 1. Introduzione. – 2. Brevi cenni in merito ai profili di autonomia finanziaria

delle Regioni a statuto ordinario nella dinamica dell’esercizio della politica impositiva e di spesa. –3. Il ruolo della solidarietà e della competizione regionale nella logica del federalismo regionale. – 3.1. Considerazioni in merito alle concezioni del federalismo ‘competitivo’ e ‘cooperativo’. – 3.2. Equità orizzontale nel tempo del regionalismo differenziato. – 4. Cenni conclusivi: fallimento delle istanze di autonomia finanziaria contenute negli Accordi e risvolti in punto di responsabilità sul lato del contenimento della spesa pubblica. Lo scritto si focalizza sugli sviluppi delle istanze di autonomia differenziata rappresentate da alcune Regioni a statuto ordinario, che si sono estrinsecate nelle c.d. ‘bozze di intesa’ tra il Governo e le Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, con particolare attenzione ai risvolti in chiave tributaria. Dopo aver formulato alcune riflessioni preliminari in merito ai profili di autonomia finanziaria delle Regioni a statuto ordinario nella dinamica dell’esercizio della politica impositiva e di spesa, il contributo approfondisce gli effetti delle citate ‘bozze di intesa’ nella dimensione dell’equità orizzontale. Si esprimono, in ultimo, alcune considerazioni in merito al ruolo delle concezioni del federalismo ‘competitivo’ e ‘cooperativo’ in ambito tributario, anche alla luce delle esigenze di contenimento della spesa pubblica. This paper focuses on the tax implications of the demands for greater fiscal autonomy pursued by certain Regions with ordinary statute, as resulting from the ‘draft agreements’ undersigned between the central Government and the Regions of ‘Veneto’, ‘Lombardia’ and ‘Emilia-Romagna’. Following an introductory overview of the dynamics of fiscal autonomy within Regions with ordinary statute, this contribution explores the implications of the ‘draft agreements’ on the principle of horizontal equity in taxation law. Finally, some considerations are made with reference to the relationship between tax law and the notions of ‘competitive’ and ‘cooperative’ federalism in light of the growing relevance of the principle of balanced budget.


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1. Introduzione. – Si assiste in tempi recenti ad un rinnovato interesse per il rafforzamento delle istanze, anche di autonomia tributaria, rappresentate dalle Regioni a statuto ordinario. Se, infatti, dall’analisi del quadro di riferimento – come si avrà modo di evidenziare meglio infra – si evince una situazione in cui i margini di effettiva autonomia impositiva sono, di fatto, piuttosto limitati, stante la primazia statuale nell’individuazione dei presupposti e considerata la decisività per il concorso al finanziamento degli enti sub-statuali delle risorse di tipo ‘devoluto’, le istanze del regionalismo differenziato che si sono estrinsecate nelle bozze di intesa tra il Governo e le Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna in tema regionalismo differenziato pubblicate dal Dipartimento per gli Affari regionali e le autonomie il 15 febbraio 2019 nel quadro dell’art. 116, comma 3, Cost. (gli ‘Accordi’) avrebbero potuto offrire utili elementi per ragionare su un possibile mutamento di scenario (1). Da un’analisi dei contenuti degli Accordi non pare, però, che si assista ad un mutamento di paradigma, almeno per quanto concerne il versante prettamente tributario, considerato che le prospettive per una concessione di maggiori margini di autonomia tributaria sono naufragate a fronte delle resistenze dello Stato centrale.

(1) Sull’attuazione e sulle prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, comma 3, Cost. si vedano, senza pretesa di completezza, T. Cerruti, Regioni speciali e differenziate: verso una convergenza?, in Diritti regionali. Rivista di diritto delle autonomie territoriali, n. 2/2019; Servizio Studi Senato e Camera, Dossier n. 565, Il regionalismo differenziato con particolare riferimento alle iniziative di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, novembre 2017; Id., Il regionalismo differenziato e gli accordi preliminari con le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, maggio 2018; A. Morelli, Art. 116, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, II, Bologna, 2018, 325 ss.; V. Nastasi, Il regionalismo differenziato e i problemi ermeneutici sorti in seguito alle recenti iniziative di attuazione dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione, in www.forumcostituzionale.it, 5/2018, 5 ss.; G. Piccirilli, Gli “accordi preliminari” per la differenziazione regionale. Primi spunti sulla procedura da seguire per l’attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., in Diritti regionali. Rivista di diritto delle autonomie territoriali, 2/2018, 22 ss.; A. Poggi, Esiste nel Titolo V un “principio di differenziazione” oltre la clausola di differenziazione del 116 comma 3?, in AA.VV., Esperienze di regionalismo differenziato. Il caso italiano e quello spagnolo a confronto, a cura di A. Mastromarino, J.M. Castellà Andreu, Milano, 2009, 51 ss.; A. D’atena, Audizione resa alla Commissione parlamentare per le questioni regionali il 29 novembre 2017, in Atti Parlamentari. XVII Legislatura, discussioni, questioni regionali; L. Letizia, Dal ‘federalismo fiscale simmetrico’ al ‘decentramento fiscale asimmetrico’ nella prospettiva dell’autonomia regionale differenziata, in Innovazione e diritto, 1, 2019, 1 ss.


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Di conseguenza, per il cultore della materia fiscale non sembra che tali Accordi possano rappresentare l’espressione di un effettivo abbandono dello status quo e possano delineare una ‘frattura’ nelle dinamiche attuali del federalismo fiscale. Ciò posto, tuttavia, gli Accordi in questione offrono l’opportunità di tornare ad indagare, in chiave teorica e sistematica, la relazione ‘dialogica’ che si intesse nell’ordinamento tributario tra principio del beneficio e principio di uguaglianza tra tutti i contribuenti-consociati che appartengono alla collettività statuale, indipendentemente dalla loro collocazione geografica sul territorio nazionale. Pare, cioè, al di là delle norme di dettaglio contenute nei citati Accordi – di scarso rilievo per il tributarista – che il motore propulsore delle istanze sottese agli stessi sia da ricercare in una sempre maggiore consapevolezza circa la necessità di un recupero del controllo e reinvestimento in loco delle risorse generate da un dato territorio. Ciò con l’obiettivo ultimo, non del tutto esplicitato negli Accordi, di delimitare – tramite forme di ‘ritenzione’ dei residui fiscali – il fenomeno del trasferimento del saldo del gettito fiscale originato dalle aree più ricche del Paese al concorso alla spesa nazionale e, di conseguenza, al finanziamento delle Regioni economicamente meno solide in ossequio ai principi di solidarietà ed equità orizzontale. Una chiave di lettura, quest’ultima, che offre, prima di tutto, prospettive di interesse in ordine al rafforzamento delle possibilità di concorrenza fiscale tra le Regioni, quale portato ineludibile del processo di ‘differenziazione’ e che interessa il tributarista in quanto foriero di scenari di legittima pianificazione fiscale del contribuente incentrate sulla scelta del luogo di residenza più opportuno sul territorio nazionale, anche a cagione della propria tipologia di attività economica. In chiave più generale, il fenomeno del ‘regionalismo differenziato’ – nella sua dimensione di recupero del collegamento tra prelievo tributario ed erogazione dei servizi nel territorio regionale – pare collocarsi, pur con tutte le peculiarità del caso, nell’alveo di una tendenza sempre più presente nelle categorie concettuali del diritto tributario odierno, che, di fatto, concorre ad una svalutazione della logica solidaristica del tributo. In tempi recenti si assiste, infatti, ad un progressivo sfaldamento delle tradizionali coordinate di riferimento del tributo, tale per cui la funzione redistributiva dell’imposta viene sempre più ad assumere rilevanza recessiva a fronte delle esigenze immediate di reperimento delle risorse per il finanziamento delle spese pubbliche.


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In tale quadro, in sostanza, perde rilievo la funzione ‘compensativa’ dell’imposta, quale elemento, cioè, di mitigazione delle disuguaglianze tramite gli strumenti della discriminazione qualitativa dei redditi, della progressività dell’imposta e dell’esenzione del c.d. ‘minimo vitale’. Sebbene tale tensione affiori in maniera preponderante nella relazione che intercorre, in senso ‘verticale’, tra singolo contribuente e potere statuale, merita domandarsi se le rinnovate spinte verso il ‘regionalismo differenziato’, di questi tempi tornate prepotentemente all’attenzione degli interpreti, costituiscano un’ulteriore estrinsecazione del progressivo abbandono della funzione compensatoria e solidaristica del tributo. In questo senso, le spinte verso il ‘regionalismo differenziato’, quale processo di ridefinizione dei rapporti tra governo centrale e governi periferici, potrebbero essere valutate come espressione di scoloramento della natura solidaristica del tributo in una dimensione, questa volta, di tipo ‘orizzontale’, a seconda, cioè, della collocazione geografica del contribuente sul territorio nazionale. In ultimo, non va dimenticata l’interrelazione della dinamica del ‘regionalismo differenziato’ rispetto al principio del contenimento della spesa pubblica. Se, come noto, tale ultimo parametro si delinea ormai come “principio di sistema sul quale si fonda l’intero disegno di riforma dei rapporti finanziari tra Stato e Regioni” (2) e determina un sempre più approfondito scrutinio da parte della Corte dei Conti (3), rimane da domandarsi come si pongano tali forme di controllo, così penetranti, in un contesto in cui alle responsabilità sulla spesa non si accompagna una altrettanto piena attribuzione di responsabilità sul lato delle entrate. Soprattutto, occorre chiedersi se l’obbligo del pareggio di bilancio, nella sua dimensione di controllo della spesa a livello sub-statuale, in ossequio ai dettami del novellato art. 81 Cost., non debba necessariamente giustificare la necessità che la gestione delle entrate sia affidato a coloro che devono, a valle, rispondere della gestione del debito. 2. Brevi cenni in merito ai profili di autonomia finanziaria delle Regioni a statuto ordinario nella dinamica dell’esercizio della politica impositiva e di spesa. – È noto che la disciplina del federalismo fiscale – quale estrinsecazio-

(2) Cfr. G. Scanu, L’autonomia tributaria delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome, XIV, Torino, 2017. (3) R. Miceli, Federalismo fiscale e principi europei. Spazi di autonomia, livelli di responsabilità e modelli di federalismo, Milano, 2014, 244 ss., in cui si mette in luce l’importanza in tale contesto delle sollecitazioni di matrice eurounitaria.


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ne di autonomia delle politiche di entrata delle Regioni a statuto ordinario – ha trovato compimento a seguito dell’approvazione della Legge delega 5 maggio 2009, n. 42 e del successivo d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68 (4), con i quali sono stati definiti – secondo coordinate di maggiore autonomia rispetto alla previgente normativa - i principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario con l’obiettivo di conseguire una tendenziale corrispondenza tra prelievo tributario e servizi resi a livello territoriale (5). Con tali previsioni normative si è, così, portato a compimento il processo iniziato con la riforma costituzionale del 2001, finalizzato ad attribuire agli enti territoriali (6) una maggiore autonomia finanziaria e teso a superare il fenomeno dei trasferimenti statali, basati sul modello della spesa storica, grazie all’introduzione di meccanismi determinati in forza dei costi standard e dei livelli essenziali di prestazioni, coniugati ad appositi criteri perequativi (7).

(4) Ciò stante il fallimento del progetto di riforma costituzionale ‘Renzi-Boschi’ di cui alla legge costituzionale del 12 aprile 2016. Si veda al riguardo A. Persiani, La riforma costituzionale Renzi-Boschi e la sua incidenza sul federalismo fiscale, in Dir. prat. trib., I, 2017, 51 ss. (5) Per un inquadramento generale dei profili tributari del federalismo fiscale si vedano, senza pretesa di completezza, D. Stevanato, I ‘tributi propri’ delle Regioni nella legge delega sul federalismo fiscale, in Dir. prat. trib., I, 2010, 395; M.C. Fregni, Riforma del Titolo V della Costituzione e federalismo fiscale, in Rass. trib., 2010, 683; G. Ragucci, La legge delega per l’attuazione del federalismo fiscale, in Rass. trib., 2010, 736; F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, in Rass. trib., 2019, 239; G. Bizioli, L’autonomia finanziaria e tributaria regionale, Torino, 2012; L. Antonini, Federalismo fiscale (diritto costituzionale), in Enc. dir., vol. X, 2017, 407; Id., Il cosiddetto federalismo fiscale. Un giudizio d’insieme su una riforma complessa, in Le Regioni, n. 1-2/2014; F. Sorrentino, Riflessioni preliminari sul coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, in Studi in onore di Franco Modugno, tomo IV, Napoli, 2011; M. Bergo, Coordinamento della finanza pubblica e autonomia territoriale. Tra armonizzazione e accountability, Napoli, 2018, 63; G.M. Cipolla, Le aporie del regionalismo differenziato, in Rass. trib., 2019, 508; G. Scanu, Regionalismo differenziato e sostenibilità finanziaria, in Riv. trim. dir. trib., 2019, 137. A livello comparato, vedasi la fondamentale opera G.F. Ferrari (a cura di), Federalismo, sistema fiscale, autonomie. Modelli giuridici comparati, Roma, 2010, ove, si segnalano, tra gli altri, i saggi di A. Vedaschi, Il federalismo fiscale in Argentina, 433 ss. Id., Il federalismo fiscale in Messico, 499 s.s. Occorre precisare che, in questa sede, con le locuzioni ‘ente territoriale’ o ‘ente (6) sub-statale’ si intende fare riferimento esclusivamente alle Regioni a statuto ordinario. (7) La letteratura in merito alla disciplina della l. n. 42 del 5 maggio 2009 è molto vasta. Per un primo approfondimento delle elaborazioni della dottrina tributaristica si vedano, oltre ai contributi citati supra nota 6, A. Giovanardi, Il riparto delle competenze tributarie tra giurisprudenza costituzionale e legge delega in materia di federalismo fiscale, in Riv. dir. trib., 2010, I, 36; F. Gallo, I principi del federalismo fiscale, in Dir. prat. trib., 2012, I, 1; G. Fransoni, Il presupposto dei tributi regionali e locali. Dal precetto costituzionale alla legge


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Il modificarsi dei rapporti tra Governo centrale ed enti di autonomia territoriale aveva, infatti, reso imprescindibile l’individuazione di un idoneo modello che assicurasse il conseguimento di un efficiente coordinamento degli assetti della finanza pubblica tra i diversi livelli di governo, così da consentire agli enti territoriali “di attuare politiche autonome di spesa nelle materie di rispettiva competenza” tramite il ricorso a entrate fiscali “pertinenti al territorio di ciascun ente e quelle effettivamente destinate al territorio stesso” (8). Il complessivo meccanismo delineato dal legislatore in sede di legislazione delegata si è, in sostanza, basato su due pilastri fondamentali, che avrebbero dovuto condurre ad una effettiva ‘responsabilizzazione’ dell’ente territoriale sotto il profilo finanziario, sia sul versante del prelievo tributario, sia su quello della conduzione di un’autonoma politica di spesa nelle materie di propria competenza (9). In primo luogo, sotto il profilo delle entrate fiscali, si è configurato un articolato meccanismo di finanziamento delle ‘funzioni’ di spettanza regionale, che insiste sull’attribuzione, in capo alle stesse, della gestione di entrate specifiche, di natura primariamente tributaria ed individuate nelle categorie dei tributi propri in senso stretto, tributi propri derivati ed addizionali su basi imponibili di tributi erariali (10).

delega, in Riv. dir. trib., 2011, I, 267; L. Letizia, Lineamenti dell’ordinamento finanziario delle Regioni di diritto comune. Ricostruzione, evoluzione, prospettive, Torino, 2012; L. Carpentieri, Le fonti del diritto tributario, in A. Fantozzi, Diritto tributario, Torino, 2013, 152; F. Stradini, Autonomia impositiva delle Regioni a statuto speciale: il riconoscimento costituzionale e l’erosione del primato tra corte costituzionale e diritto comunitario, in Riv. dir. trib., 2013, I, 1201; G. Scanu, L’autonomia tributaria delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome, Torino, 2017; R. Schiavolin, I tributi locali, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2016, 1161. (8) G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2019, 147. (9) Cfr. M. Bergo, Coordinamento della finanza pubblica e autonomia territoriale. Tra armonizzazione e accountability, cit., 64, che conferma come la nozione di ‘autonomia finanziaria’ vada letta sotto il duplice profilo dell’autonomia di entrata e di spesa. (10) A fianco di tali fonti di finanziamento di natura prettamente tributaria, va osservato che vi sono anche altre tipologie di entrate quali le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali ed una quota di riparto del fondo perequativo. Si vedano a tale riguardo G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., 147; A. Persiani, La riforma costituzionale Renzi-Boschi e la sua incidenza sul federalismo fiscale, cit., 51 ss., in cui si sottolinea che “in attuazione della legge delega sono stati emanati ben nove decreti legislativi di attuazione, tra cui quelli sull’autonomia tributaria delle Regioni a statuto ordinario (d.lgs. n. 68 del 2011) e dei Comuni (d.lgs. n. 23 del 2011). Quanto alle prime, il finanziamento delle relative spese è affidato ai tributi – in particolare, tributi propri in senso stretto, tributi propri c.d. ‘derivati’, addizionali


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È peraltro noto che le prerogative in punto di potestà impositiva attribuite alle Regioni a statuto ordinario si sono dimostrate significativamente limitate, considerato che anche con riferimento all’insieme dei tributi propri i margini di piena autonomia tributaria sono stati individuati unicamente con riferimento all’ambito dei tributi ‘propri autonomi’ (11), mentre per l’insieme dei tributi ‘propri derivati’ gli spazi attribuiti alla politica fiscale regionale sono rimasti rigidamente delimitati tramite i paletti dettati dalla legislazione statale di riferimento (12). Sebbene recenti interventi della giurisprudenza costituzionale potrebbero aprire spiragli per una rivalutazione futura dell’autonomia impositiva regionale con riguardo ad alcuni tributi appartenenti all’insieme dei tributi propri (13), un tale stato di cose ha determinato l’impossibilità di conseguire una piena attuazione del principio di connessione tra risorse e funzioni (14),

sulle basi imponibili di tributi erariali – alle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali e al riparto del fondo perequativo. Quanto ai secondi, si prevedono i tributi propri istituiti dallo Stato, quelli istituiti dalle Regioni, i tributi di scopo comunali, le compartecipazioni al gettito dei tributi statali (tra cui l’iva e l’irpef), il riparto dei fondi perequativi”. (11) Trattasi dei tributi – invero di scarsa rilevanza applicativa – istituiti e regolati a livello regionale con riguardo a presupposti già non assoggettati ad imposizione dallo Stato, di cui all’art. 8, comma 1, d.lgs. n. 68/2011. (12) Trattasi di tributi, indicati all’art. 8, comma 3, d.lgs. n. 68/2011, disciplinati da legge statale, il cui gettito è attribuito alle Regioni. (13) Si richiama al riguardo la sentenza della Corte Cost. 20 maggio 2019, n. 122 (pubb. GU 22 maggio 2019), relativa al rapporto tra legislazione statale e regionale con riguardo all’applicazione della tassa automobilistica. Con tale pronuncia la Corte, superando il proprio pregresso orientamento, ha aperto spiragli di interesse in vista di un riconoscimento di un maggiore spazio di manovra in capo alle Regioni che intendono perseguire un percorso di differenziazione sotto l’aspetto di una maggiore autonomia fiscale in ordine all’applicazione della tassa de qua, qualificando il tributo in questione come tertium genus rispetto alle categorie dei tributi ‘propri in senso stretto’ e ‘propri derivati’. Si permetta di rinviare al riguardo, per una prima analisi, a S.M. Ronco, Tassa automobilistica ed autonomia finanziaria: quali nuovi spazi per la discrezionalità del legislatore regionale?, in Osservatorio costituzionale, n. 5/2019. Si veda anche A. Giovanardi, Complicate ricostruzioni per risolvere questioni microconflittuali di dettaglio: il bollo auto come paradigma di un’autonomia tributaria asfittica e, comunque, sempre sottrattiva, in Riv. trim. dir. trib., 2019, 441. (14) Come evidenzia E. D’Orlando, Corti costituzionali, crisi economico-finanziaria e forme di Stato regionale, in Federalismi, n. 16/2019, 8, si assiste ad una “sostanziale inattuazione del federalismo fiscale” qualora “la parte più consistente delle risorse finanziarie regionali è costituita dall’attribuzione del gettito/compartecipazione dei tributi erariali, stabilita nel quantum – per quanto riguarda le Regioni ordinarie – a livello centrale”.


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considerati, come detto, i limitati margini per l’introduzione di tributi propri ‘autonomi’ da parte delle Regioni a statuto ordinario (15). Ad un tale esito ha contribuito, soprattutto, la valenza assorbente del c.d. divieto di doppia imposizione (16), quale affermazione, in ultima istanza, della preminenza statuale e delle ragioni di tutela dell’unità dell’ordinamento rispetto alla configurazione di margini di autonomia impositiva in capo alle Regioni a statuto ordinario (17). Come ben noto, in forza di tale principio lo Stato ha, infatti, mantenuto “un ruolo di sostanziale preminenza che comprime la potestà impositiva regionale relegandola alla sola possibilità di istituire tributi propri (sia regionali che locali) che non annoverino presupposti già occupati dal legislatore statale” (18). Di conseguenza, come poc’anzi accennato, l’unico margine di manovra – anch’esso rigidamente delimitato – di discrezionalità in materia tributaria si è sostanziato nella possibilità di modulare le aliquote su determinati tributi ‘derivati’ e di introdurre, in alcune circostanze, apposite esenzioni e deduzioni (19). Non è chi non veda come l’attuazione pratica di tale principio ha avuto l’effetto di contribuire a comprimere in maniera significativa i margini di autonomia tributaria delle Regioni a statuto ordinario, pur essendo mossa – occorre sottolinearlo – da condivisibili preoccupazioni, che miravano ad evitare

(15) Ex multis, A. Quattrocchi, La fiscalità regionale ‘federalista’ tra statuti, assetti interni e diritto UE, in Dir. prat. trib. int., 3/2018, 729. (16) Ulteriore principio fondamentale di coordinamento che, anch’esso, ha contribuito a delimitare gli spazi di autonomia impositiva delle Regioni è rappresentato dal criterio della continenza, in base al quale ogni eventuale esercizio di potestà impositiva regionale potrebbe essere legittimo soltanto a condizione che i presupposti dei relativi tributi propri ‘autonomi’ attengano alle materie strettamente oggetto di competenza esclusiva regionale ai sensi dell’art. 117, comma 4, Cost. Cfr., in merito, G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., 150. (17) In questo senso G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., 149, che, peraltro, osserva come l’affermazione di tale divieto abbia comportato due conseguenze: “la prima fa trasparire l’intenzione del legislatore di mantenere, per ora, intatto il sistema tributario statale senza ‘trasferire’ alla competenza esclusiva delle Regioni alcun consistente tributo attualmente di pertinenza statale; la seconda fa risaltare il non perfetto allineamento tra il regime applicabile alle Regioni a statuto ordinario e quello applicabile alle Regioni a statuto speciale”. (18) Si veda G. Scanu, L’autonomia tributaria delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome, cit., 24. (19) Cfr. R. Miceli, Federalismo fiscale e principi europei. Spazi di autonomia, livelli di responsabilità e modelli di federalismo, cit., 78-79.


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che un medesimo presupposto venisse assoggettato a tassazione anche da parte dell’ente sub-statale, qualora già tassato dal legislatore statuale (20). Infatti, considerata la difficoltà di incontrare in un Paese ad elevata fiscalità come l’Italia forme di ricchezza che già non subiscano un qualche genere di imposizione fiscale da parte dello Stato centrale, lo spazio attribuito in capo alle autonomie locali ne è risultato così fortemente ridotto, potendosi sostanziare unicamente nella possibilità di introdurre “ipotesi, molto limitate, di tributi corrispettivi e di scopo, aventi comunque presupposti diversi da quelli statali e a condizione che essi, oltre ad essere in armonia con la Costituzione, rispettino quei principi dell’ordinamento tributario incorporati nel sistema dei tributi sostanzialmente governati dallo Stato” (21). A contribuire allo ‘svuotamento’ degli spazi di autonomia impositiva delle Regioni a statuto ordinario ha concorso, in ultimo, la difficile congiuntura economica in cui si è trovata l’Italia negli ultimi dieci anni, che ha avuto l’effetto di spingere il legislatore statale ad adottare misure emergenziali che hanno intrusivamente pretermesso la sfera di prerogative regionali, in continuità con gli obiettivi di consolidamento dei conti pubblici (22). In specie, questa dinamica ha assunto rilievo centrale per quanto concerne il versante dell’esercizio di autonomia sul lato della spesa nell’ambito delle materie di competenza regionale (23). Infatti, in parallelo alle riforme che hanno esteso il vincolo del pareggio di bilancio anche nei confronti degli enti territoriali, l’interpretazione da par-

(20) Impostazione, occorre ricordare, che è stata recepita nella Legge delega [all’art. 2, lett. o) ed all’art. 7, comma 1, lett. b), n. 3, l. n. 42/2009] e nel d.lgs. n. 68/2001 [all’art. 15, comma 4, lett. b)], a seguito del pronunciamento della Corte Cost., con la sentenza del 15 aprile 2008, n. 102. Cfr. al riguardo A. Quattrocchi, La fiscalità regionale ‘federalista’ tra statuti, assetti interni e diritto UE, cit., 731-732. (21) Ibidem, 732. (22) In questo senso, ex multis, A. Persiani, La riforma costituzionale Renzi-Boschi e la sua incidenza sul federalismo fiscale, cit., 51 ss., in cui si evidenzia, conclusivamente, che “la spiccata connotazione autonomista della riforma del 2001 non ha trovato altrettanto seguito nell’attuazione e nella prassi applicativa: dapprima la giurisprudenza costituzionale, poi il legislatore della l. delega n. 42 del 2009 e dei decreti delegati, poi, ancora, la congiuntura economica negativa e la relativa legislazione emergenziale hanno di fatto svuotato di contenuti l’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali”. Si veda anche G. Melis, Postilla (al contributo di A. Persiani, La riforma costituzionale Renzi-Boschi e la sua incidenza sul federalismo fiscale, cit.), in Dir. prat. trib., I, 2017, 51 ss. (23) Cfr. L. Antonini, L’autonomia finanziaria delle Regioni tra riforme tentate, crisi economica prospettive, in Rivista AIC, n. 4/2014, 6-7.


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te della Corte costituzionale della portata della competenza statale di coordinamento finanziario negli anni della crisi ha avuto l’effetto di giustificare un penetrante ‘controllo’ statale sulle modalità di allocazione delle risorse e sull’individuazione degli obiettivi di spesa a livello regionale, con il risultato che sono state ritenute legittime misure statali che hanno apposto vincoli puntuali e specifici alle politiche di bilancio delle Regioni e, di conseguenza, hanno comportato una severa limitazione all’esercizio di autonomia di spesa delle stesse (24). D’altra parte, in un’ottica più generale, gli stessi presupposti fondamentali del modello di finanziamento delle Regioni disegnato dalla l. n. 42/2009 – finalizzati a responsabilizzare gli amministratori locali “nell’assicurare la corrispondenza tra oneri tributari imposti e quantità e qualità dei servizi ricevuti” (25) – ed assicurare a tali enti una piena autonomia sul versante dell’esercizio della spesa non hanno trovato compiuta attuazione (26). Se, infatti, l’obiettivo era quella di una rinnovata modulazione dei flussi di risorse agli enti territoriali accompagnata dall’abbandono del criterio della spesa storica a favore del, maggiormente responsabilizzante, metodo del costo

(24) Si tratta di profili complessi, che qui possono solo essere accennati in via di primo inquadramento. Si veda, al riguardo, F. Gallo, L’incerto futuro del regionalismo differenziato sul piano finanziario, in Federalismi, n. 10/2018, 3. Si colloca in tale orientamento della Corte cost., ad esempio, la sentenza n. 64/2016, in cui la Corte ha affermato, al § 6.1. (in diritto), che le politiche di bilancio delle Regioni sono “parte della finanza pubblica allargata e che, pertanto, il legislatore può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi finanziari, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali”. Si vedano, per ulteriori approfondimenti in merito, M. Bergo, Coordinamento della finanza pubblica e autonomia territoriale. Tra armonizzazione e accountability, cit., 102 ss.; C. Bertolino, Il principio di leale collaborazione nel policentrismo del sistema costituzionale italiano, Torino, 2007. (25) Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie, Audizione della Corte dei Conti su attuazione del federalismo fiscale e definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione – Commissione Parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 17 luglio 2019, 3. (26) Cfr. l’intervento del Consigliere dell’Ufficio parlamentare di bilancio Alberto Zanardi all’audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, 3° c., della Costituzione, Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 10 luglio 2019, 5.


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standard (27), tale risultato si è raggiunto in misura solo parziale e limitata (28). Infatti, malgrado il d.lgs. n. 68/2011 avesse individuato un percorso volto all’enucleazione dei costi standardizzati relativi ai livelli essenziali delle prestazioni (‘L.E.P.’) per le funzioni fondamentali di competenza regionale – quali la sanità, l’assistenza, l’istruzione ed il trasporto pubblico locale – cui ricollegare i fabbisogni standard necessari alla loro copertura, di essi non vi è stata alcuna elaborazione (29), ad eccezione dei livelli essenziali di assistenza (‘L.E.A.’) nel settore sanitario (30). In conclusione, come efficacemente evidenziato in dottrina, il quadro complessivo che si ritrae dalla ricerca del ‘volto effettuale’ dell’attuazione delle politiche del federalismo in materia fiscale appare, per più aspetti, contraddittorio. Esso, infatti, manifesta come “sia prevalsa una retorica del federalismo ed una pratica del centralismo” (31), che seppure animato dalla volontà di contrastare l’emersione di un ‘federalismo competitivo’ e sottoposto alle esigenze contingenti della congiuntura economico-finanziaria, ha, nei fatti, perseguito una via di ‘uniformazione’ mossa anche da una certa “paura della diversità” (32).

(27) Come evidenziato da L. Antonini, L’autonomia finanziaria delle Regioni tra riforme tentate, crisi economica prospettive, cit., 10, lo scopo era quello “di avviare una dinamica che potesse permettere il passaggio dalla spesa storica (che finanzia indistintamente servizi e inefficienze) a quello del fabbisogno standard (che finanzia solo i servizi)”. (28) A. Persiani, La riforma costituzionale Renzi-Boschi e la sua incidenza sul federalismo fiscale, cit., 51 ss. (29) Cfr. Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie, Audizione della Corte dei Conti su attuazione del federalismo fiscale e definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione – Commissione Parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 17 luglio 2019, 3. (30) A tale ultimo riguardo si veda, per un primo inquadramento M. Bergo, I nuovi livelli essenziali di assistenza. Al crocevia fra la tutela della salute e l’equilibrio di bilancio, in Rivista AIC, n. 2/2017, (31) L. Antonini, L’autonomia finanziaria delle Regioni tra riforme tentate, crisi economica prospettive, cit., 13. (32) L. Antonini, I segni dei tempi: dal Veneto al Molise quale futuro per il regionalismo italiano?, in Federalismi, n. 4/2017, 7. Tutto ciò in un contesto – occorre ricordarlo – in cui alle Regioni e Province autonome è sempre stato garantito un plesso di “differenziazione, soprattutto in termini d’autonomia finanziaria, di cui si fatica oggi a rinvenire una giustificazione attuale” (Ibidem, 8. Sui caratteri di ‘specialità’ che caratterizzano il meccanismo di retrocessione del gettito rinveniente dal territorio regionale a favore delle Regioni e Province autonome si veda A. Quattrocchi, La fiscalità regionale ‘federalista’ tra statuti, assetti interni e diritto UE, cit., 728).


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3. Il ruolo della solidarietà e della competizione regionale nella logica del federalismo regionale. – Così tratteggiate, in via di estrema sintesi, le coordinate di fondo dell’autonomia finanziaria regionale, merita ora soffermarsi sulla dimensione del rapporto tra i principi del beneficio e della solidarietà declinati con riguardo al fenomeno del regionalismo, anche in una prospettiva de iure condendo alla luce di alcuni stimoli derivanti dell’analisi delle previsioni in materia di autonomia finanziaria contenute negli Accordi. Una tale indagine si rende meritevole di approfondimento in considerazione del fatto che più ci si allontana dalla dimensione prettamente statuale e più ci si avvicina al contesto territoriale maggiormente prossimo al cittadinocontribuente, più si dovrebbe rafforzare il collegamento tra prelievo a titolo fiscale e servizio reso dall’ente pubblico. Non vi è dubbio, infatti, che proprio nel contesto delle misure del ‘federalismo’ assuma un ruolo importante il principio di territorialità, quale criterio guida per delineare il riparto della potestà impositiva tra Stato centrale ed enti decentrati (33). 3.1. Considerazioni in merito alle concezioni del federalismo ‘competitivo’ e ‘cooperativo’. – Tale dimensione, come già visto, trova più pregnante attuazione con riguardo al novero dei ‘tributi propri’ di matrice regionale, rispetto ai quali, come sottolineato in dottrina, l’applicazione di tale principio “implica che nella selezione del presupposto sia apprezzabile una stretta correlazione tra i soggetti che (astrattamente) possono realizzare una data fattispecie im-

(33) Va sottolineato che il principio del beneficio – e lo stretto legame tra fiscalità regionale e dimensione territoriale – incontra conferma ulteriore in considerazione delle elaborazioni con riguardo al principio della c.d. ‘continenza’, sempre con riferimento ai ‘tributi propri’ di matrice regionale. Si sostiene, al riguardo, che il tributo di matrice sub-statale debba necessariamente prendere in considerazione il rispetto del principio del beneficio: vi sarebbe, cioè, un imprescindibile collegamento tra il dato presupposto a fondamento del tributo di matrice regionale ed un fatto economico che sia riferibile alla tipologia di funzioni svolte dall’ente stesso. Tale regola risponderebbe, peraltro, ad una logica di “sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost. che, salvo esigenze di unitarietà del sistema, segna la preferenza per l’attrazione a livello locale dell’esercizio delle funzioni amministrative connesse a specifici interessi territoriali” (G. Scanu, L’autonomia tributaria delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome, cit., 29). Si veda anche R. Schiavolin, I tributi locali, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, cit., 1163.


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ponibile e l’allocazione del relativo gettito al finanziamento delle funzioni esercitate dall’ente intermedio cui quella collettività appartiene” (34). Si delinea, allora, come in tale contesto divenga più complesso comprendere quali siano i margini per enfatizzare il rilievo del principio di solidarietà: infatti nella misura in cui il tributo trova applicazione geografica limitata, la percezione del contribuente, anche qualora l’imposizione prenda a riferimento un presupposto ‘indivisibile’ o, comunque, non sia riconducibile al concetto della tassa (35), sarebbe imprescindibilmente ‘viziata’ dall’aspettativa che le risorse da egli corrisposte a favore dell’ente sub-statuale vengano immesse in circolo sul medesimo territorio di appartenenza, avvantaggiando, conseguentemente, la collettività a lui più vicina (36). In altre parole, occorre avere consapevolezza che è proprio in tale sede che si possono rendere più forti le istanze di federalismo competitivo – volte alla piena retrocessione del gettito rinveniente dal territorio a favore della collettività ivi residente – le quali, qualora non adeguatamente governate nel prisma di un assetto proporzionato dei rapporti di federalismo fiscale, potrebbero mettere in tensione l’unità economica della Repubblica e legittimare perciò l’intervento statuale, in ossequio all’esercizio delle sue funzioni costituzionalmente sancite in materia di coordinamento finanziario (37). A tale tensione non è risultato alieno il dibattito dottrinale in tema di federalismo fiscale, nell’ambito del quale si sono confrontati due orientamenti

(34) G. Scanu, L’autonomia tributaria delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome, cit., 27. (35) Sulla funzione ‘corrispettiva’ della tassa e sulla differenziazione tra tassa ed imposta si vedano, per un primo inquadramento, A. Fedele, voce Tassa, in Enc. giur., vol. XXX, Roma, 1993; L. Del Federico, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000; G. Petrillo, Tributi, nuove entrate locali e loro controversa natura giuridica, in AA.VV., Il nuovo sistema fiscale degli enti locali, in AA.VV., Il nuovo sistema fiscale degli enti locali, a cura di F. Amatucci, 2010. (36) In questo senso G. Scanu, L’autonomia tributaria delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome, cit., 28, in cui si sottolinea “la fattispecie impositiva regionale deve poter evidenziare la condizione di appartenenza del soggetto passivo alla comunità in ragione di un qualche criterio di collegamento che però, sia la legge delega che il decreto attuativo n. 68/2011, lasciano imprecisato […]”. (37) Cfr. Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie, Audizione della Corte dei Conti su attuazione del federalismo fiscale e definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione – Commissione Parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 17 luglio 2019, 13, che, in particolare, evidenzia come tale funzione di coordinamento finanziario debba essere intesa come espressiva di una dimensione di Stato ordinariamente inglobante le autonomie anziché quale volontà dello Stato persona, ad esse contrapposto”.


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contrapposti, il primo favorevole all’attuazione di una dinamica di effettivo ‘federalismo competitivo’; il secondo, invece – fatto proprio nell’elaborazione giurisprudenziale della Corte costituzionale e nell’impostazione della l. n. 42/2009 – maggiormente attento a contemperare le istanze autonomistiche con valutazioni di tipo cooperativo ed aperto a dare risalto al principio dell’equità e solidarietà in senso orizzontale a livello nazionale (38). Le richiamate posizioni teoriche, più in particolare, muovevano da una differente valorizzazione del ruolo del principio dell’autonomia tributaria delle Regioni a statuto ordinario e, da ciò, traevano conseguenze importanti anche sotto il profilo dell’individuazione dei criteri di attribuzione delle risorse per finanziare i servizi resi alla collettività sui rispettivi territori di pertinenza. Secondo l’impostazione del federalismo di tipo ‘competitivo’, in estrema sintesi, alle Regioni a statuto ordinario dovevano competere poteri fiscali ‘forti’, tali da permettere loro di esprimere un’autonoma politica finanziaria atta a garantire la piena corrispondenza tra entrate finanziarie e spese per servizi (39). A tale inquadramento sul versante delle entrate fiscali si accompagnava una concezione dell’autonomia finanziaria sul lato delle spese che si basava sul mantenimento del gettito di provenienza regionale sul territorio di riferimento, così legittimando – specie con riguardo a Regioni ad elevata capacità fiscale – la possibilità di attuare una politica di finanziamento della spesa pubblica molto più elevata o, in alternativa, di praticare un’imposizione tributaria sulla base di aliquote più favorevoli di quelle necessariamente applicabili nelle altre Regioni, a minore capacità fiscale e, così, attivare una forma di competizione fiscale tra Regioni (40).

(38) Cfr. L. Antonini, L’autonomia finanziaria delle Regioni tra riforme tentate, crisi economica prospettive, cit., 10-11; A. Quattrocchi, La fiscalità regionale ‘federalista’ tra statuti, assetti interni e diritto UE, cit., 729-730; G.M. Cipolla, Le aporie del regionalismo differenziato, cit., 518. (39) A. Quattrocchi, La fiscalità regionale ‘federalista’ tra statuti, assetti interni e diritto UE, cit., 730. (40) Cfr. L. Antonini, L’autonomia finanziaria delle Regioni tra riforme tentate, crisi economica prospettive, cit., 9. A ben vedere – ma si tratta di tematiche che richiederebbero ben altri approfondimenti – una conformazione dei criteri dell’autonomia differenziata in chiave ‘competitiva’ potrebbe portare al rafforzarsi di un vero e proprio fenomeno di concorrenza fiscale tra Regioni. Infatti, malgrado si tratti di temi oggi poco approfonditi nella dottrina italiana – e peraltro le valutazioni in chiave di ‘risparmio fiscale’ non siano, allo stato, decisive nell’orientare le scelte circa il luogo di residenza dei contribuenti – rimane il fatto che gli esiti di un’autonomia differenziata così individuata potrebbero, nel medio periodo, mutare tale stato di cose. In tale contesto, in ultima istanza, ad essere ‘premiati’ sarebbero, da un lato, quegli utenti-


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Come già accennato, tale modello non ha trovato accoglimento: non solo sotto il profilo dell’autonomia tributaria l’attribuzione di margini di discrezionalità ha avuto rilievo marginale, ma anche per quanto concerne l’individuazione dei criteri per la distribuzione delle fonti di finanziamento il legislatore ha favorito la via del federalismo cooperativo e di impronta solidaristica, valorizzando il ruolo della compartecipazione delle Regioni ad alcuni tributi erariali di rilevanza nazionale e, soprattutto, prevedendo un apposito fondo di perequazione a favore delle Regioni a minore capacità fiscale per abitante (41). 3.2. Equità orizzontale nel tempo del regionalismo differenziato. – In tale contesto di riferimento si comprendono allora le ragioni per le quali gli Accordi avrebbero potuto fornire l’occasione per un rinnovato slancio del percorso federalista, in armonia con il dettato costituzionale e nel rispetto della dinamica di solidarietà orizzontale in subiecta materia. Più in particolare, tali rinnovate istanze di autonomia differenziata traevano forza dalla consapevolezza che il modello federalista di impronta solidaristica e cooperativa individuato, come visto, a fondamento del processo di riforma del Titolo V, parte II della Costituzione nell’ambito della l. n. 42/2009 e dei decreti delegati era sostanzialmente andato in crisi a fronte dell’estendersi dei vincoli imposti dal legislatore statale agli enti territoriali regionali sia sul fronte delle entrate che della spesa, in vista del recupero di una netta dimensione di centralizzazione (42). Ciò sul presupposto fondamentale che, anche volendo giustificare le politiche accentratrici a livello centrale in ragione della preminenza delle esigenze contingenti dettate dalla difficile congiuntura economica, questo non poteva giustificare, in parallelo al fenomeno della ‘ricentralizzazione’, l’affermarsi di “un contesto di deresponsabilizzazione del potere pubblico”, di cui costituisce prova evidente l’assenza delle idonee “iniziative di sviluppo sul piano socia-

contribuenti connotati da una maggiore propensione alla mobilità sul territorio nazionale e, da un altro lato, proprio quelle Regioni che fossero in grado di esprimere una maggiore attrattività, grazie ad un più ponderato utilizzo della leva fiscale ed ad una più elevata efficienza e qualità dei servizi resi alla collettività. (41) Cfr. G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., 148. (42) F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, in Rass. trib., 2019, 239-240. Per ulteriori approfondimenti sugli Accordi si veda anche G. Scanu, Regionalismo differenziato e sostenibilità finanziaria, cit., 137 ss.


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le” che, in particolare, avrebbero dovuto sostanziarsi nella predisposizione dei L.E.P. (43). A fondamento della posizione fatta propria dei fautori delle istanze autonomistiche in punto di maggiori margini di autonomia finanziaria si poneva, in altre parole, un ragionamento riconducibile, nelle sue coordinate di fondo, alla seguente impostazione operativa: qualora alle Regioni si fosse finalmente riconosciuta una porzione maggiore del gettito dei tributi rinvenienti dal territorio di riferimento, ciò avrebbe determinato minori trasferimenti dallo Stato e dalle altre Regioni, in quanto le Regioni firmatarie degli Accordi sarebbero state incentivate a rendere massimamente efficiente la spesa pubblica ed erogare, così, maggiori servizi alla collettività. Così facendo, in ultima istanza, l’esito pronosticabile sarebbe stato quello di un miglioramento generalizzato del livello dei servizi resi o, in alternativa, una riduzione della pressione fiscale sulla popolazione residente e le imprese ivi stabilite (44), indipendentemente dell’individuazione dei criteri di finanziamento dei L.E.P. da parte dello Stato ed in un’ottica di effettiva responsabilizzazione delle amministrazioni locali firmatarie degli Accordi stessi. Certo, la sfida posta dalle istanze di regionalismo differenziato allo status quo, cristallizzato nella legislazione esistente e, in una certa misura, ‘giustificato’ negli orientamenti della Corte costituzionale, atteneva alla possibilità di conseguire un percorso di autonomia finanziaria ampio, senza – almeno in astratto – comportare un significativo sacrificio al principio di uguaglianza e solidarietà orizzontale, cardine, come visto, dell’attuale sistema degli assetti del ‘federalismo’ fiscale.

(43) F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., 240. (44) In quest’ultima ipotesi, a ben vedere, l’esito sarebbe stato economicamente avvicinabile a quello dell’introduzione della cosiddetta zona franca o di altro regime fiscale di vantaggio, senza, tuttavia, dare luogo a preoccupazioni rilevanti per quanto concerne il rispetto della disciplina sugli aiuti di Stato di derivazione unionale, in quanto le misure fiscali adottate si sarebbero basate non sulla riduzione – potenzialmente selettiva – del prelievo fiscale sul territorio regionale, ma sulla leva della spesa pubblica. In altre parole, in un modulo di autonomia differenziata così configurato, l’obiettivo avrebbe potuto essere quello di avere l’erogazione di servizi più efficienti, ma meno costosi a vantaggio degli utenti. Circostanza che avrebbe potuto incentivare la produzione di maggiori redditi, e quindi, la generazione di un maggiore gettito fiscale complessivo specie da parte dei contribuenti in regime d’impresa e di lavoro autonomo, con il risultato ultimo di dare vita ad un ‘circolo virtuoso’ tale da aprire spazi per una possibile riduzione delle aliquote d’imposta.


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Obiettivo, quest’ultimo, che, a ben vedere, non pare essere stato pienamente esplicitato ed adeguatamente ponderato negli Accordi, che – seppure spinti dalle condivisibili motivazioni di ‘responsabilizzazione’ e miglioramento degli standard di efficienza nell’erogazione dei servizi ai territori di pertinenza in continuità con una effettiva attuazione del principio del beneficio – paiono aver, in una certa misura, ‘eluso’ la problematicità derivante dal pieno contemperamento delle esigenze di ‘efficienza’ a livello territoriale con quelle di solidarietà orizzontale (45). Prova ne è l’analisi del dettato delle previsioni in punto di autonomia finanziaria contenute negli Accordi citati, dai quali traspare una certa ‘ambiguità’ per quanto concerne i criteri di individuazione dei margini di maggiore discrezionalità per il finanziamento delle competenze aggiuntive (46). In specie, il criterio di finanziamento di tali competenze – contenuto all’art. 5 degli Accordi – era strutturato in due ‘fasi’, ciascuna con diversi meccanismi applicativi. In primo luogo, per quanto concerne il momento di prima attribuzione delle competenze aggiuntive, il metodo di individuazione delle risorse da trasferire a favore delle Regioni firmatarie degli Accordi prendeva a punto di riferimento l’ammontare delle spese già sostenute dallo Stato a tale riguardo in ciascun territorio regionale e, sulla base di esse, fissava le riserve di aliquota o le aliquote di compartecipazioni su tributi erariali territorializzati (47). Metodo, quest’ultimo, che – malgrado le non irrilevanti

(45) Cfr. F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., 244, che sottolinea come gli Accordi sembrano essersi tenuti “scaltramente fuori da questa problematica”. Per un’analisi radicalmente critica dei citati Accordi cfr. G.M. Cipolla, Le aporie del regionalismo differenziato, cit., 521 ss. (46) Cfr. Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie, Audizione della Corte dei Conti su attuazione del federalismo fiscale e definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione – Commissione Parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 17 luglio 2019, 6. In dottrina si vedano, per una posizione fortemente critica sul procedimento de quo, in particolare, A. Giannola, G. Stornaiuolo, Un’analisi delle proposte avanzate sul ‘federalismo differenziato’, in Rivista economica del Mezzogiorno, n. 1/2, 2018, 5 ss.; Svimez, Regionalismo differenziato e diritto di cittadinanza in un Paese diviso, Nota tecnica sull’attuazione dell’autonomia differenziata a cura della Commissione SVIMEZ sul federalismo fiscale. (47) Cfr. l’intervento del Consigliere dell’Ufficio parlamentare di bilancio Alberto Zanardi all’audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, 3° c., della Costituzione, Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 10 luglio 2019, 7.


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difficoltà applicative (48) – non pareva implicare radicali mutamenti rispetto al quadro esistente, considerato che veniva presa a punto di riferimento la spesa storica dello Stato nel territorio regionale, in sostanziale continuità con l’assetto esistente ed i principi di sostenibilità di finanza pubblica e di solidarietà interregionale (49). Maggiori criticità poneva, invece, la seconda fase del percorso di autonomia finanziaria nelle competenze aggiuntive – successiva al momento di prima determinazione delle risorse finanziarie sulla base del criterio della spesa storica regionalizzata – considerato che il modulo di finanziamento ivi previsto, nella sua dinamica fisiologica (50), insisteva sulla determinazione delle risorse in forza dei fabbisogni standard stimati per ciascuna competenza aggiuntiva, sulla cui base parametrare così l’attribuzione di compartecipazioni e aliquote riservate sui tributi erariali regionalizzati. In specie, le critiche circa la sostenibilità – in termini di equità orizzontale interregionale – di tale complessivo meccanismo stavano nel fatto che, una volta determinati i fabbisogni standard per lo svolgimento delle funzioni relative alle competenze aggiuntive e fissate le riserve di aliquota o le aliquote di compartecipazione sui tributi erariali territorializzati in misura da garantire risorse adeguate a garantirne il finanziamento, gli Accordi non prevedevano alcun meccanismo che permettesse un successivo aggiustamento sulle riserve di aliquota o aliquota di compartecipazione che tenesse in considerazione le evoluzioni positive nella dinamica del gettito. In altre parole, ogni eventuale maggior gettito, superiore a quanto necessario per coprire i costi delle competenze aggiuntive parametrati ai fabbisogni standard, sarebbe rimasto nella

(48) Cfr. Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie, Audizione della Corte dei Conti su attuazione del federalismo fiscale e definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione – Commissione Parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 17 luglio 2019, 7, in cui si mette in luce la complessità di individuare l’ammontare della spesa storica erogata dallo Stato con riguardo alle competenze aggiuntive, data l’assenza di una idonea contabilizzazione puntuale di tali risorse a livello di contabilità dello Stato. (49) Cfr. l’intervento del Consigliere dell’Ufficio parlamentare di bilancio Alberto Zanardi all’audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, 3° c., della Costituzione, Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 10 luglio 2019, 8. (50) Qualora, infatti, non si fosse addivenuti in sede di Comitato Stato-Regioni alla definizione dei fabbisogni standard per le competenze aggiuntive, gli Accordi prevedevano che le risorse attribuite dovessero essere fissate ad un livello non inferiore alla media pro capite nazionale della spesa statale corrispondente alle funzioni attribuite.


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disponibilità esclusiva delle Regioni interessate, senza rifluire nelle casse dello Stato e, così, poter essere impiegato a vantaggio delle altre Regioni (51). Un tale criterio, unito al divieto che dall’applicazione degli Accordi potessero derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (52) aveva, secondo tali autorevoli opinioni, necessariamente l’effetto di comprimere – a parità di saldo complessivo – le risorse finanziarie disponibili per la redistribuzione a favore degli altri territori, in spregio ai criteri di federalismo cooperativo ed equità orizzontale posti a cardine del percorso di riforma della Legge n. 42/2009 e dei successivi decreti legislativi (53). Ciò peraltro in un contesto in cui gli stessi Accordi prevedevano, al contrario, che – stante il divieto di aumento della pressione fiscale sui contribuenti delle Regioni interessate – qualora le risorse derivanti dalle aliquote riservate e dalle compartecipazioni ai tributi de quibus non si fossero rivelate nel tempo sufficienti a garantire il finanziamento delle funzioni aggiuntive, avrebbe trovato applicazione un meccanismo di revisione delle citate aliquote su base biennale (54). Ebbene, si tratta di aspetti critici di rilevante portata teorica, dai quali traspare la preoccupazione che, stanti le dinamiche divergenti che contraddistinguono lo sviluppo economico delle Regioni italiane, le Regioni interessate a maggiori spazi di autonomia potrebbero nel tempo beneficiare di sempre

(51) Cfr. F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., 243. (52) Cfr. l’intervento del Consigliere dell’Ufficio parlamentare di bilancio Alberto Zanardi all’audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, 3° c., della Costituzione, Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 10 luglio 2019, 7. (53) Cfr. l’intervento del Consigliere dell’Ufficio parlamentare di bilancio Alberto Zanardi all’audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, 3° c., della Costituzione, Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 10 luglio 2019, 10-11; Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie, Audizione della Corte dei Conti su attuazione del federalismo fiscale e definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione – Commissione Parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 17 luglio 2019, 17. (54) Meccanismo, quest’ultimo, che è stato criticato in quanto idoneo a configurare “un trattamento asimmetrico rispetto al caso di risorse eccedenti, con il risultato di assicurare un regime a tutto favore delle RAD” (Cfr. l’intervento del Consigliere dell’Ufficio parlamentare di bilancio Alberto Zanardi all’audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, 3° c., della Costituzione, Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 10 luglio 2019, 11).


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maggiore gettito a scapito delle altre (55); queste ultime, d’altro canto, non potrebbero agire sulla leva fiscale – di fatto, assoggettata ai penetranti limiti, prima visti, derivanti dall’attuazione del principio di coordinamento finanziario – né vedersi riconoscere maggiori finanziamenti dallo Stato, in quanto ciò si tradurrebbe in un maggior onere a carico delle finanze dello Stato con pregiudizio del conseguimento degli obiettivi di consolidamento della spesa pubblica a livello nazionale (56). Si tratta, come già anticipato, di considerazioni pregevoli – per l’autorevolezza degli organi da cui esse promanano paiono particolarmente meritevoli di attenta ponderazione – che certamente concorrono a riconoscere come a fondamento della struttura degli Accordi in punto di autonomia finanziaria vi fosse, anche se in forma embrionale, un approccio ‘autonomista’ e competitivo, teso al parziale superamento delle coordinate attuali del federalismo cooperativo, che vede nella solidarietà orizzontale uno degli architravi di tenuta del sistema delle autonomie (57). Ad ogni modo, anche tali argomenti si prestano ad alcune critiche, che qui possono accennarsi solo per brevi cenni. In primo luogo, se è vero che l’impronta federalista concepita dagli Accordi non rientrava pienamente nel modulo solidaristico, ciò va visto in una certa misura come reazione al sostanziale fallimento dell’impostazione cooperativa negli assetti attuali dei rapporti Stato-Regioni, in cui si assiste, da un lato, all’amplissima latitudine degli spazi di autonomia finanziaria a favore delle Regioni e Province a statuto speciale e, dall’altro, alla mancata attuazione

(55) Cfr. l’intervento del Consigliere dell’Ufficio parlamentare di bilancio Alberto Zanardi all’audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, 3° c., della Costituzione, Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 10 luglio 2019, 10. (56) Si veda F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., 246, che sottolinea che “anche se fossero definiti i costi standard delle singole funzioni, questo collegamento comporterebbe pur sempre che la determinazione delle risorse destinate al loro funzionamento non dipenderebbe più solo dall’ammontare dei costi standard e della popolazione, ma anche dall’ammontare del gettito dei tributi maturato nel territorio della Regione richiedente. […] È molto probabile che, una volta attribuita alle Regioni una percentuale dei tributi erariali, sarà la crescita di questa percentuale che determinerà automaticamente le risorse a disposizione delle Regioni per finanziare una nuova spesa”. (57) In questo senso anche F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., 243, anche se con particolare riferimento all’iniziale impostazione seguita nel 2016 dalla Regione Veneto.


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delle promesse di ‘responsabilizzazione’ che erano parte centrale del percorso di riforma della l. n. 42/2009 (58). In tale contesto, in cui le modalità di finanziamento delle funzioni L.E.P. continuano a non venire fissate, pare, in altre parole, difficilmente criticabile il fatto che alcune Regioni ‘virtuose’ abbiano cercato, nell’inerzia colpevole del legislatore nazionale, di percorrere vie di maggiore autonomia utilizzando gli spazi di differenziazione previsti dall’art. 116 Costituzione e rifuggendo dall’accettare acriticamente principi e metodi del federalismo solidaristico che in questi anni non paiono aver offerto soluzioni davvero efficaci (59). In questo senso, peraltro, la circostanza che le Regioni interessate ai maggiori spazi di autonomia si siano fatte parte attiva nel proporre il metodo dei costi standard per il calcolo dei fabbisogni relativi alle competenze aggiuntive pare espressione di aderenza a criteri propri del federalismo cooperativo posti a fondamento del percorso di riforma del 2009; ciò sul presupposto che proprio la determinazione dei costi relativi ai L.E.P. – a valle dei quali soltanto possono individuarsi i fabbisogni standard – risponde con compiutezza ad un modello di federalismo attento ai principi di perequazione, nella consapevolezza che solo così può giungersi ad un’effettiva tutela delle istanze solidaristiche di perequazione (60), superando l’attuale assetto dei rapporti che favorisce un esercizio di discrezionalità a livello centralizzato in base ad esigenze contingenti e giustifica situazioni ‘deresponsabilizzanti’ grazie al mantenimento del criterio della spesa storica (61).

(58) Come evidenziato da L. Antonini, L’autonomia finanziaria delle Regioni tra riforme tentate, crisi economica prospettive, cit., 10, “l’evoluzione verso costi e fabbisogni standard ha anche implicazioni costituzionali che meritano di essere considerate. Costi e fabbisogni standard infatti si raccordano alla perequazione e quindi al principio di solidarietà, consentendo un grado di attuazione del principio di eguaglianza di alta intensità”. Si veda anche M. Bergo, Coordinamento della finanza pubblica e autonomia territoriale. Tra armonizzazione e accountability, cit., 103-104. (59) F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., 241. (60) C. Ferretti, P. Lattarulo, Regionalismo differenziato: costo storico, costo medio, fabbisogni standard, in Osservatorio regionale sul federalismo – note e contributi, Istituto regionale programmazione economica Toscana, n. 5/2019, 3, in cui si evidenzia come il principio dei fabbisogni standard “si basa su due pilastri fondamentali: il riconoscimento di un corrispettivo univoco a tutte le Regioni, commisurato a parametri di costo omogenei, in modo da non compensare gli extra costi o inefficienze; la garanzia di livello di servizio essenziali (Lea) in tutto il paese, mentre eventuali servizi aggiuntivi sarebbero invece a carico delle collettività locali”. (61) In questo senso cfr. F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., 244, che pare, se ben compreso, valorizzare il principio del regionalismo differenziato quale modulo


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In secondo luogo, va osservato che le critiche mosse ai principi in punto di autonomia finanziaria esposti negli Accordi, seppure in più punti condivisibili, destano anch’esse alcune perplessità sotto il profilo della concezione di fondo della finanza pubblica che lasciano trasparire. A ben vedere, infatti, esse assumono a presupposto fondamentale delle valutazioni critiche degli Accordi due dati forse non sufficientemente esplicitati e giustificati teoricamente e, cioè: i) la circostanza che l’attuazione del regionalismo differenziato abbia un effetto comunque ‘sottrattivo’ in danno delle Regioni che non sottoscrivono gli Accordi e ii) il fatto che i saldi di bilancio complessivi dello Stato siano sempre a somma zero o, comunque, non positivi. Per quanto riguarda il secondo aspetto occorrerebbe intendere meglio le fondamenta del percorso critico: infatti, qualora si prenda in esame l’analisi del gettito derivante dalla percezione di imposte e tributi a favore del bilancio dello Stato, in realtà pare assistersi negli ultimi anni ad un costante aumento del gettito e ciò indipendentemente dall’andamento del Paese in termini di crescita economica. Di conseguenza, a fronte di un progressivo aumento del gettito complessivo dei tributi – specie di quei tributi erariali sui quali le Regioni firmatarie degli Accordi avrebbero avuto diritto a vedersi riconoscere una maggiore compartecipazione finanziaria – i rischi di una minore redistribuzione in danno delle Regioni ‘escluse’ paiono apparire meno pressanti, in quanto anche tali ultime Regioni potrebbero giovarsi dei maggiori risultati in termini di gettito complessivo (62). Per quanto riguarda il primo aspetto citato si osserva, invece, come un tale assunto muova da una concezione di ‘economia nazionale chiusa’ difficilmente sostenibile nella dinamica della globalizzazione. Risulta in altre parole non così immediato argomentare l’esistenza di una precisa e diretta correlazione tra aumento del gettito in una Regione – firmataria dell’Accordo – e riduzione del gettito in un’altra – non firmataria dell’Accordo – a cagione della minor quota del gettito complessivo ad essa spettante, quale effetto necessario di una avvenuta ‘sottrazione’ di ricchezza in suo danno. Infatti un tale conclusione parte dal presupposto che debba darsi per scontata una concezione di parità di saldo complessivo in cui all’aumento del gettito di pertinenza delle Regioni

che può essere “accolto e disciplinato”, nella prospettiva che, però, stimoli l’impegno “reale del legislatore a recuperare l’interrotto processo di decentramento e a fissare criteri uniformi di perequazione finanziaria”. (62) Si veda, da ultimo, il Bollettino delle entrate tributarie 2019 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, settembre 2019.


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firmatarie degli Accordi corrisponderebbe necessariamente una sottrazione di risorse in danno di quelle ‘escluse’. Inquadramento che, tuttavia, potrebbe anche non rivelarsi del tutto idoneo a dare conto delle linee di tendenza dei prossimi anni; esso, infatti – in assenza di adeguati approfondimenti econometrici sul punto – oltre a svalutare la possibilità di un andamento del pari positivo della dinamica economica delle Regioni ‘escluse’, non valorizza, come già detto, la dinamica di costante aumento del gettito complessivo nazionale con riferimento alla percezione dei tributi e neppure prende in esame la possibilità che il maggior gettito derivante dalle aliquote riservate e dalle compartecipazioni sui tributi erariali regionalizzati attribuite alle Regioni firmatarie degli Accordi derivino, non dalla sottrazione ‘competitiva’ di risorse a discapito delle altre Regioni, ma dalla maggiore attrattività delle Regioni firmatarie degli Accordi a livello internazionale. Ipotesi, queste ultime, nelle quali vi sarebbe da attendersi un aumento del gettito complessivo a titolo erariale che non dovrebbe rifluire in un effettivo danno finanziario alle Regioni estranee a tale percorso di autonomia differenziato, le quali, potrebbero comunque partecipare ad una spartizione di risorse su di un ammontare totale complessivamente più ampio di quello precedente (63). 4. Cenni conclusivi: fallimento delle istanze di autonomia finanziaria contenute negli Accordi e risvolti in punto di responsabilità sul lato del contenimento della spesa pubblica. – Le considerazioni che si sono da ultimo formulate permettono di interrogarsi conclusivamente sull’interrelazione della

(63) Come si evince dall’intervento del Consigliere dell’Ufficio parlamentare di bilancio Alberto Zanardi all’audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell’art. 116, 3° c., della Costituzione, Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 10 luglio 2019, 13, peraltro, soltanto nei confronti delle Regioni interessate dagli Accordi opererebbero i fabbisogni standard per quanto concerne le competenze aggiuntive, mentre per tutte le altre Regioni resterebbero finanziate in termini non standardizzati. Ciò parrebbe lasciare intendere, in altre parole, che i maggiori sforzi di contenimento della spesa spetterebbero in capo alle Regioni firmatarie degli Accordi, le quali sarebbero in tale contesto le uniche a dover finanziare i servizi relativi alle competenze aggiuntive sulla base dei parametri dettati in base ai costi standard.


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dinamica del ‘regionalismo differenziato’ con il principio del contenimento della spesa pubblica in un’ottica tributaria. Se, come già anticipato, il rilievo del contenimento della spesa pubblica si delinea ormai come “principio di sistema sul quale si fonda l’intero disegno di riforma dei rapporti finanziari tra Stato e Regioni” (64) e trova particolare attenzione anche a livello di giurisprudenza costituzionale, rimane da domandarsi come si pongano tali forme di controllo, così penetranti, in un contesto in cui alle responsabilità sul raggiungimento degli obiettivi di bilancio anche a livello locale non si accompagna una altrettanto piena attribuzione di responsabilità sul lato delle entrate. Ebbene, malgrado le aspirazioni di riforma di stampo ‘federalista’, la visione che si può trarre, a contrario, dall’analisi degli Accordi per quanto concerne la dimensione fiscale rimane quella di un perdurante accentramento sul lato delle entrate tributarie in capo allo Stato. Anche in quella sede non vi è stata, in sostanza, alcuna effettiva richiesta di maggiori spazi finalizzati alla possibile adozione di autonomia impositiva sul lato delle entrate. In altre parole, in continuità con lo stato di cose antecedenti al tentativo di riforma costituzionale del 2016, non si è ricercato un margine di manovra finalizzato al conseguimento di una piena “corrispondenza tra potere impositivo e responsabilità di spesa” (65). Certo, si potrebbe obiettare che l’approvvigionamento delle risorse in capo all’ente sub-statale può realizzarsi anche senza l’attribuzione di una autonoma potestà impositiva, tramite meccanismi “sufficienti a garantire capienza e certezza di gettito da destinare all’esercizio delle funzioni” (66), così come si configura, a ben vedere, il meccanismo di autonomia finanziaria per le Regioni a Province autonome, destinatarie del gettito delle imposte raccolte sul territorio pur senza esercitare vasti poteri per quanto concerne l’attuazione di politiche fiscali autonome sul lato delle entrate tributarie (67) e come, in ultima istanza, avevano inteso procedere le Regioni nel contesto degli Accordi.

(64) Cfr. G. Scanu, L’autonomia tributaria delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome, cit., XIV. (65) G. Scanu, L’autonomia tributaria delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome, cit., 44. (66) Ibidem, 45. (67) Cfr. A. Quattrocchi, La fiscalità regionale ‘federalista’ tra statuti, assetti interni e diritto UE, cit., 728.


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Tuttavia, una tale configurazione del sistema non può in alcun modo ricondursi ad una logica di tipo ‘federalista’ in senso pieno e, come osservato in dottrina, costituisce espressione di un diverso modello, riconducibile al novero della compartecipazione dell’ente sub-statuale al gettito erariale, grazie alla devoluzione di risorse dallo Stato centrale (68). Permane, peraltro, in questa logica un richiamo al principio di uguaglianza e solidarietà quale espressione del mantenimento di un’equità orizzontale sul territorio nazionale, atteso che, grazie al ricorso al meccanismo delle ritenzioni fiscali, le Regioni più ricche del Paese continuano a vedersi ‘costrette’ a subire il fenomeno del trasferimento di parte del gettito ‘maturato’ sul territorio di appartenenza a favore delle aree economicamente meno solide del Paese, sebbene sulla base di criteri – la spesa storica – inidonei a garantire un pieno contrasto alle inefficienze ed extra costi a livello locale. Tuttavia, occorrerebbe domandarsi – ma si tratta di considerazione che qui può solo accennarsi tentativamente - se e fino a che punto il depotenziamento degli spazi di autonomia regionale in campo finanziario – di cui l’attuale situazione ‘di stallo’ nel procedimento di definizione degli Accordi è manifestazione ultima – sia davvero il risultato di una ponderazione attenta del legislatore finalizzata al mantenimento di un rapporto di equità orizzontale tra Regioni ricche e svantaggiate del Paese oppure sia, in realtà, l’effetto di un sempre più esteso vincolo di finanza pubblica, che vede la primazia dello Stato nell’erogazione centralizzata delle risorse a seconda di esigenze contingenti, e che trova conferma nell’obbligo del pareggio di bilancio anche a livello sub-statuale (69). Obbligo ‘di risultato’ – quello del pareggio di bilancio – cui

(68) G. Scanu, L’autonomia tributaria delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome, cit., 46, in cui si sottolinea come un tale modello “pur sempre, valorizza la territorialità e riconosce al territorio ciò che produce grazie alla ripartizione del gettito secondo quanto ivi maturato”. (69) Si tratta di considerazioni complesse su cui in questa sede, come detto, non è possibile soffermarsi. Basti richiamare, mutatis mutandis, le considerazioni formulate da M. Bergo, I nuovi livelli essenziali di assistenza. Al crocevia fra la tutela della salute e l’equilibrio di bilancio, cit., 9, con riguardo alle difficoltà nella fissazione dei L.E.A. nell’ambito sanitario, in cui si è osservato come “l’aspetto più gravoso del procedimento di revisione dei Lea non risiede né nella carenza di organismi deputati alla loro individuazione, né nella classificazione puntuale delle prestazioni da aggiornare, bensì è dalla commistione dei due momenti che origina il punctum dolens della vicenda: la sostenibilità finanziaria dei nuovi Lea. Riaffiora così il legame indissolubile che aggancia i diritti al loro costo” e che origina, a ben vedere, nella preoccupazione dello Stato centrale di trovarsi in difficoltà qualora dalla fissazione di tali parametri dovessero insorgere maggiori costi per lo Stato, costretto così a dover erogare risorse in misura superiore alla situazione attuale.


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si accompagnano sempre più intrusive forme di controllo e responsabilità nei confronti dell’ente locale, senza, però, che a tali doveri di risparmio e contenimento della spesa pubblica si vogliano far seguire maggiori responsabilità sul lato delle entrate e che, in ultima istanza, concorre a maturare la convinzione che si stia assistendo ad un “abbandono, di fatto, del modello costituzionale di pluralismo istituzionale e paritario che era alla base della riforma del 2001” (70). Inquadramento che, a ben vedere, testimonia anch’esso, seppure in una dimensione differente, il progressivo sfaldamento delle tradizionali coordinate di riferimento del tributo, tale per cui alla funzione redistributiva e solidaristica dell’imposta vengono anteposte, sempre e comunque, le esigenze di ‘centralizzazione’ finalizzate a garantire il reperimento delle risorse da parte dello Stato per fronteggiare le esigenze contingenti derivanti dalla congiuntura economico-finanziaria.

Stefano Maria Ronco

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F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., 241.


Il principio di competenza dopo la riforma degli OIC Sommario: 1. L’imputazione temporale del reddito proprio delle aziende: punti di

forza e di debolezza del principio di competenza. – 2. I possibili modelli concettuali per la determinazione del reddito d’impresa secondo competenza. – 2.1. Dall’iniziale autonomia dei criteri tributari alla parziale rilevanza di quelli contabili: ragioni e limiti di una riforma incompleta. – 2.2 Il progressivo, criticabile, ridimensionamento del “principio di derivazione rafforzata” sul piano dell’attività di controllo da parte del Fisco e attraverso le successive scelte del legislatore tributario. – 3. La competenza esterna nel nuovo rapporto con le regole contabili. – 3.1 Affinità e differenze rispetto alle previgenti regole fiscali autonome. – 4. La delicata linea distintiva tra costi e accantonamenti. – 4.1 Una proposta de iure condendo. – 5. I fatti conosciuti dopo la fine dell’esercizio: un criterio guida e alcune applicazioni concrete (sconti quantità, resi in fattura, premi ai dipendenti, etc.). – 6. I riflessi in materia di errori sulla competenza. –– 7. Una riflessione conclusiva.

Fino a pochi anni or sono, i criteri di imputazione a periodo dei rapporti con terzi, fornitori o acquirenti di beni e servizi, erano regolati esclusivamente dalla legislazione tributaria. Ove nel bilancio si fossero adottati criteri diversi, si sarebbero dovuti modificare utilizzando quelli tributari per determinare il risultato fiscale di periodo. La giustificazione era quella di avere regole fiscali specifiche, meno precise, anche più “grossolane”, ma comunque più univoche, in nome della certezza e della stabilità dei rapporti. Malgrado queste cautele, tuttavia, le contestazioni interpretative sulla competenza sono state numerosissime. In anni recenti, si è iniziato a dare rilevanza ai principi contabili, prima per le grandi aziende che utilizzano i principi contabili internazionali, in seguito anche per i soggetti che adottano i principi contabili nazionali. Il rinvio alle regole contabili si è reso necessario per superare la qualificazione giuridico-formale “presupposta” dalle disposizioni del TUIR in favore di una qualificazione “economico-sostanziale”, che è ormai alla base della rilevazione degli eventi aziendali nei bilanci. Ma è anche un segnale di quanto negli ultimi anni si cominci finalmente a comprendere la natura sostanzialmente “diversa” di queste tematiche, che si limitano al più a spostamenti di materia imponibile da un esercizio all’altro, rispetto all’evasione. L’articolo si sofferma anche su numerosi esempi pratici di imputazione temporale e contiene una proposta per superare definitivamente le incertezze circa la linea di confine tra costi e ricavi selezionabili (e non) ai fini della formazione dell’imponibile, considerando il termine di approvazione del bilancio come limite per la “determinazione attendibile” del risultato fiscale dell’esercizio in chiusura.


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Untill a few years ago, the time-based imputation criteria with regards to the relation with third-parties, vendors or buyers of goods & services were exclusively handled through taxations laws. In those cases where different criteria might have been adopted, the taxation laws would have to be changed accordingly, to figure out the fiscal outcome during that time. The justification was having specific fiscal rules, less precise, more approximate, but more focused, in the name of certitude and stability of relationships. Despite this cautiousness, however, the interpretative disputes on time-based recognition have been countless. In recent years the accountable principles have been given relevance, first for the big companies that use international accountable principles, later also for those using national accounting principles. The adoption of accountable rules became necessary to overcome the legal-formal qualification as “assumption” in the TUIR dispositions in favour of an economic-substantive qualification, which is now at the base of detection of company events in financial statements. It is also a sign of a recent understanding of a substantially “different” nature of these issues, normally limited to shifts concerning added value taxation from one period to another compared to tax evasion. The article covers also numerous practical examples of time-based recognition and contains a proposal to definitely overcome uncertainty regarding the border separating costs and incomes to be either selected or not aimed to building up taxable income, considering the of budget approval as limit for “reliable determination” of costs and income of the financial year to date.

1. L’imputazione temporale del reddito proprio delle aziende: punti di forza e di debolezza del principio di competenza. – Nell’ambito del diritto tributario, il reddito d’impresa costituisce un microsistema con una serie di logiche concettuali ricorrenti e fondamentali. Una di queste logiche riguarda l’imputazione temporale delle componenti reddituali al periodo d’imposta, che è trasversale sia alla individuazione di momenti cui riferire le operazioni con terzi (1) (competenza esterna) sia alle valutazioni dei beni e diritti acquisiti al patrimonio d’impresa lungo i vari periodi di imposta in cui, in vario modo, forniscono la loro utilità (competenza interna) (2). La frammentazione dell’imposizione reddituale su periodi di tempo limitati rende infatti intuitivamente necessarie regole per riferire gli elementi reddituali ai vari intervalli in cui è frazionata la vita del contribuente e determinare distintamente i risultati di esercizio dei vari periodi di imposta. Nell’IVA, dove manca un periodo di imposta in senso tecnico, questa esigenza si avverte molto meno, tanto che per le prestazioni di servizi è previsto un

(1) Acquirenti o fornitori di beni o servizi. (2) Su questa distinzione, e sulle sue implicazioni nel sistema di determinazione del reddito d’impresa, v. Crovato, L’imputazione a periodo nelle imposte sui redditi, Padova, 1996.


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generalizzato criterio per cassa (3); e così accade anche per l’effettuazione delle ritenute alla fonte dove si utilizzano come momenti impositivi i flussi finanziari. Il semplice principio di cassa sarebbe, invece, talvolta troppo approssimativo nella misurazione annuale dei redditi propri delle aziende; per motivi di precisione si rinvia dunque alla determinazione aziendalistica di costi e ricavi “per competenza”, ai fini del bilancio, che guarda al sorgere dei crediti, o dei debiti, verso le controparti, in una prima fase storica mediata da regole tributarie autonome e ora con parziale abdicazione a favore dei criteri contabili. Non è un caso se anche la dottrina aziendale ha sempre considerato preferibile il sistema di rilevazione basato sul principio di competenza, proprio per la sua capacità di cogliere gli elementi reddituali a prescindere dalla loro manifestazione finanziaria, con una più precisa distribuzione nel tempo dei redditi e delle perdite (4). E anche nell’ambiente degli operatori del diritto tributario, in buona misura aziendalisti e dottori commercialisti, l’imputazione per competenza ha un certo credito di precisione economicistica. L’esigenza di precisione contabilistica alla base del principio di competenza sembra però trascurare, sul versante tributario, il piano della determinazione della capacità contributiva, da cui discende il principio dell’effettività (5) meglio valorizzato da un sistema di tassazione basato sugli incassi effettivi e sulle spese realmente sostenute: non si dovrebbe infatti costringere il contribuente a indebitarsi per pagare le imposte. Attribuire rilevanza al sorgere dei diritti di credito o di debito, verso le controparti, comporta invece il rischio di anticipare finanziariamente imposte a fronte di crediti non ancora incassati. Certo, sul piano finanziario, il principio di competenza presuppone che ricavi e costi non monetizzati si compensino, e siano trascurabili le situazioni in cui i primi siano prevalenti (6). Normalmente infatti il rischio di avere un reddito

(3) Tutto sommato questo criterio potrebbe essere facilmente esteso anche alle cessioni di beni, inserendo naturalmente un criterio di detrazione IVA per cassa. È infatti la detrazione IVA in base alla fattura, anche per imposta non ancora pagata, a innescare simmetricamente la necessità concettuale di versamento, in capo ai fornitori, di IVA non riscossa. (4) Cfr. sul punto, fra molti, Commissione per la statuizione dei principi contabili, Bilancio d’esercizio, finalità e postulati, Milano, 1977, 13; Onida, La logica e il sistema delle rilevazioni quantitative d’azienda, Milano, 1970, 140. (5) Per tutti, Moschetti, l principio della capacità contributiva, Padova, 1973; Tosi, Il requisito di effettività, in La capacità contributiva (a cura di Moschetti), Padova, 1993, 126 ss. (6) Si pensi ai crediti immobilizzati verso la pubblica amministrazione, che per lo meno nel lungo termine adempie, e quelli verso debitori morosi, che spesso diventano insolventi, con perdite pressoché totali dei crediti.


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positivo, ma senza liquidità per pagare le imposte, è assorbito dalla varietà della gestione aziendale, dalla prontezza di incasso di altri crediti verso clienti, da come vengono pagati i fornitori, e via enumerando. Ma pensiamo alle imprese operanti prevalentemente verso pubbliche Amministrazioni o altri soggetti in stato di difficoltà finanziaria; in questi casi, non trascurabili, il principio di competenza può avere risvolti finanziari ben immaginabili e qualche volta drammatici per le imprese (7). Non ci sono infatti solo i fornitori da pagare, ma anche le imposte da versare al Fisco, e su redditi cui non corrispondono disponibilità liquide ma solo crediti, su cui si innestano oltretutto i ben noti problemi di deducibilità fiscale in caso di difficile esigibilità. L’esigenza di precisione, che spiega l’adozione del principio di competenza in luogo di quello di cassa (8), sembra inoltre sopravvalutata per le imprese di minori dimensioni. Questa esigenza diventa infatti davvero importante in presenza di determinate condizioni di complessità dell’impresa che si riscontrano solo in particolari settori produttivi, come quello minerario, manifatturiero, delle costruzioni, più in generale in tutti quelli che richiedono considerevoli investimenti per l’acquisto e il potenziamento degli impianti di produzione. Nell’adottare il principio di competenza per tutte le imprese, si è partiti evidentemente dal presupposto che le aziende siano caratterizzate tutte da fenomeni reddituali complessi e siano dotate normalmente di una struttura amministrativo-contabile di dimensioni rilevanti. Così non è nei fatti, oltretutto nell’abnorme dilatazione che caratterizza il reddito d’impresa nel nostro ordinamento tributario (9). La generalizzazione indiscriminata del criterio di competenza ha così provocato (10) inutili e controproducenti complicazioni per le imprese di piccole

(7) È stata proposta in questa prospettiva la tassazione del cosiddetto “reddito liquido” (Versiglioni, Il “reddito liquido”: lineamenti, argomenti ed esperimenti, in Riv. dir. trib., 2014, I, 741 ss.), che potrebbe essere una soluzione sicuramente efficiente almeno nei confronti di piccole attività scarsamente cicliche e continuative nel tempo. La tassazione del reddito liquido sembra invece poco adatta a settori produttivi che richiedono considerevoli investimenti per l’acquisto e il potenziamento degli impianti, come ad esempio accade per la produzione dell’acciaio, per l’Oil and Gas, e in altri casi. (8) Più coerente con il principio costituzionale di capacità contributiva prima ancora che più semplice da applicare. Con la conseguente coabitazione di attività non omogenee. (9) (10) Oltre ai problemi di effettività.


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dimensioni (11), per le quali determinare il reddito per competenza non rappresenta un’oggettiva necessità (12). Il problema non è marginale posto che queste imprese sono la stragrande maggioranza nel nostro Paese. Il vero tema per queste tipologie di contribuenti non riguarda l’imputazione temporale, o le valutazioni di bilancio, ma più semplicemente l’occultamento degli incassi (13). 2. I possibili modelli concettuali per la determinazione del reddito d’impresa secondo competenza. – Nello svolgimento delle vicende economichegiuridiche da cui derivano gli elementi reddituali, il criterio della competenza si caratterizza soprattutto per ripudiare il momento del pagamento, senza identificare positivamente a quale altro momento, nelle fasi economiche e giuridiche da cui derivano i proventi imponibili, dare rilevanza (14). Questo momento può essere il sorgere dell’obbligo, la nascita del credito, la consegna del bene o la stipula del contratto, tutti elementi che hanno i loro pregi e i loro

(11) In realtà le imprese di minori dimensioni potrebbero benissimo essere tassate per cassa: così avveniva, d’altro canto, per i contribuenti forfettari della “Visentini-ter” (D.L. n. 853/1984) nel quadriennio 1985-1988, e per le imprese minime con volume d’affari inferiore a 18 milioni di lire (cfr. l’abrogato art. 80 TUIR, commi 3 e 4). Il principio di cassa è stato reintrodotto recentemente (dal 2017) per le imprese minori assoggettate a contabilità semplificata. (12) Abbinare all’impresa tout court, come forma organizzativa, la rilevazione per competenza è stato dunque probabilmente un errore come già segnalato da Crovato, L’imputazione a periodo nelle imposte sui redditi, cit., cap. III. Nonostante le possibilità di varie combinazioni tra il criterio di cassa e di competenza, la legislazione ha invece frequentemente abbinato un unico criterio di imputazione temporale ai più diffusi fenomeni che rientrano nei redditi d’impresa, il che crea oltretutto un certo numero di complicazioni che sono rimaste anche nel nuovo assetto, dove vedremo le microimprese continuano a determinare gli imponibili per competenza secondo le vecchie regole fiscali autonome. (13) Nella scelta di un criterio di rilevazione per i redditi commerciali sarebbe pertanto opportuno introdurre distinzioni in relazione alle dimensioni dell’impresa, come in parte finalmente si è ricominciato a fare. Ed è almeno auspicabile che, in un contesto impositivo che privilegia la competenza, il problema dell’imputazione delle componenti reddituali all’esercizio (fatture giunte l’anno successivo, svalutazioni rimanenze, pluriennalità dei costi, prestazioni non ultimate) non sia comunque eccessivamente esasperato, e gli Uffici non disperdano energie rispetto alla ricerca di ciò che il contribuente ha occultato al Fisco. (14) Sul principio di competenza fiscale, Zizzo, Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 1994; Tinelli, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991; Crovato, L’imputazione a periodo nelle imposte sui redditi, cit., e, più di recente, Fantozzi - Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Padova, 2019, 160 ss.


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difetti, anche rispetto all’imputazione temporale in base alle movimentazioni finanziarie. Fatto è che non tutti gli elementi reddituali derivano da una vicenda che si esaurisce in un momento immediato, e soprattutto con movimentazioni finanziarie allineate. Anzi, questi elementi sono una minoranza, mentre altri elementi derivano di solito da rapporti giuridici e commerciali con uno svolgimento prolungato nel tempo. Il pragmatismo del legislatore fiscale ha pertanto sempre cercato di ancorare la determinazione degli imponibili a momenti del rapporto su cui più facilmente potrebbe innestarsi un controllo fiscale (15) evitando altresì, anche per rispetto del principio della capacità contributiva e per non compromettere la solidità dell’apparato produttivo, prelievi su plusvalori ancora non realizzati. Sul piano concettuale e sistematico, il criterio di competenza è stato perciò sempre collegato sul versante tributario non alla semplice “maturazione economica” ma alla “realizzazione” degli elementi reddituali, connessa all’ottenimento di un corrispettivo o ad altre vicende. Se il reddito fiscale fosse determinato in base alla sola maturazione economica, anziché al realizzo, il contribuente si troverebbe infatti a dover pagare imposte prima di tutto in assenza delle relative risorse finanziarie, nonché su redditi meramente potenziali dovuti a oscillazioni di valore suscettibili di svanire ed essere più che controbilanciate da variazioni di valore di segno contrario, dando luogo a inevitabili incertezze e inutili controversie. Questo è un aspetto fondamentale che non a caso resta fermo anche dopo la recente riforma che ha interessato i soggetti OIC con la rilevanza ai fini tributari dei criteri contabili per l’imputazione a periodo delle componenti reddituali. Il “realizzo” riguarda le cessioni dietro corrispettivo, nel qual caso la tassazione avviene in base alla contropartita, in denaro o in natura, ricevuta dall’impresa a fronte del bene o del servizio. Le ipotesi di realizzo riguardano inoltre atti come la “destinazione a finalità estranee all’impresa”, l’autoconsumo, l’assegnazione ai soci (anche in sede di liquidazione), ovvero altri atti che determinano la perdita dello status di “bene d’impresa”. Si pensi ai cambiamenti di forma giuridica (trasformazione di una società commerciale in società semplice) oppure ai trasferimenti di residenza all’estero, con perdita della giurisdizione fiscale italiana sui beni con il tema dell’exit tax. Questi ultimi casi sono eccezioni al principio

(15) Consegna, spedizione, ultimazione, momenti per cui esistono in genere tracce materiali e riscontri documentali idonei a soddisfare le esigenze fiscali di certezza e semplicità, a cui, come vedremo più avanti, fanno riferimento in prima battuta gli stessi principi contabili nazionali.


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di effettività della capacità contributiva (16), ma non sono ascrivibili a disfunzioni del principio di competenza. Sono spiegabili per correlazioni concettuali e simmetrie da rispettare nella tassazione d’impresa ispirate a esigenze di coerenza interna del sistema tributario, cui necessitano disposizioni di chiusura per evitare che una ricchezza allo stato latente sfugga definitivamente a un certo regime di imposizione. Al di là di questo importante aspetto, i possibili modelli concettuali per la determinazione del reddito fiscale di un’impresa secondo competenza sono a ben guardare riconducibili sostanzialmente alla seguente alternativa: da un lato la rideterminazione dell’imponibile in base a regole fiscali autonome rispetto a quelle civilistiche e dall’altro l’assunzione del risultato di bilancio con il controllo della “non strumentalizzazione ai fini fiscali” delle rilevazioni effettuate in sede civilistica. Fino ad ora il diverso ruolo del bilancio, come adempimento del diritto civile (con interlocutori soci, creditori, mercato), rispetto alla determinazione del reddito ai fini tributari (dove l’interlocutore è l’Autorità fiscale), aveva portato alla previsione di regole tributarie autonome. Il Fisco aveva quindi le proprie disposizioni tributarie e applicava quelle, senza poter sindacare la correttezza delle valutazioni civilistiche, reinterpretando i principi contabili e il codice civile. Così è stato in particolare per il principio di competenza fiscale legato, nell’impronta della riforma del 1973, alla maturazione e alla certezza giuridiche, anche se talvolta per esigenze di sicurezza operativa la stessa normativa fa riferimento al principio di cassa. Questa regolamentazione dei momenti specifici di competenza si inquadrava bene nella tendenza della riforma del 1973 alla ricerca di precisione analitico-contabile e alla diffidenza verso formule normative generiche, fino a quella data presenti (17) e fonte di un forte

(16) Secondo cui i tributi dovrebbero essere richiesti nel momento in cui le relative risorse sono monetizzate. Questa costituisce tendenzialmente una regola strutturale: il contribuente dovrebbe disporre della liquidità necessaria per far fronte al pagamento delle imposte, pena, altrimenti, la necessità di attingere dal resto del suo patrimonio che potrebbe non essere sufficientemente capiente, o addirittura mancare del tutto. (17) Le regole del Testo unico del 1958 erano infatti in generale più indeterminate di quelle del 1973 e mancavano del tutto sulla competenza nei rapporti con clienti e fornitori. Sulla minor articolazione e compiutezza della normativa sul reddito d’impresa contenuta nel Testo unico del 1958 rispetto al regime introdotto a far data dal 1973, si vedano Falsitta, Il problema delle interrelazioni tra normativa di diritto commerciale e di diritto tributario nella disciplina del “conto profitti e perdite” delle società per azioni, in Impresa e ambiente, 1977, 219 ss.,


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contenzioso (18). Sembrava logico, con l’abolizione del concordato, articolare maggiormente i criteri fiscali rispetto al vecchio Testo unico del 1958 e introdurre regole predeterminate per la competenza “esterna” (consegna, spedizione, ultimazione, ecc.) (19).

poi in Il bilancio delle imprese, Milano, 1985, 216 ss., in particolare 220; Tinelli, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., 151 ss.; Gallo, Il dilemma reddito normale o reddito effettivo: il ruolo dell’accertamento induttivo, in Rass. trib., 1989, I, 463-467; Nuzzo, Bilancio e dichiarazione dei redditi, Napoli, 1979, passim. Per una ricostruzione recente, Grandinetti, Il principio di derivazione nell’Ires, Padova, 2016, 1 ss. (18) Era d’altro canto comprensibile che, di fronte a Uffici fiscali già a quel tempo tendenti a facili e spesso non motivate rettifiche sulla competenza, l’esigenza di precisione fosse molto sentita dagli stessi contribuenti e dominasse anche in sede legislativa. Come sottolinea efficacemente Tinelli, “ad una logica economica certamente valida si contrapponeva un atteggiamento di diffidenza consolidato nei confronti dei contribuenti, dell’amministrazione finanziaria e della stessa giustizia tributaria, che consigliava la costruzione di un sistema giuridico rigido e autosufficiente, tale da garantire un prelievo tributario costante e governabile” (Il reddito d’impresa, cit., 236). Sul punto si vedano ancora Falsitta, La tassazione delle plusvalenze e sopravvenienze nelle imposte sui redditi, 1986, Padova, 193 e Potito, L’ordinamento tributario italiano, Milano, 1978, 241. (19) In verità, la legge delega per la riforma tributaria (n. 825 del 1971) non sembrava imporre criteri stringenti per la competenza, ma neppure criteri modellati necessariamente su quelli economico-civilistici. Il richiamo al criterio di competenza economica, cui faceva riferimento l’art. 2, n. 16 della suddetta delega, non appariva come un valore cui uniformare meccanicamente le norme delegate sulla determinazione del reddito d’impresa, ma un’istanza da considerare e da contemperare con altre esigenze rilevanti nella fattispecie e cioè la semplicità, la certezza, il contenimento della pianificazione fiscale. La legge delega di allora utilizzava del resto l’espressione “adeguamento del reddito imponibile a quello calcolato secondo i principi della competenza economica”, in luogo di termini più vincolanti quali ad esempio “identificazione” o “determinazione”. In questo senso Lupi, La determinazione del reddito e del patrimonio della società di capitali tra principi civilistici e norme tributarie, in Rass. trib., 1990, I, 10, 718; Zizzo, Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa, cit., 481-482. Su posizioni sostanzialmente analoghe pare anche D’Amati, Il principio di competenza nella determinazione del reddito d’impresa, in Corr. Trib., 1990, 3447-3448, quando afferma che la formula dell’adeguamento a principi di competenza economica non è “né univoca, né puntuale, e, comunque priva di una definizione giuridica, ha un’efficacia soltanto mediata, trattandosi di direttiva”. L’espressione “adeguamento del reddito imponibile” è infatti una chiosa linguistica che dà l’idea di qualcosa di tendenziale. Sull’aspetto terminologico insiste in particolare Fortunato, La certificazione del bilancio, Napoli, 1985, 215-216, secondo cui anche l’inciso “tenuto conto” legittima “quelle deviazioni (...) che siano sorrette da ragionevoli esigenze connesse al sistema di accertamento tributario”. Vedasi anche Caratozzolo, Commentario al Testo unico delle imposte sui redditi, (a cura di Caratozzolo, Carpinelli, Napolitano, Oneto, Perrone, Pettinato), I, Roma, 1988, 953 ss., quando precisa che “adeguamento non significa però coincidenza dei due redditi sia nei componenti positivi e negativi che nel loro ammontare, perché ciò non potrà verificarsi mai, avendo le disposizioni civilistiche ed aziendalistiche sul bilancio d’esercizio da un lato, e quelle fiscali dall’altro, finalità diverse”.


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Nacque così una normativa improntata alla ricerca di precisione (20) e alla riduzione dei margini di valutazione da parte degli Uffici finanziari, con criteri di imputazione a periodo specificati per le più importanti operazioni commerciali e collegati a vicende oggettivamente controllabili o di cui resta traccia a posteriori, come la stipula dell’atto e la consegna del bene, nonché l’ultimazione del servizio. Questi momenti di competenza guardano essenzialmente alle vicende giuridiche del rapporto con la controparte, più che alla maturazione economica e alla correlazione con la competenza di componenti reddituali di segno opposto. La specificazione della competenza, diretta a individuare determinati momenti di imputazione a periodo, è stata peraltro limitata alle componenti reddituali che traggono origine da cessioni di beni o da prestazioni di servizi. Per gli elementi reddituali non derivanti da operazioni siffatte non sono stati invece previsti criteri specifici: anche in tali casi, però, nell’ottica dell’individuazione legislativa di precisi momenti di competenza fiscale, predominava il criterio della “maturazione giuridica” degli obblighi e dei diritti sottostanti e della certezza e oggettiva determinabilità. Ora la rilevanza fiscale dei “corretti principi contabili” in alcune ampie aree (21), compresa l’imputazione a periodo, è una innovazione (22) che ridisegna dalle fondamenta i rapporti tra bilancio e determinazione del reddito imponibile: il criterio dell’assunzione del risultato di bilancio si sostituisce all’autonomia tra regole fiscali e regole civili. Dopo l’esperienza fatta per banche e

(20) Verrebbe da dire millimetrica, soprattutto per l’applicazione che ne fecero gli Uffici, spesso inclini a rettifiche formalistiche e alla ricerca del cavillo sui dati dichiarati, con il dilagare di contestazioni talvolta pretestuose in materia di controversie temporali nel reddito d’impresa. Un risultato ben diverso da quello che si pensava di ottenere. (21) Non è un rinvio totale in quanto riguarda principalmente la “competenza esterna”, oltre “qualificazione” e “classificazione in bilancio”. Per le valutazioni di fine esercizio, cioè tutto quello che è estraneo alle questioni appena indicate continuano ad applicarsi i criteri tributari. La fonte normativa è l’art. 83 TUIR dopo le modifiche di cui al D.L. n. 244/2016 su cui la prossima nota. (22) Per riferimenti normativi si veda il cd. Milleproroghe 2017 (e precisamente l’art. 13-bis, D.L. 30 dicembre 2016, n. 244 convertito con modificazioni dalla L. 27 febbraio 2017, n. 19). Nel Milleproroghe veniva inoltre demandata al Ministero delle finanze l’emanazione di appositi decreti per la revisione delle disposizioni contenute nel D.M. 1° aprile 2009, n. 48 (regolamento attuativo IAS) e nel D.M. 8 giugno 2011 (decreto fiscale IAS) per la determinazione della base imponibile IRES e IRAP dei soggetti IAS/IFRS adopter, ora applicabili anche ai soggetti che adottano i principi OIC. Con la pubblicazione del D.M. 3 agosto 2017 è stata data attuazione a tale previsione.


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società quotate negli IAS si è deciso di estendere questo modello a tutte le imprese, eccettuate le cosiddette micro-imprese (23). In particolare, il momento di rilevazione del ricavo e del costo nel bilancio deve esser tenuto fermo anche sul piano della determinazione del reddito d’impresa nel solco di una linea di tendenza ormai generale a fare affidamento sulle regole contabili ai fini fiscali (24). L’imputazione temporale in bilancio, così come qualificazioni e classificazioni, rilevano ai fini dell’IRES e dell’IRAP, non invece ai fini dell’IVA il cui background rimane una rappresentazione dei fatti di gestione secondo categorie e forme giuridiche civilistiche e dove tutto resta regolato dalla normativa fiscale. In quanto imposta sui consumi, non diretta a un risultato di sintesi (reddito) ricavabile dal bilancio (25), l’IVA si tiene ancorata alle simmetrie nelle posizioni delle parti, alla circolazione del denaro o alla emissione delle fatture collegate a momenti a rilevanza giuridico-formale (26). 2.1. Dall’iniziale autonomia dei criteri di competenza fiscale alla parziale rilevanza di quelli contabili: ragioni e limiti di una riforma incompleta. – Recepire nell’ordinamento tributario i criteri di rilevazione dei fatti di gestione

(23) Ovvero le imprese di minori dimensioni che nel primo esercizio o, successivamente, per due esercizi consecutivi, non abbiano superato almeno due dei limiti individuati dall’art. 2435-ter c.c. (totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 175.000 euro; ricavi delle vendite e delle prestazioni: 350.000 euro; dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 5 unità). Non sono peraltro pochi contribuenti, anzi sono credo una buona parte delle società di capitali. Molte di queste imprese redigono volontariamente i conti annuali in forma abbreviata od ordinaria applicando, quindi, integralmente i criteri di valutazione di cui all’art. 2426 c.c.; altre redigono il bilancio con le semplificazioni per esse previste, ma potrebbero decidere ad esempio di valutare i crediti, i debiti e i titoli secondo il criterio del costo ammortizzato. In tutti questi casi si vedono costrette comunque, in contrasto con la ratio semplificatrice delle nuove disposizioni di raccordo fra risultato d’esercizio e imponibile fiscale, a numerose variazioni in dichiarazione per gestire i disallineamenti. I problemi potrebbero riguardare ad esempio tipicamente anche le holding di grandi gruppi industriali. (24) Già adottata per le imprese IAS, ma presente da tempo anche per quelle a principi nazionali con l’IRAP, l’eliminazione delle deduzioni extracontabili, l’abolizione degli ammortamenti anticipati e accelerati, le disposizioni sui riallineamenti. (25) L’IVA riguarda singole operazioni, anche se liquidate per masse, non un aggregato di elementi positivi e negativi come accade per le imposte sui redditi e l’IRAP. Per queste ultime occorrono invece ulteriori passaggi, perché gli elementi positivi sono solo una componente per calcolare un dato di sintesi, cioè il reddito, variabile fino al termine del periodo di imposta, e influenzabile dalle valutazioni di bilancio, come rimanenze, accantonamenti, ammortamenti, e simili, irrilevanti sul piano dell’IVA. (26) Per considerare ceduto un bene o prestato un servizio, con i connessi obblighi di fatturazione occorrerà, ad esempio, attendere la stipula dell’atto, la consegna o spedizione; per un servizio il pagamento di un corrispettivo.


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aziendale senza aggiustamenti risponde all’esigenza di rendere il regime fiscale di determinazione del reddito d’impresa quanto più possibile coerente con le logiche di rappresentazione sottese ai principi contabili, sia internazionali che nazionali. È infatti noto che la rappresentazione degli eventi aziendali tende a privilegiare ormai la loro sostanza economica, in applicazione del principio di “prevalenza della sostanza sulla forma” (27). Dal 2006 erano sempre più numerosi i soggetti che avevano adottato gli IAS in sede di redazione dei bilanci, sia per obbligo sia per opzione. Questa circostanza aveva generato una serie di criticità applicative per la necessità di conciliare i principi contabili con le disposizioni del TUIR, elaborate assumendo che la rilevazione delle vicende gestionali in bilancio avvenisse sulla base di criteri giuridico-formali. Si rendevano quindi necessari adeguamenti alla normativa fiscale, in parte realizzati dalla Finanziaria 2008, che non a caso ha direttamente riconosciuto, anche in deroga alle norme del TUIR, valenza fiscale ai criteri di “qualificazione”, “imputazione a periodo” e “classificazione in bilancio” previsti dagli IAS/IFRS (28) attraverso l’introduzione del cd. “principio di derivazione rafforzata”. Dal 2017 tale principio è stato esteso anche ai soggetti che redigono il bilancio in base alle norme del codice civile e ai principi contabili nazionali emanati dall’OIC, stabilendo anche per questi l’automatico recepimento ai fini fiscali dei criteri di “qualificazione”, “imputazione temporale” e “classificazione in bilancio” così come risultano dalla corretta applicazione dei principi contabili di riferimento. Il rinvio alle regole contabili – realizzato dal Milleproroghe 2017 (29) – si è reso necessario anche in questo caso per le incisive modifiche apportate alla

(27) Sul tema, Del Federico, Forma e sostanza nella tassazione del reddito d’impresa: spunti per qualche chiarimento concettuale, in Riv. dir. trib., 2017, I, 153 ss. e, anche per i profili costituzionali, v. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario, Padova, 2019, 1 ss. (28) La L. 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008) ha infatti modificato l’art. 83 TUIR, inserendo nel comma 1 il seguente periodo: “Per i soggetti che redigono il bilancio redigono in base ai princìpi contabili internazionali di cui al regolamento (CE) n. 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 luglio 2002, anche nella formulazione derivante dalla procedura prevista dall’articolo 4, comma 7-ter, del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38, valgono, anche in deroga alle disposizioni dei successivi articoli della presente sezione, i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai rispettivi princìpi contabili”. (29) La disposizione di riferimento è il citato (nota 22) art. 13-bis D.L. n. 244/2016, che è intervenuta nuovamente sull’art. 83 TUIR (modificandone il primo comma e inserendone


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redazione dei bilanci dei soggetti OIC (30), contraddistinte dall’introduzione di una serie di principi e regole di rappresentazione che per molti versi ricordano analoghi principi contemplati dagli standard contabili internazionali: in particolare, sono stati espressamente inseriti fra i principi di redazione del bilancio quello della rilevanza (31) e quello di prevalenza della sostanza sulla forma (32), realizzando di fatto una convergenza sostanziale – sebbene non integrale – tra il bilancio redatto secondo i criteri del codice civile e quello redatto dai soggetti IAS. Ciò ha posto un problema analogo a quello già emerso per la fiscalità delle imprese IAS adopter: conciliare le regole del TUIR, focalizzate sul contenuto giuridico-formale delle operazioni compiute dall’impresa, con un bilancio ormai ispirato a criteri di rappresentazione diversi che valorizzano la natura economico-sostanziale dei fatti di gestione. La soluzione tecnica prescelta, con la convergenza realizzata sul piano dei criteri contabili, è stata quella di replicare la soluzione adottata per i soggetti IAS introducendo, appunto, una disciplina fiscale coerente con le nuove regole di bilancio. Ferma rimane, anche per i soggetti OIC, l’applicazione delle norme dettate in tema di valutazione delle componenti reddituali, chiaramente estranee alle categorie della “qualificazione”, “imputazione temporale” e “classificazione in bilancio” (33), alle quali è circoscritto l’automatico rinvio ai criteri contabili.

uno nuovo, il comma 1-bis), dove attualmente si prevede che “Per i soggetti che redigono il bilancio in base ai princìpi contabili internazionali di cui al regolamento (CE) n. 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 luglio 2002, anche nella formulazione derivante dalla procedura prevista dall’articolo 4, comma 7-ter, del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38, e per i soggetti, diversi dalle micro-imprese di cui all’articolo 2435-ter del codice civile, che redigono il bilancio in conformità alle disposizioni del codice civile, valgono, anche in deroga alle disposizioni dei successivi articoli della presente sezione, i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai rispettivi princìpi contabili”. (30) Contenute nel D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 139, emanato in attuazione della Direttiva 2013/34/UE. (31) Stabilito dall’art. 2423 c.c. (32) Ora enunciato nel numero 1-bis dell’art. 2423-bis c.c. (33) A dire il vero si tratta di categorie definite in modo piuttosto vago, a loro volta suscettibili di interpretazione. Volendo ad esempio riferire la qualificazione e classificazione in bilancio a qualche fattispecie specifica, in tema di rilevazione in bilancio di beni materiali e ammortamento lo IAS 16 subordina l’iscrivibilità di un’attività materiale alla ragionevole prospettiva che l’impresa riceva i benefici riferibili al bene e sostenga i rischi ad essa correlati. Se quindi in linea di massima non sorgono problemi per l’individuazione del momento iniziale di rilevazione del bene in bilancio, coincidente generalmente con la compravendita o comunque con altri eventi in grado di far acquisire all’impresa la proprietà del bene, può anche verificarsi


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Nulla è invece cambiato per le cd. micro imprese di cui all’art. 2435-ter per le quali continuano ad operare integralmente i criteri tributari, con le tradizionali variazioni in aumento e in diminuzione in dichiarazione dei redditi. Ai fini IRES, pertanto, siamo di fronte ad un sistema in cui accanto ai soggetti IAS e alle imprese OIC (34) convive una seconda categoria di contribuenti, rimasta sostanzialmente insensibile al processo di avvicinamento della disciplina fiscale al regime contabile e per cui continua ad operare la disciplina fiscale prevista dal TUIR nella sua formulazione originaria.

che l’impresa ottenga la disponibilità del bene – e inizi a riceverne i benefici – prima ancora. Ciò accade ad esempio nel caso di appalti per forniture complesse (come vedremo più avanti anche nel testo), che prevedono la consegna anticipata di un singolo impianto o macchinario e la sua immediata entrata in funzione. Si pone così il tema dell’inizio del ciclo di ammortamento, che secondo gli IAS dovrebbe rappresentare un corollario dell’iscrivibilità in bilancio del bene e del suo utilizzo, mentre in base alla disciplina del TUIR – secondo l’interpretazione tradizionalmente avallata dall’Amministrazione finanziaria – l’impresa non sarebbe legittimata ad ammortizzare beni di cui non abbia ancora la proprietà o sui quali non possa comunque ancora vantare alcun titolo formale. In un caso del genere insomma ci si potrebbe chiedere se la rilevazione nel bilancio IAS in base a criteri di natura economico-sostanziale di un bene non ancora appartenente all’impresa rappresenti una questione di “classificazione in bilancio” destinata a valere anche in deroga alle disposizioni del TUIR in tema di ammortamento, stando alle quali, come detto, si richiederebbe la titolarità di un diritto reale in capo all’impresa. Un altro esempio riguarda il criterio del component approach. Si tratta di una semplice questione di tecnica contabile che, frammentando un cespite complesso in più parti, consente di quantificare in maniera appropriata l’ammortamento da imputare in bilancio nei singoli esercizi (come ritengono Beghin, Immobilizzazioni materiali, IAS 16 e determinazione del reddito d’impresa, in Corr. Trib., 2007, 44, 3571 ss.; Zizzo, La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, in Falsitta (a cura di), Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2010, 472; Michelutti, La fiscalità IAS tra competenza e valutazione: aspetti problematici, in Corr. Trib., 2011, 18, 1521 ss.). O invece, come riteniamo preferibile, una questione di portata ben più ampia diretta a far emergere la sostanza economica dell’operazione? Secondo questa seconda impostazione, l’approccio per componenti riguarda il riconoscimento della complessità di un determinato cespite, e la sua “qualificazione” come “insieme di componenti distinte”, a ciascuna delle quali va ricondotta l’aliquota di ammortamento adeguata in ragione della vita utile. Dal che conseguirebbe la rilevanza fiscale degli ammortamenti dei singoli componenti, naturalmente nei limiti dei coefficienti tabellari previsti dal D.M. 31 dicembre 1988. Per questa impostazione anche Stevanato, Profili tributari delle classificazioni di bilancio, in Corr. Trib., 2008, 39, 3159 ss.; Lupi, Profili tributari della valutazione degli elementi dell’attivo e del passivo, in Corr. Trib., 2008, 39, 3171 ss.; Gruppo di lavoro dell’ODCEC di Ivrea, Pinerolo e Torino, IAS/IFRS e reddito d’impresa per società industriali e holding industriali, in Il Fisco, 2008, 19, 3429 ss. (34) Che seguono la derivazione dell’imponibile dal bilancio redatto in base ai rispettivi standard contabili di riferimento.


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Questa scelta risponde essenzialmente ad una duplice motivazione: da un lato, si è tenuto verosimilmente conto del fatto che le micro-imprese sono dotate di strutture amministrative poco articolate, e difficilmente sarebbero state in grado di gestire le complessità derivanti dal recepimento automatico ai fini fiscali dei rinnovati criteri civilistici. Dall’altro, ha pesato il fatto che la categoria delle micro-imprese rappresenta comunque la maggioranza delle società, per cui è apparso preferibile introdurre deroghe specifiche per le imprese diverse da queste ultime, lasciando inalterato l’impianto tradizionale del TUIR ed evitando così di procedere ad una sua revisione complessiva. Probabilmente è presente anche, latente, il timore che si potessero aprire eccessivi varchi per pianificare l’applicazione dei principi contabili piegandoli alle esigenze fiscali. Questi soggetti non offrono infatti l’affidabilità di società più “strutturate”, non solo perché spersonalizzate, ma perché i dirigenti che le conducono sono valutati dal mercato in base al bilancio, e preferiscono in genere rinunciare ad una convenienza tributaria piuttosto che peggiorare la loro immagine di bilancio. Le micro-imprese devono pertanto continuare ad attenersi al dato giuridico delle operazioni effettuate, a prescindere dalla loro eventuale diversa rappresentazione in bilancio. Ciò significa, ad esempio, che laddove una micro-impresa decida facoltativamente di rappresentare in bilancio un finanziamento ricevuto in base al criterio del costo ammortizzato, riqualificando i costi di transazione sostenuti per ottenerlo (oneri fiscali, costi per prestazioni professionali, etc.) in interessi passivi, ai fini fiscali sarà comunque tenuta a considerare separatamente gli interessi nominali dagli oneri di transazione, con variazioni in dichiarazione per gestire i disallineamenti. È anche evidente il rischio che si verifichino asimmetrie in presenza di operazioni compiute tra soggetti che adottano regimi fiscali differenti. È il caso ad esempio di un bene venduto da un’impresa OIC, con bilancio ordinario, ad una micro-impresa con previsione di un’opzione di riacquisto a condizioni favorevoli. Per il mancato trasferimento di rischi e benefici, in un’ipotesi del genere, ai fini IRES solo la micro-impresa sarà tenuta a considerare come avvenuto l’acquisto del bene. 2.1.1. Il progressivo, criticabile, ridimensionamento del “principio di derivazione rafforzata” sul piano dell’attività di controllo da parte del Fisco e attraverso le successive scelte del legislatore tributario. – Come visto l’ambito delle deroghe alle regole del TUIR in materia di reddito d’impresa, sia per i soggetti IAS sia per i soggetti OIC, è stato limitato alle questioni di “qualificazione”, alle “classificazioni in bilancio” e ai momenti “di imputazione


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temporale”. Una volta verificato si rientri in una di queste tre categorie, le norme del TUIR devono retrocedere per far spazio all’applicazione dei criteri contabili. L’attuale formulazione dell’art. 83 (35) non sembra infatti concedere alcun margine per un eventuale arbitraggio tra questi ultimi e le regole fiscali, per esempio disapplicando i primi ove le seconde si dovessero rivelare più favorevoli o viceversa. L’esperienza tuttavia ha dimostrato, finora quantomeno con riguardo ai principi contabili internazionali, una tendenza a cercare di ridimensionare la derivazione rafforzata sul piano dell’attività di controllo e accertamento da parte delle Autorità fiscali, e ad arginare la stessa prevalenza dei criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio. L’automatico rinvio ai principi contabili ha infatti innescato un’opera di reinterpretazione da parte del Fisco, spesso tradottasi in rettifiche del dichiarato incentrate sulla corretta applicazione delle regole IAS e sulla valutazione delle poste di bilancio; scenario che era abbastanza prevedibile, tenuto conto della notevole elasticità e flessibilità dei suddetti principi. Esattamente come costantemente fatto con le norme tributarie, reinterpretando e rettificando i sia pur univoci criteri fiscali di valutazione in esse contenuti – e malgrado si trattasse di norme rigide, che non lasciavano spazio all’apprezzamento dei singoli casi – gli organi di verifica e gli Uffici tributari hanno infatti trovato spesso occasione per reinterpretare anche i criteri previsti dai principi contabili internazionali, dando luogo a una molteplicità di contestazioni su questioni valutative e giuridico-interpretative. In tale contesto, per esempio, notevole impatto ha avuto il criterio di carattere generale della prevalenza della sostanza sulla forma, che ha spesso indotto i verificatori a riqualificare i fatti di gestione valutandoli in termini sostanziali, senza però tenere in debito conto la correlazione tra fenomeni economici che contraddistingue la fiscalità d’impresa e necessita di una notevole sensibilità sia sul piano giuridico sia economico. Ne è derivata la formulazione di sommarie ipotesi ricostruttive di natura pseudo sostanziale, che hanno generato una vera e propria inversione dell’onere della prova a carico dei soggetti IAS, dando vita a contenziosi su comportamenti che nulla avevano a che fare con l’evasione vera e propria, essendo riferibili a imponibili già dichiarati. La rilevata tendenza a comprimere il ruolo del principio di derivazione rafforzata in sede di determinazione del reddito per i soggetti IAS ha trovato

(35)

Così come modificato prima dalla Finanziaria 2008, e poi dal Milleproroghe 2017.


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riscontro anche sul piano normativo, prima di tutto nelle disposizioni di attuazione delle norme introdotte dalla Finanziaria 2008. Queste disposizioni dimostrano infatti come il legislatore abbia optato per una parziale retromarcia rispetto a tale principio, preferendo limitare la valenza degli IAS attribuendo rilievo preminente a quelle previsioni del TUIR che, pur partendo dalla rappresentazione di bilancio, derogano per motivi meramente fiscali alla diretta rilevanza delle componenti reddituali iscritte a conto economico. Da questo angolo visuale possono essere lette e comprese le disposizioni attuative contenute nel cd. decreto attuativo IAS (36). Dopo aver puntualizzato, in prima battuta, la rilevanza fiscale in base al principio di derivazione rafforzata degli elementi reddituali e patrimoniali rappresentati in bilancio in conformità al principio di prevalenza della sostanza sulla forma (37), il decreto ha subito previsto un’espressa disattivazione del principio di derivazione rafforzata. Le disposizioni attuative confermano infatti l’applicabilità di quelle norme del TUIR che limitano la deducibilità di componenti negativi (ammortamenti, accantonamenti e rettifiche di valore), consentono la ripartizione in più periodi d’imposta di componenti positivi o negativi (rateizzazione delle plusvalenze e disciplina degli interessi passivi), sanciscono la rilevanza di componenti positivi e negativi nell’esercizio, rispettivamente, della loro percezione o del loro pagamento (dividendi, compensi agli amministratori, etc.), oppure ne escludono in tutto in parte la concorrenza alla formazione del reddito (esclusione dei dividendi o indeducibilità dei costi per mancanza di inerenza). Nella stessa ottica si spiegano anche le disposizioni contenute nel D.L. 29 dicembre 2010, n. 225 (38), che, per porre un freno al recepimento automatico ai fini fiscali degli IAS di nuova emanazione, hanno introdotto una sorta di “filtro”, stabilendo che in caso di approvazione di nuovi principi contabili internazionali, ovvero di modifiche a quelli già esistenti con regolamento UE, possano essere emanate apposite disposizioni ministeriali di coordinamento

(36) Ovvero il D.M. 1° aprile 2009, n. 48 recante “Disposizioni di attuazione e di coordinamento delle norme contenute nei commi 58 e 59 dell’articolo 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 in materia di determinazione del reddito dei soggetti tenuti all’adozione dei principi contabili internazionali”. (37) Stabilendo la conseguente inapplicabilità, nei confronti delle imprese IAS/IFRS, delle regole di imputazione temporale previste dall’art. 109 TUIR. (38) Cd. decreto Milleproroghe 2011, convertito con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10, e precisamente nell’art. 2, commi 25-28.


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per la determinazione della base imponibile dell’IRES e dell’IRAP. Inizialmente, infatti, il rinvio delle regole fiscali ai principi contabili internazionali era incondizionato, cosicché nuovi principi contabili sopravvenuti sarebbero stati recepiti automaticamente ai fini civilistico-fiscali, purché si trattasse, fiscalmente, di qualificazioni, classificazioni e imputazione a periodo. Questa impostazione è stata poi replicata anche per le imprese OIC, nei cui confronti valgono, in quanto compatibili, le disposizioni attuative che concorrono a disciplinare contenuto e limiti del principio di derivazione rafforzata (39). È logicamente sostenibile, infatti, che anche nei confronti dei soggetti che adottano i principi contabili nazionali debbano operare le stesse regole che limitano ai fini fiscali la rilevanza delle rappresentazioni di bilancio per i soggetti IAS, nonostante la derivazione rafforzata. Per la medesima imputazione temporale il sistema contabile è dunque destinato a retrocedere di fronte alle norme del TUIR che hanno ad oggetto specifici componenti reddituali e ne prevedono il concorso alla formazione del reddito in base a regole peculiari (ad esempio, come detto, stabilendone l’imputazione in uno o più periodi d’imposta in maniera disallineata rispetto alla relativa iscrizione in bilancio)

(39) Come espressamente previsto dal comma 1-bis dell’art. 83 TUIR, introdotto dal citato art. 13-bis D.L. n. 244/2016, ai sensi del quale: “Ai fini del comma 1, ai soggetti, diversi dalle micro-imprese di cui all’articolo 2435-ter del codice civile, che redigono il bilancio in conformità alle disposizioni del codice civile, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni emanate in attuazione del comma 60 dell’articolo 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e del comma 7-quater dell’articolo 4 del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38”. Devono ad esempio ritenersi inapplicabili ai soggetti OIC le regole in tema di imputazione temporale previste dal TUIR. In particolare si pensi alle disposizioni sulla certezza e oggettiva determinabilità; o ancora a quelle che individuano l’esercizio di competenza dei costi e dei ricavi derivanti da cessioni di beni in funzione del trasferimento della proprietà in senso formale (coincidente con la consegna o spedizione per i beni mobili e con la stipula del rogito per gli immobili), con la loro evidente incompatibilità con il recepimento ai fini fiscali dei criteri di imputazione temporale dei nuovi principi contabili nazionali: questi ultimi, infatti, in luogo del passaggio formale della proprietà valorizzano, piuttosto, il trasferimento di rischi e benefici. Per le prestazioni di servizi i criteri di imputazione a periodo previsti dai principi contabili nazionali non sono di fatto mutati, ma continuano ad essere in linea con quelli dettati dal TUIR, incentrati, come noto, sulla maturazione per i servizi di durata, e sull’ultimazione della prestazione nei casi in cui si tratti di servizi di risultato. Ma anche in questo caso possono verificarsi potenzialmente, come vedremo in un prossimo paragrafo di questo saggio, differenze ad esempio in applicazione del principio generale di competenza economica. Conferma esplicita è giunta poi dal D.M. 3 agosto 2017 che ha confermato la prevalenza dei criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio, e in particolare sotto il profilo dell’imputazione temporale, ha richiamato anche per i soggetti OIC la disapplicazione dell’art. 109, commi 1 e 2, TUIR.


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ovvero secondo criteri (quale quello di cassa) che non trovano accoglimento nella rappresentazione contabile. Insomma, il sistema così strutturato comprime fortemente il ruolo dei criteri contabili (sia nazionali che internazionali). Traspare dunque piuttosto chiaramente da questo scenario l’intenzione del legislatore tributario di riacquistare una prerogativa che in qualche modo aveva perso attraverso l’introduzione del principio di derivazione rafforzata, ossia il potere di controllare e presidiare i criteri di determinazione delle basi imponibili IRES (e IRAP). Quest’esigenza appare facilmente comprensibile con riferimento agli IAS/IFRS, il cui immediato e integrale recepimento avrebbe potuto dar luogo in linea di principio a effetti imprevedibili sulla formazione degli imponibili fiscali, trattandosi di un sistema contabile estremamente flessibile e in continua evoluzione. Proprio questa circostanza ha quindi reso in qualche misura opportuno, nell’ottica di non rinunciare a pianificare nel tempo la determinazione degli imponibili, l’introduzione dei filtri sopra ricordati, per evitare che un incondizionato recepimento dei criteri contabili potesse generare indesiderati effetti di anticipazioni di deduzioni fiscali e, con essi, una postergazione del gettito. 3. La competenza esterna nel nuovo rapporto con le regole contabili. – Detto di questa criticabile tendenza in sede di accertamento, entriamo ora nel vivo del tema di questo saggio. In materia di imputazione temporale, l’art. 83 TUIR e il regolamento attuativo IAS del 2009 (40), applicabile anche ai soggetti a principi contabili nazionali (41), comportano la disattivazione dei commi 1 e 2 dell’art. 109 TUIR. Il momento di rilevazione del costo e del ricavo nel bilancio deve esser tenuto fermo anche sul piano della determinazione del reddito d’impresa, senza dover vagliare gli specifici momenti di competenza fiscale delle operazioni con terzi acquirenti o fornitori di beni o servizi (stipula dell’atto, consegna o spedizione del bene, ultimazione del servizio, etc.), e in

(40) Precisamente il D.M. 1° aprile 2009, n. 48, e in particolare l’art. 2. (41) Nel caso delle indicazioni sull’imputazione temporale nulla ostacola la sua applicazione anche ai soggetti a principi contabili nazionali come confermato dal D.M. 3 agosto 2017 che, sotto questo profilo, ha richiamato anche per i soggetti OIC la disapplicazione dell’art. 109, commi 1 e 2, TUIR.


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particolare i requisiti di “certezza e oggettiva determinabilità” per la deduzione dei costi o la tassazione dei proventi. La prevalenza dei criteri contabili di imputazione all’esercizio non vale dunque solo per le operazioni che vengono diversamente rappresentate in ragione della sostanza economica ma in tutti i casi in cui vi sia divergenza tra un criterio di imputazione temporale contabile e fiscale (42). La disposizione di riferimento in materia (art. 83 TUIR) contiene è vero una sfumatura lessicale (“anche in deroga”) che potrebbe lasciar intendere non si tratti di una applicazione necessitata e automatica dei criteri contabili, ma di una eventualità da vagliare volta per volta (43). Ma a ben vedere “anche in deroga” vuol dire semplicemente che se i due criteri (contabile e fiscale) non portano a un risultato coincidente, è l’impostazione contabile a prevalere senza poter scegliere tra questi ultimi e le regole fiscali, per esempio disapplicando i primi ove le seconde si dovessero rivelare più favorevoli o viceversa. È possibile insomma che le “imputazioni temporali” secondo i principi contabili, così come le “qualificazioni” e le “classificazioni in bilancio”, determinino un quadro di partenza coincidente con quello che risulterebbe dalle regole del Testo unico come accade, ad esempio, per le clausole di riserva della proprietà nelle cessioni di beni. O invece in tutto o in parte diverso, come quando i principi contabili fanno riferimento al trasferimento dei rischi e benefici anziché al trasferimento formale della proprietà o si discostano dalle soluzioni indotte dalla certezza e oggettiva determinabilità dell’art. 109 TUIR, nel qual caso la base di partenza

(42) Fatti salvi naturalmente i momenti di cassa per cui si è resa, non per caso, necessaria una specifica previsione del decreto attuativo del 2009 (D.M. n. 48/2009), richiamata ora anche per i soggetti OIC. (43) Tanto è vero che per gli IAS erano nati percorsi interpretativi criticabili, secondo cui si sarebbe di fronte a un sistema in cui “non esisterebbe una priorità assoluta di un sistema di regole rispetto all’altro e, quindi, (...) espressione dell’esistenza di una sostanziale equiordinazione di tutte le regole, pur nella loro diversa origine”: così Fransoni, L’imputazione a periodo nel reddito d’impresa dei soggetti IAS, in Corr. Trib., 2008, 39, 3152 ss. Una simile impostazione sembra seguita anche da Assonime nelle sue circolari in più di una occasione, come vedremo più avanti in una prossima nota. A ben vedere si finisce così per attribuire a una sfumatura lessicale più importanza di quanto in realtà essa abbia e, più in generale, alla previsione dell’art. 83 TUIR nella sua interezza un significato che non valorizza lo stesso criterio guida della riforma (introdotta dalla Finanziaria 2008 per gli IAS e per gli OIC dall’art. 13-bis D.L. n. 244/2016), ovvero il principio di derivazione. Oltretutto un sistema immaginato per dare semplificazione creerebbe invece nuove, e per certi versi peggiori, complicazioni.


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per calcolare l’imponibile fiscale sarà comunque quella risultante dall’applicazione dei principi contabili. Anche la norma attuativa (D.M. n. 48/2009) non circoscrive la prevalenza dei criteri contabili alle sole operazioni diversamente qualificate, ma a tutte le regole che non siano conformi al criterio della prevalenza della sostanza sulla forma. E fra queste regole il decreto richiama espressamente le disposizioni dell’art. 109 TUIR sull’imputazione a periodo nella loro interezza, e senza imporre o prevedere la possibilità di fare ulteriori selezioni all’interno di esse. In conclusione, e molto semplicemente, il momento impositivo coincide con quello di imputazione al bilancio d’esercizio secondo corretti criteri contabili; non si applicano più gli specifici momenti di competenza fiscale (44) che guardano essenzialmente al rapporto giuridico con la controparte, non sono correlati con la competenza di componenti reddituali di segno opposto, il tutto rafforzato dai corollari della oggettiva determinabilità e della certezza, anch’essa da intendersi in senso giuridico e con l’effetto, in passato, di differire spesso il momento di competenza fiscale rispetto a quello di bilancio. Naturalmente, in qualche caso i due momenti potranno anche coincidere (ecco l’espressione “anche in deroga”), ma chi compila la dichiarazione non dovrà preoccuparsi di altro se non che l’imputazione temporale sia avvenuta secondo corretti criteri contabili, mantenendola a quel punto ferma anche ai fini della misurazione dell’imponibile di periodo. La determinazione fiscale del reddito parte infatti dalla contabilità e la assume ormai come proprio dato in materia di imputazione temporale. Le stesse prestazioni di servizi, dove le indicazioni generali dei principi contabili nazionali (criterio del servizio effettuato e, per i servizi di durata, maturazione) coincidono con i criteri fiscali (rispettivamente, ultimazione della prestazione e corrispettivo maturato), potrebbero perciò avere ora una diversa imputazione temporale (45) rispetto al passato, ad esempio per il venir meno

(44) Salvo, lo si ripete, i momenti di cassa. (45) Posizioni diverse creano più che altro confusione agli operatori. Vedasi al riguardo la perdurante posizione di Assonime, nella circolare 21 giugno 2017, n. 14, paragrafo 2.2.1 ove si legge: “È tuttavia il caso di segnalare che la preminenza delle regole contabili sull’art. 109 commi 1 e 2, a stretto rigore, si può affermare nelle sole ipotesi in cui il D.lgs. n. 139/2015 o l’OIC abbiano indicato, nel qualificare i fatti gestionali in base alla loro sostanza economica, criteri di imputazione temporale diversi da quelli giuridico formali. In particolare, ciò avvenuto con riferimento alle cessioni di beni, ma non anche alle prestazioni di servizi. Con riguardo a queste ultime, dunque, dovrebbero rimanere ancora validi i criteri di imputazione temporale stabiliti dall’art. 109 del TUIR”.


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dei requisiti fiscali di certezza e obiettiva determinabilità, per il principio di correlazione costi - ricavi o per una diversa lettura sotto il profilo bilancistico delle unità elementari da contabilizzare, e via enumerando (46). 3.1. Affinità e differenze rispetto alle previgenti regole fiscali autonome. – Le differenze sull’imputazione temporale possono prima di tutto emergere a monte, come riflesso di mutati criteri qualificatori e classificatori. Se i criteri contabili selezionano i fatti gestionali riconducendoli a schemi di riferimento diversi rispetto al passato, espressione dei profili economico-funzionali delle operazioni effettuate, anche l’imputazione temporale segue di conseguenza il nuovo binario. Penso, in particolare, alla diversa qualificazione di alcune cessioni di beni all’interno delle quali si debbano disaggregare eventuali forniture, anche future, di servizi, rilevando separatamente i relativi ricavi (ad esempio, manutenzioni, interessi, premi al cliente, etc.) (47). Questa rappresentazione dei fatti gestionali comporta per il cedente che una parte del ricavo dovrà essere rilevato nell’esercizio in cui il servizio sarà prestato; sul versante dell’acquirente, il bene acquistato avrà (anche fiscalmente) un valore riconosciuto inferiore al corrispettivo pattuito (solo sul piano della forma legale adottata il corrispettivo costituisce integralmente costo di acquisto). Anche per l’imputazione temporale, quando l’acquisto di un bene

(46) Come conferma del resto chiaramente anche il D.M. 3 agosto 2017, che nessuna distinzione introduce fra cessioni di beni e prestazioni di servizi quando disattiva anche per i soggetti OIC le regole fiscali sulla competenza dell’art. 109 TUIR. (47) È peraltro ancora discusso se debbano essere rilevati i cosiddetti “ricavi misti” ma credo questa sarà la soluzione che nel tempo emergerà anche per i principi contabili nazionali. Secondo una parte della dottrina aziendalistica il superamento dell’unitarietà giuridica del ricavo di vendita del bene con la separazione della prestazione di servizi sarebbe già possibile proprio in base all’OIC 15, paragrafo 29, secondo cui “i crediti originati da ricavi per prestazioni di servizi sono rilevati in base al principio della competenza quando il servizio è reso, cioè la prestazione è stata effettuata”. Più in generale aggiungiamo che lo stesso principio della “prevalenza della sostanza sulla forma” potrebbe condurre il redattore del bilancio a seguire questa strada, e nel caso essa dovrebbe essere tenuta ferma anche ai fini fiscali. Si vedano in questa direzione i lavori di rivisitazione dell’OIC 11 sul punto (approvato nel marzo 2018). I principi contabili indicano come trattare i ricavi di vendita di beni e come trattare i ricavi di vendita di servizi, ma sta al redattore del bilancio, sulla base del postulato generale, interpretare la sostanza economica di un contratto stabilendo quando si è nell’ambito delle cessioni e quando nell’ambito dei servizi. L’analisi del contratto è rilevante anche per stabilire l’unità elementare da contabilizzare perché dall’analisi degli effetti sostanziali potrebbero emergere più diritti o obbligazioni che richiedono una contabilizzazione separata.


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incorpora un servizio da prestare in futuro, si dovranno a quel punto considerare i criteri per le prestazioni di servizi in luogo della consegna e spedizione. Si pensi, ad esempio, a una cessione di beni con differimento del pagamento del corrispettivo oltre i termini ordinari, che deve essere affiancata da un’operazione finanziaria, produttiva di interessi. L’atto di compravendita è quindi scomposto in due diversi rapporti (compravendita in senso stretto e finanziamento), e la contabilizzazione dell’operazione dovrà considerare come ricavo il valore attualizzato del corrispettivo, mentre la differenza come interessi attivi che maturano pro rata temporis. In altri casi, i criteri contabili non modificano la qualificazione e la classificazione dell’operazione, ma potrebbe cambiare comunque, rispetto al passato, il criterio di imputazione temporale. Non si deve pensare naturalmente che tutto venga stravolto. Le differenze ci sono certo. Ma a ben guardare i criteri previsti dagli OIC – al Principio n. 15 per i crediti e n. 19 per i debiti – non si discostano, in linea generale, in modo così netto dalle indicazioni dell’art. 109 Tuir se non per i requisiti di certezza e oggettiva determinabilità e per qualche altro aspetto. Vediamo subito perché. Per le cessioni di beni, i principi contabili nazionali richiedono “il passaggio sostanziale e non formale del titolo di proprietà assumendo quale parametro di riferimento, per il passaggio sostanziale, il trasferimento dei rischi e benefici”. E aggiungono che “salvo che le condizioni degli accordi contrattuali prevedano che il trasferimento dei rischi e benefici avvenga diversamente: a) in caso di acquisto di beni mobili, il trasferimento dei rischi e benefici si verifica con la spedizione o consegna dei beni stessi; b) per i beni per i quali è richiesto l’atto pubblico (ad esempio, beni immobili) il trasferimento dei rischi e benefici coincide con la data della stipulazione del contratto di compravendita” (48). Dunque, sia per i beni immobili che per i beni mobili vi è una sostanziale coincidenza dei criteri fiscali (ora sostituiti) con i criteri contabili. In linea generale, infatti, il trasferimento dei rischi e dei benefici coincide con la stipula dell’atto per gli immobili e con la consegna o spedizione per la vendita di beni mobili, che erano proprio gli eventi cui le disposizioni fiscali facevano riferimento per la competenza delle cessioni di beni. Anche per la vendita con riserva delle proprietà i criteri sono coincidenti, come ci si poteva aspettare essendo la regola dell’irrilevanza fiscale di simili

(48)

Si vedano l’OIC 15 per i crediti e l’OIC 19 per i debiti.


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clausole sotto il profilo dell’imputazione a periodo (art. 109 TUIR) già espressione di una prevalenza della sostanza economica sulla forma. In questo caso, l’art. 1523 c.c. prevede che il compratore acquisti la proprietà della cosa con il pagamento dell’ultima rata di prezzo, ma assuma i rischi dal momento della consegna. Pertanto, nel bilancio dell’acquirente, l’iscrizione del bene avviene alla consegna a fronte della rilevazione di un debito, relativo alle rate non scadute, indipendentemente dal passaggio del titolo di proprietà. La norma fiscale giungeva già alla medesima conclusione statuendo l’irrilevanza delle clausole di riserva della proprietà, a tutela del credito del cedente per il pagamento del prezzo; in tal caso, infatti, nessuna delle parti può sottrarsi agli obblighi derivanti dal contratto, e il differimento temporale del passaggio del diritto reale ha solo funzione di garanzia rispetto al pagamento del prezzo. In alcuni casi, il trasferimento dei rischi e dei benefici potrebbe però verificarsi in un momento diverso dalla stipula dell’atto o dalla consegna. Ad esempio, l’impresa venditrice di un macchinario assume l’impegno di far fronte a risultati insoddisfacenti al di là delle normali clausole di garanzia; l’installazione del bene ceduto è una parte importante del contratto e non è ancora completata; il conseguimento del ricavo derivante dalla cessione del bene è legato alla vendita da parte dell’acquirente del bene medesimo. In tutti questi casi l’impresa conserva rischi significativi connessi alla proprietà e l’imputazione del ricavo deve essere differita al momento in cui i rischi vengono meno. In tale evenienza potranno dunque emergere talvolta differenze rispetto alle autonome regole fiscali sulla competenza. Se l’impresa conserva rischi significativi e i benefici connessi alla proprietà, la vendita, nonostante il passaggio formale del diritto e la consegna del bene, si dà per non avvenuta; in questo caso non vi sarà tassazione del ricavo o della plusvalenza per il venditore, né deduzione fiscale del costo per l’acquirente. All’opposto, possono presentarsi anche casi in cui i rischi e i benefici sul bene sono trasferiti, ma non c’è ancora stata ancora la consegna, che in questo caso sarà irrilevante per l’imputazione a periodo, con una evidente differenza rispetto al passato. Ancora, si consideri la vendita mediante intermediario, in cui quest’ultimo ha il diritto di restituire l’invenduto dopo un certo periodo e il pagamento avviene solo alla vendita dei beni a terzi. I relativi elementi reddituali non sono rilevati al momento della vendita all’intermediario, ma soltanto al momento della vendita a terzi o allo scadere del periodo fissato per la restituzione senza che questa sia avvenuta. Prima di questo momento, l’impresa non può sapere se e quanti prodotti l’intermediario venderà e non si libererà quindi dal rischio dell’invenduto. Se invece il cedente conserva un rischio irrilevante, gli ele-


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menti reddituali vanno rilevati in bilancio e anche fiscalmente: si pensi alla vendita al dettaglio dove il cliente insoddisfatto potrebbe chiedere il rimborso, ma il rischio non è certo significativo. Si pensi per un altro caso a un’impresa che venda prodotti a un distributore impegnandosi ad azioni di marketing per agevolare lo smaltimento dei pezzi in giacenza oltre un certo numero di mesi e, in caso di insuccesso di queste azioni, debba pagare un corrispettivo pari al valore delle merci invendute (clausola di stock protection). Un conto è se le azioni richieste fossero scarsamente significative, come inserire un banner pubblicitario sulla pagina web dell’azienda; la clausola contrattuale non impedirebbe il riconoscimento del ricavo, e al più si tratterebbe di appostare un fondo per oneri futuri a fronte della passività stimata connessa al reso contrattuale (49). Altro discorso se si trattasse invece di un’attività più rilevante; il venditore manterrebbe obbligazioni significative da adempiere che potrebbero far perdere la vendita: in questo caso non vi sarebbero le condizioni per riconoscere il ricavo che dovrebbe essere sospeso fin quando la giacenza presso il distributore si riducesse (50). Uno spunto interessante per un parallelo tra competenza contabile e competenza fiscale emerge anche con riferimento alla consegna differita che, per i criteri contabili, non preclude la rilevazione del ricavo se l’acquirente ne conosce perfettamente le condizioni. Indipendentemente da una formale consegna al cessionario, la vendita si considererà perciò avvenuta; ora questa conclusione sarà applicabile anche sul versante fiscale. Qui appare evidente la differenza rispetto alle regole fiscali sulla competenza secondo le quali occorreva attendere comunque la consegna, a meno che le istruzioni del compratore non fossero tali da trasformare il possesso in detenzione: quando, dopo il perfezionamento della vendita, il compratore chiede al cedente di conservare il bene ceduto, precisamente identificato, a titolo di depositario del cessionario, la trasformazione del possesso in detenzione, conseguente alle istruzioni del cliente, è infatti sostanzialmente equivalente alla “consegna”. Per le prestazioni di servizi a livello di criteri generali, le differenze rispetto al passato non sono sensibili come accade invece per i principi contabili internazionali che tendono a rilevare l’ammontare del servizio prestato a fine

(49) In questo caso saremmo di fronte a un accantonamento, fiscalmente indeducibile. (50) Detto altrimenti, il produttore non avrebbe ancora trasferito completamente il controllo della vendita. Diversa è l’eventualità del reso dove la vendita c’è stata e il controllo è passato all’acquirente, mentre la restituzione è un evento incidentale.


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anno, quantomeno se è possibile una individuazione attendibile dello stadio di completamento dell’operazione alla data cui si riferisce il bilancio (51). Il criterio contabile nazionale collima perfettamente con quello fiscale dell’ultimazione del servizio (art. 109 Tuir). I servizi in base agli OIC (n. 15 e n. 19) sono rilevati infatti “in base al principio della competenza quando il servizio è stato ricevuto, cioè la prestazione è stata effettuata”. Anche in questo caso però dall’analisi degli effetti sostanziali delle operazioni potrebbero emergere più diritti, o obbligazioni, che richiedono una contabilizzazione separata, o altri aspetti che il principio di competenza economica potrebbe far apparire come rilevanti ai fini dell’imputazione temporale. Si pensi ai ricavi da attivazione la cui competenza economica può individuarsi in funzione dei benefici forniti o ricevuti, e della loro durata. A ben vedere, non si tratta di un contributo una tantum in assenza di obbligazioni successive. La società che rende il servizio ha comunque un’obbligazione costante al regolare funzionamento della linea telefonica e della connessione alla rete Internet. Il ricavo da attivazione dovrebbe dunque essere rilevato in più esercizi lungo la durata del contratto di servizio (52), in base appunto a tempi, natura e valore dei benefici forniti e non in un’unica soluzione, nonostante – secondo la rappresentazione giuridico-formale dell’operazione – la relativa prestazione sia stata ultimata. Se questa fosse nel caso di specie la rappresentazione contabile più adeguata, essa dovrebbe essere ora mantenuta anche sul versante fiscale: i ricavi dovrebbero cioè essere ripartiti in più periodi d’imposta (53) con i medesimi criteri sostanziali con cui, in bilancio, è individuata la relativa competenza economica, mentre in precedenza la fiscalità d’impresa conosceva solo i costi pluriennali (54). Un esempio dunque di maturazione economica diversa da quella giuridico-formale. Si pensi per un altro caso alla fornitura, pattuita come oggetto unitario, di un laboratorio per servizi di diagnostica e delle relative apparecchiature medico-scientifiche, nonché di un fabbricato strumentale destinato a ospitare il laboratorio e le attrezzature. Vista nella sua unitarietà, questa fornitura “chiavi in mano” si inquadra nello schema della “prestazione di servizi” piuttosto che della “cessione di beni”. Ai fini dell’individuazione dell’esercizio di

(51) I soggetti IAS devono invero valutare i servizi in ragione dello stato di completamento, purché questo possa essere attendibilmente valutato. (52) Se rinnovabile quantomeno per il primo periodo. (53) In quanto correlati all’esecuzione di servizi da rendere in periodi successivi. (54) Mentre non vi era alcuna possibilità di ripartire i ricavi.


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competenza, si dovrebbe dunque, in prima battuta, fare riferimento alla data di effettuazione della complessiva prestazione che però avrà termine in ipotesi successivamente alla chiusura dell’esercizio. Supponiamo vi sia però una clausola contrattuale che, nell’interesse e su richiesta del committente, preveda la anticipata fornitura e installazione di un macchinario per la diagnostica e che questo macchinario sia messo in funzione anticipatamente rispetto alla conclusione dei lavori e all’ultimazione delle rimanenti opere dedotte nel contratto. Occorrerebbe forse attendere l’ultimazione dei lavori per poter avere il riconoscimento dei costi sostenuti e iniziare a dedurre componenti negativi di reddito (ammortamenti) in relazione ai beni oggetto della fornitura anticipata? Il contratto di appalto disciplina, è vero, una fornitura di beni strumentali pattuita come oggetto unitario (e un corrispettivo anch’esso unitario); dunque l’impresa è probabilmente ancora priva formalmente della titolarità giuridica del bene che, comunque, è dotato di una sua completezza e ha già concorso alla produzione di ricavi del committente nell’esercizio precedente al completamento della fornitura. Appare pertanto logico e rispondente al principio di “correlazione” tra costi e ricavi, iscrivere in bilancio una quota del “costo”, corrispondente alla sua percentuale di utilizzo del bene e al connesso deperimento economico. Sussistono a questo punto anche le condizioni richieste dalle norme sul reddito di impresa per la deduzione dell’ammortamento fiscale, anche si potesse ritenere che la proprietà formalmente non fosse ancora stata trasferita (55); il macchinario è infatti già nella piena disponibilità della società, ed è anche entrato in funzione con produzione dei relativi ricavi.

(55) Com’è stato osservato da Crovato, L’imputazione a periodo nelle imposte sui redditi, cit., paragrafo 6.13, la concezione dell’ammortamento limitato ai soli beni di proprietà era stata teorizzata argomentando in base alla disciplina civilistica della locazione. In un rapporto di locazione, il conduttore ha in effetti l’obbligo, alla scadenza del contratto, di restituire il bene analiticamente considerato e nello stato in cui lo ha ricevuto, conformemente alla descrizione che ne abbiano fatto le parti; il proprietario, dal canto suo, ha un potere di controllo sull’uso del bene durante la locazione e ha diritto al risarcimento del danno per eventuali deterioramenti. Se si pensa che normalmente il corrispettivo per il godimento è già ripartito contrattualmente sotto forma di canoni periodici, si comprende facilmente come in questi casi non si ponga neppure il problema di un costo da suddividere, visto che il corrispettivo è già ripartito contrattualmente su ciascun periodo d’imposta. Ciò non è però ancora sufficiente a teorizzare in generale che non possa aversi l’ammortamento fiscale senza diritto di proprietà. E non si tratta solo del – sin troppo facile – esempio delle vendite con patto di riservato dominio. Da tempo le attribuzioni di beni con strumenti diversi dalla proprietà sono più frequenti: si pensi all’usufrutto, alla proprietà concessionaria, alla stessa locazione finanziaria.


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Un’ulteriore questione rilevante nel caso di specie, e fonte in passato di dubbi interpretativi, attiene alla pattuizione di un corrispettivo unitario per l’intera commessa dedotta nel contratto di appalto (56). A prima vista, questa circostanza avrebbe privato, almeno agli occhi dell’Amministrazione finanziaria, dei requisiti di “certezza e oggettiva determinabilità” il costo del macchinario da ammortizzare, per l’impossibilità di individuare, nell’ambito del corrispettivo complessivo dell’appalto, la parte riferibile al macchinario. Sul punto osserviamo che il caso di specie presenta delle analogie con altre situazioni in cui viene pattuito un corrispettivo unitario per un bene complesso o composto da più beni ad aliquota di ammortamento differenziata, come accade – ad esempio – nell’acquisto di aziende a fronte di un prezzo unitario e omnicomprensivo. In tali situazioni, si consente all’acquirente – e non potrebbe essere diversamente – una ripartizione del costo complessivo sui singoli beni facenti parte dell’azienda acquisita, secondo i classici canoni delle valutazioni di bilancio discrezionali. Osservato il limite della razionalità e della coerenza, e avendo a riferimento a parametri di mercato, in tali casi l’acquirente può suddividere il prezzo pagato per l’azienda sui diversi cespiti che ne fanno parte. Già questo sarebbe sufficiente a superare eventuali obiezioni fondate sulla mancanza di uno specifico “corrispettivo” riferibile al macchinario. Ora non vi possono essere dubbi sulla rilevanza del costo. Il procedimento di calcolo non è inteso a ben guardare a “stimare” un costo incerto e/o indeterminabile, quanto a ripartire su un bene, facente parte di una commessa composita, una quota del costo complessivo, certo e definitivo, che l’impresa si è già impegnata a sostenere come corrispettivo dell’unitaria commessa. Il “corrispettivo” che la società si troverà a pagare per il macchinario può essere ripartito su basi oggettive e analitiche, al di fuori di ogni procedimento di stima e ripartizione convenzionale del costo complessivo della commessa, precisamente e analiticamente conoscibile in base a dati oggettivi, forniti dalle stesse imprese appaltatrici, e al riguardo non ha alcuna rilevanza il momento di emissione delle fatture. Circa le modalità con cui operare la deduzione, trattandosi di posta avente sostanzialmente natura di “ammortamento”, la deduzione potrà avvenire dunque fiscalmente entro i limiti tabellari.

(56) Che nell’ipotesi fatta prevede l’obbligo per le imprese appaltatrici di fornire – oltre al macchinario per la diagnostica già consegnato – anche altre apparecchiature, il laboratorio e l’immobile strumentale.


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Non ci sono differenze invece, qualunque sia il set di principi contabili adottati, per i servizi con corrispettivi periodici che fiscalmente erano già imputati con il criterio della maturazione e dovevano essere rilevati a quote costanti nel tempo, secondo la tradizionale tecnica dei ratei e dei risconti. A grandi linee, non ci si discosta qui dallo stesso criterio giuridico della maturazione “giorno per giorno in ragione della durata del diritto”, tipica dei frutti civili di cui all’art. 821, comma 3, codice civile. Un altro esempio abbastanza comune nella prassi, è quello dei contratti di affitto a canoni crescenti: pensiamo a un contratto di 4 anni con un primo anno gratuito (quindi senza emissione di fatture), e canoni successivi via via più alti. A parità di servizio, se non vengono cioè concessi spazi aggiuntivi o non vi sono altri elementi tali da giustificare questa progressione, il diverso andamento dei canoni annuali si spiegherebbe semplicemente come agevolazione finanziaria per un ingresso morbido nel contratto. Il principio della competenza economica (57) richiederebbe di conseguenza la linearizzazione del costo. Anche dal punto di vista fiscale si dovrebbe seguire questa impostazione a prescindere dalla manifestazione finanziaria e dall’emissione delle fatture, che nel primo anno mancheranno del tutto. Esiste del resto il contratto che per un quadriennio prevede un canone globale di un certo importo, a quel punto da ripartire in ragione del tempo perché l’impresa locataria sta utilizzando l’immobile anche nella prima annualità. Prova del nove è che, se l’immobile fosse stato acquistato a titolo di proprietà, l’impresa avrebbe dedotto una quota di ammortamento già il primo anno; e anche le regole dell’ammortamento sono a ben vedere espressione e applicazione del principio della competenza (interna). In linea generale, altre differenze possono poi generarsi per la disattivazione delle regole fiscali sulla certezza e oggettiva determinabilità. È noto che una delle peculiarità dell’imputazione a periodo fiscale era rappresentata da questi requisiti. L’art. 109 Tuir escludeva al comma 1, ora derogato, la rilevanza fiscale degli elementi reddituali che, pur essendo di competenza del periodo d’imposta secondo le regole indicate al comma 2, fossero sotto altri profili incerti nell’an o nel quantum. I momenti di competenza, basati su consegna, ultimazione ecc., dovevano così essere accompagnati anche dalla

(57) Non si tratta dunque tanto dell’applicazione del principio di prevalenza della sostanza economica sulla forma, ma dell’applicazione corretta del principio di competenza economica.


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certezza del titolo giuridico in cui trovava riscontro il presupposto imponibile e dalla determinazione oggettiva dell’elemento reddituale al momento di chiusura dell’esercizio, che fungevano da correttivi dei momenti di competenza di volta in volta individuati, e spesso comportavano disallineamenti rispetto alla competenza contabile. Ai fini contabili, le esigenze di certezza e di determinazione trovano ancora riscontro, ma sotto un diverso profilo, ovvero quello di una valutazione realistica e attendibile del passaggio di rischi e benefici e delle probabilità di incasso del corrispettivo. In questa prospettiva, la certezza diviene evidenza che i benefici economici dell’operazione affluiranno all’impresa e la determinabilità una quantificazione attendibile del valore dei ricavi e dei costi. Ad esempio, la fruizione dei benefici economici da parte di un’impresa implica una valutazione delle probabilità di incasso del corrispettivo che, per le forniture di beni soggette a condizioni sospensive, determina la rilevazione del ricavo quando viene meno l’incertezza; e in questo possiamo notare coincidenze rispetto alle conclusioni cui già si perveniva in base ai suddetti requisiti fiscali. Si pensi ancora alle commissioni che maturano al momento dell’esecuzione di un atto significativo: la loro rilevazione può avvenire solo quando l’atto significativo è completato (ad esempio, una commissione di performance per un fondo in cui l’evento rilevante sarà rappresentato dal confronto fra la performance riportata dal fondo e quella realizzata dal benchmark di mercato). La certezza e l’oggettiva determinabilità non sono quindi affatto trascurate dai principi contabili, ma prevalgono sulle condizioni di cui all’art. 109, comma 1, TUIR secondo cui la certezza è una certezza “giuridica” e l’“oggettiva determinabilità” doveva considerarsi soddisfatta soltanto quando, con riferimento alla data di chiusura dell’esercizio, la componente reddituale fosse quantificabile in modo preciso, potremmo dire “matematico”, in presenza di parametri per calcolare con assoluta accuratezza l’elemento reddituale. Sicuramente deve perciò essere abbandonato anche ai fini fiscali qualsiasi orientamento restrittivo ed eccessivamente angusto, dei requisiti di “certezza” e “oggettiva determinabilità”, per passare a un criterio di “congruità”, di “attendibilità”. Non è dunque più richiesta una quantificazione operata su basi matematiche della componente reddituale, ed è invece bastevole che l’impresa sia in possesso di tutti gli elementi per una determinazione sufficientemente “attendibile” della componente reddituale. Ora il diritto tributario d’impresa accetta queste impostazioni e le fa proprie ai fini della determinazione del


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reddito d’impresa, con conseguenti ed evidenti riflessi sull’imputazione temporale di costi e ricavi. 4. La delicata linea distintiva tra costi e accantonamenti. – Rimane quindi ora la linea di distinzione “contabile” tra costi e accantonamenti, senza più il filtro della certezza e oggettiva determinabilità fiscali dell’art. 109 TUIR. In linea generale, per questa distinzione sembra dirimente – oltre che la modalità di contabilizzazione a conto economico – il profilo patrimoniale: occorre cioè verificare se le componenti di natura reddituale contabilizzate abbiano come contropartita patrimoniale un debito o un fondo, e quindi se vi sia una chiara evidenza dell’esistenza di un obbligo e una “quantificazione fissa o determinabile” del suo ammontare (debito) o se, ancorché stimabile attendibilmente, l’obbligo sia solo “probabile” (fondo rischi) o l’ammontare ancora “incerto” (fondo oneri). Questo aspetto è particolarmente importante quando le componenti negative di reddito che generano le predette passività di scadenza o ammontare incerti vengono classificate sulla base della natura delle spese, e confluiscono quindi in voci di costo (e non a titolo di accantonamenti) (58). Un esempio potrebbe essere quello di un’impresa che ha un contenzioso aperto con un proprio dipendente per il quale, ritenendo probabile la soccombenza in giudizio, stanzia un fondo rischi con contropartita a conto economico “costo del personale”. Al costo rilevato in bilancio come “costo del personale” dovranno applicarsi le regole proprie degli accantonamenti, mentre la deduzione fiscale potrà avvenire solo a contenzioso chiuso. Ecco perché è intervenuta una disposizione del decreto fiscale IAS del 2011 (59), richiamata ora per i soggetti OIC dal decreto dell’agosto 2017, per riqualificare fiscalmente in accantonamenti, deducibili solo nelle ipotesi espressamente previste dal Testo unico, le componenti negative di reddito iscritte in contropartita di passività di scadenza o ammontare incerti, anche se classificate sulla base della natura delle spese fra i costi.

(58) Si ricorda, infatti, che l’OIC 12 (versione dicembre 2016), al paragrafo 79, prevede che gli accantonamenti ai fondi rischi e oneri sono iscritti prioritariamente nelle voci di costo di conto economico delle pertinenti classi (B, C o D), dovendo prevalere il criterio della classificazione “per natura” dei costi. (59) Il D.M. 8 giugno 2011.


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Un caso generale è quello dei bonus ai dipendenti, riconosciuti al verificarsi di determinati obiettivi aziendali e personali. Sul punto, la lettura della certezza e determinabilità secondo la prospettiva contabile potrebbe comportare valutazioni diverse rispetto al passato circa il grado di affidabilità delle modalità di calcolo dei bonus e di attendibilità delle relative stime ai fini della deduzione (anche fiscale) del costo del lavoro. Per rappresentare la fattispecie come debito o come fondo occorre far riferimento al grado di incertezza della quantificazione e, nel caso di incentivi a breve termine, il grado di incertezza appare spesso molto basso e inferiore a quello degli accantonamenti (60). Saremmo di fronte a un debito e non a un fondo, quando le condizioni formali del piano di remunerazione contengono una formula per determinare l’ammontare del beneficio, l’impresa determina gli ammontari da pagare prima della pubblicazione del bilancio, o l’esperienza passata fornisce una chiara evidenza dell’ammontare dell’obbligazione. Potrebbe infatti ritenersi sussistente la determinabilità richiesta dal principio contabile per la rilevazione di un debito (61). Questa conclusione si può estendere a tutte le ipotesi in cui dati e criteri sono teoricamente disponibili alla fine dell’esercizio e la quantificazione successiva dei bonus ha una funzione meramente ricognitiva. Se invece la determinazione del bonus fosse affidata alla decisione discrezionale di un comitato di remunerazione o presentasse caratteristiche tali da rendere solo stimabile l’eventuale erogazione, saremmo nel campo degli accantonamenti a fondi. Un altro esempio, fra altri, riguarda gli elementi reddituali derivanti da controversie giurisdizionali, vuoi con privati, vuoi con Autorità pubbliche che emettono atti amministrativi provvisoriamente esecutivi. Le difficoltà concettuali dell’applicazione del criterio di competenza, genericamente basato per

(60) Una conferma giunge, in tema di bilancio bancario, dalle istruzioni impartite dalla Banca d’Italia nel novembre 2009 in sede di aggiornamento della circolare n. 262/2005: gli stanziamenti a fronte dei premi di produttività a breve termine (da erogare cioè nell’esercizio successivo a quello di maturazione) sono stati collocati tra le spese del personale con contropartita “altre passività”; la precedente impostazione consentiva invece anche la contabilizzazione tra i fondi. Le banche sono soggette agli IAS, ma oramai sul punto non dovrebbero esserci differenze sostanziali, per cui l’esempio appare utile anche per i soggetti OIC. (61) Ad esempio, l’impresa ha già individuato i dipendenti aventi diritto al bonus e il criterio per quantificarli come accade quando essi sono stabiliti in ragione di determinati indicatori di redditività come l’EBITDA. In base al piano di remunerazione il bonus sarebbe infatti, proseguendo nell’esempio sopra svolto, determinabile in funzione del risultato della gestione operativa.


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queste fattispecie sulla maturazione dell’elemento reddituale e sulla certezza e oggettiva determinabilità, emergevano in tali ipotesi in tutta la loro evidenza, con una lunga fase contenziosa al cui interno poteva sussistere una pluralità di criteri astrattamente idonei a incardinare l’imputazione a periodo delle relative componenti reddituali. Se eventuali obblighi di pagamento in pendenza di giudizio non erano sicuramente decisivi per l’imputazione a periodo, in quanto aventi carattere meramente finanziario senza nulla aggiungere alla fondatezza delle rispettive pretese, le sentenze soggette a gravame, e i provvedimenti della pubblica Autorità, quantunque impugnati, davano invece luogo a problemi complessi. Atti impugnati e sentenze non definitive non apparivano, infatti, adeguati a rappresentare un momento inderogabile di competenza. Essi avrebbero costretto a rilevare componenti negative di reddito anche quando originate da atti probabilmente infondati contro i quali si era fatto ricorso ad Autorità giurisdizionali. D’altra parte, attendere l’atto definitivo avrebbe talvolta leso il principio di prudenza, a fronte di un atto autoritativo comunque provvisto di notevole valore giuridico. Appariva perciò talvolta poco appagante anche rinviare la rilevazione del costo al giudicato, ancorché fossero state già versate somme a seguito di riscossioni provvisorie in pendenza di giudizio e magari a fronte di un atto che difficilmente sarebbe stato ribaltato. Gli inconvenienti della scelta di uno dei momenti suddetti come momenti obbligatori di competenza risultavano anche dall’esame della situazione, speculare, dell’eventuale controparte processuale (62). L’impostazione tradizionale della prassi amministrativa tributaria individuava comunque la competenza fiscale del costo o del ricavo già al deposito di una sentenza (63), anche se la stessa veniva impugnata, mentre taluni rite-

(62) Se l’obbligazione esiste, esiste, infatti, naturalmente anche a favore di chi, in base alla sentenza non definitiva, è il vincitore della causa; questi potrebbe essere tenuto a rilevare un elemento positivo di reddito, con violazione del principio di prudenza nella redazione del bilancio. Il valore sistematico del principio di prudenza, nello stesso TUIR, tendenzialmente escludeva che il contribuente potesse essere tenuto a rilevare elementi positivi di reddito connessi a sentenze impugnate dalla controparte. (63) Si veda, in particolare, ris. 27 aprile 1991, n. 9/174 con cui il Ministero delle finanze sembrava essersi attestato sulla rilevanza dell’esecutività della sentenza. Il problema appare però più articolato e questa soluzione non convinceva del tutto perché connessa a parametri cautelari non necessariamente significativi ai fini della competenza. L’esecutività è prevista per il pregiudizio che una delle parti altrimenti subirebbe nelle more del giudizio, e dunque per ragioni che non hanno molto a che vedere con la fondatezza della pretesa, quanto appunto con


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nevano necessario il formarsi del giudicato. Queste impostazioni (64) appaiono ora superate dalla diversa lettura di certezza e determinabilità ai sensi dei principi contabili (nazionali e internazionali). Le componenti positive di reddito, comprese quelle derivanti da contenziosi in corso, sono rilevate a conto economico come ricavi, e quindi come tali tassate, solo se la probabilità di conseguire benefici economici futuri e il grado di attendibilità della quantificazione soddisfano le condizioni poste dagli standard contabili. A questo proposito si veda in particolare il paragrafo 86 del Framework, dedicato alla rilevabilità dei ricavi da contenziosi in corso, che riguarda i principi contabili internazionali ma può fornire utili indicazioni per ragionare anche in tema di OIC (65). Per quanto riguarda le componenti negative, occorre dare rilievo al livello di probabilità dell’esito della lite, avvalendosi a tal fine di tutti gli elementi disponibili al momento di redazione del bilancio (inclusi, per esempio, pareri e relazioni di esperti). Quando l’esito negativo del contenzioso sia probabile si dovrebbe appostare un accantonamento, mentre l’impresa potrebbe rilevare un debito (con conseguente deducibilità fiscale) solo se la contestazione in corso appare manifestamente perdente. In genere, quindi, se non interviene la definizione del debito contestato con una sentenza passata in giudicato, un accordo transattivo o un lodo arbitrale, la passività viene classificata fra gli accantonamenti o addirittura fra le passività potenziali. 4.1. Una proposta de iure condendo. – Ricordiamo che quel che conta non è semplicemente la qualificazione, la classificazione o l’imputazione temporale in concreto operata in bilancio, ma la qualificazione, la classificazione o l’imputazione in bilancio teoricamente corretta in base ai principi contabili. Sul piano contabile c’è molta attenzione da parte degli operatori per la certezza della passività, condizione per la rilevazione sia dei debiti sia dei fondi

esigenze cautelari. (64) Basate sui requisiti di certezza e obiettiva determinabilità dell’art. 109 TUIR. (65) In esso si afferma che “il provento atteso da un’azione legale può soddisfare le definizioni sia di attività sia di ricavo come anche quella della condizione di probabilità per la rilevazione; tuttavia, se non è possibile quantificare attendibilmente la pretesa, essa non deve essere rilevata come attività o ricavo; l’esistenza della pretesa, tuttavia, andrà indicata nelle note, nel materiale esplicativo o nei prospetti supplementari”. Anche lo IAS 37 porta come esempio di attività potenziale il caso di “un ricorso che un’impresa sta intentando attraverso procedure legali e il cui risultato è incerto” (paragrafo 32).


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oneri, mentre può creare meno preoccupazione l’aspetto della determinabilità (66), se quest’ultima si verifica prima della preparazione del bilancio (67). Questo aspetto potrebbe invece rivelarsi critico sul piano della fiscalità dove la differenza tra “debito” e “fondo oneri” al momento attuale è discriminante per la deducibilità della corrispondente posta di conto economico (68). Probabilmente una linea da percorrere in futuro, per evitare di riversare sul piano fiscale le incertezze nella distinzione fra costi (deducibili) e accantonamenti (da riprendere a tassazione o comunque da dedurre secondo regole tributarie specifiche) potrebbe essere quella di differenziare tra “accantonamenti a fondo oneri”, rendendoli tutti deducibili (con derivazione piena anche per queste poste valutative) e “accantonamenti a fondo rischi” (69). Nel primo caso la passività è certa (al pari dei debiti) e le divergenze tra criteri contabili e fiscali potrebbero essere eliminate, perché caratterizzate solo da sfasamenti temporali tendenzialmente brevi, dopo i quali le differenze si riassorbono (70) (spesso la determinabilità che difetta nell’accantonamento al fondo oneri, rispetto al debito, arriva entro la preparazione del bilancio). Sono proprio i casi in cui a fine anno potrebbero determinarsi inutili equivoci e sottili distinzioni nelle appostazioni tra debiti e fondi con conseguenze fiscali potenzialmente rilevanti, riproponendo magari proprio su questo punto le defatiganti controversie sulla competenza che per anni hanno compromesso la serenità nei rapporti fra Fisco e imprese. Una previsione legislativa sarebbe qui necessaria perché al momento attuale le norme fiscali, nel selezionare gli accantonamenti deducibili da quelli che non lo sono, si riferiscono indifferentemente sia a fondi rischi (ad esempio, fondo svalutazione crediti) sia a fondi oneri (ad esempio, fondo per operazioni e concorsi a premio). Dunque, il divieto di deducibilità è collegato a qualsivoglia accantonamento diverso da quelli esplicitamente ammessi, siano essi riferiti a passività già certe (fondo oneri) o solo probabili (fondo rischi). In questo modo si supererebbero anche le incertezze, frequenti in queste ipotesi, circa la linea di confine tra costi e ricavi selezionabili e non ai fini

(66) Che, come noto, riguarda soli i debiti e dovrebbe essere presente già alla data di chiusura dell’esercizio. (67) Caso in cui a volte potrebbe capitare di riscontrare riclassificazioni da accantonamento a costo. (68) Costo o accantonamento. (69) Distinguendo dunque le passività certe da quelle solo probabili. (70) Al pari di quanto accade per l’imputazione di un costo tra due esercizi contigui.


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della formazione dell’imponibile. Se non si volesse introdurre una simile deducibilità per i fondi oneri, quantomeno si potrebbe considerare il termine di approvazione del bilancio come limite per la “determinazione attendibile” di costi e ricavi dell’esercizio in chiusura. Con ciò risolvendo i dubbi e le rigidità che hanno fino ad ora accompagnato il tema dei “fatti conosciuti dopo la chiusura del periodo d’imposta” di cui diremo subito. La linea di confine tra eventi considerabili e non considerabili risulta infatti spesso evanescente e fonte di inutili complicazioni per le imprese sul piano della determinazione del risultato fiscale. 5. I fatti conosciuti dopo la fine dell’esercizio: un criterio guida e alcune applicazioni concrete (sconti quantità, resi in fattura, premi ai dipendenti, etc.). – L’imputazione a periodo per le imposte sui redditi rileva infatti solo una volta l’anno, per determinare il reddito fiscale; a fine anno bisogna cioè registrare le operazioni in corso, per le quali il documento non è ancora redatto o pervenuto, ma si è verificata la “competenza temporale” e dunque anche il momento impositivo . Si considerino prima di tutto le fatture da ricevere e da emettere, a fronte di prestazioni economicamente già ricevute o rese. Si pensi poi ad un’ampia tipologia di situazioni più complesse in cui un determinato diritto o obbligo sorge prima della chiusura dell’esercizio (o comunque con riferimento a una data precedente) (71), ed è già conosciuto prima della redazione del bilancio: la selezione dei dati ai fini di un calcolo spesso complesso, materialmente e numericamente, avviene invece solo in un momento successivo, comunque prima della redazione del bilancio. Sul piano pratico, questi problemi sono risolti mediante la predisposizione di conti transitori che

(71) Si consideri il caso dei bonus ai dipendenti fatto nel paragrafo precedente, agganciato a condizioni verificatesi entro la fine del periodo d’imposta (quali, per esempio, la performance raggiunta a livello individuale) o ancora gli sconti determinati dal verificarsi di una condizione nel nuovo anno, ma riferibili economicamente già a una situazione precedente. Si pensi anche dal lato dei ricavi alla situazione di aziende che devono quantificare, in base a dati oggettivi legati alle medie storiche, i consumi di energia, gas e acqua alla fine di un certo esercizio, che a consuntivo potrebbero essere oggetto di parziale storno un tempo attraverso il meccanismo delle sopravvenienze, ora dei costi o ricavi della gestione corrente. L’atteggiamento nelle verifiche è stato spesso sul punto irragionevole addebitando al contribuente la violazione del principio della competenza e dell’autonomia dei periodi d’imposta, anche perché la stessa Amministrazione finanziaria aveva affermato più di una volta che l’obiettiva determinabilità era compatibile con un procedimento di stima fondato su elementi di valutazione obiettiva.


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si chiudono entro la data in cui il consiglio di amministrazione esamina il bilancio. Ritornando all’esempio del bonus, quando i criteri stabiliti per determinarli siano stati individuati entro la fine dell’anno e non presentino margini significativi di incertezza, il relativo costo deve considerarsi maturato nell’esercizio. È infatti in tale esercizio che l’impresa ha assunto in termini definitivi l’obbligo di corrisponderlo. Il fatto che la sua liquidazione avvenga materialmente nei primi mesi successivi dipende solo dalla necessità di determinare a consuntivo i valori rilevanti, e questa verifica non può che essere operata una volta concluso l’anno. Le informazioni successive permettono semplicemente la determinazione, dopo la data di chiusura dell’esercizio, del debito e del corrispondente costo dei servizi acquistati (prestazioni di lavoro) già esistenti al 31 dicembre (72). Si consideri anche il frequente caso degli sconti quantità sulle vendite di prodotti e il raggiungimento della soglia di rilevanza prefissata nel nuovo esercizio. Gli sconti sono riferibili economicamente in parte a vendite dell’esercizio precedente; esse hanno infatti contribuito a raggiungere la soglia richiesta al pari delle altre vendite dei mesi immediatamente successivi. L’accertamento del conseguimento di una determinata soglia di rilevanza (73) “scavalca” spesso l’anno di riferimento del bilancio (ossia prende in considerazione anche i 2 o 3 mesi successivi); dunque se si vuole c’è una sorta di elemento previsionale alla data di chiusura dell’esercizio. Ma è un’ipotesi ben diversa dalla definizione dell’importo di un fondo: lo sconto si riferisce infatti a un contratto definito, con aspetti quantitativi determinati o determinabili, ed è relativo a un rapporto specifico con un fornitore (cliente). Il raggiungimento della quantità nella nuova annualità, prima della formazione del bilancio, permette dunque di determinare meglio un credito già sorto all’atto delle vendite (ad esempio, a ottobre, novembre o dicembre) e di quantificare correttamente il ricavo di competenza (al netto dello sconto) dell’esercizio in chiusura. Coerentemente, analoga conclusione si può riproporre anche per il reso su una determinata operazione di vendita, che è di competenza dell’esercizio in cui si incardina la vendita cui si riferisce. Ancorché il reso si manifesti dopo la

(72) Si tratta in un certo senso di un elemento ratificativo successivo di un debito già esistente alla chiusura dell’esercizio. (73) Con la quale lo sconto viene acquisito a titolo definitivo.


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chiusura dell’esercizio in cui l’operazione ha avuto luogo (74), tale elemento non ha natura di fondo bensì di rettifica del ricavo e del corrispondente credito (75). In entrambi i casi (sconti quantità e resi in fattura) si tratta infatti di elementi che sono nel pieno controllo dell’impresa che effettua le rilevazioni in contabilità; le informazioni successive permettono la determinazione, dopo la data di chiusura dell’esercizio, del costo delle attività acquistate o del corrispettivo delle attività vendute nell’esercizio di riferimento. In linea generale, non sembrano esservi dubbi sul fatto che le informazioni da prendere in considerazione per il bilancio e la dichiarazione dei redditi possono essere materialmente ottenute dopo il 31 dicembre dell’anno d’imposta, ma devono riferirsi a fatti accaduti entro tale data. In linea di principio, si deve perciò tener conto di tutte le circostanze conosciute successivamente alla chiusura dell’esercizio, che si riferiscono a fatti concretatisi precedentemente. Occorrerà dunque esaminare, caso per caso, la circostanza da valutare e il momento in cui tale conoscenza è sopravvenuta per fare da discrimine tra eventi considerabili e non considerabili ai fini della formazione del bilancio. In linea pratica, il problema va risolto volta per volta considerando quali evidenze documentali esistono del momento in cui l’impresa è venuta a conoscenza dell’evento e anche le caratteristiche dell’evento da valutare in relazione alla routine amministrativa dell’impresa. Esistono infatti circostanze, come le quote di interessi maturate, i canoni di locazione, le merci consegnate e non fatturate, oggetto di indagini specifiche ai fini delle valutazioni di fine esercizio e che l’impresa aveva il dovere di conoscere. Quando si tratta invece di circostanze atipiche, come richieste di risarcimento danni da parte di terzi, è

(74) Ma prima della preparazione del relativo bilancio. (75) La fattispecie è infatti ben diversa dal caso del fondo resi contrattuale in cui vengono stanziati importi pari usualmente a una certa percentuale del fatturato. Questa percentuale, per quanto accurata sia, rimane una stima e rappresenta un fondo oneri per i principi contabili. Per rendere più immediata la differenza fra le due ipotesi, si pensi a una contestazione specifica di un cliente su una vendita dell’anno 1, con riconoscimento del reso nella fattura di vendita emessa nel primo mese del nuovo anno o in una specifica transazione prima della predisposizione del bilancio. Si tratta di una situazione già esistente a fine anno e nel pieno controllo dell’impresa che effettua la rilevazione. Anche qui a fare la differenza sono la specificità del rapporto commerciale e l’identificabilità della transazione. Lo stesso venditore potrebbe a quel punto aspettarsi che altri clienti possano sollevare analoghe contestazioni, ad esempio per una partita di merci probabilmente difettosa, e decidere di appostare un fondo resi. Per quanto la stima possa essere accurata, questa posta rimarrebbe un fondo e l’accantonamento sarebbe fiscalmente indeducibile.


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più ragionevole far riferimento agli input forniti dalla controparte ed escludere qualsiasi obbligo di investigazione da parte dell’impresa. Non possono invece influire sulla determinazione del reddito, gli accadimenti aziendali che alla chiusura dell’esercizio non solo non sono noti, ma non sono neppure intervenuti. Determinante è quindi l’esistenza o meno, alla chiusura dell’esercizio, della “situazione” presupposta dall’informazione sopravvenuta. Si deve trattare di una cessione o di una prestazione che l’impresa ha già ricevuto, e che alla data di riferimento del bilancio (31 dicembre) era già determinabile (76), ovvero era nel pieno controllo dell’impresa (77). Non si possono invece utilizzare eventi successivi per modificare la qualificazione e la classificazione di una posta (ad esempio, riclassificandola da accantonamento a costo). I principi contabili sono chiari in questo senso: la natura di fondo o di debito si deve valutare alla data di riferimento del bilancio. Un evento successivo può al più contribuire a determinare la quantificazione o la valutazione, che si modificano a quel punto in ragione delle nuove informazioni ricevute, senza però poter riqualificare la natura della voce alla chiusura dell’esercizio. 6. I riflessi in materia di errori sulla competenza. – L’imputazione dei costi e dei ricavi secondo il principio di competenza sconta più in generale il rischio che, alla luce di eventi successivi, i costi e i ricavi contabilizzati e tassati per competenza vengano poi effettivamente conseguiti per importi inferiori o superiori (78). Il presupposto della rettifica non è in questo caso

(76) Anche se la sua quantificazione può avvenire successivamente, prima del bilancio. (77) È quel che accade nei casi degli sconti e dei resi in fattura proposti poco sopra nel testo. Nelle situazioni descritte si tratta sempre di elementi che sono nel pieno controllo dell’impresa che effettua le rilevazioni in contabilità; le informazioni successive – lo ripetiamo – permettono solo la migliore determinazione, dopo la data di chiusura dell’esercizio, del costo delle attività acquistate o del corrispettivo delle attività vendute nell’esercizio di riferimento. (78) Si veda anche, sul punto, Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 622623, dove si osserva come “l’adozione del principio in esame [principio di competenza, n.d.r.] sconti l’eventualità che l’esito finale dell’operazione si riveli successivamente diverso, rispetto a quello considerato ai fini dell’imposizione, in conseguenza del verificarsi di eventi che aumentano o diminuiscono costi e ricavi effettivi. Orbene, ove ciò si verifichi, l’autonomia che caratterizza la rilevazione e il trattamento giuridico dei risultati reddituali nei diversi esercizi impedisce di modificare direttamente il risultato assunto a tassazione nel periodo passato e già chiuso. Talché l’unica strada percorribile (...) diventa quella di imputare le stesse al periodo in cui si determinano, conferendo loro veste e regime di autonoma e distinta componente reddituale, ossia e per l’appunto quella di sopravvenienza. (...) dunque, sul piano fiscale, la


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un’“erronea rappresentazione”, ma una “migliore approssimazione” del risultato di esercizio sulla base di eventi intervenuti dopo la chiusura del periodo d’imposta di competenza o, al limite, intervenuti prima ma conosciuti, e conoscibili con l’ordinaria diligenza, solo dopo. Altra cosa sono invece gli errori nell’imputazione dei ricavi o dei costi al periodo di competenza, quando la “sovrastima” o la “sottostima” del reddito di un esercizio sottende in realtà una violazione delle regole sulla competenza. In questo caso non si tratta di semplici aggiustamenti nelle rilevazioni di un credito o di un debito ma di veri e propri errori, e occorre distinguere il piano tributario da quello contabile perché, come vedremo, per quest’ultimo sono in genere sufficienti le rilevazioni nell’anno in cui si scopre l’errore. Questo consente di tracciare un discrimine sul piano tributario rispetto a istituti fiscali apparentemente fungibili con quello delle sopravvenienze. Il riferimento è alla possibilità di operare rettifiche alla dichiarazione dei redditi a seguito della scoperta di “scorrette” rappresentazioni dei fatti o di improprie qualificazioni giuridiche attribuite a quei fatti. È il tema delle rettifiche sull’imputazione a periodo, il primo su cui si è storicamente indirizzata la rettifica di vicende dichiarate. La gestione “seriale”, ripetitiva, di migliaia di documenti contabili comporta la possibilità di errori, sia materiali, sia giuridico-valutativi (79). I primi sono dovuti a una disattenzione materiale su passaggi automatici in cui, ad esempio, si registra due volte una stessa fattura, attiva o passiva, o non la si registra affatto o la si registra per importi diversi. Certo i vecchi errori di calcolo sono ormai superati dagli strumenti tecnologici, ma rimangono gli errori dovuti alla distrazione nell’input dei dati, come la digitazione di una cifra errata, oppure lo storno di una registrazione mai effettuata (80), oppure una fattura che viene registrata due volte, o non viene registrata mai, pensando di averlo già fatto (81). Nell’emissione e nella registrazione dei documenti possono in-

sopravvenienza costituisce lo strumento per dare rilievo a variazioni intervenute su pregresse rilevazioni contabili di singole componenti di reddito, dovute al verificarsi di eventi modificativi straordinari o comunque imprevedibili”. In termini analoghi Potito, Il sistema delle imposte dirette, Milano, 1989, 223, per il quale le “sopravvenienze passive sono costituite, al pari di quelle attive, da eventi straordinari ed imprevedibili che si verificano in esercizi successivi a quelli in cui sono stati rilevati i componenti positivi o negativi di cui le sopravvenienze stesse costituiscono una rettifica”. (79) Può trattarsi infine anche di tentativi dolosi di manomettere le registrazioni. (80) E quindi – pensando di correggere un errore – lo si commette. (81) Magari perché la fattura è rimasta in qualche cassetto e il debito non è stato


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somma essere commessi errori, comprensibili vista la serialità delle procedure e il gran numero delle operazioni da formalizzare. Se l’errore è rilevato in una fase iniziale, prima che i documenti vengano spediti alle controparti o registrati contabilmente, è possibile semplicemente annullare l’operazione e ripeterla. Se invece esistono già dei riscontri contabili dell’errore, all’interno della contabilità o presso quella delle controparti, occorre “stornare” il documento erroneo (o la registrazione erronea) con una registrazione correttiva uguale e contraria; in questo modo è possibile, con trasparenza amministrativa, vedere sia l’errore, sia la sua correzione. Ci sono poi gli errori interpretativi su vicende correttamente rilevate in contabilità cronologica, ed erroneamente valutate come, ad esempio, la deduzione dei costi in base al documento del fornitore, anche se riferiti a consegne avvenute nell’anno precedente per rimanere alla competenza esterna (82), ma anche la immediata deduzione di beni ammortizzabili superiori alla soglia di 516 euro, oppure la mancata patrimonializzazione di beni che costituivano rimanenze (83). Al riguardo i principi contabili, nazionali e internazionali, mettono tutti gli errori sullo stesso piano e notoriamente prescrivono la correzione degli errori nel momento in cui questi vengono rilevati. L’unica eccezione è quella in cui l’errore è macroscopico e talmente rilevante da far perdere significatività al bilancio. La riapprovazione del bilancio può rendersi necessaria per reintegrare i diritti di coloro che potevano essere stati lesi dal bilancio erroneo. Errori che possono giustificare la riapprovazione del bilancio sono, ad esempio, quelli che hanno costretto i soci ad una ricapitalizzazione, a portare i libri in tribunale, a estromettere un socio che non poteva sottoscrivere la ricapitalizzazione (84), e via enumerando.

registrato. (82) Naturalmente ora solo per le microimprese. (83) Tra i due concetti (errori valutativi ed errori materiali) può esserci in qualche caso una zona di confine meno precisa, perché anche errori di diritto possono essere dovuti a sfasamenti procedurali ed equivoci nella gestione “seriale”, ripetitiva, di migliaia di documenti, tipica della gestione aziendale. (84) Dunque, se non si è rilevato un ingente ricavo, nel momento in cui ci si accorge dell’omissione è legittimo riapprovare il bilancio per riammettere il socio estromesso Più dubbio è invece il caso dell’omessa rilevazione di un ricavo che abbia notevolmente “depresso” il dividendo distribuito in un anno: in questa ipotesi non sembrano esserci situazioni da riparare e si potrebbe semplicemente aumentare il dividendo dell’anno in cui l’errore è scoperto, senza necessità di riapprovare il bilancio.


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Al di fuori di questi casi di gravissimo errore contabile, rincorrere il bilancio dell’anno di competenza è un controsenso contabile, e la logica (oltre che i principi contabili) conferma la necessità di agire sui bilanci degli anni successivi, facendo leva sulla contropartita patrimoniale dell’errore, che in un sistema contabile di partita doppia, cioè bilanciante, è presente per definizione. Dato che le voci di conto economico si esauriscono, ma quelle patrimoniali si trascinano e fungono da cinghia di trasmissione tra i vari esercizi, se una rilevazione contabile con impatto economico è errata, la correzione passa per l’inserimento/eliminazione di una contropartita patrimoniale. La contropartita per un errore sulla competenza è l’eliminazione di un credito o di un debito o il ripristino dei corretti importi di debiti per fatture da ricevere o di crediti verso clienti. Quindi, ciò correttamente comporta la rilevazione di una sopravvenienza (ora semplicemente di un costo o di un ricavo) nell’anno in cui è stato rilevato l’errore. Per gli errori non significativi, c’è da chiedersi se le poste contabili inserite a conto economico possano ora essere considerate come veri e propri costi e ricavi d’esercizio e assunte, in quanto tali, nel momento in cui interessano il conto economico. Questa è la loro “classificazione” contabile e la loro imputazione temporale, rilevante ora anche ai fini fiscali. Se così fosse, non sarebbe più necessaria la correzione dell’errore sul piano tributario, con i consueti strumenti della rettifica della dichiarazione, dell’istanza di rimborso, e simili. Del resto, se il bilancio è considerato non conforme ai principi contabili quando contiene errori “rilevanti”, si può desumere che invece lo sia se contiene errori “non significativi”. La determinazione fiscale del reddito, che parte dalla contabilità e la assume come proprio dato in materia di imputazione temporale, presupporrebbe insomma la competenza nell’anno di rilevazione dell’errore. Il punto però è che – a ben vedere – il bilancio contiene comunque degli errori (nel caso che ci riguarda, di imputazione temporale), e tali rimangono anche ai sensi dei principi contabili. Solo, non occorre più effettuare una rilevazione specifica nell’area straordinaria (ora eliminata), né riapprovare il bilancio dell’esercizio di competenza perché si tratta di errori che non hanno effetti “significativi”. Ma sempre di errori si tratta. Il fatto insomma che la tecnica contabile, per la scarsa significatività dell’errore, richieda solo la rilevazione di un costo o di un ricavo nell’esercizio di scoperta dell’errore (85), non sposta la circostanza che si tratti di un

(85)

E non una ricostruzione del reddito dell’esercizio di corretta competenza.


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costo o di un ricavo fuori competenza anche per la contabilità, e dunque per il Fisco. La rilevazione dell’errore come normale costo o ricavo di esercizio non può cioè servire a superare una violazione del criterio di competenza economica, aggregando al reddito di un periodo elementi che in base al criterio in questione avrebbero dovuto partecipare alla formazione del reddito in un periodo precedente. L’omessa rilevazione per competenza di un ricavo o l’erronea rilevazione di un costo non ha determinato “torti” da riparare sul piano del bilancio, e si può semplicemente aumentare l’utile e magari il dividendo dell’anno in cui l’errore è scoperto, senza necessità di riapprovare il bilancio. Ma sul piano tributario l’errore rimane e la tecnica del ricavo o del costo di periodo, come in precedenza della sopravvenienza, appare fiscalmente discutibile (86). Il tempo dell’imposizione non è infatti indifferente anche se si tratta di aspetti ben diversi dell’evasione, in quanto gli errori sulla competenza determinano semplici spostamenti di materia imponibile da un anno ad un altro. È evidente però che il concorso alle spese pubbliche deve avere una certa continuità a fronte di spese che ogni anno devono essere soddisfatte. Inoltre, l’errore può avere effetti legati al momento dell’imposizione anche su piani diversi dal semplice pagamento dell’imposta nell’anno di competenza, aspetti di cui i principi contabili giustamente si disinteressano. Si pensi alle ricadute su norme procedurali (indici di affidabilità fiscale, applicabilità della contabilità semplificata) o sui plafond che si riferiscono a ricavi, come accade per le spese di rappresentanza o alcune liberalità deducibili. Questa conclusione per errori materiali che interessano già le registrazioni contabili deve essere a maggior ragione tenuta ferma anche per vicende correttamente rilevate in contabilità cronologica ma erroneamente valutate, come ad esempio la immediata deduzione di beni ammortizzabili superiori alla soglia. Non è semplicemente questione di paventare anarchia nella distribuzione degli elementi reddituali, anche perché spesso gli errori fisiologici potrebbero controbilanciarsi. Una soluzione diversa, oltre a non rispettare il tempo dell’imposizione secondo la cadenza dei periodi d’imposta, scontereb-

(86) Questa era la soluzione cui eravamo pervenuti anche in un precedente volume dedicato alla fiscalità dei principi contabili internazionali (Aa.Vv., La fiscalità degli IAS, cit.) e ora riteniamo si debba estendere ai soggetti OIC. La stessa Agenzia delle Entrate nella circ. 28 febbraio 2011, n. 7/E sugli IAS aveva seguito questa impostazione.


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be la difficoltà di distinguere gli errori in buona fede dalle mancate (o erronee) registrazioni premeditate (87). Dunque, essenziale per la rilevanza (anche) fiscale, nell’esercizio di rilevazione in bilancio, di componenti reddituali di rettifica è la non prevedibilità nell’esercizio di teorica competenza. Deve cioè trattarsi di cause estranee al soggetto passivo d’imposta che a quello stadio (chiusura del periodo di competenza) aveva congruamente valutato nella quantificazione del reddito gli elementi conosciuti o conoscibili con l’ordinaria diligenza. Di qui la giustificazione del rinvio (anche) fiscale di queste componenti agli esercizi successivi quando gli elementi per individuarle, o per una loro migliore approssimazione, si verificano. Il presupposto della rilevazione contabile non è infatti in questo caso la rettifica rispetto a un’erronea rappresentazione, ma una “migliore approssimazione” sulla base di eventi accaduti dopo la chiusura del periodo d’imposta di competenza o, al limite, accaduti prima ma conosciuti, e conoscibili con l’ordinaria diligenza, solo dopo. In questi casi, la determinazione del reddito imponibile di un periodo già chiuso non deve essere rimessa in discussione perché il reddito era stato, alla stregua dei fatti di cui l’impresa aveva percezione in quel momento, correttamente quantificato. La espressa previsione tributaria dell’istituto delle sopravvenienze conferma in tali ipotesi l’intangibilità del risultato reddituale dell’esercizio, che non deve risentire di vicende modificative sopravvenute e imprevedibili al momento in cui la componente reddituale è imputata e tassata (o dedotta) per competenza. Quando invece la rilevazione in rettifica in bilancio deriva da un errato apprezzamento della competenza, le componenti reddituali appostate nei bilanci OIC e IAS (ora nella veste di costi e ricavi ordinari d’esercizio) non possono porre rimedio sul piano tributario alla violazione delle regole di imputazione temporale. Mentre gli IAS, come del resto i principi nazionali, si accontentano di una rilevazione nell’esercizio di scoperta dell’errore, sul piano tributario occorrerà accedere agli istituti previsti per le rettifiche della dichiarazione dei redditi (88), sia per errori sul fatto che per errori di diritto. Quanto sopra può

(87) In senso contrario, S. Covino - Gargiulo - Lupi, Quale imputazione a periodo per la correzione di errori contabili?, in Dialoghi tributari, 2011, 6, 619, ss. (88) Per essere più chiari, se l’impresa, per un errore materiale, contabilizzasse un ricavo per 100 anziché per 10, oppure imputasse, nella prossimità della chiusura del periodo d’imposta, un ricavo per la cessione di un bene prima di aver proceduto alla sua consegna


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infatti anche aver provocato dichiarazioni tributarie erronee, per eccesso o per difetto, e la correzione della dichiarazione dei redditi riflette la diversa rilevanza del periodo d’imposta ai fini dei redditi dell’azienda (89). A sua volta, l’Amministrazione finanziaria potrà contestare l’omessa indicazione di un ricavo o la deduzione di un costo solo con riferimento al periodo di imposta di corretta competenza, e nel rispetto dei termini per l’accertamento. 7. Una riflessione conclusiva. – Fino a pochi anni or sono, i criteri di imputazione a periodo dei rapporti con terzi, cd. “competenza esterna”, erano regolati esclusivamente dalla legislazione tributaria, come pure i criteri di valutazione degli elementi patrimoniali, cd. “competenza interna” (ammortamenti, accantonamenti, rimanenze, etc.). Ove nel bilancio si fossero adottati criteri diversi, si sarebbero dovuti dunque modificare utilizzando quelli tributari, effettuando le “variazioni” in dichiarazione. La giustificazione dell’autonomia dei criteri tributari era quella di avere regole fiscali specifiche, meno precise, anche più “grossolane”, ma comunque più univoche, in nome della certezza e della stabilità dei rapporti. L’esistenza di regole fiscali separate da quelle civilistiche, spesso poco raffinate rispetto alla logica economica e contabile, ma relativamente univoche rispetto ai principi contabili, hanno in effetti probabilmente fornito qual-

o spedizione (violando così la regola contabile e per le microimprese l’art. 109 TUIR), e si accorgesse in seguito dell’errore commesso, non potrebbe iscrivere una sopravvenienza passiva deducibile nel periodo di imposta successivo (in cui, nel secondo esempio, assumiamo avvenuta la consegna del bene), ma dovrebbe (ferma restando la necessità di tassare “nuovamente” il ricavo nel periodo di competenza) rettificare la dichiarazione dei redditi già presentata, facendo valere l’errore commesso, e recupere l’imposta versata in eccesso. In tal caso, appunto, non si tratterebbe di tenere conto di un evento sopravvenuto alla chiusura del periodo di imposta, ma della presa d’atto di un “errore” nel calcolo del reddito imponibile, errore che, con la dovuta diligenza, non sarebbe stato commesso. (89) Per l’IVA e le ritenute, per cui manca un periodo d’imposta in senso tecnico, si effettueranno gli adempimenti omessi, cioè la fatturazione e le ritenute, quando vengono rilevati gli errori riducendo le sanzioni attraverso l’istituto del ravvedimento operoso. Oppure per le rettifiche di errori a proprio favore quando un’operazione va eliminata, perché fatturata erroneamente o perché il corrispettivo pattuito era inferiore a quello fatturato, senza cancellare il documento originale, lo si corregge con un documento di segno contrario, denominato nella prassi aziendale “nota di credito”: la fattura comporta infatti, nella contabilità del fornitore, un addebito al cliente, cui si dà invece “credito” annullando la fattura; ovvero per le ritenute si presenteranno istanze di rimborso, quando la correzione deriva ad esempio da un cambio di interpretazione amministrativa o comunque da un quadro giuridico diverso da quello considerato originariamente dal contribuente.


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che garanzia in più rispetto a quanto sarebbe accaduto se gli Uffici tributari avessero potuto reinterpretare i criteri civilistici. Malgrado queste cautele, le contestazioni interpretative sulla competenza “esterna” ed “interna” sono state tuttavia numerosissime. Anzi l’esistenza di regole fiscali separate da quelle civilistiche è stata di per sé stessa – e forse principalmente – causa e fonte di innesco delle contestazioni. Norme tributarie formalistiche e forfetarie redatte con l’obiettivo di dare certezza hanno in realtà fornito il contesto per rettifiche che si sono basate spesso e volentieri su cavilli e interpretazioni formalistiche. Le regole fiscali autonome non hanno dunque davvero portato certezza e stabilità dei rapporti tributari. Queste sono sicuramente meno controvertibili rispetto ai principi contabili, ma la loro autonomia è un elemento che ha spinto a contestazioni fiscali sempre più artificiose, su questioni che comportano un mero sfasamento nella collocazione temporale degli imponibili dichiarati. Ed ha ostacolato la comprensione della scarsa importanza sostanziale delle rettifiche sulle valutazioni e l’imputazione a periodo rispetto all’azione di controllo demandata al Fisco. Le pretese violazioni dei criteri di competenza, assieme all’abuso del diritto, sono state le principali modalità per formulare qualche rettifica a seguito di verifiche fiscali svolte senza alcun indizio specifico di evasione, né alcuna attività preventiva di intelligence sulle aree dove verosimilmente potrebbe celarsi capacità contributiva nascosta. Abbiamo visto in questo saggio che il rinvio alle regole contabili per la competenza esterna si è reso necessario per superare la qualificazione giuridico-formale “presupposta” dalle disposizioni del TUIR in favore di una qualificazione “economico-sostanziale”, che è oramai alla base della rilevazione degli eventi aziendali nei bilanci. Ma – aggiungiamo ora – è anche un segnale importante di quanto negli ultimi anni si stia comprendendo finalmente la natura sostanzialmente “formale” di queste violazioni, che si limitano al più a spostare materia imponibile da un esercizio all’altro. Nel solco di una disposizione che molti anni fa sancì la non punibilità degli errori sulla competenza (art. 6 D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472), stabilendo che «le rilevazioni eseguite nel rispetto della continuità dei valori di bilancio e secondo corretti criteri contabili e le valutazioni eseguite secondo corretti criteri di stima non danno luogo a violazioni punibili». Questo dato normativo, pressoché ignorato in sede di controllo (90), consente agli Uffici di non applicare sanzioni quando

(90) Riferisce l’esimente anche al caso della competenza fiscale la circ. min. 10.7.98 n. 180/E, sub art. 6, ma la prassi successiva ha di fatto sconfessato questa posizione, considerando


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Parte prima

il contribuente abbia seguito un criterio di imputazione a periodo provvisto di ragionevoli fondamenti economico-contabili. Insomma, se sono ragionevoli e fondati sul piano dei principi contabili, tutti i criteri dovrebbero andar bene sotto il profilo sanzionatorio. La disposizione dovrebbe regolare la generalità dei problemi di imputazione a periodo, occasionali o continuativi che siano, anche se la formulazione appare poco felice riferendosi alle valutazioni (91) e presupponendo la continuità delle situazioni contabili (92).

comunque applicabile la sanzione per dichiarazione infedele. Anche la Corte di Cassazione ha adottato una interpretazione restrittiva della disposizione: si veda in particolare Cass. 13 settembre 2013, n. 20975 ove si sostiene che l’esimente si applicherebbe esclusivamente a questioni caratterizzate da incertezza (tra criterio di contabile e regola fiscale), condizione che la legge non prevede affatto. Interessante una sentenza della commissione regionale del Piemonte (10 luglio 2014, n. 913/22/14) che la riferisce anche alle questioni di competenza esterna e riconosce che “la violazione consistente nella inosservanza del principio della competenza temporale nella determinazione del reddito di esercizio fiscalmente tassabile ovvero l’errata imputazione di costi ad un esercizio piuttosto che ad un altro non è suscettibile di punibilità ove siano stati applicati corretti principi contabili come previsto dall’art. 6 del DLgs. n. 472/1997”. In dottrina, la disposizione è valutata con favore, quantomeno per le valutazioni patrimoniali (in quanto componenti “per definizione opinabili”), da Tosi, Profili soggettivi della disciplina delle sanzioni tributarie, in Rass trib., 5, 1999, 1328; mentre sono critici Miccinesi, in La riforma delle sanzioni tributarie (a cura di Tabet), Torino, 2000, 41 e Del Federico, Cause di non punibilità in tema di illecito amministrativo e tributario, in Corr. Trib., 2002, 30, 2749, perché i criteri di determinazione del reddito d’impresa sarebbero di fatto vanificati e l’esimente rischierebbe di lasciare spazio ad abusi nella pianificazione fiscale degli imponibili. (91) Il dato normativo si occupa letteralmente solo delle conseguenze delle rettifiche riguardanti «le valutazioni», abbracciando quindi sicuramente rimanenze, crediti, ammortamenti, accantonamenti, etc. Analoga espressione è utilizzata nell’art. 110, comma 8, TUIR a proposito dell’obbligo di riliquidazione delle imposte in capo agli Uffici finanziari. Mi pare tuttavia ragionevole sostenere che in entrambi i casi il termine «valutazioni» dovrebbe essere inteso in senso ampio fino a ricomprendere qualsiasi questione di ripartizione degli elementi reddituali tra i vari esercizi sociali, comprese anche le questioni riguardanti la competenza temporale di costi e ricavi a cavallo di due periodi d’imposta. Una interpretazione restrittiva tesa ad escludere l’applicabilità delle due disposizioni alle rettifiche concernenti la competenza esterna non ha giustificazioni concettuali. (92) Più che il rispetto della continuità dei valori di bilancio della quale sovente mancano i presupposti, si dovrebbe richiedere chiaramente la non contraddizione fra i metodi di impostazione contabile; cioè che, in presenza di situazioni corrispondenti, il contribuente si sia sempre comportato nello stesso modo; se la situazione non si ripete nel tempo, basta invece sia ragionevole il comportamento utilizzato nel caso singolo: insomma, la continuità dovrebbe essere intesa come un requisito ulteriore, riferito ai soli comportamenti ripetitivi nel corso degli anni, ma non impedirebbe l’applicabilità della scriminante alle operazioni occasionali. Ed invero, l’espressione “rilevazioni eseguite secondo corretti criteri contabili” non necessariamente collegati alla “continuità dei valori di bilancio”, consente un’interpretazione adeguatrice della disposizione alla sostanza degli eventi che si hanno di fronte.


Dottrina

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Orbene, abbandonare anche per i soggetti OIC i criteri di trasferimento della proprietà, consegna, spedizione, certezza giuridica e oggettiva determinabilità, etc., può essere visto allora anche in un’ottica di sdrammatizzazione delle questioni di competenza. Negli ultimi anni le contestazioni sulla competenza sono in effetti diminuite e i rilievi sulla competenza sembrano finalmente in ribasso, anche grazie al ricordato meccanismo di reimpostazione degli imponibili (93). Nella considerazione dei vertici dell’Agenzia delle Entrate e degli operatori, appaiono sempre più come un fastidioso minuetto, anche quando sono condivisibili. Tuttavia, negli Uffici periferici sono ancora molto diffusi, e la Cassazione continua a uscire con sentenze sull’argomento sostenendo che “il contribuente non può dedurre i costi o tassare i ricavi a piacimento”. Il rinvio ai criteri contabili sulla competenza esterna può essere quindi un ulteriore passo in avanti nella prospettiva di rasserenare una serie di tematiche di imputazione a periodo e più in generale di rilievi sul regime giuridico del reddito dichiarato che gli organi di controllo (amministrativi e giurisdizionali) dovrebbero cominciare a cogliere.

Francesco Crovato

(93) Finalmente, anche se si poteva fare di più, nella riforma del sistema sanzionatorio (D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158) la sanzione per infedele dichiarazione per le violazioni sulla competenza fiscale di costi e ricavi è stata ridotta di 1/3, purché il componente positivo abbia già concorso alla determinazione del reddito nell’annualità in cui interviene l’attività di accertamento o in una precedente. E se non vi è alcun danno per l’Erario, la sanzione è pari a 250 euro, riconoscendo dunque che non vi è alcun motivo di equiparare queste situazioni ad un’evasione come avvenuto fino ad ora.



Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Cass., Sez. V civ., sentenza 12 aprile 2019 - 22 maggio 2019, n. 13793; Pres. De Masi, rel. Caprioli; Cass., Sez. V civ., 18 giugno 2019 - 20 dicembre 2019, n. 34243; Pres. Zoso, rel. Taddei Contratto di leasing immobiliare – risoluzione anticipata del contratto – Imposta Municipale Propria (IMU) – soggetto passivo del tributo – rilevanza della restituzione dell’immobile. In tema di “leasing”, tenendo conto del disposto dell’art. 9 del d.lgs. n. 23 del 2011, il soggetto passivo dell’IMU, nell’ipotesi di risoluzione del contratto, è il locatore, anche se non ha ancora acquisito la materiale disponibilità del bene per mancata riconsegna da parte dell’utilizzatore, in quanto ad assumere rilevanza ai fini impositivi non è la detenzione materiale del bene da parte di quest’ultimo, bensì l’esistenza di un vincolo contrattuale che ne legittima la detenzione qualificata.

Cass., Sez. V civ., sentenza 2 aprile 2019 – 17 luglio 2019, n. 19166; Pres. Di Iasi, rel. Penta Contratto di leasing immobiliare – risoluzione anticipata del contratto – Imposta Municipale Propria (IMU) – soggetto passivo del tributo – rilevanza della restituzione dell’immobile. In tema di IMU, nel caso di immobile concesso in “leasing”, il soggetto passivo dell’imposta, ai sensi dell’art. 9 d. lgs. n. 23 del 2011, è l’utilizzatore essendo a costui attribuiti in via esclusiva dal contratto i benefici, gli obblighi e gli oneri normalmente spettanti al proprietario del bene, e permanendo tale situazione invariata – in forza del principio di ultrattività del contratto – anche a seguito di risoluzione anticipata fino alla riconsegna dell’immobile.

Cass., Sez. V civ., sentenza 3 luglio 2019 - 9 ottobre 2019, n. 25249; Pres. Chindemi, rel. Russo


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Parte seconda

Contratto di leasing immobiliare – risoluzione anticipata del contratto – Imposta Municipale Propria (IMU) – soggetto passivo del tributo – rilevanza della restituzione dell’immobile. In tema di Imu, nel caso di locazione finanziaria, l’art. 9 del D. Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, individua nel locatario il soggetto passivo, a decorrere dalla data di stipula e per tutta la durata del contratto, derivandone, qualora il contratto di leasing sia risolto, che il locatore ritorna ad essere soggetto passivo, anche se l’immobile non sia stato restituito.

Cass., Sez. V civ., sentenza 11 settembre 2019 - 19 novembre 2019, n. 29973; Pres. Chindemi, rel. Balsamo Contratto di leasing immobiliare – risoluzione anticipata del contratto – Imposta Municipale Propria (IMU) – soggetto passivo del tributo – rilevanza della restituzione dell’immobile. In base al disposto di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 23 del 2011, il soggetto passivo dell’imposta municipale unica (IMU), in caso di risoluzione del contratto di “leasing”, torna ad essere il locatore, ancorché non abbia ancora acquisito la materiale disponibilità del bene per mancata riconsegna da parte del locatario, in quanto, ai fini impositivi, assume rilevanza non tanto la detenzione materiale del bene, bensì l’esistenza di un vincolo contrattuale che legittima la detenzione qualificata, conferendo la stessa la titolarità di diritti opponibili “erga omnes”, la quale permane fintantoché è in vita il rapporto giuridico, traducendosi invece in mera detenzione senza titolo in seguito al suo venir meno, senza che rilevi, in senso contrario, la disciplina in tema di Tributo per i servizi indivisibili (TASI), dovuta viceversa dall’affittuario fino alla riconsegna del bene, in quanto avente presupposto impositivo del tutto differente.

Le incertezze della Corte di Cassazione in merito all’individuazione del soggetto passivo dell’IMU nel caso di risoluzione anticipata del contratto di leasing. Negli ultimi due anni è sorto un contrasto radicale nella giurisprudenza di legittimità a proposito del soggetto tenuto al pagamento dell’IMU nell’ipotesi di risoluzione anticipata del contratto di leasing immobiliare. Tra le due tesi manifestatesi in giurisprudenza – rispettivamente favorevoli ad individuare il soggetto passivo nel locatario oppure nella società di leasing – la divergenza riguarda sostanzialmente la rilevanza riconosciuta alla restituzione o meno dell’immobile a seguito della risoluzione del contratto. In questa prospettiva l’autore ritiene che la mancata restituzione del bene non sia un elemento irrilevante da subordinare alla risoluzione del contratto, pervenendo alla conclusione che la soggettività passiva resti in capo al locatario in forza dei principi generali desumibili


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dalla disciplina del presupposto che sono razionalmente coordinabili con le indicazioni della giurisprudenza della Corte di Cassazione sugli effetti conseguenti alla risoluzione del contratto di leasing. In the last two years a deeply contrast has arisen in the jurisprudence of the Italian Supreme Court about the person required to pay IMU (“real estate local tax”) in the case of an early termination of the real estate leasing contract. Between the two guidelines – respectively in favour of identifying the taxable person in the lessee or in the leasing company – the difference relates substantially to the importance of the return of the property to following the termination of the contract. In this perspective, the author considers that the failure to return is not an irrelevant element to be subordinated to the termination of the contract, coming to the conclusion that the taxable person is always the lessee, according to the general principles of the tax assumption which are rationally coordinated with the guidelines of the Italian Supreme Court on the effects of the contract’s termination.

Purtroppo la nostra materia talvolta si caratterizza per vicende rispetto alle quali in poco più di due pagine di motivazione si provano a scalfire soluzioni acquisite dopo lunghi percorsi di avvicinamento fondati su un numero esagerato di precedenti di merito e sull’avallo della Corte di Cassazione che sembrava aver risolto definitivamente una questione sorta in molte aree del Paese. Spiace dover sottolineare che a riesumare i dubbi sia stata proprio la Corte di Cassazione in quanto a distanza di due mesi si è pronunciata in senso diametralmente opposto sulla soggettività passiva ai fini IMU nel caso di risoluzione anticipata del contratto di leasing immobiliare con due sentenze che, già ad una prima lettura, non sono nemmeno lontanamente assimilabili sul piano argomentativo (1). In particolare, inizialmente la Suprema Corte si è espressa in modo sbrigativo sulla base di una interpretazione dell’art. 9 del D. Lgs. n. 23 del 14 marzo 2011 asistematica ed avulsa dagli aspetti di natura civilistica oltre a trascurare le

(1) In particolare, si tratta delle sentenze n. 13973 del 12 aprile 2019 e n. 19166 del 2 aprile 2019. La prima sentenza è stata commentata favorevolmente da G. Ragucci, La Corte di Cassazione si pronuncia sulla vexata quaestio dell’IMU dovuta dopo la risoluzione anticipata del contratto, in Riv. dir. trib. on line del 17 luglio 2019, entrambe sono state annotate, con analoga impostazione, da P. Antonini-C. Miglio, Soggettività passiva IMU e mancata restituzione dell’immobile in leasing: approdo “incerto” in Cassazione, in Corr. Trib., 2019, 893, mentre ha manifestato convinta adesione alla seconda sentenza G. Corasaniti, Riflessioni (tra norme e principi di diritto civile e diritto tributario) a margine di due recenti (e contrastanti) pronunce della Suprema Corte sulla controversa soggettività passiva ai IMU nel leasing immobiliare, in Dir. e prat. trib., 2019, II, 2163.


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Parte seconda

implicazioni derivanti dalla natura del tributo. Tuttavia, nonostante due giudici facessero parte di entrambi i collegi, è intervenuta repentinamente una nuova decisione che ha risolto la questione con una motivazione ineccepibile, dando preliminarmente conto degli indirizzi della giurisprudenza di merito per poi enunciare la soluzione preferita sulla base dei principi generali del presupposto del tributo e delle regole sostanziali che impongono di precisare gli effetti della risoluzione del contratto in ragione della riconsegna o meno dell’immobile. Per questa ragione occorre confrontare gli impianti argomentativi delle due sentenze iniziali e di quelle sopraggiunte in seguito non senza aver prima precisato una questione di metodo. Come vedremo in seguito la controversia è condizionata da almeno due profili di natura civilistica (la nozione di “possesso” per definire l’ambito soggettivo del presupposto e gli effetti a carico dell’utilizzatore inadempiente nell’ipotesi di risoluzione anticipata del contratto di leasing non assistita dalla restituzione del bene) sicché la norma fiscale può assumere un significato diverso e produrre effetti opposti in ragione delle indicazioni provenienti dalla disciplina sostanziale. In questa prospettiva, quindi, il metodo di ricerca è influenzato dai criteri interpretativi e dalla possibilità di integrare la norma tributaria non autosufficiente (o ambigua) che assume o presuppone termini e fattispecie disciplinati in altri settori del diritto; com’è noto, si tratta di un tema di teoria generale complesso e di antica tradizione, tornato alla ribalta nell’ultimo periodo nell’ambito degli studi sull’autonomia del diritto tributario (2), a proposito del quale recentemente abbiamo ribadito la convinzione che l’autonomia della nostra materia non la renda ontologicamente peculiare rispetto alle altre discipline giuridiche (al punto che i relativi principi sarebbero destinati a prevalere in ogni caso con il limite della ragionevolezza) e non determini una chiusura pregiudiziale rispetto alle indicazioni desumibili dagli settori dell’ordinamento ma, anzi, è necessario riferirsi ad esse per assicurare la conformità del sistema di diritto positivo ai principi generali del diritto tributario (costituzionali e non), la razionalità dell’imposizione, la certezza del diritto e l’unità dell’ordinamento (3).

(2) Tra i più recenti cfr. S. Cipollina, Origini e prospettive dell’autonomia scientifica del diritto tributario, in Riv. dir. fin., 2018, I, 163, e, soprattutto, G. Falsitta, Per l’autonomia del diritto tributario, in Rass. trib., 2019, 257, nel solco dei numerosi lavori precedenti (principalmente G. Falsitta, Osservazioni sulla nascita e lo sviluppo scientifico del diritto tributario in Italia, in Rass. trib., 2000, 353, e Saggio dialettico sullo svolgimento della ricerca e sull’insegnamento del diritto tributario in Italia, in Riv. dir. trib., 2006, I, 1281). (3) Si veda, F. Paparella, L’autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri


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Per tale ragione anche l’indagine che segue sarà governata dal metodo fondato sulla possibile eterointegrazione della norma tributaria (nei limiti che preciseremo) perché è quello più conforme alla disciplina dell’IMU oltre a favorire la conclusione più razionale (4). Inoltre, sempre in via preliminare, occorre riservare un cenno ad un’altra questione di ampio spessore teorico che attiene alla natura del tributo. A proposito dell’IMU, infatti, è ricorrente la specificazione che si tratti di un’imposta patrimoniale ed in questa prospettiva sarebbe relativamente agevole individuare le caratteristiche essenziali del tributo a partire dai soggetti passivi. Tuttavia, come vedremo in seguito, la disciplina dell’IMU mutua categorie giuridiche proprie delle imposte sui redditi (principalmente quella in tema di presupposto ove è richiamato il concetto di “possesso”) e questa scelta legislativa determina rilevanti incertezze allorquando occorre valutare situazioni giuridiche diverse dalla titolarità del soggetto passivo rispetto all’elemento patrimoniale colpito dal tributo (5). Peraltro, tale incongruenza non riguarda solo l’IMU ma anche altre imposte che sono abitualmente classificate tra quelle patrimoniali ed in questo senso, vista l’analogia con la fattispecie esaminata in questa sede, è agevole richiamare l’esperienza del bollo sugli autoveicoli oggetto di contratto di leasing che è stata risolta, non senza difficoltà, con un intervento normativo che ha posto l’onere del tributo a carico degli utilizzatori (6).

settori dell’ordinamento tra ponderazione dei valori, crisi del diritto e tendenze alla semplificazione dei saperi giuridici, in Riv. dir. trib., 2019, I, 587. (4) Lo stesso approccio è stato utilizzato da G. Corasaniti Riflessioni (tra norme e principi di diritto civile e diritto tributario) a margine di due recenti (e contrastanti) pronunce della Suprema Corte, cit., 2163, ma sembra condiviso anche da G. Ragucci, La Corte di Cassazione si pronuncia sulla vexata quaestio dell’IMU dovuta dopo la risoluzione anticipata del contratto, cit., 1, in nel punto in cui, all’inizio dell’indagine, precisa “la natura patrimoniale dell’imposta impone di assumere gli istituti evocati nel significato che hanno nel diritto civile, pena l’adozione di un intollerabile tasso di indeterminatezza del presupposto imponibile”. (5) Infatti, si tratta di un elemento qualificante del tributo che influisce anche sulla possibilità di definire compiutamente la categoria delle imposte patrimoniali in base all’esperienza di diritto positivo (ad esempio, le imposte sugli immobili e le ricchezze finanziarie detenute all’estero, i tributi immobiliari locali, le imposte sui conti correnti bancari e sugli autoveicoli). (6) Si allude alla norma di interpretazione autentica recata dal DL n. 78 del 19 giugno 2015 (convertito con la legge n. 125 del 6 agosto 2015) che ha risolto un vasto contenzioso con la previsione che l’unico soggetto tenuto al pagamento del tributo nei contratti di leasing è l’utilizzatore a partire dal 15 agosto 2009. Curiosamente essa è stata abrogata ma riproposta con formulazione analoga con il DL n. 113 del 24 giugno 2016 (convertito con la legge n. 160 del 7 agosto 2016), originando una nuova questione per il periodo precedente alla data di entrata in vigore del 15


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Questa seconda precisazione è utile per chiarire al lettore che per taluni tributi come l’IMU può non essere dirimente il generico riferimento alla categoria delle imposte patrimoniali perché occorre valutare se l’assetto è conforme al modello impositivo richiamato oppure se presenta altre caratteristiche essenziali, mutuate dalle imposte sui redditi, che impongono di utilizzare l’esperienza maturata in tale diverso settore impositivo. 1. Sul piano del diritto positivo la questione è disciplinata dal primo comma dell’art. 9 del D. Lgs. n. 23 del 2011 ed, in particolare, dal secondo periodo ove l’individuazione dei soggetti passivi dell’Imposta Municipale Propria per gli immobili concessi in locazione finanziaria è completata con una precisazione del seguente tenore: “soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del contratto”. Di per sé la norma è chiara, non presenta difficoltà applicative e fissa un principio generale condivisibile: fino a quando il contratto è valido ed è efficace il tributo è a carico del locatore (o utilizzatore), nel presupposto che goda del bene negli stessi termini del proprietario e di un qualsiasi altro soggetto titolare di un diritto reale o di una situazione giuridica tutelata dall’ordinamento, mentre se il contratto cessa di produrre i propri effetti (per scadenza naturale, risoluzione anticipata o altro motivo) il tributo è a carico del concedente (ovvero la società di leasing) se rientra nella piena disponibilità del bene/fonte della ricchezza imponibile come vedremo in seguito. Tale assetto normativo ha favorito un’incertezza, per molti versi ingiustificata, dovuta alla contrapposizione di due tesi che divergono per il significato attribuito al concetto di “durata del contratto”; in particolare, le società di leasing (e la relativa associazione di categoria) hanno attribuito un rilievo deciso alla restituzione del bene sicché la sua mancata retrocessione determinerebbe la perdurante soggettività passiva del tributo a carico dell’utilizzatore a prescindere dalla risoluzione del rapporto. All’opposto, gli utilizzatori (ovvero i Comuni nelle controversie in esame) e l’ANCI hanno sostenuto che fosse sufficiente la risoluzione del contratto per trasferire l’onere impositivo in capo alla società di leasing nonostante gli utilizzatori abbiano continuato a disporre e ad utilizzare il bene negli stessi termini della fase fisiologica del rapporto.

giugno 2016. Tuttavia, anche questo profilo è stato recentemente risolto dalla Corte di Cassazione (con quattro sentenze identiche ovvero la nn. 13131, 13132, 13133 e 13135 del 21 aprile 2019) riconoscendo l’applicazione della norma anche ai rapporti precedenti alla sua entrata in vigore.


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2. In ordine di tempo la prima pronuncia (la n. 13793 del 12 aprile 2019) è stata favorevole agli utilizzatori ma, già da una prima lettura, era agevole prevedere che non avrebbe definito la questione a causa di una motivazione superficiale e priva di approfondimento giuridico. Essa, infatti, si è limitata ad affermare la prevalenza del rapporto rispetto alle vicende del bene obliterando taluni profili civilistici nonché l’ampio tema di teoria generale sul rapporto tra il soggetto passivo ed il bene colpito dall’imposta nei tributi immobiliari. A tacer d’altro, per adesso è sufficiente evidenziare l’irrazionalità che determina la conclusione che privilegia le vicende del contratto rispetto all’obbligo di restituzione dell’immobile in quanto ammette che l’utilizzatore inadempiente, che provoca la risoluzione del contratto, possa riservarsi la facoltà di restituire o continuare ad utilizzare l’immobile (magari senza corrispondere i canoni di leasing) con il beneficio di trasferire l’onere patrimoniale dell’IMU alla società di leasing: un vero affare per colui che gode pervicacemente del bene con la pretesa di non dover sopportare i relativi tributi anche se si ammettesse che possano essere richiesti in restituzione nell’ambito dell’azione volta ad ottenere il pagamento dei canoni scaduti. Né può essere apprezzabile la pretesa di individuare argomenti letterali “dal chiaro dettato normativo contenuto nel menzionato articolo ove si precisa che nel leasing soggetto passivo dell’Imu è il locatario per tutta la durata del contratto” se non altro perché la norma è quantomeno neutrale rispetto alle due impostazioni e proprio per tale ragione è meritevole di essere interpretata in modo sistematico e razionale (7). D’altro canto, esiste un altro dato sintomatico che depone nel senso della debolezza della prima pronuncia resa dalla Corte di Cassazione in quanto una parte di coloro che si sono espressi in modo favorevole si sono dovuti limitare a riportare i passi della sentenza nell’impossibilità di opporre altri argomenti sistematici a supporto di una prima conclusione priva di argomenti giuridici compiuti (8).

(7) In particolare, mentre è chiara (e, persino, ovvia) la regola che governa l’individuazione del soggetto passivo dalla nascita del rapporto fino alla scadenza naturale del contratto non vi è alcuna indicazione nell’ipotesi di risoluzione o per le altre vicende diverse da quelle espressamente previste. (8) Tale impostazione è riscontrabile nel commento di P. Antonini-C. Miglio, Soggettività passiva IMU e mancata restituzione dell’immobile in leasing: approdo “incerto” in Cassazione, cit., 893.


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3. Ben più solida e persuasiva è stata la posizione assunta dalla Suprema Corte con la sentenza n. 19166 del 2 aprile 2019 in quanto ha fornito un quadro esaustivo delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di merito, ha affrontato le questioni civilistiche proprie dei contratti di durata e del leasing cosiddetto traslativo ed, infine, ha indugiato sulle indicazioni desumibili dalla disciplina del presupposto del tributo e su altri riferimenti normativi intervenuti successivamente (9). Occorre pertanto procedere con ordine anche per dar conto ai lettori del dibattito che si è sviluppato nell’ambito della Rivista alla luce dell’opinione favorevole al precedente da noi criticato (10). Per quel che ci riguarda l’argomento sistematicamente più rilevante è quello civilistico se coerente con i caratteri generali del tributo in quanto, da un lato, è persino ovvio che la cessazione del contratto e la riconsegna del bene sono eventi giuridicamente distinti (11) ma, dall’altro, non può essere trascurato che la mancata restituzione dell’immobile determina effetti non secondari a carico del locatore malgrado la risoluzione anticipata in virtù del noto principio “mora debitoris perpetuat obligationem”. In particolare, l’utilizzatore continua a disporre ed a godere dell’immobile sicché la risoluzione anticipata non esclude il prodursi degli effetti previsti dal contratto sebbene siano quelli dovuti al diverso assetto che si è venuto a determinare tra le parti; porre nel nulla e relegare nell’irrilevanza giuridica tale fondamentale aspetto equivale a parificare situazioni giuridiche sostanzialmente diverse con la conseguenza che è travolta anche la ratio della risoluzione per inadempimento se può risolversi in un vantaggio economico per la parte inadempiente a causa della mancata soggezione al tributo.

(9) Analoga conclusione è stata manifestata da G. Corasaniti, Riflessioni (tra norme e principi di diritto civile e diritto tributario) a margine di due recenti (e contrastanti) pronunce della Suprema Corte, cit., 2174, che ha ritenuto la sentenza assistita da “uno scrupoloso iter logico-giuridico” e da una conclusione “più coerente con il dato normativo di riferimento”. (10) Si allude alla tesi espressa dal collega ed amico G. Ragucci nella nota dal titolo La Corte di Cassazione si pronuncia sulla vexata quaestio dell’IMU dovuta dopo la risoluzione anticipata del contratto, cit., 1, ed in quella pubblicata nel presente fascicolo, avendo convenuto di pubblicare insieme i commenti per agevolare la comprensione delle distinte impostazioni. (11) Come correttamente afferma la pronuncia n. 19166 del 2 aprile 2019 ove si evidenzia che le due date possono difficilmente coincidere in concreto “e anzi può succedere che tra la cessazione del contratto e il verbale di riconsegna intercorra del tempo, talvolta anche non breve”.


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In questo contesto, a nostro avviso, deve essere collocata l’interpretazione del criterio normativo che vincola la soggettività passiva ai fini IMU in capo all’utilizzatore “per tutta la durata del contratto” ed, in assenza di ulteriori specificazioni ad opera del legislatore fiscale, tale generica espressione non può che essere ricostruita secondo le regole del diritto comune. 4. In proposito, è anzitutto condivisibile l’applicazione del principio generale proprio dei contratti di durata che attribuiscono il diritto di godere di un bene altrui ovvero il permanere dei rischi e degli obblighi in capo al conduttore che non ha provveduto alla riconsegna del bene a seguito della risoluzione anticipata. Si tratta, infatti, di un principio pacificamente riconosciuto nella giurisprudenza di legittimità per i contratti di locazione semplice che la Corte ha ritenuto correttamente applicabile alla risoluzione anticipata del leasing per inadempimento dell’utilizzatore in ragione della identità degli effetti nelle due fattispecie. Si può discutere se interviene una sorta di “ultrattività del contratto” in base alla qualificazione privilegiata nella giurisprudenza di legittimità – che sarebbe idonea ad incidere anche sulla durata almeno secondo una parte di tali pronunce (12) – oppure se intervengono effetti diversi dovuti alla sua risoluzione anticipata ma a noi pare fuor di dubbio che in capo all’utilizzatore permangano i rischi relativi alla perdita o al deterioramento del bene e dei danni a terzi, gli obblighi di custodia, manutenzione e riconsegna del bene nonché l’obbligo di corrispondere una somma fino al momento della restituzione del bene come risulta dall’art. 1596 del Cod. Civ. Pertanto, rivendicare la prevalenza della cessazione del contratto rispetto alla mancata restituzione del bene equivale ad affermare un criterio che, oltre a trascurare le indicazioni civilistiche, elude il problema di fondo perché non giustifica né sul piano sostanziale, né sotto il profilo fiscale le ragioni per cui la mancata restituzione dovrebbe essere considerata irrilevante alla luce della struttura impositiva dell’IMU (13).

(12) In questi termini, ad esempio, si veda l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 21895, Sez. VI, del 20 settembre 2017. (13) Tale aspetto è bene evidenziato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 19166 del 17 luglio 2019 nel punto in cui sottolinea che “un argomento così strutturato, però, risulta privo di persuasività già sul piano logico, prima ancora che su quello giuridico, in quanto si risolve in un ragionamento che assume (implicitamente) come dato di partenza proprio il fatto (l’estraneità del periodo che va dalla risoluzione alla riconsegna del bene) che, invece, vorrebbe e dovrebbe dimostrare”.


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Meno immediata, invece, è l’applicazione in via analogica al leasing traslativo della disciplina della risoluzione anticipata della cosiddetta vendita a rate di cui all’art. 1526 del Cod. Civ. in assenza di previsioni normative ad hoc. Ad avviso della Corte, infatti, tale estensione sarebbe un’ulteriore conferma del rilievo da riconoscere alla “riconsegna del bene, perché è solo in tale momento che l’utilizzatore si spoglia della facoltà, degli obblighi e dei rischi assunti con il contratto”. In ogni caso anche tale argomento favorisce una prima conclusione e, cioè, che la risoluzione anticipata è un evento che influisce sulla durata originaria del contratto, almeno secondo la giurisprudenza maggioritaria, ma non per questo il negozio cessa di produrre i propri effetti; perché ciò accada occorre che intervenga principalmente la riconsegna del bene. Peraltro, senza sopravvalutare la formulazione della norma, il legislatore fiscale si è curiosamente riferito a “tutta la durata del contratto” (non alla semplice “durata”) per cui potrebbe desumersi un elemento testuale favorevole ad interpretare il riferimento temporale nel senso della cessazione “definitiva” degli effetti contrattuali. Sulla base di questa essenziale base civilistica è possibile passare all’esame della norma fiscale per verificare se la disciplina del tributo, esigenze di razionalità e di coerenza impositiva impongono di pervenire ad altra conclusione. 5. In dottrina ed in giurisprudenza è comune l’approccio che muove dalla disciplina del presupposto di cui all’art. 8 del D. Lgs. n. 23 del 2001, ove è richiamato il concetto di “possesso” degli immobili, per poi precisare le regole dettate dall’art. 9 che attengono all’individuazione dei soggetti passivi. Com’è noto, si tratta di una nozione utilizzata da tempo nella disciplina del presupposto delle imposte sui redditi, è stata oggetto di una ricca elaborazione teorica che ha prodotti risultati ormai largamente condivisi e da essa è possibile cogliere spunti applicabili anche ad un’imposta dalla natura patrimoniale come l’IMU (14). In merito alla fattispecie in esame sul punto si riscontra una differenza netta in quanto coloro che sono favorevoli al trasferimento della soggettività fiscale in capo alla società di leasing invocano il comma 2 dell’art. 1140 del Cod. Civ. – ovvero la regola generale che consente di “possedere in proprio o per mezzo di altra persona, che abbia la detenzione della cosa” – per poi concludere che la regola di cui all’art. 9 abbia “natura di norma derogato-

(14) Al riguardo si veda F. Paparella, Possesso di redditi ed interposizione fittizia. Contributo allo studio dell’elemento soggettivo nella fattispecie imponibile, Milano, Giuffrè, 2000, 123, ove ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza.


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ria ed eccezionale” (15). In sintesi, quindi, la disciplina del presupposto ed il termine “possesso” andrebbero integrati ed acquisterebbero una dimensione giuridica compiuta in forza della disciplina civilistica prevista dagli art. 1140 e seguenti del Codice Civile. All’opposto l’impostazione privilegiata dalla sentenza n. 19166 del 2019 assume che la disciplina del presupposto implichi “un contenuto diverso dalla nozione di possesso delineata dall’art. 1140, comma 1, c.c.” in quanto “ai fini dei menzionati tributi si qualificano come possessori anche i soggetti che, alla stregua del diritto civile, tali non sono, siccome dispongono dell’immobile sulla base non di un diritto reale di godimento bensì di un diritto personale e, dunque, si qualificano (civilisticamente) come detentori qualificati”. In sintesi, il termine “possesso” avrebbe fiscalmente un significato diverso da quello civilistico perché è necessario apprezzare le situazioni che consentono di ravvisare un diritto personale ed una detenzione qualificata secondo le stesse regole del diritto civile (16). Entrambe le prospettive, quindi, si avvalgono dell’esperienza del diritto civile ma mentre la prima applica rigorosamente la disciplina del “possesso” la seconda rifiuta l’assimilazione con l’istituto previsto dal Codice Civile ed integra il concetto utilizzato dal legislatore fiscale selezionando le relazioni giuridicamente qualificate tra l’immobile ed il soggetto passivo, indicate in via legislativa o desumibili dall’esperienza civilistica, nel rispetto della struttura del tributo e per preservare la coerenza tra la disciplina del presupposto e la categoria dei soggetti passivi. La seconda impostazione è quella più persuasiva in quanto è nostra convinzione che la disciplina prevista in altri settori dell’ordinamento non può essere mutuata acriticamente, anche solo per il fatto che regola assetti di interessi secondo rationes diverse da quelle proprie del diritto tributario, ma impone una accorta verifica di compatibilità che non necessariamente esclude le nozioni ed i concetti propri dei contesti da cui provengono e nei quali sono abitualmente utilizzati (17). In particolare, il riferimento qualificato ad un isti-

(15) Per conferma si veda G. Ragucci, La Corte di Cassazione si pronuncia sulla vexata quaestio dell’IMU dovuta dopo la risoluzione anticipata del contratto, cit., 1. (16) Incidentalmente anche la Cassazione sembra attribuire all’art. 9 una natura derogatoria rispetto alla regola generale nel punto in cui si legge che “in deroga al principio che individua il presupposto per l’applicazione dell’IMU nel ‘possesso’ degli immobili, la soggettività passiva dell’IMU, rispetto agli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione, detenuti in leasing, è riferita al locatario”. (17) Cfr. F. Paparella, L’autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri settori dell’ordinamento, cit., 587.


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tuto di altra materia impone di individuare il significato più adeguato a colpire le manifestazioni di capacità contributiva individuate dal presupposto e più razionale ai fini della corretta attuazione del riparto (18) sicché, nel caso di specie, occorre semplicemente verificare se il concetto civilistico di “possesso” è conforme alla ratio ed alla disciplina del presupposto del tributo. Nelle imposte sui redditi la conclusione negativa è quella largamente maggioritaria ed è anche risalente nel tempo in quanto, a prescindere dall’antinomia causata dall’espressione “possesso di redditi” (19) che obbliga a riferirsi alla fonte (piuttosto che alla ricchezza prodotta), da tempo la dottrina ha evidenziato che la nozione civilistica di “possesso” è inidonea a comprendere tutte le relazioni giuridiche tra il fatto indice di capacità contributiva (ovvero il reddito) ed il soggetto passivo espresse dalle proposizioni normative che individuano il complesso delle fattispecie reddituali (20). Ma la conclusione non è diversa a proposito dell’IMU e, più in generale, delle imposte patrimoniali dal momento che anche questi modelli impositivi impongono una relazione giuridica stringente tra l’elemento patrimoniale colpito dal tributo ed il soggetto passivo (21) e, pertanto, in via di principio, la nozione di “possesso” deve comprendere tutte le situazioni giuridiche tutelate

(18) Conforme E. De Mita, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, in Riv. dir. trib., 1995, I, 152, ma al riguardo si veda altresì A. Fedele, Diritto tributario e diritto civile nella disciplina dei rapporti interni tra i soggetti passivi del tributo, in Riv. dir. fin., 1969, I, 21. (19) Dovuto all’abbinamento di un termine che esprime un potere materiale sulle cose (il “possesso”) con un concetto astratto come il reddito secondo l’opinione unanime della dottrina riscontrabile anche solo nella manualistica, come risulta dalle opere di A. Fantozzi, G. Falsitta, P. Russo, N. D’Amati, A. Cicognani, E. Potito ed altri autorevoli autori. (20) La tesi favorevole ad accogliere la nozione civilistica di “possesso” è stata sostenuta nel passato soprattutto da M.A. Galeotti Flori, Il possesso del reddito nell’ordinamento dei tributi diretti, Padova, 1983, 15 e 65, e da R. Pignatone, Il possesso dei redditi prodotti in forma associata, in Dir. e Prat. Trib., 1982, I, 632, ma ha subito severe critiche in dottrina (tra i tanti, si veda M. Miccinesi, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, 70, e A. Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, in Giur. Cost., 1976, 2165) al punto che l’impossibilità di accogliere tale prospettiva può considerarsi un altro dato pacifico (nella manualistica, per tutti, si veda A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 231 e 784). (21) In questa prospettiva, peraltro, recentemente la giurisprudenza di merito tende ad escludere dall’IMU e dalla TASI il proprietario di un immobile occupato abusivamente argomentando sull’assenza del presupposto a causa della impossibilità di disporre e di godere del bene (ad esempio, si veda Comm. Trib. Prov. di Roma, n. 25506 del 20 novembre 2017 e n. 26532 del 7 dicembre 2017; Comm. Trib. Regionale di Milano, n. 4133 del 23 ottobre 2019).


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dall’ordinamento, riferibili ai rapporti tipizzati dal legislatore, ai fini della selezione dei soggetti passivi nelle diverse categorie di contratti (22). Peraltro, nelle imposte patrimoniali la verifica in merito alla relazione giuridicamente qualificata tra il fatto indice di capacità contributiva ed il soggetto passivo è di natura reale ed è, dunque, più agevole ed immediata di quanto non lo sia con riferimento ad una grandezza astratta come il reddito sicché nella vicenda in esame la prevalenza riconosciuta alle vicende del contratto rispetto alla disponibilità ed al godimento dell’immobile, a nostro avviso, determina una conclusione quantomeno dubbia. In particolare, se l’oggetto dell’imposizione è il bene immobile il tributo non può non colpire colui che più di ogni altro lo utilizza, ne dispone e ne gode – al punto di decidere scientemente di non restituirlo all’avente diritto – in quanto l’esercizio di tali poteri esprime meglio di altri elementi l’indice concretamente rivelatore di ricchezza e la manifestazione di capacità contributiva che è alla base delle imposte immobiliari. Se tali considerazioni sono condivise è agevole giustificare l’argomento introdotto dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 19166 del 2019 (ma riconosciuto in tutte le pronunce successive) per apprezzare la situazione dell’utilizzatore a seguito della risoluzione anticipata del contratto. Il criterio della “detenzione qualificata”, infatti, identifica e descrive efficacemente le prerogative, i doveri e le responsabilità che egli conserva sull’immobile sicché, nella prospettiva del presupposto, è indubbio che l’utilizzatore mantenga una relazione giuridicamente qualificata sul bene che gli consente di continuare ad esercitare i poteri e le facoltà tipici del possessore e del proprietario come se il rapporto non si fosse mai risolto (23); essa perdura fino al momento della riconsegna del bene (ovvero fino al momento in cui il contratto cessa definitivamente di produrre i propri effetti) e giustifica il permanere della qualità di soggetto passivo in capo all’utilizzatore.

(22) Resta pertanto esclusa dalla nozione di “possesso” ogni altra situazione connotata dal potere di disporre de facto dell’immobile diversa da quella espressamente individuata dal legislatore. L’impossibilità di accogliere acriticamente la nozione civilistica di “possesso” ai fini dell’individuazione dei soggetti passivi dell’IMU è stata condivisa da G. Corasaniti, Riflessioni (tra norme e principi di diritto civile e diritto tributario) a margine di due recenti (e contrastanti) pronunce della Suprema Corte, cit., 2174, che ha manifestato l’esigenza di utilizzarlo “in un senso diverso e certamente più confacente al meccanismo di funzionamento dell’Imu”. (23) Per ampi riferimenti alla dottrina civilistica si veda, da ultimo, G. Corasaniti, Riflessioni (tra norme e principi di diritto civile e diritto tributario) a margine di due recenti (e contrastanti) pronunce della Suprema Corte, cit., 2175, che evidenzia come la (sola) detenzione non qualificata sarebbe estranea alla nozione di “possesso” e, dunque, irrilevante sul piano giuridico.


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Tale argomento non è una creazione ad hoc ma deriva da un’ampia giurisprudenza di legittimità sul contratto di leasing – che riconosce all’utilizzatore una relazione più intensa rispetto al bene di quella facente capo alla società concedente al punto che è ricorrente il riferimento alla “proprietà formale” di quest’ultima oppure ad una “sorta di utile dominio” (o di dominio diretto) dell’utilizzatore – da accogliere con favore perché integra la norma fiscale sulla base dell’esperienza civilistica, precisa l’irrilevanza della risoluzione anticipata rispetto alle prerogative dell’utilizzatore fino a quando non restituisce il bene, qualifica efficacemente il rapporto tra il bene colpito dal tributo ed il soggetto passivo ed assicura, in definitiva, la razionalità dell’imposizione. Donde l’ulteriore conclusione che la regola dettata dall’art. 9 del D.Lgs. n. 23 del 2011 a proposito dei contratti di leasing non può essere considerata una norma “derogatoria” o “eccezionale” anche perché bisognerebbe farsi carico di precisare il principio generale (in merito al presupposto, ai soggetti passivi e verificare la coerenza delle rispettive discipline) per poi giustificare la maggiore razionalità del principio in deroga o della regola eccezionale. Si tratta invero di una norma coerente alla struttura del tributo che contribuisce all’individuazione del soggetto passivo nel rispetto della disciplina del presupposto di cui all’art. 8 e per tale ragione è interpretabile estensivamente in via analogica per integrare le altre categorie di “possessori” che vantano la proprietà o un altro diritto reale di godimento come l’usufrutto, l’uso, l’abitazione, l’enfiteusi e la superficie. In particolare, essa impone di declinare correttamente il concetto di “possesso” a proposito dei contratti in esame ed in questa prospettiva il riferimento alla detenzione qualificata indicato dalla Corte di Cassazione è quello più rispondente alla situazione giudica dell’utilizzatore ed al complesso di poteri che continua ad esercitare sull’immobile (nonostante la risoluzione anticipata) come accade, ad esempio, per l’usufruttuario, per colui che vanta il diritto di uso, per il coniuge assegnatario della casa familiare oppure per il concessionario di aree demaniali (24). D’altro canto, tale conclusione è conforme alle indicazioni della Corte Costituzionale in merito all’individuazione dei soggetti passivi (25) ed alla prassi

(24) In senso conforme si veda S. Mencarelli, Leasing e Imu: obblighi del locatario inadempiente, in Rass. Trib., 2013, 637, che esamina, con rigore, talune fattispecie inusuali apprezzando il potere di godere e di disporre dell’immobile ed attribuendo alla nozione di “possesso” un significato, diverso da quello civilistico, più adeguato alla ratio ed alla disciplina del tributo. (25) In particolare, si veda la sentenza n. 111 del 22 aprile 1997, ove si legge che l’ICI non


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dell’Amm. Fin. sulla soggettività passiva ai fini ICI nei contratti di leasing, avendo sottolineato il “rilievo determinante della funzione di godimento che, accanto a quella di finanziamento, rappresenta la causa del contratto di leasing” ai fini della prevalenza riconosciuta al criterio fondato sulla restituzione dell’immobile per individuare il soggetto colpito dal tributo (26). 7. In questo contesto si colloca l’evoluzione successiva all’entrata in vigore dell’art. 9 del D. Lgs. n. 23 del 2011, trattandosi di un profilo esaminato con superficialità dalla giurisprudenza in esame e non apprezzato dalla dottrina che privilegia l’impostazione opposta alla nostra. Il primo riferimento è il DM del 30 ottobre 2012, che ha approvato il modello di dichiarazione IMU (27), ove è precisato che “nel caso … di risoluzione anticipata … la società di leasing, che è il nuovo soggetto passivo, e il locatario, che ha cessato di esserlo, sono coloro su cui grava l’onere dichiarativo IMU entro 90 giorni dalla data di riconsegna del bene comprovante dal verbale di consegna”. Si tratta di una regola che individua la parte sulla quale ricade l’obbligo di dichiarazione nell’ipotesi di risoluzione anticipata ed a questo fine il criterio distintivo è univocamente fissato (non nella risoluzione del contratto bensì) nella riconsegna del bene. Non risulta che il decreto sia stato impugnato, né è stato mai eccepito un contrasto rispetto al generico enunciato dell’art. 9 del D. Lgs. n. 23 del 2011, sicché tale regola contribuisce lodevolmente a precisare, con razionalità, il concetto di durata del contratto preservando il necessario rapporto di coerenza tra la norma sostanziale e quelle riservate alla fase di attuazione del tributo. Stupisce, quindi, che un riferimento univoco non abbia trovato un apprezzamento compiuto ed è persino superfluo sottolineare che la tesi favorevole alle (sole) vicende del contratto dovrebbe farsi carico di giustificare la diversità del principio in tema di soggettività passiva rispetto a quello che governa l’obbligo di dichiarazione. Ma vi è di più.

colpisce solo i proprietari “ma, più in generale i titolari delle situazioni previste dall’art. 3, in quanto idonee, nella loro varietà, ad individuare di norma coloro che, avendo il godimento del bene, si avvantaggiano, con immediatezza, dei servizi e delle attività gestionali dei comuni”. (26) Per conferma, si veda Ag. Entrate, Circ. n. 109 del 18 maggio 1999 e n. 118 del 7 giugno 2000, ove si legge “per quanto concerne l’individuazione del momento che segna il passaggio dalla soggettività passiva del locatore al locatario finanziario … occorre avere riguardo al momento della consegna dell’immobile oggetto della locazione finanziaria al locatario, mentre per il periodo precedente a detta consegna soggetto passivo Ici resta il locatore finanziario”. (27) Il decreto è stato emanato in esecuzione del comma 12-ter dell’art. 13 del DL n. 201 del 6 dicembre 2011, convertito con la legge n. 214 del 22 dicembre 2011.


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Ad ulteriore conforto della tesi privilegiata in questa sede è intervenuto l’art. 1, comma 672, della legge n. 147 del 27 dicembre 2013, in materia di TASI, ove per i contratti di locazione finanziaria è prevista la stessa regola dell’IMU (ovvero l’onere del tributo a carico del “locatario a decorrere dalla stipulazione e per tutta la durata del contratto”) ma è completata con un principio del seguente tenore: “per durata del contratto di locazione finanziaria deve intendersi il periodo intercorso dalla data di stipulazione alla data di riconsegna del bene al locatore, comprovata dal verbale di consegna”. È indubbio che la precisazione si riferisce ad un tributo diverso ma è altrettanto pacifico che la norma ha la struttura tipica di quella interpretativa che conferma e ripropone (con la stessa formulazione) la regola introdotta con il DM del 30 ottobre 2012 in una fonte di rango primario; essa interviene direttamente sul concetto di durata del contratto (non sul mero obbligo di dichiarazione) per prevenire ulteriori equivoci sicché sembra ricognitiva di un principio generale destinato ad avere applicazione analogica anche in un ambito estraneo a quello cui si riferisce (28). D’altro canto, in una visione sistematica, è irrazionale ritenere che essa si applichi solo alla TASI (e non all’IMU) perché, anche a prescindere dalle univoche indicazioni ministeriali (che comunque porterebbe ad applicare lo stesso principio), occorrerebbe giustificare la possibilità di declinare in vario modo il concetto di durata del contratto nei diversi tributi immobiliari anche in considerazione della loro irragionevole sovrapposizione (29); per quanto possa apparire complesso sul piano ricostruttivo, invece, è possibile coniugare razionalmente i diversi profili che influiscono nell’esame della fattispecie attribuendo alla riconsegna del bene un rilievo decisivo rispetto al concetto di “durata del contratto” per effetto della potestas fruendi della quale continua a godere l’utilizzatore e della necessità di apprezzare tale relazione giuridica nell’ambito della nozione di “possesso” (30).

(28) A differenza della sentenza n. 13793 del 2019 – che ha risolto la questione in modo lapidario ignorando le indicazioni recate dal DM del 30 ottobre 2012 – la sentenza n. 19166 del 2019 ha esaminato l’evoluzione normativa con maggiore precisione e rigore, pervenendo alla conclusione che le norme sopravvenute “non hanno introdotto nel sistema alcun elemento di novità/specialità, essendosi limitate, piuttosto, a confermare (esplicitare) l’efficacia anche agli effetti del diritto tributario di una regola generale in tema di locazione finanziaria”. (29) Al punto che la recente legge n. 160 del 27 dicembre 2019 ha finalmente provveduto al riordino dell’imposizione immobiliare locale abrogando la TASI e sostituendo ai due tributi il nuovo modello di IMU. (30) Permane tuttavia la difficoltà di non poter attingere alle risultanze catastali in dipen-


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8. Ammesso che il criterio numerico sia apprezzabile, se non nei limiti in cui tende a consolidare un orientamento, in seguito sono intervenute altre pronunce che si sono orientate nella prospettiva da noi non condivisa facendo venir meno l’ipotesi che la sentenza n. 13793 del 2019 sia stata un incidente di percorso. Al riguardo merita di essere precisato il contenuto della sentenza n. 29973 del 11 settembre 2019 perché è tornata sui profili interdisciplinari indicando una conclusione opposta a quella enunciata pochi mesi prima. Perché sia chiaro lo stato di incertezza dovuto ad un complesso di pronunce ravvicinate dell’organo supremo della giustizia che dovrebbe assicurare la funzione nomofilattica, l’unità del diritto e l’uniforme interpretazione della legge, è sufficiente precisare che il contrasto non è fondato su una questione di metodo (31) bensì sulla stessa base informativa prodotta dalla Corte di Cassazione perché entrambe le pronunce si fondano sui precedenti in materia di risoluzione del contratto di leasing favorendo la sensazione che un’esperienza comune consenta di pervenire a conclusioni opposte. In particolare, la sentenza n. 29973 del 2019 ha condiviso gli argomenti utilizzati dalla sentenza n. 19166 del 2019, in tema di detenzione qualificata dell’utilizzatore e sugli effetti del contratto dovuti alla risoluzione anticipata, ma ha concluso che egli diventi un “mero detentore privo di titolo” in quanto “l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo, il che conferma che la detenzione qualificata in capo all’utilizzatore … permane solo durante la vita del rapporto giuridico e si traduce invece in mera detenzione senza titolo a seguito della risoluzione del contratto”. In questa prospettiva è stata altresì obliterata la tesi dell’ultrattività del contratto (32), non si nega che dopo la risoluzione l’utilizzatore resta “gravato dei rischi di perdita o deterioramento della cosa, ovvero degli obblighi di custodia e manutenzione” ma si oppone che tale prospettiva è limitata ai “rapporti inter partes mentre il cit. art. 9 ancora la soggettività passiva IMU

denza delle vicende del contratto ma la questione si pone negli stessi termini in entrambi i casi. (31) Che, a nostro avviso, si risolve nell’alternativa se l’art. 9 del D. Lgs. n. 23 del 2011 debba essere interpretato in base alle regole civilistiche in tema di detenzione qualificata oppure secondo argomenti testuali desumibili dalla norma fiscale. (32) In questo senso ha trovato conferma l’opinione di G. Ragucci, La Corte di Cassazione si pronuncia sulla vexata quaestio dell’IMU, cit., 2, perché sin dall’origine ha ritenuto suggestiva la tesi favorevole alla ultrattività degli effetti del contratto.


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del locatario alla persistenza del vincolo contrattuale in quanto titolare di diritti opponibili erga omnes”. Tale passo della sentenza è significativo sul piano argomentativo ma non coglie nel segno in quanto, da un lato, non si comprende la rilevanza della distinzione in merito all’ampiezza degli effetti (inter partes o erga omnes), che permangono pacificamente dopo la risoluzione anticipata, e, dall’altro, attribuisce una connotazione quantomeno indimostrata alla regola prevista dall’art. 9 del D.Lgs. n. 23 del 2011. Infatti, ad entrambe le indicazioni è sufficiente replicare che la norma disciplina il contratto di leasing al fine di individuare la parte che assume la qualità di soggetto passivo, all’origine ed in occasione delle vicende successive del rapporto, sicché pare a noi evidente che si tratta di una regola che attiene proprio ai rapporti inter partes (33). Siamo perfettamente consapevoli che la replica si espone alla stessa critica di genericità e di indeterminatezza che imputiamo alle ultime prese di posizione della Suprema Corte ma purtroppo queste ultime costringono ad esaminare argomenti evanescenti essendo stati ritenuti idonei a sovvertire il più solido impianto indicato in precedenza. In questo senso è emblematico il passo della sentenza che affronta il profilo fiscale in quanto, dopo aver richiamato il principio di ragionevolezza, la Corte ammonisce sull’esigenza di garantire l’uniformità di regime tra fattispecie analoghe precisando “il concedente che ha il possesso in forza della concessione e l’utilizzatore che ha la detenzione qualificata in forza del contratto di leasing ma che può divenire possessore con l’esercizio del diritto di riscatto; soggetti che il legislatore ha equiparato sotto il profilo della capacità contributiva”. L’indicazione è chiara e si indirizza nel senso che l’utilizzatore gode di una detenzione qualificata ma integrerebbe il “possesso”, in senso fiscale, solo a seguito dell’esercizio del diritto di riscatto. Ma anche tale argomento non può essere condiviso semplicemente perché il presupposto non può ritenersi integrato solo in occasione del trasferimento della titolarità (per effetto del diritto di riscatto) in quanto l’art. 9 del D.Lgs. n. 23 del 2011 assimila alla proprietà gli altri diritti di godimento (nel cui ambito, a nostro avviso, deve essere inclusa la detenzione qualificata) ed in questo senso si orienta anche una

(33) Sulla rilevanza dei rapporti interni in base alla disciplina civilistica ai fini dell’individuazione dei soggetti passivi del tributo, per tutti, cfr. A. Fedele, Diritto tributario e diritto civile nella disciplina dei rapporti interni tra i soggetti passivi del tributo, cit., 21.


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vasta e risalente esperienza nel settore delle imposte sui redditi a proposito del concetto di possesso riferito alle fonti immobiliari (34). Probabilmente alla base dell’imprecisione in cui è incorsa la Corte di Cassazione vi è una particolare considerazione del contratto di leasing in quanto nella frase successiva è precisato che “con la risoluzione del contratto di leasing, ai fini tributari, non sopravvive alcun effetto contrattuale, in quanto la causa di finanziamento viene meno, non vi è possibilità di riscatto e soprattutto la mera detenzione senza titolo risulta priva di effetti ai fini tributari”. Tuttavia, se si ritenesse che la struttura dell’IMU consente di privilegiare le vicende contrattuali che influiscono sulla causa di finanziamento l’effetto principale sarebbe quello di snaturare la natura immobiliare del tributo, oggettivamente collegata al godimento ed alla disponibilità del bene (e di modificare surrettiziamente il fatto indice di capacità contributiva), per affermarne un’altra, priva di riferimenti, ancorata alla natura finanziaria del contratto. Questo profilo, a nostro avviso, costituisce il vulnus principale della sentenza in esame anche perché prova a coniugare l’inconciliabile ai fini della soggezione al tributo ovvero la detenzione qualificata dell’immobile dell’utilizzatore con l’irrilevanza delle prerogative che gli derivano da tale situazione (35). Meno argomentate, invece, sono le pronunce n. 25249 del 3 luglio 2019 e la n. 34243 del 18 giugno 2019. La prima ha tentato di irrobustire la linea interpretativa dettata dalla sentenza n. 13793 del 2019 evidenziando che la relativa conclusione sarebbe assistita da un criterio “maggiormente rispettoso delle esigenze di certezza dei rapporti giuridici e dei rapporti tributari, dovendo l’ente impositore fare riferimento a dati certi e conoscibili come la risoluzione del contratto” ma in questa prospettiva non si comprende perché le stesse esigenze non sarebbero validamente soddisfatte da un atto dalla data certa come il verbale di riconsegna del bene. Invece, la seconda richiama integralmente il precedente limitandosi a riaffermare un principio di dubbia razionalità e, cioè, che “è il titolo (cioè il contratto stipulato) che determina la soggettività passiva del locatario finanziario e non certo la materiale disponibilità del bene”.

(34) V., ancora, F. Paparella, Possesso di redditi, cit., 142. (35) Per conferma si veda il punto riassuntivo della trama argomentativa (punto 10) ove si legge: “in conclusione, nell’alveo Imu si predilige l’esistenza di un vincolo contrattuale fondato sulla detenzione qualificata del bene da parte dell’utilizzatore che prescinde dalla detenzione materiale dello stesso”.


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Pare dunque che le ultime sentenze abbiamo favorito un percorso ove le vicende del contratto sono apprezzate in misura prevalente rispetto a quelle che attengono alla potestas fruendi dell’immobile. Tale situazione giuridica, considerata di detenzione qualificata anche dal filone giurisprudenziale che non apprezza la mancata restituzione del bene, è dunque ritenuta irrilevante ma resta ancora insoddisfatta l’esigenza di comprendere le ragioni che la porterebbe ad essere esclusa dalla nozione di “possesso” per i tributi immobiliari dal momento che in questi modelli impositivi la disponibilità ed il godimento del bene dovrebbe essere apprezzati in misura prevalente rispetto a qualsiasi altro profilo. 9. In definitiva, nonostante la legge n. 124 del 4 agosto 2017 abbia tipizzato il contratto di leasing e rivisitato la disciplina sostanziale (36), la relativa disciplina fiscale sembra ancora attraversata da numerose questioni non sempre causate dall’assetto contrattuale e dalle soluzioni adottate in concreto anche se un criterio risolutivo ricorrente è proprio la ripartizione dei poteri, dei rischi e delle responsabilità tra le parti (37).

(36) In particolare, la norma definisce “locazione finanziaria” il contratto con il quale la banca o un intermediario finanziario si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene per metterlo a disposizione dell’utilizzatore, a fronte di un corrispettivo periodico, mentre “l’utilizzatore ha diritto ha acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito, ovvero … l’obbligo di restituirlo”. La nuova disciplina (a partire dalla definizione e dalla rilevanza del trasferimento dei rischi) sembra dunque riferirsi al solo leasing finanziario, che deve essere comunque assistito dal patto di riscatto ad un prezzo “prestabilito”, con la conseguente irrilevanza della distinzione tra il leasing “traslativo” e quello “di godimento”. In questo contesto merita una menzione il comma 138 dell’art. 1 della legge n. 124 del 2017 in quanto disciplina la risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore nei seguenti termini “il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all’ammontare dei canoni di scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita”. Pertanto, l’inerzia dell’utilizzatore nella restituzione del bene può influire sulla vendita e condizionare la ripartizione della somma realizzata tra le parti. (37) Ad esempio, sono note le incertezze in merito alla assimilazione del leasing finanziario traslativo tra le cessioni di beni oppure tra le prestazioni di servizi ai fini IVA a causa della differenza tra la norma interna, che apprezza il trasferimento della proprietà, e la disciplina comunitaria, che comprende qualsiasi trasferimento del bene accompagnato dal riconoscimento del potere di disposizione. In particolare, la giurisprudenza interna non nega l’equiparazione ma, in forza della distinzione tra la natura traslativa o di godimento dell’assetto, la subordinano alle caratteristiche del contratto (l’onere complessivo, la facoltà di opzione per l’utilizzatore oppure il trasferimento dei rischi) (ad esempio, si veda Cass., 15 ottobre 2013, n. 23329; Cass., n. 20951 del 16 ottobre 2015, in Dir. e prat. trib., 2017, II, 773) e la prassi (Ris. Ag. Entrate, Circ. n. 26 del 1° giugno 2016, in Boll. Trib., 2016, 940; Ag. Entrate, Risposta ad interpello n.


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Alla luce degli ultimi interventi della Corte di Cassazione, quindi, occorre prudentemente concludere che anche l’individuazione del soggetto passivo ai fini IMU nell’ipotesi di risoluzione anticipata del contratto non assistita dalla restituzione dell’immobile appartenga all’area delle questioni controverse meritevoli di trovare una soluzione definitiva. È indubbio che in sede scientifica è costruttivo manifestare concezioni opposte e può essere persino stimolante misurarsi con le tesi contrarie perché contribuiscono ad alimentare il dibattito oltre a testimoniare la vivacità della materia. Ma pare molto meno comprensibile l’andamento incerto della Corte di Cassazione perché le indicazioni provenienti dall’esperienza giuridica dovrebbero agevolare una soluzione definitiva, anche ricorrendo alle Sezioni Unite nei casi estremi soprattutto se si delinea un contrasto all’interno della Corte. Solo per tale ragione ci permettiamo di ribadire che anche nelle imposte dalla struttura più conforme al modello patrimoniale il soggetto passivo deve essere individuato in colui che manifesta il legame e la relazione più stringente con il fatto indice di capacità contributiva, con la conseguenza che nei tributi immobiliari tale qualità deve essere ricondotta in capo a colui che gode e dispone dell’immobile sulla base di univoche indicazioni civilistiche; permane, quindi, l’esigenza di sottoporre ad una verifica più rigorosa ed approfondita la tesi affermatasi nelle pronunce più recenti che prova a coniugare la perdurante disponibilità qualificata dell’utilizzatore con l’esclusione di tale situazione dal novero delle relazioni giuridicamente qualificate da comprendere nella nozione di “possesso” degli immobili.

Franco Paparella

3 del 17 settembre 2018). Invece, la Corte di Giustizia apprezza la consegna del bene e tende a trascurare il trasferimento della proprietà alla scadenza del rapporto ai fini dell’inquadramento tra le cessioni di beni (tra le ultime, si veda Corte di Giustizia del 21 novembre 2013, Causa C-494/12, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 218, con nota di G. Persico; Corte di Giustizia del 2 luglio 2015, Causa C-209/14, in Foro It., 2015, 554; Corte di Giustizia del 4 ottobre 2017, Causa C-164/16, in Il Fisco, 2017, 4361; in senso dubitativo, invece, si orienta Corte di Giustizia del 11 febbraio 2010, Causa C-88/09, in Corr. Trib., 2010, con nota di C. Pierro; infine, sull’esclusione dell’obbligo di effettuare la rettifica della detrazione nel caso di lease-back in quanto la disponibilità sostanziale del bene resta in capo al venditore cfr. Corte di Giustizia del 27 marzo 2019, Causa C-201/18, in Il Fisco, 2019, 1569).


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Un passo verso la soluzione del problema della soggettività passiva all’IMU dopo la risoluzione del leasing immobiliare. Secondo la Corte di Cassazione, con la risoluzione del leasing immobiliare, il soggetto passivo dell’IMU torna a essere il proprietario. Ciò è compatibile con la tesi che concepisce l’IMU come un’imposta sul patrimonio. L’idea che l’utilizzatore sia il soggetto passivo anche dopo la risoluzione del contratto, e fino alla restituzione del bene, deriva da una diversa concezione, che avvicina l’IMU a un’imposta sui redditi di origine patrimoniale. La nota illustra le differenze tra le due opinioni, e ne indica le conseguenze sul giudizio della Corte. According to the Italian Supreme Court the termination of the lease agreement implies that the IMU taxable person becomes the owner of the asset. Such assertion is compatible with the thesis that IMU is as a property tax. The assumption according to which the former lessee is the taxable person even after the termination of the agreement, and until the asset has been returned, derives from a different thesis which consider IMU similar to a real estate income tax.The article outlines the differences between the two opinions and shows their consequences on the Supreme Court’s judgement.

1. Con le cinque sentenze del 2019 sulla risoluzione anticipata del leasing immobiliare, la Corte di Cassazione ha vagliato la rilevanza, ai fini dell’individuazione del soggetto tenuto al pagamento dell’IMU, della relazione che, una volta verificatasi la risoluzione, l’ex locatario conserva con il bene fino alla sua restituzione al proprietario (1). Ridotta ai termini essenziali, la questione è presto detta, ed è la seguente. Dopo la risoluzione del contratto, l’ex locatario, non più detentore “qualificato”, continua a ricavare dal bene l’utilità che esso è in grado di dare, secondo la destinazione che gli è propria. Da questo punto di vista, la relazione di possesso che il proprietario conserva con il bene sembrerebbe legittimarne,

(1) Il problema era venuto all’attenzione della Commissione Finanze della Camera dei Deputati, chiamata a discutere tre diverse proposte di legge depositate tra il 7 dicembre 2018 (A.C. 1429 – Gusmeroli e altri), il 10 giugno 2019 (A.C. 1904 – Fragomeli e altri), e il 17 giugno 1918 (A.C. 1918 - Cancellieri e altri), volte all’unificazione delle imposte IMU e TASI, due delle quali (A.C. 1429, e A.C. 1918) per il caso in questione avrebbero mutuato la regola, già presente per la TASI, per la quale “per durata del contratto di locazione finanziaria si intende il periodo intercorrente dalla data della stipulazione alla data di riconsegna del bene al locatore, comprovata dal verbale di consegna” (art. 1, comma 672, della l. n. 147/2013, ora abrogato ex art. 1, comma 780, l. n. 160/2019). Tale soluzione è stata abbandonata nella formulazione finale della nuova disciplina IMU, che sul punto ha mantenuto la dizione originaria (art. 1 comma 743, l. n. 160/2019, che ha sostituito l’art. 8 comma 2, d.lgs. n. 23/2011).


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ciò non ostante, la soggezione all’imposta (2), e questo sarebbe coerente con la precedente giurisprudenza della Corte, per esempio sugli immobili sottoposti a sequestro (3). Ma, oltre a ciò, l’ex locatario soggiace anche a una serie di obbligazioni, di origine negoziale e legale, volte ad assicurare l’integrità del bene, perché sia restituito nelle stesse condizioni in cui fu ricevuto, salva l’usura normale verificatasi durante l’utilizzo. Questa circostanza mette in gioco l’idoneità di tali relazioni a perpetuare la soggettività passiva all’imposta locale, a fronte di una regola che ne onera il locatario per tutta la durata del contratto (4). Due le soluzioni astrattamente possibili: che con lo scioglimento del contratto la soggezione al tributo torni a essere del proprietario, sebbene privo della disponibilità materiale del bene (5); che, invece, il tributo continui a essere dovuto dall’ex locatario, fino alla sua restituzione. La giurisprudenza della Corte segna una chiara preferenza per la prima soluzione (6), salvo in un caso (Corte Cass. n. 19166/19) (7), che suscita interesse per le idee anche di ordine generale che mette in discussione. Queste investono i caratteri fondamentali dell’imposta locale sul patrimonio (8), la cui

(2) Art. 1 comma 740, l. n. 160/2019, cit. (3) Corte Cass. n. 22216/2015, pubblicata in questa Rivista, 2017, II, 153 ss. con nota critica di R. Corriere, Possesso e disponibilità nell’imposizione sul patrimonio immobiliare (157 ss.). (4) Art. 1 comma 743, l. n. 160/2019, che ha sostituito l’art. 9 comma 1, d.lgs. n. 23/2011. (5) Con la riduzione del 50% della base imponibile prescritta per gli immobili di fatto non utilizzati ex art. 1 comma 747 lett. b), l. n. 160/2019. (6) In tal senso: Corte Cass. n. 13793/2019; Corte Cass. n. 25249/2019; Corte Cass. n. 29973/2019; Corte Cass. n. 34243/2019. Sulla prima delle indicate sentenze: A. Piccolo, Risoluzione anticipata del leasing: IMU in capo al locatore, in Il Fisco 2019, 3179 ss.; per un confronto con Corte Cass. n. 19166/2019: P. Puri, Risoluzione anticipata del leasing: a chi spetta la soggettività passiva IMU?, in GT-Riv. giur. trib., 2019, 684, ove ampi riferimenti alla giurisprudenza di merito; P. Antonini, C. Miglio, Soggettività passiva IMU e mancata restituzione dell’immobile in leasing: approdo “incerto” in Cassazione, in Corr. trib., 2019, 893 ss. (7) Pubblicata in Dir. prat. trib. 2019, II, con nota adesiva di G. Corasaniti, Riflessioni (tra norme di diritto civile e diritto tributario) a margine di due recenti (e contrastanti) pronunce della Suprema Corte sulla controversa soggettività passiva ai fini IMU nel leasing immobiliare, 2154 ss. Sulla stessa sentenza: F. Coli, E. Mencarelli, Immobili in leasing, fino alla riconsegna l’Imu è del locatario, in Quotidiano Enti Locali & Pa, 19 luglio 2019. (8) Il carattere di imposta patrimoniale dell’IMU è fissato dalla definizione legislativa del presupposto (art. 8 comma 2 d.lgs. n. 23/2011, oggi art. 1 c. 745 L. n. 160/2019), e non è compromesso dalla regola per la quale l’IMU ha sostituito l’Irpef e relative addizionali sui redditi fondiari relativi a beni non locati (art. 8 comma 1, d.lgs. n. 23/2011, non modificato). La regola, anzi, si giustifica per la natura intrinsecamente patrimoniale anche di questo genere di prelievi


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identificazione è condizionata da un’alternativa, che fin dalla sua introduzione si è riflessa sull’interpretazione della legge. Tanto che non sarebbe azzardato pensare che anche l’episodica oscillazione verificatasi nella giurisprudenza della Corte, in favore dell’assoggettamento all’imposta dell’ex locatario, trovi causa proprio nell’ambiguità dei presupposti teorici sottostanti. Senza ripercorrere sentieri già tracciati dalla dottrina che si è occupata di questi temi fin dal varo dell’ICI (9), è facile osservare che l’utilità ricavata dal bene dall’ex locatario potrebbe venire in considerazione nell’ambito di una configurazione teorica, che concepisca l’IMU come un’imposta sul reddito commisurata al patrimonio, o sui redditi da esso ritraibili (10). Nel redditoentrata ricade ogni accrescimento monetario e in natura, occasionale, fortuito e imprevisto, e perciò vi rientra anche l’utilità che l’ex locatario continua a ricavare dal bene dopo la risoluzione del leasing. Per una imposta patrimoniale propriamente intesa questo di norma non rileva (11). Per essa, il godimento

(G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova 2018, 1204; e, sulla c.d. tassazione diretta del patrimonio mediante imposizione del reddito: F. Forte, Manuale di Scienza delle Finanze, Milano, 2007, 478. Ciò posto, sul piano definitorio resta di rilevare che l’IMU è una imposta patrimoniale speciale (perché si riferisce solo ad alcuni tipi beni), e ordinaria (perché è dovuta per anni solari, proporzionalmente alla quota e ai mesi di possesso dell’immobile). Ciò non toglie che “sul piano della politica fiscale, la ‘combinazione’ tra Imu e Tasi era vista come la soluzione, da un lato, per adempiere l’impegno elettorale di una parte della maggioranza a non tassare con Imu l’abitazione principale, dall’altro per non rinunciare a colpire con un tributo locale la ricchezza manifestata dalla stessa” (G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, cit. 1202). Sulla patrimonialità dell’imposta, pure nel coacervo oggi abbandonato della imposta unica comunale (IUC): G. Selicato, L’imposta unica comunale tra novità e conferme di precedenti modelli impositivi, in Dir. prat. trib. 2015, 10242 ss.). (9) E. Marello, Contributo allo studio delle imposte sul patrimonio, Milano 2006, 6 ss., il quale assume la presenza di diverse “classi di definizioni del genus imposte patrimoniali”, di cui si dirà nel testo, a criterio ermeneutico per la giustificazione di incoerenze nella formulazione dei testi legislativi, e delle incertezze interpretative che ne dipendono. (10) Alla base, v’è l’idea che reddito e patrimonio siano grandezze omogenee, posto che il valore del patrimonio è dato dalla capitalizzazione del reddito che se ne ricava al presente, e dei redditi futuri, oltre che dalla considerazione delle utilità non monetizzabili che il proprietario può ricavarne (L. Einaudi, L’imposta patrimoniale, Roma, 1946, ried. Milano 2011, 17 ss.). Per uno svolgimento sull’argomento in discussione: L. Perrone, L’imposta comunale sugli immobili e il decentramento dell’autonomia impositiva: che delusione!, in AA. VV., L’autonomia finanziaria degli enti locali territoriali, Roma 1994, 515-6. (11) A questo risultato hanno concorso soprattutto le evidenze empiriche raccolte negli anni ’60 dello scorso secolo sulla relazione positiva fra il valore degli immobili urbani e i servizi pubblici locali: “ ciò fa della casa una base imponibile particolarmente adatta a realizzare una benefit tax, ossia una forma di prelievo assimilabile lato sensu al prezzo pagato per quei beni pubblici che esauriscono la loro rilevanza in ambito locale” (G. Messina - M. Savegnago, A prova


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che un terzo ricava dal bene detenuto senza titolo perde la relazione con il presupposto imponibile, la cui misura è interamente assorbita nel valore del bene riveniente dalla spesa pubblica locale, che costituisce la base di commisurazione dell’imposta (12), e di cui il proprietario può disporre, per esempio vendendo. L’alternativa teorica ora illustrata condiziona l’interpretazione della legge, con effetti che si vedono anche nella soluzione della questione decisa dalla Corte con le sentenze in commento. Queste pronunce rendono evidente che il godimento dell’utilità del bene da parte di un soggetto diverso dal proprietario, e che non è più l’utilizzatore in leasing per l’intervenuta risoluzione del rapporto, può porre un problema di corretta imputazione della capacità contributiva da sottoporre al prelievo solo all’interno di una concezione dell’IMU, che la rappresenta come un’imposta sul reddito commisurata al patrimonio, o sui redditi da esso ritraibili. È infatti sull’assunto dell’appartenenza di questa utilità al presupposto imponibile, che l’interprete può perseguire un’estensione dell’ambito della ricorrenza della fattispecie, sino a coinvolgere un soggetto passivo altrimenti non attingibile, predicando la specialità della nozione di “possesso” rispetto al contenuto che le è attribuito dal diritto civile. Operazione certamente legittima, questa, a patto che le si attribuisca un contenuto che la renda capace di specificare giuridicamente il fatto economico, che il legislatore ha assunto a manifestazione della capacità contributiva da sottoporre al prelievo, meglio di quanto non sarebbe se la si assumesse nel significato comune. Le cose cambiano se si aderisce alla seconda opzione teorica, di cui si è detto. Infatti, se si intende l’IMU alla stregua di una imposta patrimoniale in senso proprio, il problema dell’imputazione della capacità contributiva a un

di acronimo: i tributi locali sulla casa in Italia, in Questioni di Economia e Finanza (occasional paper), Banca d’Italia 2014, 6, sulla scorta di W.A. Fischel, The Homevoter Hypothesis, Harvard University Press, 2001). Infatti, la spesa pubblica beneficia in modo particolare i capitali materiali, immateriali e personali, e a questo si aggiunge il particolare beneficio riveniente alle proprietà immobiliari dalle spese degli enti locali, che in una economia di mercato si riflette sul loro valore: “dato ciò, la tassazione immobiliare proporzionale al valore degli immobili si configura come un prezzo fiscale razionale per i numerosi e costosi servizi locali che giovano ai proprietari e agli utenti degli immobili” (F. Forte, Manuale di Scienza delle Finanze, cit., 480). Imboccata questa via, la caratterizzazione dell’imposta cessa di fondarsi sull’idea di una continuità tra patrimonio e reddito, per esprimerne invece l’opposizione, e la reciproca autonomia – la stessa che nel linguaggio dei tecnici si riassume nella relazione tra flow e stock. (12) Art. 1 comma 745 l. n. 160/2019.


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soggetto diverso dal possessore a titolo di diritto reale, e dall’utilizzatore in leasing, che ciò non ostante ricava un’utilità dal bene, non si pone. Nel caso in discussione, la capacità contributiva è infatti del proprietario, e il fatto che un terzo ricavi dal bene le utilità che gli sono proprie può forse suscitare un problema di equità, ma è razionalmente irrilevante. Con ciò, viene meno anche l’impegno per l’interprete a differenziare (mediante specificazione) il contenuto dell’istituto possessorio, al fine di evitare una decisione altrimenti non giustificabile sotto il profilo della coerenza con il presupposto. Anzi, il problema si capovolge, perché le stesse ragioni che imporrebbero di mettere rimedio all’insufficienza del dettato legislativo, quando vi sia certezza che una capacità contributiva imponibile si sottrarrebbe al prelievo, esigono anche che qualsiasi risultato dell’interpretazione che, al contrario, chiami alla contribuzione una capacità economica diversa da quella assunta nella definizione del presupposto, vada a pari titolo ripudiato. Tutto questo per dire che, malgrado l’isolata deviazione dai vincoli che dipendono da una rigorosa concezione dell’imposta sul patrimonio, anzi proprio per questa, le cinque sentenze che si annotano manifestano un rilievo che va oltre l’esigenza di una decisione giusta nel caso deciso, e si prestano anche a qualche considerazione di portata più generale. 2. Individuato lo sfondo su cui si stagliano le sentenze della Corte, è appena il caso di puntualizzare che la scelta tra le opzioni teoriche ora evidenziate non può che rispondere a un criterio di aderenza al dettato normativo, e questo richiede una verifica sui due principali nuclei concettuali e giuridici investiti dalle sentenze della Corte: il “possesso” dell’immobile, e le relazioni giuridiche di cui è parte l’utilizzatore in leasing del bene in costanza di rapporto contrattuale, e dopo la sua risoluzione (13).

(13) Sarebbero da esaminare anche altre questioni, come, per esempio, l’interpretazione del disposto del d.m. 30 ottobre 2012, di approvazione del modello di dichiarazione dell’IMU, per il quale “nel caso ... di risoluzione anticipata ... la società di leasing, che è il nuovo soggetto passivo, e il locatario, che ha cessato di esserlo, sono coloro su cui grava l’onere dichiarativo IMU entro 90 giorni dalla data di riconsegna del bene comprovata dal verbale di consegna”, su cui Corasaniti, Riflessioni (tra norme di diritto civile e diritto tributario) a margine di due recenti (e contrastanti) pronunce della Suprema Corte sulla controversa soggettività passiva ai fini IMU nel leasing immobiliare, cit., 2172, per il quale la prescrizione “rappresenta il riferimento normativo su cui pacificamente ancorare la soggettività passiva ai fini IMU in capo all’utilizzatore sino alla data di consegna del bene alla società”. Spunto suggestivo, ma non risolutivo, perché nulla impone che vi sia coincidenza tra soggetti tenuti all’obbligazione (principale) del pagamento, e all’obbligazione (strumentale) dichiarativa (a parte poi il fatto che la regola reca l’inciso per il


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Prima di approfondire, è però da notare che aderenza al dettato normativo significa anche pari considerazione dei precetti che vi si esprimono, quindi rifiuto delle forme di svalutazione di uno di essi (la regola del “possesso”), a cui si potrebbe essere indotti a cedere, per dirimere la questione. Si tratta di un procedimento a cui talvolta la dottrina è ricorsa per porre rimedio alle criticità insite nella definizione del presupposto imponibile (in questi casi lo si considera come un termine generico e descrittivo, sinonimo della titolarità del diritto di proprietà, o di altro diritto reale di godimento) (14); o per risolvere i casi in cui il possesso si presenti disgiunto dal godimento dell’utilità del bene – e allora lo si vorrebbe equivalente alla mera detenzione (15), oppure (il che all’esito pratico è lo stesso), si propone di risolverlo in una relazione di prossimità fisica al bene. Ma è chiaro che, con ciò, la regola del possesso viene nella sostanza sacrificata. Contro tali esiti non c’è solo da mettere in discussione l’aderenza alla volontà legislativa della concezione particolare del fatto economico, al cui verificarsi sorge l’obbligazione tributaria, che essi presuppongono (lo faremo tra poco) (16). C’è anche da osservare che per l’IMU vale quello che accade per le imposte sui redditi, e cioè che il legislatore non recepisce passivamente i concetti elaborati dalle scienze economiche, ma li adatta alle esigenze di certezza, semplicità ed efficienza amministrativa che condizionano la materia dei tributi. Da questo punto di vista, la soluzione al problema della pertinenza, o meno, del godimento di un’utilità del bene alla capacità contributiva, che l’imposta si propone di colpire, può persino rivelarsi non dirimente. Anche ad ammettere che, in certi casi, ragioni di coerenza, o anche di equità, giustifichino l’impu-

quale con la risoluzione il locatario cessa di essere soggetto passivo dell’imposta, ed è contenuta in una fonte secondaria, da interpretare, nel dubbio, in conformità alla norma primaria a cui dà attuazione). Sul tema, con valutazioni per la stessa ragione non appaganti, E. Mencarelli, Leasing e IMU: obblighi del locatario inadempiente, in Rass. Trib. 2013, 637 ss.; G. Incerto, Soggettività passiva IMU delle società di leasing nei casi (eccezionali) di risoluzione della locazione finanziaria senza riconsegna del bene, in Il tributario, 2019, s.p. (14) A. Giovanardi, Tributi comunali, in questa rivista, 1999, 500. (15) R. Corriere, Possesso e disponibilità nell’imposizione sul patrimonio immobiliare, cit. 168 ss. (16) Il debito che tali proposte hanno contratto nei confronti di una logica che è più di un’imposta sul reddito commisurata al patrimonio, o sui redditi da esso ritraibili, che non di un’imposta patrimoniale in senso proprio pare evidente. Ci si propone di dimostrarlo nel seguito del testo.


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tazione del presupposto al mero detentore, resta il fatto che, per soddisfare le indicate esigenze, la legge prescrive requisiti particolari, collegando il debito d’imposta alla ricorrenza di fattispecie connotate dal possesso a titolo di un diritto reale di proprietà o di godimento, alle quali è, sì, parificata la detenzione, ma se assistita da un titolo idoneo (“qualificata”). Lo scarto tra le due forme di detenzione è la misura della distanza tra dimensione economica e valutazione giuridica del fenomeno, che l’interprete non può colmare. Anche per queste ragioni, nell’esaminare brevemente il merito del problema, inizieremo dalla nozione di “possesso”, per trattare del resto in un secondo momento. 3. Su questo punto, la natura delle questioni in gioco fa in modo che la definizione del ruolo dell’istituto possessorio nella definizione del presupposto dell’imposta patrimoniale locale sfugga a una ferrea alternativa tra autonomia contenutistica ed eterointegrazione attraverso la disciplina del codice; o, meglio, che pur ammessa, e non concessa, l’autonomia della nozione, non per questo il suo contenuto trascini con sé l’equiparazione del mero detentore all’utilizzatore in leasing. Il contenuto precettivo della regola del possesso ha infatti implicazioni ulteriori, che possono mettere in dubbio questa conclusione fino a imporne il rigetto. Ma procediamo con ordine, prendendo avvio dalla prima delle indicate alternative. Un contributo alla semplificazione della questione viene dal rilievo della mobilità delle relazioni di volta in volta predicabili tra gli istituti e i termini utilizzati dalla legge tributaria provenienti da altri settori dell’ordinamento, e la disciplina che essi ricevono dal settore di appartenenza. Il discorso è noto, ed è stato riportato all’attenzione della dottrina anche in una recente rivendicazione dell’autonomia scientifica e didattica del diritto tributario con argomenti persuasivi, che paiono utilmente invocabili anche in questa sede (17).

(17) Si allude al pregevole saggio di F. Paparella, L’autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri settori dell’ordinamento tra ponderazione dei valori, crisi del diritto e tendenze alla semplificazione dei saperi giuridici, in questa Rivista, 2019, I, 609, il quale, tra le altre cose, avverte come “non possa affermarsi l’applicazione diretta della disciplina e degli istituti delle altre materie giuridiche con riferimento all’insieme delle regole e dei principi che esprimono i criteri di riparto delle spese pubbliche e, dunque, alle norme che disciplinano il presupposto, la base imponibile, i soggetti passivi e le aliquote dei tributi. In questi casi, infatti, occorre valutare di volta in volta la norma tributaria, in ragione degli eventuali rinvii o delle tecniche di presupposizione, per verificare la coerenza dei suoi effetti rispetto ai principi costituzionali della nostra materia”.


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Non pare dunque richiedere l’adempimento di alcun particolare onere dimostrativo l’affermazione che, una volta portata la discussione sul piano testuale, l’alternativa teorica tra autonomia funzionale ed eterointegrazione dal diritto civile, che si pone di fronte alla nozione di “possesso”, perde di rilievo, per convertirsi in altro e più concreto interrogativo. Se, cioè, la regola che sottopone a tassazione l’utilizzatore in leasing del bene immobile per tutta la durata del contratto concorra a definire una relazione con il bene, diversa da quella che si ricava dalla disciplina civilistica del possesso; oppure si ponga, rispetto a questa, come speciale ossia derogatoria, esaurendo la propria portata nella regolazione del caso del leasing immobiliare, in essa previsto e tipizzato. Così definiti i termini della questione, il dato interessante è che la sentenza Corte Cass. n. 19166/2019 opta per la prima delle indicate soluzioni, che vi è accolta come ragione di un pregiudiziale “depotenziamento” del “l’argomento secondo cui l’utilizzatore, “possessore” al momento della stipula del contratto di leasing, diventerebbe un mero detentore (peraltro abusivo) al momento della risoluzione dello stesso, dovendosi riconoscergli tecnicamente la veste di detentore ab initio”. Nell’economia della sentenza, questo passaggio funge da premessa per l’affermazione della soggettività passiva dell’ex locatario che continui a detenere l’immobile anche dopo la risoluzione del leasing, fino alla sua riconsegna al proprietario. Si tratta, tuttavia, di un assunto che a nostro avviso si offre a critica per più ragioni, a cominciare dall’insufficiente considerazione della tecnica di formulazione del precetto pertinente alla questione decisa (18). Se si ha riguardo a questo aspetto, non è infatti privo di significato che, in costanza del contratto di leasing immobiliare, la legge attribuisca al “locatario” la qualità di soggetto passivo dell’imposta attraverso una doppia movenza regolatoria: la definizione per la quale i soggetti passivi sono i “possessori di immobili, intendendosi per tali il proprietario ovvero il titolare del diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie sugli stessi”, seguita dalla separata prescrizione per la quale, nella vigenza di un contratto di le-

(18) Altra ragione è l’opacità della nozione di detenzione sottesa all’argomento, dietro la quale si finisce per equiparare la detenzione “qualificata” autonoma, ossia esercitata nell’interesse proprio, che è dell’utilizzatore in leasing del bene, con la detenzione non qualificata, non dovuta a spirito di ospitalità né a ragioni di servizio, quindi de facto, che residua al venir meno del contratto. La tesi secondo la quale la sopravvivenza di obbligazioni negoziali e legali dopo la risoluzione del contratto consentirebbe di parlare anche in questo caso di detenzione “qualificata” sarebbe da recepire come una petizione di principio.


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asing – “dalla data della stipula e per tutta la [sua] durata” – lo è invece il “locatario”. Formulazione letterale e connessione logica fanno dubitare che, enunciando la regola, il legislatore abbia manifestato la volontà di discostarsi dalla nozione di diritto comune tratteggiata dall’art. 1140 cod. civ., che ha nominativamente utilizzato nel primo dei richiamati precetti. Inoltre, che si possa “possedere in proprio o per mezzo di altra persona, che abbia la detenzione della cosa” è regola generale (art. 1140, comma 2, cod. civ.), dunque, in mancanza di una previsione espressa di segno contrario, il fatto che il bene sia detenuto da un terzo non priva il proprietario, che ne ha il possesso, della soggezione al tributo. E che così non sia per l’utilizzatore del bene in leasing è l’effetto di una disposizione alla quale non pare, perciò, azzardato riconoscere una natura, rispetto a quella, eccezionale, con tutte le conseguenze che ciò comporta sul piano dell’interpretazione (19). Se si accede a questa ricostruzione, non v’è neppure difficoltà a rendere conto dell’eccezione alla disciplina comune del possesso. Il leasing immobiliare è un contratto tipico (20), i cui caratteri consentono di ritenere con buona approssimazione che la deroga trovi fondamento nell’esigenza di trattare in modo eguale fattispecie eguali: da un lato, il proprietario che ha il possesso del bene; dall’altro, l’utilizzatore, che lo detiene avendo assolto il proprietario da ogni rischio – e che lo può diventare esercitando nei termini del contratto il diritto di riscatto (21).

(19) Sulla relatività del concetto di specialità: R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, in Iudica-Piatti (a cura), Trattato di diritto privato, Milano 1993, 440; V. Velluzzi, Le preleggi e l’interpretazione. Una introduzione critica, Pisa, 80 ss. (20) In base alla definizione del tipo contrattuale compiuta dall’art. 1 comma 136 l. n. 124/2017, la locazione finanziaria è “il contratto con il quale la banca o l’intermediario finanziario ..., si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l’obbligo di restituirlo”. (21) A giustificare la soggettività passiva del locatario in luogo del proprietario del bene concorre anche la causa del contratto di leasing: “La proprietà sul bene assume un significato meramente strumentale alla causa finanziaria del contratto, da ciò il disinteresse del concedente per fatti o situazioni collegabili all’utilizzazione del bene, almeno a partire dalla sua consegna all’utilizzatore e fino all’eventuale esercizio del riscatto” (F. Saponaro, Problematiche fiscali del leasing finanziario immobiliare, in Rass. Trib. 2004, 940-1). Ma, con la risoluzione del contratto, anche la causa del finanziamento viene meno, e questo è un elemento ulteriore a favore della perdita della soggettività passiva IMU dell’ex locatario.


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Nell’esercizio della sua discrezionalità, soggetta solo al limite della ragionevolezza, il legislatore ha evidentemente ritenuto equivalenti le capacità contributive di questi due soggetti, che ha perciò parificato quanto all’obbligo di versamento del tributo “per tutta la durata del contratto”. E ciò perché l’uno e l’altro possono disporre, sia pure per titoli e in modi diversi, del valore riverberatosi sul bene per effetto della spesa pubblica locale, che è la base imponibile dell’imposta (22). 4. Giunti a questo punto, occorre guardarsi dal trarre subito le conseguenze, negando, senz’altra verifica, rilievo all’utilità che l’ex locatario ricava dal bene dopo la risoluzione del leasing, e fino all’adempimento dell’obbligazione restitutoria, a motivo dell’estraneità della fattispecie dalle regole ordinarie di imputazione soggettiva del presupposto (23). L’argomento ora messo a fuoco potrebbe ancora essere imputato di parzialità, perché non considera che uno degli elementi di complessità della disciplina dell’IMU risiede nell’elenco dei diritti reali la cui titolarità importa soggezione all’imposta. Vi compaiono, ed è dato a cui si è già fatto cenno, ma su cui conviene insistere, il diritto di proprietà e gli altri diritti reali di godimento; e questo con ogni evidenza comporta che, in presenza di un diritto appartenente alla seconda classe, il nudo proprietario e il concedente siano esclusi dalla tassazione (24). Emerge perciò un aspetto che riporta alle discussioni fondative sui caratteri dell’imposta locale sul patrimonio, perché già per l’ICI si era affacciata la proposta di ricavare da questi elementi una regola generale, che avrebbe predicato l’idoneità del godimento di una utilità del bene a integrare il presupposto imponibile, rispetto alla quale anche il regime riservato al concedente in leasing sarebbe stato coerente (25). Trasferito all’IMU, e assunto alla stregua

(22) Va da sé che, con la risoluzione del contratto, l’ex locatario conserva con il bene una relazione di fatto, che si differenzia da quella assicurata dal contratto, e ciò giustifica la perdita della soggezione al tributo. (23) Resta da definire il rilievo delle obbligazioni che sopravvivono alla risoluzione del contratto, per stabilire se, in virtù loro, esso duri tuttora, determinando la persistente incidenza del presupposto imponibile nella sfera giuridica del detentore del bene fino alla riconsegna: ci arriveremo. (24) Analoga considerazione potrebbe farsi – ed è stata fatta da E. Mencarelli, Leasing e IMU: obblighi del locatario inadempiente, cit. ibid. – per il caso dell’ex coniuge assegnatario della casa familiare, la cui posizione è assimilata al titolare del diritto di abitazione dall’art. 4 c. 12-quinquies D.L. n. 16/2012, conv. n L. n. 44/2012. (25) La coerenza tra la regola che sancisce l’alternatività tra la soggettività passiva di pro-


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di un principio, questo argomento potrebbe restituire plausibilità all’impostazione della sentenza n. 19166/2019, perché giustificherebbe l’applicazione dell’imposta anche a carico dell’ex locatario che continui a utilizzare il bene dopo la risoluzione del contratto. Si tratta, però, di un’ipotesi che male si accorda con il diritto positivo, e che perciò non può essere accolta. Vi si oppongono, infatti, le obiezioni già fatte per quell’imposta, perché, ragionando in questo modo, si finisce per trasformare surrettiziamente l’IMU – un’imposta patrimoniale diretta a colpire il possesso di immobili – in un ibrido tributario gravante sul loro uso (26). Un esito di questo genere sarebbe inaccettabile, perché comprometterebbe l’unitarietà del presupposto, che per le restanti fattispecie ha caratteri diversi. Del resto, si tratta di un discorso ormai esaurito, che non è certo il caso di riaprire in questa sede; e, se vi si fa cenno, è per evidenziare che l’interpretazione della regola definitoria del presupposto di imponibilità IMU compiuta nella sentenza n. 19166/2019, la quale scolora la regola del “possesso” fino ad applicarla alla detenzione de facto che l’ex locatario conserva dopo la risoluzione del leasing, si pone nella scia di posizioni già emerse e discusse nel passato che, con varietà di accenti che non è pensabile rievocare qui in modo compiuto, hanno apertamente teorizzato la dipendenza dell’imposta locale sul patrimonio da logiche proprie dell’imposta sui redditi, ora accettandola come un dato strutturale ineliminabile (27), ora proponendo soluzioni razionaliz-

prietario e titolare di altro diritto reale di godimento, e la soggettività passiva dell’utilizzatore in leasing del bene è stata segnalata, con riferimento all’ICI, da: M. Basilavecchia, Profili eccentrici di soggettività passiva nell’ici: l’utilizzatore nel leasing, i concessionari demaniali, il diritto di abitazione, il fallimento, l’eredità giacente, in Fin. loc. 2004, 70. Resta il fatto, tanto evidente quanto ovvio, che, pur accomunata alla disciplina dei diritti reali di godimento sotto il profilo indicato nel testo, la regola riservata al contratto di leasing conserva un profilo di specialità nella natura obbligatoria del rapporto che ne sorge. (26) L’osservazione è compiuta con riferimento proprio alla regola riservata al leasing immobiliare da A. Giovanardi, Tributi comunali, cit., 503. In precedenza: G. Gasparini, L’imposta comunale sugli immobili, in A. Amatucci (a cura), Trattato di diritto tributario, IV Padova, 1994, 445, per il quale “il locatario non manifesta la capacità contributiva valorizzata dal presupposto oggettivo del tributo”, dunque “si realizza una sostanziale sostituzione di quest’ultimo di subbia legittimità costituzionale: al possesso qualificato si sostituisce, infatti, l’utilizzo del bene, come se si trattasse di un tributo sull’uso anziché sul possesso” (sulla coerenza con il parametro di legittimità costituzionale abbiamo espresso il nostro diverso avviso nel testo, a cui si rinvia). (27) A. Giovanardi, Tributi comunali, cit., 502. Si veda inoltre: F. Paparella, Possesso di redditi ed interposizione fittizia. Contributo allo studio dell’elemento soggettivo nella fattispecie imponibile, Milano, 2000, 172, n. 151, ove la definizione del presupposto ICI è


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zanti in chiave di una più marcata differenziazione dei due tributi, come si è visto, non priva di una base nella teoria finanziaria. Ed è un fatto anch’esso riscontrabile che il necessario recupero di una centralità dell’elemento “possesso” – necessario se ci si vuole mantenere fedeli al testo della legge – si colloca sul secondo dei versanti indicati; sul versante, cioè, della ricostruzione di una normativa coerente con i caratteri di una imposta patrimoniale propriamente intesa. Nel dibattito scientifico che ha investito i caratteri dell’imposizione locale del patrimonio, il recupero della centralità del possesso è, infatti, il risultato di una ricostruzione teorica che ha confinato all’ambito della imposizione sui redditi l’uso della relativa nozione come criterio di riparto del carico tributario, diretto a consentire all’interprete di prescindere, a determinati effetti, dall’effettiva titolarità delle situazioni soggettive sottostanti ai diritti di proprietà e agli altri diritti reali di godimento. In una imposta patrimoniale, il ruolo dell’elemento “possesso” è però diverso, e serve a dichiarare l’indipendenza del fatto costitutivo dell’obbligazione d’imposta dal godimento di una utilità qualsiasi, riveniente dal bene (28). Semplificando all’estremo: dire possesso di un bene, significa negare che occorra anche ricavarne un’utilità.

presentata alla stregua di una esplicitazione della regola vigente per l’imposizione sui redditi, che “privilegia le relazioni giuridiche inerenti alla fonte di produzione”. È evidente che, così ragionando, si pongono le premesse per trasferire nella disciplina dell’imposta patrimoniale conclusioni valide per l’imposta sui redditi, come in effetti accade per la soggezione all’imposta del soggetto che ha la disponibilità di fatto. Sul punto ancora significativa la posizione di M. Interdonato, I redditi fondiari, in Tesauro (a cura), Imposta sul reddito delle persone fisiche, I, Torino, 1994, che, dopo avere assunto, sulla scorta di G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, Torino 1989, 75, e A. Fantozzi, Diritto tributario, Torino 1991, 177, la coincidenza di principio tra il possesso evocato nell’odierno art. 26 comma 1 TUID, e il possesso civilistico (op. cit., 174), venuto al problema del detentore che ricava dal bene utilità senza averne titolo, ne assume l’equivalenza con “possesso come si fosse proprietario”, per concludere per la soggettività passiva all’IRPEF anche di tale soggetto (op. cit., 176). Analoga opinione viene espressa per l’IMU in: G. Selicato, L’imposta unica comunale tra novità e conferme di precedenti modelli impositivi, cit. ibid., per il quale tale imposta sarebbe da porre fra “i tributi gemmati dalla tradizionale imposizione sui redditi fondiari, dalla quale sono attinte le principali regole, numerosi criteri egli schemi logici”. Tale impostazione teorica rifluisce nella pratica attraverso il trattamento da riservare al proprietario di un bene occupato abusivamente da terzi, su cui da ultimo, e senza pretese di completezza: Comm. Trib. Regionale di Milano, n. 4133 del 23 ottobre 2019; Comm. Trib. Prov. di Roma, n. 25506 del 20 novembre 2017 e n. 26532 del 7 dicembre 2017. (28) E. Marello, Contributo allo studio delle imposte sul patrimonio, cit., 113-5, per il quale infatti “... nel riferimento al possesso si intravede l’indicazione di un particolare tipo di rapporto tra il soggetto passivo e la supposta valenza reddituale dell’immobile: ritenendo il possesso sufficiente all’integrazione del presupposto si rafforza l’indipendenza dalla percezio-


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Riferendosi all’IMU, tutto ciò fa concludere che, anche per questa imposta, la regola del possesso sancisce l’irrilevanza del godimento di utilità per l’integrazione del presupposto imponibile, rispetto al quale si potrebbe dunque ripetere che “il possesso fonda il presupposto, e [allo stesso tempo] fissa un requisito di tipo negativo, dato dalla irrilevanza della percezione reddituale” (29). Su queste basi il discorso sul trattamento da riservare al detentore dell’immobile dopo la risoluzione del leasing può proseguire tenendo per fermo che, quand’anche il riferimento al possesso non andasse risolto secondo il contenuto che l’istituto riceve dalla disciplina del codice civile (come si ipotizza nella sentenza n. 19166/2019), non per questo se ne dovrebbe ricavare per necessità la sottoposizione di questo soggetto all’IMU. Infatti, una volta liberato dal suo background civilistico, resterebbe da definirne il contenuto del precetto secondo criteri adeguati all’imposta in considerazione. E in una imposta patrimoniale il possesso non funge da criterio di imputazione soggettiva dell’obbligazione d’imposta, ma dichiara l’irrilevanza dell’utilità riveniente dal bene nell’integrazione del presupposto. La conclusione è coerente con quella che si raggiunge sviluppando il diverso assunto della coincidenza del possesso civilistico e tributario (o, se si preferisce, il suo corollario dell’eccezionalità della regola riservata alla concessione del bene in leasing), visto che il risultato è il medesimo, ed è l’esclusione del mero detentore (dunque dell’ex locatario) dall’imposizione (30). Riportato al contenuto della maggioranza delle sentenze della Corte che hanno deciso la questione, la coincidenza del risultato a cui si perviene attraverso due diversi percorsi, accomunati da un eguale rispetto per il testo della

ne del reddito”, con citazione in nota di M. Miccinesi, La morosità del conduttore: occasioni e spunti per una riflessione sul reddito dei fabbricati, in Riv. Dir. fin. Sc. fin., 1985, I, 266, a riprova del fatto che con l’uso del termine “possesso” il legislatore abbia evitato di conferire rilevanza allo sfruttamento dell’immobile. (29) E. Marello, Contributo allo studio delle imposte sul patrimonio, cit., 115, l’inciso tra parentesi quadre è aggiunto. (30) E (circostanza non secondaria in forza di quanto si è avuto modo di premettere), è altresì rispettosa delle regole dell’interpretazione, in forza delle quali questo soggetto non potrebbe venire sottoposto a imposizione nell’arco di tempo compreso tra la risoluzione del contratto e la restituzione del bene al proprietario, senza contraddire il fondamento razionale della imposta.


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legge, e per i caratteri propri di una imposta sul patrimonio propriamente intesa, è indice della bontà del risultato (31). 5. Il discorso non può certo considerarsi concluso con le poche osservazioni qui proposte. Quanto sommariamente detto sembra, tuttavia, sufficiente per passare a considerare un secondo ambito concettuale e giuridico, tra quelli investiti dalle sentenze della Corte di cassazione, rappresentato dalle relazioni giuridiche che legano il proprietario del bene e l’utilizzatore in leasing per la durata del contratto, e anche dopo. La sentenza n. 19611/2019 accoglie come argomenti a favore della soggettività passiva dell’ex locatario fino alla restituzione del bene la ricorrenza nei contratti di leasing di clausole negoziali che trasferiscono sull’utilizzatore doveri, rischi e responsabilità normalmente gravanti sulla proprietà, e la giurisprudenza sulla c.d. ultrattività dei contratti di durata, che attribuiscono a un soggetto il diritto di godere di un bene altrui – tipico il caso della locazione ordinaria (32). Riferendosi all’ipotesi della mancata restituzione del bene dopo la risoluzione di un contratto per causa del conduttore, si ritiene infatti che l’ex conduttore conservi la stessa posizione che aveva in pendenza del rapporto; e ciò per una sorta di sopravvivenza di alcuni effetti tipici del contratto, come quello di gravarlo dei rischi inerenti alla perdita o al deterioramento del bene locato e di danni a terzi, degli obblighi di custodia, manutenzione e riconsegna, e dell’obbligazione di pagamento di una indennità parametrata al canone pattuito (33). Ed è anche in forza di tali fenomeni che con la citata sentenza la

(31) Forse non sarebbe azzardato (per dirlo con certezza sarebbe necessaria una indagine ben più approfondita di quella che è possibile in questa sede) assumere la conclusione raggiunta tra gli episodi di un processo di liberazione dell’IMU da una dipendenza dalla logica delle imposte sui redditi, che sembra avere perso la sua ragione di essere. (32) F. Zannini, Locazione, (voce) in Dig. Disc. Priv. Sez. Civ., XI, Torino, 1994, 109. Coco, Locazione [dir. priv.] (voce), in Enc. Dir., XX, Milano, 1974, 981; G. Tabet, Locazione [in generale] [Diritto civile] (voce), in Noviss. dig. it., IX, Torino, 1963, 1024. (33) Corte Cass. sez. civ., sentenze nn. 6253/2015, 11118/2013, 22924/2012, 22924/2012, 9977/ 2011, 9549/2010, 2372072008, 11055/1993, 5456/ 1986, 2672/ 1981, 2617/1963. A ulteriore, quanto forse non esattamente pertinente conforto della interpretazione discussa nel testo, per la sentenza Corte Cass. n. 19166/2019, vi sarebbe poi la giurisprudenza che, nel caso di risoluzione di un contratto di leasing cd. traslativo, ha applicato in via analogica, in mancanza una regola apposita, l’art. 1526 cod. civ., e, quindi, “estende all’utilizzatore moroso il diritto (dell’acquirente a rate) alla restituzione dei canoni versati all’impresa concedente (al netto di un equo compenso per il godimento del bene)” (massima resa probabilmente superflua dalla previsione di apposite regole positive contenute nella L. n. 124/2017)


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Corte ha voluto che la soggettività passiva dell’utilizzatore prescritta per tutta la durata del contratto sopravvivesse alla sua risoluzione, sino alla restituzione del bene al proprietario (34). Qui viene in gioco un tema che, alla luce delle diverse, anzi opposte, valutazioni espresse nelle altre sentenze della Corte (che hanno ripetutamente stigmatizzato l’irrilevanza di tali effetti nei rapporti con i terzi, quindi anche con il Comune), può forse richiedere un chiarimento, a fronte della regola che attribuisce la soggettività passiva del tributo all’utilizzatore in leasing. Anche in questo caso ci si trova di fronte a effetti che si esprimono inter partes, e ciò potrebbe confermare gli argomenti accolti nella sentenza n. 19166/2019. Non pare, però, che una conseguenza simile sia da temere, perché, tra le ragioni che militano per l’equiparazione della posizione giuridica soggettiva dell’utilizzatore in forza di un leasing immobiliare a quella del possessore a titolo di diritto di proprietà, v’è anche la possibilità che a determinati effetti il contratto sia trascrivibile nei pubblici registri immobiliari. Sul punto non v’è unanimità di vedute, ma si può dire che, inizialmente avversata, la trascrivibilità del contratto è stata dimostrata per il leasing immobiliare di durata ultra-novennale – ciò in base all’argomento che, ai sensi dell’art. 2645, c.c., “produce in relazione a beni immobili o a diritti immobiliari taluno degli effetti dei contratti menzionati nell’art. 2643” c.c. (35) –; e per il c.d. sale and lease back immobiliare – in base all’art. 2643 n. 1 c.c. (36).

(34) Non pare il caso di indugiare su di una riserva persino ovvia suscitata dall’argomento ora in discussione, suggerita dal fatto che vi sono casi in cui l’obbligazione nata per fatti o condotte verificatisi durante la detenzione non si estingue con la restituzione del bene (si pensi alla responsabilità per la mancata riduzione in pristino del bene), onde potrebbe essere sotto questo aspetto difficile riconoscere la coerenza della massima per la quale la soggettività passiva all’imposta passa al proprietario a partire da quel momento, e non, poniamo, all’estinzione dell’obbligazione. (35) R. Clarizia, I contratti nuovi, in Bessone (diretto da), Tratt. dir. priv., Torino, 1999, 210; Id, La locazione finanziaria di un immobile da costruire, in Riv. it. leasing, 1986, 223: «Il contratto di locazione finanziaria immobiliare, a differenza di quello mobiliare, deve avere forma scritta e deve essere trascritto nel caso che la durata sia superiore ai 9 anni»; Id., La locazione finanziaria, Torino, 1996, 281. Negli stessi termini, G. Santarcangelo, L’operazione di leasing: profili civile e fiscali, in L’immobile e l’impresa, Quaderni del notariato, Milano, 2013, 141; V. Buonocore, La locazione finanziaria, in Cicu-Messineo-Mengoni (già diretto da), Shlesinger (continuato da), Tratt. dir. comm., Milano, 2006, 269. (36) F. Gazzoni, La trascrizione immobiliare, in Cod. civ. Comm., Art. 2643, Schlesinger (diretto da), Milano, 1991, 681; Id La trascrizione degli atti e delle sentenze, in GabrielliGazzoni (diretto da), Trattato della trascrizione, tomo I, Torino, 2012, 552.


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Si tratta di soluzioni recepite dalla prassi notarile (37), che giustificano il regime IMU riservato all’utilizzatore del bene in leasing, e allo stesso tempo ne differenziano la posizione giuridica da quella dell’ex locatario, per il periodo che intercorre tra la risoluzione del contratto e la consegna del bene. Infatti, anche in presenza di fenomeni di sopravvivenza di taluni effetti del contratto risolto, la situazione di carenza di tutela attiva, verso il proprietario e i terzi, in cui questo soggetto si trova, può essere resa pubblica attraverso la trascrizione della domanda giudiziale di risoluzione del contratto secondo il disposto dell’art. 2652 cod. civ., con la conseguenza che, se accolta, i diritti dei terzi, che abbiano acquistato il bene dal proprietario con atto trascritto dopo la domanda, non ne sono pregiudicati. Che, ciò non ostante, l’ex locatario vada soggetto a un prelievo di tipo patrimoniale, può sollevare forti perplessità sotto il profilo della coerenza con il presupposto legislativamente stabilito, alla luce del fatto che, anche per effetto delle regole ora ricordate, è il proprietario che può disporre del valore dell’immobile, il cui beneficio riveniente dalle spese pubblica locale giustifica e quantifica il prelievo. Gli elementi (sia i positivi che i contrari) ora richiamati non vanno certamente sopravalutati, anche perché si inseriscono in una questione più ampia, da risolvere secondo le particolari disposizioni che riguardano la definizione e l’imputazione soggettiva del presupposto imponibile dell’IMU (ed è quanto si è cercato di fare nelle pagine che precedono). Eppure, nella logica della ponderazione di interessi che caratterizza queste regole, la differenza di tutela che l’ordinamento riserva alle due figure dell’utilizzatore in leasing del bene, e di chi lo detiene dopo la risoluzione del contratto, rende ragione della razionalità della scelta di tenere questo secondo soggetto indenne dal debito d’imposta. 6. Pare in conclusione da condividere la linea tracciata dalla Corte con le sentenze che hanno, a nostro avviso correttamente, negato la soggettività passiva dell’ex locatario dopo la risoluzione del contratto, attribuendola sin da quel momento al proprietario. Non è possibile dire se gli argomenti che hanno condotto la Corte a risolvere il problema in questo modo abbiano conseguito un grado di persuasività tale, da consentire di basare su di essi la riduzione dei margini di opinabilità,

(37) Studio 38/2016-C del Consiglio Nazionale del Notariato, Il leasing immobiliare abitativo. prime considerazioni, a firma Musto-Piccolo-Tresca, in https://www.notariato.it/sites/ default/files/38-2016-C.pdf, da cui sono state tratte le indicazioni dottrinali inserite nelle due precedenti note.


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che sul piano scientifico accompagnano gli elementi fondamentali della disciplina dell’imposta locale sugli immobili. Forse è pensabile che per ricavarne solide conseguenze convenga attendere che la Corte dirima tutte le questioni ancora aperte, che i critici non mancano di segnalare. Sembra però che le sentenze ora ricordate fissino un buon punto di partenza per la soluzione di casi analoghi a quello deciso, nei quali il proprietario sia accidentalmente impedito a ricavare dall’immobile l’utilità che gli è propria, perché abusivamente occupato da terzi; ed è quanto ci si può ragionevolmente ancora aspettare dalla Corte.

Gaetano Ragucci


Rassegna ragionata e ricostruzione critica (alla luce di dottrina, prassi e giurisprudenza di merito) della “terza stagione” della Corte di Cassazione in tema di tassazione dell’atto di dotazione del trust Sommario: 1. Lo stato della praticabilità del trust nell’ordinamento giuridico italiano.

– 2. La questione dell’imponibilità dell’atto di sottoposizione di beni e diritti al vincolo del trust. – 3. L’opinione dell’Amministrazione Finanziaria. – 4. La giurisprudenza di merito. – 5. Le tre “stagioni” della Cassazione. – 6. Le venti decisioni del 2019: la terza “stagione” della Cassazione sulla tassazione dell’apporto di beni e diritti in trust. – 7. Conclusioni.

Sul tema della tassazione dell’atto di apporto di beni in un trust, la Corte di Cassazione ha emanato, nel corso del 2019, una ventina di univoche decisioni, invertendo la sua precedente giurisprudenza: originariamente, la Cassazione aveva deciso che l’imposta di donazione si applicasse nel momento istitutivo del vincolo di destinazione, ora invece è stato affermato che l’istituzione del vincolo non è intuibile come manifestazione di capacità contributiva During 2019, the Italian Supreme Court (“Suprema Corte di Cassazione”) issued about twenty decisions, identical in content, reversing its previous jurisprudence, on the matter of the imposition of gift tax on the contribution of assets to a trust: initially, the Court decided that the gift tax should be applied when the constraint of destination (“vincolo di destinazione”) is established, but it has now been stated that the establishment of the constraint (“vincolo”) cannot be considered as a manifestation of contributory capacity.

1. Brevi osservazioni introduttive sullo stato della praticabilità del trust nell’ordinamento giuridico italiano. – Com’è noto, l’ordinamento giuridico


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italiano conosce il trust per effetto della legge 16 ottobre 1989, n. 364 (1), mediante la quale è stata data ratifica ed esecuzione alla “Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata da L’Aja il 1° luglio 1985” (d’ora innanzi, la “Convenzione dell’Aja”): aderendo alla Convenzione dell’Aja, il legislatore italiano «ha dato cittadinanza nel nostro ordinamento, se così si può dire, all’istituto» (2) del trust, «per cui non è necessario che il giudice provveda di volta in volta a valutare se il singolo contratto» (3) «risponda al giudizio» di meritevolezza di tutela prescritto dall’articolo 1322, codice civile; in altre parole, il trust è un istituto di per sé meritevole di tutela (e, quindi, un istituto “tipico” del nostro ordinamento) in quanto la valutazione di tale meritevolezza è stata, appunto, compiuta, una volta per tutte, dal nostro legislatore mediante la legge 364/1989 (4). Dalla Convenzione dell’Aja deve, dunque, trarsi la nozione di “trust”: l’articolo 2 della Convenzione dell’Aja sancisce che «per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato. Il trust è caratterizzato dai seguenti elementi: a) i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee; b) i beni in trust sono intestati al trustee o ad un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee». In altre parole, il trust è perfettamente idoneo a essere ricompreso nel perimetro dei vincoli di destinazione (rilevanti, per disposto di legge – nel caso specifico, la Convenzione dell’Aja –, nel nostro ordinamento), in quanto è il vincolo di destinazione che il titolare di un dato patrimonio (denominato “disponente” o “settlor”) imprime su detto patrimonio affinché esso sia destinato allo scopo indicato dal disponente stesso: trasmissione inter-generazionale di

(1) Intitolata “Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata da L’Aja il 1° luglio 1985”. (2) Cass., 19 aprile 2018, n. 9637. (3) Qui la Cassazione peraltro dimentica che il trust non è un contratto. (4) Non ha più senso, dunque, continuare ancor oggi a discutere dell’ammissibilità, o meno, del cosiddetto trust “interno” nel nostro ordinamento:.


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un patrimonio (5), gestione unitaria di un patrimonio per evitarne la frammentazione e l’oculata amministrazione, garanzia per i creditori, realizzazione di un’opera pubblica, preservazione di un monumento o di un’opera d’arte, filantropia, beneficienza, tutela di un soggetto disabile, eccetera. Già dall’articolo 2 della Convenzione dell’Aja emergono evidenti, da un lato, la separazione tra il patrimonio “generale” del trustee e quella parte dei beni bensì appartenenti al trustee ma vincolati all’attuazione del trust («i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee»); e, d’altro lato, la destinazione dei beni vincolati in trust («il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee»). La separazione patrimoniale originata dal vincolo di destinazione è ancor più evidente alla lettura dell’articolo 11, comma 3, della Convenzione dell’Aja, ove si legge che l’istituzione del trust provoca i seguenti effetti: «a) […] i creditori personali del trustee non poss[o]no rivalersi sui beni in trust; b) […] i beni in trust [sono] segregati rispetto al patrimonio del trustee in caso di insolvenza di quest’ultimo o di suo fallimento; c) […] i beni in trust non rientrano nel regime matrimoniale o nella successione del trustee». Evidentemente stipulata con l’intento di rendere possibile il riconoscimento del trust istituito in ordinamenti che disciplinano tale istituto da parte di ordinamenti (come quello italiano) che non lo disciplinavano, la Convenzione dell’Aja ha però ben presto assunto, per il nostro ordinamento, accanto al suo originario ruolo di “convenzione di diritto internazionale privato”, anche il ruolo (in mancanza di una legge interna) di “convenzione di diritto materiale uniforme” e, cioè, di legge regolatrice del trust che sia istituito in Italia, da un disponente di nazionalità (anche) italiana che nomini un trustee di nazionalità (anche) italiana con riguardo a beni esistenti (anche) in Italia. Invero, se l’Italia ha concesso riconoscimento al trust, istituito al di fuori del territorio italiano,

(5) È importante segnalare che la giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. Unite, 12 luglio 2019, n. 18831) ha sancito che il trust istituito per trasmettere un patrimonio ai beneficiari alla morte del disponente non ha la natura di un atto mortis causa ma quella di un atto inter vivos con attribuzioni post mortem, sgombrando il campo, una volta per tutte, dal timore che, istituendo un trust con lo scopo di attribuire un vantaggio ai beneficiari del trust in coincidenza con la morte del disponente, si abbia una violazione del divieto dei cosiddetti “patti successori” (di cui all’articolo 458, codice civile): i beneficiari del trust acquisiscono il patrimonio «direttamente dal trustee e non già per successione mortis causa dal de cuius».


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che abbia le caratteristiche dettate nella Convenzione dell’Aja, evidentemente l’Italia ritiene tale istituto (utilizzando l’espressione contenuta nell’articolo 1322, codice civile) meritevole di tutela; e allora, non può essere possibile che un trust istituito all’estero, dotato di certe caratteristiche, possa “operare” in Italia (per il tramite del suo trustee) e un trust, con le medesime caratteristiche, non possa invece essere direttamente istituito in Italia (e in Italia “operare”). Vero invece è che in Italia, da quando il nostro Paese ha aderito alla Convenzione dell’Aja, è pienamente legittimo istituire un trust, dotato delle caratteristiche previste dalla Convenzione medesima; e che l’attività del trustee di questo trust è dotata di giuridica rilevanza nel nostro sistema giuridico. Il trust presuppone la nomina di un soggetto, denominato “trustee” (cui è demandato il compito di perseguire la finalità che il disponente intende perseguire istituendo il trust), perché è nella sfera giuridica del trustee (non essendo il trust un soggetto di diritto) che si forma il vincolo impresso ai beni i quali sono destinati in trust dal disponente. Al riguardo, si ha la seguente alternativa: (a) il disponente nomina sé stesso quale trustee, al che i beni destinati in trust rimangono di titolarità del disponente, ma, appunto, vincolati all’attuazione del trust (è questo il cosiddetto “trust autodichiara-to”); il trust autodichiarato è, dunque, la fattispecie nella quale il disponente, nominandosi quale trustee e isolando, dal proprio “patrimonio generale”, i beni destinati al trust e vincolandoli all’attuazione del trust, “manda” detti beni a formare un sottoinsieme a fianco del proprio “patrimonio generale”, finalizzato appunto all’attuazione del trust; in altri termini, nel trust autodichiarato i “beni in trust” non mutano di titolarità (in quanto essi permangono nella titolarità del settlor, divenuto anche trustee) ma vengono comunque vincolati all’attuazione del trust; (b) il disponente nomina come trustee un soggetto (persona fisica o giuridica) diverso da sé stesso e, in tal caso, gli attribuisce la titolarità del patrimonio destinato al trust (è, questo, il cosiddetto “trust tra-slativo”); in questa fattispecie, i beni destinati a divenire “beni in trust” vengono vincolati in trust passando dal “patrimonio generale” del settlor a quello del trustee e andando a formare, nell’ambito di quest’ultimo, un’area separata dal “patrimonio generale” del trustee.L’istituzione di un trust ha, dunque, per effetto l’originazione, nell’ambito del “patrimonio generale” del trustee, di un’“area patrimoniale separata”, in quanto implica che «i beni in trust rimangano distinti dal patrimonio personale del trustee» (articolo 11, Convenzione dell’Aja); nel testo bilingue della Convenzione si parla, al riguardo, di «biens [...] séparés du patrimoine du trustee» e di «trust


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assets» i quali «shall not form part of the trustee’s estate». In altri termini, il trust provoca l’effetto che, all’interno della sfera patrimoniale del trustee (vale a dire nell’insieme delle posizioni giuridiche attive e passive di cui il trustee è titolare, oppure, per usare l’espressione dell’art. 2740 c.c., nell’ambito di «tutti i suoi beni»), si forma un “sottoinsieme” composto dai “beni in trust”, isolati rispetto al restante patrimonio del trustee: ciò che poi usualmente si esemplifica, sotto il profilo applicativo, dicendo che (sempre ai sensi del predetto articolo 11, Convenzione dell’Aja) i “beni in trust” non vanno a far parte della comunione legale dei beni del trustee (ove sia coniugato e non abbia stipulato convenzioni matrimoniali), non vanno a far parte del relictum del trustee deceduto e non sono escutibili dai creditori “personali” del trustee. Questo effetto di separazione patrimoniale è provocato dalla “combinazione” tra l’atto che istituisce il trust e l’atto che individua i “beni in trust” e li destina all’attuazione del programma delineato nell’atto istitutivo del trust stesso (beninteso, l’atto istitutivo e l’atto di destinazione possono coesistere nello stesso documento oppure constare da due documenti diversi). Ma con la precisazione che: (a) nella fattispecie del trust con trasferimento della titolarità dei “beni in trust” dal disponente (o settlor) al trustee, i “beni in trust” passano dal “patrimonio generale” del settlor a quello del trustee e, in quest’ultimo, vanno a formare un’area separata dal “patrimonio generale” del trustee; (b) nella fattispecie del trust “autodichiarato” (nella quale cioè il settlor nomina se stesso quale trustee, isolando, dal proprio “patrimonio generale”, i beni destinati al trust, vincolandoli all’attuazione del trust e mandandoli a formare un sottoinsieme a fianco del proprio “patrimonio generale”, finalizzato appunto all’attuazione del trust) i “beni in trust”, invece, non mutano di titolarità (in quanto essi permangono nella titolarità del settlor, divenuto anche trustee) ma vengono comunque vincolati all’attuazione del trust. 2. La questione dell’imponibilità dell’atto di sottoposizione di beni e diritti al vincolo del trust. – Se, dunque, l’atto che istituisce il trust, essendo privo di «contenuto patrimoniale» (nel senso di cui all’articolo 9, Tariffa Parte Prima allegata al d.P.R. 131/1986, e all’articolo 11, Tariffa Parte Prima allegata al d.P.R. 131/1986) (6), non ha alcuna rilevanza tributaria al di là

(6) Per una compiuta disamina del significato da attribuire all’espressione «contenuto patrimoniale» v. A. Busani, Imposta di registro. Imposte ipotecaria e catastale. Imposta sosti-


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dell’applicazione (ipotizzando un atto redatto per scrittura privata autenticata o per atto pubblico) (7) della mera imposta di registro in misura fissa (ai sensi dell’articolo 11, Tariffa Parte Prima allegata al d.P.R. 131/1986) (8), l’atto di destinazione dei “beni in trust”, comportando appunto l’originazione di un “vincolo di destinazione”, si presta, invece, a essere osservato, dal punto di vista tributario, sotto il profilo dell’articolo 2, comma 47, d.l. 3 ottobre 2006, n. 262 (9), il quale ha disposto che «l’imposta sulle successioni e donazioni» di cui al d. lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, si appunta (oltre che sui «trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito») anche sulla «costituzione di vincoli di destinazione» (10). Al riguardo si pone un rilevante problema interpretativo: quando, nella norma in questione, si parla di «costituzione di vincoli di destinazione», se ne parla in sé e per sé e non si parla, invero, di «trasferimenti», correlati o connessi alla, oppure provocati dalla, «costituzione di vincoli di destinazione». Ci si deve, pertanto, porre il tema se, quando la legge afferma che «[l’]imposta sulle […] donazioni si applica […] ai trasferimenti di beni e diritti per donazione o altra liberalità tra vivi», soggetta a imposta sia la mera istituzione del vincolo di destinazione oppure se la legge, quando parla di «costituzione di vincoli di destinazione», debba intendersi sottintendere che l’imposta di donazione in tanto si applica in quanto la «costituzione di vincoli di destinazione» coincida con il trasferimento di un dato bene (recte: di un dato diritto su di un dato bene). Invero, l’imposta di donazione evidentemente presuppone l’attribuzione di un immediato decremento del patrimonio del donante con corrispondente immediato (e non futuro né eventuale) incremento del patrimonio del donata-

tutiva sui finanziamenti, Milano, 2018, 2805. (7) Se, invece, si ipotizza la scrittura privata non autenticata, l’obbligo di registrazione (sempre con l’imposta in misura fissa) si ha solo “in caso d’uso”, ai sensi dell’articolo 4, TP2. (8) Cfr. Circolare n. 3/E del 22 gennaio 2008, commentata da G. Fransoni, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. Trib., 2008, 8, 645, ma sull’argomento v. anche A. Contrino, Gli atti “innominati” a contenuto patrimoniale nell’imposizione di registro: profili ricostruttivi, in Riv. dir.trib., n. 1/2019, 175 ss. (9) Intitolato “Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria” e convertito in legge 24 novembre 2006, n. 286. (10) Secondo la predetta Circolare n. 3/E del 22 gennaio 2008, nella categoria dei vincoli di destinazione «sono riconducibili i negozi giuridici mediante i quali determinati beni sono destinati alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, con effetti segregativi e limitativi della disponibilità dei beni medesimi».


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rio: se, dunque, tale incremento non sussiste, è difficile ipotizzare l’applicazione di un’imposta il cui fulcro è proprio il prelievo relativo ai vantaggi che un soggetto consegue senza che da parte sua vi sia da effettuare (il che renderebbe l’atto non più a titolo gratuito, ma a titolo oneroso) alcuna prestazione correlata al vantaggio conseguito. E così, se si ipotizza la fattispecie del trasferimento di patrimonio che, in esecuzione dell’atto istitutivo del trust, intervenga tra il trustee e il beneficiario del trust, allora non appaiono esservi problemi di applicazione della tassazione in parola. Ma se si ipotizzano, invece: (a) l’istituzione del trust “autodichiarato”, nel quale non vi è cioè alcun effetto traslativo, ma una mera destinazione al trust di una parte del “patrimonio generale” del disponente (e, pertanto, l’istituzione di un “patrimonio destinato” a latere del suo “patrimonio generale”) con assunzione della qualità di trustee da parte sua; (b) la trasmissione di beni e diritti a un trustee, allo scopo che essi vadano a formare quell’insieme di “beni in trust” i quali costituiscano un patrimonio separato, affiancato al “patrimonio generale” del trustee, affinché mediante questo patrimonio separato il trustee attui il programma indicato dal settlor nell’atto istitutivo del trust; allora è difficile ipotizzare una tassazione con l’imposta di donazione in questo momento istitutivo del patrimonio separato poiché l’originazione della separazione patrimoniale (e la correlata attribuzione di beni al trustee) rappresentano solamente lo strumento per la realizzazione di quel programma (e, quindi, un momento tributariamente neutrale) (11).

(11) Sulla natura “neutrale” di questo momento cfr. ad esempio C. Buccico, Problematiche fiscali per l’imposizione indiretta dei trust, in Dir. Prat. Trib., 2016, 6, 2346; A. Contrino, Riforme del tributo successorio, atti di destinazione e trust familiari, in Riv. Dir. Trib., 2007, I, 542; A. Contrino, Il trasferimento di immobili in trust liberale è soggetto ad imposizione proporzionale di registro: note critiche su un recente arresto giurisprudenziale veneto (e sull’ondivaga posizione del fisco), in Riv. Dir. Trib., 2009, 496; A. Contrino, Sulla nuova (ma in realtà inesistente) imposta sui vincoli di destinazione “creata” dalla Suprema Corte: osservazioni critiche, in Rass. Trib., 2016, 1, 30; A. Fedele, Destinazione patrimoniale: criteri interpretativi e prospettive di evoluzione del sistema tributario, in AA.VV., Destinazione di beni allo scopo (Strumenti attuali e tecniche innovative), Milano, 2003, 293; A. Fedele, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in Rescigno (diretto da) e Ieva (coordinato da), Trattato breve delle successioni e donazioni, Padova, 2010, 593; S. Ghinassi, I principi generali in tema di determinazione della base imponibile nell’imposta sulle successioni, in Riv. Dir. Trib., 2009, II, 32; D. Stevanato, La reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni: prime riflessioni critiche, in Corr. Trib., 2007, 3, 247. In particolare, secondo A. Contrino, Commento all’art. 9, Tariffa Parte I, d.P.R. 131/1986, in Marongiu (a cura di), Imposta sul valore aggiunto


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In altri termini, questo momento non pare espressivo di alcuna capacità contributiva: invero, il trustee in effetti acquista la titolarità dei “beni in trust”, ma non è in suo favore che il vincolo di destinazione viene costituto, bensì a favore della realizzazione del programma dettatogli dal settlor, cosicché l’incremento che si verifica nel patrimonio del trustee non è destinato a una stabile permanenza in capo al trustee in quanto questi consegue in effetti una proprietà finalizzata all’espletamento del compito che si è obbligato a svolgere (12). 3. L’opinione dell’Amministrazione Finanziaria. – Rispetto a queste argomentazioni, l’Amministrazione Finanziaria (13) è andata diametralmente

e Imposte sui trasferimenti, in Falsitta-Fantozzi-Marongiu-Moschetti (a cura di), Commentario breve alle leggi tributarie, Tomo IV, Padova, 2011, 1051, «Il tributo successorio ha subito un ampliamento della sfera applicativa – che copre, adesso, anche gli atti gratuiti di trasferimento e, appunto, i vincoli di destinazione – ma non un mutamento del suo assetto strutturale. Con la conseguenza che “la locupletazione del soggetto passivo senza sacrificio alcuno, pur se diversamente apprezzata in ragione dei vincoli relazionali col disponente, continua a rappresentare l’oggetto dell’imposta sulle successioni e donazioni, ossia la forza economica che legittima il prelievo”: il tributo è pertanto applicabile solo se, e quando, si verifica un effettivo arricchimento da parte di un soggetto diverso dal costituente […]. Non ogni costituzione di un “vincolo di destinazione” comporta pertanto l’applicazione del tributo successorio, ma solo quella che determina un effettivo accrescimento della sfera patrimoniale di un soggetto diverso dal disponente; se è così, per i trust appartenenti al genus dei trust commerciali (quali sono quelli con finalità liquidatoria o a scopo di garanzia o i trust finanziari, ecc.) non è possibile ravvisare alcun vincolo di destinazione e non è pertanto applicabile l’imposta sulle donazioni; per i trust di stampo liberale, invece, è ravvisabile un vincolo di tal fatta ma il tributo è dovuto soltanto nel momento in cui si concretizzi un trasferimento di ricchezza a favore di un soggetto terzo, con pagamento, nella fase iniziale di trasferimento dei beni in trust, della imposta di registro in misura fissa». Aderisce invece alla tesi della immediata imponibilità dei trasferimenti al trustee G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, trust e patti di famiglia, Padova, 2008, 484. In materia cfr. pure Consiglio Nazionale Del Notariato, Studio n. 132-2015/T dell’1 e 2 ottobre 2015, L’imposizione indiretta sui vincoli di destinazione: nuovi orientamenti e prospettive interpretative, in CNN Notizie del 26 novembre 2015. (12) Cfr. A. Busani, Imposta di donazione su vincoli di destinazione e trust, in Corr. Trib., 2007, 5, 362, nonché la recente Cass., 17 gennaio 2018, n. 975 (13) Secondo la Circolare n. 3/E del 22 gennaio 2008 (sulla quale cfr. G. Fransoni, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. Trib., 2008, 8, 645), ciò «trae giustificato motivo dalla natura patrimoniale del conferimento in trust nonché dall’effetto segregativo che esso produce sui beni conferiti indipendentemente dal trasferimento formale della proprietà e, da ultimo, dal complessivo trattamento fiscale del trust che esclude dalla tassazione il trasferimento dei beni a favore dei beneficiari». Con riferimento alle imposte ipotecaria e catastale, l’Amministrazione ginanziaria (Circolare n. 48/E del 6 agosto 2007 e la Circolare n. 3/E del 22 gennaio 2008) le ritiene applicabili in misura proporzionale nel caso di: a) costituzione di trust con effetti traslativi; b) trasferimento dei beni vincolati in trust in seguito alla cessazione del


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in contrario avviso, ritenendo che l’atto istitutivo del vincolo di destinazione derivante da un trust avrebbe dovuto essere immediatamente assoggettato all’imposta di donazione (con la conseguente detassazione del momento “finale” del trust, e cioè quando il trustee devolve i “beni in trust”, qualunque ne sia il valore e la natura, al beneficiario) (14), la quale andrebbe calcolata, qualora sia designato un beneficiario certo e determinato, sulla base dell’eventuale rapporto di parentela o di affinità sussistente tra disponente e beneficiario finale (con la conseguenza che, nei casi di trust senza beneficiari – come è per i trust “di scopo” –, la tassazione andrebbe applicata con l’aliquota più elevata, senza tener conto delle franchigie), e ciò a prescindere sia dalla osservazione che il trasferimento al trustee rappresenti un evento meramente strumentale rispetto all’attuazione del trust, sia dalla considerazione che con il trust venga programmato, o meno, un effetto liberale in capo al beneficiario finale, sia, infine, dall’osservazione che l’istituzione del vincolo coincida o (come accade nel trust “autodichiarato”) non coincida con un trasferimento di beni dal settlor al trustee; in altri termini, ciò che avrebbe dovuto essere oggetto di tassazione – secondo l’Agenzia delle Entrate – sarebbe stato non l’incremento patrimoniale di cui il beneficiario approfitterà ma, assai prima, l’istituzione del vincolo, in sé e per sé (15).

vincolo del trust; c) trasferimenti eventualmente effettuati durante la vigenza del vincolo del trust; e, quindi, in caso di istituzione del trust senza che si producano effetti traslativi, l’imposta ipotecaria è dovuta in misura fissa (mentre l’imposta catastale non è dovuta, in quanto non deve farsi luogo ad alcuna voltura catastale). (14) E ciò in base al ragionamento secondo cui «il trust si sostanzia in un rapporto giuridico complesso con un’unica causa fiduciaria che caratterizza tutte le vicende del trust (istituzione, dotazione patrimoniale, gestione, realizzazione dell’interesse del beneficiario, raggiungimento dello scopo)»: Circolare n. 48/E del 6 agosto 2007 e Circolare n. 3/E del 22 gennaio 2008. (15) Nel medesimo senso G. Gaffuri, Note riguardanti la novellata imposta sulle successioni e donazioni, in Rass. Trib., 2007, 441 e, sia pur in parte, A. Fedele, Il trasferimento dei beni al trustee nelle imposte indirette», in G. Fransoni-De Renzis Sonnino (a cura di), Teoria e pratica della fiscalità dei Trust: dottrina, casi e soluzioni operative, Milano, 2008, 13, secondo il quale «se limitata ai soli trust ordinati ad attribuzioni gratuite, l’immediata applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, laddove siano previsti successivi trasferimenti dei beni in trust ai beneficiari, si giustifica solo in funzione di questi ultimi: si tratta, dunque, in questi casi, di un’anticipazione del tributo rispetto al perfezionarsi della fattispecie che ne giustifica l’applicazione in quanto indice di capacità contributiva, fenomeno peraltro frequente nell’attuazione del tributo successorio», nonché Cantillo, Il regime fiscale del trust dopo la Finanziaria 2007, in Rass. trib., 2007, 1047 ss. e, più di recente, Salanitro., Imposta principale postuma e registrazione di atto istitutivo di trust, in Dir. Prat. Trib., 2019, n. 3, 1239 ss.


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Ma non vi è chi non veda la fallacia di un tale ragionamento (16), che si presta ad essere irrimediabilmente contestato già sotto il semplice profilo della determinazione della base imponibile, poiché nessuno può sapere in anticipo (17) (ipotizzando un trust che abbia un effetto finale liberale, incrementativo del patrimonio del disponente) quali saranno i beni e i diritti (nonché il loro valore) che il trustee effettivamente trasferirà al beneficiario alla scadenza del trust, non fosse altro per la lunghezza del periodo che può intercorrere tra l’istituzione del trust e il suo momento finale nonché per l’esito della gestione dei “beni in trust” che il trustee opererà, la quale può non essere una gestione puramente conservativa del patrimonio ricevuto, al fine di devolverlo tale e quale al beneficiario, ma è una gestione che può (e talvolta deve) anche essere assai dinamica e avere, pertanto, come effetto una completa trasformazione dei “beni in trust”. Ancora, qualora – come già osservato – il trust abbia per oggetto, non l’incremento gratuito del patrimonio del soggetto beneficiario, ma il perseguimento di un dato fine (quale, ad esempio, quello di porsi quale strumento a beneficio dei creditori del disponente, allo scopo di favorire la composizione di una crisi d’impresa, ove l’effetto vantaggioso è “solo” quello di sanare, in tutto o in parte, le posizioni debitorie dell’impresa oggetto di ristrutturazione e, quindi, ben lungi si è da qualsiasi ipotesi di incremento patrimoniale di un beneficiario per finalità liberali) (18), in capo ad alcun soggetto si realizza al-

(16) Cfr., ad esempio, A. Salvati, Profili fiscali del trust, Milano, 2004, 269; A. ConIl trust liberale e l’imposta sulle donazioni, in Dial. Dir. Trib., 2004, 461; C. Monaco, Trust: fattispecie ed effetti fiscalmente rilevanti, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 2002, I, 647; A. Contrino, L’atto di trust fra presunta costituzione di «rendita » e rilevanza nel tributo successorio, in Corr. Trib., 2007, 31, 2503; G. Fransoni, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. Trib., 2008, 8, 650; P. Laroma Jezzi, La costituzione del trust di scopo sconta l’imposta sulle successioni e donazioni?, in Corr. Trib., 2014, 19, 1477; D. Muritano - A. Pischetola, Considerazioni su trust e imposte indirette, in Notariato, 2008, 320; D- Muritano - A. Pischetola, Trust liquidatori e relativi profili impositivi, in il fisco, 2010, 43, 6966; D. Stevanato, Applicabilità dell’imposta sulle successioni e donazioni ai trusts liberali e liquidatori, in GT - Riv. Giur. Trib., 2009, 6. (17) È appena il caso di rammentare che, econdo Corte Cost., 3 luglio 1967, n. 77, in Giur. Cost., 1967, 982, il legislatore può bensì imporre pagamenti anticipati rispetto al verificarsi del presupposto, ma solo (tra l’altro) qualora la fattispecie cui il prelievo anticipato viene collegato non sia del tutto avulsa dal presupposto, e cioè non rappresenti una violazione del principio di effettività. (18) Il caso di un trust costituito nell’ambito di una procedura di concordato preventivo al fine di destinare il ricavato della vendita alla soddisfazione della massa dei creditori della procedura è stato esaminato, ma ai soli fini dell’applicazione dell’imposizione diretta, nella trino,


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cun arricchimento, cosicché applicare una tassazione proporzionale al trasferimento dei “beni in trust” dall’impresa (o da terzi) al trustee che intervenga nell’ambito di questo trust solutorio che si è utilizzato per esemplificare il ragionamento, appare una soluzione che urta prima contro la coscienza che contro il diritto. 4. La giurisprudenza di merito. – Il contrasto di opinioni fin qui riferito ha avuto una plastica manifestazione anche in giurisprudenza (19). In sede di merito una minor parte (20) delle sentenze ha aderito alle tesi dell’Amministrazione, mentre, nella maggior parte (21) delle decisioni edite,

Risoluzione n. 4/E del 4 gennaio 2008. (19) Se si vuole notare un elemento di curiosità, icastico di questa situazione di pesante contrasto interpretativo, si può prendere atto che, con sentenza di pari data, due diverse sezioni della medesima Commissione Tributaria Regionale hanno adottato decisioni di segno opposto: cfr. Comm. Trib. Reg. Lombardia (Sez. I di Brescia), 30 giugno 2015, in Notariato, 2016, 1, 66; e in Trust, 2016, 1, 74, secondo cui «con il conferimento dei beni all’interno di un trust, il settlor perde la disponibilità dei beni e pertanto all’atto costitutivo andranno applicate le imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale»; e Comm. Trib. Reg. Lombardia (Sez. LXVI di Brescia), 30 giugno 2015, in Trust, 2016, 7, 425, secondo cui «l’atto istitutivo di un trust autodichiarato è soggetto alle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa anziché proporzionale, in quanto non realizza alcuna attribuzione né liberale né onerosa dal disponente al trustee, il quale non consegue alcun arricchimento patrimoniale». (20) L’affermazione si riferisce alle sentenze datate tra il 1° gennaio 2010 (non ha pregio risalire ancor più indietro, in quanto si finisce per incorrere in fattispecie verificatesi anteriormente all’entrata in vigore del d.l. 262/2006, che ha esteso l’imposta di donazione agli atti istitutivi di vincoli di destinazione) e il 31 dicembre 2018, in quanto, nel 2019, si è registrata una radicale svolta nella giurisprudenza di Cassazione. Tra le ultime, Comm. Trib. Reg. Lombardia, 9 maggio 2018, in Trust, 2019, 1, 89; Comm. Trib. I grado di Trento, 25 giugno 2018; Comm. Trib. Reg. Lombardia, 14 settembre 2018, in BIG Suite, IPSOA; Comm. Trib. Reg. Lazio 19 settembre 2018, in BIG Suite, IPSOA; Comm. Trib. Reg. Lombardia, 21 settembre 2018, in BIG Suite, IPSOA; Comm. Trib. Reg. Lombardia, 4 ottobre 2018, in BIG Suite, IPSOA; Comm. Trib. Reg. Veneto, 6 novembre 2018, in BIG Suite, IPSOA. (21) Anche in questo caso il riferimento è alle decisioni pubblicate tra il 1° gennaio 2010 e il 31 dicembre 2018. Tra le ultime, Comm. Trib. Reg. Lombardia, 4 gennaio 2018, in Trust, 2018, 4, 432; Comm. Trib. Reg. Lombardia, 11 gennaio 2018, in Trust, 2018, 3, 336; Comm. Trib. Prov. Brescia, 16 gennaio 2018, in BIG Suite, IPSOA; Comm. Trib. Reg. Emilia-Romagna, 12 febbraio 2018, in Trust, 2018, 4, 428; Comm. Trib. Reg. Lombardia, 13 febbraio 2018, in Trust, 2018, 6, 663; Comm. Trib. Reg. Veneto, 12 marzo 2018, in Notariato, 2018, 5, 592; Comm. Trib. Reg. Sardegna, 20 marzo 2018, in Trust, 2018, 4, 426; Comm. Trib. Reg. Toscana, 22 marzo 2018, in Trust, 2018, 6, 655; Comm. Trib. Reg. Lombardia, 28 marzo 2018, in BIG Suite, IPSOA; Comm. Trib. Reg. Lombardia, 29 marzo 2018, in Trust, 2018, 4, 423; Comm. Trib. Reg. Emilia-Romagna, 19 aprile 2018, in Trust, 2018, 6, 651; Comm. Trib. Reg. Veneto, 26 aprile 2018, in Trust, 2019, 1, 93; Comm. Trib. Reg. Abruzzo, 8 maggio 2018, in Trust, 2019,


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si leggono espressioni di favore all’idea secondo cui l’atto di dotazione del trust non integra un episodio rappresentativo di capacità contributiva. 5. Le tre “stagioni” della Cassazione. – In sede di legittimità si è verificato un percorso assai articolato e complesso, suddivisibile in tre “stagioni”. In una “prima stagione”, si erano succedute decisioni contraddittorie. Da un lato, l’orientamento maggioritario espresso nelle ordinanze Cass. n. 3735/2015 (relativa a una fattispecie concernente un trust “autodichiarato” con finalità solutoria)., Cass. n. 3737/2015, (relativa a una fattispecie concernente un trust “traslativo” con finalità di finanziamento di un’infrastruttura pubblica), Cass. n. 3886/2015 (relativa a una fattispecie concernente un trust “autodichiarato” con finalità di passaggio generazionale), Cass. n. 5322/2015 (relativa a una fattispecie concernente un trust “traslativo” con finalità di finanziamento di un’infrastruttura pubblica) (22) e nella sentenza Cass. n. 4482/2016 (relativa a una fattispecie concernente un trust “autodichiarato” con finalità di passaggio generazionale), ove – a fronte della codificazione

1, 98; Comm. Trib. Reg. Lombardia, 11 luglio 2018, in Trust, 2019, 1, 95; Comm. Trib. Prov. Treviso, 23 agosto 2018, in BIG Suite, IPSOA; Comm. Trib. Reg. Lazio, 10 settembre 2018, in Trust, 2019, 5, 576; Comm. Trib. Reg. Lombardia, 28 settembre 2018, in BIG Suite, IPSOA. (22) A differenza delle decisioni precedenti (la n. 3735/2015, la n. 3737/2015, la n. 3886/2015 e la n. 4482/2016), l’ordinanza n. 5322/2015 apparve essere l’unica ad affrontare il tema del trust senza alcun preconcetto pregiudizio. Invero, la sentenza n. 4482/2016 si è fatta paladina di una presunta “crociata” del legislatore contro i vincoli di destinazione, i quali sarebbero, dunque, da scoraggiare con lo strumento di una loro pesante tassazione, quando, invece, lo sviluppo della legislazione in materia è chiaramente di segno del tutto contrario a questo inquadramento di sfavore; e, cioè, nel segno di dare il massimo ingresso possibile ai vincoli di segregazione patrimoniale nel nostro diritto positivo: si pensi solo, ad esempio, all’introduzione, dopo il fondo patrimoniale (introdotto nel codice civile dagli articoli 49, e seguenti, legge 19 maggio 1975, n. 151, recante la riforma del diritto di famiglia), dei patrimoni destinati di cui agli articoli 2447-bis e seguenti, codice civile (per effetto della legge di riforma del diritto societario, recata dal d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), dei vincoli di destinazione di cui all’articolo 2645-ter, codice civile (introdotto dall’articolo 39-novies, d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito in legge 23 febbraio 2006, n. 51), dei vincoli di interesse pubblico di cui all’articolo 2645-quater, codice civile (introdotto dall’articolo 65-quaterdecies, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito in legge 26 aprile 2012, n. 44), del contratto di affidamento fiduciario di cui all’articolo 1, comma 3, legge 22 giugno 2016, n. 112. Quanto alle ordinanze nn. 3735/2015, 3737/2015 e 3886/2015, esse sono state espressamente fondate sull’erroneo presupposto che il cosiddetto trust “autodichiarato” non sia, in effetti, un trust, bensì una sorta di artificiosa macchinazione.


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dell’imposta sui vincoli di destinazione da parte del D.L. n. 262/2006 – l’atto di dotazione del trust è stato intuito come un presupposto d’imponibilità (23). D’altro lato, l’orientamento minoritario (24) espresso nella sentenza Cass. n. 21614/2016 (25) (relativa a una fattispecie concernente un trust “autodichiarato”), ove si è affermato che la dotazione di un trust non sarebbe da intendere quale manifestazione di capacità contributiva, in quanto essa si sprigionerebbe, non nel momento del trasferimento dei beni dal disponente al trustee, ma solamente con l’attribuzione del patrimonio del trust al beneficiario del trust stesso) (26), le quali, per lo più, prescindevano le une dalle altre (e, cioè, si ignoravano a vicenda).

(23) In queste decisioni, in sostanza, si è ritenuto che l’imposta sulla istituzione del vincolo di destinazione fosse un’imposta nuova, con connotati peculiari e disomogenei rispetto a quelli dell’imposta di donazione: e ciò, in quanto nell’imposta sui vincoli di destinazione, a differenza della “tradizionale” imposta di donazione, il presupposto impositivo sarebbe correlato alla predisposizione del programma di funzionalizzazione del diritto in relazione al perseguimento degli obiettivi voluti dal disponente, il quale, sottraendo i beni vincolati in trust all’ordinario esercizio delle proprie facoltà proprietarie, provoca un decremento del proprio patrimonio. In altre parole, questa nuova imposta osserverebbe un fenomeno patrimoniale del tutto diverso e distinto rispetto a quello investito dalla imposta sulle successioni e donazioni: ai fini della tassazione indiretta occorrerebbe guardare alla manifestazione di ricchezza e non all’arricchimento; e tale manifestazione si avrebbe nell’origine dell’effetto giuridico di destinazione, mediante il quale il disponente pone un bene al di fuori della sua ordinaria sfera giuridica, orientandone i diritti dominicali al perseguimento degli obiettivi voluti. Presupposto coessenziale sarebbe insomma che il disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, mentre non sarebbe coessenziale l’attribuzione a un soggetto terzo del bene “destinato”. Nel momento stesso in cui si dia corso a una separazione patrimoniale si assisterebbe, con ciò, dunque, a una diminuzione del patrimonio del soggetto disponente. (24) Definito invece “prevalente” da Cass. 5 dicembre 2018, n. 31445, in Corr. Giur., 2019, 5, 597, con nota di Cerri, Il regime impositivo applicabile all’istituzione del trust: una querelle solo apparentemente risolta, la quale, evidentemente, per giungere a esprimere questo concetto di prevalenza, effettua una impropria somma delle decisioni emanate dalla Cassazione con riferimento a fattispecie formatesi anteriormente all’entrata in vigore del d.l. 262/2006, con quelle riferite a fattispecie formatesi posteriormente. Invero, si tratta dell’orientamento minoritario, se si computano - com’è più appropriato - le sole decisioni emanate in fattispecie formatesi posteriormente all’entrata in vigore del d.l. 262/2006. (25) Che si può leggere in Corr. Trib., 2017, 6, 463, con nota di A. Busani - G. Ridella, Reset in Cassazione: l’imposta di donazione non si applica al vincolo di destinazione; in Trust, 2017, 1, 66; in GT - Riv. Giur. Trib., 2017, 1, 31, con nota di D. Stevanato, Il ‘new deal’ della Suprema Corte sull’imposizione indiretta del trust: giù il sipario sull’imposta sui vincoli di destinazione?; in Trust, 2017, 28, con nota di T. Tassani, Trust e imposte sui trasferimenti: il “nuovo corso” della Corte di Cassazione. (26) Secondo questo orientamento, l’imposta di donazione non può che essere posta in relazione con “un’idonea capacità contributiva” e l’assoggettamento di beni e diritti al vincolo


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A questa “prima stagione” è poi succeduta una “seconda stagione”. In questa, il giudice di legittimità bensì ha espresso l’intento di sanare il contrasto maturato nelle sue precedenti pronunce soppesando le ragioni che le avevano supportate al fine di rinvenire quelle dotate di maggiore plausibilità, ma poi non è riuscito, all’esito del ragionamento svolto, a cogliere il desiderato obiettivo di giungere a decisioni lineari, coerenti, univoche. Questa “seconda stagione” ha, dunque, preso avvio con la sentenza n. Cass. n. 13626/2018 (relativa a una fattispecie concernente un trust “traslativo” formatasi, con finalità solutoria, in data posteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 262/2006), nella quale, con l’obiettivo di comporre il precedente contrasto (e cercando, per quanto possibile, di non smentire radicalmente la giurisprudenza precedente) (27), è stato deciso che: (a) l’imposta sui vincoli di destinazione non è (rispetto alla “tradizionale” imposta di successione e dona-zione) una “imposta nuova” ma è l’“ordinaria” imposta di donazione applicata alla particolare fatti-specie dell’incremento patrimoniale che si concreti nell’ambito di un atto istitutivo di un vincolo di destinazione (e introdotta nel nostro ordinamento al fine di significare che l’imposta di donazione si applica, non solo all’incremento patrimoniale realizzato mediante donazioni o atti a titolo gratuito, bensì anche all’incremento patrimoniale prodotto a seguito dell’istituzione di un vincolo di destina-zione); (b) l’imposta di donazione (poiché si tratta di una imposta che trova il suo presupposto nell’incremento patrimoniale del soggetto beneficiario) in tanto si applica all’istituzione del vincolo originato con l’atto istitutivo di un trust in quanto esso sia correlato a un trasferimento di patrimonio dal disponente al trustee; (c) non si applica l’imposta di donazione se, nell’istituire un vincolo di trust su un dato pa-trimonio, esso rimane (è il c.d. trust “autodichiarato”) di titolarità del disponente.Quanto affermato dalla citata sentenza Cass. n. 13626/2018 non combacia esattamente con quella

del trust non integra di per sé un trasferimento imponibile e, quindi, rappresenta un atto generalmente neutro, che non dà luogo ad un trapasso di ricchezza suscettibile di imposizione con l’imposta di donazione: in altre parole, il trasferimento dei beni al trustee avrebbe una natura meramente transitoria e non esprimerebbe alcuna capacità contributiva, sicché il presupposto d’imposta si manifesterebbe solo nel momento del trasferimento definitivo dei beni dal trustee al beneficiario. (27) In palese contrasto con la realtà, si afferma infatti che nella giurisprudenza anteriore «si assiste» a un «contrasto di vedute» solo «apparente»: così Cass. 5 dicembre 2018, n. 31445.


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contenuta nella successiva ordinanza Cass. n. 31445/2018 (relativa a una fattispecie – non è chiaro se relativa a un trust traslativo o autodichiarato – probabilmente concernente un trust “traslativo” formatasi, con finalità solutoria, in data posteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 262/2006) e in quella “gemella” Cass. n. 734/2019 (relativa a una fattispecie concernente un trust “traslativo” con finalità di passaggio generazionale, formatasi in data posteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 262/2006), ove viene sviluppato un ragionamento senz’altro simile (a quello espresso nella sentenza n. 13626/2018), ma un po’ più articolato, secondo il quale, premesso che l’imposta di donazione non può essere «automaticamente collegata alla costituzione» del vincolo di destinazione «senza valutarne gli effetti», allora: (a) se il trust sia di tipo “traslativo” e se «il trasferimento dei beni al trustee ha natura transitoria e non esprime alcuna capacità contributiva» (la quale, dunque, si manifesterà «solo con il trasferimento de-finitivo di beni dal trustee al beneficiario») non si può applicare l’imposta di donazione (al fine di concretizzare questo concetto nella realtà professionale, si potrebbe pensare, ad esempio, al caso di un trust istituito per raccogliere fondi da destinare alla realizzazione di un’opera di pubblica utilità oppure al caso di un trust “di garanzia”, nel quale il trustee viene dotato al fine di liquidare i beni assegnatigli e di ripartire il ricavato in una determinata cerchia di creditori); (b) se il trust sia di tipo “traslativo” si applica l’imposta di donazione qualora «il trasferimento a favore dell’attuatore faccia emergere la potenziale capacità economica del destinatario (immediato) del trasferimento»; vale a dire che «sono rilevanti i vincoli di destinazione in grado di determinare effetti trasla-tivi collegati al trasferimento di beni e diritti che realizzano un incremento stabile, misurabile in mone-ta, di un dato patrimonio, con correlato decremento di un altro» (ma, indubbiamente, non è facile in-tuire in quali casi il trasferimento dal disponente al trustee – che, di regola, ha una ontologica natura transitoria – assuma, invece, questi connotati di stabile incremento patrimoniale: al fine di concretizza-re questo concetto nella realtà professionale, si potrebbe pensare, ad esempio, al caso di un trust isti-tuito per pianificare un irrevocabile trapasso generazionale a favore di beneficiari determinati); (c) non si applica l’imposta di donazione se si tratti di un trust “autodichiarato” in quanto, in tal caso, non vi è un evento traslativo (dato che


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il bene oggetto del vincolo «rimane nel patrimonio del dispo-nente» e «la segregazione, quale effetto naturale del vincolo di destinazione, non comporta [...] alcun reale trasferimento o arricchimento, che si realizzeranno solo a favore dei beneficiari» i quali allora sa-ranno «tenuti al pagamento dell’imposta in misura proporzionale»).Un terzo percorso argomentativo di questa “seconda stagione” è stato, poi, compiuto nell’ordinanza Cass. n. 1131/2019, relativa a una fattispecie concernente un trust “traslativo” formatasi in data posteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 262/2006. In sede di commento di questa decisione (28) (oltre che dell’ordinanza 31445/2018 immediatamente anteriore), si pervenne alla conclusione che, con quelle due pronunce, nonostante il loro dichiarato intento di mettere la parola fine al contrasto interpretativo verificatosi nella precedente giurisprudenza di Cassazione in ordine alla tassazione dell’atto di dotazione del trust, si era raggiunto l’effetto contrario e, cioè, di incrementare la confusione su una tematica che, già di per sé complicata, è resa assai incerta dalla variegatezza delle opinioni espresse in dottrina e giurisprudenza. Quanto al trust “autodichiarato”, la giurisprudenza di legittimità era, infatti, pervenuta alla concorde opinione di escluderne, in ogni caso, la tassazione con l’imposta proporzionale di donazione, essendosi stabilizzata la convinzione che l’imposta di donazione non può prescindere da un incremento patrimoniale e che la menzione del vincolo di destinazione, accanto a donazioni e atti a titolo gratuito, nell’art. 2, comma 47, d.l. 262/2006, non comporta la conseguenza che venga tassata l’istituzione del vincolo di destinazione in sé ma serve a chiarire che l’imposta di donazione si applica non solo se l’incremento patrimoniale (a titolo non oneroso) è l’esito di una “donazione”, ma anche se esso è l’esito di un “atto a titolo gratuito” o, appunto, di un “vincolo di destinazione” (se, dunque, all’istituzione del vincolo di destinazione non consegua un incremento patrimoniale, non vi può essere tassazione con l’imposta di donazione), Quanto al trust “traslativo” (e cioè il trust strutturato mediante una dotazione patrimoniale attribuita dal disponente al trustee) restava, poi, la divisione tra: (i) la corrente numericamente minoritaria, che ne sosteneva la non tassabilità con l’imposta proporzionale di donazione, poiché non si rileve-

(28) Cfr. A. Busani - R.A. Papotti, Ulteriormente frammentati in Cassazione gli orientamenti sulla tassazione del trust, in GT - Riv. Giur. Trib, 2019, 2, 105.


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rebbe espressione di capacità contributiva nel trasferimento dal disponente al trustee, in quanto la capacità contributiva sarebbe destinata a manifestarsi solo nel momento del trasferimento che il trustee avrebbe effettuato a favore del beneficiario finale del trust (decisioni nn. 21614/2016 e 1131/2019); e (ii) la corrente numericamente maggioritaria, che ne sosteneva la tassazione con l’imposta proporzionale di donazione. Peraltro, in quest’ultimo ambito (scartando – in quanto “superate” dalle riflessioni contenute in quelle più recenti – le decisioni (29) che avevano ritenuto applicabile l’imposta proporzionale di donazione a qualsiasi atto di dotazione di un trust e la decisione (30) che ha ritenuto di applicare, all’atto di dotazione del trust, l’imposta proporzionale di donazione bensì in ogni caso, ma pur sempre con un qualche “distinguo”), si annoveravano, da un lato, la decisione che ha dichiarato applicabile l’imposta proporzionale di donazione per il solo fatto che si trattasse di un trust “traslativo” (n. 13626/2018); e, dall’altro, le decisioni che (con riferimento a fattispecie in cui il trasferimento dal disponente al trustee – normalmente non espressivo di capacità contributiva per la sua natura strumentale e transitoria – fosse considerabile, invece, in termini di definitività e non di temporaneità, come tipicamente accade nel trust preordinato a un passaggio generazionale) avevano dichiarato applicabile l’imposta proporzionale di donazione solo se si trattasse di un trust bensì “traslativo”, ma con attribuzioni di natura, appunto, “non transitoria” (nn. 31445/2018, 31446/2018 e 734/2019). 6. Le venti decisioni del 2019: la terza “stagione” della Cassazione sulla tassazione dell’apporto di beni e diritti in trust. – Con questo panorama alle spalle, dal giugno 2019 in avanti si assiste a una “terza stagione” e, cioè, al deposito di una moltitudine di sentenze, le cui motivazioni inducono ad affermare che in Cassazione è stato inaugurato un nuovo stabile indirizzo (il quale trova precedenti (31) – oltre che, come obiter dictum, nella sentenza Cass. n.

(29) Cass. 24 febbraio 2015, n. 3735; Cass. 24 febbraio 2015, n. 3737; Cass. 25 febbraio 2015, n. 3886; e Cass. 18 marzo 2015, n. 5322, in precedenza menzionate. (30) Cass. 7 marzo 2016, n. 4482, in precedenza menzionata. (31) Una assai evidente traccia dell’esistenza, anche tra i giudici di legittimità della convinzione che l’istituzione del vincolo di destinazione, in sé considerata, non fosse espressione di capacità contributiva, la si ritrovava anche in Cass., 18 dicembre 2015, n. 25478, in cui – pur vertendosi su una fattispecie di trust maturata in epoca anteriore alla vigenza dell’articolo 2, comma 47, d.l. 262/2006 – assai significativamente si afferma che «non è dato sottoporre l’atto


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11401/2019 (32) – nella sentenza Cass. n. 21614/2016 e nell’ordinanza Cass. n. 1131/2019 sopra menzionate, avallando, pertanto, le conclusioni raggiunte dalla Cassazione in dette decisioni): infatti, l’identico tenore di queste nuove sentenze e il fatto di essere state pronunciate in relazione a fattispecie di trust diverse fra loro che, però, se considerate nel loro complesso, esauriscono l’intero novero delle casistiche possibili, sospingono a formare la convinzione che si abbia finalmente in Cassazione un orientamento univoco. Vale a dire che, a prescindere dalla concreta conformazione del trust (e, cioè, a prescindere dal fatto che si tratti di un trust “autodichiarato”, di un trust “definitivamente traslativo” (33) o di un trust “transitoriamente traslativo”), la

costitutivo di un trust a imposizione proporzionale immediata, essendo quell’atto non in grado di esprimere la capacità contributiva del trustee» in quanto «l’acquisto da parte del trustee [...] costituisce solo un mezzo funzionale alla realizzazione dell’effetto finale successivo, che si determina nell’attribuzione definitiva del bene al beneficiario. [...] solo l’attribuzione al beneficiario può considerarsi, nel trust, il fatto suscettibile di manifestare il presupposto dell’imposta sul trasferimento di ricchezza». E anche in Cass., 17 gennaio 2018, n. 975, riguardante una fattispecie formatasi sempre anteriormente al d.l. 262/2006, ove i medesimi concetti vennero ribaditi. (32) Cfr. Cass., 30 aprile 2019, n. 11401. La sentenza verte sul tema della tassazione del “mandato ad alienare senza rappresentanza” («L’atto di trasferimento a titolo gratuito della proprietà di un immobile dal mandante al mandatario senza rappresentanza, strumentale alla esecuzione del mandato medesimo e quindi al successivo trasferimento a terzi, non comporta alcun arricchimento, reale ed effettivo, in capo al mandatario. A tale atto di trasferimento si rende applicabile l’imposta fissa di registro, e non l’imposta proporzionale sulle donazioni e sugli altri atti a titolo gratuito, mentre l’imposizione indiretta proporzionale colpirà il solo successivo trasferimento del bene dal mandatario senza rappresentanza a terzi»), ma contiene il seguente “passaggio” in tema di tassazione dell’atto di dotazione del trust: «secondo il più recente orientamento, è da privilegiare la interpretazione costituzionalmente orientata del citato D.L. 3 ottobre 2006, ridetto art. 2, commi 47 e segg., la quale, con confacente richiamo dell’art. 53 Cost., comma 1, circoscrive la applicazione della suddetta norma tributaria, correlandola, in senso restrittivo, al rilievo della capacità contributiva comportata dal trasferimento del bene; sicchè, quando il conferimento costituisce un atto sostanzialmente “ neutro “ che non arreca un reale ed “ effettivo incremento patrimoniale (al) beneficiario “ meramente formale della attribuzione, resta esclusa la ricorrenza di alcun “ trapasso di ricchezza suscettibile di imposizione indiretta». Un altro obiter dictum si ebbe in Cass. 7 marzo 2016, n. 4482, in Trust, 2016, 7, 395, ove venne affermato che «[s]opravvive ovviamente lo spazio per sostenere che l’istituzione di vincoli per cui è prevista una specifica disciplina o mirati a effetti espressamente approvati dal legislatore (quale la definizione dei rapporti delle imprese in crisi) non ricadano nell’ambito impositivo di questa norma», palesando l’estensore della sentenza, con questa affermazione, di non credere nemmeno lui all’applicazione di una imposta sulle attribuzioni liberali a fattispecie che nulla hanno di liberale. (33) Con specifico riferimento al trust “traslativo” nel quale viene irrevocabilmente individuato il beneficiario finale del trust, la sentenza Cass., 21 giugno 2019, n. 16700 puntua-


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dotazione che il trustee riceve non è intuibile come manifestazione di capacità contributiva: nella sentenza Cass. n. 16700/2019 si afferma infatti che «in ogni tipologia di trust l’imposta proporzionale non andrà anticipata nè all’atto istitutivo nè a quello di dotazione»). E infatti: (i) nella sentenza n. 15453/2019 (34) (pronunciata in relazione a una fattispecie di trust autodichiarato finalizzato alla «costituzione di un vincolo su beni della massa fallimentare, finalizzato alla relativa gestione e liquidazione e, in ultimo al soddisfacimento dei creditori della fallita») si è sancito che l’atto di dotazione di un trust non costituisca un trasferimento tassabile «in quanto i beni oggetto dell’atto di dotazione entrano nella sfera giuridica del trustee mantenendosi separati dal resto del suo patrimonio, in modo limitato (stante l’obbligo di destinazione, che comprime il diritto di godimento del medesimo trustee rispetto a quello di un pieno proprietario) e solo temporaneo»; (ii) nella sentenza n. 15455/2019 (35) (pronunciata in relazione a un trust traslativo «istituito a beneficio dei discendenti del soggetto disponente») si è affermato che al momento della dotazione del trust si ha «un trasferimento (al trustee) solo limitato (stante l’obbligo di destinazione che comprime il diritto di godimento del medesimo trustee rispetto a quello di un pieno proprietario) e solo temporaneo mentre il trasferimento definito di ricchezza – che rileva quale indice di capacità contributiva in relazione al cui manifestarsi sono pretendibili le imposte proporzionali – si verifica solo al momento del trasferimento finale al beneficiari»; (iii) nella sentenza n. 15456/2019 (36) (pronunciata in relazione a un trust autodichiarato) si è deciso che le motivazioni contenute nella sentenza n. 15455 hanno «valenza [sia] per trust autodichiarati [ch]e per trust non autodichiarati»; (iv) nella sentenza

lizza infatti quanto segue: «il fatto che il beneficiario sia individuato fin dall’atto istitutivo non comporta di per sé necessaria deviazione dal tipo negoziale del trust e, soprattutto, non pare giustificare l’immediata tassazione proporzionale, dal momento che la sola designazione, per quanto contestuale e palese (c.d. trust ‘trasparente’), non equivale in alcun modo a trasferimento immediato e definitivo del bene, con quanto ne consegue in ordine all’applicazione dei già richiamati principi impositivi». (34) Cass., 7 giugno 2019, n. 15453. (35) Cass., 7 giugno 2019, n. 15455. (36) Cass., 7 giugno 2019, n. 15456, secondo cui «il conferimento di beni in un trust parzialmente autodichiarato (uno dei tre disponenti ne è trustee) sconta le imposte ipotecarie e catastali in misura fissa il quanto il trasferimento al trustee è limitato nel godimento e temporaneo. Le imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale saranno dovute solo al momento del trasferimento finale ai beneficiari».


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n. 16699/2019 (37) (assai più argomentata delle tre precedenti e pronunciata in relazione a un trust traslativo istituito per finanziare la riqualificazione di un’infrastruttura pubblica) si è concluso che «la costituzione del vincolo di destinazione» «non integra autonomo e sufficiente presupposto di una nuova imposta, in aggiunta a quella di successione e di donazione; per l’applicazione dell’imposta di donazione, così come di quella proporzionale […] ipocatastale, è necessario che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale»; «nel trust di cui alla L. n. 364 del 89, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Aja 1 luglio 1985, un trasferimento così imponibile non è riscontrabile nè nell’atto istitutivo nè nell’atto di dotazione patrimoniale tra disponente e trustee - in quanto meramente strumentali ed attuativi degli scopi di segregazione e di apposizione del vincolo di destinazione ma soltanto in quello di eventuale attribuzione finale del bene al beneficiario, a compimento e realizzazione del trust medesimo»; infine (v) nella sentenza n. 16700/2019 (38) (pronunciata in relazione a un trust autodichiarato) si è sancito che «per l’applicazione dell’imposta di donazione, così come di quella proporzionale […] ipocatastale, è necessario che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale», ciò che non accade in alcuna tipologia di trust in quanto sia l’atto istitutivo del trust che l’atto di dotazione del trust sono «meramente strumentali ed attuativi degli scopi di segregazione e di apposizione del vincolo di destinazione» quando invece il trasferimento imponibile si ha «soltanto» nel caso «di eventuale attribuzione finale del bene al beneficiario, a compimento e realizzazione del trust medesimo»; Tali decisioni sono state confermate, con motivazioni sostanzialmente identiche: nella sentenza Cass. n. 16701/2019 (39) (relativa a un trust

(37) Cass., 21 giugno 2019, n. 16699, in Corr. Trib., 2019, 10, 865, secondo cui «la costituzione del vincolo di destinazione, di cui all’art. 2, comma 47, del D.L. n. 262/2006, non integra autonomo e sufficiente presupposto di una nuova imposta, in aggiunta a quella di successione e di donazione; per l’applicazione dell’imposta di donazione, così come di quella proporzionale di registro ed ipocatastale, è necessario che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale; nel trust un trasferimento così imponibile non è riscontrabile, né nell’atto istitutivo, né nell’atto di dotazione patrimoniale, ma soltanto in quello di eventuale attribuzione finale del bene al beneficiario». (38) Cfr. Cass., 21 giugno 2019, n. 16700. (39) Cass., 21 giugno 2019, n. 16701.


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traslativo con finalità di passaggio generazionale), nella sentenza Cass. n. 16702/2019 (40) (relativa a un trust traslativo con finalità di passaggio generazionale), nella sentenza Cass. n. 16703/2019 (41) (relativa a un trust con finalità di passaggio generazionale che la sentenza non specifica se sia un trust traslativo o un trust autodichiarato), nella sentenza Cass. n. 16704/2019 (42) (relativa a un trust con finalità di passaggio generazionale che la sentenza non specifica se sia un trust traslativo o un trust discrezionale), nella sentenza Cass. n. 16705/2019 (43) (relativa a un trust traslativo con finalità di passaggio generazionale), nella sentenza Cass. n. 19167/2019 (44) (relativa a un trust “solutorio” che la sentenza non specifica se sia un trust traslativo o un trust discrezionale), nella ordinanza Cass. n. 19310/2019 (45) (relativa a un trust autodichiarato con finalità di passaggio generazionale), nella sentenza Cass. n. 19319/2019 (46) (che parrebbe relativa a un trust autodichiarato istituito per una finalità non risultante dalla sentenza), nella sentenza Cass. n. 22754/2019 (47) (relativa a un trust autodichiarato con finalità di passaggio generazionale), nella sentenza Cass. n. 22755/2019 (48) (relativa a un trust traslativo con finalità di passaggio generazionale), nella sentenza Cass. n. 22756/2019 (49) (relativa a un trust traslativo con finalità di passaggio generazionale), nella sentenza Cass. n. 22757/2019 (50) (relativa a un trust autodichiarato con finalità solutoria), nella sentenza n. 22758/2019 (51) (relativa a un trust traslativo con finalità filantropiche), nella sentenza Cass. n. 29642/2019 (52) (relativa a un trust traslativo istituito per una finalità non risultante dalla sentenza), nella ordinanza Cass. n. 30821/2019 (53) (relativa a un trust traslativo con finalità di passaggio generazionale).

(40) (41) (42) (43) (44) (45) (46) (47) (48) (49) (50) (51) (52) (53)

Cass., 21 giugno 2019, n. 16702. Cass., 21 giugno 2019, n. 16703. Cass., 21 giugno 2019, n. 16703. Cass., 21 giugno 2019, n. 16705. Cass., 17 luglio 2019, n. 19167. Cass., 18 luglio 2019, n. 19310. Cass., 18 luglio 2019, n. 19319. Cass., 12 settembre 2019, n. 22754. Cass., 12 settembre 2019, n. 22755. Cass., 12 settembre 2019, n. 22756. Cass., 12 settembre 2019, n. 22757. Cass., 12 settembre 2019, n. 22758. Cass., 14 novembre 2019, n. 29642. Cass., 26 novembre 2019, n. 30821.


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Parte seconda

In altre parole, a far tempo dal gennaio 2019 la Cassazione ha definitivamente sancito i seguenti principi generali: (a) quando l’art. 2, comma 47, D.L. n. 262/2006, menziona i vincoli di destinazione, non istituisce una nuova fattispecie imponibile con l’imposta di donazione, ma “solo” chiarisce che l’imposta di dona-zione si applica anche al trasferimento che si abbia, oltre che per effetto di una donazione, anche in conseguenza dell’istituzione di un vincolo di destinazione («la sola apposizione del vincolo non com-porta, di per sé, incremento patrimoniale significativo di un reale trasferimento di ricchezza» poiché «l’utilità insita nell’apposizione del vincolo si risolve infatti, dal lato del conferente, in una autorestri-zione del potere di disposizione mediante segregazione e, dal lato del trustee, in un’attribuzione patri-moniale meramente formale, transitoria, vincolata e strumentale»); (b) l’applicazione dell’imposta di donazione si avrà «soltanto – ‘se’ e ‘quando’ il trust abbia compimento – in capo al beneficiario finale»; (c) anche le imposte ipotecaria e catastale da assolvere in relazione al trasferimento immobiliare effettuato dal disponente al trustee si rendono dovute solo in misura fissa in quanto «è decisiva l’osservazione secondo cui l’effetto tipico del trust - quello segregativo - non equivale a trasferimento né ad arric-chimento attuale; effetti che si realizzeranno invece a favore dei beneficiari, dunque chiamati al paga-mento dell’imposta in misura proporzionale».Quanto precede è, evidentemente, applicabile in ugual modo sia all’atto di dotazione stipulato inter vivos che per la dotazione effettuata mortis causa, vale a dire quella che il disponente / de cuius effettua con il proprio testamento (54).

(54) Non si concorda, pertanto, con la Risposta a interpello n. 371 del 10 settembre 2019, in cui l’Agenzia delle Entrate ha affermato che l’istituzione e la dotazione di un trust mediante testamento provoca l’applicazione dell’imposta di successione e, se oggetto di dotazione siano beni immobili, sul loro valore catastale si applicano anche le imposte ipotecaria (con aliquota del 2 per cento) e catastale (con aliquota dell’1 per cento). Il caso osservato era quello di un trust testamentario istituito, con riguardo a beni esistenti in Italia, da un disponente residente in Australia, il quale aveva designato, quale beneficiario del trust, una propria nipote (figlia della sorella del de cuius): perciò, l’Agenzia ha affermato che, in questo caso, l’imposta di successione andrebbe applicata con l’aliquota del 6 per cento. È stata ritenuta, invece, non soggetta a imposta di successione (cfr. la Risposta a interpello n. 424 del 24 ottobre 2019, la dotazione, mediante testamento, di un trust istituito al fine di erogare risorse a una fondazione istituita per perseguire finalità di interesse generale e di pubblica utilità nel campo della cultura, e ciò, in quanto il beneficiario del trust, nel caso specifico, era appunto una fondazione che persegue «esclusivamente finalità di interesse generale e di


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In questa “terza stagione” si è, peraltro, registrata una (unica) “variazione sul tema”. Pur aderendo in toto all’orientamento consolidatosi nel 2019, la sentenza Cass. n. 22758/2019 (55), giudicando di un trust traslativo con scopo filantropico (il disponente Tizio aveva attribuito una somma di denaro al trustee Caio affinchè questi lo impiegasse in beneficienza a favore di soggetti non individuati), ha osservato che «La circostanza, prevista nell’atto istitutivo, per la quale [il trustee] possa operare direttamente con il denaro ricevuto per finalità liberali, costituisce di per sè un trasferimento ed un arricchimento. La consegna degli assegni unitamente all’attribuzione in capo al trustee (…) di operare direttamente per le finalità liberali e filantropiche fa ritenere (…), pertanto, realizzato il presupposto impositivo» di cui all’articolo 2, d.l. 262/2019. 7. Conclusioni teorico-applicative. – Al cospetto delle decisioni appartenenti alla “terza stagione” della Cassazione sul trust si possono rassegnare le seguenti conclusioni teorico-applicative. La prima è che l’atto istitutivo del trust, in quanto originatore del vincolo del trust, ma non comportante alcun trasferimento di patrimonio, deve esser tassato con l’imposta di registro in misura fissa (di euro 200) in termine fisso (se stipulato nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, ai sensi dell’art. 11, Tariffa Parte Prima allegata al d.P.R. 131/1986) o in caso d’uso (se stipulato nella forma della scrittura privata non autenticata, ai sensi dell’art. 4, Tariffa Parte Seconda allegata al d.P.R. 131/1986), trattandosi di atto rientrante nel perimetro degli atti «non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale». La seconda è che l’atto di dotazione del trust, in quanto “atto da qualificarsi come di natura non traslativa” (e, quindi, anch’esso rientrante nel predetto novero degli atti «non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale») va tassato – qualunque oggetto esso abbia: immobili, crediti, mobili, quote di partecipazione, denaro, strumenti finanziari, eccetera – con l’imposta

pubblica utilità». Ne consegue che, in tale fattispecie, si rende applicabile l’articolo 3, comma 1, d. lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, secondo il quale non sono soggetti all’imposta di successione e donazione, tra gli altri «i trasferimenti a favore … di fondazioni o associazioni legalmente riconosciute, che hanno come scopo esclusivo l’assistenza, lo studio, la ricerca scientifica, l’educazione, l’istruzione o altre finalità di pubblica utilità». (55) Cass., 12 settembre 2019, n. 22758.


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Parte seconda

di registro in misura fissa (di euro 200) in termine fisso (se stipulato nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, ai sensi dell’art. 11, Tariffa Parte Prima allegata al d.P.R. 131/1986) o in caso d’uso (se stipulato nella forma della scrittura privata non autenticata, ai sensi dell’art. 4, Tariffa Parte Seconda allegata al d.P.R. 131/1986). La terza e ultima è che, se l’atto di dotazione del trust ha per oggetto beni immobili, l’imposta ipotecaria (ai sensi dell’art. 4 della Tariffa allegata al d. lgs. 347/1990) e l’imposta catastale (ai sensi dell’art. 10, comma 2, d. lgs. 347/1990) si applicano nella misura fissa di euro 200 cadauna in quanto «atti […] che non importano trasferimento di proprietà di beni immobili». Quando poi il trustee eroghi il patrimonio del trust: (a) se si tratta di attribuzioni liberali, come quelle che tipicamente il trustee effettua a favore dei beneficiari finali del trust, a esse va applicata l’imposta di donazione (considerando – sotto il profilo delle franchigie e delle aliquote applicabili – il disponente come donante e il beneficiario come donatario); e vanno pure applicate le imposte ipotecaria e catastale dovute per gli atti traslativi a titolo gratuito; (b) se si tratta di attribuzioni non liberali (come accade nel caso dei pagamenti che il trustee effettui a favore dei creditori di un trust “di garanzia”), esse non sono soggette a imposizione, in quanto la tassazione si appunta sugli atti dispositivi che il trustee faccia, con riguardo al patrimonio del trust, al fine di procurarsi le risorse occorrenti per effettuare i dovuti pagamenti (56).

Angelo Busani

(56) Secondo Cass., 21 giugno 2019, n. 16700, infatti, «si tratterà di individuare e tassare gli atti traslativi propriamente detti (che sono quelli di liquidazione del patrimonio immobiliare di cui il trust sia stato dotato), non potendo assurgere ad espressione di ricchezza imponibile né l’assegnazione dotazione di taluni beni alla liquidazione del trustee in funzione solutoria e nemmeno, in tal caso, la ripartizione del ricavato ai beneficiari a dovuta soddisfazione dei loro crediti».


Rubrica di diritto penale tributario a cura di Gaetano Ragucci

Prime osservazioni sulle modifiche al sistema sanzionatorio penale apportate dal D.l. n. 124/2019, convertito con la legge n. 157/2019: alla ricerca di nuovi equilibri tra esigenze di politica criminale e finalità di recupero del tributo evaso Sommario: 1. Le sanzioni penali per illeciti tributari tra politica criminale e “strumento di cassa”. – 2. Le innovazioni apportate dal D.l. n. 124/2019, convertito con la legge n. 157/2019: l’aumento delle pene minime e massime. – 3. (segue): l’introduzione della responsabilità amministrativa degli enti di cui al D. Lgs. n. 231/2001. – 4. (segue) la previsione della c.d. confisca per sproporzione. – 5. (segue): l’ampliamento della causa di non punibilità per pagamento tardivo alle ipotesi di dichiarazione fraudolenta. – 6. Conclusioni. Lo scritto propone un primo esame delle importanti innovazioni riguardanti il sistema sanzionatorio penale. Gli inasprimenti di pena possono essere valutati positivamente se si inquadrano nel contesto di un ridimensionamento delle fattispecie penalmente rilevanti. Appaiono invece del tutto discutibili gli interventi in punto di estensione della responsabilità amministrativa degli enti, nonché di applicazione della confisca per sproporzione anche per gli illeciti tributari, in quanto finiscono con lo snaturare rispettivamente la logica del D. Lgs. n. 231/2001 e la fisionomia della confisca nei procedimenti tributari. The work aims a first examination of the important innovations recently introduced on the penal system. Penalty increases can be assessed positively especially if they are seen in the context of a downsizing of the criminal offenses. On the other hand, interventions regarding the extension of the administrative liability of entities, as well as the application of confiscation for disproportion also for tax offenses, appear to be completely questionable, as they end up distorting respectively the logic of Legislative Decree no. 231/2001 and the physiognomy of tax confiscation.


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1. Le sanzioni penali per illeciti tributari tra politica criminale e “strumento di cassa”. – La previsione di sanzioni penali connesse alla violazione delle leggi istitutive delle principali imposte del sistema fiscale è stata da sempre oggetto di un interessante dibattito per la centralità che assume la reazione sanzionatoria dell’ordinamento nella prospettiva di assicurare in modo pieno la tutela dell’interesse collettivo alla percezione dei tributi in relazione alla capacità contributiva manifestata dai contribuenti (1). Questo dibattito si nutre nel contempo delle “competenze tributaristiche”, che sono indispensabili per selezionare le condotte illecite più offensive e per graduarne l’intensità anche ai fini della determinazione della pena, e delle “competenze penali”, che rivestono estrema importanza sia per quanto attiene all’analisi dell’elemento soggettivo del reato e delle condizioni di punibilità, sia per tutti i riflessi di natura processuale connessi all’irrogazione di una sanzione penale (2). La costruzione di un sistema sanzionatorio penale-tributario costituisce, peraltro, un obiettivo importante, soprattutto in contesti storici, come quello attuale, caratterizzati da un elevato tasso di evasione fiscale (3). Ed a tal fine si deve tenere conto non solo delle istanze giustizialiste provenienti dai gruppi sociali (4), ma anche delle istanze di coloro che amministrano la giustizia

(1) L’interesse per la normativa sui reati tributari è, peraltro, testimoniato dall’esistenza di pregevoli opere tra cui si segnala Lo Monte, L’illecito penale tributario tra tecniche di tutela ed esigenze di riforma, Padova, 1996; M. Di Siena, La nuova disciplina dei reati tributari: imposte dirette ed iva, Milano, 2000; V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano, 2000; E. Musco - F. Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2103; E. Musco, Diritto penale tributario, Milano, 2002; D. Terracina, Riflessi penali dell’evasione fiscale, Roma, 2012; G. Soana, I reati tributari, Milano, 2013; A. Lanzi - P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, Padova, 2014; A. Toppan - L. Tosi., Lineamenti di diritto penale del’impresa, Milano, 2017. (2) Cfr. R. Lupi, I problemi di fondo delle sanzioni penali e le risposte in chiave “panpenalistica” della riforma del 2000, in Aa.Vv., Fiscalità di impresa e reati tributari, a cura di R. Lupi, Milano, 2000, 3, il quale nota che la legislazione penale tributaria tra la sensibilità tributaria e quella penale sembra molto più attenta a quest’ultima, trascurando le specificità tributaristiche dei vari istituti coinvolti. (3) Le stime attuali si aggirano intorno a 120 miliari di euro. (4) Ma non mancano opinioni contrarie all’opportunità di applicare sanzioni penali agli evasori fiscali, le quale tra l’altro poggiano sul fatto che l’evasione fiscale è anche determinata da una disfunzione pubblica, cioè dall’incapacità dello Stato di organizzare un sistema efficiente di acquisizione dei tributi.


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penale ove prevalgono esigenze di contenimento del numero di processi da gestire (5). Pur registrandosi un’unanime visione sulla necessità di prevedere sanzioni penali per l’evasione di rilevante entità (6), dobbiamo evidenziare che l’illecito penale tributario, più che strumento di politica criminale, rappresenta oggi una misura indirizzata prevalentemente a “fare cassa”. La legislazione in tale materia risente, invero, di un’ambiguità di fondo: se in astratto dovrebbe essere funzionale ad applicare una condanna con funzione rieducativa a coloro che hanno arrecato un grave danno all’interesse pubblico all’acquisizione dei tributi, in concreto, si atteggia quale strada parallela a quella percorsa dall’Amministrazione finanziaria, finalizzata alla riscossione delle imposte evase (7).

(5) Sul punto cfr. P. Corso, Con le modifiche alla prescrizione più processi (anche tributari) e più dubbi sulla capacità di gestirli, in Corr. trib., 2019, 1067, il quale nota che l’opzione per la sanzione penale trascina con se la necessità di un processo per accertare l’illecito ed il soggetto da sanzionare e che l’incremento di lavoro per gli Uffici giudiziari inquirenti e giudicanti deve considerare il fatto che già si registra una mancata risposta alla domanda di giustizia ed una marcata irragionevolezza della durata dei processi. (6) Come è noto, la discrezionalità del legislatore nel prevedere in particolare le sanzioni punitive trova un limite nel necessario aggancio del bene giudico da tutelare ai valori direttamente o indirettamente collegati alle norme costituzionali, e ciò in particolare per i provvedimenti sanzionatori penali che vanno ad incidere sulla libertà del cittadino, quale bene supremo garantito dall’art. 13 della Costituzione. Atteso che il bene giuridico tutelato dalle norme sanzionatorie fiscali è direttamente connesso ai valori espressi dagli artt. 2, 3 e 53 della Costituzione, sintetizzabili nell’interesse collettivo patrimoniale all’acquisizione del tributo e nella connessa doverosità della prestazione tributaria, si deve affermare la piena legittimità costituzionale della previsione di norme sanzionatorie afflittive in materia tributaria incentrate sul danno arrecato dal contribuente all’Erario mediante comportamenti di evasione fiscale. Le risorse finanziarie pubbliche, alimentate tramite le prestazioni tributarie, rappresentano uno dei beni più importanti gestiti dai pubblici poteri e come tali sono degne della massima protezione dell’ordinamento. Sul punto cfr. G. Melis, Gli interessi tutelati, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario, diretto da Giovannini, Milano, 2017, 1293. (7) In senso conforme cfr. S. La Rosa, Orientamenti e disorientamenti in tema di rapporti tra norme penali e tributarie, in Riv. dir. trib., 2016, I, 432, il quale nota che dovrebbe ritenersi riservata al giudice penale la tutela dell’interesse pubblico a che le violazioni fiscali più gravi scontino effettivamente le sanzioni penali per esse previste e non anche il compito di procedere alla quantificazione e al recupero dell’imposta evasa; mentre agli Uffici finanziari ed ai giudici tributari la dell’interesse pubblico alla compiuta attuazione delle leggi sostanziali tributarie senza condizionamenti derivanti dall’azione penale. In giurisprudenza cfr. Cass. 30 ottobre 2015, n. 43809, secondo cui il diritto penale tributario resta pur sempre un diritto penale, cioè diritto dei comportamenti lesivi di beni giuridici e non degli interessi regolati dalle norme tributarie, pertanto al legislatore penale tributario non sta a cuore il recupero del gettito evaso, né il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria, ma esclusivamente la rieducazione dell’autore della lesione del bene giuridico protetto, che costituisce scopo essenziale della


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Parte terza

A prescindere dalla possibile confisca del profitto ottenuto con la condotta illecita, la causa di non punibilità costituita dal pagamento integrale del debito tributario, introdotta con la riforma del 2015 limitatamente ai reati di omesso versamento e di infedele dichiarazione ed oggi estesa anche ai reati di dichiarazione fraudolenta, testimonia, infatti, che pure in ambito penale-tributario il legislatore non trascura di salvaguardare l’interesse all’acquisizione del tributo evaso e della sanzione amministrativa. Ciò detto, si rammenta che la continua evoluzione normativa della materia, cui si è assistito in particolare dagli anni Ottanta ad oggi ha inciso sia sulla selezione delle fattispecie penalmente rilevanti, sia sulla quantificazione delle pene applicabili. Il processo evolutivo non si è, però, del tutto arrestato, in quanto vi sono ulteriori margini per rendere maggiormente efficiente e proporzionato il sistema penale tributario (8). Allo stato, la previsione di soglie di punibilità ancorate all’imposta evasa ha di fatto portato fuori dall’area penale le violazioni fiscali realizzate da piccole imprese e professionisti; violazioni che notoriamente consistono in occultamenti di ricavi e compensi, più che in condotte fraudolente. La reazione penale trova, invece, spazio per le violazioni commesse dalle grandi imprese, ove anche una modesta irregolarità può determinare il superamento delle soglie di punibilità; vi sono, tuttavia, limitazioni quando la violazione è frutto di un’inesatta interpretazione delle norme fiscali, nonché quando riguarda i criteri di valutazione degli elementi esposti nel bilancio di esercizio. 2. Le innovazioni apportate dal D.l. n. 124/2019, convertito con la legge n. 157/2019: l’aumento delle pene minime e massime. – Con il D.l. n. 124/2019 e le modifiche introdotte in sede di conversione con la legge n. 157/2019, dopo un acceso dibattito politico, il legislatore, agendo in controtendenza rispetto alla linea evolutiva tracciata negli ultimi vent’anni, ha inasprito su vari fronti la risposta sanzionatoria penale per gli illeciti tributari al fine di rafforzare gli strumenti di contrasto all’evasione fiscale. In particolare, è stato disposto per i reati più gravi: a) l’innalzamento delle pene sia nel limite minimo che massimo; b) la rilevanza ai fini della responsa-

sanzione penale. Sullo sviluppo storico del diritto penale tributario cfr. A. Perrone, Riflessioni (8) problematiche sui criteri di legittimazione dell’illecito, in Riv. dir. trib., 2012, III, 141.


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bilità amministrativa degli enti disciplinata dal D. Lgs n. 231/2001; c) l’estensione dell’ambito di applicazione della confisca per sproporzione. Soffermiamoci innanzitutto sull’incremento delle pene, misura che risponde evidentemente all’obiettivo di rafforzare l’efficacia deterrente della sanzione. In particolare, per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (art. 2) e per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8) la reclusione, inizialmente fissata da un anno e sei mesi a sei anni, è in atto prevista da quattro a otto anni (9). In merito al reato di dichiarazione fraudolenta realizzata mediante “altri artifici” (art. 3) la reclusione, inizialmente fissata da un anno e sei mesi a sei anni, è prevista da tre a otto anni. Con riguardo al reato di dichiarazione infedele (art. 4), la reclusione, inizialmente fissata da uno a tre anni, è prevista da due a quattro anni e sei mesi, con un abbassamento della soglia di punibilità da € 150.000 a € 100.000 per l’imposta evasa e da tre a due milioni di euro per l’ammontare degli elementi sottratti all’imposizione. Quanto al reato di omessa dichiarazione (art. 5), la reclusione, inizialmente fissata da un anno e sei mesi a quattro anni, è ora prevista da due a cinque anni. Infine, per il reato di occultamento delle scritture contabili, la reclusione, inizialmente fissata da un anno e sei mesi a sei anni, è stata fissata da tre a sette anni. Orbene, muovendo dall’assunto che la determinazione della pena costituisce materia affidata alla discrezionalità del legislatore, le cui scelte sono censurabili solo ove sconfinino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (10), riteniamo che per esprimere un giudizio circa l’opportunità dei predetti inasprimenti occorre operare un confronto tra le nuove pene previste per i reati fiscali più gravi e quelle disposte per quei reati contro il patrimonio cui sovente nel dibattito politico si suole accostare l’evasione, cioè il furto e la rapina (11). Per quanto riguarda il furto, condotta che determina l’impossessamento della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene, l’art. 624 c.p. prevede una pena da sei mesi a tre anni; pena elevata (da tre a dieci anni) in caso di furto aggravato da violenza sulle cose, dal fatto di avvalersi di mezzi fraudolenti, etc. (art. 625 c.p.). Con riguardo alla rapina, condotta che presuppone

(9) Salvo che gli elementi passivi fittizi siano di ammontare inferiore a € 100.000 per cui è stabilita una riduzione da un anno e sei mesi a sei anni. (10) Cfr. Corte cost., sent n. 95/2019. (11) Vi è, infatti, una tendenza di opinione a livello sociale e politico che qualifica l’evasore fiscale come un “ladro di tasse”.


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l’impossessamento di beni altrui con violenza alla persona o minaccia, l’art. 682 c.p. prevede una pena compresa tra cinque e dieci anni. Da ciò possiamo dedurre che le pene per i reati tributari più gravi, anche dopo le innovazioni del 2019, continuano a collocarsi opportunamente in una posizione di mezzo tra il furto semplice e il furto aggravato o la rapina; peraltro, le nuove pene risultano molto prossime a quella riguardante il reato di truffa ai danni dello Stato per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.) che varia da due a sette anni. Quest’ultima condotta, invero, può costituire un valido parametro di riferimento, in quanto determina un danno per le casse erariali sostanzialmente analogo all’evasione fiscale, intaccando il bilancio pubblico sia pur sul fronte della spesa e non delle entrate. Per questi motivi, è sostenibile che le nuove pene siano in grado di cogliere meglio il disvalore sociale dell’evasione fiscale (12), con un allineamento all’esperienza di altri paesi europei, e dovrebbero, peraltro, scongiurare quelle situazioni per cui a fronte di migliaia di procedimenti e di condanne definitive i soggetti effettivamente ristretti in carcere siano circa un centinaio. Ciò detto, cerchiamo di ipotizzare quali effetti, in aggiunta alla maggiore forza deterrente ed alla crescente esigenza di distinguere il campo di applicazione delle fattispecie penali (13), produce l’innalzamento delle pene. In merito all’incremento dei limiti minimi di pena un primo effetto è quello di assicurare condanne detentive nonostante il riconoscimento delle attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis c.p. (14); quest’ultima norma ha, infatti,

(12) Bisogna considerare che il disvalore sociale è in buona parte mediato da una scelta politica; vi è quindi una dialettica tra società e politica, e molto spesso quest’ultima rafforza e arricchisce una certa tendenza sociale, “ne fa cioè una bandiera politica” al fine di amplificare il consenso. Con riguardo all’evasione fiscale non vi è dubbio che a livello sociale esistono sentimenti diffusi di denigrazione, ma è anche vero che in questi ultimi anni il tema è stato rilanciato a livello politico non solo per esigenze di bilancio pubblico, ma anche per intercettare consensi. (13) Si evidenzia in particolare che – nell’ambito della dichiarazione fraudolenta – per la fattispecie di cui all’art. 2 la pena minima è pari a quattro anni, mentre per quella di cui all’art. 3 la pena minima è pari a tre anni (in precedenza la pena minima per entrambe le fattispecie era pari a un anno e sei mesi). (14) Le attenuanti generiche sono delle circostanze non tipizzate dal legislatore che il giudice prende in considerazione al fine di ridurre la pena, adeguando la risposta sanzionatoria fissata in astratto dal legislatore al caso concreto. Giurisprudenza costante riconosce (nonostante il tenore dell’art. 62-bis c.p., ove si utilizza il termine può) un dovere in capo all’organo giudicante di applicare la circostanza attenuante e la conseguente riduzione di pena nella misura in cui essa sia presente. Le attenuanti generiche vengono applicate secondo il criterio oggettivo e sono dunque riconosciute, se presenti, anche se il reo non ha avuto contezza della


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consentito in passato al giudice di fissare riduzioni a pene già di per sé basse (15), vanificando la reazione approntata dall’ordinamento giuridico. Un ulteriore effetto dell’aumento delle pene minime è quello di mitigare gli sconti di pena legati alla scelta di procedimenti speciali, come il rito abbreviato ove (per i delitti) è fissata la riduzione ad un terzo, ovvero il patteggiamento, ove parimenti è prevista la riduzione ad un terzo. Possiamo ancora rilevare che grazie all’incremento delle pene minime sarà maggiormente possibile subire l’applicazione delle pene accessorie in caso di patteggiamento: una condanna al di sotto di due anni (per cui l’art. 445, comma 1, c.p.p. esclude le pene accessorie) risulta, infatti, difficilmente ipotizzabile quanto mento per i reati di dichiarazione fraudolenta e di emissione di fatture false (16). Verifichiamo ora gli effetti dell’innalzamento delle pene massime. Una prima conseguenza è quella di rendere applicabile la custodia cautelare in carcere ai sensi dell’art. 280, comma 2, c.p.p. (il quale presuppone, tra l’altro, che la pena edittale sia nel massimo non inferiore a cinque anni) anche per i reati di omessa presentazione della dichiarazione, oltre che per quelli di dichiarazione fraudolenta. Rileva poi la circostanza che per il reato di dichiarazione infedele sarà possibile applicare gli arresti domiciliari e le altre misure coercitive ed interdittive previste dal c.p.p., in quanto la pena massima è superiore a tre anni (art. 280, comma 2, c.p.p.). L’innalzamento delle pene massime determina, altresì, per tutti i reati previsti dal D. Lgs. n. 74/2000, l’obbligo per il PM di chiedere il rinvio a giudizio al Gip, in luogo della citazione diretta a giudizio; quest’ultimo procedimento è previsto per i reati puniti con pena massima non superiore a quattro anni. Va sottolineato, infine, che l’innalzamento delle pene massime non ha modificato la possibilità di effettuare le intercettazioni di cui all’art. 266 c.p.p. (attuabili per i reati puniti nel massimo con una pena superiore a cinque anni). Le intercettazioni continueranno ad essere svolte solo per i reati di dichiarazione fraudolenta, di emissione di fatture false, di occultamento delle scritture contabili e di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (già puniti con una pena superiore a cinque anni).

loro esistenza al momento della commissione del reato. (15) In caso ad esempio di confessioni spontanee rese nel corso delle indagini o di un atteggiamento collaborativo del reo. (16) Nel senso che l’art. 445 c.p.p. sia una disposizione speciale che prevale su quelle generali contenute nell’art. 12 D.Lgs. n. 74/2000 si veda Cass. n. 1439/2020.


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3. (segue): l’introduzione della responsabilità amministrativa degli enti di cui al D.lgs. n. 231/2001. – L’estensione ai reati tributari della responsabilità amministrativa per le imprese è un tema su cui da tempo si è avviato un intenso dibattito politico (17), dottrinale (18) e giurisprudenziale (19). In particolare, una corrente di pensiero aveva auspicato l’inserimento dei reati fiscali tra quelli presupposto della responsabilità amministrativa, evidenziando l’irrazionalità della scelta originaria di escludere questa tipologia di reati, per cui il rappresentante opera proprio nell’interesse ed a vantaggio dell’ente medesimo. In aggiunta a ciò, si è evidenziato che tale riforma avrebbe una forte efficacia dissuasiva rispetto alle inosservanze degli obblighi tributari. Il dibattito si è ulteriormente intensificato a seguito della direttiva europea n. 2017/1371 (cd. Direttiva Pif – Protezione interessi finanziari), su reati e sanzioni per la lotta contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Ue, la quale prevede l’obbligo per gli Stati membri di introdurre misure necessarie affinché le persone giuridiche, nel cui interesse siano stati commessi reati che ledono gli interessi finanziari dell’Ue, possano essere ritenute responsabili (20).

(17) La commissione Greco insediata di recente presso il Ministero della Giustizia con il compito di riformare il decreto n. 231 aveva ipotizzato l’estensione dei reati presupposto, tra gli altri, anche agli illeciti tributari. (18) In senso favorevole all’estensione cfr. P. Ielo, Reati tributari e responsabilità degli enti, in Riv. resp. amm. enti, 2007, 3, 7; A. Perini, Brevi considerazioni in merito alla responsabilità degli enti conseguenti alla commissione di illeciti fiscali, ivi, 2006, n. 2, 79. In senso contrario cfr. I. Caraccioli, Reati tributari responsabilità degli enti, ivi, 2007, 1, 155; C. Santoriello, I reati tributari nella responsabilità da reato negli enti collettivi: ovvero dell’opportunità di configurare la responsabilità amministrativa delle società anche in caso di commissione di reati fiscali, in Archivio penale, 2017, 82. (19) Cfr. Cass. SSUU n. 46726/2013 e n. 10561/2014. La giurisprudenza aveva, peraltro, notato che l’esclusione della responsabilità degli enti per i reati tributari ha come effetto l’inapplicabilità della confisca per equivalente in capo alle società, depotenziando la portata di tale misura sanzionatoria. (20) Sulla base di tale direttiva, la legge europea 2018 (legge 4 ottobre 2019, n. 117) contiene una delega con cui si vuole realizzare un ampliamento della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche includendo le gravi frodi Iva, cioè quando il danno complessivo (sia degli stati membri che dell’Unione europea) sia superiore a 10 milioni di euro. Il decreto attuativo in corso di approvazione colpisce le infrazioni Iva con elementi di transnazionalità, prevedendo una sanzione pecuniaria di 300 quote per il delitto di dichiarazione infedele e 400 quote per i delitti di omessa dichiarazione e indebita compensazione. È disposta, inoltre, la punibilità a titolo di tentativo (art. 6, D.Lgs. n. 74/2000) per i reati di dichiarazione fraudolenta e infedele quando gli atti diretti per commettere tali illeciti siano compiuti anche in territorio estero.


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La relazione illustrativa al D.l. n. 124/2019 evidenzia che con l’introduzione di tale responsabilità si inizia a colmare un vuoto di tutela degli interessi erariali che non può essere giustificato dalla necessità di evitare duplicazioni sanzionatorie e ciò alla luce sia della più recente normativa europea, sia delle incertezze giurisprudenziali. Sul punto occorre ricordare che, ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. n. 231/2001, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a). L’ente non risponde se i predetti soggetti hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi (21). La logica della responsabilità amministrativa degli enti è di stabilire per i c.d. reati d’impresa una risposta sanzionatoria ulteriore rispetto a quella tipicamente penale, prevista per le persone fisiche che commettono il reato (22). Una risposta sanzionatoria in grado di rivestire efficacia deterrente e repressiva di tali reati deve, infatti, colpire anche il soggetto che ha ottenuto vantaggi di tipo patrimoniale dalle condotte illecite posti in essere dalle persone fisiche (23). Peraltro, attraverso la spoliazione dei vantaggi illecitamente per-

(21) La competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono. Ciò vuol significare che nel caso di contestazione di uno dei reati citati, il Pm deve annotare anche l’illecito amministrativo a carico dell’ente nel registro delle notizie di reato. Terminate le indagini preliminari, il Pm può richiedere il rinvio a giudizio o emettere il decreto di archiviazione senza passare per il vaglio del Gip. (22) Sul tema cfr. G. Amato, Finalità, applicazione e prospettive della responsabilità amministrativa degli enti, in Cass. pen., 2007, 346, il quale evidenzia che il D.lgs. n. 231 è espressione di una concezione moderna del diritto penale, che avverte come insufficiente la sola risposta sanzionatoria rappresentata dalla pena criminale (detentiva o pecuniaria) e che vuole intervenire colpendo direttamente il patrimonio del trasgressore; A. Carmona, La responsabilità amministrativa degli enti: reati presupposto e modelli organizzativi, in Riv. resp. amm. enti, 2006, 1, 109, il quale rileva che la punizione diretta dell’impresa secondo il modello del D.Lgs. n. 231 ha lo scopo di disincentivare la le condotte illegali finalizzate a massimizzare il profitto, per il timore di ricevere un danno finanziario. (23) Cfr. M. Romano, La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni: profili generali, in Riv. soc., 2002, 393, il quale evidenzia che nell’alternativa per le imprese tra responsabilità penale in senso stretto (adottata ad es. in Olanda, Portogallo, Francia) e responsabilità amministrativa (adottata ad es. in Germania e Spagna) sia stato un merito per il nostro legislatore l’avere optato per il secondo modello. Una responsabilità penale in senso


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seguiti dall’ente, si mira ad evitare il riciclaggio ed il reimpiego dei profitti illeciti in ulteriori attività illecite. Orbene, non vi è dubbio che, in ambito societario, i reati tributari commessi dagli amministratori determinino di norma un vantaggio patrimoniale per l’ente (24); ma, come è noto, in presenza di un’evasione penalmente rilevante, la società deve corrispondere il tributo evaso e le sanzioni amministrative ad esso correlate che sono di ammontare molto elevato (25). Pertanto, non solo il vantaggio (il risparmio d’imposta) in capo alla società conseguente alla condotta illecita viene meno con il procedimento ordinario di accertamento tributario – o in mancanza facendo ricorso all’istituto della confisca (26) – ma anche è prevista una severa risposta sanzionatoria amministrativa. In questa cornice, estendere in via generale tale responsabilità anche per i reati tributari significa tradire la logica del D.Lgs. n. 231/2001. Probabilmente, con l’intento di giungere ad una soluzione di compromesso tra sostenitori e oppositori dell’estensione delle responsabilità di cui al decreto n. 231 anche per i reati tributari, il legislatore ha circoscritto il campo applicativo alle condotte più gravi, cioè di dichiarazione fraudolenta, di emissione di fatture per operazioni inesistenti, nonché di occultamento o

stretto avrebbe posto problemi di compatibilità con l’art. 27 della Costituzione, norma che in altri ordinamenti non esiste in termini eguali; d’altra parte avrebbe deresponsabilizzato i singoli autori del fatto. (24) Va, però, considerato che, in casi particolari, la società potrebbe subire danni patrimoniali dall’illecito tributario posto in essere dall’amministratore, qualora la condotta sia realizzata all’insaputa dei soci. Sul punto cfr. Cass. n. 3458/2020, con cui i giudici hanno ritenuto legittima la costituzione di parte civile della società per i danni patrimoniali e di immagine conseguenti alla condotta dell’amministratore, che in violazione degli obblighi derivanti dal mandato ricevuto, ha emesso fatture false all’insaputa dei soci. (25) Di fronte ad esempio ad una dichiarazione fraudolenta ex art. 2 che determina una imposta evasa superiore a centomila euro, si andrà incontro: alla sanzione penale nei confronti dell’amministratore da quattro a otto anni; alla sanzione amministrativa tributaria di cui al D.Lgs. n. 471/1997 che varia dal 135 al 270 per cento dell’imposta evasa, posta a carico della società; alla sanzione “parapenale” di cui al D.Lgs. n. 231/2001 applicabile alla società fino a 500 quote, cioè fino a € 774.500. (26) Sul tema cfr. A. Giovannini, Identità di oggetto dell’obbligazione d’imposta e della confisca nei reati di evasione, in Rass. trib., 2014, 1255; G. Girelli, Sequestro, confisca e pagamento dei tributi, in Riv. dir. trib., 2014, III, 57; T. Tassani, Confisca e recupero dell’imposta evasa: profili procedimentali e processuali, in Rass. trib., 2015, 1385; A. Marcheselli, La confisca per equivalente, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario, diretto da Giovannini, Milano, 2017, 347.


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distruzione di documenti contabili e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 25-quinquiesdecies). Questa soluzione, tuttavia, non esclude che l’ampliamento in parola possa innanzitutto ritenersi sproporzionato. Ed infatti, quando si discute di violazioni fiscali, l’entità della risposta sanzionatoria deve tenere in debita considerazione non solo la gravità della condotta, ma anche le effettive capacità di accertamento da parte degli Uffici. Solo se la violazione è difficilmente riscontrabile con l’utilizzo dei poteri istruttori di cui dispone il Fisco, allora si può giustificare un irrigidimento sanzionatorio. Sul punto, senza voler sminuire la gravità della condotta di dichiarazione fraudolenta, possiamo notare che la recente introduzione del sistema di fatturazione elettronica amplifica fortemente le capacità per gli Uffici di controllare e contestare la falsità di tali documenti fiscali. Non a caso, come emerge dai dati pubblicati dal Ministero dell’economia, grazie a questo adempimento, il gettito connesso al versamento spontaneo Iva è cresciuto, e tale incremento delle entrate non è esclusivamente connesso all’imposta relativa ad operazioni che altrimenti sarebbero state effettuate senza emissione del documento fiscale. Vi sarà, infatti, anche una certa incidenza della mancata detrazione Iva relativa a fatture per operazioni inesistenti che, senza la fatturazione elettronica, le imprese avrebbero potuto continuare ad emettere, confidando nella difficoltà di appurare tale condotta in sede di accertamento. A parte la fatturazione elettronica, occorre considerare che la sempre più ampia possibilità di incrociare le informazioni risultanti dalle banche dati a disposizione degli Uffici fiscali consente oggi di migliorare l’efficacia dei controlli mirati a reprimere tutte quelle condotte illecite di cui al D.lgs. n. 74/2000, che sono state selezionate dal D.l. n. 124/2019 quali reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti. Ed è, peraltro, consolidato che non si può addurre l’inefficienza della Pubblica amministrazione per giustificare una moltiplicazione di strumenti sanzionatori e repressivi in palese violazione del diritto europeo (27). Al proposito, va segnalato che la recente relazione dell’Ufficio del massimario della Corte di Cassazione n. 3/2020, con cui sono state illustrate le novità apportate dal decreto n. 124 e dalla legge di conversione, afferma che tale scelta potrebbe determinare una frizione con il principio del ne bis in idem e

(27) In senso conforme cfr. C. Santoriello, I reati tributari nella responsabilità da reato negli enti collettivi, cit., 20.


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quindi ipotizza di dover rimeditare la tesi per cui il sistema punitivo contenuto nel D.lgs. n. 231/2001, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un tertium genus di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza. In ogni caso, la relazione evidenzia che l’affermazione della duplicazione sanzionatoria andrebbe valutata alla luce dell’orientamento della Corte EDU (28), secondo cui non vi è bis in idem se tra il procedimento penale e quello amministrativo sussiste una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta in modo da considerare che le due sanzioni sia parte di un unico sistema sanzionatorio (29). Dobbiamo, tuttavia, segnalare un orientamento secondo cui le conseguenze previste dal decreto n. 231 e quelle previste dal D.Lgs. n. 472/1997 possono del tutto conciliarsi senza costituire un bis in idem, in quanto rispondono a logiche differenti: il decreto n. 231 presuppone la responsabilità dell’ente, mentre il decreto n. 472 prevede l’irrogazione della sanzione senza responsabilità dell’ente, che non ha alcuna possibilità di essere esonerato dalla

(28) Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo 15 novembre 2016, A e B. c. Norvegia; Corte europea dei diritti dell’uomo, 18 maggio 2017, Johannesson c. Islanda. (29) Questo orientamento, con specifico riferimento al sistema sanzionatorio italiano, è stato puntualmente recepito dalla giurisprudenza interna che ha legittimato la “duplicazione” delle sanzioni. In particolare Cass. n. 6993/2018, in merito al reato di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, ha evidenziato che la connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta tra i procedimenti è stata desunta dal fatto che gli avvisi di accertamento e di irrogazione delle sanzioni riguardavano gli stessi fatti ed erano stati notificati nel luglio 2014 e il procedimento di primo grado avanti al Tribunale si era concluso con la pronuncia della sentenza in data 2 dicembre 2014 (mentre il giudizio di appello in data 26 maggio 2015). Ad analoghe conclusioni è giunta, altresì, Cass., sez. trib., n. 7191/2019 e n. 33050/2019. Sono state così superate quelle obiezioni per cui sarebbe da ostacolo all’applicazione della tesi della Corte europea dei diritti dell’uomo l’identità di funzione (punitiva) sottesa alla sanzione penale ed a quella amministrativa, nonché la difficoltà di dimostrare la stretta connessione tra i due procedimenti, nella misura in cui il procedimento penale e quello tributario sono autonomi (vige il c.d. doppio binario) e di norma non vi è alcun allineamento tra la tempistica del processo penale e quella del procedimento amministrativo. Sull’argomento si veda A. Perrone, Il criterio della “sufficiently close connection” ed il suo rapporto con il principio del ne bis in idem sanzionatorio nella giurisprudenza della Corte Edu, in Dir. prat. trib., 2018, 1128; M. Bontempelli, Verso un adattamento della disciplina italiana delle sanzioni tributarie al diritto europeo?, in Rass. trib., 2017, 562; F. Colaianni M. Monza, Il problema del “conflitto” tra ne bis in idem “internazionale” e doppio binario tributario. La parabola del principio verso l’eclisse?, in Riv. dir. trib., 2017, III, 23; F. Amatucci , Doppio binario e “connessione sufficiente” tra procedimento tributario e penale, in Riv. trim. dir. trib., 2017, 271; O. Mazza, L’insostenibile convivenza tra ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio per i reati tributari, in Rass. trib., 2015, 1033; G. D’Angelo, Ne bis in idem e sanzioni tributarie: precisazione dalla Corte EDU, in Rass. trib., 2015, 253.


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sanzione tributaria, salvo la possibilità di agire di regresso nei confronti del coobbligato (30). Questa ricostruzione a mio avviso non è condivisibile, in quanto la sussistenza del bis in idem è collegata esclusivamente alla natura delle sanzioni. Esse, pur avendo regimi diversi di responsabilità, presentano carattere afflittivo e sono quindi di stampo punitivo e non risarcitorio, ed essendo irrogate in relazione al medesimo fatto, determinano una ipotesi di bis in idem. Peraltro, la non proporzionalità del cumulo delle misure sanzionatorie emerge anche dalla notevole entità delle somme previste a titolo di responsabilità amministrativa ex decreto n. 231: esse ammontano infatti a 400 o 500 quote (31) ed il valore di una quota può variare da 258 a 1549 euro; quindi l’ammontare massimo della sanzione è di € 619.600 (400 quote) o € 774.500 (500 quote), a prescindere dal vantaggio concretamente ottenuto dall’azienda. A ciò si deve aggiungere la possibilità di applicare le sanzioni interdittive – anche in sede cautelare e quindi prima della sentenza che accerti la responsabilità dell’ente – consistenti nel divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere un pubblico servizio, nell’esclusione o revoca di agevolazioni, finanziamenti, contributi e sussidi, nonché da ultimo nel divieto di pubblicizzare beni e servizi. Queste sanzioni si sommano alle pene accessorie irrogabili ai sensi dell’art. 12 del D. Lgs. n. 74/2000, tra cui vi è l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per il soggetto condannato. Vero è che la responsabilità amministrativa dell’ente può essere prevenuta ove vengano predisposte tutte le cautele previste dal D.Lgs. n. 231 che si sostanziano nell’adozione di un idoneo ed effettivo modello organizzativo di prevenzione degli illeciti (32) e di un sistema di controllo della sua applicazione anche mediante la costituzione di un organismo di vigilanza caratterizzato da autonomia e indipendenza (33). Ma tale adempimento, che deve essere

(30) Cfr. A. Perini, Brevi considerazioni in merito alla responsabilità degli enti, cit., 87. (31) Per un’evasione di rilevante entità la sanzione pecuniaria viene aumentata di 1/3. (32) Vi sono dei modelli fac-simile predisposti dalle associazioni di categoria, ma per evitare la responsabilità amministrativa occorre adattarli alla concreta situazione aziendale. (33) Tale ruolo può essere attribuito o ad un organismo ad hoc, oppure a funzioni interne alle aziende o al collegio sindacale, ma a condizione che il soggetto sia provvisto di poteri di controllo autonomi ed effettivi, non dipendenti dal soggetto controllato. Sul punto cfr. Cass. n. 52316/2016; Cass. n. 43656/2019.


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sottoposto al vaglio della Autorità giudiziaria, risulta particolarmente oneroso e quindi difficilmente attuabile dalle imprese di piccola e media dimensione. Va segnalato da ultimo che l’estensione agli illeciti tributari più gravi della responsabilità amministrativa degli enti determina conseguenze importanti sul fronte della confisca. Ed infatti, l’attuale orientamento giurisprudenziale afferma che, in caso di evasione fiscale di una società, nonostante sia penalmente responsabile il legale rappresentante, può operare la confisca diretta nei confronti dell’ente, in quanto il concetto di appartenenza di cui all’art. 240 c.p. ha una portata più ampia del diritto di proprietà, potendosi considerare come terzo estraneo al reato solo colui che in nessun modo partecipi o tragga vantaggio dall’illecito (34). La confisca diretta può avere peraltro ad oggetto il denaro depositato nei conti correnti. Risulta, invece, preclusa la confisca per equivalente (35). Grazie alle innovazioni qui descritte, in relazione ai reati tributari inclusi nel campo di applicazione del D.Lgs. n. 231/2001, la società può subire sia la confisca diretta, sia quella per equivalente (36), secondo quanto è espressamente previsto dall’art. 19 del citato decreto. 4. (segue): la previsione della c.d. confisca per sproporzione. – L’ultima misura con cui si è inasprita la risposta sanzionatoria penale per gli illeciti tributari è rappresentata dall’applicazione della confisca disciplinata dall’art. 240-bis c.p. (e prima ancora del sequestro) anche per le ipotesi di condanna per reati di: a) dichiarazione fraudolenta ex art. 2 qualora l’ammontare degli elementi passivi fittizi sia superiore a € 200.000; b) dichiarazione fraudolenta ex art. 3 qualora l’ammontare dell’imposta evasa sia superiore a € 100.000; c) emissione di fatture per operazioni inesistenti qualora l’importo non rispondente al vero sia superiore a € 200.000; d) omesso versamento di ritenute fiscali e di indebita compensazione, ed, infine, di sottrazione fraudolenta al

(34) Cfr. Cass. n. 29951/2004. (35) Probabilmente, anche per questo motivo, la Cassazione ha forzatamente qualificato come diretta la confisca di denaro: si è, infatti, legittimata la confisca delle somme esistenti sui conti correnti intestati alla società, che altrimenti sarebbe stata preclusa. (36) Si segnala che la confisca diretta o per equivalente delineata dal D.Lgs. n. 231/2001 è obbligatoria e non oggetto di una valutazione discrezionale del giudice (Cass. S.U. 25/9/2014, n. 11170).


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pagamento di imposte, qualora l’ammontare del debito tributario sia superiore a € 100.000. Questa tipologia di confisca denominata allargata o per sproporzione, introdotta nell’ordinamento penale dall’art. 6 del D.lgs. n. 21/2018 per contrastare in modo particolare “quei delitti idonei a creare una accumulazione economica a sua volta possibile strumento di ulteriori delitti” (37), si applica nei casi in cui il condannato non giustifichi la provenienza del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato ai redditi dichiarati ed all’attività economica svolta (38). Estendere questo strumento di repressione dell’accumulazione illecita di beni ai reati fiscali (sia pure limitatamente alle condotte più insidiose che determinano un’evasione di rilevante entità) vuol significare snaturare la fisionomia della confisca tributaria (39). La confisca “tradizionale” è, infatti, diretta esclusivamente a privare il reo del profitto del reato, cioè del risparmio d’imposta conseguente all’evasione fiscale, oppure delle somme ottenute in relazione a richieste di rimborso indebite; in sostanza al reo viene tolto ciò che ha sottratto all’Erario (40). Con la confisca di cui all’art. 240-bis c.p., invece, il reo viene privato del denaro, dei beni e delle altre utilità che appaiono sproporzionati rispetto ai redditi dichiarati; non si intacca solo il risparmio di imposta, ma il patrimo-

(37) Cfr. Cass. SS.UU. 17/12/2003, n. 920. (38) Cfr. Cass. n. 36499/2018, secondo cui l’istituto determina una inversione della prova circa la liceità della provenienza dei beni; il reo quindi deve allegare elementi, che, pur non avendo la valenza probatoria civilistica, siano idonei a vincere la presunzione. (39) Sul tema cfr. T. Tassani, Confisca e recupero dell’imposta evasa: profili procedimentali e processuali, in Rass. trib., 2015, 1385; A. Giovannini, Identità di oggetto dell’obbligazione d’imposta e della confisca nei reati di evasione, in Rass. trib., 2014, 1255; G. Girelli, Sequestro, confisca e pagamento dei tributi, in Riv. dir. trib., 2014, III, 57; A. Marcheselli, La confisca per equivalente, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario, diretto da Giovannini, Milano, 2017, 347. (40) Sul punto cfr. S. La Rosa, Orientamenti e disorientamenti in tema di rapporti tra norme penali e tributarie, cit., 453, il quale evidenzia che dovrebbe esistere una ambiguità logico-giuridica tra la nozione dell’imposta evasa e quello di profitto suscettibile di confisca, in quanto se nelle imposte evase potesse veramente configurarsi un profitto se ne dovrebbe prospettare la tassabilità come reddito del contribuente, tesi che mai è stata prospettata. Pertanto la nozione di profitto confiscabile nell’ambito degli illeciti tributari dovrebbe a rigore riferirsi soltanto ad eventuali vantaggi economici ulteriori e diversi dalle imposte evase. In ogni caso il profitto dovrebbe identificarsi nella sola parte di imposta evasa superiore alla soglia di punibilità prevista per il reato commesso.


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nio del soggetto non in linea con quanto dichiarato, venendo meno il nesso di pertinenza tra beni confiscati e reato e la logica stessa dell’applicazione dell’istituto della confisca ai reati tributari. Ed infatti, un conto è confiscare integralmente i beni acquisiti ad esempio grazie ad attività illecite, altro è sottoporre alla misura patrimoniale l’intero patrimonio accumulato dal reo quale socio o titolare di una azienda che svolge attività lecite di cessione di beni o prestazioni di servizi, sia pur senza provvedere sistematicamente al pagamento delle imposte sui redditi e dell’Iva (41). Con riguardo ai reati tributari, a differenza di quanto sancito dall’art. 240bis per gli altri reati, si è, tuttavia, opportunamente prevista la possibilità di giustificare la provenienza dei beni argomentando che il denaro utilizzato per acquistarli è il provento dell’evasione. Da ciò può dedursi che, in caso di violazioni fiscali riguardanti società, la sproporzione tra disponibilità e redditi dichiarati deve essere riferita non a colui che commette il reato, cioè il rappresentante legale, ma al soggetto che si avvantaggia dell’illecito e cioè la società. In ogni caso, chi beneficia dei vantaggi economici conseguenti al reato tributario potrebbe, comunque, essere chiamato a ricostruire movimenti contabili risalenti nel tempo per giustificare gli scostamenti contestati. Occorre ancora segnalare che non è da escludersi l’applicazione della confisca per sproporzione nonostante la società abbia pagato tardivamente le imposte evase. In definitiva, sulla base delle criticità evidenziate, si auspica che l’istituto in commento possa avere una limitata applicazione, e risulti destinato a restare una “minaccia”, come nel caso della confisca di prevenzione prevista dal D.lgs. n. 159/2011, c.d. codice antimafia (42). La giurisprudenza, pur eviden-

(41) Sul punto cfr. A. Quattrocchi, La sproporzione dei beni nella confisca di prevenzione tra evasione fiscale e pericolosità sociale, in Giur. it., 2015, 710, il quale, con riguardo all’applicazione della confisca di prevenzione ai reati tributari, evidenzia che la pur condivisa riprovevolezza sociale dell’evasione fiscale non può spingersi sino ad avallare il principio di ragionevolezza. (42) Tale istituto, diversamente dalle misure di sicurezza e quindi dalla confisca di cui all’art. 240 c.p., può trovare applicazione anche nel caso in cui manchi la commissione di un precedente reato. Si è discusso se la confisca di prevenzione possa riguardare anche coloro che hanno posto in essere un’evasione fiscale nella misura in cui: a) l’evasione rappresenti un indicatore di presenza di attività illecite che determinano una sproporzione tra i beni di cui il soggetto ha la disponibilità ed i redditi dichiarati; b) l’evasore possa ritenersi un soggetto socialmente pericoloso in quanto dedito abitualmente a traffici delittuosi. Sul tema cfr. A. Marcheselli - S. Ronco, L’evasore fiscalmente pericoloso: prevenzione patrimoniale e contrasto agli illeciti, in Corr. trib., 2018, 1000; S. Ronco, Il contribuente fiscalmente


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ziando l’applicabilità in linea generale di tale confisca per i reati tributari, ha precisato che il mero status di evasore fiscale non è sufficiente ai fini del giudizio di pericolosità sociale del reo che legittima la sua applicazione, dovendosi dimostrare che l’evasore fiscale seriale (cioè che abbia compiuto illeciti fiscali in maniera abituale) viva, anche in parte, con i proventi dell’attività delittuosa (43). Una prova difficile da offrire. 5. (segue): l’ampliamento della causa di non punibilità per pagamento tardivo alle ipotesi di dichiarazione fraudolenta. – Va evidenziato a questo punto che il legislatore ha previsto un rilevante contrappeso alle misure con cui si è inasprito il sistema sanzionatorio penale tributario; si tratta dell’estensione della causa di non punibilità connessa al pagamento del debito tributario anche ai reati di dichiarazione fraudolenta (44). Come accennato, questa innovazione testimonia che anche in ambito penale tributario, l’interesse prevalente da salvaguardare sia quello connesso all’acquisizione del tributo evaso e della sanzione amministrativa. Se viene riparata l’offesa all’erario, il trasgressore può beneficiare delle conseguenze favorevoli previste dagli artt. 13 e 13-bis, D.lgs. n. 74/2000, che si sostanziano nell’applicazione di una circostanza attenuante o di una causa di non punibilità, sulla falsariga di quanto è previsto dall’art. 62, comma 1, n. 6, del codice penale (45).

pericoloso. Profili di interrelazione tra il diritto tributario e la giurisprudenza in materia di confisca di prevenzione, in Diritto penale contemporaneo, 13 aprile 2016. (43) La giurisprudenza ha ritenuto ammissibile l’ablazione dei patrimoni illecitamente accumulati a seguito di sistematica evasione fiscale, perché anch’essa rientrerebbe tra le attività delittuose di cui agli artt. 1 e 4 del D.Lgs. n. 159/2011, e perché le misure tributarie di tipo amministrativo e penale (confisca prevista dal decreto n. 74/2000) non ostano alla possibilità di assoggettare i patrimoni illeciti a ulteriori misure ablatorie. Cfr. Cass. n. 53003/2017, relativa ad un caso riguardante un notaio su cui pendeva un procedimento penale per evasione fiscale e che peraltro aveva tardivamente regolarizzato la sua posizione fiscale, ma la Procura aveva chiesto l’applicazione della confisca di prevenzione ritenendolo soggetto socialmente pericoloso, in quanto abitualmente dedito ad attività delittuose. (44) La normativa attuale sembra collegare prevalentemente la concessione delle premialità per il reo alla piena riparazione degli interessi lesi, mettendo sullo sfondo la possibilità di mitigare la risposta sanzionatoria con gli strumenti delle attenuanti generiche e del rito abbreviato. (45) Cfr. G. Checcacci, Le circostanze attenuanti, in Trattato di diritto tributario sanzionatorio, diretto da Giovannini, Milano, 2016, 227, la quale evidenzia che la circostanza attenuante comune prevede l’obbligo di risarcire non solo il danno patrimoniale, ma anche quello non patrimoniale.


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Parte terza

La logica della previsione di un regime premiale per coloro che provvedono al “risarcimento del danno” è che si riduce, o viene del tutto meno, l’interesse dell’ordinamento a perseguire penalmente l’illecito (46). Sino al 2015, nella prospettiva di non sminuire la funzione deterrente delle sanzioni penali, il pagamento del tributo evaso e delle sanzioni amministrative, veniva apprezzato dal legislatore quale circostanza attenuante della pena: il giudice poteva ridurre discrezionalmente la condanna sino ad un terzo. L’opzione per la concessione della mera attenuante era giustificata dal fatto che si voleva evitare che il contribu­ente, pagando tardivamente il tributo (e dopo che la violazione fosse stata constatata), neutralizzasse agevolmente l’applicazione della sanzione penale. L’operatività della circostanza attenuante presupponeva, altresì, l’integrale versamento del tributo preteso dal Fisco; pertanto, in caso di dilazione del pagamento, non si riteneva sufficiente il versamento di alcune rate. Si voleva cioè evitare che il contri­buente pagasse solo qualche rata, beneficiando della riduzione della pena, e poi interrompesse il pagamento spontaneo, aspettando l’azione esecutiva del Fisco per la corresponsione della residua somma. Si discuteva, inoltre, se la circostanza attenuante spettasse anche in caso di versamento di importi inferiori, rispetto a quelli originaria­mente accertati, utilizzando gli strumenti dell’accertamento con adesione o della conciliazione giudiziale (47). Le conseguenze sul fronte penale connesse al pagamento dei tributi evasi sono state oggetto di importanti modifiche con la riforma del 2015, che prendono le mosse innanzitutto dalla previsione nella legge delega n. 23/2014 del principio di proporzionalità, cioè di adeguamento della risposta sanzionatoria

(46) Cfr. F. Pistolesi, Crisi e prospettive del principio del doppio binario nei rapporti fra processo e procedimento tributario e giudizio penale, in Riv. dir. trib., 2014, I, 29; Id., Il principio del doppio binario e l’utilizzabilità delle prove penali nel processo tributario, in Aa.Vv., Fisco e reato, Pisa, 2016, 201. (47) Un primo orientamento giurisprudenziale, travisando il significato dell’espressione “pagamento integrale” e nella prospettiva di valorizzare la scelta del c.d. doppio binario, negava l’applicazione della riduzione della pena qualora il pagamento era correlato ad un atto di adesione in sede amministrativa o a una conciliazione giudiziale poiché le somme corrisposte erano inferiori rispetto a quelle originariamente accertate (cfr. Cass. n. 176/2013; Cass. n. 17706/2013). Più di recente, però, si è sostenuto l’applicabilità del beneficio in caso di pagamento del tributo evaso a seguito di accertamento con adesione, o altre procedure conciliative previste dalle norme tributarie.


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all’effettiva offesa arrecata agli interessi erariali (48). Non v’è dubbio che la configurazione dei reati tributari quali reati di danno, che emerge dalla riforma del 2000, imponeva una rivisitazione degli effetti del pagamento spontaneo del tributo evaso sul processo penale. Grazie alla riforma da ultimo citata, il venir meno dell’offesa all’erario, infatti, rileva in sede penale, oltre che come circostanza attenuante, anche come causa di non punibilità; e ciò a seconda della tempistica entro cui si provvede a regolarizzare la violazione. La non punibilità penale a seguito del pagamento del tributo rappresenta, tra l’altro, una sorta di surrogato alla disciplina del ne bis in idem, in quanto il soggetto, versando il tributo evaso e la sanzione amministrativa (sia pure in misura ridotta), potrebbe non subire l’applicazione della sanzione penale. Ciò posto, notiamo che, con riguardo ai reati di dichiarazione fraudolenta di cui agli artt. 2 e 3, il pagamento tardivo del debito tributario, comprensivo di sanzioni e interessi, inizialmente veniva considerato quale circostanza attenuante. Con le innovazioni apportate dal D.l. n. 124/2019 si è deciso di assegnare al pagamento del debito tributario l’effetto della non punibilità, a condizione che la regolarizzazione avvenga prima che il contribuente abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni o verifiche fiscali (49) o di qualunque attività relativa al procedimento penale (50).

(48) Cfr. G. Melis, La nuova disciplina degli effetti penali dell’estinzione del debito tributario, in Rass. trib., 2016, 589; F. Rasi, L’attenuante del pagamento del tributo, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 421. (49) L’art. 13 del D. Lgs. n. 472/1997 prevede che il ravvedimento operoso possa essere effettuato anche dopo la chiusura del processo verbale di constatazione e sino alla notifica dell’avviso di accertamento. Tuttavia, con riguardo alla condotta di utilizzo di fatture false, il Fisco, con le circolari n. 180/1998 e n. 1/2018, ha affermato l’esclusione della possibilità di provvedere alla regolarizzazione, in quanto tale condotta non consiste in un “errore o omissione” (termini utilizzati dalla citata norma). Questa interpretazione restrittiva mal si concilia con l’evoluzione della normativa penale tributaria che sin dal 2015 dava rilievo al ravvedimento per la regolarizzazione di tali condotte ai fine dell’applicazione della circostanza attenuante. Peraltro essa non risulta in linea con la previsione di cui all’art. 13-bis del D.lgs. n. 74/2000, che prevede la possibilità di patteggiare la pena per i reati tributari, incluso quello di dichiarazione fraudolenta, previo pagamento integrale del debito tributario, anche mediante il ravvedimento operoso (in tal senso cfr. Cass. n. 5448/2018). (50) Si nota che in caso di regolarizzazione di una dichiarazione “sterilizzando” la fattura per operazioni inesistenti, il pagamento tardivo del debito tributario determina la non punibilità dell’utilizzatore ma non di colui che emette la fattura falsa. Quindi l’espunzione dei costi connessi a fatture false potrebbe rappresentare una denuncia indiretta per colui che le ha emesse.


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Parte terza

Qualora il pagamento avvenga in un momento successivo, esso continua ad essere apprezzato solo quale circostanza attenuante, con riduzione della pena sino alla metà e senza applicazione delle pene accessorie. Il pagamento deve, peraltro, essere effettuato spontaneamente o su richiesta dell’Ufficio entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Occorre sottolineare che, per godere della premialità in questione, il reo deve versare non solo l’imposta evasa ma anche gli interessi e le sanzioni amministrative. Il pagamento della sanzione può ritenersi ragionevole se il reo beneficia della causa di non punibilità, in quanto, venendo meno la condanna penale, resta in piedi la reazione sanzionatoria amministrativa; tale pagamento è, invece, discutibile nel caso in cui la premialità sia finalizzata ad attenuare la condanna penale, per la sovrapposizione della reazione sanzionatoria che si viene a determinare. In quest’ottica, la previsione della premialità sul fronte penale connessa al pagamento spontaneo dei tributi evasi può certamente fungere da stimolo per la presentazione di una dichiarazione integrativa, beneficiando del ravvedimento operoso (51). 6. Conclusioni. – Tirando le fila di questo primo commento “a caldo” su un tema che certamente risulta meritevole di ulteriori riflessioni, possiamo notare che le scelte adottate dal legislatore sollevano in larga parte dubbi circa la loro ragionevolezza e proporzionalità. A parte gli inasprimenti di pena – che invero possono essere valutati positivamente soprattutto se si inquadrano nel contesto di un ridimensionamento delle fattispecie penalmente rilevanti – appaiono del tutto discutibili gli in-

(51) L’applicazione di questi istituti potrebbe essere innescata anche dall’esistenza di una contestazione penale presso terzi di emissione di fatture per operazioni inesistenti. Il soggetto che riceve la fattura potrebbe avere l’interesse ad evitare o ridurre le conseguenze (invocazione dell’attenuante) di una successiva contestazione nei suoi confronti di dichiarazione fraudolenta con utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, ricalcolando le imposte dovute, escludendo le fatture sospette e versando le sanzioni amministrative ridotte. Se il procedimento penale nei confronti del terzo si chiude con una sentenza di proscioglimento, il soggetto che ha versato “cautelativamente” i tributi e le sanzioni ridotte presentando una dichiarazione integrativa non può inoltrare un’istanza di rimborso, in quanto non v’è dubbio che il versamento implica il riconoscimento della violazione commessa e della sanzionabilità della stessa (sul punto cfr. Cass. n. 6108/2016, la quale ha precisato che l’impugnazione di un diniego di rimborso delle sanzioni per obiettiva incertezza della norma è inammissibile, salvo il caso di errori formali essenziali e riconoscibili).


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terventi in punto di estensione della responsabilità amministrativa degli enti, nonché di applicazione della confisca per sproporzione per gli illeciti tributari. Attraverso l’estensione ai reati di dichiarazione fraudolenta della causa di non punibilità rappresentata dal pagamento tardivo dei debiti tributari si è tentato di riportare su binari di ragionevolezza la risposta sanzionatoria penale; ma non è questa la strada da seguire, in quanto la legislazione penale tributaria dovrebbe essere finalizzata ad applicare una condanna per il danno all’interesse pubblico all’acquisizione dei tributi e non può costituire, come spesso ormai accade, una misura finalizzata ad assicurare la riscossione delle imposte evase, e ciò per compensare le inefficienze degli Uffici fiscali che sono preposti allo svolgimento di questa attività (52). Invero, volendo ipotizzare un progetto di riforma del sistema sanzionatorio tributario avente un ampio respiro, bisogna muovere dalla circostanza che le sanzioni amministrative tributarie occupano interamente il campo degli illeciti tributari e per la loro gravosità risultano avere una importante efficacia deterrente e repressiva a condizione che l’apparato amministrativo tributario sia in grado di espletare sistematicamente l’attività di controllo. Ciò dovrebbe indurre ad un ridimensionamento dell’area di intervento della sanzione penale ancora più netto rispetto a quello attuato con il D.lgs. n. 158/2015, prevedendo tale reazione per le sole condotte fraudolente, come avviene in altri Paesi europei. Ed allora, non è da escludere che in una non lontana prospettiva la sanzione penale entrerà in gioco solo in presenza di condotte fraudolente, con il definitivo tramonto in particolare dei reati di infedele e omessa dichiarazione e di omesso versamento Iva e ritenute d’acconto Irpef, per cui nel 2015 si è agito semplicemente innalzando, sia pure in modo sostanzioso, le soglie di punibilità. L’auspicata previsione delle sanzioni penali solo per le condotte fraudolente consentirebbe, peraltro, la loro sovrapposizione con quelle amministrative (non solo come oggi accade per le violazioni poste in essere dalle società), senza che la reazione dell’ordinamento giuridico possa ritenersi sproporzionata. Riportando in modo significativo nell’ambito delle sanzioni amministrative l’illecito tributario, si ridurrebbero, altresì, le criticità connesse ai rapporti

(52) Cfr., S. La Rosa, Orientamenti e disorientamenti in tema di rapporti tra norme penali e tributarie, cit., 432.


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Parte terza

tra le indagini penali e quelle tributarie, nonché tra le sentenze penali e quelle tributarie, sotto il profilo del reciproco condizionamento (53).

Giuseppe Ingrao

(53) Sul tema cfr. F. Tesauro, Ammissibilità nel processo tributario delle prove acquisite in sede penale, in Rass. trib., 2015, 323; G. Tabet, Collegamento tra fattispecie tributaria e fattispecie penale: riflessi di diritto processuale, in Rass. trib., 2015, 303; G. Fransoni, Rilevanza processuale penale del “fatto fiscale” e rilevanza processuale fiscale del “fatto penale”, in Riv. dir. trib., 2016, I, 9; V. Mastroiacovo, Riflessi penali delle definizioni consensuali tributarie e riflessi fiscali delle definizioni bonarie delle vertenze penali, in Aa.Vv., Fisco e reato, Pisa, 2016, 105; A. Marcheselli, La circolazione dei materiali istruttori dal procedimento penale a quello tributario, in Rass. trib., 2009, 83; Id., L’efficacia probatoria nel processo tributario della sentenza di patteggiamento penale, in Dir. prat. trib., 2003, 704; R. Schiavolin, I rapporti tra accertamenti, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario, diretto da Giovannini, Milano, 2017, 1239; Pistolesi F., Il principio del doppio binario e l’utilizzabilità delle prove penali nel processo tributario, in Aa.Vv., Fisco e reato, Pacini giuridica, Pisa, 2016, 201; Id., Crisi e prospettive del principio del doppio binario nei rapporti fra processo e procedimento tributario e giudizio penale, in Riv. dir. trib., 2014, I, 29; A. Comelli, La circolazione del materiale probatorio dal procedimento penale al processo tributario e l’autonomia decisoria del giudice, in Dir. prat. trib., 2019, 2032; A. Perrone, Fatto fiscale e fatto penale, Bari, 2012; Id., Vizi dell’azione amministrativa tributaria e loro rilevanza nel processo penale tributario, in Aa.Vv., Fisco e reato, Pisa, 2016, 137; S. Dorigo, Il doppio binario nella prospettiva penale: crisi del sistema e spunti per una riforma, in Rass. trib., 2017, 436; L. Nicotina, Le interferenze tra processo tributario e processo penale: pregiudizialità, autonomia o coordinazione critica, in Riv. dir. trib., 2011, I, 453.


Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte giustizia UE, sentenza 4 settembre 2019, causa C-71/18; Pres. e rel. Bonichot

Rinvio pregiudiziale – IVA – Articoli 12 e 135 della Direttiva 2006/112/ CE – Cessione di un terreno edificabile sul quale insiste un fabbricato – Valutazione della realtà economica e commerciale – Valutazione degli elementi oggettivi – Intenzioni delle parti contraenti La cessione di un terreno che incorpora un fabbricato, alla data della stessa vendita, non può essere considerata come la cessione di un «terreno edificabile» se consiste in un’operazione economicamente indipendente da altre prestazioni, a prescindere dall’intenzione delle parti in relazione alla demolizione, totale o parziale, del fabbricato che ne occupa, per consentire la costruzione di un nuovo fabbricato. (1)

(Omissis) 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 12 e 135 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag.1). 2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra lo Skatteministeriet (Ministero delle Finanze, Danimarca) e la KPC Herning A/S, società di diritto danese, in merito all’imposta sul valore aggiunto (IVA) da versare per la cessione di un bene immobile. Contesto normativo Diritto dell’Unione 3. L’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2006/112 dispone quanto segue: «Il principio del sistema comune d’IVA consiste nell’applicare ai beni ed ai servizi un’imposta generale sui consumi esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi, qualunque sia il numero delle operazioni intervenute nel processo di produzione e di distribuzione antecedente alla fase d’imposizione. A ciascuna operazione, l’IVA, calcolata sul prezzo del bene o del servizio all’aliquota applicabile al bene o servizio in questione, è esigibile previa detrazione dell’ammontare dell’imposta che ha gravato direttamente sul costo dei diversi elementi costitutivi del prezzo(…)». 4. L’articolo 12 di tale direttiva prevede quanto segue:


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«1. Gli Stati membri possono considerare soggetto passivo chiunque effettui, a titolo occasionale, un’operazione relativa alle attività di cui all’articolo 9, paragrafo 1, secondo comma, e in particolare una delle operazioni seguenti: a) la cessione, effettuata anteriormente alla prima occupazione, di un fabbricato o di una frazione di fabbricato e del suolo pertinente; b) la cessione di un terreno edificabile. 2. Ai fini del paragrafo 1, lettera a), si considera “fabbricato” qualsiasi costruzione incorporata al suolo. Gli Stati membri possono determinare le modalità di applicazione del criterio di cui al paragrafo 1, lettera a), alla trasformazione di edifici, nonché il concetto di suolo pertinente. (…) 3. Ai fini del paragrafo 1, lettera b), si considerano “terreni edificabili” i terreni, attrezzati o no, definiti tali dagli Stati membri». 5. L’articolo 135 della direttiva 2006/112 così dispone: «1. Gli Stati membri esentano le operazioni seguenti: (…) j) le cessioni di fabbricati o di una frazione di fabbricato e del suolo ad essi pertinente, diversi da quelli di cui all’articolo 12, paragrafo 1, lettera a); k) le cessioni di fondi non edificati diverse dalle cessioni di terreni edificabili di cui all’articolo 12, paragrafo 1, lettera b)». Diritto danese 6. La Lovbekendtgørelse om merværdiafgift (legge consolidata relativa all’imposta sul valore aggiunto), nella versione modificata dalla legge n. 520 del 12 giugno 2009, codificata con il n. 760 il 21 giugno 2016 (in prosieguo: la «legge sull’IVA»), prevede, all’articolo 13, paragrafo 1, punto 9, quanto segue: «I seguenti beni e servizi sono esenti da imposta: 9) la cessione di un bene immobile. Sono tuttavia esclusi dall’esenzione: a) la cessione di un fabbricato nuovo o di un fabbricato nuovo e del suolo pertinente; b) la cessione di un terreno edificabile, attrezzato o meno, e in particolare la cessione di un terreno edificato». 7. L’articolo 13, paragrafo 3, di tale legge così recita: «Il Ministro delle Finanze può stabilire norme dettagliate relative alla definizione di bene immobile ai sensi del paragrafo 1, punto 9». 8. Con la bekendtgørelse nr. 1370 om ændring af bekendtgørelse om merværdiafgiftsloven (regolamento n. 1370 che modifica il regolamento relativo alla legge sull’imposta sul valore aggiunto), del 2 dicembre 2010, il Ministro delle Finanze si è avvalso della facoltà prevista dall’articolo 13, paragrafo 3, della legge sull’IVA per delimitare le operazioni soggette ad IVA. Le disposizioni di tale regolamento, nella versione applicabile ai fatti di causa nel procedimento principale, sono riprese dalla bekendtgørelse nr. 808 om merværdiafgift (regolamento n. 808 relativo all’imposta


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sul valore aggiunto), del 30 giugno 2015 (in prosieguo: il «regolamento sull’IVA»). L’articolo 54, paragrafo 1, di tale regolamento dispone quanto segue: «Per “fabbricato” ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, punto 9, lettera a), della legge sull’IVA si intendono le costruzioni incorporate al suolo che sono state completate per la loro destinazione d’uso. La cessione di parti di tali fabbricati è parimenti considerata cessione di fabbricato». 9. L’articolo 56, paragrafo 1, del regolamento sull’IVA così recita: «Per “terreno edificabile” ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, punto 9, lettera b), della legge sull’IVA si intende un terreno non edificato destinato, secondo la legge sulla pianificazione o le disposizioni adottate in applicazione della stessa, a scopi che consentano la costruzione di fabbricati ai sensi dell’articolo 54 del presente regolamento». 10. Le Skatteministeriets vejledning om moms på salg af nye bygninger og byggegrunde (Istruzioni del Ministro delle Finanze relative all’IVA sulla vendita di nuovi fabbricati e di terreni edificabili) dispongono all’articolo 2, paragrafo 2, quanto segue: «Le cessioni di fabbricati e del suolo ad essi pertinente non sono soggette ad IVA se non si tratta di fabbricati nuovi. Tuttavia, se la cessione è effettuata ai fini della costruzione di un fabbricato nuovo, deve essere considerata cessione di terreno edificabile. Se le parti convengono che il fabbricato sarà demolito dal venditore, o risulta dal contratto di compravendita che il fabbricato è acquistato per essere demolito dall’acquirente, ciò configura una cessione di terreno edificabile. Diversamente, l’intenzione dell’acquirente non può essere determinante per stabilire se sussista una cessione di terreno edificabile. Tra i possibili criteri da prendere in considerazione, singolarmente o congiuntamente, per stabilire se sussista una cessione di terreno edificabile rientrano, ad esempio, il prezzo fissato nel contratto di compravendita rispetto al valore normale di analoghi beni, la natura della costruzione (“fabbricato annesso”), l’assenza di collegamenti a servizi pubblici/commerciali, la precedente destinazione del fondo e la natura della costruzione (ad esempio un “deposito” che non presenti le condizioni minime per un uso futuro). Qualora si concluda che la cessione è stata effettuata ai fini della costruzione di un fabbricato nuovo, essa deve essere considerata cessione di terreno edificabile». Procedimento principale e questione pregiudiziale 11. La KPC Herning è una società danese di promozione immobiliare ed edilizia che sviluppa progetti immobiliari e che realizza opere edilizie nell’ambito di contratti chiavi in mano in Danimarca. 12. Nel maggio 2013, la KPC Herning e la Boligforeningen Kristiansdal, una cooperativa edilizia, hanno deciso di elaborare un progetto per la costruzione di unità abitative per la gioventù in un terreno appartenente all’Odense Havn (porto di Oden-


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se, Danimarca), denominato «Finlandkaj 12». Tale progetto è stato sviluppato in collaborazione con il comune di Odense e il porto di Odense. 13. Nell’autunno del 2013, la KPC Herning ha acquistato dal porto di Odense il terreno detto «Finlandkaj 12», insieme al deposito esistente costruito su tale terreno. Il contratto di vendita era sottoposto a diverse condizioni, tra cui in particolare quella secondo la quale la KPC Herning doveva stipulare un contratto con una cooperativa edilizia al fine di realizzare sul terreno di cui trattasi un progetto immobiliare composto da unità abitative per la gioventù. 14. Il 5 dicembre 2013 la KPC Herning ha venduto il terreno detto «Finlandkaj 12» insieme al deposito alla Boligforeningen Kristiansdal. I contratti conclusi in tale occasione tra le parti formavano una base contrattuale generale dalla quale risultava che la vendita era subordinata alla condizione che la KPC Herning si impegnasse a progettare, a costruire e a fornire, chiavi in mano, unità abitative per la gioventù su tale terreno. 15. In particolare, era previsto che la Boligforeningen Kristiansdal dovesse realizzare la demolizione parziale del deposito edificato sul terreno detto «Finlandkaj 12», preservando soltanto la parte centrale della facciata e parti delle strutture industriali di quest’ultima. Inoltre, le parti hanno convenuto che la KPC Herning fosse tenuta a consegnare una costruzione ad uso abitativo interamente completata su tale terreno. La Boligforeningen Kristiansdal ha realizzato la demolizione parziale del deposito facendosi carico delle spese e dei rischi. 16. È pacifico che, alla data delle successive cessioni del terreno e del deposito, quest’ultimo era pienamente funzionante. 17. Il 10 dicembre 2013 la KPC ha chiesto allo Skatterådet (Consiglio nazionale delle imposte, Danimarca) se la vendita del terreno detto «Finlandkaj 12», nonché del deposito da parte del porto d’Odense e la rivendita del medesimo bene immobile fossero esenti da IVA. Con risposta fornita il 24 giugno 2014, tale autorità ha risposto in senso negativo. 18. Il Landsskatteret (Commissione tributaria nazionale, Danimarca), dinanzi al quale la KPC Herning ha presentato un reclamo, ha ritenuto, con decisione del 9 dicembre 2015, che non occorresse classificare la proprietà di cui trattasi come terreno edificabile la cui vendita sarebbe stata assoggettata all’IVA, per il motivo che, quando sono state effettuate entrambe le vendite un fabbricato si trovava su di esso. Inoltre, ha deciso che non occorreva neppure considerare che, dal momento che le operazioni di demolizione erano state realizzate dalla Boligforeningen Kristiansdal successivamente alla vendita tra il porto di Odense e la KPC Herning, tali ultime due parti avevano effettuato un’unica operazione che includeva la demolizione, come era avvenuto nella causa che ha dato luogo alla sentenza del 19 novembre 2009, Don Bosco Onroerend Goed (C‑461/08, EU:C:2009:722). 19. Con atto del 9 marzo 2016, il Ministero delle Finanze ha proposto ricorso avverso la decisione del Landsskatteretten (Commissione tributaria nazionale) dinanzi


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al retten i Herning (Tribunale di Herning, Danimarca), il quale ha rinviato la causa al Vestre Landsret (Corte regionale dell’Ovest, Danimarca), a motivo delle questioni di principio che essa solleva. 20. Dinanzi al giudice del rinvio, il Ministero delle Finanze ha affermato che, conformemente alla sentenza del 19 novembre 2009, Don Bosco Onroerend Goed (C‑461/08, EU:C:2009:722, punto 43), spettava agli Stati membri definire la nozione di «terreno edificabile». Tale competenza dovrebbe essere esercitata nei limiti derivanti dalle esenzioni previste all’articolo 135, paragrafo 1, lettere j) e k), della direttiva 2006/112 per quanto riguarda i beni immobili costituiti da un fabbricato e dal suolo ad esso pertinente e i fondi non edificati che non sono destinati a incorporare un fabbricato. 21. Nel diritto danese, la nozione di «terreno edificabile» riguarderebbe i terreni non edificati, considerato che la realtà economica e, pertanto, la questione se il bene immobile sia destinato a incorporare un nuovo fabbricato sarebbero determinanti a tal riguardo. Tale interpretazione non priverebbe l’articolo 135, paragrafo 1, lettera j), della direttiva 2006/112 di contenuto, dal momento che non indurrebbe a qualificare qualsiasi cessione di un fabbricato esistente e del suolo pertinente come cessione di terreno edificabile. Inoltre, essa sarebbe conforme alla sentenza del 20 febbraio 1997, DFDS (C‑260/95, EU:C:1997:77, punto 23), secondo la quale la presa in considerazione della realtà economica costituisce un criterio fondamentale per l’applicazione del sistema comune dell’IVA. 22. Di conseguenza, le operazioni effettuate dal porto di Odense e dalla KPC Herning dovrebbero essere qualificate cessioni di terreni edificabili. Il fatto che il fabbricato ad uso deposito che si trovava sul fondo non sia stato interamente demolito sarebbe irrilevante per tale qualificazione, dal momento che la parte non demolita di quest’ultimo non può essere qualificata come «fabbricato», ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2006/112. 23. La KPC Herning, per contro, avrebbe fatto valere che un terreno che supporta un fabbricato non può essere qualificato terreno edificabile, a meno che non siano soddisfatte le condizioni specifiche della sentenza del 19 novembre 2009, Don Bosco Onroerend Goed (C‑461/08, EU:C:2009:722), il che non avviene nel caso di specie. Nella causa che ha dato luogo a detta sentenza, il venditore si sarebbe incaricato della demolizione di un fabbricato esistente al fine di cedere un terreno non edificato nell’ambito di una prestazione complessa. 24. La KPC Herning ha altresì affermato che occorreva distinguere la cessione di fabbricati da quella dei fondi non edificati ai sensi, rispettivamente, dell’articolo 12, paragrafo 2, e dell’articolo 135, paragrafo 1, lettera k), della direttiva 2006/112. I termini utilizzati in tali disposizioni dovrebbero essere oggetto di un’interpretazione autonoma che non li priva della loro efficacia, il che confermerebbe la giurisprudenza della Corte (sentenze dell’8 giugno 2000, Breitsohl, C‑400/98, EU:C:2000:304, punto 48, dell’11 giugno 2009, RLRE Tellmer Property, C‑572/07, EU:C:2009:365, pun-


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to 15, e del 17 gennaio 2013, Woningstichting Maasdriel, C‑543/11, EU:C:2013:20, punto 25). 25. Conformemente all’articolo 12, paragrafo 3, letto in combinato disposto con l’articolo 135, paragrafo 1, lettere j) e k), della direttiva 2006/112, i terreni edificabili costituirebbero una sottocategoria dei fondi non edificati. Pertanto, la direttiva 2006/112 conferirebbe agli Stati membri solamente la responsabilità di decidere se e a quali condizioni dei terreni non edificati possano essere qualificati «terreni edificabili». 26. Peraltro, ai fini della valutazione di un’operazione alla luce della direttiva 2006/112, incomberebbe alle autorità nazionali, conformemente alla giurisprudenza della Corte, di prendere in considerazione la natura oggettiva dell’operazione e non la volontà soggettiva delle parti (sentenza del 27 settembre 2007, Teleos e a., C‑409/04, EU:C:2007:548, punto 39). 27. Nella presente causa, da tali principi risulterebbe che le due operazioni di vendita di cui trattasi devono essere qualificate come cessioni di un terreno occupato da un vecchio fabbricato. 28. In tale contesto il Vestre Landsret (Corte regionale dell’Ovest) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se sia compatibile con il combinato disposto, da un lato, dell’articolo 135, paragrafo 1, lettera j), e dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera a) e paragrafo 2, e, dall’altro, dell’articolo 135, paragrafo 1, lettera k), e dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera b), e paragrafo 3, della direttiva [2006/112] che uno Stato membro, in circostanze come quelle del procedimento principale, consideri la cessione di un terreno sul quale, al momento della cessione, sia incorporato un fabbricato, come una vendita di terreno edificabile soggetta a imposta sul valore aggiunto (IVA), allorché sia intenzione delle parti che il fabbricato sia interamente o parzialmente demolito per fare spazio ad un nuovo fabbricato». Sulla questione pregiudiziale 29. Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 12, paragrafo 1, lettere a) e b), e paragrafi 2 e 3, nonché l’articolo 135, paragrafo 1, lettere j) e k), della direttiva 2006/112 debbano essere interpretati nel senso che un’operazione di cessione di un terreno che incorpora, alla data di tale cessione, un fabbricato può essere qualificata come cessione di un «terreno edificabile», quando l’intenzione delle parti era che il fabbricato fosse totalmente o parzialmente demolito per fare posto a un nuovo fabbricato. 30. Il giudice del rinvio cerca pertanto di determinare il regime dell’IVA applicabile alle due operazioni di vendita di cui al procedimento principale effettuate, da un lato, dal porto d’Odense e la KPC Herning e, dall’altro lato, dalla KPC Herning e la Boligforeningen Kristiansdal. Tali operazioni riguardavano entrambe lo stesso bene


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immobile, composto da un terreno e da un fabbricato ad uso deposito che si trovava su quest’ultimo. 31. Come risulta dalla decisione di rinvio, è pacifico che il fabbricato ad uso deposito fosse stato gestito dal porto di Odense prima delle operazioni di vendita di cui trattasi e che era pienamente operativo alla data della cessione alla KPC Herning e, successivamente, alla Boligforeningen Kristiansdal. È altresì pacifico che i diversi contratti conclusi in tale ambito subordinavano tali operazioni di vendita alla condizione che la KPC Herning realizzasse sul terreno di cui trattasi un progetto immobiliare relativo alla costruzione di alloggi popolari. 32. All’udienza dinanzi alla Corte, la KPC Herning, il governo danese e la Commissione europea hanno ritenuto che occorresse, al fine di procedere alla qualificazione delle due operazioni di vendita successive e, pertanto, alla determinazione del regime IVA in cui rientrano, valutarle indipendentemente l’una dall’altra. Per contro, essi sono in disaccordo sull’interpretazione che si dovrebbe adottare della direttiva 2006/112 e propongono tre diverse qualificazioni per tali operazioni. Mentre per la KPC Herning ciascuna delle operazioni dovrebbe essere qualificata come una «cessione di un vecchio fabbricato» ai sensi dell’articolo 135, paragrafo 1, lettera j), di tale direttiva, il governo danese ritiene che occorra qualificarli come una «cessione di terreno edificabile», ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera b), di detta direttiva. La Commissione, dal canto suo, distingue le due operazioni di cui trattasi e ritiene che la prima operazione riguardi la cessione di un vecchio fabbricato. La seconda operazione, invece, non si ridurrebbe ad una semplice vendita, ma includerebbe la costruzione di nuovi fabbricati. Di conseguenza, essa dovrebbe essere qualificata come una «cessione di un fabbricato e del suolo pertinente», effettuata anteriormente alla prima occupazione, ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera a), della medesima direttiva. 33. Tali divergenze interpretative derivano dal disaccordo della KPC Herning, del governo danese e della Commissione sull’importanza da attribuire alle clausole contrattuali e alla volontà delle parti che può esserne dedotta per qualificare un’operazione ai fini dell’IVA, in una situazione in cui i progetti e i lavori legati contrattualmente alla vendita di un bene non sono stati ancora eseguiti al momento della cessione di tale bene. Nel caso di specie, occorrerebbe quindi stabilire se e in quale misura occorra tener conto dell’intenzione di demolire parzialmente il fabbricato esistente ad uso deposito edificato sul terreno denominato «Finlandkaj 12», nonché quello di sostituirlo con un nuovo fabbricato. 34. Pertanto si pone anzitutto la questione di stabilire in quali circostanze diverse prestazioni successive, quali la vendita di un fabbricato insieme al terreno su cui è stato edificato, la demolizione di tale fabbricato, la successiva costruzione di un nuovo fabbricato, debbano essere qualificate, ai fini dell’IVA, operazioni indipendenti l’una dall’altra o un’unica operazione composta da più prestazioni indissociabilmente collegate.


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35. A tale riguardo, dalla giurisprudenza della Corte risulta che, quando un’operazione è costituita da una serie di elementi e di atti, si devono prendere in considerazione tutte le circostanze nelle quali essa si svolge per determinare se tale operazione comporti, ai fini dell’IVA, due o più prestazioni distinte o un’unica prestazione (sentenza del 18 ottobre 2018, Volkswagen Financial Services (UK), C‑153/17, EU:C:2018:845, punto 29). 36., La Corte ha altresì dichiarato che, da un lato, dall’articolo 1, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2006/112 discende che ciascuna operazione deve normalmente essere considerata distinta e indipendente e, dall’altro lato, l’operazione costituita da un’unica prestazione sotto il profilo economico non dev’essere artificialmente divisa in più parti per non alterare la funzionalità del sistema dell’IVA (sentenza del 18 ottobre 2018, Volkswagen Financial Services (UK), C‑153/17, EU:C:2018:845, punto 30). 37. Pertanto, in determinate circostanze, più prestazioni formalmente distinte, che potrebbero essere fornite separatamente e dare così luogo separatamente a imposizione o a esenzione, devono essere considerate come un’unica operazione quando non sono indipendenti (sentenza del 19 dicembre 2018, Mailat, C‑17/18, EU:C:2018:1038, punto 32). 38. Una prestazione deve essere considerata unica quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono così strettamente collegati da formare, oggettivamente, un’unica prestazione economica indissociabile, la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale (sentenza del 28 febbraio 2019, Sequeira Mesquita, C‑278/18, EU:C:2019:160, punto 30). È questo il caso anche quando una o più prestazioni costituiscono una prestazione principale e la o le altre prestazioni costituiscono una o più prestazioni accessorie cui si applica lo stesso trattamento fiscale della prestazione principale. Segnatamente, una prestazione dev’essere considerata accessoria a una prestazione principale quando per la clientela non costituisce un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire al meglio del servizio principale offerto dal prestatore (sentenza del 19 dicembre 2018, Mailat, C‑17/18, EU:C:2018:1038, punto 34). 39. Al fine di stabilire se le prestazioni fornite siano indipendenti o costituiscano una prestazione unica, è importante individuare gli elementi caratteristici dell’operazione di cui trattasi. Tuttavia, non esistono regole assolute quanto alla determinazione dell’estensione di una prestazione dal punto di vista dell’IVA e occorre quindi, per determinare l’estensione di una prestazione, prendere in considerazione la totalità delle circostanze in cui si svolge l’operazione in questione (sentenza del 17 gennaio 2013, BGŻ Leasing, C‑224/11, EU:C:2013:15, punto 32). 40. In sede di tale valutazione globale delle circostanze, la dichiarata intenzione delle parti di assoggettare ad IVA un’operazione deve essere presa in considerazione, purché sia comprovata da elementi oggettivi (sentenza del 12 luglio 2012, J.J. Komen en Zonen Beheer Heerhugowaard, C‑326/11, EU:C:2012:461, punto 33).


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41. Per quanto riguarda la qualificazione della vendita di un fondo con fabbricato esistente del quale è prevista la demolizione parziale o totale, la Corte ha fornito più volte indicazioni in merito agli elementi oggettivi che possono essere pertinenti a tale riguardo. 42. Così, nella sentenza del 19 novembre 2009, Don Bosco Onroerend Goed (C‑461/08, EU:C:2009:722, punti 39, 40 e 44), la Corte ha dichiarato, anzitutto, che l’oggetto economico perseguito dal venditore e dall’acquirente del bene immobile consisteva nella cessione di un terreno pronto a essere edificato. A tal fine, essa ha osservato che il venditore era incaricato della demolizione del fabbricato esistente sul fondo in questione e che il costo di tale demolizione era stato sopportato, almeno in parte, dall’acquirente. Parimenti, essa ha rilevato che, alla data della cessione della proprietà, la demolizione del fabbricato era già iniziata. Alla luce di tali circostanze, la Corte ha qualificato la cessione del bene immobile in questione nonché la demolizione del fabbricato esistente come un’unica operazione di cessione di un terreno non edificato. 43. Dalla giurisprudenza della Corte risulta che, tra gli elementi oggettivi pertinenti da prendere in considerazione ai fini della qualificazione di un’operazione data ai fini dell’IVA figurano, inoltre, lo stato di avanzamento, alla data di cessione di un bene immobile composto da un terreno e da un fabbricato, dei lavori di demolizione o di trasformazione effettuati dal venditore, l’uso di tale proprietà alla stessa data nonché l’impegno del venditore alla realizzazione dei lavori di demolizione al fine di permettere una costruzione futura (v., in tal senso, sentenze del 12 luglio 2012, J.J. Komen en Zonen Beheer Heerhugowaard, C‑326/11, EU:C:2012:461, punto 34, e del 17 gennaio 2013, Woningstichting Maasdriel, C‑543/11, EU:C:2013:20, punto 33). 44. Peraltro, nella sentenza dell’8 luglio 1986, Kerrutt (73/85, EU:C:1986:295, punti 12 e 15), la Corte, investita della questione di stabilire se la cessione di un terreno edificabile e la susseguente costruzione su quest’ultimo di un nuovo fabbricato, previste da un contratto quadro, dovessero essere qualificate come un’operazione unica, ha tenuto conto della circostanza che, da un lato, l’operazione relativa al terreno e, dall’altro, le cessioni di beni e le prestazioni di servizi costituivano operazioni giuridicamente distinte da parte di imprenditori diversi. Alla luce di detti elementi, essa ha dichiarato che, nonostante la connessione economica di tutte le operazioni di cui trattasi e la loro finalità comune, che consisteva nell’edificazione di un fabbricato sul terreno acquisito, non occorreva, nelle circostanze di tale causa, qualificarle come un’operazione unica. 45. Nella causa di cui al procedimento principale, per quanto riguarda la prima operazione di vendita di cui trattasi, nell’ambito della quale la KPC Herning ha acquistato dal porto di Odense un bene immobile composto da un terreno e da un fabbricato ad uso deposito, è già stato rilevato al punto 31 della presente sentenza che tale deposito era, alla data della sua consegna, pienamente operativo. Dalla decisione di rinvio risulta che nessuna delle parti di tale contratto di vendita era incaricata della


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demolizione di tale deposito, dal momento che tale demolizione era stata effettuata solo in seguito all’acquisto del bene di cui trattasi da parte della Boligforeningen Kristiansdal. 46. In tali condizioni, occorre ritenere che un’operazione come la prima operazione di vendita sia distinta e indipendente dalle operazioni successive effettuate dalla KPC Herning e dalla Boligforeningen Kristiansedal, e, in particolare, dalla demolizione parziale del deposito di cui trattasi. 47. Il solo fatto che la vendita prevista dal contratto concluso tra il porto di Odense e la KPC Herning fosse subordinata alla condizione che la KPC Herning concludesse un contratto con una cooperativa edilizia ai fini della realizzazione, sul bene di cui trattasi, di alloggi popolari, non può collegare le diverse operazioni in modo tale che esse possano essere considerate un’unica prestazione economica indissociabile, la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale. 48. Nell’ambito della seconda operazione di vendita di cui al procedimento principale, la Boligforeningen Kristiansdal ha acquistato dalla KPC Herning il terreno e il deposito venduti in precedenza a quest’ultima società dal porto di Odense. Come emerge dagli elementi del fascicolo di cui dispone la Corte, al momento della cessione alla Boligforeningen Kristiansdal il deposito poteva sempre essere oggetto di un uso effettivo. In seguito a tale cessione, il venditore, vale a dire la KPC Herning, non era in alcun modo coinvolto nella demolizione parziale del deposito. L’acquirente ha incaricato, a proprie spese e a proprio rischio, un’impresa terza per i lavori necessari. Risulta quindi, fatte salve le verifiche che spettano al giudice del rinvio effettuare, che la demolizione del deposito è un’operazione indipendente dalla sua vendita e non forma con quest’ultima un’unica prestazione sul piano economico. 49. È vero che risulta che la vendita del terreno con deposito era subordinata alla condizione che il venditore procedesse, mantenendo taluni elementi esistenti dal vecchio fabbricato, alla costruzione di un nuovo fabbricato. Tuttavia, come è stato esposto al punto 47 della presente sentenza, detta sola circostanza non può collegare le diverse operazioni in modo che esse formino una prestazione economica indissociabile, la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale. 50. Di conseguenza, come parimenti rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 31 e 32 delle sue conclusioni, operazioni di vendita, come le due operazioni di cui trattasi nel procedimento principale, non possono essere considerate rientranti in un unico e medesimo insieme e devono essere valutate separatamente ai fini dell’IVA. 51. In tali circostanze, occorre esaminare ancora la questione se tali operazioni possano essere qualificate come una «cessione di un terreno edificabile», ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2006/112. 52. Ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 3, di detta direttiva, si considerano «terreni edificabili», ai fini di detto paragrafo 1, lettera b), i terreni, attrezzati o no, definiti tali dagli Stati membri.


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53. Gli Stati membri, nel definire i terreni che debbono essere considerati «terreni edificabili», sono tenuti a rispettare l’obiettivo perseguito dall’articolo 135, paragrafo 1, lettera k), della direttiva 2006/112, che mira ad esentare dall’IVA solo le cessioni di terreni non edificati non destinati a supportare un fabbricato (sentenza del 17 gennaio 2013, Woningstichting Maasdriel, C‑543/11, EU:C:2013:20, punto 30). 54. Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 59 delle sue conclusioni, il margine di discrezionalità degli Stati membri nella definizione della nozione di «terreno edificabile» è limitato anche dalla portata della nozione di «fabbricato», definita in modo molto ampio dal legislatore dell’Unione all’articolo 12, paragrafo 2, primo comma, della direttiva 2006/112 come comprendente «qualsiasi costruzione incorporata al suolo». 55. Peraltro, l’articolo 135, paragrafo 1, lettera j), della direttiva 2006/112 prevede un’esenzione dall’IVA a favore delle cessioni di fabbricati, diverse da quelle di cui all’articolo 12, paragrafo 1, lettera a), della medesima. Quanto a quest’ultima disposizione, essa si riferisce alla cessione di un fabbricato o di una frazione di fabbricato e del suolo pertinente, effettuata anteriormente alla prima occupazione. 56. Tali disposizioni, pertanto, nel loro combinato disposto, operano una distinzione tra i vecchi e i nuovi fabbricati, ove la vendita di un vecchio fabbricato, in linea di principio, non è assoggettata a IVA (sentenza del 16 novembre 2017, Kozuba Premium Selection, C‑308/16, EU:C:2017:869, punto 30). 57. La ratio legis di tali disposizioni è l’assenza relativa di valore aggiunto generato dalla vendita di un vecchio fabbricato. Infatti, la vendita di un fabbricato successiva alla sua prima cessione a un consumatore finale, che segna la fine del processo di produzione, non produce un valore aggiunto significativo e deve quindi, in linea di principio, essere esente da imposta (sentenza del 16 novembre 2017, Kozuba Premium Selection, C‑308/16, EU:C:2017:869, punto 31). 58. Nel caso di specie, né la prima vendita del bene immobile di cui trattasi nel procedimento principale né la seconda sembrano avere aumentato il valore economico di tale bene, cosicché tali due operazioni non hanno prodotto un valore aggiunto significativo al fine di essere assoggettate all’IVA, conformemente alla giurisprudenza citata ai punti precedenti della presente sentenza. 59. Se la vendita di un deposito pienamente operativo, come quello oggetto delle vendite di cui trattasi nel procedimento principale, poteva essere qualificata come una cessione di un terreno edificabile e non come una cessione di un vecchio fabbricato e del suolo attiguo, sulla sola base dell’intenzione delle parti del contratto di vendita, ciò pregiudicherebbe i principi della direttiva 2006/112 e rischierebbe di svuotare di contenuto l’esenzione prevista dall’articolo 135, paragrafo 1, lettera j), di tale direttiva. 60. Una siffatta interpretazione sarebbe in contrasto con la suddetta disposizione. Infatti, l’interpretazione dei termini utilizzati per definire le esenzioni di cui all’articolo 135, paragrafo 1, della direttiva 2006/112 deve essere conforme agli obiettivi perse-


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guiti e rispettare le prescrizioni derivanti dal principio di neutralità fiscale relativo al sistema comune dell’IVA. Pertanto, tali termini non possono essere interpretati in un modo che priverebbe tali esenzioni dei loro effetti (v., in tal senso, sentenza del 16 novembre 2017, Kozuba Premium Selection, C‑308/16, EU:C:2017:869, punti 39 e 40). 61. Inoltre, come emerge dalle sentenze del 19 novembre 2009, Don Bosco Onroerend Goed (C‑461/08, EU:C:2009:722), e del 17 gennaio 2013, Woningstichting Maasdriel (C‑543/11, EU:C:2013:20), la vendita di un bene immobile composto da un terreno e da un fabbricato di cui è prevista la demolizione è considerata come un’operazione unica avente ad oggetto la cessione di un terreno non edificato, e non quella di un fabbricato e del suolo attiguo, solo quando sussistono talune circostanze oggettive, quali, in particolare, quelle elencate ai punti 42 e 43 della presente sentenza, le quali dimostrano che la vendita è così strettamente connessa alla demolizione del fabbricato che la loro divisione avrebbe carattere artificiale. 62. Pertanto, un’operazione che consiste nella cessione di un terreno sul quale è già edificato un fabbricato pienamente operativo, quale, da un lato, la vendita della proprietà di cui trattasi nel procedimento principale dal porto di Odense alla KPC Herning e, dall’altro, la rivendita di tale bene da parte della KPC Herning alla Boligforeningen Kristiansdal, che sono economicamente indipendenti e non formano, con altre prestazioni, un’unica operazione, non può essere qualificata, fatte salve le verifiche che incombono al giudice del rinvio, come una vendita di un terreno edificabile. 63. Da tutte le considerazioni che precedono risulta che occorre rispondere alla questione posta dichiarando che l’articolo 12, paragrafo 1, lettere a) e b), e paragrafi 2 e 3, nonché l’articolo 135, paragrafo 1, lettere j) e k), della direttiva 2006/112, devono essere interpretati nel senso che un’operazione di cessione di un terreno che incorpora, alla data di tale cessione, un fabbricato non può essere qualificata come cessione di un «terreno edificabile» quando tale operazione è economicamente indipendente da altre prestazioni e non forma, con queste ultime, un’unica operazione, anche se l’intenzione delle parti era che il fabbricato fosse totalmente o parzialmente demolito per fare posto ad un nuovo fabbricato. Sulle spese 64. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: l’articolo 12, paragrafo 1, lettere a) e b), e paragrafi 2 e 3, nonché l’articolo 135, paragrafo 1, lettere j) e k), della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, devono essere interpretati nel senso che un’operazione di cessione di un terreno che incorpora, alla data di tale cessione, un fabbricato non può essere qualificata come cessione di un «terreno edificabile» quando tale operazione è economicamente indipendente da altre presta-


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zioni e non forma, con queste ultime, un’unica operazione, anche se l’intenzione delle parti era che il fabbricato fosse totalmente o parzialmente demolito per fare posto ad un nuovo fabbricato. (Omissis)

(1) La cessione di un terreno edificabile sul quale insiste un fabbricato, ai fini dell’IVA, tra la valutazione di elementi oggettivi e le intenzioni delle parti contraenti. Sommario: 1. Considerazioni introduttive: scopo e limiti di questa nota di commento. –

2. Fatti di causa e procedimento principale. – 3. La sentenza della Corte di giustizia Don Bosco: la cessione di un terreno sul quale esistevano due fabbricati destinati ad essere interamente demoliti, sotto il profilo dell’IVA. – 4. Le conclusioni scritte dell’Avvocato generale Michal Bobek, presentate ai fini della sentenza in rassegna: un’operazione dev’essere qualificata, ai fini dell’IVA, alla stregua del suo carattere oggettivo, accertando la realtà economica e commerciale dell’operazione medesima. – 5. L’analisi dell’iter logico-giuridico della sentenza: a) le operazioni tra loro autonome e indipendenti che si presentano in modo unitario, anche sotto il profilo economico, non devono essere frazionate artificialmente. – 6. (Segue): b) le «cessioni di fabbricati […] e del suolo ad essi pertinente», le «cessioni di terreni edificabili» e l’interpretazione necessariamente restrittiva dei termini che scolpiscono le esenzioni di cui all’art. 135, par. 1 della direttiva 2006/112/CE. – 7. Osservazioni conclusive: la sentenza non è innovativa e nemmeno particolarmente creativa rispetto all’esperienza giurisprudenziale della Corte e si è limitata ad adattare (in modo coerente), per quanto qui interessa, le precedenti statuizioni al caso di specie. Secondo la Corte di giustizia, la cessione di un terreno edificabile sul quale insiste un deposito di cui è prevista la demolizione, sulla base delle intenzioni delle parti, non può essere assimilata, ai fini dell’IVA, nella fattispecie esaminata nella sentenza in rassegna, ad una cessione di un «terreno edificabile», di cui all’art. 12, comma 1, lett. b) della direttiva 2006/112/CE. Tale affermazione, tuttavia, non va intesa in senso assoluto, laddove devono essere necessariamente considerate e valutate, di volta in volta, tutte le circostanze oggettive alla luce delle quali si realizza l’operazione esaminata, al fine di individuare gli elementi caratteristici di quest’ultima. Questa conclusione, peraltro, è condivisibile e coerente sia con l’esperienza giurisprudenziale della Corte di giustizia, sia con le conclusioni scritte presentate dall’Avvocato generale Michal Bobek. La sentenza, peraltro, non è innovativa e nemmeno particolarmente creativa ma pone le basi per affrontare e risolvere altre questioni interpretative (che non tarderanno a sorgere) aventi per oggetto cessioni di terreni edificabili sui quali insiste un fabbricato destinato alla demolizione. According to the Court of Justice - in the case examined in the judgment under review the supply of building land on which there is a warehouse that the Parties plan to demolish cannot be considered, for VAT purposes, a supply of “building land” within the meaning of Article 12(1)(b) of Directive 2006/112/EC. This statement, however, is not to be understood in absolute terms, since we must necessarily consider and assess – on a case-by-case basis


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– all the objective circumstances in the light of which the transaction under consideration takes place, with a view to identifying the typical characteristics of this transaction. This conclusion is also acceptable and consistent both with the case law of the Court of Justice and with the written conclusions submitted by Advocate General Michal Bobek. Furthermore, the judgment is neither innovative nor particularly creative, but lays the foundations for tackling and solving other interpretation issues (which will not be long in coming) concerning the supply of building land on which there is a building intended for demolition.

1. Considerazioni introduttive: scopo e limiti di questa nota di commento. – La sentenza in esame presenta diversi elementi di particolare interesse, sia sul piano teorico, sia su quello pratico e operativo (1), laddove affronta, con un approccio non privo di coerenza e di rigore sul piano metodologico, una tematica largamente inesplorata dalla dottrina tributaristica italiana, in assenza di una regola chiara e univoca che possa essere applicata, ai fini dell’IVA, in tutte le fattispecie nelle quali viene ceduto un terreno edificabile sul quale insiste un fabbricato, destinato alla demolizione. Non è la prima volta che la Corte esamina la problematica in esame e questa nota si propone di focalizzare l’attenzione sull’iter logico-giuridico che caratterizza l’arresto, la cui lingua processuale è il danese (2), cercando di evincere se è stata adottata un’impostazione coerente con l’esperienza giurisprudenziale della stessa Corte e di illustrare, anche alla luce di questa, le statuizioni che possono in futuro consentire di risolvere altri casi concreti, simili rispetto a quello esaminato nella sentenza in rassegna. Essa è calibrata selettivamente sulla disciplina europea dell’IVA e sui principi generali a questa applicabili e la nota di commento si limiterà ad esaminare tale normativa e questi principi, peraltro sempre più ricchi di sfaccettature, senza indagare sull’implementazione, a livello nazionale, di quella europea e nemmeno sulla disciplina italiana applicabile in materia di imposte sul reddito nella medesima fattispecie, che resterà inevitabilmente sullo sfondo (3). In particolare, l’arresto esamina una tematica di grande attualità che

(1) Per un primo commento alla sentenza, cfr. F. Ricca, Iva, l’intenzione non vale. Cessioni di fabbricati o terreni pari non sono, in Italia Oggi, 7 settembre 2019, 24. (2) Mentre la lingua delle osservazioni scritte della Commissione europea presentate il 24 maggio 2018 è il francese e quella delle conclusioni scritte presentate dall’Avvocato generale Michal Bobek il 19 marzo 2019 è l’inglese. (3) Cfr., per tutti, G. Ferranti, Plusvalenze derivanti dalla cessione di aree edificabili: le questioni da risolvere, in Corr. trib., 2019, 9 ss.; M. Galano, L’oggetto della cessione nella


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viene inquadrata in modo coerente e conforme rispetto alle conclusioni scritte presentate dall’Avvocato generale Michal Bobek e, pertanto, è opportuno esaminare anche questo atto processuale per affrontare l’intera problematica in modo più approfondito. 2. Fatti di causa e procedimento principale. – La sentenza che qui si commenta trae origine dal progetto che una società danese, la quale operava nel settore immobiliare (4), elaborava con una cooperativa edilizia (5), al fine di costruire unità abitative per la gioventù, in un terreno di proprietà del Porto di Odense, in collaborazione col Comune di Odense e col Porto medesimo. Su tale terreno insisteva un fabbricato e, segnatamente, un deposito. La KPC acquistava dal Porto di Odense il suddetto terreno, unitamente al deposito che su di esso insisteva e sottoponeva tale contratto a diverse condizioni, tra le quali, per quanto qui rileva, quella secondo cui la KPC avrebbe dovuto stipulare un contratto con una cooperativa edilizia per realizzare sul terreno medesimo un progetto immobiliare a favore della gioventù (6). Le parti contraenti consideravano esente ai fini dell’IVA l’operazione in questione, ma nell’ipotesi in cui tale tributo fosse dovuto, esso sarebbe stato versato dalla KPC. Successivamente, la KPC stipulava tre contratti con la Cooperativa edilizia, di cui il primo era un «contratto quadro condizionato», mediante il quale era ceduta la proprietà del terreno e del deposito a favore della Cooperativa medesima (7). Il secondo contratto era costituito dalla compravendita della proprietà immobiliare ed il terzo consisteva nella «conversione» della proprietà del terreno e del deposito in unità abitative a favore della gioventù (8).

compravendita di immobili da demolire, in GT-Riv. giur. trib., 2018, 258 ss., la quale annota, in senso adesivo, la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Pistoia 21 novembre 2017, n. 249. (4) Si tratta della KPC Herning A/S, di seguito, per brevità, «KPC». (5) Denominata Boligforeningen Kristiansdal, di seguito la «Cooperativa edilizia». (6) Inoltre, il Comune di Odense avrebbe dovuto adottare un piano urbanistico definitivo, al fine di consentire la realizzazione del progetto immobiliare che ne occupa. (7) Alla stregua di tale contratto, la Cooperativa edilizia era disponibile ad acquistare la proprietà in questione ed a «convertirla», in qualità di costruttore e gestore, in unità abitative da concedere successivamente in locazione e da gestire. La KPC, invece, si impegnava ad effettuare la progettazione e la «conversione» della proprietà in unità abitative in qualità di appaltatore. Il «contratto quadro», peraltro, era condizionato all’acquisto della proprietà che ne occupa dal Porto di Odense a favore della KPC. (8) Questo contratto prevedeva che la Cooperativa edilizia dovesse garantire, a proprie


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Il «contratto quadro condizionato» prevedeva che il corrispettivo fosse esente ai fini dell’IVA, laddove il trasferimento della proprietà aveva per oggetto un fabbricato già esistente ma, nell’ipotesi in cui fosse stato successivamente considerato come soggetto all’IVA, l’onere fiscale sarebbe stato sopportato interamente dalla KPC (9). Il deposito era perfettamente funzionante, al momento dell’effettuazione della due cessioni della proprietà immobiliare sopra descritte, ma non avrebbe potuto essere utilizzato quale sede di unità abitative senza essere demolito (con l’eccezione della facciata orientale, la quale è stata conservata), al fine di consentire la costruzione delle unità abitative. La KPC domandava al Consiglio nazionale delle imposte della Danimarca (10) se le due vendite della proprietà immobiliare in questione fossero esenti ai fini dell’IVA e la risposta vincolante era negativa in merito ad entrambe le domande (11). La società contribuente impugnava la decisione innanzi alla Commissione nazionale dei ricorsi in materia tributaria della Danimarca, la quale (12) riteneva che l’immobile non potesse essere qualificato come terreno edificabile, laddove sul terreno insisteva un fabbricato nel momento in cui sono state realizzate entrambe le cessioni e i lavori di demolizione non sarebbero stati gestiti direttamente dalla KPC, bensì da un altro soggetto (la Cooperativa edilizia), che ne avrebbe sostenuto le spese. Questa decisione era impugnata dal Ministero delle finanze danese e la Corte regionale dell’Ovest della Danimarca sospendeva il procedimento sottoponendo alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale, con ordinanza del 15 maggio 2017. In particolare, la questione era formulata al fine di conoscere la pronuncia della Corte sulla compatibilità della disciplina dell’IVA europea (13), rispetto ai fatti che caratterizzavano il procedimento a quo, lad-

spese, la demolizione parziale del deposito sul terreno, vale a dire conservando la parte centrale della facciata, la quale doveva essere preservata, mentre la KPC si impegnava ad eseguire tutti i lavori per consegnare la costruzione completata. Il 7 marzo 2014, la Cooperativa edilizia stipulava un contratto con un’impresa terza avente per oggetto la demolizione parziale del deposito e, in data 15 agosto 2015, le unità abitative erano pronte per essere utilizzate. (9) A prescindere dal «contratto quadro condizionato», il contratto di acquisto della proprietà dell’immobile era subordinato alle medesime condizioni del «contratto quadro condizionato». (10) Esattamente in data 10 dicembre 2013. (11) La risposta era fornita con lettera del 24 giugno 2014. (12) Con decisione del 9 dicembre 2015. (13) E, segnatamente, degli artt. 12 e 135, par. 1, lett. j) e k) della direttiva 2006/112/CE


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dove uno Stato membro (rectius: la Danimarca), considerava la cessione di un terreno sul quale insisteva un fabbricato al momento della cessione come la vendita di un terreno edificabile soggetta all’IVA, qualora l’intenzione delle parti fosse quella di demolire (totalmente o parzialmente) il fabbricato, al fine di costruire un nuovo fabbricato. Secondo il diritto danese, vigente ratione temporis, in materia di IVA (14), il concetto di terreno edificabile sembra(va) valorizzare il profilo del terreno non edificato ma destinato alla costruzione di fabbricati su di esso, consentendo di attribuire rilevanza, in qualche misura, all’intenzione delle parti contraenti. 3. La sentenza della Corte di giustizia Don Bosco: la cessione di un terreno sul quale esistevano due fabbricati destinati ad essere interamente demoliti, sotto il profilo dell’IVA. – L’esame della sentenza in rassegna e, prima ancora, delle conclusioni dell’Avvocato generale Bobek, dev’essere preceduto, ratione materiae, da un’analisi delle statuizioni contenute nel precedente arresto della Corte depositato il 19 novembre 2009, nella causa C-461/08, Don Bosco (15). La Corte ha esaminato il caso della vendita di un terreno (16), sul quale esistevano due fabbricati (17), a favore di una società, denominata per brevità «Don Bosco» (18), la quale aveva l’intenzione di demolirli interamente e di costruire nuovi fabbricati, destinati ad uffici. A distanza di poche ore dall’inizio dei lavori di demolizione dei fabbricati in questione, veniva ceduta alla Don Bosco la proprietà del terreno sul quale insistevano questi ultimi e, suc-

del Consiglio. (14) L’arresto in commento espone brevemente il diritto danese e, segnatamente, cita l’art. 13, par. 1), punto 9 della legge consolidata relativa all’IVA, nella versione codificata mediante la legge n. 760 del 2016, oltre agli artt. 54, par. 1 e 56, par. 1 del regolamento del 30 giugno 2015, n. 808, relativo alla legge sull’IVA. (15) L’arresto è citato (peraltro, a sproposito) dalla sentenza della Commissione tributaria regionale della Sardegna depositata il 4 giugno 2018, n. 484, in Dir. prat. trib., 2019, II, 822, con nota di M. Targhini, P. Targhini, La riqualificazione dell’oggetto della cessione da fabbricato da demolire a terreno edificabile nella “morra cinese” dell’IVA: la carta batte il sasso?, anche se tale arresto si riferisce alle imposte sul reddito, sotto il profilo della tassazione separata dei redditi diversi, di cui agli artt. 16 (ora art. 17), comma 1, lett. g bis) del d.P.R. n. 917/1986 e 81 (ora art. 67), comma 1, lett. b) dello stesso d.P.R. (16) Situato nel comune di Leusden, nei Paesi Bassi. (17) Utilizzati in passato come scuola con collegio. (18) Per completezza, la società era denominata esattamente «Don Bosco Onroerend Goed BV».


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cessivamente, proseguiva la demolizione totale degli stessi (19), alla quale faceva seguito la costruzione degli uffici. Si è posto il problema di conoscere il corretto trattamento fiscale, ai fini dell’IVA, in considerazione della sesta direttiva del Consiglio n. 77/388/CEE (20) e, segnatamente, se la cessione di un terreno, come quella ut supra descritta, sia esente o meno (21). Al riguardo, la Corte di giustizia esamina congiuntamente le quattro questioni pregiudiziali sottoposte dal giudice a quo, vale a dire dallo Hoge Raad der Nederlanden e sottolinea, per quanto qui interessa, che l’art. 13 della sesta direttiva del Consiglio (22) esenta la cessione avente per oggetto un fabbricato e la frazione di un fabbricato ed il suolo ad esso attiguo, laddove per fabbricato deve intendersi qualsiasi costruzione incorporata al suolo. Occorre indagare sul rapporto che intercorre tra la cessione del terreno sul quale insistono due fabbricati e la demolizione di questi ultimi (23), al fine di determinare se si tratta di due prestazioni autonome, oppure di una medesima operazione composta da diversi elementi. La Corte afferma che due operazioni formalmente distinte, le quali potrebbero essere espletate in modo autonomo, determinando un potenzialmente diverso trattamento ai fini dell’IVA, «devono essere considerate come un’unica operazione quando non sono indipendenti». Questo requisito va inquadrato alla luce della stretto collegamento tra le due operazioni considerate, al punto che esse formano, «oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale». La correlazione tra le operazioni dev’essere riscontrabile sul piano oggettivo e, quindi, prescinde da elementi di tipo valutativo ed esalta la sussistenza di circostanze fattuali che connotano le modalità di espletamento delle operazioni medesime, tra le diverse (e numerose) astrattamente possibili (24).

(19) Previa rimozione dell’amianto. (20) Successivamente rifusa nella direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006. (21) In considerazione degli artt. 2, punto 1, 4, n. 3) e 13, parte B), lett. g) e h) della sesta direttiva del Consiglio n. 77/388/CEE. (22) E, segnatamente, l’art. 13, parte B, lett. g) della sesta direttiva del Consiglio. (23) Al riguardo, il venditore aveva stipulato un contratto con un’impresa, la quale aveva eseguito i lavori di demolizione dei due fabbricati e aveva fatturato il corrispettivo per l’esecuzione di questi lavori allo stesso venditore, che l’aggiungeva al prezzo di acquisto del terreno venduto alla Don Bosco, con l’eccezione delle spese di rimozione dell’amianto, le quali erano rimaste a suo carico. (24) Conseguentemente, sono rilevanti, sul versante oggettivo, le circostanze in base al-


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Alla stregua di queste statuizioni, la Corte sottolinea in modo coerente che il contratto di cessione del terreno, sul quale insistono i due fabbricati e la demolizione di questi ultimi sono strettamente connessi, sotto il profilo dell’IVA e financo «sovrapposti». È particolarmente importante, nel caso di specie, la circostanza secondo cui i lavori di demolizione dei due fabbricati sono iniziati prima della cessione del terreno, a prescindere dallo stato di avanzamento dei lavori stessi al momento della stipula del contratto di cessione. Ne consegue che le due operazioni considerate formano un’unica operazione, sotto il profilo dell’IVA, «avente ad oggetto, nel suo complesso, non la cessione del fabbricato esistente, ma quella di un terreno non edificato» e la scomposizione in due distinte operazioni sarebbe oggettivamente una forzatura, vale a dire avrebbe un carattere artificioso e, quindi, non condivisibile. Conclude l’arresto in esame nel senso che spetta al giudice del rinvio verificare se il terreno che ne occupa possa essere considerato come un «terreno edificabile», ai sensi della sesta direttiva del Consiglio, fermo restando che compete agli Stati membri definire i terreni che debbono essere qualificati come edificabili e che devono essere esentate, ai fini dell’IVA, solamente «le mere cessioni di terreni non edificati non destinati a supportare un fabbricato». 4. Le conclusioni scritte dell’Avvocato generale Michal Bobek, presentate ai fini della sentenza in rassegna: un’operazione dev’essere qualificata, ai fini dell’IVA, alla stregua del suo carattere oggettivo, accertando la realtà economica e commerciale dell’operazione medesima. – L’Avvocato generale Bobek, nelle sue conclusioni scritte, premette che la valutazione di una potenziale cessione di terreno edificabile, sotto il profilo dell’IVA, come per qualunque altra operazione rilevante alla stregua della direttiva 2006/112/CE, dev’essere effettuata sulla base della natura oggettiva dell’operazione medesima, che si evince al momento della cessione. L’intenzione delle parti in ordine alla futura destinazione della proprietà compravenduta costituisce una circostanza di tipo soggettivo, la quale è senza dubbio rilevante, ma va apprezzata unitamente ad altri fattori, questa volta oggettivi, relativi alla stessa operazione. Ciò premesso, l’Avvocato generale Bobek richiama l’esperienza giurisprudenziale della Corte con riferimento ad operazioni formalmente distinte,

le quali il venditore, ovvero l’acquirente (nel caso esaminato, la Don Bosco), abbia: a) dato l’incarico di demolire totalmente i due fabbricati e di farsi fatturare le relative prestazioni; b) sviluppato i progetti per la costruzione del nuovo fabbricato, vale a dire degli uffici.


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che potrebbero essere fornite separatamente, le quali devono essere considerate come un’unica operazione qualora non siano indipendenti (25), bensì strettamente collegate, al fine di evitare un’artificiale scomposizione di queste ultime. Tuttavia, le operazioni esaminate nel caso di specie sono concluse in momenti diversi e tra parti contraenti diverse (26) ed è assente l’elemento dell’accessorietà rispetto all’operazione asseritamente principale. In altre parole, la prima cessione della proprietà va qualificata come principale, così come anche la seconda cessione della proprietà e, se le due operazioni sono da considerate come collegate, una non sembra accessoria all’altra. Di conseguenza, ciascuna operazione dev’essere considerata indipendente dall’altra e il relativo trattamento, ai fini dell’IVA, ben può essere diverso, in considerazione delle sue specifiche caratteristiche, le quali vanno valutate in modo oggettivo, facendo emergere la realtà economica e commerciale dell’operazione medesima. In particolare, devono essere considerate in modo obiettivo tutte le circostanze del caso, tra le quali rilevano le caratteristiche specifiche del bene ceduto o del servizio prestato e le modalità con le quali si realizza tale cessione o prestazione. L’intenzione delle parti, in questo contesto, costituisce sicuramente un elemento da considerare, purché essa trovi riscontro in elementi di tipo oggettivo e, in tal caso, «può gettare ulteriore luce sulla logica sottesa all’operazione» (27). Tuttavia, se le dichiarazioni delle parti non sono sostenute da «prove concrete», esse non assumono alcuna rilevanza pratica, come nel caso in cui si riferiscano a quanto si presume che avverrà in futuro, dopo la realizzazione dell’operazione, per effetto dell’intervento di terzi, laddove devono prevalere gli elementi oggettivi che caratterizzano l’operazione che ne occupa, rispetto alle intenzioni delle parti contraenti. Una diversa soluzione consentirebbe alle parti di scegliere il trattamento dell’operazione, ai fini dell’IVA, inserendo nel contratto una clausola relativa alla futura destinazione del fabbricato e, inoltre, l’amministrazione finanziaria dovrebbe ricostruire e accertare a posteriori se l’intenzione dichiarata dalle parti nel contratto si è effettivamente realizzata o meno.

(25) Cfr. Corte di giustizia 27 giugno 2013, nella causa C-155/12, Donnelley Global Turnkey Solutions Poland, punto 20 e giurisprudenza ivi citata. (26) In particolare, tra il porto di Odense e la KPC, da un lato e tra la KPC e la Cooperativa edilizia, dall’altro. (27) Così si esprime l’Avvocato generale Bobek nel punto 49 della sue conclusioni scritte.


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Quanto sostenuto dall’avvocato generale, peraltro, non si pone in contrasto con l’arresto Don Bosco, esaminato nel precedente paragrafo, come, invece, ha affermato (senza successo) il Governo danese. Difatti, tale sentenza ha evidenziato che, contrariamente al caso di specie, i lavori di demolizione dei due fabbricati erano già iniziati al momento della cessione della proprietà alla società Don Bosco. Mentre nel caso della KPC, al momento della prima vendita, non era previsto con certezza l’inizio dei lavori di demolizione, i quali dovevano essere intrapresi dal successivo acquirente del terreno e non dalla stessa KPC. Sotto un altro profilo, il concetto di «fabbricato», di cui all’art. 12 della direttiva 2006/112/CE, si estrinseca in una nozione comunitaria, come tale sottratta al margine di (relativa) discrezionalità riconosciuto agli Stati membri, ad esempio con riferimento alla definizione dei «terreni edificabili» (28). Peraltro, tale concetto è definito in modo molto ampio, alla stregua della disposizione contenuta nella direttiva e, come tale, non va interpretato in senso restrittivo. Le considerazioni svolte dall’Avvocato generale, relative alla cessione tra il Porto di Odense e la KPC, sono estensibili mutatis mutandis alla cessione tra quest’ultima e la Cooperativa edilizia, laddove, anche con riferimento a questa seconda operazione, si trattava della cessione di un terreno sul quale insisteva un deposito funzionante, avente un valore non trascurabile e non erano ancora iniziati i lavori di demolizione al momento in cui la proprietà del bene era stata trasferita. L’Avvocato generale Bobek ha proposto alla Corte di rispondere alla questione pregiudiziale nel senso che non è compatibile con la disciplina europea dell’IVA (29) una disposizione nazionale che, in presenza di una cessione di un terreno sul quale insiste un fabbricato, affermi che trattasi di una vendita di terreno edificabile soggetta all’IVA, laddove l’intenzione delle parti sia quella di demolire il fabbricato al fine di costruirne uno nuovo.

(28) Di cui all’art. 12, par. 1, lett. b) e 3 della direttiva 2006/112/CE, che lascia agli Stati membri il potere di definire i «terreni edificabili», siano essi «attrezzati» o meno. (29) E, segnatamente, con gli artt. 12 e 135, par. 1, lett. j) e k) della direttiva 2006/112/CE.


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5. L’analisi dell’iter logico-giuridico della sentenza: a) le operazioni tra loro autonome e indipendenti che si presentano in modo unitario, anche sotto il profilo economico, non devono essere frazionate artificialmente. – La Corte di giustizia si colloca ampiamente nella stessa prospettiva dell’Avvocato generale Bobek e ritiene che, preliminarmente, debba essere sciolto il nodo relativo alla qualificazione della duplice cessione del terreno che ne occupa, sotto il profilo dell’IVA, come un’unica operazione composta da più prestazioni strettamente collegate, ovvero due operazioni distinte e indipendenti l’una dall’altra. In proposito, la Corte richiama il proprio consolidato orientamento sull’argomento e lo rafforza ulteriormente. Nella sentenza Primback (30) la Corte sottolinea che, qualora un’operazione si componga di due elementi, essa debba essere considerata come un’unica operazione se un elemento integra la prestazione principale e l’altro quella accessoria e, in tal caso, si applica la stessa disciplina della prestazione principale anche a quella accessoria. Più precisamente, «una prestazione dev’essere considerata come accessoria ad una prestazione principale quando essa non costituisce per la clientela un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio offerto dal prestatore» (31). Questa impostazione è stata ulteriormente approfondita nell’arresto Stadion Amsterdam (32), che ha esaminato la relazione tra due prestazioni connesse, vale a dire la visita (senza guida) al museo dell’associazione «AFC Ajax», quale elemento accessorio rispetto alla visita guidata dello stadio di Amsterdam, laddove erano previste due aliquote diverse dalla disciplina olandese, ai fini dell’IVA (33).

(30) Sentenza 15 maggio 2001, nella causa C-34/99, punto 45, non citata nell’arresto in commento. (31) In tal senso, v. Corte di giustizia 25 febbraio 1999, causa C-349/96, Card Protection Plan, punto 30, in Racc., I-1013; Corte di giustizia 27 giugno 2013, nella causa C-155/12, Donnelley Global Turnkey Solutions Poland, cit., punto 22 e giurisprudenza ivi citata; Corte di giustizia 10 novembre 2016, nella causa C-432/15, Baštová, punto 71. In dottrina, cfr. F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, Torino, 2013, passim e specialmente 145, 146 e 274, in cui l’Autore esamina la potenziale differenza tra operazioni strettamente connesse e operazioni accessorie, alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia. Secondo questa dottrina, emergerebbe, pur con alcuni dubbi, una totale sovrapposizione tra connessione ed accessorietà. (32) Arresto 18 gennaio 2018, nella causa C-463/16, non citato nella sentenza che qui si commenta. Sull’arresto cfr. B. Terra, J. Kajus, A guide to the European VAT Directives, Amsterdam, 2019, volume I, 523-525. (33) L’aliquota applicabile alle prestazioni in ambito culturale, ricreativo o ludico era ridotta e pari al sei per cento, mentre l’aliquota ordinaria era pari al ventuno per cento. La società


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La Corte statuisce che, in via di principio, ogni operazione dev’essere considerata autonomamente e in modo indipendente, ma se due (o più) operazioni si presentano come unitarie anche sotto il profilo economico, non devono essere frazionate artificialmente (34), per non alterare la funzionalità del meccanismo di funzionamento dell’imposta (35). In tal caso, la frantumazione dell’unitarietà dell’operazione sarebbe senza dubbio una forzatura, la quale avrebbe delle conseguenze negative sul versante della neutralità dell’imposta. Afferma la Corte «che si è in presenza di un’unica operazione quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo al cliente sono a tal punto strettamente connessi da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale» (36). Conclude sul punto nel senso che le due visite dovevano essere intese come un’unica prestazione, in quanto la visita al museo dell’«AFC Ajax» era un elemento accessorio rispetto alla visita guidata dello stadio di Amsterdam e doveva essere unitariamente applicata l’aliquota prevista per quest’ultima, in quanto essa era l’operazione principale (37). Nel successivo arresto Mailat (38), la Corte ha esaminato un contratto di locazione stipulato da una società con un’altra società commerciale, in regime di esenzione ai fini dell’IVA, avente ad oggetto un immobile destinato all’esercizio dell’attività di ristorazione, nonché le attrezzature e i beni afferenti

Stadion Amsterdam aveva applicato la prima aliquota, mentre l’Autorità fiscale la seconda. Conseguentemente, occorreva determinare con precisione quale aliquota applicare alla prestazione unica, composta da due elementi diversi, di cui uno principale e l’altro accessorio: se le due prestazioni di servizi fossero state espletate separatamente, sarebbero state assoggettate a due diverse aliquote, vale a dire una ridotta e l’altra ordinaria. (34) Nello stesso senso, cfr. la sentenza della Corte di giustizia 10 novembre 2016, nella causa C-432/15, Baštová, cit., punti 69 e 70. (35) Cfr. in tal senso le sentenze della Corte di giustizia 22 ottobre 2009, nella causa C‑242/08, Swiss Re Germany Holding, punto 51; 10 marzo 2011, nelle cause riunite C-497/09, C-499/09, C-501/09 e C-502/09, Bog e altri, punto 53. Lo stesso principio è affermato, nel solco tracciato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, dalla Corte di cassazione, a sezioni unite, nella sentenza 16 febbraio 2018, n. 3872 e nell’arresto della sezione tributaria 10 ottobre 2019, n. 25492. (36) In tal senso, cfr. le sentenze della Corte di giustizia 18 ottobre 2018, nella causa C-153/17, Volkswagen Financial Services, punto 30; 28 febbraio 2019, nella causa C-278/18, Sequeira Mesquita, punto 30; 27 marzo 2019, nella causa C-201/18, Mydibel, punto 38. (37) In altre parole, doveva applicarsi la stessa aliquota all’operazione principale e a quella accessoria, nella misura dell’aliquota ordinaria, pari ratione temporis al 21 per cento. (38) Sentenza 19 dicembre 2018, nella causa C-17/18, sulla quale cfr. B. Terra, J. Kajus, A guide to the European VAT Directives, cit., 491-493.


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alla gestione del ristorante. Si trattava di determinare se tale contratto rappresentasse una «locazione di beni immobili», ai sensi dell’art. 135, par. 1, lett. l) della direttiva 2006/112/CE, ovvero se dovessero essere considerati separatamente due contratti di locazione, di cui uno solo avente per oggetto un bene immobile. La Corte, richiama la propria (ormai monolitica) giurisprudenza sul rapporto tra operazioni principali e operazioni accessorie e sottolinea nuovamente che non possono essere considerate indipendenti due operazioni (e, dunque, vanno qualificate unitariamente) quando formano un’unica prestazione economica indissociabile, che solo in modo forzato potrebbe essere scomposta in più operazioni distinte (39). E aggiunge che spetta al giudice a quo valutare in modo definitivo i fatti del procedimento principale, al fine di determinare se sussistono due distinte prestazioni, ovvero un’unica prestazione economica indissociabile, sulla base di elementi oggettivi (40). Ovviamente, la Corte di giustizia può offrire al giudice nazionale che ha formulato la domanda di pronuncia pregiudiziale ogni elemento interpretativo che ritenga utile, al fine di dirimere la controversia principale (41). Al fine di stabilire se due (o più) operazioni sono tra loro indipendenti, ovvero se formano un’unica prestazione indissociabile, occorre estrapolare gli elementi caratteristici di quest’ultima e, in assenza di regole valide in assoluto (vale a dire, in qualunque caso), è necessario «prendere in considerazione la totalità delle circostanze in cui si svolge l’operazione in questione» (42). In tale contesto, l’intenzione delle parti di assoggettare un’operazione all’IVA va tenuta in considerazione, tra le circostanze di cui sopra, non sempre e comun-

(39) Nello stesso senso, cfr. la sentenza della Corte di giustizia 17 ottobre 2019, nella causa C-692/17, Paulo Nascimento Consulting, punto 32. (40) Afferma la sentenza Mailat, al punto 39, che la locazione delle attrezzature e dei beni non può essere ritenuta indipendente e autonoma rispetto alla locazione dell’immobile: taluni beni mobili, quali le attrezzature e gli apparecchi da cucina, sono incorporati nell’immobile che ne occupa e devono essere considerati come parte integrante dello stesso. Anche gli altri beni sono destinati all’esercizio dell’attività di ristorazione e non si può ritenere che la relativa locazione abbia una finalità a sé stante, dovendosi intendere «come un mezzo per avvalersi alle migliori condizioni possibili del servizio principale costituito dalla locazione del bene immobile». (41) Cfr. Corte di giustizia 27 giugno 2013, nella causa C-155/12, Donnelley Global Turnkey Solutions Poland, cit., punto 23. (42) Cfr. la sentenza 17 gennaio 2013, nella causa C-224/11, BGŻ Leasing, punto 32, nonché la sentenza che qui si commenta al punto 39. Nello stesso senso, v. la sentenza della Corte di giustizia 25 febbraio 1999, causa C-349/96, Card Protection Plan, cit., punto 28, in Racc., I-1012.


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que, bensì solamente se comprovata da elementi oggettivi (43), vale a dire non da elementi astratti, potenziali o teorici ma riscontrabili in concreto. La Corte, poi, aggiunge alcune sintetiche considerazioni in merito alla propria giurisprudenza, al fine di individuare gli elementi oggettivi, che possono essere utili e pertinenti, rispetto alla cessione di un terreno con un fabbricato che insiste su di esso e per il quale le parti contraenti hanno previsto la demolizione totale o parziale. Dopo aver richiamato l’arresto Don Bosco (44), tra le circostanze oggettive da considerare, la Corte ha individuato lo stato di avanzamento, alla data nella quale si realizza la cessione di un immobile composto da un terreno e da un fabbricato, «dei lavori di demolizione o di trasformazione effettuati dal venditore, l’uso di tale proprietà alla stessa data nonché l’impegno del venditore alla realizzazione dei lavori di demolizione al fine di permettere una costruzione futura» (45). Nella sentenza Kerrut (46) la Corte ha esaminato, in punto di fatto, una serie di contratti costituita dalla cessione di un terreno edificabile e da un contratto d’appalto, ai fini della costruzione di un edificio ad uso abitativo, nonché da altri contratti ad essi riferibili e, segnatamente, un contratto di assistenza edile, un contratto di «gestione lavorativa», un contratto per l’ottenimento di documenti fiscali e un contratto di mediazione per un finanziamento. Si è posto il problema di determinare se si tratta, nella specie, di un’unica complessa operazione immobiliare, ai fini dell’IVA (47), «a causa della connessione economica del complesso delle operazioni parziali e del […] comune scopo che è la realizzazione dell’edificio sul terreno acquistato» (48), sotto il profilo delle «cessioni di fabbricati o di una frazione di fabbricato e del suolo ad essi attiguo», di cui all’art. 13, parte B, lett. g) della sesta direttiva del Consiglio (49).

(43) Cfr. la sentenza 12 luglio 2012, nella causa C-326/11, J.J. Komen, punto 33, nonché la sentenza in rassegna al punto 40. V. già le sentenze 18 novembre 2010, causa C‑84/09, X, in Racc., I‑11680 e I‑11681, punti 47 e 51; 10 novembre 2011, nella causa C-444/10, Schriever, punto 38 e, sotto il profilo della detrazione dell’imposta, v. le sentenze 14 febbraio 1985, causa 268/83, Rompelman, in Racc., 665, punto 24; 26 settembre 1996, causa C‑230/94, Enkler, punto 24; 21 marzo 2000, nelle cause riunite da C‑110/98 a C‑147/98, Gabalfrisa, in Racc., I‑1614, punto 47. (44) Già analizzato retro nel paragrafo 3. (45) Al riguardo, in senso sintonico, cfr. le sentenze 12 luglio 2012, nella causa C-326/11, J.J. Komen, cit., punto 34 e 17 gennaio 2013, nella causa C-543/11, Woningstichting, punto 33. (46) Sentenza 8 luglio 1986, nel procedimento 73/85, in Racc., 2234 ss. (47) Ovvero di più operazioni da considerare separatamente e distintamente. (48) La locuzione è tratta dalla sentenza Kerrut, cit., al punto 12. (49) Questa disposizione è stata rifusa nell’art. 135, par. 1, lett. j) della direttiva 2006/112/ CE, con la differenza, più formale che sostanziale, che al posto di «attiguo» è stato inserito


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Al riguardo, la Corte afferma che, nel caso di specie, si può parlare di un’unica operazione solamente qualora le due categorie di beni ceduti, vale a dire l’edificio e il suolo, formino, rispetto alle disposizioni sulla compravendita, l’oggetto di un’unica cessione, estrinsecandosi, appunto, in una cessione di suolo edificato. Questa interpretazione valorizza lo scopo della sesta direttiva del Consiglio, laddove esalta la neutralità dell’IVA (intesa tra le sue diverse possibili accezioni) sul versante della concorrenza, in quanto «le varie operazioni imponibili che non possono essere riunite in un’unica operazione» devono, di regola, essere sottoposte singolarmente all’imposta (50). Ne consegue che è rilevante la circostanza secondo la quale, nel caso esaminato, le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, nel contesto della complessa contrattazione posta in essere, erano espletate tra soggetti diversi e le relative operazioni dovevano essere considerate giuridicamente distinte rispetto alla cessione del terreno edificabile, nonostante la loro connessione economica e la comune finalità. Alla stregua di quanto precede, la sentenza in rassegna, nel solco tracciato dalle conclusioni scritte dell’Avvocato generale Bobek, afferma che la prima cessione del terreno edificabile, sul quale insiste un fabbricato ad uso deposito, dev’essere considerata partitamente e separatamente rispetto alle altre operazioni poste in essere tra la KPC e la Cooperativa edilizia, non essendo qualificabile come un’unica complessa «prestazione economica indissociabile, la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale». Le circostanze rilevanti sul piano oggettivo mostrano come siano diversi i soggetti che hanno stipulato i contratti in esame, senza considerare che la demolizione parziale del deposito sembra indipendente (almeno sul versante contrattuale) dalla cessione del terreno, fatte salve le necessarie verifiche da parte del giudice del rinvio. Conclusivamente, sul punto, va esclusa l’unicità dell’operazione in esame, ai fini dell’IVA ed ogni operazione resta assoggettata separatamente e autonomamente dalle altre alla disciplina del tributo, compresa la qualificazione come imponibile, ovvero esente.

«pertinente». (50) Cfr. la sentenza Kerrut, cit., al punto 14.


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6. (Segue): b) le «cessioni di fabbricati […] e del suolo ad essi pertinente», le «cessioni di terreni edificabili» e l’interpretazione necessariamente restrittiva dei termini che scolpiscono le esenzioni di cui all’art. 135, par. 1 della direttiva 2006/112/CE. – Il passaggio successivo dell’iter logico-giuridico della sentenza che qui si commenta, consiste nel determinare se le operazioni in questione possano essere qualificate come una «cessione di un terreno edificabile», alla luce dell’art. 12, par. 1, lett. b) della direttiva 2006/112/CE (51) e, in caso di risposta affermativa, esse sarebbero qualificate come operazioni imponibili, ai fini dell’IVA. Per rispondere a tale quesito, la Corte formula tre argomentazioni, tutte convergenti nel senso che è non poco limitata la discrezionalità degli Stati membri nel determinare a quali condizioni i «terreni edificabili» possono essere disciplinati, al fine di individuare la loro cessione come imponibile, ovvero esente, sul piano dell’IVA (52).

(51) Si consideri che, alla stregua dell’art. 12, par. 3 della direttiva 2006/112/CE, i «terreni edificabili» sono definiti come «i terreni, attrezzati o no, definiti tali dagli Stati membri». Si tratta, quindi, di determinare con precisione il margine di estensione della discrezionalità riconosciuta agli Stati membri, in merito alla definizione dei «terreni edificabili». (52) Secondo l’ordinanza della Corte di cassazione 25 luglio 2019, n. 20149, in Fisco, 2019, 3281 e 3182, con commento di M. Peirolo, è esclusa dal campo di applicazione dell’IVA (con applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale) la cessione di una porzione di un terreno edificabile, di proprietà e coltivato da un imprenditore agricolo, laddove il terreno medesimo da agricolo diviene edificabile e, conseguentemente, si trasforma in un bene diverso da quello che era in precedenza, a fronte di una aumentata appetibilità commerciale. Peraltro, le argomentazioni che consentono di giungere alla stessa conclusione in termini di esclusione dal campo di applicazione dell’IVA della cessione in questione sono precisamente indicate nella sentenza della Corte di giustizia 15 settembre 2011, nelle cause riunite C-180/10 e C-181/10, Slaby e Kuć, non a caso citata nella sentenza della Corte di cassazione n. 20149 del 2019. Questo arresto della Corte di giustizia evidenzia, in modo coerente, che «una persona fisica che ha esercitato un’attività agricola su un fondo rustico riconvertito, in seguito ad una modifica dei piani regolatori locali sopravvenuta per cause indipendenti dalla volontà di questa persona, in terreno destinato alla costruzione non può essere ritenuta soggetta all’IVA ai sensi degli artt. 9, n. 1, e 12, n. 1, della direttiva IVA, quando essa intraprende di vendere il suddetto fondo rustico, se tali vendite si iscrivono nell’ambito della gestione del patrimonio privato della persona stessa». All’opposta conclusione si deve giungere, secondo la Corte, qualora prima della cessione la persona fisica realizzi «iniziative attive di commercializzazione fondiaria mobilitando mezzi simili a quelli dispiegati per un’attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi ai sensi dell’art. 9, n. 1, secondo comma, della direttiva IVA», laddove questa persona sarebbe considerata, in tale ipotesi, quale soggetto passivo esercente un’«attività economica» e, conseguentemente, l’operazione di cessione del terreno che ne occupa dovrebbe essere assoggettata all’IVA. L’ordinanza della Corte di cassazione depositata il 25 luglio 2019, n. 20149 è commentata da S. Servidio, Cessione di terreno edificabile nell’imposizione indiretta, in L’IVA, 2019, 47 ss., il quale esamina gli orientamenti in parte qua della giurisprudenza di legittimità e


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Innanzi tutto, essi sono menzionati nell’art. 135, par. 1, lett. k) della direttiva, la quale esenta solamente «le cessioni di fondi non edificati» e non destinati alla costruzione di un fabbricato su di essi (53) e gli Stati membri sono tenuti a rispettare la formulazione di questa fattispecie di esenzione. Inoltre, sono considerate esenti anche «le cessioni di fabbricati o di una frazione di fabbricato e del suolo ad essi pertinente, diversi da quelli» considerati nell’art. 12, par. 1, lett. a) (54), i quali consistono nelle cessioni di fabbricati e del suolo pertinente, effettuate «anteriormente alla prima occupazione». Infine, nel solco tracciato dall’Avvocato generale Bobek nelle sue conclusioni scritte, quale terzo (concorrente e convergente) profilo, il concetto di «terreno edificabile» va inteso in senso ampio (55), in quanto comprende «qualsiasi costruzione incorporata al suolo» (56). Tutte queste argomentazioni conducono a ritenere che la discrezionalità degli Stati membri, nel definire i «terreni edificabili», è molto limitata e, presumibilmente, attiene ad aspetti tecnici e/o di dettaglio, mentre la qualificazione generale della categoria, rispetto a quella dei terreni non edificabili, è effettuata a livello europeo (dalla

i documenti di prassi dell’Agenzia delle entrate. (53) In tal senso, cfr. la sentenza della Corte 17 gennaio 2013, nella causa C-543/11, Woningstichting, cit., punto 30. V. già le sentenze 28 marzo 1996, nella causa C‑468/93, Gemeente Emmen, punti 24 e 25; 19 novembre 2009, nella causa C-461/08, Don Bosco, cit., punto 43. (54) In virtù dell’art. 135, par. 1, lett. j) della direttiva 2006/112/CE. (55) In considerazione dell’art. 12, par. 2, comma 1 della direttiva in questione. (56) La sentenza della Corte di cassazione 21 febbraio 2019, n. 5088, esamina alcune interessanti problematiche relativamente alla cessione di terreni edificabili, sotto il profilo dell’assoggettamento ad IRPEF delle plusvalenze da cessione di immobili, ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 917 del 1986 e successive modificazioni e integrazioni (TUIR). Secondo questo arresto, non è corretto sul versante interpretativo porre sullo stesso piano il terreno da edificare rispetto al terreno già edificato, il quale venga nuovamente edificato, previa demolizione e ricostruzione, anche in presenza di un aumento di volumetria. Difatti, la ratio dell’art. 67, comma 1, lett. b) del TUIR è quella di assoggettare ad IRPEF il plusvalore connesso all’aumento di valore del terreno dichiarato edificabile, con esclusione dell’eventuale aumento della volumetria, il quale resta escluso, fatta salva l’applicazione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria. In altre parole, aggiunge la Corte, non sono soggette ad imposizione, ai fini dell’IRPEF, le plusvalenze derivanti da cessioni di terreni edificabili che scaturiscono da cessioni a titolo oneroso di edifici che non abbiano interamente sviluppato la potenzialità edificatoria del lotto su cui insistono, laddove tali edifici «potrebbero sempre essere abbattuti e ricostruiti o semplicemente ampliati, a prescindere dall’intenzione delle parti». Alla stregua di quanto precede, afferma la Corte che l’art. 67, comma 1, lett. b) del TUIR non consente di riqualificare la cessione di un edificio come cessione del terreno edificabile sottostante, anche in presenza di una pattuizione tra le parti nel senso di demolire e ricostruire l’edificio che ne occupa, financo con un ampliamento della volumetria.


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direttiva che ne occupa) e la legislazione nazionale non può porsi in contrasto con essa (57). Sotto il profilo della distinzione tra vecchi e nuovi fabbricati, in relazione al concetto di «prima occupazione», è particolarmente significativo l’arresto Kozuba (58), non a caso citato ben tre volte nella sentenza in rassegna. La Corte ha esaminato il caso di un conferimento da parte di un socio di un fabbricato residenziale in una società stabilita in Polonia (59) e, successivamente a tale operazione, il fabbricato in questione era sottoposto ad una ristrutturazione (60), al fine di adattarlo alle caratteristiche dell’attività economica esercitata dalla società. Al momento della successiva cessione del fabbricato ad un terzo (61), la società riteneva che si trattasse di un fabbricato usato e, quindi, che fosse esente da IVA e questa impostazione era contestata dall’Amministrazione finanziaria polacca, la quale recuperava l’imposta asseritamente dovuta per effetto della cessione del fabbricato medesimo. La Corte, al riguardo, statuisce che le pertinenti disposizioni della direttiva (62) effettuano una distinzione, ai fini della «prima occupazione», «tra i vecchi e i nuovi fabbricati, ove la vendita di un vecchio fabbricato, in linea di principio, non è assoggettata a IVA» (63). In altre parole, se la cessione di un vecchio fabbricato (o di una frazione del vecchio fabbricato e del suolo attiguo), vale a dire di un fabbricato successivamente alla sua «prima occupazio-

(57) Sotto il profilo dell’alternatività tra l’IVA e l’imposta di registro, cfr. M. P. Nastri, Il principio di alternatività tra imposta sul valore aggiunto e imposta di registro, Torino, 2012, passim; Id., Commento sub art. 40 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, in G. Marongiu (a cura di), Commentario breve alle leggi tributarie, tomo IV, Padova, 2011, 860 ss. e specialmente 861, la quale esclude una stretta coerenza del sistema, con riferimento al principio di alternatività in questione e preferisce affermare la sussistenza di un’alternatività «attenuata», all’interno di un sistema «complesso sia sotto il profilo interpretativo, sia applicativo». Sottolinea i numerosi profili di incoerenza in materia di fiscalità indiretta del settore immobiliare F. Pinto, Per un’ipotesi di revisione della fiscalità indiretta dei trasferimenti a titolo oneroso dei fabbricati, in Dir. prat. trib., 2019, I, 1963 ss., il quale formula, altresì, alcune proposte finalizzate al riordino ed alla semplificazione della disciplina relativa ai trasferimenti immobiliari, sotto il profilo dell’imposizione indiretta. (58) Sentenza 16 novembre 2017, nella causa C-308/16. (59) Il conferimento è avvenuto in data 17 settembre 2005, mentre il fabbricato conferito era stato costruito nel 1992. (60) Definita nella sentenza in termini di «ammodernamento». (61) La cessione del fabbricato ad un terzo è avvenuta in data 15 gennaio 2009. (62) E, segnatamente, l’art. 12, par. 1, lett. a) e l’art. 135, par. 1, lett. j) della direttiva 2006/112/CE. (63) Così il punto 30 della sentenza Kozuba, cit.


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ne», è effettuata da un soggetto passivo, ai fini dell’IVA, essa è da qualificare come operazione esente (64) e non come imponibile. Aggiunge la Corte che la ratio del combinato disposto delle disposizioni in esame della direttiva va ricercata nell’assenza di valore aggiunto generato dalla vendita di un vecchio fabbricato, nel senso sopra precisato (65), laddove «la vendita di un fabbricato successiva alla sua prima cessione a un consumatore finale, che segna la fine del processo di produzione, non produce un valore aggiunto significativo e deve quindi, in linea di principio, essere esente da imposta» (66). Con riferimento, poi, al concetto di «prima occupazione», la Corte sottolinea la propria consolidata giurisprudenza secondo la quale, se una disposizione di diritto dell’Unione europea non rinvia espressamente al diritto nazionale degli Stati membri, essa, di regola, è soggetta ad una «interpretazione autonoma e uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e dello scopo perseguito dalla normativa di cui trattasi» (67). Nel caso esaminato nella sentenza in rassegna, far dipendere la qualificazione di un’operazione come esente, anziché come imponibile, dall’intenzione delle parti del contratto di compravendita del terreno sul quale insiste il fabbricato, sarebbe nettamente in contrasto con le pertinenti disposizioni della direttiva 2006/112/

(64) Nello stesso senso, cfr. la sentenza 12 luglio 2012, nella causa C-326/11, J.J. Komen, cit., punto 21. (65) Nella sentenza in rassegna si afferma, in coerenza con la giurisprudenza citata, che le due cessioni del terreno sul quale insiste il deposito non hanno aumentato il valore economico del bene e, da questo assunto, consegue che «tali due operazioni non hanno prodotto un valore aggiunto significativo al fine di essere assoggettate all’IVA» (punto 58 della sentenza). (66) Cfr. la sentenza 4 ottobre 2001, nella causa C-326/99, Goed Wonen, punto 52, oltre al punto 31 dell’arresto Kozuba, cit. Secondo quest’ultima sentenza, è molto importante, per quanto qui interessa, il valore aggiunto generato, alla stregua dell’art. 12, par. 2 della direttiva, al fine di determinare l’eventuale assoggettamento della cessione di un fabbricato all’IVA. Difatti, tale valore aggiunto «abilita gli Stati membri a definire le modalità di applicazione del criterio indicato al paragrafo 1, lettera a) […] – vale a dire quello della “prima occupazione” – alle trasformazioni di beni immobili. In tal modo, la direttiva IVA apre la strada alla tassazione di cessioni di fabbricati che sono stati oggetto di una trasformazione, in quanto quest’ultima operazione conferisce al fabbricato in oggetto un valore aggiunto, al pari della sua costruzione iniziale» (punto 32). (67) Tra le tante, cfr. la sentenza 13 ottobre 2016, nella causa C-294/15, Mikołajczyk, punto 44 (e giurisprudenza ivi citata), in materia (non fiscale ma) di competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, la quale fa discendere il principio dell’interpretazione autonoma e uniforme, con riferimento alla determinazione del senso e della portata della disposizione da interpretare, sia dalla necessità dell’applicazione uniforme del diritto dell’Unione in tutti gli Stati membri, sia dal principio di uguaglianza.


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CE e, segnatamente, col sistema delle esenzioni di cui all’art. 135, par. 1, lett. j) e k) e rischierebbe di privare queste esenzioni dei loro effetti. Difatti, alla stregua della giurisprudenza della Corte, le esenzioni costituiscono un ampio genus, con numerose species, molto diversificate tra loro, con un elevato numero di sfaccettature sul versante tipologico e soggettivo (68), che derogano rispetto all’ordinario meccanismo di funzionamento del tributo, sotto il profilo del diritto di detrazione dell’IVA sugli acquisti di beni e di servizi impiegati dal soggetto passivo al fine di espletare operazioni attive soggette all’imposta (69). Le operazioni esenti limitano in modo significativo la neutralità dell’imposta (70), che si estrinseca in uno dei principi fondamentali che caratterizzano la disciplina europea dell’IVA, con due importanti corollari. Afferma la Corte che «le esenzioni costituiscono nozioni autonome del diritto dell’Unione, volte ad evitare divergenze nell’applicazione del sistema dell’IVA da uno Stato membro all’altro» (71). Una disposizione di diritto dell’Unione dev’essere interpretata non solamente in considerazione della sua

(68) Sia consentito rinviare funditus a A. Comelli, La frammentazione delle prestazioni di servizi culturali esenti, ai fini della disciplina dell’IVA europea e nazionale, in Dir. prat. trib., 2019, I, 1563 ss., ove si sottolinea che quella delle esenzioni è una delle tematiche più complesse del sistema dell’IVA. (69) Nel medesimo Stato membro nel quale il soggetto passivo effettua queste operazioni: si veda l’art. 168 della direttiva 2006/112/CE. (70) Difatti, esse, per così dire, interrompono la traslazione dell’imposta, in senso dinamico e giuridicamente disciplinato, dalle fasi della produzione e del commercio (rispettivamente, all’ingrosso e al dettaglio) fino all’immissione al consumo finale del bene o del servizio. (71) La locuzione è contenuta nell’arresto della Corte di giustizia 14 marzo 2019, nella causa C-449/17, A & G, punto 18, con riferimento alle esenzioni di cui all’art. 132 della direttiva 2006/112/CE. Nello stesso senso, tra le tante, cfr. Corte di giustizia 26 febbraio 2015, nelle cause C-144/13, C-154/13 e C-160/13, VDP, X e Nobel, punto 44; Corte di giustizia 21 gennaio 2016, nella causa C-335/14, Les Jardins de Jouvence, punto 47; Corte di giustizia 5 ottobre 2016, nella causa C-412/15, TMD, punto 24; Corte di giustizia 28 febbraio 2019, nella causa C-278/18, Sequeira Mesquita, cit., punto 16. Con riferimento all’art. 135, par. 1 della direttiva 2006/112/CE, lo stesso principio è affermato negli arresti della Corte di giustizia 22 ottobre 2015, nella causa C-264/14, Hedqvist, punto 33; 25 luglio 2018, nella causa C-5/17, DPAS Limited, punto 28. In relazione alle esenzioni di cui all’art. 13, parte A, della direttiva 77/388/CEE del Consiglio, v. Corte di giustizia 2 luglio 2015, nella causa C-334/14, De Fruytier, punto 17; sotto il profilo dell’art. 13, parte B, della medesima direttiva 77/388/CEE, lo stesso principio è affermato negli arresti della Corte di giustizia 13 marzo 2014, nella causa C-464/12, ATP, punto 40; 16 luglio 2015, nella causa C-584/13, Mapfre asistencia, punto 27; 9 dicembre 2015, nella causa C-595/13, Fiscale Eenheid X, punto 30.


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formulazione letterale, ma alla luce del suo contesto e degli scopi perseguiti dalla normativa di cui fa parte (72). Inoltre, le esenzioni di cui agli artt. 132 e 135 della direttiva 2006/112/ CE devono essere interpretate in modo restrittivo, laddove esse costituiscono deroghe al principio generale stabilito dall’art. 2, par. 1, lett. a) e c) della stessa direttiva (73), secondo cui sono soggette all’IVA rispettivamente le cessioni di beni e le prestazioni di servizi «effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale» (74). L’interpretazione dei termini utilizzati per circoscrivere queste esenzioni dev’essere conforme «agli obiettivi perseguiti da dette esenzioni e rispettare» il principio di neutralità (75), senza privare le esenzioni medesime dei loro effetti (76), posto che sarebbe irragionevole una loro interpretazione che le rendesse, di fatto, quasi inapplicabili (77). La sentenza che qui si commenta si colloca pienamente nel solco dell’esperienza giurisprudenziale appena illustrata, con riferimento all’interpretazione delle esenzioni di cui all’art. 135, par. 1), lett. j) e k) della più volte citata direttiva, sotto il profilo delle cessioni rispettivamente di fabbricati e di terreni edificabili. Alla stregua delle statuizioni della Corte di giustizia nelle sentenze che sono state richiamate, la cessione di un terreno sul quale insiste un deposito di cui è prevista la demolizione può essere qualificata come un’unica operazione di cessione di un terreno non edificato (e non di un fabbricato e del suolo attiguo), esclusivamente se si verificano alcune circostanze, apprezzabili sul piano oggettivo, che dimostrino che la vendita e la demolizione

(72) Tra le tante, cfr. la sentenza della Corte di giustizia 21 settembre 2017, nella causa C-326/15, DNB Banka, punto 29. (73) Con riferimento alle esenzioni di cui all’art. 135, par. 1 della direttiva 2006/112/CE, cfr. le sentenze della Corte di giustizia 22 ottobre 2015, nella causa C-264/14, Hedqvist, cit., punto 34; 17 marzo 2016, nella causa C-40/15, Aspiro, punto 20. (74) In senso pienamente sintonico, v. la sentenza della Corte di giustizia 16 novembre 2017, nella causa C-308/16, Kozuba, cit., punto 39. (75) Cfr. gli arresti della Corte di giustizia 4 maggio 2017, nella causa C-274/15, Commissione c. Lussemburgo, punto 50; 16 novembre 2017, nella causa C-308/16, Kozuba, cit., punto 40. Nello stesso senso, v. già Corte di giustizia 12 marzo 2015, nella causa C-594/13, Go fair, punto 17; Corte di giustizia 16 luglio 2015, nella causa C-584/13, Mapfre asistencia, cit., punto 26. (76) Cfr. le sentenze della Corte di giustizia 13 marzo 2014, nella causa C-366/12, KD, punto 27; 2 luglio 2015, nella causa C-334/14, De Fruytier, cit., punto 18. (77) In tal senso, cfr. la sentenza della Corte di giustizia 4 maggio 2017, nella causa C-274/15, Commissione c. Lussemburgo, cit., punto 50.


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del fabbricato sono strettamente connesse al punto che un loro frazionamento sarebbe forzato. Conclusivamente, la duplice cessione di un terreno sul quale insiste un deposito pienamente operativo, esaminata nella sentenza in rassegna, unitamente alle altre prestazioni di servizi previste alla luce della già analizzata serie di contratti, fa emergere operazioni economicamente indipendenti tra loro. Essa non può essere considerata come un’unica operazione (78) e non può essere qualificata come la vendita di un terreno edificabile, imponibile ai fini dell’IVA, bensì come un’operazione esente, in virtù dell’art. 135, par. 1, lett. j) della direttiva 2006/112/CE. 7. Osservazioni conclusive: la sentenza non è innovativa e nemmeno particolarmente creativa rispetto all’esperienza giurisprudenziale della Corte e si è limitata ad adattare (in modo coerente), per quanto qui interessa, le precedenti statuizioni al caso di specie. – Al termine di questa breve analisi, possono essere selettivamente formulate alcune considerazioni conclusive sull’arresto in rassegna. La Corte ha essenzialmente sviluppato la propria giurisprudenza nella duplice direzione, da un lato, dei rapporti tra operazioni espletate da un soggetto passivo e collegate, anche sul piano economico, le quali possono essere considerate come un’unica operazione se sono indissociabili e la loro scomposizione sarebbe artificiosa, sulla base di circostanze comprovate da elementi oggettivi e, dall’altro, in relazione al concetto di «cessione di un terreno edificabile». La sentenza, peraltro, non ha innovato rispetto all’esperienza giurisprudenziale della stessa Corte e non ha aggiunto elementi di significativa novità, ovvero particolarmente creativi. Essa si è limitata ad adattare le precedenti statuizioni in parte qua al caso di specie e questo adattamento si segnala per la sua innegabile coerenza con quanto in precedenza deciso, senza revirement o cambi di prospettiva metodologica, suscettibili di generare incertezze pericolose. Certamente, la sentenza che qui si commenta non ha risolto tutti i problemi che astrattamente possono emergere in considerazione della cessione di terreni sui quali insistono fabbricati che saranno demoliti, in tutto o in parte, successivamente alla data nella quale si perfeziona la cessione medesima. A

(78) Fatte salve le ulteriori verifiche, che spettano al giudice del rinvio, il quale viene così ampiamente responsabilizzato dalla Corte di giustizia, in ordine alla decisione finale da assumere nel procedimento principale.


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titolo esemplificativo, gli elementi oggettivi alla luce dei quali più operazioni possono essere qualificate, ai fini dell’IVA, come un’unica operazione economica indissociabile, quale lo stato di avanzamento dei lavori alla data della cessione dell’immobile, non formano un catalogo chiuso e potranno essere successivamente ampliati, ma sempre nella cornice della riscontrabile oggettività degli elementi e dei dati che compongono, di volta in volta, l’assetto contrattuale, talvolta molto complesso e articolato. Tuttavia, l’arresto, tutt’altro che insensibile rispetto a tale profilo, ha evidenziato ulteriormente e in modo condivisibile su quali basi potranno essere affrontate e risolte future questioni, che senza dubbio non tarderanno a sorgere negli ordinamenti interni degli Stati membri, fondate sull’interpretazione e sull’applicazione delle medesime disposizioni contenute nella direttiva 2006/112/CE e sopra esaminate.

Alberto Comelli


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

La nuova dimensione europea della regolamentazione del transfer pricing e la progressiva trasformazione delle modalità di esercizio della funzione impositiva degli Stati* Sommario: 1. Cenni introduttivi. – 2. Asimmetrie impositive nel transfer pricing e

contributo non risolutivo dell’arm’s leght principle. – 3. Le raccomandazioni dell’ottobre 2018 del Joint Transfer Pricing Forum per un approccio maggiormente cooperativo nella fase del controllo. – 4. L’evoluzione delle attività istruttorie e l’acquisizione anticipata degli elementi di scienza per effetto degli Advanced Price Agreement… – 5. …e delle Mandatory Disclosure Rules recepite dalla Direttiva 2018/822/CE. – 6. Considerazioni conclusive.

Sollecitato dagli sviluppi del diritto internazionale e dal ruolo fondamentale dell’OCSE, il diritto europeo sembra conquistare un ruolo strategico nella disciplina del transfer pricing. Il rigore della legislazione europea corrobora le ‘moral suasion’ della soft law nel superamento delle asimmetrie e dei conflitti che i principi di carattere generale e le raccomandazioni non riescono a risolvere. La dimensione europea del ‘transfer pricing’ appare così più appagante, nella duplice prospettiva procedimentale e processuale, rispetto a quella internazionale. Supported by developments in international law and the fundamental role of the OECD, European law seems to have a strategic role in the regulation of transfer pricing. Within the harmonized space, the rigor of European legislation corroborates the ‘moral suasion’ of soft law in overcoming the asymmetries and conflicts that the general principles and the recommendations cannot solve. The European dimension of the ‘transfer pricing’ could therefore be more satisfactory then the international one, in the dual procedural and processual perspective.

* Il saggio riproduce, con l’aggiunta delle note e gli opportuni aggiornamenti, la relazione presentata e discussa dall’Autore alla “Summer School 2018 in Selected Issues of EU Tax Law as EU Law”, evento formativo organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari Aldo Moro.


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1. Cenni introduttivi. – La disciplina giuridica del transfer pricing si avvale di istituti complessi il cui inquadramento concettuale, ancora pochi anni addietro, prediligeva una dimensione sostanzialmente anti-elusiva (1). Nella più accreditata letteratura tributaria, infatti, l’esame delle relazioni internazionali delle imprese s’incentrava principalmente sull’abuso degli schemi negoziali infra-gruppo e sul contributo che le discipline controlled foreing company e transfer pricing possono offrire al superamento dei limiti di una cooperazione amministrativa ancora inadeguata. La capacità dei gruppi societari di sviare i controlli del Fisco esprimendo valori non agevolmente verificabili dalle autorità nazionali (2) costituiva, in questa prospettiva, un profilo problematico destinato a sommarsi alle distorsioni generate dal trasferimento fittizio di residenza all’estero o dall’utilizzo dei paradisi fiscali (3).

(1) I limiti di una lettura della disciplina interna del transfer pricing in chiave squisitamente antielusiva sono illustrati da M. Beghin, La disciplina del transfer pricing, tra profili sostanziali, profili procedimentali, fattispecie di evasione e abuso del diritto, in G. Gaffuri - M. Scuffi (a cura di), Lezioni di diritto tributario sostanziale e processuale, Milano, 2009, 353, ss; A. Ballancin, Natura e ratio della disciplina italiana sui prezzi di trasferimento internazionali, in Rass. Trib., 2014, 73 ss. (2) Cfr. A. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Padova, 2019, 307 ss.; G. Falsitta (a cura di), Manuale di diritto tributario, Parte Speciale, Padova, 2018, 23; G. Zizzo, La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, in G. Falsitta (a cura di), op. cit., 323 ss.; P. Pistone, Diritto tributario internazionale, Torino, 2017, 134, ss.; R. Cordeiro Guerra, Diritto tributario internazionale. Istituzioni, Padova, 2016, 538 ss.; V. Uckmar - G. Corasaniti - P. de’ Capitani di Vimercate - C. Corrado Oliva, Manuale di Diritto Tributario Internazionale, Padova, 2012, 324 ss. (3) Senza pretesa di esaustività, si ricordano gli approfondimenti di C. Sacchetto, Sui presupposti per ricondurre a “valore normale” costi e ricavi nelle relazioni tra imprese residenti e non residenti, in Dir. Prat. Trib., 1977, II, 546 ss.; G. Maisto, Il Transfer price nel diritto tributario italiano e comparato, Padova, 1985; A. Lovisolo, Elusione ed evasione fiscale nei rapporti internazionali, in Dir. Prat. Trib., 1985, I, 1198 ss.; P. Pistone, Diritto tributario internazionale, III, Padova, 1986, 109 ss.; A. Contrino, Elusione, evasione fiscale e strumenti di contrasto, Milano, 1996; R. Cordeiro Guerra, La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano, ivi, 2000, I, 421 ss.; H.D. Rosenbloom, Arbitrage and Transfer Pricing, ‘Paper-Report of Proceedings of the First World Tax Conference: Taxes Without Borders’, in http://www.capdale.com/arbitrage-and-transfer-pricing-paper, 2000; M. Markham, The transfer pricing of intagibles, Amsterdam, 2005; L. Tosi - R. Baggio, Lineamenti di diritto tributario internazionale, Padova, 2007, 51 ss.; M. Erasums-Koen, Art. 9 of the OECD Model Convention, in Transfer pricing and business restructuring, a cura di A. Bakker, Amsterdam, 2009; E. Della Valle, ‘Transfer price’ ed elusione, in Corr. Trib., 2009, 29 ss.; C. Silberztein, Transfer pricing, OECD policy framework, in Transfer pricing and customs valuation, a cura di A. Bakker - B. Obuoforibo, Amsterdam, 2009; J. Wittendorff, Transfer pricing and the arm’s lenght principles in international tax law, Amsterdam, 2010; S. Cipollina, Il ‘valore


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Sembra trascorso molto tempo da allora, non certo perché i rischi di un’alterazione artificiosa delle transazioni infra-gruppo si siano dissolti ma, piuttosto, perché la globalizzazione dell’economia e le profonde trasformazioni del sistema imprenditoriale hanno conferito connotazioni meno ‘domestiche’ e caratteri sempre più fluidi all’organizzazione aziendale. Le dimensioni raggiunte dalle multinazionali hanno reso sempre più frequenti e naturali i trasferimenti di ricchezza tra giurisdizioni, sostenendo continue variazioni degli assetti imprenditoriali e una collaborazione sempre più stringente tra le Autorità fiscali. L’esigenza di adottare criteri omogenei nella ricostruzione della materia imponibile suscettibile di apprensione in ciascuna giurisdizione fiscale è rapidamente prevalsa sulla cautela e diffidenza che avevano a lungo pervaso la disciplina delle relazioni infra-gruppo (4). A favore di queste convergenze si è aggiunto, ancor più recentemente, un crescente e sempre più diffuso disagio verso il dialogo diretto dei maggiori gruppi di imprese con i Governi nazionali. L’allocazione delle risorse secondo reciproca convenienza (5) ha infatti alimentato una competizione fiscale tra Stati che ha favorito gli ordinamenti inclini a tollerare l’opacità degli accordi preventivi con le imprese (6).

normale’ nel transfer pricing: mercato rilevante e metodo del ‘confronto del prezzo’, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 2013, 103 ss.; P. Valente, Manuale del transfer pricing, Milano, 2018; Sull’ambito oggettivo di applicazione della disciplina, ripetutamente ampliato dalla giurisprudenza di legittimità nel solco di un approccio sostanzialistico che sistematicamente pervade gli orientamenti anti-elusivi della Suprema corte, si veda G. Marino, La relazione di controllo quale presupposto soggettivo nel transfer pricing e dintorni, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2016, 901 ss., a margine della Cass., sent. 22 aprile 2016, n. 8130. (4) Cfr. G. Bizioli, Considerazioni critiche in merito all’orientamento giurisprudenziale in tema di transfer pricing, in Riv. GdF, 2014, 691 ss. (5) Cfr. G. Marino - R. Lupi, Ripartizione dei flussi reddituali tra Stati e gruppi multinazionali: simmetrie fiscali, ipocrisie e BEPS, in Dialoghi, 2015, 474 ss.; nonché S. Biasco, I danni della concorrenza fiscale in Europa, in Rass. Trib., 2015, 119 ss. (6) Ne scaturiscono conflitti tra sovranità impositive e, dunque, un contenzioso internazionale di cui si dirà a breve. I limiti dell’esercizio della sovranità impositiva su basi nazionali sono esaustivamente affrontati da G. Fransoni, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004, e da R. Baggio, Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009. Anche sul versante sanzionatotrio l’approccio nazionale appare poco appagante, sostanziandosi in soluzioni che non è semplice raccordare alla disciplina delle conseguenze del medesimo illecito secondo l’ordinamento giuridico di riferimento delle consociate. Per approfondimenti si vedano I. Caraccioli, La convenzione arbitrale in materia di transfer pricing nei suoi riferimenti penalistici, ivi, 2013, III, 3 ss.; nonché A. Albano, Illecito tributario e sanzioni improprie in materia di prezzi di trasferimento, in Riv. Trim. Dir. Trib., 73 ss.


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Gli orientamenti dell’OCSE e, più precipuamente, le implicazioni del progetto BEPS offrono una prima risposta all’esigenza di conferire stabilità agli schemi di riferimento delle scelte imprenditoriali, a tutela del convergente interesse degli operatori economici di normale dimensione – quelli, cioè, privi delle caratteristiche necessarie a definire profittevoli intese con gli Stati – e dei Paesi interessati a proteggere il sistema imprenditoriale domestico. Il diritto internazionale contemporaneo ha così assunto caratteri virtuosi, favorendo un graduale ravvicinamento delle modalità di esercizio delle sovranità impositive nazionali rispetto ad operazioni realizzate tra imprese associate ma residenti in giurisdizioni differenti; al tempo stesso, però, ha dovuto fare i conti con la laboriosità dei processi di armonizzazione negativa, con le resistenze opposte dal divergente ‘modello Statunitense’ (che ruota attorno al Foreign Account Tax Compliance Act (7)) e con eterogenei modelli nazionali di dialogo e compliance tra Fisco e imprese che hanno suggerito di promuovere meccanismi graduali ed asincroni di convergenza sulle singole misure del progetto BEPS (8).

(7) Cfr. T. di Tanno, Lo scambio di informazioni fra amministrazioni finanziarie: limiti ed opportunità, in Rass. Trib., 2015, 665 ss. Per approfondimenti sulla divergenza dei due sistemi e sul conseguente indebolimento del progetto BEPS, vds. V. Ceriani - G. Ricotti, Riflessioni sul coordinamento internazionale della fiscalità d’impresa, in Rass. Trib., 2019, 30 ss. (8) Il progetto BEPS ha ridotto, non certo escluso, il rischio che i singoli Stati possano adottare soluzioni nazionali a fronte di problemi che richiederebbero invece di essere affrontati a livello globale. La crescente insofferenza nei confronti dei giganti del web e della loro attitudine ad allocare i profitti nelle giurisdizioni preferite ha infatti stimolato la riflessione e il confronto sui meccanismi impositivi di rango statale che minano alla base la convergenza verso modelli coesi di intervento. Ne è discesa una sensibile accelerazione dell’OCSE sui meccanismi di contrasto della pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali che, nel corso del 2019, sono stati oggetto di plurime consultazioni nell’auspicio di approdare in tempi rapidi ad un ‘approccio unificato’ condiviso dal maggior numero possibile di Stati. Il primo pilastro di questa strategia (‘pillar one’) s’incentra proprio sui necessari adattamenti dell’arm’s length principle nell’applicazione della disciplina del transfer pricing ai nuovi modelli di business dell’economia digitale. Esso propone, inoltre, una revisione del concetto di stabile organizzazione. La strategia è illustrata nella ‘Secretariat proposal for a “unified approach” under pillar one’, diffusa in consultazione il 9 ottobre 2019 (OECD, Addressing the Tax Challenges of the Digitalisation of the Economy - Public Consultation Document, 2019) con l’intento di approdare entro il 2020 ad una soluzione condivisa dai 134 Paesi attualmente aderenti al progetto BEPS. Si conferma centrale, in tale prospettiva, il riferimento alla significativa presenza economica (nesso) che costituisce il parametro di riferimento per l’applicazione dei criteri di riparto degli utili tra le differenti giurisdizioni. Il secondo pilastro (‘Pillar two’), anch’esso offerto in pubblica consultazione l’8 novembre 2019, punta sull’introduzione di una soglia


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Ferma restando la necessità di osservare questi fenomeni globali in una dimensione sovranazionale, ci si propone in questa sede di adottare un profilo d’indagine più definito, generalmente trascurato negli approfondimenti scientifici sulla materia, che muove da una lettura sistematica dei più recenti sviluppi del diritto europeo in materia di transfer pricing. Del resto, se è vero che le relazioni economiche travalicano i confini dell’Unione europea, è altresì vero che la cooperazione amministrativa infra-UE individua un laboratorio privilegiato per la verifica della ‘tenuta’ dei meccanismi congegnati a livello OCSE e per ulteriori sperimentazioni. Inoltre, la precettività delle regole europee conferisce un valore aggiunto alle singole azioni del progetto BEPS e, in modo particolare, a quelle che, collocandosi al di fuori del c.d. minimun standard (9), propendono per l’adozione di un approccio comune (10) o per la condivisione delle best practices (11). Lo scopo dell’approfondimento è quello di verificare se, come sembrerebbe, il recepimento di tali misure nell’ordinamento europeo abbia favorito l’affermazione di un ‘diritto europeo del transfer pricing’, conducendo a risultati che, nell’inerzia del diritto unionale, avrebbero necessitato di tempi più lunghi o sarebbero stati più modesti. In altri termini, si vuole appurare se il diritto europeo si sia atteggiato a ‘catalizzatore’ delle sollecitazioni OCSE (12) favo-

minima internazionale di tassazione per le multinazionali. L’eventuale applicazione, da parte di un Paese non collaborativo, di un’aliquota inferiore innescherebbe meccanismi di recupero da parte degli altri Paesi. Per primi approfondimenti può vedersi P. Valente, Tassazione delle imprese digitali: l’Unified Approach proposto dall’OCSE, in Fisco, 2019, 4039 ss. (9) Si tratta delle Azioni 5 (Pratiche fiscali dannose - Countering Harmful Tax Practices More Effec- tively, Taking into Account Transparency and Substance), 6 (Clausole Antiabuso - Preventing the Granting of Treaty Benefits in Inappropriate Circumstances), 13 (Documentazione in materia di transfer pricing - Transfer Pricing Documentation and Country-by-Country Reporting) e 14 (Risoluzione delle controversie - Making Dispute Resolution Mechanisms More Effective). (10) Ci si riferisce alle Azioni 2 (disallineamenti da ibrido - Neutralise the Effects of Hybrid Mismatch Arrangementse) e 4 (transazioni finanziarie infragruppo - Limiting Base Erosion via Interest Deductions and Other Financial Payments). (11) Le best pratices sono illustrate nelle Azioni 3 (Società controllate non residenti – Designing Effective Controlled Foreign Company Rules) e 12 (Regole di disclosure - Mandatory Disclosure Rules) del progetto BEPS. (12) P. Pistone e D. Weber hanno coordinato per conto dell’IBFD una compiuta indagine sui riflessi del progetto Beps nell’ordinamento europeo (The Implementation of Anti-BEPS Rules in the EU: A Comprehensive Study, Amsterdam, 2018). Sebbene l’approfondimento sia stato affidato ad autorevoli studiosi del diritto europeo e si occupi, tra l’altro, delle misure attraverso cui l’OCSE si sforza di inquadrare ed arginare le patologie correlate ai prezzi di tra-


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rendo, tra gli Stati membri, processi di maggiore e più incisiva armonizzazione dei criteri e delle regole con cui sono chiamati a cimentarsi anche i Paesi non aderenti o favorendo, addirittura, ulteriori convergenze. 2. Asimmetrie impositive nel transfer pricing e contributo non risolutivo dell’arm’s lenght principle. – L’analisi dei fenomeni economici transfrontalieri si basa, anzitutto, sugli elementi di scienza di cui le singole Autorità fiscali dispongono. Proprio l’asimmetria informativa o procedimentale può restituire una lettura alterata o parziale della realtà, suscettibile di determinare l’applicazione imperfetta dei meccanismi impositivi. La stessa materia imponibile rischia, in tal modo, di essere tassata più volte, in più giurisdizioni, risultando insufficienti i classici rimedi di natura bilaterale contenuti nelle convenzioni contro le doppie imposizioni. Per di più, le autorità fiscali nazionali, nell’esercizio della loro funzione impositiva, non sempre sono disposte ad abbandonare schemi operativi e modelli concettuali consolidati, a compenetrarsi nella realtà imprenditoriale fino al punto di cogliere le profonde implicazioni dei nuovi paradigmi del diritto internazionale e, in modo particolare, del principio della libera concorrenza. Il cambiamento di prospettiva tra un sistema imperniato su predeterminazioni normative di carattere antielusivo (si pensi, tra le tante, a quelle che informano la disciplina legislativa dell’ammortamento, ai criteri di riferimento nella stima dell’avviamento, ai limiti e forfetizzazioni nella deduzione dei costi inerenti, etc.) e un differente approfondimento dei processi aziendali assegnati a libere logiche di mercato determina una rapida obsolescenza degli istituti-cardine delle funzioni di controllo. Le asimmetrie impositive, in questo scenario, non discendono più, semplicemente, dall’operato dell’impresa, dall’eventuale elusività del suo programma imprenditoriale o dalla difficoltà di verificarne l’operato allorquando le attività travalichino i confini del singolo Paese (13). Esse promanano, piuttosto, dal ruolo che ciascuna amministrazione finanziaria assume nell’accertamento del valore delle transazioni e delle

sferimento (pp. 30-32), questo studio permane su un piano più ampio e generale, offrendo una visione di insieme sul contrasto all’erosione fiscale. Il diritto europeo, invece, sembra conferire una dimensione più definita al transfer pricing, coerente ma non perfettamente aderente alle indicazioni rivenienti dall’OCSE e, per quanto si vedrà, capace di superarne alcuni limiti. (13) Cfr. L. Carpentieri, La crisi del binomio diritto-territorio e la tassazione delle imprese multinazionali, ivi, 2018, 351 ss.


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attività realizzate tra imprese associate che presentino sufficienti elementi di connessione con il territorio nazionale (14). In un sistema che non è certamente racchiuso nei confini del singolo Paese, la rettifica del reddito di una società è del resto inevitabilmente destinata a produrre riflessi anche nella diversa giurisdizione in cui la controllata o la controllante dovessero parallelamente operare. Di conseguenza, se all’interno dei differenti ordinamenti trovano applicazione eterogenei criteri di stima o se i medesimi criteri vengono comunque applicati in modo difforme, i rischi di doppia imposizione si manifestano sul gruppo di imprese, prima, e nelle relazioni tra gli Stati, poi. La potenziale conflittualità degli approcci preferiti da ciascuna giurisdizione costituisce, in questo senso, un limite ‘strutturale’ dell’esercizio della funzione accertativa in materia di TP su basi nazionali e, tanto più i parametri di riferimento restano ancorati al diritto interno, tanto più è prevedibile che si verifichino divergenze nella stima dei valori delle transazioni sul libero mercato e sulle attività commerciali delle imprese indipendenti: valori, questi, che costituiscono l’elemento di raffronto delle valutazioni aziendali. Il contesto degli accordi tra gli Stati, che fino a poco tempo addietro risultava solidamente assestato sul sistema delle convenzioni contro le doppie imposizioni e che può oggi avvalersi, invece, di una ben più versatile, matura ed efficace convenzione multilaterale (15), offre un primo contributo

(14) Ispirandosi a D. de Carolis, A new approach to International Taxation Dispute Resolution Process (ITDRP), in Intertax, 2017, Vol. 45, 391 ss., osserva M. Trivellin (Studi sugli strumenti di soluzione delle controversie fiscali internazionali con particolare riguardo al transfer pricing, Torino, 2018, 13): “lo studio delle controversie internazionali deve tener conto che le strutture dei meccanismi di soluzione dei conflitti non possono non essere influenzate da considerazioni che riguardano la politica internazionale degli Stati e quindi possono essere comprese solo se, ad una lettura nella prospettiva del giurista, si affianca un’analisi condotta sotto il profilo della ‘International Relationship Theory’. Così si possono mettere in luce le ragioni di interesse pubblico alla base di certe scelte, evidenziando soluzioni (anche di compromesso) che possono conciliare la salvaguardia della sovranità dei singoli paesi con le ragioni del privato che auspica di trovare nell’ordinamento internazionale una risposta di giustizia che garantisca effettività, imparzialità, partecipazione, efficacia delle decisioni”. (15) Ci si riferisce alla Convenzione multilaterale per l’attuazione delle misure BEPS sottoscritta il 7 giugno 2017 ed entrata in vigore il 1 luglio 2018 (c.d. ‘Multi Lateral Instrument’ o ‘MLI’). Attraverso di essa vengono modificati i Trattati già conclusi tra gli Stati aderenti per inserirvi le misure anti-BEPS senza necessità di apposita rinegoziazione. Sui benefici di questa tecnica si soffermano V.S. Govind - P. Pistone, The Relationship Between Tax Treaties and the Multilateral Instrument: Compatibility Clauses in the Multilateral Instrument, in Aa.Vv., The OECD Multilateral Instrument for Tax Treaties: Analysis and Effects, Amsterdam, 2018, 124


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al superamento degli enunciati limiti. All’abbandono della logica bilaterale corrisponde, infatti, un nuovo e più moderno ruolo del diritto internazionale, fortemente compulsato dall’OCSE e dal G20, dapprima favorevole alla condivisione e diffusione di criteri-guida omogenei nella verifica dei riflessi fiscali delle operazioni effettuate tra le imprese associate (l’ ‘arm’s lenght principle’ o ‘prezzo di libera concorrenza’ su tutti (16)), quindi, con l’avvio del progetto BEPS, incline a sostenere i nuovi principi attraverso l’osmosi di esperienze e la circolazione degli elementi di scienza tra le autorità fiscali. Sotto il primo profilo, l’adozione di un parametro unitario nella verifica delle valutazioni contribuisce al radicamento di schemi di riferimento più certi. Le differenze negli approcci delle autorità fiscali si riducono e, nella dimensione operativa di un’impresa con attività internazionale, l’utilizzo di concetti e principi uniformi semplifica il dialogo – simultaneo o meno – con le amministrazioni finanziarie dei diversi Paesi e, quindi, l’assunzione di decisioni assistite da un sufficiente livello di prevedibilità degli esiti. Residua il rischio, però (e vengo al secondo profilo), di una possibile divergenza tra le modalità attraverso cui i criteri e principi in questione – sebbene armonizzati – vengono concretamente declinati in sede accertativa. In altri termini, procedendo per esemplificazioni, ove pure tutte le autorità competenti in ciascuna giurisdizione coinvolta adottassero il medesimo parametro della libera concorrenza, le asimmetrie impositive potrebbero comunque verificarsi per effetto di differenti sensibilità nell’individuazione dell’intervallo di confidenza delle scelte valutative operate dalle imprese associate rispetto a quelle compiute da imprese indipendenti in condizioni di libera concorrenza. Non basta, allora, aderire a un modello comportamentale e a un criterio-guida per approdare a risultati congruenti all’interno dei due o più ordinamenti coinvol-

ss. Per un’analisi critica degli effetti della Convenzione multilaterale (in particolare, sull’ampia possibilità riconosciuta agli Stati di apporre riserve e di evitare l’applicazione di talune norme e sul ricorso a clausole generali di difficile interpretazione) si veda invece S. Dorigo, L’impatto della Convenzione multilaterale BEPS sul sistema dei Trattati contro le doppie imposizioni: verso un diritto tributario internazionale dell’incertezza?, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2019, 559 ss. (16) Su questo tema, si vedano, ex multis, T.W. Vogelaar, The OECD Guidelines: their Philosophy, History, Negotiation, Form, Legal Nature, Follow up Procedures and Review, in N. Horn, Legal problems of codes of conduct for MNEs, Frankfurt, 1980; F. Balzani, Il Transfer pricing, in Aa.Vv., Corso di Diritto Tributario Internazionale, Padova, 1999; L. Carpentieri, Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi, Milano, 1997; H. Hamaekers, Arm’s length principle - how long?, in International Transfer pricing Journal, 2/2001, 30, ss; R. Cordeiro Guerra, La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano, cit., 421 ss.


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ti. Occorre, piuttosto, concertare gli atti istruttori e coordinare il ragionamento dalle distinte Autorità già nelle fasi antecedenti la conclusione dei controlli o, quantomeno, negli audit che dovrebbero condurre alla definizione di un accordo preventivo. L’obiettivo che occorre perseguire, in altri termini, è quello dell’assunzione di decisioni congiunte, di una condivisione non circoscritta al metodo, bensì attenta anche alle sue concrete conseguenze applicative. Del resto – ancora in relazione alle conseguenze dell’approccio OCSE – l’adozione del parametro del prezzo di libera concorrenza determina conseguenze rilevantissime sulla filosofia stessa dell’accertamento: gli auditors devono abbandonare l’approccio classico fondato sull’elisione di ogni discrezionalità dell’impresa nell’applicazione della disciplina fiscale. Anziché sforzarsi di sterilizzare le conseguenze fiscali della strategia d’impresa affidandosi a criteri notoriamente ‘rigidi’ quali il valore normale, i funzionari del Fisco e la Guardia di finanza devono identificare gli elementi salienti della realtà aziendale, sforzarsi di comprenderne il programma imprenditoriale, il modello di management e, quindi, individuare le variabili che inducono l’impresa e le sue associate a tenere un certo comportamento e, di riflesso, ad esprimere determinate valutazioni. Si tratta di un radicale cambiamento di prospettiva destinato ad incidere sulle modalità di esercizio della funzione impositiva riferita ad attività transfrontaliere. Altri sintomi della transizione in atto emergono dall’analisi dei più recenti istituti della fase procedimentale che testimoniano una particolare fluidità degli assetti giuridici della funzione accertativa contemporanea e l’esistenza di una dimensione ibrida, tra il diritto nazionale e quello internazionale, della cooperazione amministrativa. Il raccordo tra Autorità fiscali, infatti, si fonda tutt’ora sulla mera condivisione delle informazioni contenute in banche dati sempre più potenti (17) e sulla comunicazione degli esiti delle attività di con-

(17) Permangono tuttavia numerosi limiti di tale condivisione, sui quali si veda M. CarAccesso dell’Amministrazione finanziaria alle informazioni antiriciclaggio, in Fisco, 2018, 1-3313 ss. Dopo aver illustrato le inibizioni, a legislazione vigente, all’accesso della GdF a preziose informazioni, l’A. lamenta: “non può non sottolinearsi come l’accesso al ‘patrimonio informativo’ AML/CFT sia disciplinato in maniera del tutto parcellizzata, frutto evidente di una normativa a singhiozzo e settoriale che finisce per perdere inesorabilmente di vista la finalità strategica dell’istituto in oggetto” (la sigla AML indica la Anti Money Laundering Legislation e le relative banche dati, mentre quello CFT indica la normativa Counter Terrorist Financing e i suoi istituti). Sotto un diverso profilo, G. Marino, Osservazioni in tema di residenza nel contesto dello scambio automatico di informazioni, in Dir. Prat. Trib., 2018, 3, evidenzia il perdurante tentativo di alcuni Paesi di limitare l’efficacia dei sistemi di scambio

bone,


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trollo. Inoltre, ove pure sincroniche, attività di verifica così pregnanti vengono condotte – di norma – in modo disgiunto da parte di funzionari operanti all’interno e nell’interesse di differenti giurisdizioni. I risultati di tali accertamenti e, ancor prima, il riscontro della corretta determinazione dei prezzi di riferimento ad opera delle singole Autorità fiscali riducono le possibilità di approdare a risultati realmente convergenti (18). In assenza di rimedi che intervengano già nella fase istruttoria, realizzando una tendenziale unificazione dei sub-procedimenti statali all’interno di un unico procedimento sovranazionale (auspicabilmente affidato ad un nucleo misto di funzionari attinti da ciascuna delle autorità fiscali coinvolte), è difficile che si possa superare questo evidente limite intrinseco dell’azione di contrasto delle patologie del transfer pricing. 3. Le raccomandazioni dell’ottobre 2018 del Joint Transfer Pricing Forum per un approccio maggiormente cooperativo nella fase del controllo. – Questa stessa sensazione è confermata dal Joint Transfer Pricing Forum (19)

automatico di informazioni: “attualmente sta diventando sempre più dirimente per gli studiosi concentrare la loro attenzione e le loro indagini sulla condotta degli Stati, oltre che su quella dei contribuenti”… “il quadro socio-politico internazionale è radicalmente mutato e la moral suasion dell’Ocse nei confronti dei Paesi più recalcitranti ad adeguarsi agli standard internazionali di trasparenza e scambio di informazioni ha spesso ceduto il passo ad una forte pressione internazionale, con il risultato che un gran numero di questi Stati ha firmato accordi in tal senso non in seguito ad una decisione politica maturata spontaneamente. Diventa quindi molto concreto il rischio che essi cerchino di restringere il perimetro applicativo dello scambio di informazioni fiscali facendo leva sul loro diritto interno (è il caso della Svizzera che si preoccupa di accertare che l’uso delle informazioni da parte dello Stato ad quem avvenga nel rispetto dei diritti umani)”. (18) Commentando il rapporto del gruppo di lavoro fiscalità transnazionale dell’Assonime sui prezzi di trasferimento (Note e Studi n. 9-2014), G. Rolle, “Transfer pricing”: i criteri di confronto fra transazioni e gli strumenti di composizione delle controversie, in Corr. Trib. 2015, 123, si sofferma sull’incremento “del contenzioso incentrato sulla disciplina dei prezzi di trasferimento” che, nel su menzionato documento di approfondimento indirizzato al Parlamento e al Governo, viene ricondotto alla “divergenza talvolta emergente fra la prassi italiana e quella internazionale in relazione alla metodologia di raffronto fra i dati dell’impresa verificata e quelli delle imprese comparabili”, oltre che agli ostacoli “che impediscono la piena attuazione delle procedure convenzionali di composizione (amichevole o arbitrale) delle controversie”. (19) Organo composto da rappresentanti delle Amministrazioni fiscali e della business community dei Paesi europei, istituito nel 2002 per assistere la Commissione Europea nelle problematiche di transfer pricing e per elaborare raccomandazioni su profili applicativi o favorire la condivisione di best practices nell’UE. Le sue attività sono pubblicate su: https://ec.europa.


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che, nella relazione dell’ottobre 2018, ha evidenziato la necessità di consolidare un approccio maggiormente cooperativo proprio nell’esercizio delle funzioni di controllo sui prezzi di trasferimento – anziché a valle delle stesse – ad argine del rischio di approdare a valutazioni divergenti nell’applicazione del medesimo principio della libera concorrenza. Le raccomandazioni del Forum sono principalmente rivolte, pertanto, alle relazioni tra gli Stati ma alcune delle sollecitazioni coinvolgono, direttamente, i rapporti tra autorità fiscali e contribuenti. Più in dettaglio, gli Stati membri sono invitati a: 1) utilizzare lo scambio di informazioni e la cooperazione tra le amministrazioni fiscali già nella fase dell’individuazione dei rischi correlati ai prezzi di trasferimento; 2) adottare un approccio cooperativo basato sul dialogo e sulla fiducia, con il coinvolgimento attivo del contribuente nelle attività di verifica effettive e con la valorizzazione del contraddittorio. Il contribuente dovrebbe essere tempestivamente informato delle misure adottate dalle amministrazioni fiscali durante l’audit; 3) fornire attuazione, nella legislazione nazionale, all’art. 11 della Direttiva 2011/16/UE, c.d. ‘DAC’, permettendo una presenza attiva sul territorio nazionale dei funzionari delle Amministrazioni finanziarie degli altri Stati membri; 4) stabilire rapidamente le regole nazionali che consentano loro di applicare le riduzioni del reddito imponibile in funzione e per effetto di una lettura condivisa e congiunta degli elementi rilevanti nell’applicazione del principio di libera concorrenza e, dunque, delle rettifiche dei prezzi di trasferimento operate in ‘coordinamento tra gli Stati’; 5) utilizzare in modo diffuso lo scambio di comunicazioni automatizzato e istantaneo nel corso dei controlli sui prezzi di trasferimento, in perfetta attuazione degli istituti della DAC; 6) garantire una piena conoscenza, alle altre Amministrazioni interessate, degli istituti attraverso cui le Autorità nazionali sostengono l’approccio coordinato ai controlli sui prezzi di trasferimento. A tal fine, le Amministrazioni fiscali sono incoraggiate a stabilire uno o più punti di contatto e pubblicare una casella di posta elettronica dedicata alle questioni relative ai controlli coordinati dei prezzi di trasferimento. Sono altresì incoraggia-

eu/taxation_customs/business/company-tax/transfer-pricing-eu-context/joint-transfer-pricingforum_en.


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te ad essere più flessibili nella scelta dei periodi di audit, dei relativi tempi e modalità di svolgimento; 7) partecipare a controlli coordinati sui prezzi di trasferimento, a meno che il loro rifiuto non sia basato su motivazioni ragionevoli; 8) concordare ed approvare formalmente un ‘piano di audit’ per il singolo controllo coordinato dei prezzi di trasferimento; 9) concordare un memorandum d’intesa nel caso in cui si intenda avviare un programma coordinato di controllo sui prezzi di trasferimento; 10) concludere ciascuna procedura di controllo coordinato dei prezzi di trasferimento con l’adozione di un rapporto conclusivo.Si tratta di sollecitazioni che riportano alla mente istituti assestati nel diritto europeo e, in buona parte, recepiti dal legislatore italiano (20), dei quali si sollecita adesso un più mirato impiego nelle funzioni congiunte di controllo dei prezzi di trasferimento. Del resto, oltre che sul versante dei tributi armonizzati, ove lo scambio di informazioni si avvale di infrastrutture collaudate e sempre più efficienti (21), il diritto europeo ha da tempo promosso la cooperazione amministrativa anche sul versante delle imposte sul reddito. La Direttiva 2011/16/UE, innovando il sistema delineato dalla Direttiva 77/799/ CEE (22) e tenendo a mente le sollecitazioni dell’OCSE, ha giocato un

(20) Si veda l’art. 31 bis del dPR n. 600/73 che ammette da tempo, a condizioni di reciprocità, la presenza sul territorio nazionale di funzionari di Autorità fiscali di altri Paesi. Per maggiori approfondimenti sul ruolo che la disposizione ha assunto nel più ampio sistema della cooperazione amministrativa, cfr. F. Ardito, La cooperazione internazionale in materia tributaria, Padova, 2007. (21) Non mancano, tuttavia, critiche sul difetto di comunicazione tra i sistemi informatici del circuito doganale e quelli implementati nell’applicazione dell’IVA comunitaria, sui cui si veda M. Villani, Il sistema IVA intra-UE nella proposta di riforma della Commissione europea, in Rass. Trib., 2018, 346. Per ciò che attiene i più recenti sforzi di coordinamento del sistema si segnala il Regolamento (UE) n. 2018/1541 che adotta misure volte a rafforzare la cooperazione amministrativa e a migliorare la prevenzione della frode in materia di IVA. (22) Come precisato nel testo della nuova Direttiva e nella relazione illustrativa al d.lgs. 4 marzo 2014, n. 29, la mobilità dei contribuenti, il numero di operazioni transfrontaliere e l’internazionalizzazione degli strumenti finanziari hanno avuto “un’evoluzione considerevole che rende difficile per gli Stati membri accertare correttamente l’entità delle imposte dovute” ricorrendo ai precedenti istituti della cooperazione amministrativa. I lavori preparatori della nuova Dir. 2011/16/UE hanno efficacemente evidenziato i limiti emersi dall’applicazione della Dir. 77/799/CEE, tra cui l’assenza di meccanismi volti a favorire lo sviluppo di una comune cultura amministrativa tra le Amministrazioni finanziarie degli Stati membri, la possibilità di opporre dinieghi a richieste di informazioni in ragione di vincoli derivanti da disposizioni nazionali di varia natura, l’assenza di meccanismi di scambio automatico di informazioni e l’assenza di


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ruolo fondamentale in tale direzione, segnando il punto di approdo di un dibattito interno alle istituzioni europee avviato già nel 2000 con un’articolata serie di rapporti e comunicazioni (23). Nel nuovo lessico della rinnovata cooperazione amministrativa europea che si rivolge in modo indistinto alle persone fisiche, a quelle giuridiche e a “qualsiasi altro istituto giuridico di qualunque natura e forma, dotato o meno di personalità giuridica, che possiede o gestisce beni che, compreso il reddito da essi derivato, sono soggetti” ad imposizione nel territorio dell’Unione europea, lo scambio di informazioni è adesso riferito a tutte quelle ‘prevedibilmente pertinenti’ (24) per l’amministrazione e l’applicazione delle leggi nazionali degli Stati membri, con il solo limite delle cd. ‘fishing expeditions’ (25). È questo il substrato sul quale il Forum suggerisce di innestare sistemi di valutazione del rischio (high-level risk assessment in the field of transfer pricing) ad un livello più elevato di quello nazionale e, nella dimensione giuridica e amministrativa unionale, verificare l’effettiva propensione all’impiego degli istituti da parte delle autorità fiscali europee. Del resto, solo il consolidamento della cooperazione amministrativa nella pianificazione e svolgimento di attività di controllo auspicabilmente simultanee renderebbe possibile approdare a risultati non divergenti nell’accertamento dei prezzi di trasferimento tra le imprese associate. Emergono, già da ciò, prime conferme sulla valenza strategica del dialogo infra-europeo su questi temi – dialogo rafforzato dai lavori dell’EU Joint Transfer Pricing Forum – e sulla centralità del processo di crescente armonizzazione dei sistemi di vigilanza e controllo degli Stati membri nel comparto della tassazione del reddito.

termini entro i quali dare seguito ad una richiesta di assistenza amministrativa. (23) Dapprima con il rapporto del maggio 2000 del Gruppo ad hoc sulla frode fiscale (cfr. S. Garufi, L’era della trasparenza fiscale e dello scambio di informazioni. Brevi note sul Peer Review Process e sul Rapporto dell’Italia, in Dir. Prat. Trib. Int., 2011, 581 ss.), successivamente con le comunicazioni COM (2004) 611 final e COM (2006) 254 final. (24) L’espressione ‘foreseeably relevant’ è mutuata dall’art. 26 del Modello di Convenzione OCSE. (25) Ci si riferisce alle richieste di informazioni generiche e non specifiche che si collocano all’esterno del perimetro di applicazione degli istituti della cooperazione amministrativa europea.


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4. L’evoluzione delle attività istruttorie e l’acquisizione anticipata degli elementi di scienza per effetto degli Advanced Price Agreement… – L’anticipazione del confronto tra verificatori e l’accesso ad una dimensione armonizzata delle attività istruttorie può oggi avvalersi di un ulteriore meccanismo di riduzione della conflittualità latente del transfer pricing, anch’esso sintomatico di una nuova filosofia dell’accertamento imperniata sulla disclosure preventiva delle scelte e degli assetti aziendali (26). Mi riferisco, in questo caso, agli Advanced Price Agreement (‘APA’) che non costituiscono oggetto di questo approfondimento ma che meritano comunque di essere segnalati per la loro rapida diffusione dovuta alla capacità intrinseca di coniugare l’esigenza di chiarezza e stabilità degli schemi di riferimento (fortemente avvertita sul versante imprenditoriale) con quella di trasparenza e prevenzione (sempre più radicata nelle strategie delle autorità fiscali e coraggiosamente declinata nel progetto BEPS). Il nostro legislatore ne ha collocato la disciplina all’interno dell’art. 31-ter del dpr 600/73 che ammette le imprese con attività internazionale alla stipula di accordi preventivi (27) proprio in riferimento, tra l’altro, alla definizione in contraddittorio dei metodi di calcolo del valore normale delle operazioni di cui al comma 7, dell’articolo 110 del testo unico delle imposte sui redditi (28). Più in generale tali accordi, la cui disciplina d’attuazione è fornita dal provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate del 21 marzo 2016, sono stati introdotti dall’art. 1 del d.lgs. 147/2015 in luogo dell’obsoleto ruling in-

(26) Sui profili di maggiore criticità dell’antecedente sistema e, dunque, sulla necessità di implementare meccanismi di definizione consensuale in questione, si veda G. Salanitro, Profili giuridici dell’adempimento collaborativo, tra la tutela dell’affidamento e il risarcimento del danno, ivi, 2016, 623 ss. (27) In ordine alla loro ascrivibilità a forme consensuali di imposizione tributaria si veda A. Perrone, Sulla possibilità di assimilare gli accordi preventivi per le imprese multinazionali alle “Mutual Agreement Procedure”, in Riv. Dir. Trib. On Line, 20 settembre 2019, anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici. (28) Per approfondimenti cfr. M. Grandinetti, Gli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale, in Rass. Trib., 2017, 660 ss.; P. Mastellone, Accordi preventivi per imprese con attività internazionale, in, Fiscalità della internazionalizzazione delle imprese, a cura di A. Vicini Rocchetti, Torino, 2018, 85, ss.; G. Zizzo, Accordi preventivi e prospettive evolutive della cooperazione tra Fisco e imprese, in Corr. Trib., 2019, 66 ss., il quale evidenzia la portata innovativa dell’istituto.


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ternazionale ex art. 8, d.l. 269/2003 (29), del quale hanno significativamente ampliato l’ambito oggettivo di applicazione (30). Gli accordi preventivi offrono certamente l’opportunità di condurre un audit approfondito, adeguato alla complessità dei processi aziendali, finalizzato alla riduzione del rischio fiscale e all’individuazione di punti fermi nella formulazione delle successive scelte strategiche dell’impresa. Ma, ancora una volta, l’assenza di un vincolo allo svolgimento, in parallelo e in modo sincronico, di un audit coordinato tra le diverse autorità fiscali coinvolte dalla fissazione dei prezzi di trasferimento, individua un limite all’incremento di efficacia di istituti fondamentali nell’attuale disciplina giuridica del transfer pricing. Anche sotto questo profilo, dunque, le più recenti raccomandazioni dell’ EU Joint Transfer Pricing Forum colgono nel segno, perché reagiscono ad un limite residuo, di carattere strutturale, dell’odierno modus operandi delle autorità fiscali. Un possibile motivo d’innesco di una conflittualità tra Stati che, anche all’interno dell’UE, ha raggiunto picchi decisamente elevati. È comunque indubbio l’ulteriore contributo che la materia offre, anche in questo caso, alla profonda e incessante trasformazione delle modalità di esercizio della funzione impositiva, contribuendo al radicamento di un clima collaborativo, allo sviluppo di un dialogo finalizzato a rendere accessibili e non più equivocabili i processi decisionali e l’organizzazione interna del gruppo di imprese. E proprio l’avvento della trasparenza, nella dimensione europea, è ulteriormente favorita dal recepimento di un’altra importante misura del BEPS che è costituita dalle Mandatory Disclosure Rules (MDRs) cui è dedicata l’action 12.

(29) Cfr. G. Gaffuri, Il ruling internazionale, in Rass. Trib., 2004, 488; F. Pistolesi, Gli interpelli tributari, Milano, 2007, 100 ss. (30) Oltre che per definire preventivamente il valore delle operazioni di cui all’art. 110, co. 7, Tuir, le imprese con attività internazionale vi ricorrono anche: a) per l’applicazione a un caso concreto di norme, anche di origine convenzionale, concernenti l’attribuzione di utili o perdite alla stabile organizzazione in un altro Stato di un’impresa residente ovvero alla stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente; b) per l’applicazione a un caso concreto di norme, anche di origine convenzionale, concernenti l’erogazione o la percezione di dividendi, interessi, royalties e altri componenti reddituali a oppure da soggetti non residenti; c) per la valutazione preventiva dei valori di uscita o di ingresso in caso di trasferimento di residenza dell’impresa che si trovi nelle condizioni indicate agli artt. 166 e 166-bis del Tuir; d) per la valutazione preventiva della sussistenza dei requisiti che configurino una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato.


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5. …e delle Mandatory Disclosure Rules recepite dalla Direttiva 2018/822/UE. – In questo caso si tratta di proposte formulate in occasione del G7 delle Finanze del maggio del 2017 (31) e che, allo stato, non risulta abbiano ancora ricevuto adeguata attuazione al di fuori dell’Unione europea, con la sola eccezione dei Paesi dalla cui esperienza giuridica sono state direttamente attinte queste buone prassi e degli Stati Uniti d’America che, con la loro normativa FATCA, stabiliscono obblighi di comunicazione non molto dissimili da quelli in esame. Ancora una volta, dunque, il diritto europeo imprime una particolare energia al processo di affermazione del progetto BEPS e, con la Direttiva 2018/822/UE, del 25 maggio (c.d. ‘DAC 6’), compulsa gli Stati membri ad aderire ad un sistema innovativo di comunicazioni preventive gravido di oneri a carico dei contribuenti e dei loro intermediari. Ancora una volta, inoltre, il transfer pricing si colloca al centro delle attenzioni del legislatore europeo che, in una più ampia strategia di contrasto dell’evasione fiscale realizzata con ricorso a strutture ‘opache’, si preoccupa di evitare l’elusione dei precetti della Direttiva sullo scambio automatico e obbligatorio di informazioni di cui s’è detto. I nuovi scenari della tax compliance (32), in questo caso, si traducono in veri e propri ‘obblighi’ di comunicazione cogenti in ambito europeo, la cui violazione determina l’irrogazione di specifiche sanzioni di carattere amministrativo. Muovendosi nel solco delle indicazioni contenute nel documento OCSE del 9 marzo 2018 denominato “Model Mandatory Disclosure Rules for CRS Avoidance Arrangements and Opaque Offshore Structures”, che vengono adesso declinate sul piano precettivo nel territorio dell’UE, il diritto europeo ha così posto direttamente a carico del contribuente o di chi lo ha assistito nella pianificazione fiscale di operazioni trans-nazionali (c.d. intermediario) l’onere di informare le autorità fiscali del proprio Paese sui principali elementi identificativi del ‘meccanismo’ fiscale congegnato o utilizzato. Il che presuppone, evidentemente, una prima valutazione prognostica, sul versante del

(31) G7 Bari, Declaration on fighting tax crimes and other illicit financial flows del 13 maggio 2017, in: http://www.g7italy.it/sites/default/files/documents/Bari%20Common%20Delaration%20On%20Fighting%20Tax%20Crimes.pdf (32) Su questi temi si vedano diffusamente G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale. Dai comandi e controlli alla Self Regulation, Torino, 2018; D. Conte, Dal controllo fiscale sul dichiarato al confronto preventivo sull’imponibile, Milano-Padova, 2018; L. Strianese, Dal controllo fiscale sul dichiarato al confronto preventivo sull’imponibile, Roma, 2014.


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soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, dell’astratta pericolosità fiscale della condotta o, quantomeno, della sua idoneità a occultare assetti giuridici o loro conseguenze fiscali. Per quanto attiene il presupposto oggettivo dell’obbligo di comunicazione, già nell’impostazione OCSE, esso è costituito dalla pericolosità ed opacità intrinseca di taluni assetti che vengono ricondotti a due macro categorie: quella dei ‘CRS avoidance arrengements’, ovvero quegli accordi o meri progetti di accordo finalizzati a neutralizzare lo scambio automatico di informazioni (33) e quella delle ‘Opaque offshore structures’, cioè, gli schemi che coinvolgono enti localizzati in una giurisdizione differente da quella del titolare effettivo e che manifestano la capacità di ostacolare l’identificazione del titolare effettivo. Senza alcuna premialità a favore di chi aderisce alla disclosure in questione, si manifesta, per tale via, un nuovo modello di comunicazione ‘forzata’ che si spinge fino al limite estremo di costringere il consulente a ‘denunciare’ la condotta fiscale del proprio cliente allorquando essa, prima ancora di produrre i propri effetti, intercetti elementi indicativi di pericolosità predeterminati a livello normativo (gli ‘hallmarks’ elencati nell’allegato alla Direttiva 822/2018/UE). È questo, certamente, un nuovo modo di intendere la ‘trasparenza fiscale’, un sistema profondamente diverso dal passato nel quale le autorità fiscali (limitatamente a talune fattispecie che assumono rilievo ai fini dei nostri approfondimenti) non fanno altro che ricevere (e scambiarsi) segnalazioni e informazioni accurate sul meccanismo fiscale transnazionale. Parallelamente, il contribuente e i suoi consulenti assumono il ruolo di veri e propri ausiliari del Fisco cui è richiesto di partecipare all’implementazione di un sistema evoluto di monitoraggio dei riflessi fiscali delle loro scelte e di attivare meccanismi di allarme le cui conseguenze non sono interamente prevedibili (34).

(33) L’aggiramento dell’obbligo di segnalazione di informazioni CRS alle giurisdizioni di residenza fiscale dei contribuenti coinvolti nelle singole operazioni può avvalersi di schemi eterogenei quali l’acquisito della cittadinanza o residenza per effetto del pagamento di una tariffa fissa (c.d. ‘golden visa’) ovvero in conseguenza di investimenti effettuati in un Paese differente da quello di provenienza (c.d. “Residence and citizenship by investment” (CBI/RBI). Questi fenomeni (ad es. il “Residence Visa for Real Estate Owner” del Quatar) hanno costituito oggetto di recenti approfondimenti dell’OCSE che, a fine 2018, ha individuato una lista iniziale di 21 giurisdizioni, successivamente ridottasi per effetto delle rassicurazioni e della collaborazione prestata da alcuni Paesi (Colombia, Mauritius e Principato di Monaco). (34) Sulle implicazioni del recepimento della DAC 6 sul rapporto contribuente-fisco e, comunque, per ulteriori approfondimenti sia consentito rinviare a G. Selicato, Le comuni-


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In disparte alcune perplessità sulla compatibilità degli obblighi di puntuale informazione con il codice deontologico delle professioni e sulla possibile lesione, per effetto della nuova disciplina, dei diritti fondamentali del contribuente di cui il Parlamento europeo si è già occupato, sia pure in riferimento alla normativa FATCA, segnalo che tra gli ‘elementi indicativi’ di pericolosità fiscale posti a presupposto dell’obbligo di segnalazione ve ne è uno (lett. e) dell’allegato alla direttiva) che attiene precipuamente i prezzi di trasferimento. L’obbligo di segnalazione scatta, infatti, a fronte di operazioni relative al transfer pricing, allorquando esse facciano ricorso: a) all’uso di norme ‘safe harbors’ unilaterali; b) al trasferimento di ‘hard-to-value intangibles’; c) al trasferimento transfrontaliero infragruppo di funzioni e/o rischi e/o attività, allorquando la previsione annuale degli utili del cedente o dei cedenti al lordo di interessi e imposte (EBIT), nel periodo di tre anni successivo al trasferimento, sia inferiore al 50% della previsione annuale degli EBIT del cedente o cedenti in questione in mancanza di trasferimento. Per di più, nello schema di decreto legislativo finalizzato a recepire nell’ordinamento italiano i contenuti della DAC 6 e sottoposto a consultazione pubblica dal MEF nella seconda metà del 2018 (35), l’obbligo di comunicazione si manifesta particolarmente pregnante, già in considerazione dell’oggetto della comunicazione che appare più ampio di quello previsto nel diritto europeo. La proposta nazionale di schema normativo, inoltre, non sembrerebbe contemplare la possibilità, di contro espressamente riconosciuta dalla Direttiva all’intermediario e a qualsiasi altro soggetto, di fornire elementi di prova sul fatto che non fosse a conoscenza, “e non si potesse ragionevolmente presumere che fosse a conoscenza”, del proprio coinvolgimento in un meccanismo transfrontaliero soggetto all’obbligo di

cazioni preventive secondo la Direttiva 822/2018/EU: dalla ‘collaborazione incentivata’ agli ‘obblighi di disclousure, in Rass. trib., n. 1/2019. (35) Le regole di attuazione dei nuovi istituti sono contenute in uno schema di decreto legislativo che il Dipartimento delle finanze del nostro Ministero dell’economia e delle finanze ha sottoposto a pubblica consultazione da luglio a settembre 2018, pubblicandolo sul suo sito web (sezione consultazioni pubbliche) ove è tutt’ora reperibile. Lo Stato intende in tal modo dar seguito all’invito rivolto ai Paesi europei di recepire i nuovi obblighi di comunicazione entro il 31 dicembre 2019 e di fornirvi attuazione non oltre il 1 luglio 2020. Il Consiglio dei Ministri del 20 gennaio 2020 ha approvato in esame preliminare il decreto di attuazione, senza apportare modifiche alla disposizione in rassegna.


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notifica (36). L’esimente dall’obbligo di comunicazione resterebbe perciò circoscritto alla sola ipotesi in cui dalla comunicazione del meccanismo transfrontaliero possa discendere una responsabilità penale a carico dello stesso soggetto obbligato ad effettuarla. In tutti gli altri casi, invece, i consulenti del contribuente, o il contribuente stesso, al verificarsi delle circostanze descritte dagli ‘hallmarks’, assumerebbero il ruolo di veri e propri ausiliari del Fisco, implementando un sistema evoluto di monitoraggio e attivando meccanismi di controllo le cui conseguenze non sono del tutto prevedibili. Pur con alcune criticità correlate a non trascurabili oneri di conformazione delle imprese e dei loro consulenti al sistema fin qui tratteggiato, l’insieme dei nuovi istituti costituisce il substrato di un modello innovativo di ‘analisi del rischio fiscale’, imperniato non più (o non solo) sulla collaborazione tra Autorità fiscali e contribuente, bensì, su una autonoma e necessaria disclosure degli schemi organizzativi e delle operazioni potenzialmente suscettibili di confliggere con le finalità della cooperazione fiscale contemporanea. Oltre a presentare notevoli fattori di discontinuità con il passato, il nuovo sistema assegna caratteri più definiti e sistematici alla circolazione delle informazioni tra le Autorità fiscali che, all’interno del perimetro europeo, appaiono ancora più efficaci. La Direttiva 822, ad esempio, stabilisce che le informazioni comunicate, oltre ad essere trasferite alle altre giurisdizioni coinvolte dall’operazione, debbano confluire all’interno di un’unica banca dati cui hanno pieno accesso tutti gli Stati membri. Ai fini che più ci interessano, inoltre, la DAC 6 innesca meccanismi di cooperazione e collaborazione che, nell’ipotizzato recepimento nel diritto interno italiano, non solo arricchiscono sensibilmente gli strumenti di monitoraggio e controllo dei prezzi di trasferimento ma, per di più, travalicano le indicazioni dell’OCSE nella definizione di un sistema sanzionatorio proprio che mal si addice alla diffusione di una buona prassi internazionale. Infatti, per quanto la disciplina sanzionatoria resti di competenza di ciascuno Stato membro in virtù dei principi fondamentali che, in ogni ordinamento nazionale, informano la materia e il suo bilanciamento con le altre discipline, l’art. 25

(36) Nel raggiungimento della prova, secondo la Direttiva, qualunque persona può fare riferimento “a tutti i fatti e a tutte le circostanze pertinenti, come pure alle informazioni disponibili e alle sue pertinenti competenze e comprensione”.


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bis della Direttiva n. 2011/16/UE rimarca alcuni principi comuni che mirano a realizzare un coordinamento di massima delle scelte statali (37). Non si dispone, allo stato, di elementi sufficienti a verificare il livello di armonizzazione dei regimi sanzionatori. Permane, dunque, il timore che le imprese e gli ‘intermediari’ siano chiamati ad affrontare regole eterogenee. Tuttavia, proprio in tema di transfer pricing, il meccanismo della ’penalty protection’ costituisce un modello di riferimento per una possibile convergenza tra ordinamenti nell’esercizio della funzione sanzionatoria. Difatti, secondo quanto previsto dall’art. 26 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, norma di ‘Adeguamento alle direttive OCSE in materia di documentazione dei prezzi di trasferimento’, la fedele e accurata documentazione della conformità al principio di libera concorrenza dei prezzi di trasferimento praticati, in coerenza con le istruzioni fornite con apposito Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate sugli oneri documentali (38), conduce ad una disapplicazione delle sanzioni amministrative a carico dell’impresa ‘collaborativa’, anche nell’ipotesi in cui i verificatori dovessero contestare il metodo utilizzato per la determinazione del prezzo di trasferimento. L’apprezzamento per il descritto meccanismo di valorizzazione della disclosure è confermato dalla sua recente estensione alla disciplina del patent box, ove la sterilizzazione delle sanzioni amministrative discende dalla congrua documentazione degli elementi rilevanti nella determinazione del reddito agevolabile (39). 6. Considerazioni conclusive. – L’insieme di queste raccomandazioni e misure descrive un sistema complesso, in continuo fermento, caparbiamente proteso a ridurre le distanze tutt’ora esistenti negli approcci delle differenti

(37) La norma prevede che: “gli Stati membri stabiliscono le norme relative alle sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione della presente direttiva e riguardanti gli articoli 8 bis bis e 8 bis ter e adottano tutte le misure necessarie per garantirne l’applicazione. Le sanzioni previste devono essere effettive, proporzionate e dissuasive”. (38) Il d.m. 14 maggio 2018 ha fornito attuazione alle modifiche apportate all’art. 110, co. 7, del Tuir, ad opera dall’art. 59, co. 1, d.l. n. 50/2017, che ha stabilito che le operazioni transfrontaliere tra imprese associate devono essere valorizzate in base al principio di libera concorrenza, anziché all’ormai obsoleto ‘valore normale’, demandando, al tempo stesso, ad un ulteriore d.m. la possibilità di determinare le linee guida per l’applicazione di tale principio sulla base delle migliori pratiche internazionali. (39) Vds. l’art. 4 del d.l. n. 34 del 2019.


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Autorità fiscali. Il diritto europeo, dal canto suo, offre un contributo particolare in questa direzione rendendo più rapido ed efficace il processo di armonizzazione. L’approccio unionale si rivolge anche ad un altro profilo di debolezza dell’attuale sistema, ovvero alla difficoltosa composizione delle liti tra gli Stati. Le procedure amichevoli (Mutual Agreement Procedure, c.d. ‘MAP’), esaurendosi nella consultazione diretta tra le Amministrazioni fiscali dei Paesi contraenti, non si sono rivelate infatti sufficienti a dirimere il copiosissimo contenzioso in materia di doppie imposizioni, anche per l’assenza di un vincolo di risultato. Sebbene le più recenti statistiche testimonino l’incremento di efficienza di queste procedure (40), le aspettative inizialmente riposte sulla capacità del diritto internazionale di risolvere gli inevitabili conflitti nell’applicazione delle discipline nazionali del transfer pricing sono state, infatti, gradualmente tradite (41), rendendosi sempre più impellente la necessità di affiancare agli istituti preventivi del conflitto nuovi meccanismi di composizione delle controversie (42). Sarà importante, pertanto, verificare l’apporto che la recente Direttiva 2017/1852/UE, del 10 ottobre, offrirà al superamento dei limiti di un diritto internazionale che, almeno sotto questo aspetto, appare obsoleto. Se da un lato, l’ambito territoriale di applicazione della nuova Direttiva (territorio dell’UE) risulti sensibilmente meno esteso di quello delle MAP (43), con il

(40) L’OCSE ha diffuso interessanti statistiche relative alle 89 giurisdizioni fiscali coinvolte (dati riferiti al 2018) che evidenziano, rispetto al 2017, un incremento del 20% dei nuovi casi in materia di transfer pricing ed un generalizzato incremento di efficacia delle procedure (con un saldo procedure pendenti diminuito da 6.904 di fine 2017 a 6.605 di fine 2018). Le analisi individuano, però, un tempo medio ancora elevato per la soluzione delle questioni relative al transfer pricing, ovvero 33 mesi (rispetto ai 30 mesi del 2017 e rispetto ai 14 mesi in media perle altre MAP aventi diverso oggetto). (41) Nonostante l’avvenuta adozione del ‘Codice di condotta per l’effettiva attuazione della Convenzione relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate’, ad opera del Consiglio dell’Unione europea del 22 dicembre 2009, e l’atteggiamento responsabile assunto da alcune autorità fiscali, tra cui l’Agenzia delle entrate che ha dedicato alle procedure amichevoli la puntuale 5 giugno 2012, n. 21/E. Tali debolezze sono descritte, tra gli altri, da C. Romano - D. Conti, Convenzione arbitrale europea: criticità dell’interpretazione dell’Agenzia delle entrate, in Corr. Trib., 2015, 757 ss. (42) Il tema è affrontato esaustivamente da M. Trivellin, Studi sugli strumenti di soluzione delle controversie fiscali internazionali con particolare riguardo al transfer pricing, cit. (43) Queste ultime, infatti, avendo fonte nel diffusissimo modello di Convenzione contro le doppie imposizioni ed essendo richiamate dalla Convenzione 90/436/CEE del 23 luglio 1990 relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili delle imprese


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rischio di configurare, per le imprese, rimedi variabili in funzione della giurisdizione (infra o extra UE) della consociata, dall’altro, la procedura europea sembra in grado di assicurare risultati migliori. Essa prevede, infatti, un ‘doppio binario’, ovvero una procedura amichevole non dissimile, nella sostanza, da quella prevista dalle MAP (art. 3) e una successiva ed eventuale procedura di risoluzione della controversia affidata ad una commissione consultiva (art. 14). Significativi i tratti di originalità di questa disciplina, sia per la previsione di un’ipotesi del tutto desueta, in questa materia, del silenzio-accoglimento nel caso in cui l’Autorità fiscale adita non adotti alcuna decisione in merito al rigetto o all’accoglimento del Reclamo del contribuente nei sei mesi successivi alla sua ricezione; sia per la possibilità che l’insuccesso della procedura venga emendato da una Commissione composta da un numero di arbitri indipendenti compreso fra tre e cinque e da un massimo di due rappresentanti di ciascuno Stato membro. Nonostante diffuse perplessità sui tempi di conclusione della procedura (44), si tratta di un’evoluzione importante dell’istituto solutorio delle liti, adesso incardinato sull’obbligo per lo Stato membro interessato di raggiungere un’intesa, entro sei mesi dalla proposta della Commissione consultiva, che invece, nei precedenti assetti, è spesso mancata. Detta intesa potrebbe pure discostarsi dal parere della Commissione ma, se non raggiunta, esporrebbe gli Stati all’effetto vincolante del parere medesimo, purché i soggetti interessati la accettino e rinuncino ad avvalersi di mezzi di impugnazione interni.

associate (c.d. ‘Convenzione arbitrale’), risultano attivabili in un maggiore numero di casi. (44) Sull’argomento, vds. T. Wiertsema, Council directive on double taxation dispute resolution mechanisms: “resolving companies’ areas of concern?, in IBFD Journal Articles, Derivatives & Financial Instruments, pubbl. on line del 13 ottobre 2017, nonché A. Comelli, L’armonizzazione (e il ravvicinamento) fiscale tra lo “spazio unico europeo dell’iva”, la direttiva del consiglio “contro le pratiche di elusione fiscale” e l’abuso del diritto, in Dir. Prat. Trib., 2018, 1417, secondo cui: “la valutazione d’insieme calibrata su questa direttiva è positiva con riferimento all’ampliata estensione dei casi di doppia imposizione all’interno dell’UE che possono dar luogo all’attivazione, da parte dei soggetti interessati, di una procedura di risoluzione delle controversie in materia fiscale, anche rispetto alla convenzione arbitrale n. 90/436/CEE, che finora non è stata soppressa e la cui applicazione era (ed è tuttora) limitata ad un numero tipologicamente circoscritto di controversie. Tuttavia, se si considera che il numero delle controversie in questione è destinato ad aumentare ulteriormente nel prossimo futuro, la scansione temporale prevista dalla direttiva n. 2017/1852 non sembra assicurare una soluzione in tempi sufficientemente rapidi e prevedibili delle controversie in questione e si sarebbe potuto (e, forse, anche dovuto) comprimere ulteriormente la tempistica ivi prevista”.


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Non è questa la sede per indugiare su pregi e difetti della procedura europea che l’Italia si accinge a recepire con la legge di delegazione europea 4 ottobre 2020, n. 117 ma, di certo, all’interno dei confini unionali, sia nella fase amministrativa che in quella contenziosa, si intravedono condizioni marcatamente più favorevoli all’elisione delle residue divergenze tra le autorità fiscali in materia di doppia imposizione. Il che conferma il contributo del diritto europeo alla realizzazione di convergenze che, altrimenti, richiederebbero tempi sensibilmente più lunghi e suggerisce di individuare nell’ordinamento dell’UE la sede ideale di nuove sperimentazioni su meccanismi alternativi di superamento delle controversie tra Stati. Le direttive e le raccomandazioni fin qui descritte, del resto, qualificano una dimensione europea del transfer pricing più articolata e matura di quella internazionale. Ciò non consente di assicurare piena simmetria nella stima ed eventuale contestazione dei prezzi di trasferimento all’interno delle giurisdizioni europee ma offre, sicuramente, strumenti di allarme, conoscenza, audit e definizione delle controversie più efficaci ed ampi, perché destinati ad operare simmetricamente sul territorio dei ventisette Stati membri. Circostanza, questa, che restituisce centralità al diritto europeo rispetto ad un tema che, negli ultimi anni, è stato al centro degli sviluppi del diritto internazionale.

Gianluca Selicato







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