Vol. XXVIII- Agosto
Rivista di
Diritto Tributario
www.rivistadirittotributario.it
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Rivista bimestrale
Vol. XXVIII - Agosto 2018
Fondata da Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi
2018
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In evidenza: • Unità e pluralità del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento interno e nel sistema
comunitario Gaspare Falsitta • La crisi del binomio diritto-territorio e la tassazione delle imprese multinazionali
Loredana Carpentieri • Note brevi sull’evoluzione del divieto di aiuti di Stato e sostenibilità dei sistemi fiscali
Giuseppe Marino • La sentenza della Corte costituzionale come “rimedio” al rifiuto dell’estensione analogica
Andrea Fedele • In tema di non impugnabilità dei dinieghi di autotutela e di responsabilità civile del fisco
Salvatore La Rosa
ISSN 1121-4074
Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016
Rivista di Diritto Tributario
Diretta da Loredana Carpentieri - Gaspare Falsitta - Salvatore La Rosa Francesco Moschetti - Roberto Schiavolin
Pacini
Indici DOTTRINA
Loredana Carpentieri
La crisi del binomio diritto-territorio e la tassazione delle imprese multinazionali................................................................................................................ I, 351 Giangiacomo D’Angelo
Le diverse declinazioni della soggettività passiva iva: il caso clinico delle società pubbliche cc.dd. in house........................................................................................... I, 407 Gaspare Falsitta
Unità e pluralità del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento interno e nel sistema comunitario.................................................................................................... I, 333 Andrea Fedele
La sentenza della Corte costituzionale come “rimedio” al rifiuto dell’estensione analogica (nota a Corte cass., n. 11373/2015, Corte cost., n. 242/2017 e Cass., SS.UU. 19106/2018).................................................................................................. II, 171 Salvatore La Rosa
In tema di non impugnabilità dei dinieghi di autotutela e di responsabilità civile del fisco (nota a Corte cost., n. 181/2017)................................................................. II, 188 Giuseppe Marino
Note brevi sull’evoluzione del divieto di aiuti di Stato e sostenibilità dei sistemi fiscali............................................................................................................................ I, 393 Carmine Marrazzo
La tassazione del commercio elettronico dopo la sentenza Wayfair: verso una territorialità digitale? (nota a Supreme Court of the United States, No. 17494/2018).................................................................................................................... IV, 146 Andrea Quattrochi
La tassazione dei redditi finanziari tra imposizione alla fonte e (crisi della) progressività...................................................................................................................... I, 443 Rubrica di diritto europeo
a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 143
Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.
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indici
INDICE ANALITICO QUESTIONI GENERALI AUTOTUTELA
Autotutela tributaria – Insussistenza di connotati differenziali dalla ge-
nerale autotutela amministrativa – Istanze di annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari inoppugnabili – Insussistenza di obbligo di pronuncia da parte degli Uffici – Costituzionalità della disciplina per inconfigurabilità di un “vuoto di tutela” (Corte cost., 21 giugno 2017 - 13 luglio 2017, n. 181, con nota di Salvatore La Rosa)........................................................................................................... II, 179
IMPOSTA SOSTITUTIVA SUI MUTUI Agevolazioni – Art. 15 D.P.R. 29.9.1973, n. 601 – “Interpretazione stretta” –Inestensibilità ai finanziamenti effettuati dagli intermediari finanziari – Violazione degli artt. 3 e 53 cost. (Corte cass., sez. unite civili, 24 marzo 2015 - 3 giugno 2015, n. 11373, con nota di Andrea Fedele).............................................................. II, 153 Ambito applicativo – Art. 15 D.P.R. n. 601/1973 – Applicabilità alle sole banche e non agli intermediari finanziari – È “diritto vivente” – Estensione del beneficio quando lo esiga la ratio dello stesso – Identità di ratio – Illegittimità costituzionale nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione agli intermediari finanziari (Corte cost., 24 ottobre 2017 - 20 novembre 2017, n. 242/2017, con nota di Andrea Fedele)............................................................................................................ II, 153 Eccezione di incostituzionalità – Art. 15 D.P.R. n. 601/1973 – Corte cost. n. 242/2017 – Incostituzionalità della norma nella parte in cui esclude l’applicazione dell’agevolazione alle analoghe operazioni effettuate dagli intermediari finanziari – Rigetto del ricorso – Consegue (Corte cass., sez. unite civili, 27 febbraio 2018- 18 luglio 2018, n. 19106, con nota di Andrea Fedele)................................... II, 153
FISCALITÀ DELL’ECONOMIA DIGITALE SALES TAX - WEB TAX Fiscalità dell’economia digitale – Sales tax – Presenza economica significativa – Imposta sui servizi digitali – Web tax (Supreme Court of the United States, 21 giugno 2018, No. 17-494, con nota di Carmine Marrazzo)...................................... IV, 143
indici
III
INDICE CRONOLOGICO Supreme Court of the United States 21 giugno 2018, No. 17-494...................................................................................... IV, 143 *** Corte Cost. 24 ottobre 2017 - 20 novembre 2017, n. 242/2017................................................... II, 153 Corte Cost., 21 giugno 2017 - 13 luglio 2017, n. 181.................................................................... II, 179 *** Cass. civ., SS.UU. 27 febbraio 2018 - 18 luglio 2018, n. 19106............................................................. II, 153 Cass. civ., SS.UU. 24 marzo 2015 - 3 giugno 2015, n. 11373................................................................. II, 153
Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio
Dottrina
Unità e pluralità del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento interno e nel sistema comunitario Sommario: 1. L’abuso del diritto nella direttiva “madre-figlia” del 30/11/11: totale
vacuità della relativa disposizione. – 2. La direttiva n. 121/2015: un primo tentativo di escogitare un contenuto normativo da inglobare nella disciplina del fenomeno in esame. – 3. L’abuso del diritto nella raccomandazione n. 2012/772/UE e nell’art. 5 della legge delega n. 23/2014. La raccomandazione come decreto delegato. – 4. La direttiva n. 1164/2016 come normativa di diritto comunitario sull’abuso del diritto o elusione. Spunti intorno all’art. 20 TUR. – 5. L’abuso del diritto e l’elusione nell’art. 10 bis della norma delegata scaturita dall’art. 5 della legge delega n. 23/2014. – 6. Il carattere indebito del risparmio fiscale elusivo o abusivo. L’abuso del diritto nella direttiva “madre-figlia” del 30/11/11: totale vacuità della relativa disposizione.
Nella prima parte, l’autore affronta il concetto di abuso del diritto nell’ambito della legislazione comunitaria. La tesi svolta in materia si risolve nell’affermazione che l’abuso del diritto comunitario costituisce precipuamente una o una moltitudine di costruzioni di puro artificio. Il trattamento disposto dallo stesso diritto comunitario per tali fenomeni consiste nel dovere di ignorare le costruzioni non genuine e di applicare l’imposta dovuta in conformità al diritto nazionale. Nella seconda parte, l’analisi ricostruttiva si focalizza sul disposto dell’art. 10 bis. L’autore dimostra che la norma in esame è inquinata da gravi confusioni e dalla commistione illogica dei distinti fenomeni dell’elusione come aggiramento di norme e dell’abuso come violazione pura e semplice di norme. In definitiva, il legislatore delegato non è stato in grado di attuare correttamente la legge di delega, è incorso in una palese violazione di essa (eccesso di delega) ed ha fallito il compito assegnatogli dal delegante di attuare la confluenza in uno schema giuridico unitario e coerente dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale. Fallimento del tutto ovvio, essendo incongruo ed innaturale tentare di accorpare e di unificare due istituti, quello dell’abuso e l’altro dell’elusione, che presentano connotazioni ontologiche radicalmente diverse. In the first part, the author deals with the concept of abuse of the law within Community legislation. The argument on the matter is concluded by confirming that abuse of community law is mainly one of or a multitude of purely artificial constructions. Community law orders those phenomena to be combated by ignoring false constructions and applying the tax due in conformity with national law. In the second part, the reconstructive analysis
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Parte prima
focuses on the contents of Art. 10 bis. The author demonstrates that the rule in question is marred by serious confusion and the illogical intermingling of separate phenomena of evasion, such as circumvention of laws and abuse as a pure a simple violation of laws. Ultimately, the delegated legislator has been unable to implement correctly the delegated law, has clearly violated it (excess of delegation) and has failed in the task assigned to it by the delegator to achieve the convergence into a unitary and coherent legal framework of abuse of the law and of tax evasion. That failure is obvious, as it is incongruous and unnatural to attempt to unite and unify two institutions, that of abuse and the other of evasion, which present radically different ontological connotations.
1. L’abuso del diritto nella direttiva “madre-figlia” del 30/11/11: totale vacuità della relativa disposizione. – La prima timida apparizione del concetto di abuso del diritto ha luogo tramite la cosiddetta direttiva “madre-figlia”. Questa contiene il seguente inciso: “la presente direttiva non pregiudica l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali necessarie per evitare le frodi e gli abusi”. È opinione assai diffusa che tramite la precisazione testuale testé riferita, in specie attraverso il riferimento alla locuzione “abusi”, la direttiva, pur carente nella definizione dell’abuso del diritto, abbia creato la figura dell’abuso ed abbia inteso dare mano libera ai legislatori degli stati destinatari della direttiva “madre-figlia” nel caso in cui intendessero procedere a porre limitazioni a pratiche di natura fraudolenta ed abusiva. In questo documento, dunque, oltre alla frode fa capolino il concetto di abuso del diritto, anche se, è il caso di sottolinearlo, in tale documento l’istituto dell’abuso si risolve in una mera scatola vuota, essendosi il legislatore ben guardato dal colmare questa sorta di norma in bianco e di porre i requisiti costitutivi del concetto di abuso. In definitiva, il legislatore evoca un termine dalle molteplici sfaccettature ma trascura totalmente di chiarirci in che cosa l’abuso consista. Siamo al cospetto di una metodologia di formazione delle norme deprecabile e volutamente criptica nella sua estrema vacuità. È ancora da sottolineare che il documento in questione è rivolto agli stati membri e si limita ad attribuire loro la facoltà, non l’obbligo, di regolamentare in senso repressivo pratiche di natura abusiva concernenti la materia disciplinata dalla direttiva “madre-figlia”. Compendiosamente può dirsi, dunque, che la direttiva non da’ il concetto di abuso, riconosce agli stati un potere normativo di natura oscura e infine che il potere in questione è connotato dai caratteri della libertà di scelta da parte degli stati destinatari in merito all’adozione o al rifiuto del concetto di abuso del diritto.
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2. La direttiva n. 121/2015: un primo tentativo di escogitare un contenuto normativo da inglobare nella disciplina del fenomeno in esame. – Scopo di questo documento sembra essere quello di soddisfare l’esigenza di offrire l’effettiva e non vacua definizione di costruzioni tipo “madre-figlia” inquinate dalla presenza del fenomeno patologico dell’abuso. In tale documento, infatti, si stabilisce in linea di principio che i benefici accordati dalla direttiva “madre-figlia” non possono ricevere concreta applicazione e debbono considerarsi tamquam non essent nel caso in cui gli enti, le società, le stabili organizzazioni e tutti i soggetti coinvolti nel meccanismo applicativo, si appalesino come costruzioni di puro artificio architettate allo scopo principale (o ad uno degli scopi principali) di ottenere un vantaggio fiscale. A voler essere più precisi, in questo documento non si utilizza la locuzione “costruzione di puro artificio” ma si ricorre all’impiego della diversa ma omologa espressione “costruzione non genuina”. A tal punto, il concetto di “costruzione non genuina” viene specificato con la disposizione chiarificatrice che deve considerarsi “non genuina” una costruzione che non è stata posta in essere per valide ragioni commerciali che riflettono la realtà economica. Non pare dubbio che, con questo secondo documento, il legislatore comunitario si sia sforzato di fare un passo avanti rispetto alla statuizione della direttiva “madre-figlia”. Non è chiaro per quale ragione il legislatore comunitario non senta l’esigenza della cosiddetta costanza terminologica e ami scorrazzare da una nomenclatura all’altra ignorando o sottovalutando le conseguenze nefaste che la confusa moltitudine degli strumenti linguistici può arrecare all’interprete della legge. Ad ogni modo, in questo secondo documento, il legislatore comunitario, come si è visto, sostituisce il termine “abuso” con quello di “costruzione non genuina”, ma appare evidente che il significato delle due espressioni è perfettamente coincidente. Nei testi sopra richiamati, il concetto di abuso viene definito in duplice modo: in primo luogo, sotto l’art. 1 della direttiva “madre-figlia”, l’espressione utilizzata non è né unitaria né monolitica. Infatti, si stabilisce che: “la presente direttiva non pregiudica l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali necessarie per evitare le frodi e gli abusi”. In seconda battuta, la terminologia subisce una notevole metamorfosi e, così, il legislatore sostituisce al termine “abuso del diritto” quello di “costruzione non genuina”. La lettura di questi brani mostra come il legislatore comunitario prediliga il linguaggio ripetitivo ed eccedentario, dove la varietà delle terminologie non
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esprime affatto la varietà e molteplicità dei concetti e sembra confezionata all’apparente scopo di abbracciare la realtà dei fenomeni considerati nella loro globalità senza minimamente curarsi di impiegare un linguaggio costante, ordinato e coerente. Ne discende che il fenomeno appare deprecabile e non lodevole, potendo, con alta probabilità, sfociare in regolamentazioni confuse e farraginose. I testi richiamati sembrano corroborare la fondatezza della critica testé formulata. Anche ai fini della certezza del diritto e dell’uniformità dei trattamenti nel campo del diritto, per codificare un concetto sarebbe necessario e desiderabile utilizzare sempre lo stesso termine e rispettare il principio della costanza terminologica, evitando che per enunciare un medesimo principio si ricorra ad una moltitudine di locuzioni disparate. Bisogna tuttavia riconoscere che, con la direttiva n. 121/2015, un passo avanti viene compiuto e questo attiene all’aspetto definitorio dell’istituto dell’abuso nel contesto della legislazione comunitaria. Ci si deve chiedere a questo punto se, al di là della promiscuità terminologica, le due direttive fin qui considerate delineino un concetto di abuso del diritto e/o di elusione tributaria conforme a quello della tradizione storicogiuridica italiana o facciano invece riferimento a concetti totalmente diversi e addirittura opposti. Nella nostra tradizione giuridica, l’elusione non è mai una concatenazione priva di sostanza economica ed imprenditoriale. I negozi giuridici, concatenandosi al fine di ottenere un risultato economico effettivo, ancorché suscettibile di generare risparmi fiscali, hanno la caratteristica incontestabile di essere negozi veri e reali, non mere apparenze finzionistiche volte a simulare una realtà inesistente. E, se le cose stanno in tal modo, dovrebbe risultare evidente come la definizione di abuso del diritto contenuta nelle direttive e negli atti comunitari che esamineremo, faccia riferimento a e regolamenti un fenomeno totalmente privo di qualunque vicinanza o coincidenza con l’abuso del diritto come elusione. Al riguardo, il linguaggio è sufficientemente inequivoco. Statuire infatti che è abuso del diritto una costruzione non genuina, ossia inautentica e carente negli elementi costitutivi naturali; soggiungere a mo’ di esplicazione che una costruzione non genuina è priva di valide ragioni commerciali che riflettano la realtà economica, altro non significa che ridurre, nei testi sopra citati, la costruzione non genuina o abusiva ad un fenomeno artificioso e non veridico, volto a far apparire una realtà inesistente e di mera apparenza. Ciò, al fine di nascondere una sottostante realtà effettiva che non si vuole far trapelare e che si vuole invece mantenere allo stato di occultamento, di impresa fantasmica.
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Quanto ora diremo a proposito della raccomandazione n. 772/2012 conferma pleno iure la fondatezza di quanto fin qui osservato. 3. L’abuso del diritto nella raccomandazione n. 2012/772/UE e nell’art. 5 della legge delega n. 23/2014. La raccomandazione come decreto delegato. – Le conclusioni di cui sopra, formulate con riferimento ai documenti comunitari sul regime dei rapporti societari “madre-figlia”, sono confermate seccamente da ulteriori elementi normativi di fonte comunitaria e, specificamente, da quel documento normativo denominato “Raccomandazione della Commissione sulla pianificazione fiscale aggressiva” n. 2012/772/UE del 6/12/12, incapsulata nell’ordinamento italiano per il tramite dell’art. 5, comma 1 della legge delega n. 23/2014, laddove essa impone di attuare la legislazione delegata sull’abuso coordinandola con i principi contenuti nella raccomandazione. Ci si deve domandare quale sia l’effettivo concetto di abuso contenuto nella raccomandazione e se lo stesso collida oppure si situi su una linea di perfetta continuità e coerenza con il concetto di abuso contenuto nei testi che abbiamo fin qui studiato. La tesi della continuità (e della coincidenza) a noi pare incontestabile. A questo riguardo, va notato che la raccomandazione n. 2012/772/UE si può suddividere in due parti, la prima delle quali è dedicata all’enunciazione di considerazioni di carattere generale sullo scopo o funzione del documento, mentre la parte successiva affronta in pieno ed esclusivamente l’elaborazione delle ipotesi che, in base al documento in questione, definiscono la concezione di “abuso del diritto” rientrante nel fenomeno genericamente definito con espressione atecnica, sorprendente ed estranea al civile linguaggio giuridico, come “pianificazione fiscale aggressiva”. Che senso ha, nella nostra materia, parlare di aggressione ed aggressività? Come è possibile riempire di un contenuto semplice e comprensibile invenzioni verbali così sorprendentemente innovative ed estranee alla tradizione dogmatica classica? Ma andiamo avanti: è preferibile non immorare su questi svarioni. Al fine di costruire la definizione di cui si è detto, la raccomandazione elenca un numero assai elevato di fattispecie definitorie. Ciascuna di esse costituisce fattispecie di abuso del diritto ma anche, se si preferisce, fattispecie non genuina che non riflette né esprime una realtà sussistente, ossia veridica. A titolo esemplificativo, ci limitiamo a considerare le più chiare ed incisive definizioni di abuso contenute nella raccomandazione. In essa leggiamo che costituiscono abuso del diritto: 1) l’ipotesi in cui la qualificazione giuridica delle singole misure di cui è composta la costruzione confligge o appare distonica rispetto al fondamento giuridico della costruzione nel suo insieme;
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2) l’ipotesi in cui la costruzione o la serie di costruzioni è posta in essere in un modo che non sarebbe normalmente impiegato in quello che dovrebbe essere un comportamento ragionevole in ambito commerciale; 3) la costruzione o la serie di costruzioni comprende elementi che hanno l’effetto di compensarsi o annullarsi reciprocamente, svuotando di ogni effettività giuridica ciò che è stato posto in essere; 4) le operazioni di natura circolare, carenti di effettualità e di attitudine ad introdurre modifiche nel mondo dei fenomeni che di volta in volta si vogliono regolare; 5) le costruzioni o serie di costruzioni che comportano un significativo vantaggio fiscale, di cui tuttavia non si tiene conto nei rischi commerciali assunti dal contribuente o nei suoi flussi di cassa; 6) il caso in cui le previsioni di utili al lordo delle imposte siano insignificanti rispetto all’importo dei previsti vantaggi fiscali. A noi pare che questa sequenza di ipotesi, alcune delle quali di incerta intellegibilità di senso, sia caratterizzata da una sostanziale omogeneità di tutte le ipotesi considerate, le quali, in ogni caso contemplato, fanno riferimento a fatti, atti, convenzioni semplici o plurime caratterizzate dalla loro pura artificiosità o falsità o totale inconsistenza nel mondo dei fenomeni giuridici reali. Nella raccomandazione si parla di artificialità delle costruzioni, circolarità delle costruzioni, utili insignificanti rispetto ai corposi vantaggi fiscali conseguiti e così elencando. Siamo dunque in una perfetta linea di continuità rispetto alle prime due direttive esaminate, dove la costruzione di puro artificio acquista il diverso nome di costruzione non genuina, senza che varianti così superficiali possano interrompere o porre cesure al significato unitario che il legislatore vuole attribuire all’abuso del diritto come specificazione e definizione di ciò che esso ama definire “pianificazione fiscale aggressiva”. 4. La direttiva n. 1164/2016 come normativa di diritto comunitario sull’abuso del diritto o elusione. Spunti intorno all’art. 20 TUR. – Dobbiamo ora passare a considerare l’ultimo dei documenti di fonte comunitaria concernente la pianificazione fiscale aggressiva come abuso. Il punto di partenza è costituito da un documento che ha natura di progetto di una futura direttiva. Si ritorna ad una terminologia simile, se non coincidente, a quella dei documenti fin qui analizzati. Il fenomeno viene identificato con l’espressione: “costruzione non genuina”. Più analiticamente, il testo del progetto di direttiva ha la seguente consistenza: «1) Le costruzioni non genuine o una serie di costruzioni non genuine poste in
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essere essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale che è in contrasto con l’oggetto o la finalità delle disposizioni fiscali che sarebbero state altrimenti applicate sono ignorate ai fini del calcolo dell’imposta sulle società dovuta. Una costruzione può comprendere più di una fase o parte. 2) Ai fini del paragrafo 1 una costruzione o una serie di costruzioni è considerata non genuina nella misura in cui non è stata posta in essere per valide ragioni commerciali che riflettono la realtà economica. 3) Quando le costruzioni o una serie di costruzioni sono ignorate a norma del paragrafo 1, l’imposta dovuta è calcolata con riferimento alla sostanza economica in conformità al diritto nazionale». L’ultimo anello della catena che abbiamo fin qui ricostruito è rappresentato dalla formulazione finale e definitiva di quanto già espresso nel progetto di direttiva. Tra le due formulazioni non si riscontrano sostanziali varianti. Perciò leggiamo nella direttiva che: «1) Ai fini del calcolo dell’imposta dovuta sulle società, gli stati membri ignorano una costruzione o una serie di costruzioni che, essendo stata posta in essere allo scopo principale o ad uno degli scopi principali di ottenere un vantaggio fiscale che è in contrasto con l’oggetto o la finalità del diritto fiscale applicabile, non è genuina avendo riguardo a tutti i fatti e le circostanze pertinenti. Una costruzione può comprendere più di una fase o parte. 2) Ai fini del paragrafo 1, una costruzione o una serie di costruzioni è considerata non genuina nella misura in cui non sia stata posta in essere per valide ragioni commerciali che rispecchiano la realtà economica. 3) Quando le costruzioni o una serie di costruzioni sono ignorate a norma del paragrafo 1, l’imposta dovuta è calcolata in conformità al diritto nazionale». A nostro avviso, trascurando l’impiego di talune espressioni impiegate dai documenti in esame senza il rispetto del linguaggio giuridico in uso nei paesi d’Europa, già sede della più raffinata civiltà giuridica (come è possibile inventare e mettere in circolazione un’espressione quale quella di “pianificazione fiscale aggressiva”?) bisogna riconoscere che i quattro documenti di fonte comunitaria che abbiamo adunato e disposto in connessione logico-cronologica, pur nel disordine lessicale che li caratterizza, delineano un concetto di abuso del diritto non privo di unitarietà e coerenza, sia per quanto riguarda il suo concetto, sia per quanto attiene agli effetti. Lo studio dei vari documenti dimostra che esiste un concetto di abuso del diritto nella legislazione comunitaria
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che, come meglio si dirà, non ha alcuna identità o affinità con l’istituto di diritto interno designato con lo stesso nome. Analogamente, è agevole scoprire, esaminando la questione sotto il profilo degli effetti giuridici generati dalle due serie di fenomeni, che non esiste alcuna comunanza o coincidenza tra la regolamentazione degli effetti del fenomeno nel campo del diritto interno e in quello del diritto comunitario. Qui è opportuno porsi un quesito: a quali fenomeni del mondo giuridico e a quali accadimenti della vita il diritto comunitario e la raccomandazione n. 772/2012 trasformata in diritto interno fanno riferimento allorché affrontano, definiscono, delimitano il fenomeno che denominano abuso del diritto, pianificazione fiscale aggressiva, costruzioni non genuine, costruzioni di puro artificio, etc.? I fenomeni, fatti ed eventi sono molteplici: ci riferiamo, in particolare, ad occultamenti di ricavi e proventi, interposizione e residenza fittizie, societàbuche per lettere, simulazione, deduzione di spese non inerenti, esterovestizione, transfer pricing violatore della relativa normativa, fittizietà della spesa dedotta, stabili organizzazioni occulte, indeducibilità di prezzi non effettivi. Nella notissima sentenza Cadbury Schweppes si utilizza pur sempre l’equivoco termine di “abuso del diritto” ed il lettore frettoloso può essere indotto a pensare che il fenomeno inquadrato dalla sentenza coincida con l’elusione. Nulla, però, di più errato. In questa sentenza i connotati del fenomeno denominato come abuso mutano radicalmente e si discute di finzione, di sedi d’impresa fittizie, di società fantasma, di società schermo, fino ad arrivare al caso limite della società che è solo una buca per lettere, ossia di fenomeni di simulazione-dissimulazione. Generalmente, la sentenza madre dell’abuso del diritto è considerata la pronuncia della Corte di Giustizia Halifax del 21/2/06. Si tratta però di un errore. In tale sentenza, il fenomeno considerato è un’operazione di elusione, non di abuso, come si è cercato di dimostrare nei nostri lavori (1). Ciò dimostra che, anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, l’abuso del diritto non è un concetto unitario e monolitico. Nel parere reso dall’Avvocato generale M. Wathelet, il concetto di abuso del diritto di matrice comunitaria concernente specificamente l’applicazione dell’IVA viene assunto nell’accezione da noi indicata trattando della Raccomandazione n. 772/2012 e degli altri testi che abbiamo via via elencato. Per
(1) 286 ss.
Cfr G. Falsitta, Il principio della capacità contributiva, Milano, 2014, 246 ss. e
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aversi abuso occorre una costruzione fittizia o di puro artificio, la quale può consistere nella fittizietà della sede o altri elementi incidenti sulla fattispecie imponibile. Più sinteticamente, si tratta di verificare se l’operazione concretizzi una pratica abusiva, se abbia carattere fittizio, se sia priva di contenuto economico e commerciale e se sia diretta esclusivamente al percepimento di un vantaggio fiscale (evasione tributaria). Se l’operazione è abusiva, deve trovare applicazione la realtà effettuale e, per esempio, la tassazione deve essere operata nello stato della sede effettiva e non già in quello della sede fittizia. Alle stesse conclusioni circa il concetto di abuso del diritto, dei suoi elementi costitutivi, del suo accertamento come costruzione fittizia, etc., perviene la sentenza C 419/14. Tante sono le sentenze in cui questo deus ex machina compare costringendo gli interpreti non di bocca buona ad interrogarsi, di volta in volta, sul significato che l’evocato principio assume nel contesto specifico di ogni caso deciso e di ogni sentenza pronunciata. È evidente che non posso, qui ed ora, affrontare lo studio di questa imponente produzione giurisprudenziale. Questo studio meriterebbe di essere effettuato per tentare di capire in quanti aspetti fattuali diversi, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, si impiega il termine “abuso del diritto” nel senso di costruzione di puro artificio o non genuina o priva di sostanza economica. Naturalmente, un tale studio potrebbe condurre anche al risultato di far ritenere che in tutte queste sentenze e in tutti i documenti che abbiamo richiamato, pur nell’impiego di una terminologia variegata, si designi pur sempre lo stesso fenomeno. Un fatto è certo, tuttavia, ed è costituito dalla constatazione che da tutti i documenti comunitari fin qui rievocati emerge un concetto di abuso del diritto che presenta alcune incontestabili caratteristiche: si tratta di un concetto di abuso connotato da unità ed omogeneità; si tratta altresì di un concetto (unitario) che non presenta affinità o convergenze o identità con l’istituto generalmente denominato “elusione fiscale” e la cui ultima e più coerente definizione possiamo rinvenire nell’abrogato art. 37 bis del dpr n. 600/73. Prima di passare ad affrontare il fenomeno dell’elusione, occorre però tentare di definire natura ed effetti dell’abuso del diritto di matrice comunitaria da noi individuato attraverso il puntuale richiamo di tutti i documenti (direttive, raccomandazioni, progetti di direttive, etc.) cui abbiamo fatto riferimento nelle pagine precedenti. Nella direttiva n. 1164/2016 si precisa che le costruzioni non genuine o, se si preferisce, di puro artificio, devono essere ignorate dagli stati membri; e, dunque, queste costruzioni sono prive di capacità di produrre effetti giu-
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ridici sotto il profilo del diritto tributario. L’espressione utilizzata da questi documenti per statuire la non esistenza giuridico/tributaria di queste costruzioni è limpida e chiara. Ad esempio, nella direttiva n. 1164/2016, è detto chiaramente che gli stati membri sono obbligati ad “ignorare” le costruzioni non genuine. Più o meno negli stessi termini si esprimono le altre fonti da noi citate. La conseguenza che ne deriva, una volta cancellata la costruzione non genuina siccome inesistente, è la seguente: la tassazione effettiva dovrà avere luogo attraverso l’applicazione della normativa di diritto interno che regola i fenomeni da tassare sulla base della loro genuina effettività. Comparando o raffrontando la regolamentazione degli effetti dell’abuso del diritto in sede comunitaria e dell’abuso-elusione (di cui si dirà più analiticamente a breve) in sede di art. 10 bis, emerge con evidenza una dicotomia di effetti tra abuso di diritto comunitario e abuso-elusione di diritto interno. L’effetto scaturente dall’abuso comunitario viene definito dalle relative fonti come “dovere di ignorare le costruzioni non genuine”. La clausola contenuta nell’art. 6 della direttiva recita testualmente: «gli stati membri ignorano una costruzione o una serie di costruzioni che, essendo stata posta in essere allo scopo principale o ad uno degli scopi principali di ottenere un vantaggio fiscale che è in contrasto con l’oggetto o la finalità del diritto fiscale applicabile, non è genuina avendo riguardo a tutti i fatti e le circostanze pertinenti (…). Quando le costruzioni o una serie di costruzioni sono ignorate (…), l’imposta dovuta è calcolata in conformità del diritto nazionale». Codesta clausola che potremmo nominare come obbligo di ignoranza degli effetti artificiali ed apparenti, cui si contrappone l’obbligo di applicare il diritto nazionale effettivo pertinente alle singole fattispecie, non è stata inserita nella sola direttiva e non si esaurisce nella sola citazione effettuata. Questa stessa clausola che obbliga all’ignoranza la ritroviamo nella raccomandazione n. 772/2012 (2). Il fenomeno considerato presenta una certa analogia con il disposto dell’art. 20 TUR e con il trattamento riservato alla simulazione. Quest’ultima, in tutte le sue forme, sia assoluta che relativa, inclusa l’interposizione fittizia, impone al fisco di ignorare le ingannevoli apparenze e badare non alla finzione ma alla realtà effettuale dei fenomeni nella loro vera conformazione giuridica.
(2) La raccomandazione n. 772/2012, alla quale fa riferimento l’art. 5 della legge delega n. 23/2014, afferma: «una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale, deve essere ignorata. Le autorità nazionali devono trattare tali costruzioni a fini fiscali facendo riferimento alla loro sostanza economica».
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Non riusciamo a vedere un’effettiva differenza tra il trattamento dell’abuso consistente in innumerevoli forme di simulazione e di artificiali costruzioni previste dai sopra citati disposti del diritto comunitario e il trattamento riservato alla simulazione nel diritto italiano. In entrambi i casi, fenomeni apparenti volti ad occultare materia imponibile si contrappongono a fenomeni reali che rappresentano la vera materia tassabile. Siamo in presenza, in definitiva, della riaffermazione, sia pure con un linguaggio più disinvolto e meno tecnico-giuridico, di un principio chiaramente enunciato in alcuni passi del Digesto, dei quali ci limitiamo a menzionare i seguenti: «potius id quod actum quam id quod dictum sit, sequendum est», «in conventionibus contrahentium voluntatem potius quam verba spectari placuit», «semper in stipulationibus et in ceteris contractibus id sequimur, quod actum est”, “plus valet quod actum, quam quod simulate concipitur». Della stessa sostanza e rilevanza è il disposto dell’art. 20 TUR, che la Corte Suprema di Cassazione nella sentenza n. 2054/2017, dopo un ravvedimento resipiscente frutto di un’accurata ricostruzione della portata della norma in esame (nella quale l’art. 20 veniva considerato come norma di disconoscimento degli effetti apparenti dei negozi giuridici a scapito dei negozi reali), è ritornata precipitosamente sui propri passi attribuendo all’art. 20 la natura di norma antielusiva che questa non ha mai posseduto come inequivocabilmente emerge dalla contrapposizione o dal binomio forma apparente/effetti reali, facendo così discendere dall’articolo di cui si discute conseguenze a nostro sommesso avviso piuttosto aberranti. Impeccabile è invece lo stesso art. 20 quale sembrerebbe scaturire da una sua ristrutturazione tramite la legge di stabilità (3) e l’art. 1 del d.lgs. n. 128/2015 (4). In tale restyling, l’articolo ritorna ad essere quello che è sempre
(3) Con l’art. 1 comma 87 della legge n. 205/2017 è stato disposto quanto segue: «Al testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 20, comma 1: 1) le parole: «degli atti presentati» sono sostituite dalle seguenti: « dell’atto presentato »; 2) dopo la parola: «apparente» sono aggiunte le seguenti: «, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi»; b) all’articolo 53-bis, comma 1, le parole: «Le attribuzioni e i poteri» sono sostituite dalle seguenti: «Fermo restando quanto previsto dall’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, le attribuzioni e i poteri.» (4) Cfr. al riguardo l’articolo di L. Miele, Per il registro vale la sostanza giuridica, in
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stato e che l’interpretazione giurisprudenziale ha deformato in uno sforzo di nomofilachia creativa collidente sotto ogni profilo con la lettera dell’enunciato legislativo. Si stabilisce così inequivocabilmente che l’imposta è applicata secondo natura ed effetti giuridici dell’atto (non degli atti!) presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto e prescindendo da elementi extratestuali e atti collegati. Non è prevedibile quale destino avrà la disposizione in commento nell’ambito della caotica e farraginosa legislazione italiana e delle molteplici interpretazioni pendolari della giurisprudenza della Corte Suprema. Tuttavia, sono a nostro avviso innegabili la natura interpretativa e l’efficacia retroattiva della norma in questione (5) (6) che riafferma il primato, nell’applicazione degli atti, della verità effettivamente voluta dalle parti rispetto all’ingannevole apparenza dagli stessi ingegnosamente costruita. In definitiva, in tutte le fonti da noi citate, si afferma sempre l’esigenza della prevalenza della verità sulle vacue apparenze ma, si badi bene, si ignora sempre l’istituto dell’ “inopponibilità” che ritroveremo infra trattando dell’elusione. 5. L’abuso del diritto e l’elusione nell’art. 10 bis della norma delegata scaturita dall’art. 5 della legge delega n. 23/2014 (7). – Premesso che l’art. 10 bis esordisce unificando nel suo titolo sia terminologicamente che concettualmente gli istituti dell’abuso del diritto e dell’elusione riducendoli ad un’entità dogmatica unitaria, nel presente paragrafo analizzeremo il contenuto dell’art. 10 bis incastonato nello Statuto dei diritti del contribuente in forza del combinato disposto dell’art. 5 della legge delega n. 23/2014. Ciò faremo anche allo scopo di verificare se vi sia identità concettuale ovvero coincidenza tra la nozione di elusione/abuso racchiusa nell’art. 10 bis e quella contenuta in altre fonti, anche abrogate, quale, ad esempio, l’art. 37 bis del dpr n. 600/73. La seconda questione da dipanare è volta a chiarire se l’art. 10 bis ospiti un concetto di abuso del diritto non coincidente con il principio dell’elusione ma
Il sole 24 ore del 24/10/17, 27. (5) Contra: L. Miele, op. cit., loc. cit. (6) Secondo la sentenza della CTP di Milano n. 571 del 12/2/2018, il novellato art. 20 del TUR non ha efficacia retroattiva ma l’interprete non deve necessariamente attribuire alla norma previgente un contenuto precettivo opposto a quello di nuova introduzione. (7) Dall’art. 5 delle legge delega è derivato il d.lgs. n. 128/2015, da cui scaturisce l’art. 10 bis.
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di consistenza concettuale identica all’abuso del diritto di fonte comunitaria (costruzioni non genuine o di puro artificio). Orbene, il comma 1 dell’art 10 bis sembra enunciare un tipo di abuso del diritto che coincide senza residui con l’elusione tributaria di cui all’art. 37 bis del dpr n. 600/73 e con l’art. 5 della legge delega n. 23/2014. Per aversi abuso o elusione in questa accezione, tutto l’operato del contribuente presenta le caratteristiche seguenti: produce effetti giuridici reali marginali, non determina il nascere di nuovi effetti economici e, pur applicando formalmente delle norme, il suo operare persegue essenzialmente risparmi fiscali indebiti. Poiché i vantaggi fiscali indebiti sono scopo essenziale ma non esclusivo, in questa prima parte della definizione sembrano sussistere gli elementi del concetto classico dell’elusione. Ciò è confermato dal seguito della disposizione, dove si parla di disconoscimento dell’operazione elusiva, ossia dell’operazione congegnata per l’ottenimento del vantaggio fiscale e, inoltre, del riconoscimento dell’operazione elusa, ossia di quell’operazione che deve essere sottoposta ad una tassazione piena, non depurata del vantaggio fiscale. Che nella fattispecie si versi nell’elusione è confermato dall’ulteriore precisazione secondo la quale l’amministrazione, nel disconoscere i vantaggi fiscali, determina i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi, tenendo conto di quanto eventualmente versato dal contribuente per effetto di dette operazioni elusive. In sostanza, vengono a realizzarsi due parallele tassazioni: la prima elusa e la seconda elusiva. Contestando il fenomeno dell’elusione, l’amministrazione ripristina in tutta la sua efficacia l’operazione elusa, rende a sé inopponibile in pari tempo quella elusiva, impone al contribuente un carico tributario perfettamente conforme all’operazione elusa e, nel far questo, restituisce al contribuente i pagamenti eccedentari che avesse effettuato in sede di applicazione della concatenazione elusiva. In sostanza, la norma elusiva viene sterilizzata sotto tutti gli aspetti e, quindi, anche sotto il profilo di eventuali pagamenti effettuati in forza di essi. Questo stesso effetto restitutorio e di sterilizzazione dei pagamenti che, in forza dell’accertata elusione, vengono a configurarsi come indebiti, viene ribadito e, per così dire, esteso, anche a quei “terzi” che fossero stati per avventura coinvolti nel perfezionamento di un atto o di una sequenza di atti dichiarati elusivi. Recita infatti il comma 11 dell’art 10 bis che il rimborso delle imposte pagate spetta anche ai terzi, ossia ai soggetti diversi da quelli cui sono applicate le disposizioni dell’art 10 bis (8).
(8)
Per comodità del lettore si riproduce il testo integrale del comma 11 dell’art 10 bis:
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Di diversa consistenza, per contro, è la disposizione contenuta nel comma 2 dell’art. 10 bis, che affronta di nuovo il concetto di operazione (una o plurime) priva di sostanza economica ma, così facendo, detta una disposizione che sembra fare riferimento non all’elusione ma all’abuso del diritto come costruzione o insieme di costruzioni di puro artificio. La norma, infatti, non solo fa riferimento ad operazioni prive di sostanza economica, ma precisa altresì che questi insiemi o aggregazioni o sequenze negoziali producono effetti economici insignificanti. La loro produttività consiste dunque nel generare pressoché esclusivamente risparmi fiscali. Pertanto, in definitiva, la fattispecie disegnata da questa seconda parte va a coincidere con le operazioni di puro artificio prive di sostanza imprenditoriale e generatrici di risparmi fiscali pressoché esclusivi. Un’ulteriore ipotesi di abuso del diritto, simile al concetto estraibile dalla normativa comunitaria, è racchiusa nella seguente proposizione: si considerano abusive le operazioni caratterizzate dalla “non conformità degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”. Orbene, il significato di questo inciso non può che essere il seguente: il contribuente viola le logiche economiche che nel mercato determinano i livelli dei prezzi e dei valori dei beni e dei servizi se, procedendo ad operazioni economiche rilevanti per la formazione dei costi, dei ricavi e dei redditi, occulta i ricavi e finge l’esistenza di costi apparenti o inesistenti. Tutto ciò è un fenomeno frequente, come è ben noto, denominato anche come antieconomicità delle operazioni fiscalmente rilevanti. Tuttavia, non vi è a chi possa sfuggire che un fenomeno siffatto non ha la minima relazione di parentela con l’elusione tributaria. Il fenomeno è invece da ascrivere alla distinta patologia tributaria dell’abuso costituito da costruzioni di puro artificio. Ciò è confermato dal fatto che, ricorrendo la fattispecie in esame, è inconcepibile che abbia luogo quel fenomeno del rimborso delle imposte collegate alla fattispecie elusiva di cui abbiamo detto poc’anzi. Nel caso considerato, l’appuramento dell’esistenza di operazioni contrarie a logiche di mercato si risolve interamente nell’accertamento di un’evasione tributaria richie-
“ I soggetti diversi da quelli cui sono applicate le disposizioni del presente articolo possono chiedere il rimborso delle imposte pagate a seguito delle operazioni abusive i cui vantaggi fiscali sono stati disconosciuti dall’amministrazione finanziaria, inoltrando a tal fine, entro un anno dal giorno in cui l’accertamento è divenuto definitivo ovvero è stato definito mediante adesione o conciliazione giudiziale, istanza all’Agenzia delle entrate, che provvede nei limiti dell’imposta e degli interessi effettivamente riscossi a seguito di tali procedure.”
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dente esclusivamente l’accertamento della materia imponibile occulta ed il recupero delle relative imposte evase. 6. Il carattere indebito del risparmio fiscale elusivo o abusivo. – Infine, è di grande rilievo la norma che, per definire l’elusione, fa riferimento non al solo risparmio ma stabilisce che esso abbia carattere indebito, vale a dire assuma carattere di speciale illegittimità. Afferma infatti la disposizione in commento che il risparmio fiscale ottenuto tramite operazioni prive di sostanza economica è indebito in una delle due seguenti ipotesi: a) qualora i benefici, anche non immediati, vengano a realizzarsi in contrasto con le norme fiscali; b) qualora i benefici, anche non immediati, vengano a realizzarsi in contrasto con i principi dell’ordinamento tributario. Non è agevole dare una giustificazione all’introduzione o all’innesto creativo che nella nuova configurazione il carattere indebito del risparmio assume nell’ambito dell’art. 10 bis. Per meglio dire, non è agevole comprendere perché finisca per risultare indispensabile ai fini della configurazione dell’abuso o elusione la presenza del carattere indebito del risparmio, la cui connotazione si vedrà tra breve. Nelle precedenti formulazioni dell’istituto, questo elemento del carattere indebito del risparmio era totalmente assente. Nella formulazione racchiusa nell’art. 37 bis, ci si limitava a richiedere il requisito dell’aggiramento mediante una concatenazione più o meno artificiosa di atti. In esso risultava affermato che l’elusione consiste nei fatti, atti e negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi altrimenti indebiti. In questa enunciazione, l’elusione veniva a fondarsi essenzialmente nell’aggiramento della norma elusa da parte della norma elusiva. Ciò fa nascere degli interrogativi insolubili. Invero, per scendere nel particolare, se il risparmio fiscale è ottenuto violando frontalmente e senza aggiramenti di sorta i principi generali dell’ordinamento tributario, come è ora espressamente previsto dall’art. 10 bis, quale la ragione per incasellare il fenomeno non nell’ambito di una normale forma di violazione a scopo di evasione ma piuttosto in quella costituita dall’inutile e complicatissimo meccanismo dell’abuso o elusione? Si può ripetere lo stesso interrogativo a proposito dell’ulteriore disposizione sopra citata sotto la lettera a), nella quale il carattere indebito del risparmio si manifesta sotto forma di benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali. Orbene, se le operazioni che si
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vorrebbero incasellare come abuso del diritto o elusione comportano vantaggi ottenuti in aperto conflitto con le finalità delle norme fiscali, è perfettamente evidente che, anche in questo secondo caso, si assiste al fenomeno di una condotta di evasione scaturente dalla violazione di norme fiscali pertinenti. Perché scomodare il misterioso istituto dell’abuso per inquadrare un fenomeno che, puramente e semplicemente, si riduce ad un’evasione tributaria scaturente dalla violazione delle pertinenti norme che regolano il caso considerato? Il legislatore, con linguaggio lievemente impreciso, utilizza l’ espressione “in contrasto con le finalità delle norme fiscali”. Orbene, non pare dubbio che porre in essere atti, fatti, negozi che si pongono in conflitto ed in violazione con le finalità delle norme fiscali, altro non può significare se non un’aperta violazione delle finalità fiscali da parte dell’agire dei contribuenti. Le norme fiscali sono finalizzate ad assoggettare ad imposizione atti, fatti e negozi il cui fluire costituisce la sostanza stessa della vita economica. Perciò, se il comportamento dei privati viola le finalità fiscali, è perfettamente lecito definire il fenomeno come pura e semplice evasione tributaria. Evocare (o inventare) in questo contesto il fantasma onnipresente ed omnicomprensivo dell’abuso produce, in ultima analisi, il solo risultato di confondere le idee e di inventare istituti giuridici totalmente privi di causa. Queste riflessioni, in primo luogo evidenziano un grave fenomeno di impreparazione e di incapacità di inquadramento dei fenomeni che si vogliono normare. Anche per il legislatore o per i legislatori dovrebbe valere la notissima massima che sconsiglia di deliberare prima di conoscere e a noi sembra che chi ha posto mano alla riscrittura e alla manipolazione dell’art. 10 bis non avesse idee chiare sul fenomeno o sui fenomeni della vita reale da inquadrare nell’abuso del diritto o elusione tributaria. Ne è derivata una costruzione giuridica totalmente inidonea a realizzare gli scopi per i quali era stata concepita fin dai primi anni ’30 del secolo scorso. Tutto ciò è deplorevole perché non giova affatto alla certezza del diritto, impedisce un chiaro e trasparente impiego dell’istituto e, in definitiva, lascia irrisolta la disciplina di un fenomeno che affatica dottrina e giurisprudenza da circa 50 anni, a cavallo tra il secolo scorso e l’attuale. Dell’elusione si è cominciato a discutere in Italia a partire dalla fondazione della Scuola di Pavia e dagli studi dedicati a questo tema dallo stesso fondatore della Scuola, ossia dal prof. Benvenuto Griziotti. Altre nomenclature furono impiegate nella circostanza per designare lo stesso fenomeno, sia da parte dello stesso Griziotti che da altri studiosi. Per averne un quadro sufficientemen-
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te ampio e quasi completo si rinvia ad un nostro scritto apparso nel 2014 (9). Negli scritti griziottiani ed in altri lavori coevi o successivi, italiani o stranieri, l’elusione come fenomeno della vita e come istituto giuridico assume caratteri distintivi peculiari. Esso non si risolve mai in un puro e semplice fenomeno evasivo ma in un fenomeno strutturale fornito di connotazioni precise. Di talché, dovrebbe essere inibito al legislatore definire e disciplinare come elusione ciò che è totalmente carente dei caratteri strumentali di questo istituto e delle ragioni che ne giustificarono la nascita. In altri termini, la lettura dell’art. 10 bis mette in evidenza una costruzione giuridica che non sembra inglobare e possedere i caratteri ontologici dell’elusione, così come pensata e costruita dalla letteratura classica. La costruzione faticosamente creata con l’art. 10 bis racchiude disposizioni che sembrano codificare l’elusione come aggiramento di norme ma statuendo che l’elusore è tale se la sua condotta è indebita, ossia violatrice dei principi generali dell’ordinamento o delle finalità delle norme fiscali o delle logiche di mercato. Il concetto di elusione viene abbandonato e si ricade nella pura e semplice violazione delle norme di diritto tributario. Infine, il comma 13 dell’art. 10 bis afferma testualmente che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”. La disposizione appare sconcertante e si fonda sul travisamento del concetto di abuso come fattispecie finzionistica e non genuina. Invero, se tutte le fattispecie che abbiamo più sopra elencato ed incasellato nel concetto di abuso sono costituite da mistificazioni, falsificazioni ed artifici di variabile consistenza, appare fuori di ogni logica negare rilevanza penalistica a situazioni di tal natura, costituenti tutte forme di evasione tributaria connotate dalla falsificazione e quindi da comportamenti in sommo grado meritevoli di sanzione penale. Con l’art. 10 bis, il legislatore ha dunque creato un ircocervo, ossia un istituto confuso e scoordinato che ha in sé, in alcune disposizioni, i tratti caratteristici dell’elusione come aggiramento di norme ed, in altre, i tratti dell’abuso come violazione di norme ed evasione tributaria pura e semplice o attuata con strumenti finzionistici. In definitiva, il legislatore delegato non è stato in grado di attuare correttamente la legge di delega, è incorso in una palese violazione di essa (eccesso di delega) ed ha fallito il compito assegnatogli dal delegante di attuare la confluenza in uno schema giuridico unitario e coerente dell’abuso del diritto
(9)
Cfr G. Falsitta, Il principio della capacità contributiva, Milano, 2014, 213 ss.
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e dell’elusione fiscale. Fallimento del tutto ovvio, essendo incongruo ed innaturale tentare di accorpare e di unificare due istituti, quello dell’abuso e l’altro dell’elusione, che presentano connotazioni ontologiche radicalmente diverse.
Gaspare Falsitta
La crisi del binomio diritto-territorio e la tassazione delle imprese multinazionali Sommario: 1. Il diritto e la sua dimensione spaziale: le linee di un’evoluzione (o di un’involuzione?). – 2. Il difficile adattamento degli Stati nazione all’integrazione economica indotta dalla globalizzazione. – 3. La competizione fiscale e la reazione degli Stati: l’armonizzazione “indotta” e l’abbattimento del prelievo sui redditi più mobili. – 4. Le imprese multinazionali e la scoperta della relatività. – 5. All’inseguimento delle basi imponibili perdute: tutela del gettito o reazione scomposta? – 6. La longa manus dell’esterovestizione. – 7. La stabile organizzazione occulta tra equivoci e fantasmi. – 8. La crisi dei tradizionali criteri di collegamento del reddito al territorio dello Stato: verso la tassazione “unitaria” della nuova impresa globale? – 9. La soluzione in due tempi proposta della Commissione europea al problema della tassazione dell’economia digitale. – 10. Aspettando Godot: e intanto gli ordinamenti nazionali? Il presente lavoro vuole essere un contributo all’analisi delle modifiche indotte dalla globalizzazione nel rapporto tra diritto e territorio, sotto il profilo del diritto tributario e della tassazione delle imprese multinazionali. La globalizzazione ha reso permeabili le frontiere e messo in crisi gli Stati nazionali, sia sotto il profilo dell’esercizio della sovranità sul territorio, sia sotto il profilo del monopolio della produzione giuridica. La sovranità è “scivolata” dagli Stati nazionali alle forze economiche dei mercati; lo spazio non rappresenta più un limite, ma al contrario un’opportunità di localizzazione efficiente per tutti i soggetti che sono in grado di operare a livello multinazionale. Le imprese multinazionali hanno mutato la loro operatività; oggi l’aggancio fisico con il territorio non è più condizione necessaria per penetrare nel mercato. I mercati sono i nuovi territori; ed è su questi nuovi territori che gli Stati nazionali, con nuove regole, devono scendere per raccogliere le imposte. This essay aims to be a contribution to the analysis of the changes induced by globalization in the relationship between law and territory, in terms of tax law right the taxation of the multinational companies. Globalization has made the borders permeable and put the national States in crisis, both in terms of the exercise of sovereignty over the territory, and in terms of the monopoly of legal production. Sovereignty has “slipped” from national States to the economic forces of the markets; space is no longer a limit, but on the contrary an opportunity for efficient localization for all those who are able to operate at a multinational level. Multinational companies have changed their business; today, physical presence within the territory is no longer a necessary condition for penetrating the market. The markets are the new territories; and it is on these new territories that national States must go down to collect taxes with new rules.
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1. Il diritto e la sua dimensione spaziale: le linee di un’evoluzione (o di un’involuzione?). – Per tradizione, siamo stati abituati a pensare che il diritto abbia, e non possa non avere, una dimensione spaziale, che le norme prescrivano ai loro destinatari di tenere determinate condotte in determinati luoghi. Siamo stati abituati a pensare che esista un “dove” sia per la vigenza sia per l’osservanza delle norme: “un “dove applicativo” della norma e un “dove esecutivo” dell’obbligo che dalla norma discende” (1). Se nella storia moderna d’Europa (2) questa esigenza “spaziale” del diritto ha (o meglio, anticipando quanto si dirà dopo, “aveva”) trovato attuazione nella territorialità degli Stati, la globalizzazione ci ha riportato, per strade diverse, a un tempo precedente all’avvento degli Stati nazionali; a un tempo antecedente, dunque, all’affermazione del principio della statualità del diritto. Prima dell’avvento degli Stati nazionali, i rapporti tra gli uomini erano retti da diritti universali, non circoscritti da frontiere e territori. Non aveva conosciuto confini il diritto romano, sopravvissuto anche nell’età intermedia come diritto di natura o di ragione, anche se come fonte sussidiaria rispetto ai diritti particolari di classe o di status. Successivamente, era stata la lex mercatoria (3) a superare i confini e a diventare universale, realizzando l’unità del diritto nell’unità dei mercati: un diritto creato e imposto dalla classe mercantile, in forza delle sue consuetudini, degli statuti delle corporazioni, della giurisprudenza dei tribunali dei mercanti. La lex mercatoria prevaleva anche sul diritto romano quando una delle parti del rapporto fosse
(1) Così N. Irti, Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Riv. dir. civ., 2002, 165. Sulla persistente necessità di un “dove” del diritto cfr.: Id., Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, 2001, 3 ss.. (2) Diverso il discorso in altri Paesi (come ad esempio gli Stati Uniti) nei quali la produzione del diritto è sempre stata in mano a più attori e nei quali i privati hanno tradizionalmente dato un forte impulso all’evoluzione del diritto. Negli Stati Uniti, il diritto si è tradizionalmente evoluto attraverso il judge-made law, elaborato dalle Corti per comporre i conflitti di interesse che si andavano via via manifestando nelle trattative commerciali tra privatI: e in questo senso si è sempre parlato di facilitating law (cfr.: R.S. Summers - K.M. Clermont - R.A. Hillman - S.L. Johnson - J.J. Barcelo, Law: Its Nature, Functions and Limits, St. Paul, MInn., 1986, 533 ss.) (3) Cfr. per tutti: F. Galgano, Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale, Bologna1993; Id., Lex mercatoria e legittimazione, in Sociologia del diritto, 2005, nn. 2/3, 179 ss.; M. D’alberti, Poteri pubblici, mercati e globalizzazione, Bologna, 2008. Per una prospettiva storica sulle regole del commercio nell’antichità v. M. Cian, Le antiche leggi del commercio, Produzione, scambi, regole, Bologna, 2016.
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un commerciante; e cedeva solo di fronte al diritto canonico, anch’esso diritto universale della comunità dei fedeli (tanto è vero che i commercianti cristiani, soggiacendo al divieto canonico dell’usura e non potendo praticare il prestito a interessi, avevano lasciato quest’ultima attività agli ebrei) (4). È con la pace di Westfalia, il Trattato che chiude nel 1648 la Guerra dei Trent’anni, che si affermano gli Stati nazionali e il diritto perde la propria universalità. Ogni Stato nazionale, all’interno del suo ambito territoriale, si riconosce titolare unico del potere di dettare diritto: il diritto diventa la legge; le consuetudini, che erano state dominanti nell’età precedente, arretrano attestandosi sul gradino più basso nella gerarchia delle fonti (5). La “risoluzione” del diritto nella legge scritta dello Stato apre una divaricazione – che crescerà fino ad esplodere – tra il commercio, sempre più destinato a dilatarsi in ambiti internazionali, e il diritto, destinato all’opposto a chiudersi e frammentarsi nei diritti nazionali. Con gli Stati nazionali, è il territorio che individua il luogo di esercizio della sovranità, dando a ciascuno Stato la sua forma spaziale; è il territorio a collocare il diritto in una struttura fatta da confini che “rendono palesi gli ordinamenti” (6). E, naturalmente, dalla molteplicità dei territori statali, uno accanto all’altro, nasce il concetto di confine. Il confine separa e divide, determina e isola: rompe la continuità della terra e costituisce i luoghi. L’esclusività si risolve in un perentorio e ineludibile aut aut: o la sovranità di uno Stato o la sovranità di un altro; sullo stesso territorio non possono insistere, allo stesso tempo, due sovranità. Anche sotto il profilo tributario, “il carattere della territorialità si completa e si estrinseca nel principio di esclusività della legge stessa. Cioè nel territorio dello Stato trova applicazione solo la legge tributaria di quello Stato che esercita la sovranità sul territorio medesimo” (7). Questo aut aut della sovranità territoriale incontra una sola deroga, e la incontra per sua stessa e irrevocabile decisione: è la deroga del diritto internazionale e dei trattati internazionali. Ma si tratta, appunto, di deroghe in-
(4) Cfr. R. Saija, in Aa.Vv., Studi in memoria di Elio Fanara (a cura di U. La Torre - G. Moschella - F. Pellegrino - M.P. Rizzo - G. Vermiglio), Milano, 2006, tomo I, 752. (5) Cfr.: Aa.Vv., Manuale di diritto commerciale internazionale, a cura di U. Patroni Griffi, Milano, 2012, 59. (6) Cfr.: C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, trad. it. di E. Castrucci, Milano, 1991. (7) G.A. Micheli, Legge (dir. trib.), in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1973, 1092.
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ter nationes, a riaffermare la sovranità di molteplici Stati nazionali che, per convenienza o coazione, per interessi o ideali, possono poi anche decidere di autolimitarsi. Per tutto il Novecento, il monopolio della creazione giuridica per via legislativa resta dello Stato sovrano e il territorio nazionale segna una frontiera molto chiara all’esercizio della sovranità. Solo quando lo Stato si separa dal territorio per configurarsi come ordinamento giuridico, cioè come complesso di norme, anche ai fini fiscali si passa da una tassazione fondata sui soli tributi reali, caratterizzati dal collegamento fisico col territorio dello Stato, a una tassazione fondata anche su criteri personali di collegamento, idonei ad identificare su base personale (attraverso il criterio della residenza) quel legame tra ordinamento giuridico e soggetto passivo che giustifica l’imposizione. È questo il momento in cui la territorialità, ai fini fiscali, degrada da principio a mero criterio di tassazione (8): il territorio, da limite assoluto ai fini dell’individuazione del presupposto d’imposta (9), diventa mero criterio razionale, funzionale a determinare, in base al principio di capacità contributiva formulato nell’art. 53 Cost., la misura entro la quale può essere chiamato a contribuire chi, come i soggetti non residenti, intrattiene con l’ordinamento rapporti di limitata intensità (10). 2. Il difficile adattamento degli Stati nazione all’integrazione economica indotta dalla globalizzazione. – Ormai da qualche decennio la globalizzazione ha reso permeabili le frontiere e messo in crisi lo Stato nazione, sia sotto il profilo dell’esercizio della sovranità sul territorio, sia sotto il profilo del monopolio della produzione giuridica (11). La vita e il commercio si muovono più velocemente del diritto: se il diritto resta legato al territorio, è “stanziale”, l’economia
(8) Così C. Sacchetto, Territorialità (dir. trib.), in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 314. (9) Nel senso che si riteneva che tali presupposti dovessero necessariamente essere localizzati nel territorio dello Stato. (10) A.M. Gaffuri, La tassazione dei redditi di impresa prodotti all’estero, Milano, 2008, 231. (11) A ben guardare, la velocità del potere nella trasmissione delle informazioni e delle comunicazioni ha da sempre formato e deformato gli istituti giuridici: “basti ricordare il ruolo strategico che aveva nell’impero romano l’ufficio per la corrispondenza (cd. ab epistulis), incaricato di assicurare la tempestiva, efficiente ed efficace comunicazione all’esterno del principe; o la celebre idea di amministrazione napoleonica, come una catena continua di comando prova di interruzioni; oppure la posizione centrale delle poste e del servizio postale nella costruzione degli Stati contemporanei”; così L. Casini, Potere globale. Regole e decisioni
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varca i confini, non conosce luoghi, ma solo mercati. Il mondo globale è l’esatta negazione della delimitazione fisica di un territorio: si determina così un disallineamento progressivo tra lo spazio virtualmente sconfinato dell’economia e la delimitazione territoriale dei confini e delle sovranità statuali (12). La sovranità è “scivolata” dagli Stati nazionali alle forze economiche dei mercati, che in questo modo hanno finito per assumere quasi valenza politica (13): “il mercato globale non cerca oggi semplicemente – come sempre è avvenuto – di sfuggire alla regolazione politica, ma intende invece conformarla, occupando lo spazio della politica e della società” (14). La globalizzazione innesca un duplice processo di riassetto del dominio sui territori, una sorta di fuga dal diritto nazionale in senso centripeto e centrifugo: da un lato aumentano le spinte in senso federalista (15); dall’altro, e soprattutto in Europa, la spinta verso politiche comuni segna la retrocessione del potere statale a favore di strutture ad esso sovraordinate. La rete telematica contribuisce a generare uno spazio nuovo, al di fuori di
oltre gli Stati, Bologna, 2018, 12. (12) S. Giubboni, Confini della solidarietà. I modelli sociali nazionali nello spazio giuridico europeo, in Politica del diritto, n. 3 del 2011, 395. (13) Così S. Strange, The Retreat of the State. The Diffusion of Power in the World Economy, Cambridge, 1996. Sul tema v. anche, pur senza pretesa di completezza vista la sterminata bibliografia, S. Sassen, Losing Control? Sovereignty in the Age of Globalization, Columbia University Press, 1996; C. Amirante, Dalla forma Stato alla forma mercato, Torino, 2008; S. Cassese, Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli Stati, Bologna, 2016. (14) Cfr.: G. Scaccia, Il territorio fra sovranità statale e globalizzazione dello spazio economico, in Rivista dell’Associazione italiana dei Costituzionalisti, 3/2017, ove si richiama quanto preconizzato nelle lezioni di Michel Foucault (. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-1978), Milano, 2005) sul mercato che rivendica il potere di dare forma allo Stato e alla società. Sui nuovi spazi giuridici creati dalla globalizzazione cfr.: N. Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, 2001, 61 ss. (15) N. Brennen, Globalization as reterritorialization: the re-scaling of urban governance in Europe, in Urban Studies, 1999, 431 ss..; L. Ronchetti, Il nomos infranto: globalizzazione e costituzioni. Il limite come principio essenziale degli ordinamenti giuridici, Napoli, 2007; A. Di Martino, Il territorio: dallo Stato-nazione alla globalizzazione. Sfide e prospettive dello Stato costituzionale aperto, Milano, 2010. La stessa Unione europea ha giocato un ruolo importante nel processo di decentramento poiché, adottando politiche di finanziamento di Regioni di confine tra più Stati (Cross-border Regions), ha contribuito a creare nuovi spazi sganciati dai confini degli Stati nazionali: sul tema cfr.: M. Perkmann, Crossborder Regions in Europe: significance and drivers of regional Cross-border cooperation, in European urban and regional studies, 2003; 153 ss.; Id., Construction of New territorial Scales: a Framework and Case Study of the EUREGIO Cross-border Regions, in Regional Studies, 2007, 253 ss.
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ogni territorio e di ogni storia (16): un “non luogo” astratto e artificiale (17), nel quale si svolgono gli affari dell’economia mondiale e nel quale si producono redditi “over seas”, che riescono a galleggiare sopra i territori senza mai toccare terra, posto che i tradizionali criteri di collegamento del reddito con il territorio dello Stato non riescono a intercettarli. Lo stesso concetto di territorio viene sottoposto a un processo di astrazione, ridotto a un artificio tecnico; il territorio diventa “spazio”. Da questo punto di vista, non è forse un caso che i Trattati europei assegnino all’Unione il compito di creare non un territorio più largo e più vasto, ma uno “spazio senza frontiere interne” (18) deputato alle attività economiche. In questa prospettiva, lo Stato assume ormai un ruolo intermedio. Costretto a condividere la propria sovranità sia con realtà giuridiche sovranazionali (in primis, nel settore della fiscalità, l’Unione europea e l’OCSE) che con realtà giuridiche infranazionali (regioni, distretti, metropoli nelle quali si concentrano le risorse necessarie a gestire la dispersione geografica dei fattori produttivi), lo Stato nazionale appare compresso sia dall’alto che dal basso e conosce un inedito arretramento della propria potestà normativa. L’Unione europea mette la sua firma sull’evoluzione del rapporto tra territorio e sovranità degli Stati nazionali, tra diritto ed economia. L’integrazione europea rappresenta la forma più compiuta di erosione del fondamento territoriale del potere statuale in favore di una riorganizzazione più funzionale e de-territorializzata del potere pubblico al di sopra dei confini nazionali. Le istituzioni comunitarie comprimono la sovranità degli Stati membri, pur senza sostituirla con una sovranità propria: e non è un caso che alcuni studiosi (19) abbiano parlato negli anni ’90 dell’integrazione europea come del più emblematico case-study del c.d. spacchettamento della territorialità (unbundling of territoriality) come elemento caratterizzante della costruzione del moderno sistema statuale in Europa.
(16) Cfr.: S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, Roma-Bari, 2003; M.R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Roma-Bari, 2015. (17) Cfr.: N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004. (18) Cfr.: P. Barcellona, Nuove frontiere del diritto: dialoghi su giustizia e verità, Bari, 2001, 37. (19) J.G. Ruggie, 1993, Territoriality and beyond: Problematizing Modernity in International Relations, in International Organization, vol. 47, n. 1 (Winter, 1993), 139 ss., the MIT Press. Sul tema successivamente cfr.: C.K. Ansell - G. Di Palma, Restructuring Territoriality: Europe and the United States Compared, Cambridge University Press, 2004
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Come già rilevato, il diritto comunitario conosce spazi, non territori; e quando parla di territori, lo fa attraverso le lenti dei principi di libertà di stabilimento e di non discriminazione (20). Il diritto comunitario, quale motore forse inconsapevole del ritorno alla lex mercatoria, usa uno strumentario giuridico diverso da quello tradizionale e ricorre sempre più spesso a strumenti di soft law (21): se sono le forze dei privati a dettare le regole delle transazioni commerciali, anche il nuovo spazio globale deve governare il mercato con nuove regole, distanti dalle categorie giuridiche classiche e compatibili con la nuova realtà economica: da qui il ricorso alle linee guida, alle direttive cornice, alle regole di condotta. A ben guardare, però, la globalizzazione che mette in crisi gli Stati sovrani, più che mettere in crisi il diritto ne moltiplica in realtà le fonti. Al diritto dello Stato nazione si aggiungono il diritto dell’Unione europea, le norme sui diritti fondamentali prodotte dalla CEDU, la lex mercatoria creata dai nuovi percorsi del mercato, definita come “il diritto transnazionale delle transazioni economiche, il più riuscito esempio di diritto globale senza Stato” (22). Sotto la spinta della concorrenza, le istituzioni giuridiche tradizionali reagiscono alla cieca, esasperando la produzione di norme giuridiche (23); e non comprendono che in realtà queste tante, troppe norme
(20) La Corte di Giustizia si confronta, per la prima volta, con il principio di territorialità nella sentenza sul caso Futura del 1997, alla quale seguono poi le sentenze sui casi Bosal (2003), Manninen (2004) e Marks&Spencer (2005) e comincia a individuare, quali deroghe al principio di territorialità, dapprima il principio di proporzionalità e poi anche il principio di capacità contributiva. (21) Ne è esempio assolutamente emblematico il Country by Country Reporting, affermatosi proprio attraverso strumenti di soft law. Questo regime di rendicontazione, in base al quale i gruppi con fatturato non inferiore a 750 milioni di euro devono comunicare i dati relativi alla propria presenza e organizzazione a livello globale alle autorità fiscali dello Stato dell’ultimate company (autorità che, a loro volta, dovranno inoltrare le informazioni ricevute a tutti gli Stati nei quali il gruppo abbia localizzato stabili organizzazioni o società controllate), nasce dal Report dell’Action 13 BEPS, per poi essere introdotto all’interno dell’Unione europea dalla Direttiva DAC 4 (cioè la Direttiva 2016/881 del Consiglio del 25 maggio 2016 recante modifica della Direttiva 2011/16/UE sulla cooperazione amministrativa per quando riguarda lo scambio automatico obbligatorio di informazioni nel settore fiscale) e, in Italia, dalla legge di stabilità 2016. (22) G. Teubner, Global Bukowina: Legal Pluralism in the World Society, in Id., Global Law without a State, Dartmouth, 1997, trad. it.. (23) La crisi identitaria del diritto degenera in un affastellamento di norme che “divenute meramente convenzionali, non riposano su un dato oggettivo, ma si riducono a merce di scambio” tra soggetti alla ricerca di una temporanea composizione nella loro lotta
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finiscono per svuotarsi di significato e si riducono a mera impalcatura, uno scheletro destinato ad essere riempito, secondo una nota immagine (24), da “una vegetazione tropicale di nuove strutture giuridiche”, rappresentate da istituti di soft law, codici di comportamento, strumentari professionali elaborati dalle law firms internazionali (25) e, più in generale, “regole di condotta che, in linea di principio, non sono dotate per legge di forza vincolante, ma che, nondimeno, possono produrre effetti pratici” (26). È, di nuovo, il passaggio dalla voluntas del legislatore alla prudentia dei dottori (27): la strada che conduce all’”affermazione di espertocrazie mercenarie, partigiane e avvocatesche, che sfruttano strategicamente le opportunità e le risorse di una litigation society” (28). Il nuovo spazio globale esprime da solo il proprio diritto; e spesso costruisce e propone regole che altro non sono che il risultato dell’azione coordinata delle forze economiche egemoni. 3. La competizione fiscale e la reazione degli Stati: l’armonizzazione “indotta” e l’abbattimento del prelievo sui redditi più mobili. – In un contesto mutato, nel quale lo spazio non rappresenta più un limite, ma al contrario un’opportunità di localizzazione efficiente per tutti i soggetti che sono in grado di operare a livello multinazionale, la competizione fiscale aumenta e aumentano di conseguenza le situazioni di potenziale conflitto tra autonome sovranità nazionali; al punto che diventa talvolta necessario scegliere un luogo “artificiale” che permetta di individuare il diritto applicabile e il giudice competente. In materia di imposte sui redditi, il nuovo contesto genera effetti diversi a livello di Stato nazione, a livello europeo e a livello internazionale.
per la ricchezza e il potere. Così G. Guerzoni, La crisi giuridica e i suoi effetti sull’uomo in un contesto di indifferenziato pluralismo etico, in Quinto Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo. La crisi giuridica ovvero l’ingiustizia legale, a cura di G. Crepaldi e S. Fontana, Siena, 2012, 57. (24) Cfr.: A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano, 1997, 136. (25) Emblematico in tal senso il ruolo delle law firms statunitensi che si contendono “il mercato dell’autorità giuridica”; cfr.: Y. Dezalay, I mercanti del diritto, Milano, 1997. (26) Cfr.: F. Snyder, The Effectiveness of European Community Law; Institutions, Processes, Tools and Tecniques, in Modern Law review, 1993, 19. (27) Cfr.: T. Schmitz, Globalizzazione, diritto internazionale, popolo e Stato, in The federalist, n.3/2007, 207 (28) Cfr.: P.P. Portinaro, Oltre lo Stato di diritto. Tirannia dei giudici o anarchia degli avvocati?, in P. Costa e D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano, 2003, 397-398.
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Come è stato osservato, gli Stati nazionali cercano di “mantenere le proprie irrequiete multinazionali a casa e di attirare le imprese straniere fornendo un ambiente economico favorevole” (29); e, in questa situazione di competizione tra ordinamenti – che anche in Europa ha avuto la meglio rispetto all’idea di un governo comunitario della materia (30) – le multinazionali finiscono per intrattenere con gli Stati relazioni complesse, fino a guidare o almeno ad orientare i percorsi della nuova giuridicità. Quegli stessi Stati nazione che un tempo avevano il potere di assoggettare la realtà ai loro paradigmi fiscali, adesso devono piegare quegli stessi paradigmi per adattarli alla nuova realtà. A livello degli Stati nazionali tendono ad affermarsi sistemi di regole che conducono a ridurre le aliquote nominali dell’imposta sulle società e ad allineare verso il basso l’imposizione effettiva sul reddito d’impresa; ad ampliare le basi imponibili a danno dei contribuenti “immobili”, cioè di quei contribuenti che per scelta o necessità restano ancorati a un territorio delimitato (piccole imprese); a ridurre il prelievo sulle componenti mobili della produzione (capitale e interessi). È proprio questo il percorso attraverso il quale l’armonizzazione che il trattato istitutivo dell’Unione europea circoscriveva e tuttora circoscrive al settore delle imposte indirette tende ad affermarsi anche nel diverso settore delle imposte sui redditi, seppure indirettamente, quale effetto della globalizzazione dei mercati. A livello internazionale, gli Stati cercano di governare i fenomeni della globalità attraverso modelli di cooperazione che compongano i possibili conflitti tra le sovranità nazionali e superino anche i limiti posti dal carattere bilaterale delle relazioni interstatali (fondate sui trattati contro le doppie imposizioni): da qui la diffusione di accordi multilaterali e in questa stessa prospettiva il tentativo di ipotizzare, per le multinazionali, un sistema opzionale di tassazione dei redditi, che si affianchi a quello dei singoli Paesi (come nel caso della discussa proposta di direttiva sulla Common Consolidated Corporate Tax – CCCTB, che verrà richiamata anche in seguito).
(29) (30) 119 ss.
Cfr.: così R. Dore, Un commento, in Stato e mercato, 1997, 49. Cfr.: S. Biasco, I danni della concorrenza fiscale in Europa, in Rass. trib., 2015,
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4. Le imprese multinazionali e la scoperta della relatività. – In questo mutato contesto, anche le imprese multinazionali hanno mutato la loro operatività. La facilità di superare i confini nazionali, la possibilità di delocalizzare la produzione della ricchezza e di scomporre i processi produttivi, dislocandoli in diverse parti del mondo, hanno consentito ai soggetti che operano a livello internazionale di superare tutte le precedenti barriere normative e fiscali. Come è stato osservato (31) “l’identità di spazio e tempo, con la cui dimostrazione Einstein ha rivoluzionato la fisica, mostra improvvisamente i suoi effetti anche nel diritto: le comunicazioni ‘in tempo reale’ hanno fatto perdere di significato le delimitazioni territoriali, che sono diventate anzi un ostacolo al funzionamento del mercato. La delocalizzazione della produzione, la snazionalizzazione delle imprese, l’’outsourcing’ di segmenti di produzione o di servizi in paesi in via di sviluppo, la smaterializzazione della ricchezza ridotta a moneta elettronica che si muove per via telematica, sono tutti fenomeni conseguenti che hanno reso possibile la circolazione dei fattori economici attraverso i confini, lacerando le barriere confinarie, normative, fiscali, sindacali…”. “Nella più vecchia economia di massa, la maggior parte dei prodotti, al pari delle aziende che li avevano originati, aveva nazionalità ben precisa. Indipendentemente dal numero di confini internazionali attraversati, non esistevano dubbi sul loro Paese di origine, il cui nome normalmente era stampigliato sul prodotto stesso” (32). Le imprese che avessero voluto espandere il proprio mercato di sbocco in Paesi diversi da quelli della loro residenza erano di fatto costrette, anche dall’esistenza dei dazi doganali e dei rischi di cambio, a trasferire su quei mercati parte della loro produzione, riproducendo per intero sui nuovi territori di localizzazione la catena produttiva già presente nel Paese di residenza. La nozione di stabile organizzazione, quale criterio di collegamento per assoggettare a tassazione il reddito prodotto da un’impresa in un Paese diverso da quello della sua residenza fiscale, nasce in un’economia “fisica”, basata su beni tangibili, lontanissima dall’attuale economia immateriale degli intangibles (33). Ma c’è di più: le regole di fiscalità internazionale
(31) R. Bin, Ordine giuridico e ordine politico nel diritto costituzionali globale, Relazione svolta al Convegno Ordine giuridico e ordine politico: esperienze lessico e prospettive, Trento, 24-25 novembre 2006. (32) Così R. Reich, L’economia delle nazioni, Milano 1993, 127. (33) Sulla rivoluzione silenziosa che caratterizza le economie avanzate, il cui investimento primario è rappresentato dagli intangibles, si rinvia al recente saggio di J. Haskel
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basate sulla residenza fiscale e sulla stabile organizzazione proteggevano in origine proprio gli Stati europei produttori e venditori di beni e servizi, rispetto agli Stati di destinazione e sbocco dei loro prodotti. Oggi però l’aggancio fisico con il territorio non è più condizione necessaria per penetrare nel mercato: le imprese multinazionali non moltiplicano le catene produttive per il numero dei territori nei quali identificano un mercato, ma specializzano le diverse fasi della loro attività, distribuendole tra le società del gruppo, ciascuna delle quali diventa responsabile di una sola fase della complessiva attività d’impresa. I prodotti, una volta ultimati, sono destinati ad essere venduti in un mercato globale, che non risponde più ai vecchi territori. Ormai sono davvero pochi i prodotti connotati da una nazionalità precisa; presto forse non si potrà più parlare di prodotti italiani o di imprese italiane (34). L’arretramento del ruolo dei territori è cominciato molto tempo fa: la curva discendente della parabola è forse cominciata proprio quando l’importanza dei territori era al suo culmine, cioè quando le imprese a operatività multinazionale, sotto l’egida dalle libertà comunitarie, hanno imparato ad approfittare della concorrenza resa possibile dal mercato delle tasse, prendendo a delocalizzarsi per sfruttare anche le più piccole differenze spaziali legate non solo al livello di pressione fiscale, ma anche ai livelli salariali e alle tutele del lavoro, alla presenza di infrastrutture, alla vicinanza a mercati importanti, agli eventuali incentivi governativi. Le imposte sui redditi sono diventate un fattore di competizione, una nuova commodity offerta sul mercato. Il passaggio successivo è stato rappresentato dal completo sganciamento della produzione del reddito dai territori. I soggetti economici di medie e grandi dimensioni oggi si muovono in uno spazio senza frontiere, che non coincide più con il territorio degli Stati nazionali, ma è un nuovo territorio privo di fisicità, sul quale i singoli Stati hanno difficoltà ad esercitare la propria sovranità impositiva. Per questa ragione le norme nazionali appaiono inadeguate e sempre più spesso devono essere concepite come internazionali, essendo emanazione di organismi sovranazionali (OCSE, UE) o di diritto uniforme (pensiamo alle convenzioni contro le doppie imposizioni elaborate sul modello OCSE).
- S. Westlake, Capitalism without capital. The rise of the intangible economy, Princeton University Press, 2018. (34) Sulle nuove modalità di business delle imprese cfr.: Assonime, Note e studi n. 17 del 2016 e n. 15 del 2017.
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Si è creato una sorta di limbo, di spazio intermedio rispetto ai territori statali, contraddistinto dall’assenza della sovranità statale, nel quale galleggia una nuova tipologia di super-contribuenti disancorati dai territori statali; basti pensare ai casi Amazon, Google, Apple, Starbucks. Nascono basi imponibili senza territorio, all’apparenza prive di soggezione impositiva; i profitti delle attività di questi super-contribuenti riescono a viaggiare in una bolla “overseas” dalla quale sembra non debbano mai precipitare a terra. Lo Stato nazione è ormai troppo piccolo per intercettare fenomeni economici che si sviluppano su scala mondiale e troppo grande per governare in modo efficiente i fenomeni locali (35). I mercati sono i nuovi territori; ed è su questi nuovi territori che gli Stati devono scendere per raccogliere le imposte. Ma è impresa difficile: un tempo era la Chiesa romana a riscuotere le imposte sopra i territori promettendo il paradiso; ma oggi non esistono più macchine religiose o politiche in grado di fare altrettanto e con altrettanta efficacia. Lo stesso Benedetto XVI nella Caritas in veritate (37) afferma che “Forse un tempo era pensabile affidare dapprima all’economia la produzione di ricchezza per assegnare poi alla politica il compito di distribuirla. Oggi tutto ciò risulta molto più difficile, dato che le attività economiche non sono costrette entro limiti territoriali, mentre l’autorità dei governi continua ad essere soprattutto locale”. Le imprese transnazionali sono diventate isole di capitali erranti alla ricerca delle migliori opportunità di localizzazione; e sono proprio questi contribuenti globali a mettere in competizione tra di loro gli ordinamenti giuridici. Di frequente il reddito viene concepito in un luogo e prodotto in un altro e i profitti sono dirottati legalmente verso subsidiaries insediate in Paesi, spesso europei, disposti a concordare con i contribuenti regimi fiscali di favore, poiché puntano, più che sulle entrate fiscali potenziali, sulle esternalità (ad esempio in termini di occupazione) che l’insediamento della sede operativa di una multinazionale può garantire (36). Emblematico il
(35) In questo contesto i tradizionali strumenti dell’imposizione personale e progressiva si rivolgono fino a produrre effetti contrari a quelli inizialmente voluti: la parte più sofisticata della ricchezza sfugge ai territori nazionali, la parte meno sofisticata resta intrappolata sul territorio e su di essa si concentra il peso della progressività dei sistemi fiscali. (36) Come osserva S. Biasco, I danni della concorrenza fiscale in Europa, cit., “Le multinazionali usano i prezzi (e la locazione legale) delle transazioni interne per attribuire un basso margine di profitto alle attività in paesi ad alta tassazione e dove hanno una quota significativa di mercato, ma che risultano solo importatori e consumatori del bene intermedio.
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caso dell’Irlanda, dell’Olanda, del Lussemburgo, teste di ponte negli ultimi decenni per tutte le multinazionali statunitensi (37) alla ricerca di un deciso abbattimento del prelievo fiscale, ottenuto sfruttando sia le asimmetrie giuridiche e fiscali tra i diversi ordinamenti sia il network di convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni stipulate dai citati Paesi europei (38). Il mercato unico, da questo punto di vista, si è rivelato un campo minato. Le imprese multinazionali collocano ormai tipicamente le fasi della produzione negli spazi in grado di assicurare profitti maggiori e dunque prevalentemente nei Paesi terzi in cui è possibile usufruire di manodopera scarsamente qualificata, ma a basso costo; le attività decisionali restano localizzate nei paesi più ricchi; i profitti vengono opportunamente canalizzati verso Paesi a bassa fiscalità (39) (40).
Potenzialmente dirigono i profitti nel paese dove è insediata l’unità operativa, ma da questo eseguono pagamenti deducibili a sussidiarie create ad hoc per prestiti, uso del marchio o dei brevetti o altri servizi collocate in paradisi fiscali a bassa o nulla tassazione. Inutile dire che l’headquarter sarà in Paesi, quali Lussemburgo, Olanda o Irlanda, dove la tassazione in origine sia bassa (talvolta concordata a priori), dove non è prevista ritenuta alla fonte su pagamenti per servizi immateriali all’estero, né la pratica sia messa in discussione quando la filiale è incorporata”.. (37) Ma il fenomeno ha origini lontane nel tempo, se è vero che il Presidente Kennedy, già negli anni ’60, invia al Congresso questo messaggio sulla tassazione “Recently, more and more enterprises organized abroad by American firms have arranged their corporate structures – aided by artificial arrangements between parent and subsidiaries regarding intercompany pricing, the transfer of patent licensing rights, the shifting of management fees, and similar practices which maximize the accumulation of profits in tax haven – so as to exploit the multiplicity of foreign tax systems and international agreements in order to reduce sharply or eliminate completely their tax liabilities both at home and abroad” (J.F. Kennedy, Special Message to the Congress on Taxation, April 20, 1961). (38) Al riguardo, dobbiamo abbandonare la confortante visione per cui accanto ad una grande maggioranza di Paesi “normali” vi sarebbero poche Repubbliche dei Pirati, pronte a dare rifugio a pratiche illecite. Nel mondo globalizzato anche la competizione è globale; non è dunque infrequente che attività e strutture offshore siano presenti in Paesi a fiscalità ordinaria a noi vicini (come la Gran Bretagna, il Portogallo, i Paesi Bassi, il Lussemburgo o l’Irlanda) o trovino il modo di insediarsi negli “interstizi tra le giurisdizioni” (cfr.: N. Shaxson, Le isole del tesoro. Viaggio nei paradisi fiscali dove è nascosto il tesoro della globalizzazione, Milano, 2012, 15). (39) E, a pensarci bene, proprio questa notazione può considerarsi alla base della presunzione di esterovestizione prevista, nel nostro ordinamento, dall’art. 73, comma 5-bis e seguenti, del TUIR. Sul punto si rinvia al successivo par. 6. (40) Robert Reich, economista americano, nel suo libro L’economia delle nazioni Come prepararsi al capitalismo del duemila, Il sole 24 ore, 2000, faceva, già diversi anni fa, un
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Da parte delle imprese, si tratta di un comportamento del tutto comprensibile: il contesto economico particolarmente critico degli ultimi anni ha esposto i gruppi multinazionali a una riduzione dei profitti e ciò li ha indotti a riorganizzare al meglio la loro struttura per contenere i costi, tra cui quello fiscale. Sempre più spesso i gruppi multinazionali centralizzano per aree geografiche le strutture di produzione e vendita, localizzano l’unità decisionale e strategica di produzione e/o distribuzione in un unico Paese e trasformano le controllate estere in unità operative incaricate della vendita e della distribuzione del prodotto a ridotto rischio d’impresa (spesso senza obbligo di magazzino o stoccaggio, senza rischio credito o cambio) se non addirittura in unità operative incaricate di attività di marketing e di consegna di vendite direttamente concluse in Italia dall’estero. Il gruppo multinazionale tende a muoversi, in altri termini, come un’impresa unica, anche se segmentata su più territori, dislocati in Stati diversi. Spesso i beni e i servizi venduti hanno prezzi di listino decisi centralmente dalla capogruppo per i vari Paesi e anelastico rispetto alla tipologia del cliente o alla rilevanza dell’ordine; e in queste ultime ipotesi, il rischio che la società controllata, svuotata di rischi e funzioni, si riduca ad una mera stabile organizzazione occulta della società estera potrebbe in effetti sussistere. Non è possibile però – all’interno di un gruppo multinazionale – fondare sulla mera nozione di direzione e controllo l’attrazione delle controllate nello Stato della casa madre. Il potere di direzione e controllo, che per definizione spetta alla capogruppo, non va confuso con la sede di direzione effettiva. La stessa Cassazione, nelle sue più pronunce (41), si esprime chiaramente in questo senso, osservando che si arriverebbe a conclusioni aberranti ove si volesse identificare tout court la sede amministrativa della società controllata con il
esempio diventato famoso: il cittadino americano che in quegli anni comprava una Pontiac dalla General Motors era inconsapevolmente coinvolto in una transazione internazionale. Dei 10.000 dollari pagati alla General Motors, 3.000 andavano alla Corea del Sud per i montaggi fatti da operai generici, 1750 al Giappone per i componenti avanzati; 750 alla Germania per la progettazione stilistica e tecnica, 400 a Taiwan, Singapore e Giappone per l’acquisto di piccoli componenti, 250 alla Gran Bretagna per servizi pubblicitari e di marketing, 50 a Irlanda e Barbados per l’elaborazione dei dati, meno di 4.000 restavano in America (agli strateghi della General Motors, agli avvocati e ai banchieri di New York, alle lobbies di Washington, ai lavoratori americani e agli azionisti della General Motors, sempre più spesso rappresentati da cittadini di nazionalità straniera). (41) Il riferimento è alla nota sentenza Dolce e Gabbana, la n. 43809 del 2015; la si veda pubblicata in Focus Assonime del 13 novembre 2015.
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luogo nel quale si assumono le decisioni strategiche, e cioè con la sede della controllante, in contrasto con le ragioni stesse della politica del gruppo e le esigenze sottese al suo controllo. Gli Stati nazionali, compreso il nostro, reagiscono dichiarando guerra alle web company statunitensi, accusate di erodere le basi imponibili nazionali dei Paesi europei (42); contestano gli schemi di triangolazione internazionale che per decenni hanno consentito a queste società di non rimanere incise dalla corporate tax dei Paesi nei quali realizzavano i loro profitti, poi dirottati verso giurisdizioni offshore. Tutti insieme, gli Stati nazionali cercano inoltre di elaborare nuovi criteri di localizzazione del reddito d’impresa che, più efficacemente della vecchia nozione di stabile organizzazione, consentano di intercettare questi profitti “sospesi”, scollegati dai territori degli Stati nazionali, e di riportarli a terra. Nel 2012, la Commissione bilancio del Regno Unito convocava Google e Amazon per chiedere chiarimenti sulle loro strategie fiscali e in Italia. Alla fine dello stesso anno, in Italia veniva presentata una interrogazione al Ministero dell’Economia per sapere “quali iniziative, anche di carattere normativo, intenda adottare nei riguardi di queste nuove forme di transazione dell’economia digitale, che, sfruttando ingegnerie finanziarie offerte da evidenti lacune nella normativa nazionale e internazionale, riescono a non pagare tasse nel nostro Paese”. Il resto è storia recente e a tutti nota. Nel nostro ordinamento, la Guardia di finanza ha concluso in un passato ancora recente numerose verifiche nei confronti delle web companies statunitensi contestando alle filiali italiane di queste ultime di svolgere, in aggiunta alle attività meramente ausiliarie e preparatorie a favore delle consociate estere, anche funzioni di primaria importanza per il business del gruppo; funzioni che – come vedremo nel successivo paragrafo 7 – hanno dato luogo dapprima a contestazioni di stabile
(42) Ma, per alcune notazioni in controtendenza rispetto alle valutazioni europee sull’erosione delle loro basi imponibili da parte delle digital companies e sulla conseguente necessità di introdurre una web tax si legga M. Bauer, Digital Companies and Their Fair Share of Taxes: Myths and Misconceptions, ECIPE (European Centre for International Political Economy), Occasional Paper n. 3/2018. Secondo tale Autore, i dati numerici sul gettito delle imposte dirette rivelerebbero che la digitalizzazione dell’economia non ha impattato in modo troppo deciso sull’erosione delle basi imponibili europee, nel senso che eccezion fatta per poche imprese digitali di maggior dimensione che in effetti sono riuscite a ridurre sensibilmente il loro tax rate - dai dati complessivi non emergono differenze decisive tra le aliquote di tassazione effettiva delle imprese digitali e le aliquote di tassazione effettiva delle imprese tradizionali.
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organizzazioni “occulte”, spesso poi derubricate in contestazioni di transfer pricing, legate all’esigenza di remunerare con profitti molto più significativi dei modesti compensi dichiarati, e tassati, i supposti servizi ausiliari forniti dalle subsidiaries. In realtà, l’assedio delle Amministrazioni fiscali nazionali alle multinazionali del web sembra aver prodotto fino ad oggi frutti rachitici: poco più di un obolo è in realtà quel che gli uffici delle entrate raccolgono, pur sventolando sulla stampa gli accertamenti con adesione di alcune di queste multinazionali. Bisogna trovare strumenti nuovi per affrontare le nuove modalità di business delle imprese multinazionali, tenendo nella dovuta considerazione la circostanza che tali imprese riescono oggi a vendere beni e servizi sul mercato globale in assenza di stabili organizzazioni, con la conseguenza di sottrarsi alla tradizionale “calamita” impositiva rappresentata dalla sede fissa localizzata sui territori nazionali. Si ripropone la dialettica e la sovrapposizione tra principio di residenza e principio di territorialità, ma a prospettiva totalmente invertita. La priorità non è più quella di combattere la doppia imposizione sui flussi di ricchezza transnazionali (come ai tempi in cui si svilupparono le convenzioni stipulate sulla base del modello OCSE (43)); al contrario, è quella di evitare che soggetti economici operanti a livello globale, non si limitino a spostare le basi imponibili per assoggettarle a un prelievo meno oneroso, approfittando delle differenze di trattamento garantite dai vari sistemi fiscali, ma cerchino di fare “sparire” le basi imponibili approfittando dei “buchi neri” originati dalle asimmetrie e dalle imperfezioni dei sistemi fiscali nazionali. La nuova economia digitale ha senza dubbio accentuato la deterritorializzazione del diritto (44), imponendo di ripensare alle fonti della ricchezza,
(43) Come noto, l’attuale modello di imposizione dei redditi delle imprese multinazionali, basato sulla localizzazione di una stabile organizzazione quale requisito necessario perché lo Stato della fonte possa tassare l’impresa non residente, deriva da scelte fatte nel secolo scorso (prima in sede di Società delle nazioni e poi in sede OCSE) e traghettate dalle economie più avanzate: economie che, fissando il requisito della stabile organizzazione, “proteggevano” le loro imprese esportatrici dalla tassazione sui mercati esteri. Oggi, con la globalizzazione e l’economia digitale, quello stesso criterio di tassazione che originariamente proteggeva le economie più avanzate si rivela un boomerang, consentendo alle imprese digitali, che ben possono operare in assenza di stabili organizzazioni, di evitare la tassazione nei mercati di sbocco dei loro prodotti. (44) Cfr.: D.R. Johnson - D.G. Post, Law and borders: the rise of law in cyberspace, Stanford Law Review, 1996, 1367 i quali affermano: “The rise of the global computer network is destroying the link between gographical location and: (1) the power of local governments to assert control obver online behavior; (2) the effects of online behavoir on individual or
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alla catena di creazione del valore, ai presupposti di imposta e alla ripartizione dei diritti impositivi tra le giurisdizioni. Già il Rapporto OCSE del 2005 sulla tassazione dell’e-commerce proponeva di adottare, in sostituzione del criterio di libera concorrenza nelle transazioni intercompany, il principio della ripartizione dei profitti dell’intero gruppo tra i vari Paesi (fonte e residenza) in base a una formula matematica prestabilita (il c.d. formulary apportionment), che tenesse conto di tutti i fattori che concorrono a creare la ricchezza (i salari, le vendite, gli asset) (45). Il passaggio a un sistema di questo tipo, che già in nuce considerava le multinazionali come un unico contribuente operante in più giurisdizioni, avrebbe avuto l’effetto di superare, in un sol colpo, sia il criterio di tassazione nello Stato della residenza che quello di tassazione nello Stato della fonte: il reddito globale prodotto dall’impresa multinazionale sarebbe stato infatti ripartito, ai fini della tassazione, tra i diversi ordinamenti coinvolti non più sulla base di criteri di collegamento con i rispettivi territori, ma in base ai fattori scelti per allocare il reddito globale. Si trattava, tuttavia, di una soluzione di complessa attuazione perché richiede l’accordo e il coordinamento tra le giurisdizioni su criteri di determinazione di questo reddito globale e, successivamente, sui criteri per ripartirlo tra le diverse giurisdizioni. E non è un caso che su questo accordo si sia arenata anche la prima proposta di direttiva europea sulla CCCTB (la base imponibile comune e consolidata delle imprese europee) della quale si parlerà più avanti. 5. All’inseguimento delle basi imponibili perdute: tutela del gettito o reazione scomposta? – I casi Apple, Google, Starbucks ci hanno fatto familiarizzare con le modalità con le quali le imprese multinazionali, negli ultimi
things; (3) the legitimacy of the efforts of a local sovereign to enforce rules applicable to global phenomena; and (4) the ability of physical location t ogive notice of which sets of rules apply. The Net thus radically subverts a system of rule-making based on borders between physical spaces, at least with respect to the claim that cyberspace should naturally be governed by territorially defined rules.” (45) Per un approfondimento del tema del formulary apportionment per la tassazione delle imprese multinazionali e per un’analisi dei problemi di coordinamento che esso comporta cfr.: Avy Yonah, S. Reuven, Between Formulary Apportionment and the OECD Guidelines: a Proposal for Reconciliation, in Law & Economics Working Papers Archive 2003-2009, University of Michigan Law School, Year 2009; Id., Formulary Apportionment and International Tax Rules, in Taxing Multinational Enterprises as Unitary Firms, edited by S. Picciotto, 2017, 67-74, Brighton, UK, Institute of Development Studies, 2017.
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20 anni, sono riuscite a ridurre pesantemente, e senza violare principi e norme fiscali, i loro oneri fiscali complessivi. Sappiamo che le imprese che operano a livello internazionale hanno avuto tradizionalmente diversi strumenti a disposizione per graduare la loro presenza sui mercati esteri: potevano rimanere imprese esportatrici, limitando il loro approccio con l’estero alla ricerca di clienti internazionali (trading with a country); potevano localizzare all’estero una loro stabile organizzazione o penetrare ancor più profondamente sui mercati esteri costituendovi società controllate (trading in a country) (46). Sappiamo anche che i mercati esteri sono oggi facilmente raggiungibili anche da un’impresa che voglia espandere la propria attività al di là del proprio Paese di residenza fiscale senza necessariamente avere all’estero una presenza fisica. I casi delle multinazionali sopra citate insegnano che la migliore modalità per ridurre al massimo i carichi fiscali complessivi consiste oggi nello sfruttare al meglio le asimmetrie tra sistemi fiscali e legali dei diversi Paesi di residenza delle società del gruppo; molto spesso con l’appoggio di una o più giurisdizioni fiscali compiacenti, anche all’interno dell’Unione europea. È naturale che le basi imponibili cerchino di allocarsi presso gli ordinamenti fiscali in grado di garantire loro trattamenti meno onerosi; ed è altrettanto evidente che per i paesi industrializzati, presso i quali rimangono elevati la spesa pubblica e dunque il livello impositivo, questa tendenza faccia scoppiare la tempesta perfetta: le basi imponibili si spostano, mentre la spesa sociale rimane elevata; il sistema fiscale dei Paesi industrializzati entra in loop. La digitalizzazione dell’economia ha certamente enfatizzato il fenomeno: come già osservato, le multinazionali digitali riescono a produrre redditi in Paesi diversi da quelli della loro residenza fiscale senza necessariamente localizzare in tali diversi Paesi una loro stabile organizzazione (47). Po-
(46) Per una facile comprensione dei diversi gradi di internazionalizzazione delle imprese e dei problemi fiscali propri di ciascuno di tali gradi sia consentito rinviare a: L. Carpentieri - R. Lupi - D. Stevanato, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, ed. Il Sole 24 ore, 2003. (47) Da questo punto di vista, concordo con chi ha scritto che “le basi imponibili vengono allocate secondo le leggi esistenti e il diritto tributario internazionale, non in base agli umori delle opinioni pubbliche e alle esigenze di gettito dei governi. Se manca una stabile organizzazione, come oggi la stessa è definita in sede Ocse e nei singoli trattati, la giusta quota da dichiarare è pari a zero. Su tali aspetti è perciò del tutto improprio parlare di un’elusione delle regole del gioco: un’impresa non è obbligata ad operare attraverso una stabile
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tremmo dire che la digital economy ha rivoluzionato la concezione della creazione del valore: le imprese possono fare affari in un determinato mercato senza stabilirvi una presenza fisica e, in questo contesto, perde inevitabilmente valore la nozione tradizionale di stabile organizzazione. Nella creazione del valore cresce il peso degli intangibles, con effetti imponenti sui sistemi economici e finanziari, anche in termini di incremento delle diseguaglianze (48). Le attuali normative tributarie, nazionali e internazionali, non riescono a intercettare e a tassare i redditi prodotti all’estero in assenza della tradizionale stabile organizzazione (49). Le amministrazioni finanziarie non riescono a controllare, con gli ordinari strumenti di accertamento a loro disposizione, le transazioni virtuali che si nascondono dietro questi redditi, e cioè le transazioni globali degli intangibles, smaterializzate e dislocate in tutto il mondo. “Digital economy is eating the world” (50). Nella difficoltà di perseguire, almeno all’interno dell’Unione europea, quel coordinamento tra le legislazioni fiscali che possa attenuare il fenomeno, o di contrastarlo efficacemente con lo strumento del transfer pricing, il nostro ordinamento ha mostrato segnali di reazione forse scomposta alla perdita della propria sovranità fiscale: inseguendo, anche al di là di legittimi presupposti, le basi imponibili che fuggono o “inventando” basi imponibili che non ci sono o che, più semplicemente, sono già state assoggettate a tassazione qui o altrove. I gruppi multinazionali caratterizzati dalla holding capogruppo localizzata in Italia od operanti in Italia tramite controllate qui localizzate sono stati oggetto di accertamenti fiscali volti a contestare, nell’un caso e nell’altro, l’esistenza di presunte basi imponibili non dichiarate.
organizzazione, se riesce ad operare anche senza un radicamento qualificato nel territorio in cui trovano sbocco le sue merci” (così D. Stevanato, La Web Tax piace a tutti, ma ha un problema: è sbagliata, ne Il Foglio del 12 settembre 2017, 3). (48) Un recente saggio (J. Haskel - S. Westlake, Capitalism without capital. The rise of the intangible economy, Princeton University Press, 2018) mette efficacemente in luce cause ed effetti di questa rivoluzione silenziosa, che rappresenta il tratto distintivo delle economie avanzate. (49) Tanto è vero che la Commissione europea ha potuto recuperare i diversi miliardi di euro di imposte non pagate da queste imprese seguendo la via degli aiuti di Stato e dell’Antitrust e non quella fiscale. (50) Cfr.: P. Collin - N. Colin, Task Force on Taxation of the Digital Economy, Report to the Minister for the Economy and Finance, the Minister for Industrial Recovery, the Minister Delegate for the Budget and the Minister Delegate for Small and Medium-Sized Enterprises, Innovation and the Digital Economy, January 2013.
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Nel caso dei gruppi multinazionali con capogruppo italiana, questi accertamenti si sono fondati su contestazioni di esterovestizione delle controllate estere; nel caso dei gruppi multinazionali caratterizzati dalla holding estera e da controllate residenti in Italia, accertamenti uguali e contrari si sono invece fondati su più complesse contestazioni relative alla (com)presenza di una stabile organizzazione occulta della casa madre estera in territorio italiano (51). Nei successivi paragrafi verranno brevemente analizzati profili e criticità di questi due “filoni” accertativi, verificando la tenuta e le criticità delle contestazioni mosse alle imprese multinazionali da Amministrazioni finanziarie che faticano a comprendere i mutamenti dei modelli di business dei soggetti d’impresa operanti sui mercati internazionali. Come ampiamente messo in evidenza (52), la ricerca di maggiori margini di competitività ha spinto le imprese multinazionali a modificare i propri assetti di business, integrandosi verticalmente, pur mantenendo lo stesso assetto giuridico che le aveva caratterizzate nei decenni precedenti (cioè un assetto rappresentato da una pluralità di soggetti giuridici distinti: una società controllante residente nel Paese A e n controllate localizzate in Paesi diversi). Le decisioni strategiche, le funzioni di policy e i rischi d’impresa sono sempre più accentrati nella c.d. Principal Company, cui generalmente è attribuita anche la titolarità e la gestione dei c.d. intangibles; alle consociate operative sono attribuiti responsabilità e rischi sempre più circoscritti (53). In questo schema operativo, le società controllate hanno spesso margini di autonomia piuttosto ridotti e proprio su questa ridotta autonomia hanno fatto leva gli accertamenti dell’Amministrazione finanziaria.
(51) Intendo subito precisare che, nell’ottica di questo contributo, ci si intende riferire unicamente alle contestazioni di stabile organizzazione occulta mosse nei confronti di soggetti esteri che già possiedono in Italia una società controllata; società controllata che, per essere “diretta” dal soggetto non residente, viene appunto ritenuta una mera stabile organizzazione o che viene accusare di nascondere, al proprio interno, una stabile organizzazione. Esula dai limiti di questo contributo il diverso caso in cui la stabile organizzazione occulta venga contestata al soggetto non residente che ritenga di operare in Italia in assenza di una società controllata o di una sede fissa di affari qui localizzate ma che, tuttavia, disponga nel nostro territorio di personale o di un ufficio di rappresentanza strutturati e tali da configurare, ad avviso dell’ufficio accertatore, una stabile organizzazione. (52) Cfr.: S. Biasco, I danni della concorrenza fiscale in Europa, cit., e, più di recente, Assonime, Note e Studi n. 7 del 2016 “Imprese multinazionali: aspetti societari e fiscali”. (53) Cfr.: Assonime, Note e studi n. 17 del 2016.
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6. La longa manus dell’esterovestizione. – L’esterovestizione è un istituto introdotto qualche anno fa nel nostro ordinamento per consentire all’Amministrazione finanziaria, al verificarsi di determinate condizioni, di riqualificare un soggetto estero in un soggetto fiscalmente residente in Italia, con la conseguenza di poterlo assoggettare a tassazione nel nostro ordinamento per tutti i suoi redditi ovunque prodotti (54). Come noto, nel nostro ordinamento l’attribuzione, ai fini fiscali, della residenza ai soggetti IRES è disciplinata dall’art. 73, comma 3, del TUIR il quale dispone che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.” A questa previsione generale, il successivo comma 5-bis dello stesso art. 73 (55) ha aggiunto la possibilità, per l’Amministrazione finanziaria, di presumere esistente nel territorio dello Stato italiano, salvo prova contraria, la sede amministrativa di società ed enti che detengono partecipazioni di controllo ex art. 2359, primo comma, cod. civ., in società ed enti commerciali residenti se, in alternativa: a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’art. 2359, primo comma, cod. civ., da soggetti residenti nel territorio dello Stato; b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro equivalente organo di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato italiano. Si tratta di una disposizione introdotta dall’art. 35, comma 13, del D.L. n. 223 del 2006 per rispondere ai casi – non infrequenti nella prassi – nei quali si verifica uno scollamento tra il Paese in cui è formalmente collocata la sede legale della società e il Paese in cui invece tale società viene gestita. Come sottolineato dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 28/E del 4 agosto 2006, con questa disposizione si intendeva “porre un freno al fenomeno delle cosiddette
(54) Sul tema dell’esterovestizione si vedano Aa.Vv., Esterovestizione societaria. Disciplina tributaria e profili tecnico-operativi, a cura di C. Sacchetto, Torino, 2013; F. Moretti, Questioni attuali in tema di esterovestizione delle società, in Dir. prat. trib. internazionale, 2016, 1021. (55) Sul tema si vedano altresì, G. Corasaniti - P. De’ Capitani, La nuova presunzione di residenza fiscale dei soggetti IRES, in Dir. prat. trib., 2007, I, 97 ss.; E. Bagarotto, La residenza delle società nelle imposte dirette alla luce della presunzione di “esterovestizione”, in Riv. dir. trib., 2008, I, 1056 ss.
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esterovestizioni, consistenti nella localizzazione della residenza fiscale delle società in Stati esteri al prevalente scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali previsti dall’ordinamento di appartenenza; a tal fine la norma valorizza gli aspetti certi, concreti e sostanziali della fattispecie, in luogo di quelli formali, in conformità al principio della “substance over form” utilizzato in campo internazionale”. La tematica dei soggetti societari formalmente localizzati in una giurisdizione ma in realtà governati e gestiti da altre giurisdizioni non era certo nuova, se si pensa che già nel 1906, con il caso De Beers, si affrontò il problema di individuare lo Stato di effettiva residenza di una società collocata in Africa ma gestita da amministratori residenti per la quasi totalità nel Regno Unito. Quel caso venne risolto collocando la residenza nel luogo dal quale partivano gli impulsi decisionali determinanti per la gestione della società (la cosiddetta catena di comando), cioè da quel place of effective management che ancor oggi costituisce, secondo l’art. 4 del Modello OCSE (56), la c.d. tie-break rule destinata a risolvere i conflitti di attribuzione della residenza fiscale tra più ordinamenti (57). Nella prospettiva di inedita espansione della potestà impositiva su soggetti residenti e operanti in altre giurisdizioni proposta dal comma 5-bis dell’art. 73 del TUIR, il soggetto “esterovestito” è dunque un contribuente che pretenderebbe di sembrare “estero” – circostanza che gli consentirebbe di sottrarsi alla tassazione italiana sui suoi redditi worldwide – ma che in realtà, proprio in base ai collegamenti esistenti con il nostro ordinamento, ben può presumersi italiano; e proprio per effetto di tale presunzione, la norma “inverte” sul soggetto esterovestito l’onere di contestare l’effettività della sua residenza fiscale in Italia. Naturalmente, l’operatività della presunzione reca con sé conseguenze tutt’altro che trascurabili, sotto il profilo fiscale: affermare che la società estera è in realtà una società residente in Italia equivale ad affermare che
(56) Il par. 24.1 del Commentario al modello OCSE elenca, a titolo esemplificativo, alcuni elementi fattuali che si ritengono indicativi del place of effective management, individuandoli nel luogo in cui si svolgono i consigli di amministrazione; nel luogo in cui il CEO svolge usualmente le sue funzioni; nel luogo in cui si svolge il day to day management; nel luogo in cui si trova l’headquarter della persona giuridica; nel luogo in cui è tenuta la contabilità. (sulla dubbia rilevanza di quest’ultimo elemento fattuale v. peraltro E. Bagarotto, cit., 1158). (57) V. G. Moschetti, Origine storica, significato e limiti di utilizzo del place of effective management, quale criterio risolutivo dei casi di doppia residenza delle persone giuridiche, in Dir. prat. trib., 2010, I, 245 ss.
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tutti i suoi redditi, ovunque prodotti, devono (o meglio avrebbero dovuto) essere dichiarati e tassati in Italia. Dunque, si tratta di redditi imponibili in Italia e per i quali dovevano essere assolti tutti i correlati obblighi fiscali, con le relative conseguenze sanzionatorie per il soggetto che si scopra ex post inadempiente (58). Ma la disposizione contenuta nel comma 5-bis dell’art. 73 ha un tallone d’Achille che non si può trascurare: la ricerca del place of effective management ai fini della determinazione della residenza fiscale di un soggetto ha certamente una sua ragionevolezza quando ad essere sospettata di esterovestizione è la capogruppo, cioè la società destinata a orientare con le sue scelte tutta l’attività imprenditoriale del gruppo. Molto meno sensata è, viceversa, la contestazione di esterovestizione che venga mossa, sulla base di quegli stessi presupposti, nei confronti di una controllata, cioè di una società che si trova fisiologicamente esposta, proprio in virtù del rapporto di controllo, all’attività di direzione e coordinamento da parte della capogruppo: in questo caso, diventa infatti molto difficile tracciare il confine tra un’ordinaria attività di direzione e controllo svolta dalla controllante sulla sua controllata estera e un’ingerenza tale da degradare la società controllata estera a società “esterovestita”. Come correttamente osservato dalla Cassazione (59) “in caso di società con sede legale estera controllata ai sensi dell’art. 2359, co., c.c., non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l’individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative ove esso si identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana”, posto che “in tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia una costruzione di puro artificio, ma corrisponda ad un’entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto”. Dunque, non
(58) Sull’irrilevanza penale della presunzione di cui al comma 5-bis dell’art. 73 del TUIR v.: I. Caraccioli, Applicazioni giurisprudenziali tributarie dell’”esterovestizione”: preliminari considerazioni penalistiche a futura memoria, in Riv. dir. trib., 2008, III, 104 ss.; P. Valente - I. Caraccioli, Ancora su residenza ed estero vestizione: ulteriori considerazioni sulla sentenza della Comm. Trib. Prov. di Belluno, in Riv. dir. trib., 2008, III, 124 ss..; A. Tomassini, Esterovestizione irrilevante penalmente senza la prova della costruzione artificiosa, in Corr. Trib,, 2015, 4584 ss.; B. Venturato, Omessa dichiarazione. Note in tema di esterovestizione e concorso eventuale nel reato omissivo proprio, in Giur. It., 2016, 971 ss.. (59) Cfr.: sentenze della sez. III penale nn. 1811 e 17299 del 2014, entrambe pubblicate in Riv. dir. trib., 2014, III, 33 ss., con nota di C. Garbarini, L’oggetto principale dell’attività quale elemento per determinare la residenza delle persone giuridiche.
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basta certo che la società controllata sia eterodiretta (o meglio sia diretta dalla controllante) per affermarne l’esterovestizione; occorre dimostrare che tale controllata sia priva di una propria consistenza. Nel nostro ordinamento, più volte la contestazione di esterovestizione è stata invece mossa proprio nei confronti delle società controllate. Dapprima le subholding estere c.d. passive, cioè intestatarie di partecipazioni detenute allo scopo di incassarne i frutti: a queste controllate estere gli uffici fiscali contestavano l’assenza di un’adeguata autonomia, posto che, non avendo una particolare struttura economica o commerciale, si sarebbero limitate a recepire passivamente le direttive della controllante italiana, incassando i dividendi frutto delle partecipazioni detenute. Ma si tratta di una contestazione che non tiene nella dovuta considerazione l’affermazione, fatta dalla Corte di Giustizia, secondo cui il principio di libertà di stabilimento opera anche nei confronti delle holding c.d. passive, cioè delle società che si limitano a gestire partecipazioni (60): e non si comprende come questa riconosciuta libertà di stabilimento possa essere “bypassata” da contestazioni che pretendano di disconoscere tout court la residenza fiscale estera della subholding, “riportandola” forzosamente in Italia. Ancor più di recente, sempre basandosi sull’assenza di un’autonomia adeguata nella gestione del business, contestazioni di esterovestizione sono state mosse anche nei confronti di controllate estere operative, confondendo evidentemente l’attività di direzione e coordinamento – tipicamente esercitata dalla controllante sulle sue controllate – con l’autonomia necessaria a condurre una parte del business quali entità terminali di un gruppo fisiologicamente integrato. Si tratta, in entrambi i casi, di accertamenti privi di adeguate motivazioni sistematiche che in ogni caso, in futuro, i gruppi multinazionali potranno evitare, ricorrendo allo strumento – di recente introduzione – degli accordi
(60) In particolare, secondo la Corte di Giustizia, la libertà di stabilimento tutela non solo gli enti che esercitano attività d’impresa, ma anche quelli che esercitano un’attività economica tout court. In questa prospettiva, nella sentenza 14 settembre 2017, causa C – 646/15, la Corte di Giustizia ha riconosciuto che i trust che amministrano un patrimonio “affinché i beneficiari fruiscano degli utili prodotti dai beni appartenenti a tali trust” svolgono un’attività economica effettiva e possono avvalersi della libertà di stabilimento; nello stesso senso, l’Agenzia delle Entrate, con Circolare n. 40/E del 26 settembre 2016 in tema di consolidato fiscale, ha ribadito che una holding comunitaria è da ritenere una costruzione genuina che esercita legittimamente il diritto di insediamento in qualsiasi Paese UE, ove svolga effettivamente un’attività economica (e quindi non necessariamente un’attività commerciale).
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preventivi per le imprese con attività internazionale (61). 7. La stabile organizzazione occulta tra equivoci e fantasmi. – Per i gruppi multinazionali con la capogruppo all’estero e la società controllata in Italia, le problematiche accertative si sono invece concentrate, come accennato, sulla contestazione della c.d. stabile organizzazione occulta. Come noto, in base agli artt. 23 e 151 del TUIR, un soggetto non residente può essere assoggettato a tassazione in Italia sui redditi di impresa solo in presenza di una stabile organizzazione localizzata nel nostro territorio (cfr.: artt. 23 e 151 TUIR). Questo principio riprende quanto fissato nel modello OCSE di Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni, il quale – all’art. 7 –prevede che un’impresa non residente in un determinato Paese deve versare imposte nel suddetto Paese solo se vi ha localizzato una stabile organizzazione attraverso la quale produce profitti: cioè una sede fissa di affari attraverso la quale esercita in quel Paese, in tutto o in parte, la propria attività. Due sono i tipi di contestazioni che gli uffici finanziari hanno mosso, in passato, ricorrendo alla nozione di “stabile organizzazione occulta”. Il primo, più raro e frutto di un equivoco evidente, attiene alla contestazione che la controllata italiana non presentasse profili di reale autonomia e indipendenza rispetto alla capogruppo estera; pertanto, non essendo considerata una vera e propria subsidiary, veniva declassata dagli uffici accertatori a mera branch italiana (occulta) della società estera. In questo caso, la contestazione sembrava nascere da un equivoco, proprio perchè è del tutto fisiologico che la controllata italiana abbia un’autonomia ridotta, dovendo, per effetto del rapporto di controllo, rispondere alle direttive di policy della controllante estera. Il progenitore delle argomentazioni utilizzate da Amministrazione finanziaria (e dagli stessi giudici tributari) per negare, ai fini fiscali, l’esistenza della controllata italiana riqualificandola quale stabile organizzazione occulta della società estera lo ritroviamo nella notissima sentenza Philip Morris (62), nata da un accertamento con il quale l’ufficio, – nei confronti di un gruppo caratterizzato, appunto, da una controllante estera – postulò l’eterodirezione
(61) Sull’istituto, sulle sue potenzialità e sulle sue criticità cfr.: D. Conte, Imposizione fiscale e nuovi accordi preventivi per le imprese con attività internazionale, in Riv. dir. trib., n. 5/2016. (62) Si tratta della sentenza di Cassazione n. 6682 del 5 maggio 2002, non a caso passata alla storia nel mondo OCSE come The Italian case.
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della controllata italiana, con la conseguente riqualificazione della stessa in mera stabile organizzazione della società estera. Gli argomenti declinati per riqualificare la controllata italiana in stabile organizzazione occulta della società estera furono molteplici: tra questi, la posizione dominante assunta dalla capogruppo nei confronti della società italiana; l’esistenza di un contratto di assistenza marketing e distribuzione con la capogruppo; la stipula, da parte della controllante estera, di polizze assicurative per il personale italiano; l’esistenza di un documento programmatico nel quale risultava che le attività italiane erano coordinate direttamente dai vertici del gruppo verso un obiettivo unitario; l’attenzione della società italiana al raggiungimento degli obiettivi fissati dalla controllante estera. La combinazione di tutti questi elementi indusse la Cassazione ad accettare la ricostruzione prospettata dall’ufficio accertatore e a negare che la controllata italiana presentasse reali profili di autonomia rispetto alla controllante residente; con la conseguenza di ritenere che la società italiana dovesse essere riqualificata come stabile organizzazione occulta della società estera, piuttosto che come controllata di quest’ultima. Gli effetti di una tale titanica opera di riqualificazione sono però quelli di una montagna che partorisce un topolino. Infatti, nonostante il termine “occulta” lasci pensare a redditi non dichiarati, l’ufficio finanziario che contestasse, nelle forme sopra indicate, l’esistenza di una stabile organizzazione “occulta”, si limiterebbe in realtà a riqualificare come tale una società controllata italiana che ha verosimilmente dichiarato e assoggettato a imposizione in Italia tutto il proprio reddito (per di più ovunque prodotto, posto che si tratta di una controllata residente e dunque tassata sui redditi worldwide). L’unica differenza suscettibile di scaturire dalla riqualificazione operata dall’ufficio accertatore consisterebbe dunque nel fatto che il reddito dichiarato dalla controllata italiana (della quale si disconosce l’esistenza) avrebbe dovuto essere dichiarato dalla stabile organizzazione occulta: dunque nessun effetto in punto di gettito, se non quello, marginale, di poter eventualmente negare, alla società controllata “degradata” a stabile organizzazione, l’applicabilità di taluni regimi convenzionali, la cui spettanza è appunto subordinata all’assenza della stabile organizzazione. Più frequente, e sottile, una diversa formulazione della contestazione di stabile organizzazione occulta: sostenere che nella controllata italiana si nasconda “anche” una stabile organizzazione occulta della società estera, nel senso che, oltre alla controllata italiana, esisterebbero anche strutture e/o per-
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sone occulte, non dichiarate quali stabili organizzazioni della società estera, ma come tali operanti. Dunque vi sarebbero ulteriori attività ed ulteriori redditi sottratti a tassazione dalla capogruppo. Qui l’effetto dell’accertamento appare decisamente più significativo: il Fisco arriva infatti a ravvisare, nella stabile occulta “annidata” nelle maglie della controllata italiana, la presenza di un evasore “totale”, che ha omesso di dichiarare i propri redditi. Proprio questo tipo di contestazione sembra essere stato alla base dell’accordo transattivo stipulato tra Apple e Amministrazione finanziaria italiana all’inizio del 2016 per più di 300 milioni di euro: per il Fisco italiano, la Apple per diversi anni avrebbe omesso di dichiarare i redditi prodotti in Italia attraverso la propria stabile organizzazione occulta, facendoli figurare invece come redditi realizzati dalla controllata irlandese. Formalmente, la Apple non possedeva in Italia alcuna sede fissa di affari, limitandosi a vendere i propri prodotti online a clienti italiani; certo, vi erano degli Applestore in Italia e si trattava di società che pagavano regolarmente imposte al Fisco italiano, ma solo sui profitti ad esse attribuibili e derivanti dagli strumenti elettronici venduti in negozio o dai servizi forniti. Dalla contestazione di stabile organizzazione occulta nasce comunque un evidente problema di doppia imposizione, posto che i redditi di questa presunta stabile sono già tassati in un altro Paese. Il ricorso alle Mutual Agreement Procedures per evitare la doppia imposizione è stato ad oggi molto limitato; comunque, secondo l’interpretazione fornita dall’OCSE nel Commentario all’art. 25, par. 7 (63), la MAP non è alternativa agli altri rimedi deflattivi a disposizione del contribuente (l’accertamento con adesione) (64). Ma al di là dei redditi che si assumono non dichiarati, un ulteriore rischio derivante dalla contestazione fondata sulla presunta presenza di una stabile organizzazione annidata nella controllata italiana è la possibile confusione dei profili sanzionatori; confusione emersa con chiarezza, ad esempio, nella sentenza n. 16106 del 22 luglio 2011 (65) con la quale la Cassazione ha ritenuto che soggetto passivo di imposta, in presenza di una stabile organizzazione
(63) So paragraph 1 makes available to taxpayers affected, without depriving them of the ordinary legal remedies available, a procedure which is called the mutual agreement procedure. (64) Sul punto si veda anche la Circolare dell’Agenzia delle entrate n. 21/E del 5 giugno 2012. (65) Sul tema si rinvia a F. Bulgarelli, La resistibile immedesimazione tra stabili organizzazioni occulte e soggetti passivi dell’imposta sul reddito, in Riv. dir. trib., 2011, V, 197 ss.
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occulta, resti la società italiana presso la quale la stabile organizzazione era occultata, con l’effetto di postulare non un’evasione della stabile organizzazione occulta, ma un’infedeltà dichiarativa a carico della società italiana. Per non parlare dei rilievi legati alla possibilità di assoggettare ad Iva i rapporti tra la controllata italiana e la stabile occulta, con effetti di esilarante complicazione e più che dubbia utilità, posto che quest’Iva – pure non applicata – sarebbe generalmente detraibile. Le argomentazioni utilizzate dalla Cassazione nella ricordata sentenza Philip Morris hanno suscitato in dottrina (66) osservazioni critiche autorevoli, che condividiamo appieno in punto di diritto e che evitiamo qui di ripetere; ma saremmo miopi se non ci accorgessimo che, dietro una ricostruzione teorica non sempre pienamente consapevole della realtà operativa delle imprese, la Cassazione aveva forse percepito la tendenza dei gruppi multinazionali con controllante estera e società controllate in Italia a trasferire all’estero le principali funzioni aziendali con i relativi rischi, le competenze e gli asset (soprattutto immateriali), “svuotando” di rischi e funzioni le controllate residenti nel nostro territorio – già imprese produttrici a pieno rischio – per trasformarle in produttori per conto terzi o meri distributori a rischio (e dunque redditività) limitati. Queste operazioni di business restructuring, finalizzate ad operare lo shifting dei profitti in paesi a più bassa fiscalità, sono state poste sotto la lente di ingrandimento dalla stessa OCSE nel contesto dell’Action Plan BEPS (Base Erosion and Profit Shifting): non possiamo certo negarne l’esistenza o la diffusione, ma non possiamo neanche accettare che gli uffici accertatori o i giudici tributari, in funzione “suppletiva”, pretendano di risolvere unilateralmente il problema, riqualificando come stabile organizzazione, reale o personale, del soggetto estero, un soggetto già palesato al Fisco nazionale e rappresentato, appunto, dalla società del gruppo residente in Italia e dotata di autonomia giuridica e piena soggettività tributaria o contestando l’esistenza di stabili organizzazioni “occulte” annidate presso le società consociate residenti.
(66) Cfr.: R. Lupi - D. Stevanato - M. Giorgi, Una società controllata può nascondere una stabile organizzazione?, in Dialoghi di diritto tributario, n. 1/2003, 35; K. Vogel, Tax treaty news: subsidiaries as permanent establishments?, in Bulletin IBFD, 2003, 474; S. Mayr - V. Greco, La stabile organizzazione e società partecipata: una difficile coesistenza, in Corr. Trib., 2001, 2364; P.G. Valente, Stabile organizzazione: profili di criticità per i gruppi multinazionali derivanti dalla lettura delle sentenze della Cassazione sul caso Philip Morris, in Rass. fisc. Int., 2002, 437.
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In realtà, le contestazioni basate sulla presunta presenza di una stabile organizzazione occulta devono più opportunamente essere sostituite da contestazioni in tema di transfer pricing: per aggredire la quota dei profitti realizzati dalla casa madre in Italia con l’attività di rivendita – piuttosto che riqualificare la controllata italiana (che, come tale, ha già soggettività tributaria) per farne, soltanto o anche, la stabile organizzazione del soggetto estero – l’Amministrazione finanziaria dovrebbe più opportunamente utilizzare lo strumento più consono a questo scopo e cioè quello del transfer pricing, strumento naturale quando si tratti di coordinare le pretese fiscali di Paesi diversi, incrementando le remunerazioni delle attività svolte in Italia. Non è un caso che, in sede di adesione, molte contestazioni sull’esistenza di una stabile organizzazione occulta vengano “convertite” in rettifiche ai prezzi di trasferimento infragruppo. Ove, ad esempio, si ravvisino, nella c.d. stabile organizzazione “nascosta” presso la controllata, funzioni ulteriori non idoneamente valorizzate, i verificatori dovrebbero limitarsi a contestare alla controllata italiana la non congruità della remunerazione ad essa riconosciuta per i servizi svolti: conseguentemente l’accertamento dovrebbe avere ad oggetto una rettifica in tema di prezzi di trasferimento e non una contestazione di stabile organizzazione occulta. Per le imprese, la via più semplice per difendersi da questo tipo di contestazioni resta oggi quella della tax compliance e dunque il ricorso allo strumento degli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale, recentemente disciplinati nel nostro ordinamento: una disclosure completa del business all’amministrazione finanziaria dovrebbe escludere contestazioni di stabili organizzazioni occulte. Il panorama non sembra significativamente mutato per effetto delle modifiche recentemente recate all’art. 162 del TUIR dalla legge di bilancio per il 2018, che pure hanno implementato nel nostro ordinamento la c.d. antifragmentation rule. Si tratta infatti di regole che, al momento, sono destinate a trovare applicazione solo nei confronti dei Paesi non coperti da Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni e che negli altri Paesi dovranno essere implementate attraverso una complessa rinegoziazione delle Convenzioni stesse. 8. La crisi dei tradizionali criteri di collegamento del reddito al territorio dello Stato: verso la tassazione “unitaria” dell’impresa globale? – Quel che gli accertamenti basati sulla presunzione di esterovestizione o sulla contestazione di una stabile organizzazione occulta lasciano emergere
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è che i criteri di collegamento del reddito con il territorio dello Stato, tradizionalmente legati ad elementi di presenza fisica sul territorio (come la stabile organizzazione), appaiono ormai inadeguati a intercettare e tassare in modo efficiente i redditi prodotti dalle imprese multinazionali. Criteri di tassazione basati sulla presenza fisica e sanciti da trattati contro la doppia imposizione concepiti quando l’economia digitale non esisteva (e i trattati erano significativamente rivolti a fronteggiare i problemi di doppia imposizione, non quelli di doppia esenzione) oggi non sono più efficienti. Come rilevato dalla Commissione europea (67) “Le norme fiscali attuali non sono più adeguate al contesto moderno in cui le imprese dipendono in larga misura da beni immateriali il cui valore è difficile da quantificare, dai dati e dall’automazione, che facilitano il commercio online transfrontaliero senza che vi sia una presenza fisica (…). Di conseguenza alcune imprese operano in determinati paesi in cui offrono servizi ai consumatori e concludono contratti con questi paesi, sfruttando pienamente le infrastrutture e le istituzioni dello Stato di diritto disponibili, senza essere considerati come presenti ai fini fiscali”. Più che la complessa ricerca di un nuovo nexus (68), che la stessa OCSE sta con portando avanti con una certa lentezza, la prospettiva più appagante potrebbe essere quella di muovere verso tentativi di tassazione unitaria delle imprese multinazionali, prendendo atto del fatto che tali imprese rappresentano ormai centri unitari di affari (69). Dunque, al di là dei rimedi transitori
(67) Cfr.: comunicazione al Parlamento europeo e al Consiglio del 21 settembre 2017. (68) Si vedano, in tal senso, i tentativi del Programma BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) di elaborare criteri di collegamento alternativi, valevoli per le attività dematerializzate, come la presenza economica significativa (PES) che vorrebbe attribuire rilievo a una serie di fattori espressivi di una interazione significativa e costante del soggetto estero con l’economia di un determinato Paese, attraverso l’uso della tecnologia o degli strumenti telematici. (69) Come osserva S. Biasco, I danni della concorrenza fiscale in Europa, cit., le imprese multinazionali “non sono costituite da una serie di unità locali da tassare separatamente come se fossero unità indipendenti … ma sono un centro unitario di affari che deriva le proprie capacità competitive dal combinare attività economica in singole locazioni, oltre che dal controllo unitario di tecnologia e conoscenza. Dovrebbero essere tassate come singola unità di cui ogni branca è parte organica. Quindi il riferimento dovrebbe essere al consolidato mondiale delle multinazionali, che esse dovrebbero presentare in ogni paese dove operano, per poi venire tassato unitariamente secondo formule di ripartizione del reddito concordate che riflettano la genuina presenza in ciascun paese. Formule che pesino, tra loro e tra paesi, le unità fisiche (o i costi) della manodopera impiegata, gli asset fisici – esclusi gli intangibili – e le vendite.”
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scelti nei singoli ordinamenti (70) e dalla possibilità di introdurre web tax nazionali di dubbia efficacia (71), la via maestra per tassare la ricchezza laddove essa – con stabili organizzazioni o senza – si produce sembra essere quella di ipotizzare un consolidato mondiale (72) dei redditi prodotti dall’impresa multinazionale, che potrebbe basarsi sulla determinazione unitaria del reddito attraverso standard contabili unitari e concordati, come gli IAS. Un sistema di questo genere, sterilizzando tutte le transazioni infragruppo, avrebbe anzitutto il merito di eliminare sia i problemi di transfer pricing che le allocazioni fittizie nei Paesi a fiscalità privilegiata. Naturalmente, prospettandosi una determinazione e una tassazione degli utili prodotti a livello mondiale, a prescindere dalla necessaria presenza di sedi fisse localizzate sui territori degli Stati, resterebbe il problema di come ripartire questo reddito tra le diverse giurisdizioni nelle quali viene in concreto generato (perché, ad esempio, è in quella giurisdizione che esiste il mercato dei consumatori, o gli asset o i salari). L’apportionment dei profitti globali sulla base dei fattori che concorrono a creare la ricchezza è l’idea da anni alla base della proposta di direttiva sul consolidamento delle basi imponibili comuni (la Common Consolidated Tax Base) della qua-
(70) Basti pensare, per l’Italia, alla disciplina sperimentale introdotta dall’art. 1-bis, inserito nel decreto-legge n. 50 del 2017 dalla legge di conversione n. 96 dello stesso anno, per permettere ai soggetti esteri di maggiori dimensioni di definire i “debiti tributari dell’eventuale stabile organizzazione presente nel territorio dello Stato”. Questa disciplina, subito battezzata dalla stampa specializzata “web tax transitoria”, in realtà si limita a consentire alle imprese estere appartenenti a gruppi multinazionali con ricavi consolidati superiori a 1 miliardo di euro annui e che si avvalgano di soggetti residenti in Italia o di stabili organizzazioni italiane di società del medesimo gruppo, di ottenere dall’Amministrazione finanziaria italiana la valutazione preventiva circa la presenza in Italia di una loro stabile organizzazione e la definizione del relativo debito fiscale, mediante sottoscrizione di un apposito accertamento con adesione. (71) Cfr.: G. Fransoni, Prime considerazioni sulla webtax ovvero l’iniziativa congiunta di Francia, Germania, Italia e Spagna di tassare le società attive nel settore della digital economy, in Riv. dir. trib. online, 19 settembre 2017; Id., La proposta estone di una webtax basata sul numero dei clienti: stabile organizzazione virtuale o reale?, ibidem, 21 settembre 2017. (72) A scanso di equivoci, è appena il caso di rilevare che il “nostro” consolidato mondiale – quello disciplinato agli artt. 130 e seguenti del TUIR – è mondiale solo di nome e non di fatto, poiché si tratta di una nostra invenzione per tassare all’italiana (cioè secondo le norme fiscali del nostro ordinamento) tutto il gruppo, laddove questo sia controllato da una società italiana o da una stabile organizzazione in Italia di una società estera. Si tratta, in ogni caso, di un regime opzionale, potendo esso condurre ad una tassazione più onerosa di quella che si verificherebbe lasciando le controllate estere a tassazione nel Paese di origine.
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le si discute in Europa da dieci anni. Nella sua prima versione, la CCTB era prospettata come un sistema di tassazione opzionale, che le imprese multinazionali avrebbero potuto scegliere in alternativa a quello ordinario: in questa prospettiva la CCCTB sarebbe diventato il 29° sistema fiscale dell’Unione europea, una sorta di “esperanto” fiscale per la determinazione di un unico reddito globale, che avrebbe consentito alle imprese di considerare l’Unione come un mercato unico anche ai fini dell’imposta societaria. La proposta ha, tuttavia, molto faticato a decollare per la mancanza di un accordo tra le giurisdizioni interessate: e proprio questo mancato accordo, in un meccanismo decisionale europeo che richiede l’unanimità (posto che ogni Stato è titolare di un proprio potere di voto-veto) si è tradotto in una situazione di stallo. Troppi gli attori in campo e non tutti realmente interessati all’armonizzazione: diversi Paesi, anche all’interno dell’Unione europea preferiscono continuare a fare della tax competition il caposaldo dei loro regimi fiscali e offrire soluzioni di favore alle digital enterprises piuttosto che assoggettarne i profitti alle più elevate aliquote medie applicate nella maggior parte degli Stati UE. Sotto questo profilo, la frammentazione delle strutture legali e fiscali degli Stati membri ha reso e rende l’Europa particolarmente vulnerabile. Recentemente il progetto sulla base imponibile comune è stato ripreso ma in una prospettiva diversa. La nuova proposta di CCCTB è stata articolata su due direttive, i cui progetti sono stati entrambi pubblicati il 25 ottobre 2016: una prima direttiva relativa alla base imponibile comune per l’imposta sulle società (CCTB) e una seconda direttiva relativa a una base imponibile comune consolidata per l’imposta sulle società (CCCTB). Neanche in questa nuova versione, tuttavia, la CCCTB sembra però essere una soluzione efficiente: prevedendo il consolidamento dei soli profitti derivanti dalle attività esercitate in Europa, la CCCTB lascia comunque aperto il tema delle basi imponibili di fonte extraeuropea; dunque, si tratterebbe di una soluzione del tutto parziale ai problemi della tassazione delle imprese multinazionali. Non basta più agire a livello dell’Unione europea, anche perché in molti casi il problema BEPS (base erosion and profit shifting) nasce con la connivenza di ordinamenti extraeuropei che consentono di differire sine die la tassazione nel Paese di residenza dell’ultima società madre, cioè nel Paese in cui sono localizzati gli intangibles, le attività di direzione e ricerca, la gestione finanziaria, lo sviluppo del marketing. Il tema della tassazione armonizzata dei profitti a-territoriali delle imprese multinazionali deve necessariamente spostarsi dalla UE all’OCSE e questo
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richiederà tempi più lunghi. Le soluzioni, per essere efficaci, devono essere condivise a livello sovranazionale: coinvolgendo un mercato globale, la tassazione del nuovo business delle imprese multinazionali sembra anch’esso richiedere un approccio globale. 9. La soluzione in due tempi proposta della Commissione europea al problema della tassazione dell’economia digitale. – Non è un caso che tra le 15 iniziative avviate dall’OCSE nel 2013 e conclusesi nel 2015 su impulso del G20 per contrastare l’erosione fiscale, l’unica inevasa alla fine del 2017 fosse l’Action 1, relativa all’economia digitale. Il tema riguarda non solo le imprese digitali in senso stretto, ma tutti i settori economici caratterizzati da una crescente digitalizzazione, e impone di decidere non solo cosa tassare e come tassare ma anche dove tassare i profitti delle attività legate al web (73), posto che la digitalizzazione sposta in modo decisivo l’indice di creazione della ricchezza dall’unità produttiva (stabile organizzazione) al mercato sul quale si collocano gli utenti del web e si raccolgono i dati. I nuovi modelli di business resi possibili dalla digitalizzazione sono le piattaforme online (come Amazon o Alibaba) che vendono beni o connettono compratori e venditori dietro pagamento di una commissione; sono i social (come Facebook o Google) attraverso cui i proprietari dei network realizzano i proventi pubblicitari derivanti dai messaggi di marketing inviati ai loro utenti; sono le piattaforme (come Spotify o Netflix) che chiedono fees di sottoscrizione per accedere a servizi digitali di musica o video; sono le piattaforme “collaborative” (come Airbnb o Blablacar) che dietro pagamento di una commissione fissa o variabile su ciascuna transazione, mettono in comunicazione domanda e offerta sfruttando meccanismi di valutazione reputazionale destinati ad indirizzare il consumatore. Di fronte a questi free riders che riescono ad offrire beni e servizi ai consumatori di tutti i Paesi rimanendo “invisibili” agli ordinamenti fiscali nazionali, l’obiettivo diventa quello di spostare la tassazione dal luogo in cui l’impresa si stabilisce (per avervi la residenza o per localizzarvi una stabile organizzazione) al luogo in cui si conseguono i profitti e il tema diventa quello delle modalità con le quali collegare la sovranità fiscale dello Stato nazionale
(73) Cfr.: I. Vacca, Il vero interrogativo non è “cosa tassare”, ma “chi può tassare”, Position paper Assonime n. 1/2018.
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ai servizi digitali fruiti in assenza di una struttura fisica del prestatore non residente. Tutto ciò considerando anche che per le imprese digitali gli utenti sono essi stessi una fonte importante di ricavi, posto che i dati da essi forniti possono essere opportunamente raccolti, aggregati e profilati per poi essere rivenduti. L’OCSE nel rapporto del 2015 prospettava diverse soluzioni: dalla ritenuta alla fonte alla riformulazione della nozione di stabile organizzazione a forme di imposizione indiretta. Nel settembre 2017, la Commissione europea, considerando le istanze formulate sul tema della web tax da Francia, Germania, Italia e Spagna illustrava un pacchetto “esplorativo” di misure allo studio, ipotizzando a sua volta: a) una equalisation tax sui profitti generati da tutti i business basati su internet (sia B2B che B2C) e non tassati o insufficientemente tassati, spendibile come credito di imposta nel paese del soggetto che l’avrebbe pagata o con natura di imposta separata; b) una withholding tax sulle transazioni digitali, cioè sui pagamenti fatti a non residenti venditori di beni e servizi ordinati online; c) un prelievo ad hoc sui redditi generati dalla fornitura di servizi digitali o dalla pubblicità, applicabile a tutte le transazioni concluse da remoto con i consumatori di un paese in cui un ente non residente ha una presenza economica significativa (non necessariamente fisica). In realtà, l’unico modo per tassare le imprese digitalizzate e i tradizionali modelli di business che si convertono alla digitalizzazione è rivedere le regole sulla stabile organizzazione, sul transfer pricing, sull’attribuzione dei profitti legati alle tecnologie digitali. Consapevole della tempistica richiesta da una soluzione globale, la Commissione europea sulla “Taxation on digital activities” ha presentato il 21 marzo 2018 un pacchetto sulla “Digital taxation”, composto da due proposte di direttive: una “comprehensive solution”, a carattere sistematico, e una “targeted solution”, concepita come una soluzione-ponte da far operare nelle more della transizione alla comprehensive solution. In particolare, la prima proposta di direttiva (74) prospetta una soluzione globale (comprehensive solution) all’attuale modello di tassazione dei
(74) COM (2018) 147 final. A tale proposta si aggiunge la Raccomandazione C (2018) 1650 final con cui la Commissione raccomanda agli Stati membri di implementare tale direttiva nei trattati contro le doppie imposizioni: gli Stati dovrebbero dunque rinegoziare tali Trattati bilateralmente o chiedere alla Commissione di rinegoziarli per loro.
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redditi di impresa, da inserire nell’attuale CCCTB, e fissa nuove regole per la tassazione dei redditi d’impresa prodotti a livello multinazionale, ampliando la definizione tradizionale di stabile organizzazione (fisica e personale) per ricomprendervi anche la “presenza digitale significativa” (che peraltro rileverebbe solo ai fini dell’imposta sui redditi societari e non anche ai fini dell’imposta sui redditi personali o dell’Iva). Ma altra caratteristica fondamentale della comprehensive solution è rappresentata da una decisa inversione di tendenza rispetto al modello tradizionale della tassazione del reddito fondata sulla residenza dell’impresa, posto che la proposta di direttiva prospetta il passaggio ad una tassazione alla fonte, cioè nei Paesi in cui il reddito si produce (e, tra questi, sempre maggior rilevanza sembrano assumere i Paesi nei quali si collocano i mercati di sbocco delle merci e dei servizi). Nelle more dell’accordo sulla comprehensive solution dovrebbe trovare applicazione, come già osservato, la c.d. targeted solution (75), destinata a coprire i casi in cui vi sia un elevato mismatch tra tassazione e profitti, evitando la segmentazione che potrebbe derivare da iniziative unilaterali dei singoli Paesi UE sul tema. La soluzione ponte è individuata, dalla Commissione, nell’imposta sui profitti derivanti da specifici servizi digitali (servizi di valorizzazione pubblicitaria e vendita dei dati raccolti su Internet e servizi consistenti nella messa a disposizione di piattaforme digitali di acquisto e vendita diretta di beni e servizi agli utilizzatori del web) che coinvolgono gli utenti del web nella creazione del valore. Si tratterebbe di una imposta indiretta (tanto è vero che la norma di riferimento, per la Commissione, è l’art. 113 del TFUE e non l’art. 115) destinata a colpire i servizi digitali resi nei Paesi europei dalle imprese di maggiori dimensioni, che traggono una nuova utilità – facendo dunque emergere anche un nuovo presupposto di tassazione – dai dati gratuitamente forniti dagli utenti del web. L’imposta sui servizi digitali prospettata dalla Commissione colpirebbe i ricavi lordi derivanti dalle particolari tipologie di servizi digitali cui si è fatto cenno: dunque non sarebbe un’imposta sul reddito, ma una sorta di accisa o di Iva “selettiva” (cioè solo su alcuni servizi), che verosimilmente potrebbe essere traslata economicamente sui consumatori dei servizi. Naturalmente la targeted solution, allocando la tassazione dei profitti digitali nello Stato in cui tali profitti vengono generati e non più nello Stato in
(75)
COM (2018) 148 final
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cui la società ha la propria residenza fiscale, non incontrerà il favore né degli Stati Uniti (Paese di residenza delle principali multinazionali digitali) né di tutti quegli Stati membri della UE (come l’Irlanda e il Lussemburgo) che fino a ieri hanno “calamitato” le multinazionali del web, operando come teste di ponte per le loro pianificazioni fiscali. 10. Aspettando Godot: e intanto gli ordinamenti nazionali? – In attesa del complessivo riassetto delle regole di fiscalità internazionale, gli Stati nazionali muovono singolarmente – pur sempre in linea con il Progetto BEPS – nel tentativo di difendere le loro basi imponibili e pensano ad introdurre forme di ritenuta alla fonte sulle transazioni digitali, cioè su determinati pagamenti effettuati a favore di fornitori non residenti per beni e servizi ordinati online (così è accaduto nel Regno Unito con la diverted profit tax; così dovrebbe avvenire nel nostro ordinamento nel 2019 con la web tax (76) riferita all’economia digitale e destinata a colpire le prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici) e ad un restyling della nozione di stabile organizzazione. La web tax made in Italy molto probabilmente non vedrà mai la luce, perché i relativi decreti di attuazione ai quali è subordinata la sua entrata in vigore non saranno emanati (77). La targeted solution proposta dalla Commissione europea mira proprio ad evitare quelle segmentazioni del mercato che potrebbero derivare da soluzioni domestiche al problema della tassazione delle imprese digitali e lo stesso Fondo monetario ha rilevato, proprio in relazione alla nostra web tax e alla analoga soluzione adottata in Israele, che soluzioni isolate non possono fornire una risposta ad un tema globale, come quello dell’economia digitale. Ma, oltre a progettare una web tax made in Italy, il nostro ordinamento ha già modificato con la legge di bilancio 2018 (78) e con effetto dal 1° gennaio
(76) Prevista con legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio 2018). Per le criticità sollevate dalla nuova imposta sulle transazioni digitali cfr.: S.M. Galardo, In tema di web tax il legislatore procede per step, in La gestione straordinaria delle imprese 1/2018, 104 ss. (77) Ricordo che il termine (peraltro meramente ordinatorio) per l’emanazione dei suddetti decreti era fissato nel 30 aprile 2018; ma che il Ministero, in assenza di un Governo pieno, ha preferito soprassedere, in attesa che si definisca il percorso della targeted solution proposta in sede UE. (78) E in particolare con l’art. 1, comma 1010, della legge in questione.
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2018, la nozione domestica di stabile organizzazione (79) contenuta nell’art. 162 del TUIR per allinearla alle modifiche contenute nell’Action 1 e 7 del BEPS (80) e della Convenzione multilaterale OCSE per l’adeguamento dei trattati fiscali contro le doppie imposizioni siglata il 7 giugno 2017 (81); sullo sfondo di questo intervento normativo si collocano – così come per la web tax – le riflessioni internazionali sulla tassazione delle imprese della digital economy. Le modifiche recate alla tradizionale nozione di stabile organizzazione accolta dall’art. 162 del TUIR mirano a estendere la configurazione della stabile organizzazione e riguardano sia la positive che la negative list; introducono la c.d. antifragmentation rule, cui si è già fatto cenno, e modificano la nozione di stabile organizzazione personale con particolare riferimento alla discussa figura del commissionaire (82). Più in dettaglio, la positive list è stata integrata per ricomprendervi (nella nuova lett. f-bis dell’art. 162, comma 2, del TUIR) “una significativa e conti-
(79) Sulle suddette modifiche v. D. Avolio, Stabile organizzazione e attività “preparatorie” e “ausiliarie”: cosa cambia con il BEPS, ne Il fisco n. 14/2016; D. Avolio - D. Sencar, La nuova antifragmentation rule in materia di stabile organizzazione, in Corr. Trib., n. 38/2016; D. Avolio, La nuova definizione di stabile organizzazione, in Corr. Trib., 2018, 265 ss., B. Ferroni, Stabile organizzazione: la disciplina nazionale si adegua al BEPS e introduce la “continuativa presenza economica”, ne il fisco, 2018, 632 ss.. (80) OECD, Action 1 Final Report “Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy; OECD (2015), Preventing the Artificial Avoidance of Permanent Establishment Status, Action 7 – 2015 Final Report, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD Publishing, Paris. (81) Ricordo che la citata Multilateral Convention to Implement Tax Treaties Related Measures to Prevent Base Erosion and Profit Shifting è finalizzata a introdurre le misure sviluppate nel Progetto BEPS all’interno dei trattati contro le doppie imposizioni, superando il problema delle negoziazioni bilaterali. Ai fini del loro perimetro applicativo, le disposizioni di questa Convenzione possono essere distinte in tre gruppi: un primo gruppo, rappresentato dal c.d. minimum standards, che si applica automaticamente ai trattati che entrambi gli Stati contraenti hanno notificato all’OCSE; un secondo gruppo di disposizioni per le quali ciascun Paese può esprimere una riserva che ne impedisca l’applicazione; un terzo gruppo, la cui applicazione è subordinata all’espressione di una specifica volontà delle parti in tal senso. Con riferimento al tema della stabile organizzazione, segnalo peraltro che le disposizioni della Convenzione multilaterale non fanno parte del c.d. minimum standards. (82) Per un commento alle modifiche all’art. 162 si rinvia a: Ferroni, Stabile organizzazione: la disciplina nazionale si adegua al BEPS e introduce la “continuativa presenza economica”, ne Il fisco, 2018, 632 ss.; D. Avolio, La nuova definizione di stabile organizzazione, in Corr. Trib., 2018, 265 ss.; S. Guarino, La nozione di stabile organizzazione nell’era dell’economia digitale, in Corr. Trib., 2018, 716 ss.; S. Mayr - G. Fort, La nuova definizione di stabile organizzazione (art. 162 del TUIR), in Boll. trib., 2018, 487 ss.
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nuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non far risultare una sua consistenza fisica nel territorio dello Stato”; contestualmente è stato abrogato il comma 5 dell’art. 162 del TUIR, che escludeva la configurabilità di una stabile organizzazione nel caso di disponibilità a qualsiasi titolo di “elaboratori elettronici e relativi impianti ausiliari che consentano la raccolta e la trasmissione di dati ed informazioni finalizzati alla vendita di beni e servizi”. L’inserimento nella positive list della stabile organizzazione priva di una consistenza fisica solleva più di una perplessità. La volontà del legislatore era dunque evidentemente indirizzata a colpire le imprese della digital economy, che riescono ad accedere ai mercati di vendita di beni e servizi senza necessità di un radicamento sul territorio che non sia rappresentato dalla presenza degli acquirenti dei suddetti beni e servizi: alla base della nuova disposizione si colloca la chiara preoccupazione per l’individuazione di un nuovo nexus, rappresentato dalla presenza economica significativa, pur in assenza di una consistenza fisica; fattispecie tipica delle imprese dell’economia digitale, le quali – come si è più volte detto – riescono ad operare sui mercati esteri a prescindere da una presenza fisica. Ma la formulazione della nuova lettera f-bis) del comma 2 dell’art. 162 TUIR è del tutto generica e non si riferisce unicamente, come forse sarebbe opportuno, alle imprese della digital economy. A ben guardare, quando l’OCSE affronta il tema della digital economy e del nuovo nexus (83), non tocca la tradizionale nozione di stabile organizzazione materiale, ma fonda il nuovo nexus sul concetto di “significativa presenza economica”, misurata da una pluralità di fattori (i ricavi, la presenza digitale, il numero degli utilizzatori) segnalatori del collegamento tra l’impresa non residente e il territorio dello Stato. Dunque, nella prospettiva dell’OCSE, la nozione tradizionale di stabile organizzazione, più che cambiare, dovrebbe ampliarsi a ricomprendere nuove forme di stabile organizzazione tipiche dell’economia digitale. Da questo punto di vista, la nuova lettera f-bis) dell’art. 162 del TUIR doveva esser resa autonoma dalla nozione di stabile organizzazione materiale: questo anche perché, come correttamente rilevato (84), l’Italia ha aderito alla posizione dell’OCSE secondo cui la lista delle installazioni contenute
(83) Cfr.: Final Report del 2015 sull’Action 1 “Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy”, par. 277. (84) Cfr.: S. Mayr - G. Fort, op. cit.
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nel par. 2 dell’art. 5 del modello ha carattere solo esemplificativo e dunque, al fine di verificare la sussistenza di una stabile organizzazione materiale per tutte le ipotesi del secondo comma dell’art. 162 – compresa ora l’ipotesi della lett. f-bis) – devono essere verificati tutti i requisiti (di ordine temporale, fisico e strumentale) indicati nel primo comma. E, per questa strada, si arriva a un corto circuito logico sistematico: come è possibile che la “mancanza di consistenza fisica” della lett. f-bis) possa integrare al contempo il requisito della stabile organizzazione fisica di cui al comma 1? L’impressione è che l’introduzione della lett. f-bis) sia stata poco meditata e che meglio sarebbe stato allinearsi alla posizione OCSE e UE, pensando a ridisegnare i contorni di una nuova e ulteriore forma di stabile organizzazione, rappresentata dalla presenza digitale significativa, collocandola in apposito comma dell’art. 162 del TUIR. Quanto alla negative list contenuta nel comma 4 dell’art. 162 del TUIR, essa è stata modificata, in conformità al nuovo par. 4 dell’art. 5 del modello OCSE, per precisare che le diverse attività preparatorie o ausiliarie rispetto all’attività principale dell’impresa non residente – attività preparatorie o ausiliarie che erano automaticamente escluse dalla nozione di stabile organizzazione ai sensi del testo previgente della norma – restano attualmente escluse solo in esito a una valutazione casistica, volta a verificare se realmente le suddette attività siano o non siano parte essenziale del business dell’impresa estera (85). Sempre in conformità a quanto previsto dalla Convenzione multilaterale, è stata poi introdotta nel nuovo comma 5 dell’art. 162 la c.d. antifragmentation rule, finalizzata a evitare che l’impresa estera possa “disinnescare” la presenza della stabile organizzazione smembrando strumentalmente le attività tra società diverse, per ricondurle impropriamente alla negative list. Anche questa previsione – destinata ad applicarsi in assenza di Convenzione oppure in presenza di una Convenzione nella quale non sia stata esercitata specifica riserva di applicazione – rischia di ampliare il potere di tassazione dell’Italia come Stato della fonte, ma pare altresì suscettibile di sollevare difficoltà applicative, posto che lo stesso Commentario non fornisce al riguardo particolari chiarimenti o esemplificazioni.
(85) Per una casistica delle ipotesi in cui le attività preparatorie ed ausiliarie potrebbero configurare una stabile organizzazione, svuotando così di contenuto la c.d. negative list, sia consentito rinviare agli esempi contenuti nel Commentario al modello OCSE.
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Da ultimo, è stata modificata la nozione di stabile organizzazione personale e di agente indipendente di cui ai commi 6 e 7 dell’art. 162, abbassando in maniera considerevole la soglia per poter riconoscere la presenza della suddetta stabile organizzazione personale, con la conseguenza di ampliare la potestà impositiva del nostro Paese, ma solo in assenza di Convenzione contro le doppie imposizioni o solo con riferimento a figure di intermediari già considerati, ai fini della configurazione di una stabile organizzazione personale, dalle precedenti versioni del modello OCSE e dalle Convenzioni ad esse conformi. Il tema, come sopra accennato, si ricollega alla vecchia pratica di eludere l’esistenza di una stabile organizzazione ricorrendo alla figura del commissionaire, cioè di un soggetto indipendente dall’impresa estera che, tuttavia, operi esclusivamente o quasi per conto di una o più imprese con le quali è strettamente correlata. Tutte le modifiche apportate all’art. 162 del TUIR – destinate a trovare applicazione, come già osservato, in assenza di Convenzione o in presenza di una Convenzione redatta sul Modello OCSE 2017 o comunque di una Convenzione che abbia già incorporato nel suo testo i nuovi principi – paiono volte ad ampliare la sfera del potere impositivo del nostro ordinamento; ma numerosi restano i profili sistematici e operativi che richiederebbero dei chiarimenti. Forse, piuttosto che una fuga in avanti alla ricerca di soluzioni comunque destinate a confrontarsi con un contesto globale, i singoli ordinamenti dovrebbero più opportunamente coordinarsi non solo per aggiornare le regole di tassazione del reddito alle nuove modalità di business di un contribuente “globale”, ma soprattutto dovrebbero confrontarsi e accordarsi sui criteri con i quali ripartire il reddito (o, più in generale, le manifestazioni di capacità contributiva di questi soggetti globali) tra i diversi ordinamenti coinvolti nella produzione della ricchezza. Questo è il nodo che dovremo affrontare nei prossimi anni: e c’è da scommettere che sul peso relativo dei diversi fattori – asset (materiali e immateriali), addetti, consumatori – che possono concretizzare la vis attractiva degli ordinamenti nazionali nei confronti del reddito, assisteremo allo scontro tra i Paesi industrializzati dell’Unione europea nei quali si trovano i principali mercati (e dunque i destinatari dei servizi dell’economia digitale) e le potenze economiche – in primis Stati Uniti e Giappone – nei cui territori risiedono le società detentrici degli intangibles e degli algoritmi che governano la digital economy. Dunque, quella che si presenterà nei prossimi anni è una sfida doppia:
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trovare, per i redditi della new economy, un consenso in Europa per assicurare che profitti guadagnati in Europa siano tassati in Europa ed evitare il contrasto internazionale con i Paesi nei quali sono localizzati gli intangibles che guidano questa nuova economia.
Loredana Carpentieri
Note brevi sull’evoluzione del divieto di aiuti di Stato e sostenibilità dei sistemi fiscali Sommario: 1. Cenni introduttivi: il contesto internazionale ed europeo di riferimento. – 2. Il divieto di aiuti di Stato applicato alla fiscalità d’impresa. – 3. Le criticità di un’interpretazione progressivamente estensiva del divieto di aiuti di Stato in materia fiscale. – 4. I profili fiscali della Comunicazione 2016/01 262/01 della Commissione in materia di aiuti di Stato. – 5. Verso un nuovo modello di sostenibilità fiscale del divieto di aiuti di Stato? Il diritto europeo tributario sembra avere trovato una nuova forza propulsiva nell’applicazione progressivamente estensiva del divieto di aiuti di Stato, che nel caso Apple è stato utilizzato dalla Commissione UE per contrastare la prassi dei ruling fiscali concessi dai singoli Stati membri ad imprese multinazionali. Potrebbe esserci del vero nelle argomentazioni addotte dalla Commissione UE, ma il punto è capire quanto sia sostenibile tale strategia nel medio periodo, considerando che in linea teorica il divieto di aiuti di Stato potrebbe applicarsi a tutte le forme di arbitraggio contenute nel progetto BEPS. La stessa Commissione UE sembra rendersene conto, avendo proposto un nuovo modello di sostenibilità del divieto di aiuti di Stato che fa perno su un pacchetto di misure sulla trasparenza fiscale e sulla rinnovata attenzione verso la Common Consolidated Corporate Tax Base (CCCTB). European Tax Law seems to have a new propeller through the progressively wider application of the State aid rules, which have been used by the EU Commission to fight tax rulings released by single Member States to multinational enterprises. There could be some truth in the arguments of the EU Commission, however the issue is to understand how much this strategy is sustainable in the medium run, considering that in principle the State aid rules may apply all arbitrations as set forth within the BEPS project. The EU Commission itself seems to understand the danger, and has proposed a sustainable model of State aid rules, which is based on a package of measures on tax transparency and a renewed attention on the Common Consolidated Corporate Tax Base (CCCTB).
1. Cenni introduttivi: il contesto internazionale ed europeo di riferimento. – La prima decade del nuovo millennio ha visto contemporaneamente
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l’avvento della digitalizzazione dell’economia globale, che ha contribuito alla inesorabile erosione delle basi imponibili degli Stati sovrani a tutto vantaggio dei profitti delle imprese multinazionali, e l’esplosione di una crisi finanziaria senza precedenti che ha costretto gli Stati sovrani a indebitarsi per salvare sé stessi. Una miscela esplosiva che sta producendo cambiamenti istituzionali ad ogni livello, nazionale, internazionale e sovranazionale; tutti accomunati dalla pressante richiesta di azioni più incisive. In questo contesto, il cammino verso una forma sostenibile di governo di tali fenomeni non è il risultato di una strategia unica, quanto piuttosto di una inedita miscela di soluzioni diverse, basate su meccanismi flessibili e sperimentazioni originali che implicano notevoli sforzi di adattamento (1). Nel contesto della fiscalità internazionale, la maggiore espressione di questa evoluzione è rappresentata senza dubbio dal Progetto Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), varato dall’OCSE per contrastare su scala globale la pianificazione fiscale aggressiva delle imprese multinazionali (2). Esso rappresenta una novità assoluta per il contesto europeo, la cui evoluzione è pesantemente influenzata dall’intervento della Commissione, sostenuto dalla Corte di Giustizia, volto a rimuovere le restrizioni fiscali nazionali, comprese quelle di carattere antielusivo, alla libera circolazione dei fattori di produzione all’interno del mercato unico. Sul piano della fiscalità europea, se da una parte la UE ha modificato il proprio approccio a queste tematiche per accompagnare il recepimento delle raccomandazioni OCSE, ad esempio attraverso l’adozione della Direttiva
(1) Per una panoramica generale di alcune delle principali tematiche legate allo sviluppo dell’economia digitale si vedano, tra gli altri, A. Cockfield, W. Hellerstein, R. Millar, C. Waerzeggers, Taxing Global Digital Commerce, Alphen aan den Rijn, 2013, 3 ss.; M. Peitz, J. Waldfogel (a cura di), The Oxford Handbook of the Digital Economy, New York, 3 ss.; O. Popa, Taxation of the Digital Economy in Selected Countries – Early Echoes of BEPS and EU Initiatives, in European Taxation,1/2016, 38 ss.; L. Del Federico, C. Ricci (a cura di), La digital economy nel sistema tributario italiano ed europeo, Quaderni del CIRTE, 1 ss.; S. Cipollina, Profili evolutivi della CFC legislation: dalle origini all’economia digitale, in Riv. di Dir. Fin. e Sc. Fin., fasc. 3, 2015, 356 ss.; Id., I redditi “nomadi” delle società multinazionali nell’economia globalizzata, in Riv. di Dir. Fin. e Sc. Fin., fasc. 1, 2014, 21 ss.; e R.J. Buchanan, The New Millenium Tax Dilemma, in Tax Notes International, 26 agosto 2002, 1097 ss.; B. Westberg, Taxation of the Digital Economy – An EU Perspective, in European Taxation, 12/2014, 541 ss.; e W. Hellerstein, Jurisdiction to Tax in the Digital Economy: Permanent and Other Establishments, in Bulletin for International Taxation, 6-7/2014, 346 ss. (2) Tra i più recenti commenti di dottrina sul Progetto BEPS si vedano P. SaintAmans, R. Russo, The BEPS Package: Promise Kept, in Bulletin for International Taxation,
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2016/1164 (3) (c.d. Anti Tax Avoidance Directive – ATAD 1, modificata a sua volta dalla Direttiva 2017/952 – cd ATAD 2, relativamente ai disallineamenti da ibridi con i paesi terzi,), dall’altra, si può osservare come la Commissione stia sperimentando un’interpretazione progressivamente sempre più estensiva del divieto di aiuti di Stato (di natura fiscale) (4). Quest’ultimo è finalizzato a contrastare, in via alternativa o surrogata ad un potere impositivo che non le appartiene, le misure di attrazione fiscale che possono ostacolare il corretto funzionamento del mercato interno. Sembra di rivivere il momento storico della fine del secolo scorso quando, sempre in via alternativa o surrogata ad un potere impositivo che non è mai stato consegnato dagli Stati membri all’ordinamento sovranazionale, la Corte di Giustizia interpretò estensivamente il principio di non discriminazione, contribuendo così a promuovere l’integrazione “negativa” dei sistemi tributari europei (5). In quel periodo la finalità era quella di integrare il mercato interno rimuovendone le barriere fiscali, mentre ora l’obiettivo è di assicurare una concorrenza leale tra imprese, ossia, tradotto
4/2016, 236 ss.; E. Traversa, A. Flamini, The Impact of BEPS on the Fight Against Harmful Tax Practices: Risks... and Opportunities for the EU, in British Tax Review, 3, 2015, 396 ss.; T. Lyons QC, International taxation and the BEPS Action Plan: challenged by modernity?, in British Tax Review, 5, 2014, 519 ss.; A. Myszkowsky, Mind the Gap: The Role of Politics and the Impact of Cultural Differences on the OECD BEPS Project, in Bulletin for International Taxation, 5/2016, 279 ss.; A. Ting, The Politics of BEPS – Apple’ s International Tax Structure and the US Attitude towards BEPS, in Bulletin for International Taxation, 6-7/2015, 410 ss.; G. Cooper, M. Stewart, The Road Home? Finalizing and Implementing the BEPS Agenda, in Bulletin for International Taxation, 6-7/2015, 311 s.; O. R. Hoor, K. O’Donnell, S. SchmitzMerle, EU Commission Releases Draft Directive on BEPS: A Critical Analysis from a Luxembourg Perspective, in European Taxation, 5/2016, 192 ss. Per alcuni spunti sul tema della sostenibilità nell’abito del BEPS si vedano anche L. Wagenaar, The Effect of the OECD Base Erosion and Profit Shifting Action Plan on Developing Countries, in Bulletin for International Taxation, 2/2015, 84 ss.; e A. W. Oguttu, OECD’ s Action Plan on Tax Base Erosion and Profit Shifting: Part 1 - What Should Be Africa’ s Response?, Bulletin for International Taxation, 11/2015, 653 ss. (3) Direttiva (UE) 2016/1164 del Consiglio del 12 luglio 2016 recante norme contro le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul funzionamento del mercato interno. Si veda anche A. Cédelle, The EU Anti-Tax Avoidance Directive: a UK perspective, in British Tax Review, 6, 2016, 490 ss. (4) Per una prospettiva storica si veda F. Capello, La giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di aiuti di stato, in Dir. prat. trib., 4, 2006, 20803 ss. (5) Giova qui citare A. Fantozzi, Armonizzazione fiscale tra modelli comunitari e autonomia normativa degli Stati: Relazione al convegno di studi Le ragioni del diritto tributario in Europa, Bologna, 26-27 settembre 2003; e F. Fichera, Fisco e Unione europea: l’acquis communitaires, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2003, 449-450.
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in termini di policy, di assicurare una concorrenza leale tra i sistemi fiscali degli Stati membri (6). 2. Il divieto di aiuti di Stato applicato alla fiscalità d’impresa. – Sulla base di questa breve ma suggestiva premessa, è in primo luogo opportuno approfondire la validità giuridica di questa interpretazione progressivamente estensiva del principio del divieto di aiuti di Stato ex art. 107 del TFEU, al fine di valutarne la sostenibilità nel medio e lungo periodo e la sua equilibrata coesistenza con il principio della leale cooperazione (7). Si parta dalla fine. Il 30 agosto 2016 la Commissione europea ha chiesto al gruppo informatico americano Apple il rimborso di imposte dirette fino a 13 miliardi di euro (cui aggiungere gli interessi), che le Autorità fiscali irlandesi non avrebbero riscosso da due filiali controllate dalla multinazionale e stabilite in Irlanda come entità ivi imponibili (8). Si tratta di Apple Sales International e Apple Operations Europe, che in forza di un accordo fiscale preventivo (“administrative tax ruling”) hanno beneficiato, per il decennio 2003-2014, di una determinazione molto vantaggiosa del reddito imponibile e di un’aliquota d’imposta oscillante tra lo 0,5% e lo 0,005%, in luogo della normale aliquota irlandese del 12,5% (9). In termini analoghi sono state mosse contestazioni anche ad altre multinazionali, come ad esempio Starbucks (per risarcire l’Olanda) e FCA (per
(6) Per una ricostruzione della evoluzione storica di questa miscela fiscale tra concorrenza, armonizzazione/coordinamento e aiuti di stato, si veda G. Melis, Coordinamento fiscale nell’Unione Europea, in Enciclopedia del diritto, 398 ss; anche C. Fontana, Gli aiuti di stato di natura fiscale, Torino, 2012, 67 ss. (7) Cfr. W. Schön, Tax Legislation and the Notion of Fiscal Aid: A Review of 5 Years of European Jurisprudence, in I. Richelle, W. Schön, E. Traversa (a cura di), State Aid Law and Business Taxation, Berlino, 2016, 3 ss. Più in generale, si veda anche H. C. H. Hofmann, C. Micheau, State Aid Law of the European Union, Oxford, 2016. (8) Per quanto riguarda le strategie fiscali dei grandi gruppi multinazionali si veda anche, tra gli altri, W. Vleck, Offshore Finance and Global Governance – Disciplining the Tax Nomad, Londra, 2017. (9) Si vedano anche, tra gli altri, R. Rizzardi, Dal caso “Apple” alla concorrenza fiscale corretta, in Corr. trib., n. 42/2016, 3235 ss.; E. De Mita, Per l’armonizzazione un lungo cammino, in Dir. Prat. Trib., n. 5/2016, 2056; J. C. Fleming, The Apple State Aid Case: Who Has a Dog in the Fight?, in Tax Notes International, 9 gennaio 2017, 179 ss.; M. Herzfeld, The Apple Decision: Lessons for Taxpayers, in Tax Notes International, 9 gennaio 2017, 125 ss.; e S. Gibson, The Luxembourg Fox in the European Henhouse, in Tax Notes International, 9 gennaio 2017, 123 ss.
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risarcire il Lussemburgo), oltre che all’Excess Profit Scheme belga (10). Il controllo sugli aiuti di Stato da parte della Commissione è uno strumento di contrasto ai regimi fiscali preferenziali per le attività infragruppo che gli Stati membri pongono in essere al fine di attrarre selettivamente certe attività particolarmente mobili. Tale interpretazione fa data a partire dal 1974, anno in cui proprio in un caso che coinvolgeva l’Italia (11) la Corte di Giustizia chiarì che il controllo in materia di aiuti può riguardare le misure fiscali nazionali, sia di “attrazione” che di “difesa” rispetto alla concorrenza fiscale estera, chiarendo così anche la correlazione tra tale divieto di aiuti di Stato e la concorrenza fiscale internazionale. A seguito della Comunicazione del 1998 relativa all’applicazione delle norme sugli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese (12), fortemente voluta dall’allora Commissario Monti, la Commissione ha condotto indagini nei confronti delle strategie di attrazione fiscale internazionale poste in essere da parte di alcuni Stati membri, accusati di pratiche di concorrenza sleale ai sensi del Codice di condotta (13). Nel contesto attuale, l’applicazione dei principi generali affermati dalla Commissione può rivelarsi a tratti scivolosa nel caso specifico dei ruling. Infatti, la sua Comunicazione si rivela ondivaga, lanciando messaggi che potrebbero apparire alquanto contraddittori (14).
(10) Si veda F. Cachia, Analysing the European Commission’s Final Decisions on Apple, Starbucks, Amazon and Fiat Finance & Trade, in EC Tax Review, 2017-1, 23 ss. (11) Cfr. sentenza della Corte di Giustizia 2 luglio 1974, causa C-173/73, Italia / Commissione, ECLI:EU:C:1974:71. (12) Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese (98/C 384/03). A riguardo si veda anche L. Cerioni, The introduction of comprehensive approaches to business taxation: at the root of competition and discrimination dilemmas or ... the long and winding road to a solution? - Part 1, in European Taxation, 12-2005, 541 ss. (13) Conclusioni del Consiglio ECOFIN del 1° dicembre 1997 in materia di politica fiscale - Risoluzione del Consiglio e dei rappresentanti di governi degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio, del 1 dicembre 1997, su un codice di condotta in materia di tassazione delle imprese - Tassazione del risparmio (98/C 2/01). (14) Al punto 22 della Comunicazione si legge contemporaneamente che: “(…) Gli “administrative rulings” in quanto procedure destinate a fornire una semplice interpretazione delle regole generali, non danno luogo, di massima, ad una presunzione di aiuto. Tuttavia, la scarsa trasparenza delle decisioni adottate dalle amministrazioni ed il margine di manovra di cui talvolta dispongono possono motivare la presunzione che tali pratiche abbiano questo tipo di effetto per lo meno in alcuni casi. Ciò non limita le possibilità per gli Stati membri di fornire ai propri contribuenti certezza e prevedibilità del diritto in ordine all’applicazione delle
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Le imprese multinazionali, per la verità, non si sono affatto scoraggiate né di fronte a tali ambiguità, né tanto meno di fronte alle successive pronunce della Corte di Giustizia. In particolare, giova ricordare la sentenza pronunciata nella causa Gibilterra (15), in cui la Corte ha stabilito che non era illegittimo per la Commissione utilizzare le proprie prerogative in materia di controllo degli aiuti di Stato per contrastare misure di attrazione fiscale internazionale. Ancor prima, nella sentenza Forum 187 (16) la Corte aveva affermato che i regimi fiscali preferenziali (centri di coordinamento con sede in Belgio) potevano ben costituire aiuti di Stato vietati se la Commissione dimostrava che questi fornivano vantaggi fiscali selettivi a favore di determinate imprese, in maniera derogatoria rispetto al regime fiscale normalmente applicabile e senza che sussistesse alcuna giustificazione (17). 3. Le criticità di un’interpretazione progressivamente estensiva del divieto di aiuti di Stato in materia fiscale. – Quasi fosse una reazione ai fenomeni enunciati in premessa (digitalizzazione dell’economia e indebitamento da crisi finanziaria), la Commissione UE ha progressivamente esteso l’ambito della sua interpretazione della normativa sugli aiuti di Stato, arrivando in ultimo a contestare singoli ruling concessi a determinate multinazionali (18), sulla scorta del fatto che questi sarebbero stati loro concessi “discrezionalmente” e senza corrispondenza con il trattamento “generalmente” riservato agli altri contribuenti. A titolo esemplificativo, la Commissione ha contestato alla Apple (19)
norme fiscali generali”. Al successivo punto 35 si legge poi che la Commissione, constatata la violazione al divieto di aiuti di Stato, “(…) ne esige il recupero da parte dello Stato membro, tranne quando ciò sarebbe contrario ad un principio fondamentale del diritto comunitario, in particolare il legittimo affidamento che può essere determinato dall’atteggiamento della Commissione”. (15) Sentenza della Corte di Giustizia 15 novembre 2011, procedimenti riuniti C‑106/09 P e C‑107/09 P, Commissione e Spagna / Government of Gibraltar e Regno Unito, ECLI:EU:C:2011:732. (16) Sentenza della Corte di Giustizia 22 giugno 2006, causa 182/03, Belgio / Commissione, ECLI:EU:C:2006:416. (17) Si veda anche P. Rossi-Maccanico, Fiscal Aid Review and Cross-Border Tax Distortions, in Intertax, vol. 40, 2, 2012, 92 ss. (18) In tema di ruling si vedano in particolare, C. Romano, Advance Tax Rulings and Principles of Law – Towards a European Tax Rulings system?, Amsterdam, 2002; e C. H. J. I. Panayi, Advanced Issues in International and European Tax Law, Oxford, 2015, 267 – 281. (19) Cfr. Commission Decision of 30.8.2016 on State Aid SA.38373 (2014/C) (ex 2014/NN) (ex 2014/CP) implemented by Ireland to Apple, Brussels, 30 agosto 2016, C(2016) 5605 final.
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(rectius alle Autorità fiscali irlandesi) la corretta applicazione del principio del prezzo di libera concorrenza (arm’s length) con riguardo alla allocazione dei suoi profitti in chiave “glocale”. Ciò, pur nella consapevolezza che nel calcolo delle imposte omesse possano essere state incluse anche quelle su imponibili tassabili in altre giurisdizioni diverse dall’Irlanda. Insomma, un singolo atto giuridico di accertamento con effetti “plurilaterali”. Apple ha recentemente impugnato le contestazioni della Commissione dinanzi alla Corte di Giustizia (20). Il ricorso si basa su ben quattordici motivi, dei quali, ai fini del presente contributo, il n. 14 è particolarmente rilevante: “[…] la Commissione avrebbe violato la certezza del diritto ordinando il recupero sulla base di un’interpretazione imprevedibile della normativa sugli aiuti di Stato; non avrebbe esaminato tutti gli elementi di prova rilevanti, in contrasto con il suo obbligo di diligenza; non avrebbe motivato la decisione in modo adeguato; e avrebbe ecceduto la propria competenza ai sensi dell’articolo 107 TFUE tentando di snaturare il sistema irlandese dell’imposta sulle società”. La risposta della Corte a questo motivo di impugnazione in una causa di tale rilevanza, ed in particolare al teorizzato eccesso di competenza, potrebbe avere effetti dirompenti sulle future politiche della Commissione in materia di aiuti di Stato. Invero, un accoglimento della tesi della ricorrente potrebbe comportare una radicale inversione di rotta in questo campo e segnare, di fatto, la fine dell’attuale tendenza alla progressiva estensione del perimetro applicativo dell’art. 107 TFUE. Di contro, un rigetto aggiungerebbe una freccia nella faretra della Commissione per eventuali contestazioni della stessa natura in futuro e rappresenterebbe un forte sostegno alla sua attuale interpretazione della normativa sugli aiuti di Stato. In attesa di conoscere i futuri sviluppi della vicenda, si segnalano almeno due criticità di questa iniziativa della Commissione, sia di natura procedurale che sostanziale. Innanzitutto, si rileva una distribuzione poco chiara dell’onere della prova tra la Commissione, gli Stati membri oggetto delle indagini e le imprese multinazionali che ne subiscono le conseguenze. Di poi, si possono rilevare mancanze circa l’applicazione del principio del contraddittorio alla prassi amministrativa degli accordi fiscali, che spesso non tengono conto del fatto che queste imprese potrebbero contemporaneamente avere altri accordi
(20) Cfr. Ricorso proposto il 19 dicembre 2016 – Apple sales International e Apple Operations Europe/Commissione (T-892/16) (2017/C 053/46).
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con altre Amministrazioni. Alla luce del divieto di aiuti di Stato, un conto è la concessione di un accordo fiscale standard e generale a tutte le imprese multinazionali; ben diversa è invece la concessione, in deroga alla prassi “generale”, di accordi fiscali “su misura”. Tali criticità sfociano in una criticità sostanziale, ed il rischio è anche quello di determinare il quantum sulla base della differenza tra l’imposta effettiva sopportata dal beneficiario dell’accordo fiscale individuale e l’imposta che avrebbe dovuto pagare applicando l’aliquota statutaria su un ricalcolo analitico dei profitti tassabili alla luce delle scritture contabili. L’ammontare dell’aiuto dovrebbe invece essere correttamente individuato guardando sempre alla differenza tra l’imposta effettivamente pagata e quella che sarebbe stata pagata se l’accordo fiscale fosse stato concesso correttamente dallo Stato membro. Infine, vale la pena fare una brevissima considerazione sul principio generale del legittimo affidamento di cui i soggetti interessati possono chiedere l’applicazione per evitare il recupero in quei casi in cui è proprio la Commissione ad aver creato incertezza. Non si può non tener conto del fatto che è la Commissione stessa ad affermare nel giugno 2016 che gli accordi fiscali sono in generale legittimi (21); eppure un singolo accordo può essere successivamente ritenuto illegittimo. I beneficiari di ruling sono quindi impossibilitati a stabilire al momento della concessione se uno specifico ruling sia classificabile come aiuto di Stato senza che vi sia un intervento della Commissione. Di fatto, tutti i ruling non esaminati dalla Commissione sono potenzialmente a rischio di contestazione, nonostante siano concessi “direttamente” dal soggetto attivo del rapporto tributario. Si può facilmente immaginare quali importanti conseguenze tale ragionamento porti con sé nell’ambito di determinati incentivi fiscali recentemente introdotti, come ad esempio i patent box (22).
(21) Cfr. DG Competition – Internal Working paper – Background to the High Level Forum on State Aid of 3 June 2016, DG Competition Working Paper on State Aid and Tax Rulings, punto (5): “The Commission does not call into question the granting of tax rulings by the tax administrations of the Member States. It recognises the importance of advance rulings as a tool to provide legal certainty to taxpayers. Provided they do not grant a selective advantage to specific economic operators, tax rulings do not raise issues under EU State aid law. Since 2013, the Commission’s Directorate-General for Competition (DG Competition) has been carrying out an inquiry into tax ruling practices from this perspective of EU State aid rules”. (22) Sul punto si veda anche A. Vicini Ronchetti, Regole europee ed incentivi fiscali
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4. I profili fiscali della Comunicazione 2016/01 262/01 della Commissione in materia di aiuti di Stato. – Tali perplessità sono confermate anche dalla lettura della Comunicazione della Commissione UE del 19 luglio 2016 sulla nozione di aiuto di Stato (23). Essa sostituisce la precedente del 1998 e contiene alcuni aspetti relativi alle misure fiscali, ma non riesce a fugare i dubbi su come inquadrare in termini sistematici i ruling nel contesto del divieto di aiuti di Stato. Alla semplice lettura del testo, il suo approccio, infatti, continua a sembrare ondivago, più confusionario che chiarificatore: da un lato si afferma che gli Stati hanno tutto il diritto di emanare decisioni amministrative preliminari per soddisfare il principio di certezza e prevedibilità nei rapporti Fisco contribuente, dall’altro però puntualizza che queste decisioni devono adeguatamente corrispondere al regime fiscale generale, escludendo l’eventualità che falsino o minaccino di falsare la concorrenza secondo una probabilità che non sia meramente ipotetica (24). Sembra quasi che una parola sia poca ma due siano troppe.
allo sviluppo dei brevetti: prime considerazioni sulla Patent Box, in Rass. Trib., n. 3 del 2016, 671 ss. (23) Informazioni provenienti dalle istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell’Unione europea, Commissione europea, 19 luglio 2016, Comunicazione della Commissione sulla nozione di aiuto di Stato di cui all’articolo 107, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (2016/C 262/01). (24) I punti salienti ai fini della presente indagine sono i seguenti: il 156 (“Gli Stati membri sono liberi di scegliere la politica economica che ritengono più appropriata e, in particolare, di ripartire la pressione fiscale sui diversi fattori di produzione nella maniera che reputano adeguata. Ciononostante, gli Stati membri devono esercitare tale competenza nel rispetto del diritto dell’Unione”); il 169 (“(…) Per ragioni di certezza del diritto, molte autorità tributarie nazionali emanano decisioni amministrative preliminari sulle modalità di trattamento di operazioni specifiche sotto il profilo fiscale. (…) Gli Stati membri possono fornire ai propri contribuenti certezza e prevedibilità del diritto in ordine all’applicazione delle norme fiscali generali, il che è maggiormente garantito se le loro prassi amministrative riguardanti i ruling sono trasparenti e se i suddetti ruling sono pubblicati”); il successivo 170 (“I ruling devono, tuttavia, essere conformi alle norme in materia di aiuti di Stato. Qualora avalli un esito che non corrisponda adeguatamente a quanto risulta dalla normale applicazione del regime fiscale generale, un ruling può conferire un vantaggio selettivo al destinatario, nella misura in cui il trattamento selettivo comporta una riduzione del debito tributario dovuto al destinatario nello Stato membro rispetto ad altre imprese che si trovano in una situazione di diritto e di fatto analoga”); il 173 (“Per valutare se un accordo preventivo sui prezzi di trasferimento sia conforme al principio di libera concorrenza inerente all’art. 107, paragrafo 1, del trattato, la Commissione può tenere conto delle indicazioni fornite dall’OCSE, in particolare degli orientamenti sui prezzi di trasferimento per le imprese multinazionali e le amministrazioni fiscali (…). Di conseguenza se l’accordo sui prezzi di trasferimento corrisponde alle indicazioni fornite dagli orientamenti dell’OCSE in materia, comprese quelle sulla scelta del metodo più adeguato che conduce a un’approssimazione
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Più puntualmente è una autorevole dottrina internazionale a ragionare da tempo sulla possibilità teorica di applicare il divieto di aiuti di Stato a tutte le forme di arbitraggio fiscale contenute nel Progetto BEPS dell’OCSE (25). L’ampliamento dell’ambito applicativo della nozione di aiuto di Stato rappresenterebbe senza dubbio una rivoluzione dell’attuale quadro giuridico dell’Unione. Richiederebbe una profonda revisione di alcune delle sue fondamenta, come ad esempio la selettività che deve caratterizzare l’incentivo; ma d’altro canto aumenterebbe significativamente l’incisività dell’azione della Commissione, con una conseguente nuova e decisa spinta propulsiva in direzione dell’integrazione. A tal proposito, non si potrebbero escludere dall’ambito applicativo del divieto quei comportamenti elusivi di cui uno Stato membro fosse inconsapevole, trasformandosi quasi paradossalmente in una doppia vittima, dell’impresa multinazionale da un lato, e della Commissione dall’altro. Inevitabile sarebbe portare la procedura in materia di aiuti a sovrapporsi al controllo che le Amministrazioni nazionali devono condurre in materia di elusione fiscale internazionale. Tale estensione del perimetro dell’utilizzabilità del divieto di aiuti di Stato potrebbe arrivare a creare uno strumento molto utile anche per il contrasto di quelle fattispecie nelle quali è lo stesso Stato membro a consentire, più o meno volutamente, comportamenti elusivi. 5. Verso un nuovo modello di sostenibilità fiscale del divieto di aiuti di Stato? – La Commissione UE sembra comprendere i rischi delle attuali derive e si è fatta parte diligente in due iniziative che potrebbero rappresentare le basi di un nuovo modello di sostenibilità fiscale del divieto degli aiuti di Stato. La prima iniziativa è rappresentata da un pacchetto di misure sulla traspa-
attendibile di un risultato rispondente alle condizioni di mercato, un ruling che avalli tale accordo non dovrebbe comportare aiuti di Stato”); il 187 (“Si ritiene che una misura concessa dallo Stato falsi o minacci di falsare la concorrenza quando è in grado di migliorare la posizione concorrenziale del beneficiario nei confronti di altre imprese concorrenti”); ed il 189 (“La definizione di aiuto di Stato non richiede che la distorsione della concorrenza o l’effetto sugli scambi siano sensibili o sostanziali. L’entità esigua di un aiuto o le dimensioni modeste dell’impresa beneficiaria non escludono, di per sé, l’eventualità che l’aiuto falsi o minacci di falsare la concorrenza, a condizione tuttavia che la probabilità di una tale distorsione non sia meramente ipotetica”). (25) Si veda P. Rossi-Maccanico, Fiscal Aid, Tax Competition, and BEPS, in Tax Notes International, 8 settembre 2014, 857 ss.
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renza fiscale varato nel 2015 (Direttiva 2015/2376) (26), il cui perno centrale è rappresentato dall’introduzione di un meccanismo di scambio automatico di informazioni fiscali tra gli Stati membri. Nel concreto, tale regime prevede alcuni obblighi di compliance per le aziende ed il successivo scambio automatico delle informazioni raccolte. L’intesa sulla proposta della Commissione UE fu raggiunta nel corso della riunione dell’Ecofin del 6 ottobre 2015 e prevede: (1) che per i tax ruling concessi, emendati o rinnovati tra il 1 gennaio 2012 e il 31 dicembre 2013, lo scambio di informazioni debba avvenire se ancora validi al 1 gennaio 2014; (2) mentre per quelli concessi, emendati o rinnovati tra il 1 gennaio 2014 e il 31 dicembre 2016, lo scambio di informazioni debba avvenire anche se le intese non sono più valide. Inoltre, gli Stati membri avranno facoltà di esentare da tale scambio automatico obbligatorio determinate imprese o gruppi di imprese, con l’eccezione di quelle che svolgono principalmente attività finanziarie o di investimento, che abbiano un fatturato netto annuo, a livello di gruppo, inferiore a €40 milioni. La direttiva è stata definitivamente approvata l’8 dicembre 2015 ed a partire dal 1 gennaio 2017 apporta significative modifiche alla direttiva 2011/16/ UE (27). Essa contiene le definizioni di ruling preventivo transfrontaliero e accordo preventivo sui prezzi di trasferimento, che sono sufficientemente ampie da comprendere: (i) accordi e/o decisioni preventive unilaterali sui prezzi di trasferimento; (ii) accordi e decisioni preventive bilaterali o multilaterali sui prezzi di trasferimento; (iii) accordi o decisioni che determinano l’esistenza o l’assenza di una stabile organizzazione; (iv) accordi o decisioni che determinano l’esistenza o l’assenza di fatti con un impatto potenziale sulla base imponibile di una stabile organizzazione; (v) accordi o decisioni che determinano lo status fiscale di un’entità ibrida in uno Stato membro legata ad un residente di un’altra giurisdizione; (vi) accordi o decisioni sulla base di una valutazione per l’ammortamento di un bene in uno Stato membro acquistato da una società di un gruppo in un’altra giurisdizione. In particolare, l’art. 1(b) della direttiva aggiunge all’art. 3 della direttiva 2011/16/UE, punto 14, la seguente definizione di “ruling preventivo tran-
(26) Direttiva (UE) 2015/2376 del Consiglio dell’8 dicembre 2015 recante modifica della direttiva 2011/16/UE per quanto riguarda lo scambio automatico obbligatorio di informazioni nel settore fiscale. (27) Direttiva 2011/16/UE del Consiglio del 15 febbraio 2011 relativa alla cooperazione amministrativa nel settore fiscale e che abroga la direttiva 77/799/CEE.
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sfrontaliero”: “un accordo, una comunicazione o qualsiasi altro strumento o azione con effetti simili, anche emanato, modificato o rinnovato nel contesto di una verifica fiscale, e che soddisfa le seguenti condizioni: (a) è emanato, modificato o rinnovato dal governo o dall’autorità fiscale di uno Stato membro, o per loro conto, o dalle ripartizioni territoriali o amministrative dello Stato membro, comprese le autorità locali, indipendentemente dal fatto che sia effettivamente usato; (b) è emanato, modificato o rinnovato nei confronti di una determinata persona o di un gruppo di persone e tale persona o gruppo di persone ha il diritto di invocarlo; (c) riguarda l’interpretazione o l’applicazione di una disposizione giuridica o amministrativa concernente l’amministrazione o l’applicazione di normative nazionali in materia di imposte dello Stato membro o delle ripartizioni territoriali o amministrative dello stato membro, comprese le autorità locali; (d) è correlato a un’operazione transfrontaliera oppure riguarda la questione se le attività svolte da una persona in un’altra giurisdizione costituiscano una stabile organizzazione o no; e (e) è emanato in via preliminare rispetto alle operazioni o alle attività in un’altra giurisdizione che potenzialmente costituiscono una stabile organizzazione o rispetto alla dichiarazione fiscale relativa al periodo in cui l’operazione o la serie di operazioni o le attività hanno avuto luogo”. La definizione di “accordo preventivo sui prezzi di trasferimento” ricalca sostanzialmente quella di “ruling preventivo transfrontaliero”, con la sola eccezione che l’accordo preventivo sui prezzi di trasferimento: “stabilisce, preliminarmente alle operazioni transfrontaliere fra imprese associate, una serie di criteri adeguati per la fissazione dei prezzi di trasferimento applicabili a tali operazioni o determina l’attribuzione degli utili a una stabile organizzazione”. La seconda iniziativa riguarda la rinnovata enfasi posta sull’armonizzazione della base imponibile obbligatoria per le imprese multinazionali, che potrà costituire in futuro un valido strumento per una fiscalità sostenibile. In tal senso può leggersi il Comunicato del 25 ottobre 2016, con cui la Commissione UE (28) manifesta l’intenzione di rivedere il modo in cui le società sono tassate nel mercato unico e propone un regime di imposta sul reddito delle società che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe essere più equo e favorevole alla crescita. Il tutto con l’obiettivo di creare condizioni di parità per le multinazionali in Europa ed arginare le possibilità di elusione fiscale,
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Comunicazione IP/16/3471, Imposta sul reddito delle società: la Commissione
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riducendo quindi anche la dialettica in essere sul tema del divieto degli aiuti di Stato. Tale nuova base imponibile comune, nota come Common Consolidated Corporate Tax Base (CCCTB), rispetto alla proposta del 2011 (29), (i) sarà obbligatoria per i grandi gruppi multinazionali che hanno la maggiore capacità di pianificazione fiscale aggressiva e garantirà che le imprese con ricavi complessivi superiori a 750 milioni di euro all’anno siano tassate dove realizzano effettivamente i propri profitti; (ii) colmerà le lacune attualmente connesse al trasferimento degli utili a fini fiscali; (iii) incoraggerà le imprese a finanziarsi mediante capitale e (iv) sosterrà l’innovazione tramite incentivi fiscali alle attività di ricerca e sviluppo collegate all’attività economica reale. Per favorire progressi rapidi, l’implementazione della CCCTB è stata suddivisa in un processo articolato in più fasi. In prima battuta, dovrà essere raggiunto rapidamente il consenso sulla base comune, così da farne conoscere alle imprese ed agli Stati membri i vantaggi principali. Il consolidamento dovrebbe essere introdotto in rapida sequenza, consentendo la fruizione dei vantaggi offerti da tale sistema. Gli ambiziosi obiettivi sono di combattere l’elusione fiscale eliminando i prezzi di trasferimento, i regimi preferenziali all’interno della UE ed i disallineamenti con i Paesi terzi; oltre che di sostenere la crescita, l’occupazione e gli investimenti nell’Unione. Si tratta di una dichiarazione importante, forse risolutiva nel segno di una fiscalità sostenibile; ma richiede un enorme sforzo politico verso un modello
propone una riforma sostanziale, Strasburgo, 25 ottobre 2016. Si veda anche C. Scardino, La UE rilancia la base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società (CCCTB), in Fisc. Comm. Int., n. 3 del 2016, 34 ss. (29) Si vedano a riguardo, tra gli altri, L. Cerioni, The Commission’s Proposal for a CCCTB Directive: Analysis and Comment, in Bulletin for International Taxation, 11/2011, 515 ss.; Id., Postponement of the Commission’s Proposal for a CCCTB Directive: Possible Ways Forward, in Bulletin for International Taxation, 2/2010, 98 ss.; M. Vascega, S. van Thiel, The CCCTB Proposal: The Next Step towards Corporate Tax Harmonization in the European Union?, in European Taxation, 9-10/2011, 374 ss.; J. Lamotte, New EU Tax Challenges and Opportunities in a (C)CCTB World: Overview of the EU Commission Proposal for a Draft Directive for a Common Consolidated Corporate Tax Base, in European Taxation, 6-2012, 271 ss.; H. T. P. M. van den Hurk, The Common Consolidated Corporate Tax Base: A Desirable Alternative to a Flat EU Corporate Income Tax?, in Bulletin for International Taxation, 4-5/2011, 260 ss.; e D. Weber (a cura di), CCCTB: Selected Issues, Alphen aan den Rijin, 2012.
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impositivo che di fatto sottrarrà sovranità fiscale agli Stati membri. Ciò, in ultima istanza, non può che comportare delle resistenze, più o meno trasparenti, che inducono a dubitare della sua effettiva possibilità di applicazione.
Giuseppe Marino
Le diverse declinazioni della soggettività passiva iva: il caso clinico delle società pubbliche in house Somamrio: 1. Premessa. Il fenomeno delle società in house e la soggettività iva. – 2. Le diverse accezioni della soggettività iva. Soggettività in senso stretto e soggettività in senso ampio (attività economica). – 3. Le società in house quale (autonomo) soggetto passivo iva. – 4. Le società in house come ente pubblico. – 5. Mercato concorrenziale e applicazione dell’iva: un equivoco da evitare. – 6. La necessità di guardare all’attività concretamente svolta dalla società in house. – 6.1. I diversi profili di osservazione dell’attività di una società in house. – 6.2. La possibilità di una società in house che svolga attività non economica. – 6.3. Le forme di finanziamento: l’imponibilità iva dei trasferimenti provenienti dall’ente pubblico controllante. – 6.4. I servizi forniti dalla società in house a terzi. – 7. Conclusioni. Le società in house sono uno strumento ormai largamente utilizzato nell’organizzazione della amministrazione pubblica italiana e che, con il TU in materia di partecipazioni, ha raggiunto una certa stabilità normativa. In quanto enti ibridi che coniugano elementi del settore pubblico e del settore privato, esse rappresentano un caso clinico di soggettività passiva ai fini iva. Diversi sono i profili rilevanti ai fini iva: dalla potenziale “unificazione” con l’ente controllante, alla qualificazione della società come ente pubblico, alla possibilità di considerare le società in house come escluse dal campo di applicazione dell’iva in quanto non operanti in un mercato concorrenziale. L’analisi svolta, anche alla luce della giurisprudenza europea, porta a concludere che l’unico profilo che realmente può avere incidenza sulla soggettività iva di tali società è il loro agire in quanto “pubblica autorità”. Il che porta a concludere che non esiste un “regime iva” delle società in house, ma è necessario concentrarsi sulla specifica attività che esse svolgono e sull’assetto (pubblicistico o privatistico) dei rapporti giuridici instaurati. In-house companies are a widespread tool in the organization of the Italian public administration. The relative regulatory framework was defined with the approval of the Consolidated Statutes on publicly owned companies. As hybrid bodies, they combine elements of both the public and private sectors, thus constituting a test case of taxable persons for VAT purposes. There are several important VAT issues to address in relation to in-house companies: from the possible unification with the controlling body, to the classification as public bodies, to the possibility of excluding the companies from the scope of VAT due to
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the fact that they operate outside the market. The conclusion of the analysis, also in the light of European case law, is that the only relevant issue from a VAT point of view is the possibility of acting as a public authority. That lends support to the argument that a VAT scheme for in-house companies does not exist at present, but it is necessary to focus on the specific activity carried out and on the “public” or “private” character of the legal relations they are involved in.
1. Premessa. Il fenomeno delle società in house e la soggettività iva. – È opinione piuttosto comune tra gli studiosi dell’organizzazione della pubblica amministrazione che negli ultimi decenni si sia assistito ad un processo di trasformazione del settore pubblico improntato alla moltiplicazione e alla diversificazione degli enti pubblici. L’idea della struttura pressoché monolitica del settore pubblico composto da pochi enti chiaramente individuabili, non è più attuale dal momento che vi è stata, negli ultimi anni, una metamorfosi della pubblica amministrazione sul piano soggettivo (1). Questo fenomeno ha poi imboccato nell’ultimo ventennio la strada della “privatizzazione” poiché nel processo di diversificazione-moltiplicazione dei soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione si è ampiamente fatto uso di forme giuridiche di diritto privato. Si è assistito all’emersione di soggetti ibridi regolati sia dal diritto privato che dal diritto pubblico e, all’interno di questa tendenza generale, uno dei punti di maggiore espressione della privatizzazione “formale” è rappresentato dalla creazione di società in house che nell’attuale momento storico presenta una notevole diffusione (2).
(1) Ciò non vuol dire che la nozione di ente pubblico abbia perso di attualità, come messo in luce da S. Cimini, L’attualità della nozione di ente pubblico, in Federalismi, 2015, 2 ss. Nella manualistica di diritto amministrativo, sullo stesso tema in chiave evolutiva F.G. Scoca, La pubblica amministrazione e la sua evoluzione, in Diritto Amministrativo a cura di F.G. Scoca, Torino, 2014, 66 ss., mentre tra le trattazioni monografiche, di recente, G. Gargano, Contributo allo studio della soggettività pubblica, Napoli, 2017, passim. (2) La letteratura sui profili giuridici delle società a partecipazione pubblica è sterminata. Volendosi limitare ai lavori successivi all’emanazione del Testo Unico D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, «Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica», senza alcuna pretesa si esaustività, E. Codazzi La società in house. La configurazione giuridica tra autonomia e strumentalità, Napoli, 2018; Aa.Vv. Le società a partecipazione pubblica. Commentario tematico ai d.lgs. 175/2016 e 100/2017, a cura di C. Ibba e I. Demuro, Bologna, 2018; Aa.Vv. Le ”nuove” società partecipate e in house providing, a cura di S. Fortunato e F. Vessia, Milano, 2017; V. Donativi, Le società a partecipazione pubblica, Milano, 2016, 1040 ss.; P. Pettiti, Gestione e autonomia nelle società titolari di affidamenti, Milano, 2016, 1 ss.
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L’espressione società in house (letteralmente, società in casa) è stata coniata nella prassi e nella giurisprudenza europea e nazionale per designare quelle società create o comunque poste sotto il controllo di uno o più enti pubblici e per le quali, in virtù di particolari vincoli statutari, contrattuali o normativi, non trova applicazione la disciplina di origine europea in materia di appalti pubblici (3). Ciò nel senso che l’ente pubblico può “affidare” l’esecuzione di un contratto pubblico a tale società, non applicando così la regola della assegnazione generale previa procedura competitiva pubblica. La giustificazione che è stata offerta a tale deroga era, ed è, data dall’inquadramento delle società in house quali articolazioni del complesso della pubblica amministrazione: esse vengono considerate “soggetti” interni al perimetro della pubblica amministrazione cui viene assegnato lo svolgimento di un determinato servizio o funzione pubblica. Posto questo inquadramento, e anche in considerazione della sempre maggiore diffusione che il fenomeno delle società in house ha avuto, la riflessione dottrinaria in relazione a tali società si è naturalmente allargata. Ci si è subito posti di fronte alla possibilità di considerare tali società come parte della pubblica amministrazione, non solo ai fini della normativa sugli appalti pubblici, ma anche per altri settori dell’ordinamento (4). Limitandosi ad alcuni aspetti che sono stati oggetto di ampia riflessione, ci si è chiesti se la presenza di una disciplina “speciale” sulla governance del soggetto societario potesse integrare un nuovo tipo societario (una società di diritto speciale) e come ciò si armonizzasse con le regole fondamentali del diritto societario (5). Ci si è poi chiesti, anche in considerazione della frequente
(3) L’origine delle società in house si deve alla celeberrima sentenza della Corte di giustizia C-197/98 Teckal in cui la Corte escluse la applicabilità della disciplina europea in materia di contratti pubblici sulla scorta del controllo analogo che l’ente pubblico svolgeva sulla società. (4) Anche perché si è stabilizzata l’opinione giurisprudenziale della relatività del concetto di ente pubblico e, per dirla con le parole del Consiglio di Stato, “si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica” C.d.S. Sentenza del 26 maggio 2015, n. 2660. In generale sulla nozione “funzionale e cangiante” di ente pubblico, vedi sempre G. Gargano, Contributo, cit. 303 ss. (5) Già da tempo la migliore dottrina aveva messo in guardia rispetto allo sconvolgimento che la disciplina delle società in house comporta rispetto ai principi che regolano il diritto societario, cfr. R. Costi, Servizi pubblici locali e società per azioni, in Giur. Comm., 1998, 798 ss.
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crisi in cui tali società erano condotte da atti di mala gestio, se a queste società si applicasse la disciplina delle procedure concorsuali prevista per le società di diritto privato oppure, parallelamente, se la natura sostanzialmente pubblica di tali società potesse radicare la giurisdizione della Corte dei Conti per danno erariale: questione che è stata lungamente dibattuta dalla giurisprudenza e che solo recentemente ha trovato una sistemazione normativa. Ancora, sotto il profilo lavoristico si è profilata la potenziale lesione della regola del concorso pubblico per le procedure di reclutamento e per la gestione del rapporto di lavoro adottate da tali società. Il fenomeno è stato quindi oggetto di studio da parte di diverse discipline giuridiche e sotto diverse angolazioni. Viceversa, sono stati relativamente pochi i contributi che hanno affrontato ex professo il tema nella prospettiva del regime fiscale di tali società (6) e in particolare della soggettività ai fini iva. È possibile che la poca attenzione riservata dalla letteratura di diritto tributario al fenomeno della società in house sia dipesa dal prolungarsi di una situazione di incertezza sugli aspetti strutturali di tali enti, il cui quadro normativo è apparso piuttosto tormentato e soggetto a continui aggiustamenti. Attualmente, però, la disciplina in materia di società pubbliche sembra aver acquisto un sufficiente grado di stabilità. Per un verso, la riflessione dottrinaria ha raggiunto un certo consenso sugli aspetti fondamentali e sistematici di tali società e, per altro verso, lelaborazione giurisprudenziale al livello europeo e nazionale si svolge ormai attorno ad alcuni punti fermi che non sono più posti in discussione. Soprattutto, l’evoluzione legislativa sembra aver raggiunto, seppur in maniera tormentata, una certa stabilità con la approvazione del D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, ossia del Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (d’ora in avanti anche Testo Unico). L’intero articolo 16 del Testo Unico è dedicato alla disciplina delle società in house e ne contiene una definizione che permette di coglierne i tratti caratterizzanti e il grado di potenziale “differenziazione” rispetto al regime societario delle altre società a partecipazioni pubblica (7).
(6) Di recente, A. Salvati, Riflessioni in tema di soggettività passiva iva delle società “in house”, in Rass. Trib. 2017, 28 ss., e qualche accenno in B. Denora, Spunti sulla nozione di attività economica degli enti pubblici in ambito Iva, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2014, 325 ss. Più in generale sulle società a partecipazione “mista” pubblico-privata R. Miceli, Società miste e diritto tributario: le questioni aperte, in Rass. Trib., 2006, 796. (7) Vale la pena riportare i commi 1 e 3 dell’art. 16 del Testo Unico. “Art. 16. Società in house
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Alla luce di questa raggiunta stabilizzazione, oltre che per l’ampia diffusione che il fenomeno ha raggiunto, una riflessione sul versante fiscale – e segnatamente sul tema della soggettività passiva iva – è oggi opportuna per completare il quadro giuridico di riferimento. Peraltro, la riflessione sul regime iva delle società in house è oggi propiziata dalla pubblicazione di alcune pronunce della Corte di giustizia che hanno affrontato il tema giungendo a conclusioni innovative nello sviluppo della giurisprudenza europea. Il confronto con queste pronunce, oltre ad esser necessario per il valore “normativo” da attribuire ad esse, è utile per distinguere e ordinare i temi di riflessione che ruotano attorno alla soggettività iva di tali società. Per vero, la questione della soggettività iva delle società in house è già stata posta diverse volte all’attenzione dell’amministrazione finanziaria (8). Dalla lettura combinata dei vari provvedimenti di prassi emerge un approccio interpretativo al fenomeno delle società in house piuttosto chiaro. Secondo l’Agenzia delle entrate le società in house sono assimilabili, ai fini iva, alle ordinarie società commerciali, a nulla rilevando ai fini fiscali i particolari legami che si instaurano con l’ente pubblico controllante. Né sarebbe possibile applicare ad esse il trattamento previsto (dalle disposizioni interne e da quelle europee) per gli enti pubblici: la loro forma giuridica sarebbe incompatibile con tale regime. Inoltre, sempre secondo l’Agenzia delle entrate, non assumerebbe rilevanza il fatto che tali società svolgano, per conto dell’ente pubblico, un’attività che implica esercizio di poteri pubblici. Anche in questo caso la forma privata della società sarebbe “assorbente” rispetto ad ogni altro profilo, dovendosi applicare la presunzione di rilevanza iva dell’attività svolta da tali società.
1. Le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto solo se non vi sia partecipazione di capitali privati, ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata. 2… 3. Gli statuti delle società di cui al presente articolo devono prevedere che oltre l’ottanta per cento del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci”. (8) Ris. 129/E del 9 novembre 2006, Ris. 37/E dell’8 marzo 2007, Ris. 56/E del 30 maggio 2014. Peraltro, come riporta A. Salvati, Riflessioni, cit. (nota 7) anche a seguito di interpellanza parlamentare, il Governo italiano ha confermato che, a suo giudizio, l’orientamento dell’Agenzia delle entrate è coerente con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza europea.
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L’approccio dell’Agenzia delle Entrate, pur se condivisibile per alcune delle conclusioni cui perviene, appare piuttosto formale. In questo senso mal si attaglia ad un fenomeno che, invece, proprio perché si colloca nella zona grigia tra mondo del diritto pubblico e mondo del diritto privato, e quindi tra Stato e mercato, implica una riflessione ampia che coinvolga le linee di fondo della costruzione del tributo sul valore aggiunto (9). Il fenomeno dell’in house rappresenta cioè un caso clinico in materia di soggettività passiva iva, che induce a riflettere sulla particolare connotazione che la soggettività passiva ha ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. Un’indagine volta a definire il regime iva delle società in house deve cioè svolgersi attraverso il confronto con alcuni aspetti strutturali del tributo. Tre sono gli ordini di considerazioni che possono svolgersi e che possono essere sinteticamente riassunti come di seguito. In un primo ordine di considerazioni, si deve valutare la possibilità di considerare le società in house come organo o ufficio dell’ente pubblico che le controlla. In questa direzione si potrebbe arrivare a negare un’autonoma soggettività iva alla società in house rispetto all’ente (o agli enti pubblici) controllante. In un secondo ordine di considerazioni, e sempre in ragione dei vincoli di controllo esercitati dall’ente pubblico e della funzionalizzazione alle esigenze pubbliche dell’attività svolta, si deve valutare l’ipotesi per cui – ai fini della disciplina iva – la società in house sia considerata un ente pubblico. Si deve cioè valutare la possibilità che tali società siano escluse dall’ambito di applicazione del tributo in applicazione del regime iva previsto per gli enti pubblici dalla disciplina europea e interna (10).
(9) Per questo approccio, A. Salvati Riflessioni, cit., 28 ss. (10) Ovviamente si fa riferimento al regime di esclusione/esenzione dall’iva, previsto espressamente dall’art. 13 della Direttiva 2006/112/CE (di seguito, anche “la Direttiva”), implementato dal legislatore interno dall’art. 4, c. 5 del DPR 633/72. L’implementazione da parte del legislatore italiano ha ricalcato, seppure non integralmente, lo schema del legislatore europeo dal momento che, per un verso (prima parte), nella norma interna sono elencate una serie di attività espressamente ricomprese nel campo di applicazione dell’iva, ancorché esercitate da enti pubblici, e per altro verso, (seconda parte) ha in generale escluso la rilevanza iva le attività svolte dagli enti pubblici in quanto pubbliche autorità. Al di là di qualche non perfetta coincidenza con riferimento alle attività espressamente ricomprese nel campo di applicazione dell’iva, nel confronto tra disposizione interna e disposizione europea balza subito agli occhi una notevole “omissione” da parte del legislatore italiano. Nella normativa italiana, infatti, non vi è nessun riferimento alla clausola di non applicabilità del regime di esclusione (e quindi di riconduzione al regime di imponibilità) qualora ciò comporti distorsioni della concorrenza di
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Infine, in un terzo ordine di considerazioni, in ragione della operatività della società in house all’interno di un contesto non concorrenziale, si deve considerare la possibilità di escludere per tali società la soggettività iva, poiché la società risulta affidataria diretta della gestione di un servizio pubblico che si svolge appunto fuori dai meccanismi di mercato (inteso come mercato concorrenziale). Anticipando già da adesso sinteticamente le conclusioni di questo lavoro, sembra che sulla base dell’evoluzione normativa interna, stabilizzatasi da ultimo nel Testo Unico e, soprattutto, sulla base delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza nazionale ed europea, nessuno di questi profili (salvo quello relativo alla possibilità di considerare la società come “altro ente di diritto pubblico”) sia decisivo per escludere la soggettività passiva iva delle società in house. Piuttosto, la soggettività passiva iva di tali società deve esser valutata prendendo a riferimento non il “tipo” societario rappresentato dalla società in house, bensì la concreta attività svolta e l’assetto (pubblicistico o privatistico; di finanziamento o corrispettivo) dei rapporti giuridici che si instaurano tra essa, l’ente pubblico controllante, e i terzi. 2. Le diverse accezioni della soggettività iva. Soggettività in senso stretto e soggettività in senso ampio (attività economica). – Alcune precisazioni sulla particolare declinazione che la soggettività passiva assume nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto sono opportune per meglio chiarire il senso di quanto si dirà di seguito (11).
una certa importanza (clausola espressamente prevista dall’art. 13, par. 3 della Direttiva). Si tratta di un’omissione di non poco conto, dal momento che la clausola relativa alle “distorsioni di concorrenza di una certa importanza” è stata considerata centrale nella comprensione del regime iva degli enti pubblici. In tal senso A. Mondini, Poteri pubblici locali e distorsioni di concorrenza: la Corte di Giustizia “riscrive” il regime IVA delle attività svolte “in quanto pubblica autorità” (nota a Corte di Giustizia CE, sentenza 16 settembre 2008, C-288/07, Isle of Wight Council), in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 2009, 211 ss.. (11) Sulla soggettività passiva iva, S. Sammartino, Profilo soggettivo del presupposto dell’iva, Milano, 1975; M. Giorgi, Detrazione e soggettività passiva nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2005, 77 ss. e, in tempi più recenti, l’ampio saggio di A. Contrino, Incertezze e punti fermi sul presupposto soggettivo dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. Prat. Trib., 2011, 535-599. In generale, sulla figura dell’imprenditore e con un’impostazione parallela per le imposte sui redditi e per l’iva, cfr. A. Fantozzi, Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e nell’iva, Milano, 1982, e D. Stevanato, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994. Ovviamente, si fa riferimento qui alla soggettività passiva in senso giuridico e non alla soggettività passiva c.d. di fatto, distinzione questa “tralatizia”
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Nella costruzione dell’iva vi è un intrinseco collegamento tra soggettività passiva e presupposto oggettivo del tributo, inteso come svolgimento dell’attività economica. Tale collegamento si può cogliere se si riflette sulle disposizioni della Direttiva in materia di soggettività passiva. L’art. 9 della Direttiva individua, infatti, il soggetto passivo dell’iva in “chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica”. Di fronte a questo testo normativo è ovvio che la non caratterizzazione soggettiva (resa evidente dall’utilizzo del termine “chiunque”) deve necessariamente esser riempita dal riferimento oggettivo (attività economica) che assume così un ruolo centrale (12). È quindi normale che nella giurisprudenza europea sia maturato un atteggiamento di indifferenza per la forma giuridica dei soggetti e si ritrovino esplicite affermazioni per cui la personalità giuridica è irrilevante al fine della assegnazione della soggettività passiva iva (13). Per contro, è noto che nel costruire la soggettività passiva ai fini iva, il legislatore italiano ha utilizzato un approccio storicamente determinato, debitore delle classificazioni soggettive di derivazione civilistica (14), individuando tipi societari (15) e qualificandoli come soggetti passivi (16). L’approccio
nell’approccio all’iva da parte della letteratura italiana. Il soggetto passivo di diritto è colui che è destinatario di situazioni giuridiche previste dalla normativa in materia di iva, mentre il contribuente di fatto è identificato in colui che subisce la rivalsa, senza poter operare la detrazione dell’imposta. P. Filippi, Valore aggiunto (imposta sul), Enc. Dir. XLVI, 1993, 125 ss.; L. Cecamore, Valore Aggiunto (imposta sul) voce Digesto IV, XVI, 1999, 335; R. Lupi M. Giorgi, Imposta sul Valore Aggiunto, voce Enc. Giur., XVII, 2006. (12) Va subito detto che in riferimento agli enti pubblici la qualifica del soggetto agente sembra avere una certa rilevanza, quantomeno ai fini della perimetrazione del regime di esclusione previsto per essi dall’art. 13 della Direttiva. (13) Corte di giustizia C-23/98, Heerma, punto 8. (14) La nozione di soggettività passiva ai fini dell’iva è stata costruita dal legislatore interno attorno alle nozioni di imprenditore e di esercente arti e professioni. Le prime riflessioni che la dottrina interna ha dedicato al profilo soggettivo dell’imposta sul valore aggiunto non hanno mancato di cogliere la necessità di leggere “in chiave tributaria” tali nozioni distaccandosi, laddove le esigenze del sistema dell’imposta sul valore aggiunto lo richiedevano, dalle nozioni desunte dal diritto civile e commerciale. Sulla particolare declinazione dell’attività imprenditoriale ai fini dell’iva, M. Beghin, L’esercizio di impresa nell’IVA, in Riv. Dir. Trib. 2009, I, 797; F. Amatucci, Identificazione dell’attività di impresa ai fini fiscali in ambito comunitario, in Riv. Dir. Trib., 2009, I, 784; nonché A. Contrino, Incertezze e punti fermi, cit. (15) Al contrario, nella dottrina tributaristica, affiora con sempre maggiore nettezza un atteggiamento volto a svalutare il “tipo” societario ai fini fiscali. Si veda in questo senso, V. Ficari, Tipo societario e qualificazione dell’attività economica nell’imposizione sul reddito e sul valore aggiunto, in Rass. Trib. 2004, 1240 ss. (16) Altra questione che si pone nel confronto tra la disposizione europea e quelle
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interno alla soggettività passiva iva è stato modellato sulla qualifica soggettiva, e ciò è tanto più vero per quei soggetti “entificati” laddove la soggettività iva finisce per dipendere dalla forma giuridica prescelta. Il punto di maggiore emersione del legame tra forma giuridica e soggettività passiva iva (nell’ordinamento interno) è rappresentato dalla presunzione assoluta di rilevanza iva delle operazioni compiute dalle società commerciali. Non è del resto casuale che le critiche della dottrina si siano appuntate proprio su questa presunzione, e siano tutte nel senso di depotenziarne gli effetti (17). La presunzione ha svolto una funzione “semplificatrice”, attraverso il richiamo a forme giuridiche prontamente individuabili, ma ha portato con sé il
nazionali attiene alla possibilità di considerare la nozione europea di “attività economica” come direttamente applicabile. Il punto necessiterebbe di un approfondimento che involge i complessi rapporti tra diritto europeo e diritto nazionale e, in particolare, il tema della interpretazione conforme al diritto europeo e della disapplicazione del diritto interno. Approfondimento che esula dalla economia del presente lavoro. Tuttavia, mi sembra che – pur prescindendo dal quesito circa la diretta applicabilità della nozione di attività economica – sia ormai indiscusso l’obbligo di interpretazione conforme, anche per disposizioni europee che non hanno effetto diretto e/o diretta applicabilità. Su questi temi Aa.Vv. L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione Europea. Profili e limiti di un vincolo problematico, a cura di L. Bernardi, Napoli, 2015. Svaluta, invece, il riferimento europeo all’attività economica, M. Cedro, La soggettività passiva degli enti non commerciali ai fini dell’iva, in Rass. Trib. 2016, 486 ss.. Secondo l’Autore la nozione di attività economica contenuta nella Direttiva non sarebbe chiara e precisa e, dunque, essa sarebbe priva di effetto diretto. Sarebbe quindi compito dello Stato membro adattare tale nozione alle categorie di diritto interno, con la conseguenza che laddove ciò non avvenga correttamente, non può radicarsi soggettività passiva in capo a colui che svolge un’attività economica nel significato europeo del termine, ma che non rientra in una chiara ipotesi di soggettività passiva iva così come implementata dalla normativa interna. (17) La dottrina è critica per diverse ragioni nei confronti di questa disposizione. Si veda V. Ficari, Il profilo soggettivo nell’imposta sul valore aggiunto: l’impresa e l’impresa dell’ente commerciale, in Riv. Dir. Trib., 1999, I, 547 ss. e in particolare 568, dove l’Autore pone in evidenza che la presunzione, in sé, è una norma con finalità “semplificatorie” volta ad alleggerire il compito di indagare concretamente l’attività svolta da un soggetto societario e, in questo senso, ha carattere neutrale e non si presterebbe a critiche eccessive, se non fosse che l’amministrazione e la giurisprudenza ne danno un’interpretazione “unilaterale” applicando la presunzione unicamente in maniera sfavorevole (cioè per le operazioni attive della società e non per le operazioni passive). Critico anche S. Fiorentino, Contributo allo studio della soggettività tributaria, Napoli, 2000, 138 ss. il quale evidenza come tale presunzione violi in maniera palese il principio di neutralità dell’iva. In tempi più recenti, critico anche F. Pepe, La presunzione di commercialità ex art. 4, comma 2, n. 1) DPR n. 633/1972 quale causa di incoerenza del “sistema Iva” ed i suoi riflessi sull’evoluzione della normativa interna, in Riv. Dir. Trib., 2004, I, 1267 il quale ritiene la presunzione un elemento di incoerenza nel sistema iva e segnala i modi in cui il sistema, per via interpretativa e attraverso modifiche normative, ha cercato un adeguamento.
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prezzo di un disallineamento che è divenuto sempre più evidente con l’impostazione europea in materia di iva. Ed è stata probabilmente la presenza di questa presunzione assoluta che ha reso difficile la messa a fuoco – nella prospettiva interna – della separazione logica tra individuazione del soggetto cui sono imputabili le situazioni rilevanti ai fini dell’iva, e individuazione dell’attività economica in sé considerata. Se però si abbandona mentalmente la presunzione è agevole cogliere una separazione logica tra due diverse accezioni di soggettività iva. Una prima nozione di soggettività passiva si riconnette alla particolare configurazione del presupposto di imposta del tributo sul valore aggiunto. In questo senso la soggettività può essere intesa come volta alla individuazione di quella serie di atti che, considerati nel loro insieme, possono esser considerati come attività economica iva rilevante (18). In questa direzione la nozione di soggettività è caratterizzata, si perdoni il gioco di parole, da elevati profili di oggettività che prescindono dalla forma giuridica degli enti (19). Questa forma di soggettività si manifesta attraverso la individuazione della sfera dell’attività economica che può esser individuata in maniera più ampia, o più stretta, rispetto alla generale operatività del centro di imputazione. Si pensi, per fare degli esempi da cui ciò risulta evidente, agli enti non commerciali (20) che sono soggetti passivi solo in riferimento alla loro sfera di attività economica (21). È poi possibile individuare un’altra accezione di soggettività, collegata al problema della esatta individuazione del centro di imputazione delle situazioni giuridiche connesse all’applicazione del tributo (obbligo di rivalsa, obblighi formali, diritto alla detrazione, etc…). In questo senso la soggettività pas-
(18) Si accoglie qui, ovviamente, la nozione di “attività” formulata da F. Auletta, Attività (diritto privato) voce, Enc. Dir., Vol. III, 1958, 982, tale per cui attività è un “insieme di atti di diritto privato coordinati o unificati sul piano funzionale dalla unicità dello scopo”. (19) Tant’è che un’attenta dottrina ha posto in evidenza come questa soggettività passiva sia stata enucleata in termini oggettivi. A. Contrino, Incertezze e punti fermi, cit., 550, in questo senso anche A. Comelli, Nuovi profili della soggettività passiva, ai fini dell’iva, in Per un nuovo ordinamento tributario, Atti preparatori del Convegno di Genova 14-15 ottobre 2016, Vol. I, 251 ss. (20) Quantomeno gli enti che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole. Su questi aspetti E. Della Valle, Iva: l’ente che non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale, in Rass. Trib. 1999, 1001 ss. (21) Per vero, è pacifico nella giurisprudenza della Corte di giustizia che anche una società commerciale può svolgere contemporaneamente sia attività economica sia attività non economica, cfr. in tale senso il celebre precedente C-437/06 Securenta.
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siva serve, non per comprendere l’esistenza o meno di un’attività economica, bensì ad individuare il centro cui sono imputate le conseguenze derivanti dallo svolgimento di essa. Questo problema si pone soprattutto in relazione a realtà che sono in una certa misura integrate tra di loro e che, pur potendosi considerare distinte per alcuni profili giuridici (si pensi alla appartenenza a diversi contesti territoriali e finanche a segregazioni “contabili”), sotto il profilo dell’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto possono considerarsi unificate in un unico centro di imputazione (22). È certo che poi il fenomeno può esser anche inverso: e cioè possibile che il centro di imputazione delle situazioni giuridiche si possa considerare unitario a certi fini, ma frammentato in più centri di imputazione da un punto di vista delle conseguenze che discendono dall’applicazione della normativa iva (23). Muovendo da queste premesse, si può dire che il fenomeno delle società in house presenta profili di problematicità sia in riferimento allo svolgimento da parte delle stesse di una attività economica rilevante ai fini iva (soggettività in senso ampio), sia in riferimento all’individuazione del soggetto cui imputare (eventualmente) le conseguenze dello svolgimento dell’attività economica (soggettività in senso stretto). 3. Le società in house quale (autonomo) soggetto passivo iva. – Quanto al profilo della soggettività in senso stretto, come si è anticipato, un possibile inquadramento potrebbe esser quello di considerare le società in house quale articolazione interna dell’ente pubblico che la controlla. Tale approccio, essenzialmente, si fonda sulla negazione di una generale alterità soggettiva – ai fini iva – tra ente pubblico e società in house da esso controllata.
(22) Ad esempio, l’esatta individuazione del gruppo iva è un problema di soggettività in senso stretto. (23) Potrebbe configurarsi come problema di soggettività in senso stretto quello che attiene alla individuazione di una stabile organizzazione iva. Nel caso della stabile organizzazione iva (o centro di attività stabile) il problema della soggettività si interseca con quello di rilevanza dell’elemento territoriale. Per ulteriori sviluppi sulla nozione di stabile organizzazione iva, nell’ottica di una valutazione della stessa in termini di soggettività passiva, si veda S. Fiorentino, Stabile organizzazione centro di attività stabile e “nozioni minime” in tema di soggetti passivi e soggettività tributaria, in Dir. Prat. Trib., 2005, I, 877 ss.; Id., La stabile organizzazione ai fini iva quale soggetto passivo beneficiario di prestazioni di servizi: riflessi di una soggettività tributaria strumentale e diversificata, di stretta derivazione normativa, in Giur. Imp., 2015, fasc. 1; A. Comelli, I rapporti, sotto il profilo dell’Iva, tra stabile organizzazione casa madre e terzi, in Dir. Prat. Trib., I, 2014, 700 ss.
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Le conseguenze applicative di questo inquadramento, ai fini dell’iva, sono facilmente individuabili. Per un verso, le operazioni svolte dalla società produrrebbero conseguenze giuridiche ai fini iva nella sfera dell’unitario soggetto giuridico di diritto pubblico, cioè l’ente pubblico controllante. Per altro verso, le prestazioni tra società in house ed ente pubblico controllante sarebbero delle mere operazioni “interne”, generalmente escluse dal campo di applicazione dell’imposta perché operazioni di mera allocazione tra diverse sfere di interessi dell’unitario soggetto iva. Sebbene si sia da tempo posta in evidenza la possibilità di configurare un rapporto giuridico unisoggettivo (24), inteso come rapporto tra le diverse sfere di interessi che appartengono al medesimo soggetto, è noto che tali rapporti non assumono rilevanza ai sensi dell’imposta sul valore aggiunto (25), se non in particolari casi e in un particolare senso. Lo spostamento di un bene tra più sfere di interessi, riconducibili allo stesso soggetto iva, può rilevare solo in termini di (mutamento della) destinazione dei beni (anche sotto il profilo territoriale (26)), ma non come scambio (o prestazione di servizi) (27).
(24) Il riferimento, ovvio, è all’autorevole insegnamento di S. Pugliatti, Il rapporto giuridico unisoggettivo, Milano passim, ma particolarmente 283 ss. dove l’autore inquadra il rapporto giuridico quale schema di relazione tra diverse sfere di interessi, che pure possono appartenere allo stesso soggetto. (25) Lo stesso Pugliatti (Il rapporto, cit., 240 ss.) aveva identificato tra i “casi clinici” del rapporto giuridico unisoggettivo proprio la debenza dell’imposta di consumo da parte dei Comuni, nei casi in cui essi erano soggetti d’imposta sia attivi, sia passivi. (26) Si pensi all’invio di merce all’estero (regolato in Italia dall’art. 41 del D.L. 331/93) che è operazione assimilata alle cessioni intracomunitaria e può considerarsi irrilevante ai fini iva solo in alcune ipotesi esemplificative di casi “temporanea immissione” nello Stato. (27) Non ci si lasci ingannare dalla normativa (interna ed europea) che riconduce tra le operazioni imponibili l’autoconsumo e in generale l’estromissione dalla sfera dell’attività economica, attraverso una assimilazione con le cessioni di beni (art. 2, c.2, n. 5 del DPR 633/72 e artt. 16 e 18 della Direttiva 2012/116). L’assimilazione è solo la tecnica normativa utilizzata per raggiungere lo scopo di attrarre al perimetro dell’imposizione le ipotesi di estromissione, ma non è concettualmente assimilabile allo scambio. Vi è una sostanziale concordia nel ritenere che la tassazione delle operazioni di estromissione abbia una funzione di chiusura del sistema e sia mossa da esigenze di cautela fiscale. In questo senso P. Filippi, Le cessioni di beni nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 1984, 134; L. Carpentieri, voce Autoconsumo, in Enc. Giur. Treccani, Agg. Vol. V, Roma 1996 III, 1 e per un’ulteriore, recente, dimostrazione della correttezza di questo approccio, B. Denora, Rilevanza delle operazioni gratuite nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto e spunti ricostruttivi in tema di consumo, in Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari, a cura di V. Ficari, V. Mastroiacovo, Torino, 2014, 556 ss. Potrebbe poi verificarsi anche il caso di immissione nella sfera dell’attività economica in
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L’inquadramento della società in house quale entità priva di autonoma soggettività è largamente ispirato ad una visione delle relazioni con l’ente pubblico controllante maturata all’interno del diritto amministrativo. Più precisamente, nel settore del diritto degli appalti pubblici, le disposizioni europee impongono il ricorso a tali procedure per l’assegnazione di contratti pubblici, e la soluzione di assegnare tali contratti ad una società in house senza far ricorso a procedure competitive è stata giustificata in termini di autoproduzione del bene o del servizio. È stato perciò facile nella letteratura di diritto amministrativo avanzare una assimilazione della struttura societaria in house ad una articolazione “integrata” nell’ente pubblico, al pari di un ufficio o di un organo di esso. Da un punto di vista descrittivo questa impostazione appare elegante e perfettamente risolutiva. Col tempo, però, l’elaborazione dottrinaria è apparsa critica con questa soluzione e la recente stabilizzazione del quadro normativo in materia di società controllate sembra chiaramente escluderla. Dall’impianto del Testo Univo risulta chiaro che la società in house, pur presentandosi come il “tipo” di società pubblica meno “autonoma”, è comunque dotata di una propria soggettività distinta da quella dell’ente pubblico che la controlla. La previsione di particolari limitazioni all’attività della società, la presenza di deroghe rispetto alla disciplina societaria, e finanche la necessità di disciplinare un particolare regime di responsabilità erariale per gli amministratori di queste, vanno inequivocamente nel senso implicito di riconoscere un’autonoma soggettività giuridica alla società in house. Uno dei meriti del Testo Unico è stato quello di porre in chiaro che il “controllo analogo”, previsto come requisito centrale nella fattispecie delle società
un momento successivo all’acquisizione del bene. Un bene immesso in un primo momento nella sfera personale di un soggetto potrebbe poi esser destinato dallo stesso alla sfera della sua attività economica. Ciò rileverebbe come mutamento del regime iva del bene il quale da personale diverrebbe destinato all’attività economica e, dunque, in caso di successiva cessione, darebbe luogo ad un’operazione iva rilevante. È noto che, in questi casi, l’iva eventualmente assolta sull’acquisto iniziale del bene non può esser detratta all’atto della (successiva) immissione del bene nella sfera dell’attività economica, come insegna la giurisprudenza Lennartz (C-97/90 Lennartz). In tempi più recenti, tuttavia, la dottrina Lennartz sembra messa in discussione dall’AG Kokott nelle sue conclusioni del 19 aprile 2018 alla causa C-140/17 Gmina Ryiewo, caso in cui è convolto un ente pubblico. Infatti, un Comune polacco aveva acquistato (fatto costruire) un immobile destinandolo alla propria attività istituzionale (non economica) e, successivamente, ne aveva mutato la destinazione utilizzando l’immobile anche per lo svolgimento di attività economica (iva rilevante). In forza di questo mutamento di destinazione il Comune chiedeva di poter detrarre parte dell’iva assolta inizialmente sulla costruzione dell’immobile.
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in house, non implica una confusione soggettiva tra ente pubblico controllante e società, cosicché è apparso fuorviante l’inquadramento della società in house come ufficio o organo dell’ente pubblico controllante e (28). Ne discende che già l’assetto della disciplina amministrativa induce l’interprete di diritto tributario a considerare la società in house come potenziale soggetto autonomo. Tuttavia tale inquadramento potrebbe non avere rilevanza decisiva ai fini della soggettività iva. È ormai condiviso nella letteratura di diritto tributario un approccio metodologico improntato ad una certa cautela verso la mutuazione “acritica” ai fini fiscali di ricostruzioni giuridiche maturate in altri settori dell’ordinamento (29). Ciò è particolarmente valido in materia di soggettività in ragione del peculiare atteggiarsi di essa in materia tributaria: spesso le elaborazioni accolte in altri settori del diritto sono funzionali alla soluzione di problemi diversi da quelli alla cui soluzione è volta la normativa fiscale (30). La cautela dell’interprete di diritto tributario deve essere poi ancora maggior ragione in riferimento alla soggettività passiva in materia di iva, dal momento
(28) Come è stato ben detto, “è stata una distorsione del ragionamento associare al controllo analogo la supposta retrocessione della società ad un organo o un ufficio interno dell’ente pubblico: l’espressione si limita evidentemente a comunicare il messaggio per il quale la pubblica amministrazione continua ad esercitata un controllo sull’attività commissionata nonostante la terzietà della società partecipata”, C. Pecoraro, Le società in house: profili societari, in Le società a partecipazione pubblica, Commentario tematico ai d.lgs. 175/2016 e 100/2017, diretto da C. Ibba e I. Demuro, Bologna, 2018, 196. (29) Il tema è tradizionale nella letteratura di diritto tributario e si è posto soprattutto con riferimento alla mutuazione di nozioni dal diritto civile al diritto tributario, S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992. Esso è comunque tema generale che interessa trasversalmente l’ordinamento che è sempre più organizzato in settori retti da logiche e strutture differenti. In prospettiva tributaria, G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 178 ss. e più di recente Id., Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, Padova, 2009, 151 ss. (30) È noto che, con riferimento alla soggettività tributaria, l’impostazione tradizionale risalente al Vanoni è quella per cui la soggettività tributaria non necessariamente deve coincidere con quella degli altri rami del diritto e in particolare con il diritto privato (tra i tanti, si veda E. Vanoni, Elementi di diritto tributario, ora in Opere giuridiche, vol. II, Milano, 1962, 123 ss.; e A.D. Giannini, Istituzioni di diritto tributario, IX ed., Milano, 1965, 109). La dottrina più recente ha assunto una posizione essenzialmente “svalutativa” del problema della divergenza tra soggettività di diritto privato e soggettività di diritto tributario, muovendo dalla necessità di ricostruire in chiave unitaria per l’intero ordinamento la nozione di “soggetto” quale centro di imputazione delle conseguenze giuridiche. In questo senso, soprattutto A. Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, 153 ss., e S. Fiorentino, Contributo allo studio, cit., 65 ss.
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che per questo tributo è sempre necessario garantire coerenza con le indicazioni europee. Si può allora rilevare che la disciplina europea consente di considerare quali “soggetti passivi” iva solo quei centri dotati di una certa autonomia (31), con la conseguenza che laddove l’autonomia di un centro di interessi manchi, o non sia sufficientemente delineata, la soggettività passiva risulta assorbita in quella del centro controllante (32). È certamente innegabile che una delle caratteristiche essenziali della società in house è il suo ristretto margine di autonomia: tuttavia, non sembra che la ridotta autonomia della società in house possa far venire meno la sua soggettività iva. Non si può negare che l’impostazione qui avversata della “unificazione soggettiva” sia stata in passato espressamente fatta propria dall’amministrazione finanziaria in riferimento al fenomeno delle cc.dd. aziende municipalizzate (33); e non può neanche negarsi che anche sul fronte della giurisprudenza europea vi sono precedenti in cui il giudice europeo ha abbracciato questa opzione in riferimento a particolari articolazioni interne di un ente pubblico (34).
(31) Come già detto, l’art. 9 della Direttiva, rubricato appunto “Soggetti Passivi”, afferma che “1. Si considera «soggetto passivo» chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività.” (enfasi ovviamente aggiunta). (32) In questo senso, si potrebbe rinvenire un parallelo con la normativa in materia di imposizione sui redditi, e in particolare con l’art. 73 TUIR il quale, come ampiamente noto, prevede la soggettività passiva anche di quelle organizzazioni “non appartenenti ad altri soggetti passivi” e “nei confronti delle quale il presupposto di imposta si verifica in modo unitario e autonomo”. Proprio la “non appartenenza ad altri soggetti passivi” è stata declinata nel senso che l’organizzazione deve essere “padrona di se stessa”, ossia deve essere dotata di organi con poteri di rappresentanza e amministrazione autonomi rispetto a quelli dei soggetti che partecipano alla stessa. Ancorché in riferimento alla normativa IRPEG, ancora attuale è R. Schiavolin, I soggetti passivi, in Aa.Vv., Imposta sul reddito delle persone giuridiche. Imposta locale sui redditi, in Giur. Sist. Dir. Trib. diretta da F. Tesauro, 1996, 50 ss. (33) L’impostazione della “unificazione soggettiva” tra ente pubblico e una sua articolazione è stata in passato espressamente fatta propria dall’amministrazione finanziaria in relazione alle cc.dd. aziende municipalizzate, ormai non più esistenti nel nostro ordinamento. L. Tosi, L’assoggettamento ad imposta sul valore aggiunto delle operazioni commerciali delle amministrazioni comunali: considerazioni generali e casi particolari, in Rass. Trib., 1987, 580 ss. (34) Particolarmente, nel caso C-286/14 Gmina Wrocław un giudice polacco aveva posto in discussione la possibilità di considerare le “unità contabili” inserite nel bilancio di un Comune come autonomi soggetti dell’iva. È stato piuttosto agevole per i giudici europei concludere nel senso della mancanza di alterità soggettiva tra il Comune e le unità contabili,
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Ma entrambe le constatazioni non sembrano significative. Sia la soluzione delle aziende municipalizzate, sia le vicende legate alle “unità contabili” oggetto di giudizio da parte della Corte di giustizia, sembrano suggerite da una situazione del tutto particolare. In entrambi i casi si era in presenza di articolazioni che solo descrittivamente (o contabilmente) erano separate all’interno del complessivo patrimonio dell’ente pubblico, con la conseguenza che gli effetti giudici erano tutti imputati all’ente pubblico di cui esse facevano parte (35). In generale, la Corte di giustizia ha mostrato un atteggiamento molto generoso nel valutare il requisito dell’autonomia nella individuazione di un soggetto passivo iva (36), negando tale autonomia (e quindi la soggettività passiva iva) solo quando non vi era una separazione patrimoniale (37): anche in casi di strutture societarie che presentavano livelli di integrazione molto elevati sia con riferimento all’attività concretamente svolta, sia con riferimento alla governance societaria stessa, è stata riconosciuta l’autonoma soggettività passiva iva a ciascuna società (38). Peraltro, in pronunce recenti ed in un contesto di diritto interno molto simile all’attuale esperienza italiana delle società in house, la Corte di giusti-
dal momento che queste ultime non erano beneficiarie di un proprio patrimonio e l’attività di esse – sotto il profilo della rilevanza civilista e in termini di responsabilità – per norma di diritto interno era chiaramente imputata al Comune nel quale erano inserite. (35) Del resto, da un punto di vista interno, si può dire che il fenomeno delle unità sanitarie locali, pur contiguo per certi aspetti a quello delle aziende municipalizzate, era pacificamente risolto nel senso inverso della separazione soggettiva di queste dall’ente pubblico controllante, L. Tosi, L’assoggettamento, cit., 580 ss., dove l’Autore argomenta persuasivamente una differente posizione in relazione al regime delle Unità Sanitarie Locali le quali non possono (rectius, non potevano, in quanto attualmente non più presenti nel nostro ordinamento) esser considerate articolazioni interne dell’ente pubblico e, quindi, da considerare enti con propria soggettività ai fini iva passiva ai fini dell’iva. (36) Questa impostazione della Corte di giustizia è anche facilitata dall’art. 10 della Direttiva il quale, in relazione al requisito della “indipendenza” previsto dall’art. 9 chiarisce che tale requisito è volto ad escludere dall’imposizione iva coloro che svolgono la propria attività sulla base di un contratto di lavoro dipendente. (37) Come, ad esempio, nel caso di stabile organizzazione all’estero, C-210/04 FCE Bank. (38) C-340/15 Christine Nigl, peraltro in tale pronuncia la Corte ribadisce che la opzione per il gruppo societario – che permetterebbe al creazione di un unico soggetto passivo iva cui sono imputabili le attività svolte da distinte società – non è disposizione dotata di effetto diretto e può trovare applicazione solo in presenza di una chiara scelta di implementazione da parte del diritto interno.
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zia non ha posto in dubbio la separazione soggettiva (ai fini dell’iva) tra ente pubblico e società da esso controllata, e soggetta ad una particolare disciplina di caratterizzazione pubblicistica che garantiva all’ente pubblico controllante un particolare controllo (39). Piuttosto che occuparsi della ipotetica unificazione soggettiva (questione che è stata implicitamente risolta in senso negativo, cioè nel senso della separazione soggettiva) il giudice europeo ha concentrato la propria attenzione su due aspetti rilevanti in materia di iva: (i) la effettiva attività svolta dalla società in house nei rapporti con l’ente pubblico controllante e nei rapporti con i terzi e (ii) la possibilità di considerare le società in house come “ente pubblico” (distinto dall’ente controllante) ai fini della applicazione del regime di esclusione previsto per questi (art. 13 Direttiva 112/2006). Su questi aspetti, oltre che sulla caratterizzazione pubblicistica dell’agire delle società in house, si deve quindi ulteriormente soffermare l’attenzione per valutare la riconduzione di esse nel campo di applicazione dell’iva. L’attenzione perciò va spostata dal problema della soggettività in senso stretto a quello della soggettività in senso ampio (o dell’individuazione dell’attività economica rilevante ai fini iva). 4. Le società in house come enti pubblici. – Viene così in rilievo la possibilità di applicazione alle società in house del regime di esclusione/esenzione previsto per gli enti pubblici dalle disposizioni europee e nazionali (40).
(39) C-174/14 Saudaçor e C-182/17 Nagyszénás. (40) Il regime degli enti pubblici ai fini iva ha dato vita ad una riflessione ampia nella letteratura giuridica. Per le impostazioni pionieristiche e generali sul tema F. Tesauro, Appunti sulla “illegittimità comunitaria” delle norme IVA relative agli enti pubblici, in Boll. Trib., 1987, 1757; P. Braccioni, Iva ed enti pubblici non economici alla luce delle direttive comunitarie, in Dir. Prat. Trib., 1988, 592; L. Tosi, Le entrate acquisite in quanto pubblica autorità: il caso di soggezione ad iva dei Comuni tra norme interne e Direttive comunitarie, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1988, I, 592 ss.; L.I. Neri, Le attività degli enti pubblici. Funzioni di pubblica autorità, in Aa.Vv., Lo stato della fiscalità nell’Unione Europea, a cura di A. Di Pietro, Roma, 2003, 82 ss.; M. Basilavecchia, Note in tema di qualificazione delle attività svolte da enti pubblici, in Giur. Imp., 2003, 1601. Più di recente, F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, Torino, 2013, 112 ss.; B. Denora, Spunti sulla nozione di attività economica degli enti pubblici, cit., 325. Nella prospettiva europea O. Henkow, The VAT regime for public bodies; R. de la Feria, The EU VAT Treatment of Public Sector Bodies: Slowly Moving in the Wrong Direction’ Intertax, 2009, 148; nella dottrina iberica, I. Jimenez Compaired, Administraciones Públicas e Impuesto Sobre Valor Añadido, 2007, e più recentemente in quella tedesca, T. Wiesch, Die
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La differenza dell’inquadramento ipotizzato con la ricostruzione appena esclusa, per cui la società in house sarebbe un’articolazione dell’ente pubblico priva di autonomia ai fini iva, è piuttosto netta da un punto di vista logico. Non si tratta di verificare se la società in house può essere considerata parte di un ente pubblico, quanto piuttosto considerare se la società in house – pur soggetto distinto dall’ente pubblico che ne è socio controllante e che esercita sulla stessa un controllo analogo – possa considerarsi ai fini della disciplina iva come un autonomo ente pubblico, potenzialmente destinatario del regime di esclusione/ esenzione dall’imposta previsto dalle disposizioni europee e interne per tali enti. Questa soluzione consisterebbe cioè nel mutuare la qualifica di ente pubblico dal socio alla società, in maniera tale che la società controllata dall’ente pubblico, nonostante la forma privata, potrebbe considerarsi ai fini dell’iva un ente pubblico. Dal punto di vista delle disposizioni di diritto interno e di diritto europeo si tratta di considerare se le società in house possono rientrare nella nozione di “altri enti di diritto pubblico” (41) per i quali è previsto il regime di esclusione/ esenzione. A supporto della soluzione positiva si potrebbe dire che il recente Testo Unico prevede, per alcuni ambiti normativi, una sostanziale equiparazione tra la società in house e gli enti pubblici. Si potrebbe fare riferimento al regime della responsabilità erariale degli amministratori delle società in house, previsto dall’art.16 del Testo Unico con il quale il legislatore ha recepito gli orientamenti che erano già apparsi nella giurisprudenza di legittimità. Ancora, seppure non si tratta di totale assimilazione, si potrebbe far riferimento alla disciplina del reclutamento del personale da parte delle società in house: non è prevista per queste la regola costituzionale del pubblico concorso, ma il legislatore del Testo Unico ha introdotto una forte caratterizzazione nelle procedure di reclutamento del personale, che ricalca le regole di fondo applicabili al reclutamento presso i pubblici uffici. A prescindere da ciò, l’opzione ermeneutica per cui le società in house possono considerarsi ricomprese negli “gli altri enti di diritto pubblico” ai
umsatzsteuerliche Behandlung der öffentlichen Hand, 2016. (41) Vi è coincidenza, dal punto lessicale, tra le disposizioni europee (art. 13, par. 1 Dir. 2006/112/CE) e nazionali (art. 4, c. 6, D.P.R. 633/72) in riferimento all’ambito soggettivo di applicazione del regime speciale per gli enti pubblici. Entrambe, infatti, utilizzano la tecnica della elencazione di alcuni enti pubblici tipici (Stato, regioni, province, comuni) con la previsione di una clausola finale di estensione del regime agli “altri enti di diritto pubblico”.
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fini dell’applicazione del regime iva per gli enti pubblici, trova la sua giustificazione decisiva nella presenza di una influenza dominante che l’ente pubblico esercita sulla società; influenza che si manifesta attraverso un controllo ulteriore rispetto a quello societario e che può esser previsto e giustificato da clausole contrattuali e/o da disposizioni normative, controllo che garantisce la funzionalizzazione dell’attività societaria all’interesse pubblico curato dall’ente controllante (42). È, del resto, la stessa giurisprudenza europea che ha considerato una società in house quale “altro ente di diritto pubblico” in ragione dell’influenza esercitata da parte dell’ente pubblico (43). E recentemente ha precisato che l’influenza dominante è data dalla presenza di un vincolo di controllo ulteriore rispetto al mero controllo societario ex art. 2359 c.c. e che il possesso totalitario della partecipazioni non è sufficiente ad integrare l’influenza dominante, dovendosi valutare anche la presenza di ulteriori limiti all’autonomia della società, di tipo contrattuale o attinenti alla organizzazione societaria, che permettono all’ente pubblico di svolgere un controllo sulla società (44). Tuttavia, come ampiamente noto, qualificare una società come ente pubblico ai fini dell’iva non vuol dire garantirle l’applicazione del regime di esclusione/esenzione previsto per gli enti pubblici: l’esclusione può trovare applicazione solo per le attività svolte dall’ente pubblico in quanto pubblica autorità, e comunque solo qualora ciò non comporti distorsioni concorrenziali di una certa importanza. Su questi aspetti è quindi necessario ulteriormente soffermarsi, al fine di comprendere se le operazioni svolte da una società in house posta sotto l’influenza dominante di un ente pubblico, rientrano o meno nell’esclusione prevista per gli enti pubblici. 5. Mercato concorrenziale e applicazione dell’iva: un equivoco da evitare. – Prima di soffermarsi su tali aspetti, resta però da comprendere se sul regime iva delle società in house possa incidere la circostanza che la loro attività si svolge in grande parte al di fuori di contesti concorrenziali. Proprio in quest’ottica è stato suggestivamente posto in evidenza che in realtà le società
(42) È noto che il Testo Unico ha sintetizzato la presenza di un controllo analogo ricorrendo alla formula dell’indicazione da parte dell’ente controllante degli obiettivi strategici e delle decisioni significative della società; formula che in positivo è difficile da definire ed apprezzare e che lascia aperta la strada ad un controllo che si manifesta in modo atipico e che deve esser valutato in concreto. (43) C-174/14 Saudaçor (44) C-182/17 Nagyszénás.
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in house, per definizione e in quanto affidatarie della esecuzione di contratti pubblici in regime di “monopolio”, non operano in un mercato ispirato alle regole della concorrenza. Per tale ragione, non vi sarebbe necessità di gravare le operazioni con l’imposta sul valore aggiunto dal momento che questa potrebbe trovare applicazione solo in presenza di un’attività economica che si svolge su un mercato concorrenziale (45). Per vero queste osservazioni trovano fondamento nelle radici ideologiche dell’introduzione dell’iva, pensata come tributo confacente alla realizzazione di un mercato unico in cui l’imposizione indiretta fosse neutrale e cioè non distorsiva degli equilibri concorrenziali tra operatori economici (46). La necessità di introdurre un’imposta che soddisfacesse le necessità del mercato è stata certo tra le maggiori ragioni ispiratrici del legislatore europeo, e di ciò vi sono chiare indicazioni nei documenti e negli studi preparatori che hanno preceduto l’introduzione delle direttive in materia di iva (47). Non solo, ma in tempi più recenti si può individuare una certa tendenza della giurisprudenza europea che potrebbe dare ulteriore sostegno a questa impostazione dell’iva come imposta pro-concorrenziale. Soprattutto ad opera delle suggestioni degli avvocati generali, resta strisciante nel ragionamento condotto dalla Corte di giustizia la suggestione che attività economica rilevante ai fini iva sia solo quella degli operatori che partecipano attivamente a un mercato con le caratteristiche del mercato concorrenziale (48). Tuttavia, sembra eccessivo collegare inscindibilmente la soggettività iva alla partecipazione ad un mercato di tipo concorrenziale, giungendo alla conclusione che laddove non c’è un mercato funzionante secondo le regole della fair competition, non vi potrebbe esser applicazione dell’imposta sugli scambi che su questo mercato si realizzano. Piuttosto, leggendo in controluce alcuni precedenti della Corte di giustizia sembra che l’attività economica possa esser rilevante ai fini dell’iva anche
(45) Questa tesi è avanzata, con finezza di argomentazioni, da A. Salvati, Riflessioni in tema di soggettività, cit., 32. (46) In questo senso, A. Di Pietro, Introduzione, in Lo stato della fiscalità nell’Unione europea: l’esperienza e l’efficacia dell’armonizzazione, a cura di A. Di Pietro, Roma, 2003, 1 ss. (47) In ambito europeo, si veda R. de la Feria, The EU VAT system and the internal market, Amsterdam, 2009. (48) Si possono prendere a riferimento le conclusioni dell’Avv. Generale Kokott nel caso C-520/14, laddove l’avvocato espressamente afferma che la Corte tende a riconoscere la soggettività passiva solo per i soggetti che partecipano attivamente al mercato.
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se si svolge in un contesto non concorrenziale, e cioè in settori sottratti alla regole del libero mercato in forza di provvedimenti legislativi o amministrativi, purché l’attività degli operatori si svolga comunque secondo un metodo economico e vada, in ultima analisi, ad alimentare il consumo. Anche se, normalmente, l’attività economica è propria degli operatori di un mercato concorrenziale, il metodo economico nello svolgimento di un’attività produttiva può esser seguito anche da chi opera in settori più o meno “protetti”, e la mancanza di un vero e proprio contesto concorrenziale non può esser considerata come ragione per escludere l’applicazione dell’iva. L’affermazione di un legame inscindibile tra soggettività iva e operatività in un mercato concorrenziale sembra cioè provare troppo e, forse, rappresenta il frutto di una distorsione in senso iper concorrenziale della natura del tributo sul valore aggiunto, che finisce per svalutarne eccessivamente le caratteristiche “fiscali”. Come già detto, questa affermazione nasce dalla considerazione che l’iva è l’imposta che maggiormente si confà ai mercati di tipo concorrenziale e che appare la più idonea – tra quelle esistenti attualmente – a non incidere sugli equilibri economici che si manifestano in questi. Ciò è senz’altro condivisibile, ma non è logicamente corretto inferirne l’affermazione per cui il campo di applicazione dell’imposta debba essere circoscritto a quelle attività degli operatori che si svolgono su base concorrenziale. Una simile conclusione sembra esser frutto di una fascinazione esercitata dalla “mistica” del mercato concorrenziale per cui si tende a individuare l’attività economica iva rilevante come quella che si rivolge al mercato e che trova dallo stesso i mezzi per rigenerare le proprie risorse. Quest’impostazione è, come si diceva, al fondo condivisibile: ma a condizione che si consideri che il mercato di riferimento non deve necessariamente essere un mercato puramente concorrenziale e che l’attività economica può aversi anche in riferimento ad un “mercato minimo” e/o a un mercato “non concorrenziale”. Non bisogna cioè dimenticare che l’iva è pur sempre un tributo che intende colpire gli scambi volti ad alimentare direttamente o indirettamente il consumo (49).
(49) È questa l’opzione ricostruttiva del tributo prevalente nella letteratura più recente e nella giurisprudenza europea. Si veda C-215/94 Mohr, con nota di R. Cordeiro Guerra, L’Iva quale imposta sui consumi: riflessi applicativi secondo la Corte di Giustizia, in Rass. Trib. 2000, 322 ss., e con nota di A. Comelli, L’iva quale imposta sul consumo, in Riv. Dir. trib., 1996, II, 1136. Per una sintesi delle varie ricostruzioni teoriche A. Comelli, Iva comunitaria
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Da un punto di vista giuridico, l’iva complisce gli scambi che avvengono nello svolgimento di un’attività economica, intesa come attività produttiva di nuova utilità e destinate al consumo; una vera implementazione dell’iva implica una tassazione (quanto più possibile) generale del consumo (50), anche quando questo sia reso possibile da un’attività economica che si svolge in un mercato non concorrenziale o non perfettamente concorrenziale (51). Del resto, l’esclusione dall’iva dei soggetti che non operano in mercati protetti finirebbe paradossalmente per negare l’effetto pro-concorrenziale che si assume a cifra caratterizzante dell’imposta. È chiaro, infatti, che l’esclusione finirebbe per conferire, in alcuni casi, un ulteriore vantaggio (in termini fiscali) all’operatore già avvantaggiato da disposizioni (non fiscali) che gli garantiscono posizioni di monopolio, o che comunque lo tengono in qualche modo al riparo dalle pressioni concorrenziali (52). Per queste ragioni sembra possibile concludere che la presenza di un affidamento diretto nella gestione di un contratto pubblico al di fuori delle regole
e iva nazionale. Contributo allo studio della teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, 314 ss., e più di recente F. Padovani, L’imposta sul valore aggiunto, Pisa, 2007, 90 ss., nonché P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2010, 308 ss.. quest’ultimo Autore mette in evidenza che lo schema dell’imposta sul consumo trova ampie smentite nella concreta organizzazione dell’iva e parla in tal senso di un “ibridismo concettuale” che caratterizza l’iva. (50) La letteratura tributaristica, a parte notevoli eccezioni (G. Fransoni, Spunti sulla nozione di «consumo» di beni e servizi nell’IVA con particolare riferimento alle operazioni internazionali, in Riv. Dir. Trib., 2004, II, 543 ss.), non ha dedicato particolare approfondimento alla nozione giuridica di “consumo” ai fini dell’iva. Viceversa, approfondimenti sulla nozione di consumo sono stati ampiamente svolti dalla dottrina di matrice finanziaria. In particolare vedi F. Forte, Il consumo e la sua tassazione. Vol. I Elementi di una teoria generale, e Vol. II, Le imposte sulle vendite e sul valore aggiunto, Torino, 1973. (51) E non si può opinare differentemente da quelle pronunce europee che hanno escluso la rilevanza iva di quelle attività di regolazione del mercato svolte da enti pubblici, C-369/04 Hutchison 3G UK Ltd and others v. Commissioners of Customes and Excise e C-284/04, T-Mobile Austria GmbH and others v. Republik Osterreich. Differentemente da quanto si può ritrarre da una lettura rapida, in tali pronunce è stata esclusa l’applicabilità dell’iva sull’attività di concessione di licenze radiomobili svolta dall’ente pubblico gestore, non perché tale attività di concessione fosse “esterna” al mercato, bensì perché attività svolta attraverso prerogative pubbliche, inibite a soggetti esterni al perimetro della pubblica amministrazione. Su questi aspetti, e in particolare sulle ragioni per cui l’esercizio di una funzione regolatrice pubblica è da tenersi fuori dal perimetro del diritto tributario, vedi K. Nikifarava, La funzione di regolazione del mercato: conferme e nuove prospettive nell’ambito Iva, in Rass. Trib. 2007, 1604 ss. (52) Non è poi remota l’eventualità che l’esclusione dall’iva possa risolversi in uno svantaggio per l’operatore escluso perché lo priva del diritto di detrazione dell’imposta. La centralità del diritto di detrazione dell’iva è nota, L. Salvini, La detrazione nella sesta direttiva e nell’ordinamento interno: principi generali, In Riv. Dir. Trib., 1998, I, 135.
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concorrenziali sui contratti pubblici non comporta di per sè l’esclusione dal campo di applicazione dell’iva dell’attività svolta dalla società affidataria. Anche chi opera in un settore “protetto dalla concorrenza” può ben porre in essere un’attività economica rilevante ai fini iva la quale dovrà perciò apprezzarsi in maniera oggettiva, quale attività volta alla produzione di beni e servizi destinati al consumo. 6. La necessità di guardare all’attività concretamente svolta dalla società in house. – Dovrebbe a questo punto essere chiaro che, più che i limiti all’affidamento o le limitazioni alla governance societaria, ciò che rileva ai fini iva è la corretta comprensione dell’attività svolta dalla società in house e dei rapporti giuridico-economici che si instaurano tra la società, l’ente pubblico controllante e i terzi. È cioè necessario fare riferimento all’attività concretamente svolta dalle società in house. In questo senso, le indicazioni che il Testo Unico contiene non sono di grande aiuto. Nella definizione di società in house si prevede, in relazione all’attività che esse possono svolgere, un unico requisito “qualiquantitativo” con un generico riferimento al “fatturato”: questo deve derivare per (oltre) l’80% dallo “svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci”. La norma pone un limite (percentuale) unicamente in relazione “valore” dell’attività, ma non la individua tipologicamente, né fornisce indicazioni circa le modalità di svolgimento dell’attività “affidata” dall’ente pubblico controllante. Il TU non dice cioè quali attività possono essere “affidate” alle società in house, né come esse devono essere svolte. E tuttavia sono proprio questi gli aspetti che rilevano ai fini della comprensione del regime iva delle società in house. Né sembra possibile dare eccessivo peso al riferimento all’espressione “fatturato complessivo” contenuta nell’art. 16 del TU. L’espressione “fatturato”, nella prassi, è sinonimo di volume d’affari e indica il complesso delle operazioni iva rilevanti compiute da un soggetto passivo. A un’interpretazione speciosa, si potrebbe sostenere che il legislatore avrebbe inteso ricondurre nel perimetro dell’imponibilità iva tutta l’attività svolta dalle società in house. Il riferimento al “fatturato” è però chiaramente atecnico se considerato dal punto di vista delle disposizioni iva. Perciò non può valere come espressivo della volontà legislativa di attribuire sicura rilevanza iva alle operazioni svolte dalla società in house. Non è quindi opzione consigliabile quella di assegnare a tale dato testuale una valenza decisiva per affermare la soggettività passiva delle società in house.
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Piuttosto, come anticipato, la partita sulla rilevanza iva dell’attività svolta dalle società in house si gioca sulla riconducibilità dell’attività societaria all’archetipo dell’attività economica, che è normalmente propria degli operatori economici. 6.1. I diversi profili di osservazione dell’attività di una società in house. – Questo tipo di indagine non è semplice da svolgere in chiave generale, poiché non vi è un modello di riferimento dell’attività svolta dalle società in house e si può dire che nella prassi le strutture societarie sono considerate bonne a tout faire, anche in considerazione della tendenziale affermazione di un principio neutralità delle strutture societarie (53). Non esiste, in altri termini, una corrispondenza tra forma giuridica di società in house e attività da essa svolta. La stessa affermazione ormai pienamente accettata – per cui la creazione di strutture societarie da parte di enti pubblici è pienamente legittima perché l’attività societaria ben può essere indirizzata e funzionalizzata al pubblico interesse, si colloca ad un livello di astrazione troppo elevato: funzionale all’interesse pubblico può essere sia un’attività economica, sia un’attività non economica. Se si entra nel dettaglio dell’attività svolta le variabili diventano numerose e di conseguenza costruire modelli di riferimento e classificazioni diventa impossibile o comunque operazione scarsamente significativa (54). Si possono tuttavia evidenziare tre profili necessari di osservazione che possono fungere da criterio di orientamento nella prospettiva della soggettività iva. Il primo è relativo al tipo di attività svolta dalla società in house nella prospettiva del destinatario di essa; bisogna cioè indagare se l’attività è volta a fornire beni e servizi a destinatari individuati o individuabili. Il secondo profilo di osservazione è relativo alle modalità di finanziamento della società; bisogna cioè indagare la provenienza delle risorse – finanziarie o in natura – che sono impiegate e reimpiegate dalla società.
(53) Sulla tendenziale neutralità delle forme giuridiche, anche con riferimento alle società pubbliche, G. P. Cirillo, La società pubblica e la neutralità delle forme giuridiche soggettive, in Riv. Dir. Comm. Dir. Gen. Obblig., 2015, 575. (54) Ne dà ampiamente conto M. Dugato, Il finanziamento delle società a partecipazione pubblica tra natura dell’interesse e procedimento di costituzione, in Dir. Amm., 2004, 561-590 il quale affronta il problema nell’ottica delle società pubbliche in generale, ma anche all’interno della categoria delle società in house providing si può rinvenire una notevole varietà circa l’attività da esse esercitata.
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Il terzo profilo è relativo ai moduli dell’agire dell’amministrazione; bisogna cioè indagare se l’attività si svolge in relazione a moduli che implicano un agire in veste di autorità pubblica (assegnataria del potere da parte dell’ente pubblico) oppure un agire in veste di soggetto privato. Questi tre profili meritano considerazioni separate, perché è differente il modo in cui essi interferiscono sulla struttura dell’attività e ne influenzano la rilevanza ai fini dell’iva. Tuttavia, essi sono in un certo modo interconnessi tra di loro, perché ad esempio, focalizzandosi sul destinatario dei beni e servizi forniti dalla società, e sulle modalità con cui l’attività si svolge, è possibile qualificare correttamente, ai fini iva, la natura degli introiti di questa e pertanto, rilevare la loro rilevanza come operazioni imponibili ai fini iva. 6.2. La possibilità di una società in house che svolga attività non economica. – È stato correttamente evidenziato che spesso l’attività delle società in house non rilevi come attività economica, nel senso che l’attività non è volta a fornire beni o servizi a terzi, né ad esser in generale considerata un’attività di produzione. È piuttosto frequente, in effetti, la creazione da parte di enti pubblici di strutture societarie che non svolgono alcuna attività riconducibile al modulo produttivo: si può parlare in questo senso di società senza impresa (o società-non impresa (55)) fenomeno ampiamente noto e che non desta particolare meraviglia dal punto di osservazione fiscale. Si pensi a quelle società che nascono per la gestione di progetti di sensibilizzazione dei cittadini o per lo svolgimento di finalità generali di pubblico interesse, senza che si possa individuare la produzione di un servizio specificamente destinato a un singolo beneficiario. Ma sempre nell’ottica di indagare la generale attività svolta dalla società in house, si può fare riferimento a quelle società che nascono per la gestione di una struttura pubblica o di un impianto necessario per la fornitura di un servizio pubblico (56): queste si limitano a regolare l’utilizzo dell’infrastruttura o del bene svolgendo una funzione di tipo “regolatorio” in ordine all’utilizzo del bene, regolando appunto la possibilità di sfruttamento del bene da parte di operatori privati che, attraverso l’utilizzo dell’infrastruttura riescono a
(55) Come mette in evidenza M. Dugato, Il finanziamento, cit. 566. (56) Nel senso che l’infrastruttura potrebbe rimanere appresa al patrimonio dell’ente pubblico e la gestione della stessa potrebbe esser affidata appunto alla società in house.
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fornire un servizio pubblico. In questo caso, l’attività è di semplice gestione di un bene non con logica economica (intesa quale remunerazione del capitale investito), ma nel senso della razionale ed efficiente messa a disposizione dell’impianto a terzi che tramite esso forniscono il servizio pubblico. Ed anche l’applicazione di canoni concessori per l’utilizzo dell’infrastruttura pubblica dovrebbe esser considerata non nell’ottica di remunerare l’attività della società, ma di gestione della stessa in un’ottica di efficienza. In questi casi la società più che per una funzione produttiva rileva come strumento di segregazione di una quota del patrimonio pubblico ed è funzionale ad una gestione razionale di esso (57). Anche se queste società si trovano ad incamerare risorse da soggetti terzi (es., canoni per la subconcessione in utilizzo) ciò si svolge nell’ambito di un’attività connotata fortemente da interessi pubblicistici alla regolare fornitura del servizio (58). 6.3. Le forme di finanziamento: L’imponibilità iva dei trasferimenti provenienti dall’ente pubblico controllante. – Il secondo profilo sul quale bisogna soffermare l’attenzione è quello del finanziamento della società o per meglio dire delle forme con cui la società reperisce le risorse necessarie allo svolgimento della propria attività. Proprio attraverso l’analisi delle forme di finanziamento si possono distinguere innumerevoli tipologie di società pubbliche. Il finanziamento può derivare sia dalla dotazione inziale di capitale, sia da apporti costanti provenienti dall’ente pubblico socio-controllante (59), sia infine da soggetti terzi (utenti)
(57) In questo senso può esser letto forse il recente caso C-344/15 National Road Authority. La NRA era proprietaria delle autostrade in Irlanda e le concedeva a privati i quali erano incaricati della gestione e potevano sfruttare le stesse attraverso applicazione di un pedaggio agli automobilisti. La Corte ha ritenuto che la gestione diretta delle Autostrade da parte della NRA con esazione dei pedaggi, pur essendo un’attività economica, dovesse considerarsi esclusa perché rientrante nel novero delle attività svolte in quanto pubblica autorità. (58) C-344/15 National Road Authority. (59) Non si può escludere, anzi è un caso piuttosto frequente, che vi sia un flusso finanziario dalla società all’ente pubblico controllante, e che cioè la società in house rappresenti una sorta di finanziatore dell’ente pubblico. Si pensi a quelle società concessionarie della gestione di una struttura pubblica (es. impianti sportivi) dietro la corresponsione di un canone. In questo caso, il profilo di rilevanza iva del canone dovuto dalla società all’ente pubblico andrebbe meglio considerato dal punto di vista dell’attività svolta da quest’ultimo anche se, al fondo, la questione è la medesima: comprendere cioè se l’attività svolta (in questo caso la
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che fruiscono dei beni e servizi pubblici erogati (60). Nella prospettiva dell’iva gli apporti di capitale iniziali, generalmente, non costituiscono un’operazione iva rilevante, o quantomeno ciò è tendenzialmente da escludersi quando essi avvengono in danaro (61); ma dubbi possono esser avanzati per i trasferimenti finanziari che regolarmente sono eseguiti in favore della società da parte dell’ente pubblico. La situazione è qui complicata dal fatto che l’ente pubblico controllante opera in veste di socio, ma potrebbe, in una particolare prospettiva, operare anche in veste di contraente (committente/cessionario) della stessa società di cui è socio (62). Da ciò la possibilità che i trasferimenti regolari in favore della società – pur legittimi nell’ottica del diritto amministrativo – possano nella prospettiva dell’iva esser assimilati a corrispettivi contrattuali per i servizi svolti su indicazione e in favore dell’ente pubblico controllante, e pertanto attratti nell’ambito di applicazione dell’iva. In questi casi, l’esclusione di tali erogazioni dal campo di applicazione dell’iva potrebbe passare attraverso due alternative ricostruzioni. Per un primo verso, svalutando la natura essenzialmente pubblica delle società in house, le attribuzioni che ad essa provengono dall’ente pubblico potrebbero essere escluse dall’imponibilità iva valorizzando la “causa associativa” che giustifica i trasferimenti. Le attribuzioni sarebbero assimilate ai versamenti eseguiti dai soci in favore della struttura di cui essi fanno parte (63)
concessione a società in house della gestione del patrimonio viario comunale) rientra in una logica pubblicistica oppure di tipo privatistico. Nel primo caso potrebbe trovare applicazione la esclusione ex art. 13 della Direttiva, mentre nel caso di attività svolta secondo moduli privatistici l’applicazione dell’iva non potrebbe essere messa in dubbio. In relazione a queste ipotesi, A. Porcaro, Attività dell’ente locale tra autoritatività e consensualità: riflessi in tema di soggettività passiva iva, in Rass. Trib., 2006, 775 ss. (60) Ovviamente non è escluso, anzi è situazione piuttosto frequente, che le società in house ricorrano anche al sistema finanziario, cioè al mercato, per procurarsi la liquidità necessaria. (61) Qualche dubbio si potrebbe avere in relazione agli apporti in natura nel capitale di una società. In questo caso, infatti, nella prospettiva interna il conferimento è operazione equiparata alla cessione rilevante ai fini dell’iva quando si inserisce nell’ambito di un’attività economica. (62) Il tema della distinzione tra finanziamenti e corrispettivi nei rapporti infragruppo è stato in passato affrontato dalla Corte nel caso C-77/01 EDM, in cui però la situazione da cui traeva origine il rinvio pregiudiziale presentava delle indubbie peculiarità. C. Cornia, Operazioni di finanziamento infragruppo e detraibilità dell’Iva, in Rass. Trib., 2004, 1886 ss. (63) Si pensi, per fare esempi concreti, alle società in house costituite per gestire servizi di cui beneficiano gli stessi enti-soci, quali ad esempio società incaricate della manutenzione
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e che mirano a dotare patrimonialmente la società per l’attività economica da essa svolta (64). In questo senso, non configurati come corrispettivi, i trasferimenti sarebbero esclusi da iva in quanto dovuti non in relazione a contratti corrispettivi, ma alla presenza del rapporto socio-società. Per altro verso, la non riconducibilità all’archetipo dei corrispettivi, potrebbe esser con maggiore persuasione argomentata attraverso la riconduzione alla generale categoria dei contributi pubblici: trasferimenti dominati dalla logica dell’interesse pubblico e, generalmente, non correlati alla specifica prestazione di un servizio da parte del beneficiario di essi (65). Se poi si considera la società in house come entità che, pur giuridicamente distinta dall’ente pubblico socio, rientra nel perimetro della amministrazione pubblica (anche ai fini dell’iva) (66), si potrebbe andare ancora oltre. Si potrebbero cioè considerare le erogazioni dell’ente pubblico in favore delle società in house quali trasferimenti finanziari interni al settore pubblico, finalizzati a coprire le spese di funzionamento degli enti che compongono il complesso della pubblica amministrazione. Tuttavia, sembra difficile escludere la rilevanza iva quando l’attività della società in house è volta a fornire beni e servizi allo stesso ente controllante. Così come difficile sarebbe sostenere che con i trasferimenti alla società in house l’ente pubblico miri ad acquistare beni e servizi destinati al proprio consumo finale, operando una sorta di assimilazione tra la società in house e le associazioni. Questa opzione appare forse percorribile qualora l’ente creato sia un consorzio che fornisce servizi solo in favore degli enti pubblici consorziati e l’ammontare dei contributi consortili sia commisurato esattamente ai costi sostenuti dalla società. Ma è altresì chiaro che in questa ricostruzione l’attività societaria sarebbe assimilata a quella di una associazione o di un “centro di
della rete informatica dell’amministrazione, oppure di formazione del personale dello stesso ente. (64) Da un punto di osservazione del diritto commerciale e del diritto contabile, si tratterebbe di contributi dai soci a ripiano di perdite che si manifestano in maniera regolare. (65) In generale, sul regime fiscale dei contributi, M. Beghin, I contributi e le liberalità a favore delle imprese, Milano, 1997, passim. Più di recente, in relazione al regime iva dei contributi e in posizione critica nei confronti delle posizioni assunte dall’Agenzia delle entrate con la Circolare 34/E/2013, M. Aulenta, L’applicabilità dell’IVA ai contributi pubblici, in Riv. Dir. Trib., 2014, I, 1239 ss. (66) Ipotesi che, come si è visto sopra, si può realizzare quando vi è un’influenza dominante dell’ente sulla società controllata.
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consumo collettivo” (67), e che ciò comporterebbe la perdita del diritto di detrazione da parte della società per mancanza di attività economica svolta. A fronte di queste diverse ipotesi ricostruttive, però, va rilevato che sul versante europeo i precedenti della Corte di giustizia appaiono caratterizzati da un approccio che non sembra incentrato sulle peculiarità “giuridico-causali” del trasferimento (68). Per esser più precisi, nella dimensione europea il dibattito è incentrato su aspetti non del tutto coincidenti rispetto alle categorie interne e, per dirla con terminologia propria della giurisprudenza europea, l’applicabilità o meno dell’iva ruota attorno alla presenza di un legame diretto (direct link) tra lo spostamento patrimoniale e il servizio prestato (o il bene ceduto). La nozione di legame diretto tra le prestazioni coinvolte in un’operazione economica presenta un grado di definizione giuridica ovviamente inferiore rispetto a quella di corrispettività e sinallagmaticità del nostro diritto civile. Il legame che i giudici europei ritengono fondamentale tra le prestazione di servizi e l’attribuzione patrimoniale si riporta ad una logica economica di scambio di utilità, che prescinde dalla riconduzione ad un contratto e può manifestarsi anche per quegli spostamenti patrimoniali che sono caratterizzati da profili di interesse pubblicistico e di autoritatività (si pensi alle espropriazioni per pubblica autorità) (69).
(67) Utilizza tale espressione, R. Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, Roma, 2013, Par. 7.4. L’esempio migliore potrebbe essere quello della società consortile in house partecipata da una pluralità di enti pubblici per lo svolgimento di servizi (si pensi ad una società che acquista sul mercato beni che servono per l’acquisizione di attività da parte dei soci) in favore di questi: in questo caso la assegnazione regolare di risorse alla società non-impresa da parte degli enti pubblici soci potrebbe forse esser inquadrata come una sorta di provvista per l’acquisto collettivo di beni e servizi destinati al consumo finale degli stessi. (68) Alcune inversioni di tendenza possono però essere segnalate. Si vedano le recenti conclusioni dell’AG Kokott in C-16/17 TGE Gas del 3 maggio 2018 dove si propende per considerare esclusi dal campo di applicazione dell’iva i contributi versati da una società al consorzio di cui essa fa parte; ciò in ragione del fatto che i trasferimenti risultano dovuti in relazione allo status di socio e non quali corrispettivi dei servizi prestati dal consorzio alla società. (69) In questo senso, P. Filippi, Profili oggettivi del presupposto iva, in Dir. Prat. Trib., 2009, 1199 ss., in cui l’Autrice ribadisce la necessità di avere un approccio giuridico alle prestazioni iva, dal momento che “senza una contropartita avente un nesso diretto con il servizio ed un effettivo «valore soggettivo», che rappresenti, appunto, il controvalore «causale» dell’utilità ricevuta, non c’è scambio in senso giuridico, ma semplice coesistenza di prestazioni sganciate l’una dall’altra, e quindi non c’è operazione economica rilevante”. Sulle ragioni per cui nel diritto europeo la nozione di onerosità e di corrispettività non corrispondono a quelle proprie della tradizione civilistica, si veda in senso generale A. Cippitani, Onerosità e
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Ed è a conferma di tale approccio che in recenti pronunce, pur rese con riferimento a esperienze interne diverse da quella italiana, la Corte di giustizia ha ricondotto ad imponibilità le prestazioni rese da una società in house in favore di un ente pubblico, limitandosi alla consueta rilevazione del legame diretto tra i servizi forniti dalla società e le erogazioni finanziarie provenienti dall’ente pubblico controllante e dirette alla copertura delle spese di funzionamento della società. Ciò, pare di capire dalla lettura delle pronunce (70), in considerazione del fatto che l’ammontare dei trasferimenti in favore della società era parametrato ai costi sostenuti dalla società la quale, a sua volta, svolgeva attività sotto stretta indicazione dell’ente pubblico (71). Va poi ricordato che il legame diretto di un trasferimento patrimoniale in favore della società potrebbe anche esservi quando la società fornisce beni e servizi a terzi: si tratta in questo caso di fare riferimento allo schema delle sovvenzioni direttamente legate al prezzo (72). Anche in questo caso, la giurisprudenza europea è incline a ricondurre questi spostamenti patrimoniali nell’ambito dell’imposizione iva a condizione che si siano verificate delle condizioni inequivoche per cui l’an e il quantum del trasferimento dipendono dal servizio che la società eroga a terzi e tale per cui trasferimenti possono esser considerati un pagamento del servizio da parte dell’ente pubblico.
corrispettività: dal diritto nazionale al diritto comunitario, in Eur. Dir. Priv., 503 ss., e nello stesso ordine di idee B. Denora, Rilevanza delle operazioni gratuite nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto, cit. 556 ss. (70) Si fa riferimento in particolare alle pronunce di Corte di giustizia, C-174/14 Saudaçor e C-182/17 Nagyszénás. (71) Nel caso Saudaçor la Corte ha ritenuto che i trasferimenti eseguiti in favore di una società interamente controllata da enti pubblici, e incaricata di servizi di programmazione e gestione del servizio sanitario, potessero esser ricondotti nel novero dell’attività iva benché denominati nei contratti come “compartecipazione finanziaria”. Al di là del nomen juris utilizzato, la Corte ha evidenziato che la determinazione delle somme in relazione ai costi della società e la circostanza che l’attività stessa fosse decisa dall’ente pubblico controllante, erano sufficienti a creare una situazione di legame diretto tra erogazioni e servizi ricevuti. Né, secondo il giudice europeo, poteva considerarsi rilevante il fatto che le erogazioni si riferivano a servizi il cui costo (sebbene indirettamente attraverso la determinazione dell’attività) era forfetariamente determinato. (72) M. Piasente, La specialità delle “sovvenzioni direttamente connesse al prezzo” nell’ambito della Sesta direttiva Iva ed il loro trattamento nell’ordinamento italiano, in Riv. Dir. Trib, III, 2002, 2371 ss. (parte I) e 2003, III 1 ss. (parte II) e più di recente anche M. Aulenta, L’applicabilità dell’IVA ai contributi, cit.
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6.4. I servizi forniti dalla società in house a terzi. – Volgendo l’attenzione al rapporto tra le società in house e gli utenti del servizio pubblico, questo si presenta denso di complessità, che però si manifestano in una diversa dimensione. È dato dell’esperienza che le società in house spesso sono costituite per fornire direttamente agli utenti servizi pubblici e che ritraggono appunto dagli utenti che beneficiano del servizio una parte del loro finanziamento. Per comprendere la rilevanza iva di queste particolari prestazioni di servizi pubblici l’alternativa non è tra finanziamento e corrispettivo per i servizi. Piuttosto, l’alternativa giuridico concettuale cui solitamente si fa riferimento è tra prestazione imposta e corrispettivo dovuto dall’utente per il servizio ricevuto (73). Il tema involge tematiche relative al concorso dell’utente al finanziamento dei servizi pubblici: tema di rilevante complessità e che esula dagli scopi di questo lavoro. È scontato che laddove l’obbligazione in capo al singolo utente nasce a titolo di tributo è automaticamente esclusa la rilevanza ai fini iva (74); e tuttavia la riconduzione alla natura tributaria di una prestazione può rivelarsi non sempre agevole. La vicenda tormentata dell’iva sulla TIA (75) è emblematica delle difficoltà a qualificare le prestazioni rese dall’utente in corrispondenza della richiesta o erogazione di servizi pubblici, e tale complessità si potrebbe potenzialmente estendere ad un numero notevole di prestazioni collegate all’erogazione di servizi pubblici (da parte di società in house). Nella prospettiva della soggezione ad iva della prestazioni di servizi pubblici il problema, però, potrebbe anche essere liberato dalla rigida alternativa prestazione tributaria – prestazione corrispettiva. Ciò è possibile se si assume
(73) Rileva il ritardo del sistema italiano L. Del Federico, Il concorso dell’utente al finanziamento dei servizi pubblici, tra impostazione tributaria e corrispettività, in Rass. Trib., 2013, 1222 ss. dove appunto si fa riferimento all’esperienza spagnola dei precios publicos quale alternativa potenzialmente percorribile da parte del legislatore interno. (74) È stato rilevato F. Tesauro, Appunti sulla “illegittimità comunitaria”, cit., 1759 che proprio il carattere tributario della entrata corrisposta a fronte dell’attività esercitata costituisce il più sicuro indice della natura autoritativa e quindi dell’esclusione dal campo di applicazione delll’iva. Coerente con tale impostazione E. Della Valle, Iva: l’ente che non ha, cit, 1019 ss. (75) Che ha trovato una sistemazione definitiva nella giurisprudenza di legittimità solo con Sentenza n. 5078 del 15 marzo 2016 (ud 9 febbraio 2016) della Cassazione Civile, Sez. Unite con cui è stata definitivamente affermata la natura tributaria della TIA. Peraltro, da una recente giurisprudenza (cfr. Cassazione Sentenza 11 luglio 2017, n. 17113) sembra che tale conclusione sia estensibile anche alla c.d. TIA2, benché il legislatore abbia espressamente qualificato come “non tributaria” la TIA2 con una norma di interpretazione autentica (comma 33 dell’art. 14 del D.L. 78/2010 convertito in legge 122/2010).
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che l’esclusione dal campo di applicazione dell’iva non attiene solo alle prestazioni tipicamente tributarie ma in generale essa opera per le prestazioni che maturano nell’ambito di rapporti regolati da un agire pubblicistico (76). Cioè, l’attività economica può anche esser svolta tramite l’esercizio di pubblica autorità, ma quando ciò avviene trova applicazione il regime di esclusione dall’iva previsto dall’art. 13 della Direttiva. Questa impostazione mi sembra avvalorata da quella giurisprudenza europea per cui nella valutazione circa l’applicazione del regime di esclusione per gli enti pubblici, e quindi nella verifica del requisito dello svolgimento dell’attività quale “pubblica autorità”, viene preliminarmente verificato se l’attività possa esser ricondotta alla nozione di attività economica (77). Viene cioè chiaramente affermata la compatibilità tra attività economica (o commerciale secondo la dizione interna) e modulo di azione pubblicistico, riservando a questi casi (in presenza di altri requisiti) il trattamento di esclusione/esenzione espressamente previsto per gli enti pubblici (78). Si afferma così, sebbene implicitamente, che esercizio del potere pubblico e attività economica non sono tra loro incompatibili ben potendosi verificare situazioni di esercizio di attività economica in veste di pubblica autorità. Un caso emblematico di coesistenza tra attività economica ed esercizio del potere pubblico, con il quale i tributaristi hanno confidenza, è quello degli oneri di riscossione incamerati dalle società affidatarie (spesso ex lege) del servizio di riscossione. È noto che la natura delle somme spettanti al concessionario in relazione all’attività di riscossione è stata, soprattutto in passato, considerata una sorta di “mistero”, non essendo chiaro se l’ “aggio” avesse funzione di sanzione (impro-
(76) È la attuazione dei rapporti secondo un assetto pubblicistico la variabile “esiziale” per comprendere la rilevanza iva di queste operazioni, come lucidamente messo in evidenza da M. Basilavecchia, Note in tema di qualificazione delle attività svolte da enti pubblici, in Giur. Imp., 2003, 1601. (77) In questo senso, C-344/15 National Road Authority. (78) Su questo aspetto la posizione assunta dalla giurisprudenza europea non trova conforto in una certa letteratura di diritto interno. Si afferma in dottrina che il connotato pubblicistico delle attività autoritative le pone automaticamente al di fuori del mercato, dal momento che tali attività non risultano improntate ad un principio di corrispettività in senso proprio. E. Della Valle, Iva: l’ente che non ha, cit., 1018. Sembra invece coerente con la giurisprudenza europea l’approccio di F. Tesauro Il regime iva delle attività degli enti pubblici, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin. 1992, 103 e ss. in cui si afferma expressis verbis che anche l’attività svolta nel regime proprio (autoritativo) degli enti pubblici può farsi facilmente rientrare nel novero di attività commerciale.
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pria), di tributo di scopo (destinato a finanziare le società di riscossione) oppure di remunerazione dell’attività svolta dalla stessa società di riscossione (79). Le ultime evoluzioni normative supportano però la natura retributiva: al di là della sostituzione del termine “aggio” con quello di “onere di riscossione”, particolarmente indicativa della funzione retributiva di tali oneri è la introduzione di disposizioni sulla determinazione dell’ammontare e sulla destinazione al finanziamento delle società di riscossione che sono adesso espressamente disciplinati dalla legge (80). Allo stesso tempo, è anche chiaro che gli oneri di riscossione si rapportano all’esercizio di poteri di riscossione coattiva di evidente connotazione pubblicistica e che il rapporto “di riscossione” ha un assetto di diritto pubblico, diverso rispetto al regime dell’esecuzione privatistica. La stessa amministrazione finanziaria, chiamata a pronunciarsi in relazione alla rilevanza degli aggi (oggi oneri di riscossione) non ne ha negato né la natura retributiva, né l’assetto pubblicistico dell’azione della società concessionaria della riscossione (81). Ebbene, proprio alla luce di quanto sopra si è detto, per argomentare l’esclusione dall’iva dell’aggio non necessariamente bisogna riconoscerne la natura tributaria, ma si può ben sostenere che si tratta di attività economica svolta da un ente pubblico che agisce instaurando rapporti caratterizzati da un assetto pubblicistico.
(79) Sulle diverse opzioni ricostruttive dell’onere di riscossione (ancorché ancora chiamato aggio), S. Pellegri, I soliti (ig)noti: gli interessi di mora dovuti dall’Agenzia delle entrate e l’aggio esattoriale, in Dir. Prat. Trib., 2017, 1777 e ss. (80) Ancorché si tratti di una retribuzione sui generis dal momento che si assiste ad una scissione tra committente del servizio (l’amministrazione pubblica creditrice che “commissiona” la riscossione delle somme) e obbligato al pagamento delle stesse (il debitore delle somme dovute). Ad ulteriore supporto della ricostruzione quale onere di natura retributiva si potrebbe invocare anche quella giurisprudenza di merito per cui la debenza dell’aggio sussiste solo se in giudizio il concessionario offre prova della attività svolta, Comm. trib. prov. di Treviso, sez. VIII, 25 settembre 2012, n. 84 con nota di A. Renda, Illegittimo l’aggio di riscossione senza le prove della effettiva attività svolta per il recupero delle imposte, in Corr. trib., 2012, 3499. (81) L’applicazione del regime previsto per gli enti pubblico è stata esclusa in ragione delle caratteristiche soggettive della società, e sulla base di un’interpretazione piuttosto formalistica dello status soggettivo delle società in house. Ris. Agenzia delle Entrate 56/E del 30 maggio 2014. Come si è messo in evidenza sopra, dalla giurisprudenza europea è apparso invece chiaro che anche soggetti formalmente costituiti in forma societaria possono essere considerati, ai fini iva, quali “altri enti regolati dal diritto pubblico”, il che induce a ritenere che l’orientamento di prassi potrebbe esser oggetto di ripensamento.
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7. Conclusioni. – Traendo le fila del discorso fin qui condotto, si può dunque ribadire che non esiste un regime fiscale specifico per il tipo societario “in house” (82), ma la soggettività iva di tali società deve esser considerata in funzione del concreto atteggiarsi dei rapporti che essa costituisce con l’ente pubblico controllante e con i terzi. Dall’attuale quadro normativo, così come stabilizzatosi nel Testo Unico, e dalle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza europea, alcuni punti fermi possono comunque esser individuati. In primo luogo si può escludere che le società in house siano da considerarsi, nella prospettiva dell’iva, mere articolazioni dell’ente pubblico controllante tali per cui l’unico centro di imputazione delle conseguenze iva sarebbe l’ente pubblico controllante. Le indicazioni del Testo Unico nel senso della alterità soggettiva sembrano negare questa opzione, ed espressamente questa è negata dalla giurisprudenza europea. È invece possibile che, in forza del controllo che l’ente pubblico esercita su tali società le stesse siano considerate come autonomi enti pubblici e quindi potenzialmente destinatarie del particolare regime iva previsto per questi enti dalla disciplina europea e nazionale. In secondo luogo, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia, non si può sostenere l’esclusione dal campo di applicazione dell’iva delle società in house in ragione della loro operatività in contesti non concorrenziali. Come si è argomentato, anche l’attività economica che non si esprima in un contesto concorrenziale può rientrare nel campo di applicazione dell’iva. Seppure è vero che l’iva nasce come imposta coerente con il mercato concorrenziale e che agevola lo sviluppo dello stesso (nel senso della minore distorsività possibile), ciò non implica che tutte quelle attività economicamente organizzate che operano in contesti privi di concorrenza, ma che ugualmente alimentano il consumo, debbano sottrarsi a tale imposizione. Per comprendere la rilevanza ai fini iva è perciò necessario chiedersi se l’attività è svolta a fronte di trasferimenti che possono esser considerati “cor-
(82) Ammesso che le società in house possano costituire un tipo societario a sé stante. Sembra comunque prevalente l’opzione per cui, pur se si volesse ritenere che le società in house siano connotate da una singolarità tipologica, questa deve esser apprezzata al di fuori del sistema del diritto societario, come mette in evidenza C. Angelici, Tipicità e specialità delle società pubbliche, in Aa.Vv., Le ”nuove” società partecipate e in house providing, a cura di S. Fortunato e F. Vessia, Milano, 2017, 15 ss.
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rispettivi”, ossia se vi sia un legame diretto tra i trasferimenti e le prestazioni rese dalla società. Inoltre, è possibile escludere dal campo di applicazione dell’iva l’attività svolta dalle società in house considerando le stesse come ente pubblico che agisce esercitando poteri pubblici. La questione necessita ovviamente di esser condotta in base ad un approccio concreto che si soffermi sull’esercizio di poteri pubblici, diversi da quelli che normalmente pertengono un operatore privato.
Giangiacomo D’Angelo
La tassazione dei redditi finanziari tra imposizione alla fonte e (crisi della) progressività Sommario: 1. Premessa. – 2. Dalla riforma tributaria degli anni settanta al riordino
di cui al D. Lgs. n. 461 del 1997. – 2.1. Le linee guida della legge delega di riforma n. 825/1971. – 2.2. L’evoluzione della disciplina dei dividendi tra credito d’imposta, maggiorazione di conguaglio e “canestri”. – 2.3. I redditi diversi. – 3. Imposizione alla fonte, progressività (e ritorno): la tassazione dei dividendi (e delle plusvalenze) dopo l’introduzione dell’IRES. – 4. Dallo strumento d’investimento al sottoscrittore: il mutamento di prospettiva per i proventi da OICR. – 5. L’approdo al regime di esenzione (condizionata): i piani individuali di risparmio. 6. Tendenze evolutive tra aspirazioni di riforme organiche e (mere) revisioni di aliquote. – 7. Profili costituzionali: progressività dell’imposizione e tutela del risparmio. – 8. Revisione del sistema e progressività nella tassazione dei redditi finanziari.
L’articolo prende in esame le modalità di tassazione dei redditi di natura finanziaria – ambito sul quale il legislatore è intervenuto più volte nel corso degli ultimi decenni – e, in particolare, il graduale affermarsi dell’imposizione alla fonte (e sostitutiva) in luogo del concorso dei proventi finanziari al reddito complessivo del percettore con applicazione delle aliquote progressive. L’approccio storico-evolutivo adottato consente di approfondire le ragioni che hanno determinato l’affermazione dell’imposizione alla fonte, preferita, di volta in volta, per motivi differenti (prima per le difficoltà connesse all’accertamento, successivamente per l’opportunità di porre gli obblighi tributari in capo agli intermediari chiamati alla gestione dei rapporti). Esaminate le principali tipologie di redditi e rilevato sia che l’imposizione alla fonte da eccezione è divenuta regola, sia che stanno affermandosi nuovi regimi volti al riconoscimento di esenzioni di lungo periodo, il contributo propone una lettura congiunta dei principi costituzionali di progressività e di tutela del risparmio, per trarne, viceversa, un richiamo alla necessità di ricollocare i redditi finanziari nell’area della progressività stessa, largamente sacrificata. Tale scelta riporterebbe al centro del sistema il contribuente-persona e non richiederebbe un radicale mutamento dell’attuale sistema dell’imposizione reddituale. The article examines the methods of taxation of financial incomes – an area on which the legislator has intervened several times during the last decades – and, in particular, the gradual expansion of the imposition at source (and substitution) in place of the taxation
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of financial incomes with the other incomes of the recipient, taxed with progressive rates. The historical-evolutionary approach adopted allows to deepen the reasons that led to the statement of the imposition at the source, whose preference has been, from time to time, differently explained (first with the difficulties related to tax assessment, subsequently for the opportunity to place tax obligations on intermediaries called to manage financial incomes). After the exam of the main types of income and found that imposition at the source from exception has become the rule – and new regimes provide for long-term exemptions – the article proposes some reflections on the constitutional principles of progressivity and protection of savings, to conclude that it needs to relocate financial incomes in the area of progressivity, largely sacrificed. This choice would bring the tax payer-person back to the center of the system and would not require a radical change in the current system of income taxation.
1. Premessa. – Come altri settori dell’imposizione reddituale, la tassazione dei proventi di natura finanziaria è un ambito su cui il legislatore è intervenuto a più riprese, in prevalenza con provvedimenti di natura estemporanea e, altre volte, come negli anni novanta, con iniziative di riforma organica della materia. L’affermarsi di nuovi strumenti di impiego del capitale, l’emergere di moderne tipologie di investimento e l’abbattimento delle barriere valutarie sono solo alcune delle ragioni che hanno nel tempo sollecitato tali interventi, comprendenti anche norme volte ad assoggettare a imposizione inedite manifestazioni di capacità contributiva. Rispetto ad altri comparti impositivi, tuttavia, ciò ha contribuito a far assumere alla fiscalità finanziaria una sua autonoma rilevanza, nel contesto del sistema tributario in generale e nel quadro delle imposte sui redditi in particolare. Come si vedrà tra breve, la riforma fiscale generale adottata nel 1973, pur animata dall’intento di porre al centro del sistema tributario il contribuentepersona e imperniata sull’imposta progressiva, non ha impedito il rinnovato affermarsi dell’imposizione alla fonte a titolo definitivo (e poi dell’imposizione sostitutiva), prima quale alternativa rispetto all’imposta personale e più avanti come regime ordinario per la tassazione delle rendite di capitale, al punto che, come è stato osservato, questa tendenza, sempre crescente nel corso dei decenni successivi, ha contribuito (insieme ad altri fattori) a scolorare gli stessi tratti caratterizzanti dell’Irpef quale imposta universale e personale (1).
(1) V. D. Stevanato, C’era una volta l’imposta universale, in Boll. trib., 2016, 1447.
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Risulta allora interessante esaminare in quali termini e per quali ragioni si sia verificata questa dinamica di graduale “emancipazione” della fiscalità finanziaria rispetto all’imposizione generale sui redditi (2) e se occorra, o quantomeno sia opportuno, apportare correttivi per recuperare terreno sul piano della progressività, attesa la valenza costituzionale sia del medesimo principio, sia di quello della tutela del risparmio. 2. Dalla riforma tributaria degli anni settanta al riordino di cui al D. Lgs. n. 461 del 1997. 2.1. Le linee guida della legge delega di riforma n. 825/1971. – Nel prospettare la riforma generale del sistema tributario statale, il legislatore sottolinea (3) le esigenze di modernizzazione dell’ordinamento tributario, di perequazione tra categorie di contribuenti e la volontà di rendere il sistema fiscale più aderente a quello dei Paesi economicamente più vicini, segnatamente quelli appartenenti al Mercato Comune Europeo. Il passaggio alla fiscalità “dei soggetti” (persone fisiche e giuridiche) è il risultato di una evoluzione avviata prima con l’introduzione dell’imposta complementare sui redditi delle persone fisiche (4) e successivamente dell’imposta sulle società (5). Essa va di pari passo con l’affermazione della progressività come strumento di tassazione della ricchezza effettiva, da applicarsi ad ogni livello, evitando i rischi che l’introduzione di esenzioni (dirette o attuate attraverso riduzione degli imponibili) possa vanificare l’obiettivo di tassare integralmente il reddito del soggetto, al quale saranno riconosciute deduzioni e detrazioni di carattere personale e anche un credito d’imposta per le imposte assolte all’estero sui redditi ivi prodotti.
(2) Il tema è stato approfondito nell’ambito di una commissione interna all’Associazione italiana dei professori di Diritto Tributario, da cui è scaturita l’articolata collettanea di F. Marchetti (a cura di), I redditi finanziari, Roma, 2016. (3) V. Camera dei Deputati, Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria, 1 luglio 1969, Atti Parlamentari, n. 1639. Sul tema, v. A. Di Gialluca, Il dibattito sulla tassazione dei redditi finanziari nel corso dei lavori preparatori della riforma degli anni ’70, in F. Marchetti, I redditi finanziari, 25. (4) V. G. C. Zoboli, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Dir. prat. trib., 1973, I, 917. (5) Per una panoramica sulla riforma quale emerge dalla relazione di accompagnamento, v. C. Sacchetto, Osservazioni sulla relazione al disegno di legge delega per la riforma tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1970, 301.
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Gli obiettivi della riforma, fondata sul mantenimento della classificazione dei redditi e sul loro rilievo analitico ai fini della formazione del reddito complessivo, deve tuttavia misurarsi con la realtà concreta di alcuni settori dell’economia e della ricchezza ad essa connessa, che da un lato possono determinare fenomeni di doppia imposizione bisognevoli di correzione, e che dall’altro possono influire sulla traduzione in termini operativi dell’onnicomprensività della tassazione progressiva del reddito, rendendo più difficoltosi i controlli che il sistema intende affidare all’Amministrazione finanziaria. Nella prima area rientrano certamente i dividendi: la circostanza che l’imposta sul reddito delle persone giuridiche e delle persone fisiche perderanno, nel nuovo assetto, la connotazione di prelievi complementari per divenire imposte principali, richiede di approntare strumenti volti ad escludere il concorso di imposizioni, assicurando che una parte dell’imposta assolta dalla società sia considerata come acconto dell’imposta dovuta dal socio; a tal fine si intende attribuirgli un credito d’imposta che, unitamente al dividendo, concorrerà alla formazione del reddito complessivo soggetto ad Irpef. Il legislatore della riforma è conscio che per salvaguardare la progressività dell’imposizione personale in capo al socio senza tuttavia vanificare, al tempo stesso, l’imposta sul reddito della persona giuridica, deve esservi non solo assoluta simmetria tra aliquota Irpeg e misura del credito d’imposta, ma occorre assicurare che l’utile distribuito sotto forma di dividendi corrisponda all’utile societario tassato. Non essendo tuttavia possibile garantire a priori e in ogni caso detta corrispondenza, il delegante indica che il credito non debba spettare – o comunque debba essere riconosciuto in misura inferiore – quando l’applicazione di esenzioni o agevolazioni nonché la percezione, da parte della società, di proventi esenti o esclusi da imposta, determini su quest’ultima un carico fiscale inferiore. Il legislatore delegante giunge pure ad immaginare il venir meno della ritenuta d’acconto o a titolo d’imposta di cui al alla legge 29 dicembre 1962, n. 1745, poiché il sistema di rilevazioni amministrative dei titoli nominativi consentirà un’efficace azione di controllo sulla effettiva tassazione dei dividendi da parte dei soci (6).
(6) Frattanto, la delega (art. 3, n. 7, l. n. 825 del 1971) prevede espressamente l’applicazione di una ritenuta a titolo di acconto sugli utili distribuiti del dieci per cento degli utili stessi per i soggetti residenti e di una ritenuta a titolo d’imposta del trenta per cento per i soggetti non residenti, salve le convenzioni internazionali, e per le persone giuridiche ed i soggetti ad essi assimilati, esenti da Irpeg. Sul punto, cfr. V. Uckmar, L’imposta sul reddito
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Appare significativo che proprio a partire dall’insussistenza di un analogo sistema di rilevazione riferito ai titoli di debito, il delegante argomenti la necessità di mantenere, viceversa, l’imposizione alla fonte sui proventi finanziari diversi dai dividendi. Invero, per quanto anche tali frutti vadano assoggettati all’imposta personale e progressiva sui redditi del contribuente – assicurando il loro concorso al reddito imponibile complessivo della persona fisica; tuttavia – sostiene il legislatore – affinché l’Amministrazione finanziaria possa disporre di adeguati strumenti di controllo, bisognerebbe introdurre un sistema di rilevazione nominativa automatica dei titoli obbligazionari e abolire il segreto bancario (7). Tali scelte, però, per quanto in grado di assicurare che l’inclusione degli interessi nel reddito complessivo non si rivelasse, in concreto, puramente teorica, non solo avrebbero potuto provocare un disallineamento dell’ordinamento italiano rispetto a quello degli Stati partners, ma anche scoraggiare l’investimento in tali strumenti, con conseguenze che non sarebbero state esclusivamente fiscali (8). Di conseguenza, ferma restando la non tassazione dei proventi dei titoli del debito pubblico (art. 9, n. 2, l. n. 825/1971) si preferisce in quel momento assoggettare gli interessi alla ritenuta alla fonte con obbligo di rivalsa e in misura differenziata, dal trenta al dieci per cento, a seconda del soggetto emittente o erogatore degli interessi (art. 9, comma 3, l. n. 825/1971) (9).
delle persone giuridiche, in Dir. prat. trib., 1972, I, 582. (7) Nell’ambito della discussione sulla riforma tributaria, il tema dei controlli era stato sottolineato anche in dottrina, che aveva segnalato la necessità di procedere alla seria attivazione dell’anagrafe tributaria. Sul punto v. G. Liccardo, I presupposti per l’attuazione della riforma tributaria, in Dir. prat. trib., 1971, I, 840. (8) A ciò si aggiunge il convincimento che la sottrazione alla progressività non produrrà impatti significativi poiché “l’esperienza indica con sufficiente sicurezza che in Italia nessuno dei grandi patrimoni e dei grandi redditi individuali è fatto di obbligazioni, di titoli di Stato e di depositi bancari”. (9) Sulle ritenute nell’ambito della legge delega di riforma del sistema tributario degli anni settanta v. P. Adonnino, Le ritenute d’acconto nella riforma tributaria, in Dir. prat. trib., 1972, I, 24. Va altresì segnalato che nella relazione alla legge delega si fa menzione di nuovi strumenti di impiego del capitale, quali le azioni di risparmio, le società di investimento mobiliare e i fondi comuni di investimento mobiliare, precisandosi che la relativa disciplina fiscale avrebbe potuto formare oggetto della legislazione delegata solo se l’emanazione della disciplina sostanziale, in allora all’esame del CNEL, fosse avvenuta in concomitanza con la riforma del diritto delle società e prima dell’adozione dei decreti delegati.
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2.2. L’evoluzione della disciplina dei dividendi tra credito d’imposta, maggiorazione di conguaglio e “canestri”. – In coerenza con le indicazioni della legge delega, con l’art. 1, l. 18 dicembre 1977, n. 904 si istituisce il credito d’imposta, riconosciuto in misura pari ad un terzo dell’ammontare complessivo dei dividendi assoggettati a tassazione personale, allo scopo dunque di neutralizzare la doppia imposizione economica. Sennonché, proprio perché, come anticipato, il raggiungimento pieno di tale obiettivo avrebbe presupposto una esatta corrispondenza tra imposta assolta dalla società e credito d’imposta riconosciuto ai beneficiari dei dividendi, coincidenza non necessariamente soddisfatta in ogni caso (10), per rimediare alle criticità emerse in ragione del carattere “automatico” del credito d’imposta, con la legge 25 novembre 1983 n. 649, si introduce la “maggiorazione di conguaglio”, un’imposta compensativa (11) a carico della società e destinata ad assicurare che tutti i dividendi distribuiti derivino da utili societari assoggettati a tassazione (Irpeg o maggiorazione di conguaglio) (12). Anche la maggiorazione, tuttavia, non risulta priva di risvolti problematici (13) che, maturando nel tempo, contribuiscono non solo a determinare il
(10) Avrebbero potuto prodursi effetti distorsivi poiché il credito avrebbe potuto essere riconosciuto anche in relazione ad utili societari che non avessero scontato l’Irpeg in quanto esenti, esclusi o in applicazione di eventuali agevolazioni. V. L. Carpentieri - S. M. Ceccacci, Dall’abrogazione della maggiorazione di conguaglio al nuovo credito d’imposta sugli utili di partecipazione, in Riv. dir. trib., 1999, I, 314. (11) Secondo l’A. F. non si trattava di un’imposta nuova, ma solo di un conguaglio (Min. Fin., circ., 16 marzo 1984, n. 9/058). Sul tema v. R. Galli, Conguaglio di Irpeg e credito d’imposta, in Dir. prat. trib., 1984, I, 434. (12) A seguito della sua introduzione, in sostanza, l’utile di esercizio deve essere scomposto in due quote: la prima, pari al 64 per cento (in ragione di un’Irpeg dovuta nella misura del 36%), era suscettibile di essere distribuita ai soci riconoscendo loro il credito d’imposta; la quota rimanente, viceversa, avrebbe potuto essere distribuita solo a fronte del pagamento della suddetta maggiorazione. Sulla maggiorazione di conguaglio v. F. Kustermann, L’imposta di maggiorazione di conguaglio dal punto di vista societario della distribuzione di utili, in Rass. trib., 1988, 73; V. Di Stefano, L’istituto della maggiorazione di conguaglio nel sistema tributario italiano, in Rass. mens. Imp., 1987, 1273; Id., Dubbi e perplessità sulla validità della maggiorazione di conguaglio, in Rass. trib., 1988, 67. (13) Come ricorda la dottrina (L. Carpentieri - S. M. Ceccacci, Dall’abrogazione della maggiorazione di conguaglio al nuovo credito d’imposta sugli utili di partecipazione, cit., 316-17), tale strumento, nato per correggere le distorsioni derivanti dal riconoscimento del credito d’imposta a fronte di redditi esenti, rischia di assoggettare sistematicamente i medesimi ad un’imposta cui la legge intende viceversa sottrarli. Peraltro, per quanto attraverso interventi successivi si prevedano disposizioni dedicate per escludere talune ipotesi dall’applicazione del conguaglio, anche tale soluzione si rivela inadeguata, poiché consente il rimborso di una
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legislatore alla relativa abrogazione (D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 467), ma a porre in seria discussione la stessa opportunità di assoggettare a tassazione personale e progressiva i dividendi percepiti da persone fisiche. Al riguardo, va segnalato che tale soluzione, seppur in via marginale, era stata sperimentata già all’indomani dell’attuazione della delega degli anni settanta, allorché da un lato era stata prevista la tassazione con ritenuta alla fonte a titolo d’imposta degli utili scaturenti dalle sole azioni di risparmio e dall’altro lato era stata introdotta la ritenuta opzionale (pur del 30 per cento) sui dividendi di fonte italiana a fronte di una richiesta del percettore (art. 20, d.l. 8 aprile 1974, n. 95). Questa impostazione, che ad ogni modo assicura, per le azioni ordinarie, una tassazione dell’utile distribuito, viene riproposta, all’inizio degli anni novanta, sia allorché con la legge delega di riforma del sistema tributario n. 408 del 1990 viene previsto (art. 18) che il complessivo riordino della tassazione dei redditi di capitale e dei redditi diversi dovrà avvenire introducendo norme organiche volte all’estensione dell’applicazione delle ritenute alla fonte anche alle diverse tipologie di rendite finanziarie, sia successivamente, quando con l’art. 4, d.l. 10 giugno 1994, n. 357, si dispone che i dividendi relativi a società quotate nei mercati regolamentati siano in ogni caso soggetti a ritenuta a titolo d’imposta [ma in tal caso la misura dell’aliquota è significativamente più bassa (12,5 per cento)] (14). L’esigenza di un riordino – maturata nell’ambito di varie iniziative di approfondimento (15) – si traduce nella ulteriore delega al Governo per l’adozione di misure volte alla razionalizzazione della finanza pubblica. In questo
maggiorazione pari al 36 per cento anche quando l’aliquota marginale dell’interessato è più bassa. Altrettanto problematico è il caso dell’azzeramento dell’utile civilistico nell’ipotesi di riporto delle perdite, ciò da cui la norma fa conseguire la tassazione integrale, mediante conguaglio, dell’utile azzerato e distribuito, facendo venir meno l’opportunità del riporto. Senza contare che in caso di socio non residente la ritenuta alla fonte a titolo d’imposta e il mancato riconoscimento del credito rendono la tassazione mediante conguaglio priva della sua ratio; e ad analoga conclusione si perviene nel caso di percettore escluso da imposizione. (14) V. E. Lancellotti, La ritenuta “secca” sui dividendi: a chi e quanto giova?, in Boll. Trib., 1994, 1069. (15) V. F. Marchetti, Riordino del regime tributario dei redditi di capitale e diversi: un’ipotesi di disciplina normativa, in Rass. trib., 1994, 1753 ss., ove si rammentano sia il disegno di legge delega per la “revisione del trattamento fiscale delle rendite finanziarie” presentato dal prof. Franco Gallo, sia il progetto “Fisco ordinato”, originato da una ricerca commissionata dal Ministro delle Finanze al CNEL nel 1992 e per la quale il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro aveva dato incarico al prof. Victor Uckmar.
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quadro [art. 3, comma 162, lett. e) ed i), l. n. 662 del 1996], oltre ad indicare la necessità di abrogare la già menzionata maggiorazione di conguaglio, il delegante richiede una riforma del credito d’imposta di cui all’art. 14 Tuir allo scopo di assicurare che esso non ecceda l’Irpeg effettivamente pagata dalla società che distribuisce i dividendi: solo a questa condizione, in sostanza, il credito può davvero eliminare la doppia imposizione economica e rivelarsi quindi efficiente, nei fatti, il mantenimento dell’imposizione progressiva a carico del socio. Su questa base, l’art. 2, D. Lgs. n. 467 del 1997, opera una modifica dell’art. 14 Tuir, a fronte del quale si perviene, come è noto, alla distinzione tra credito d’imposta “ordinario” e credito “virtuale”. Il credito ordinario è riconosciuto al socio a fronte di imposte effettivamente assolte dalla società, anche in via sostitutiva; il credito d’imposta “virtuale” o “limitato”, viceversa, è riferito a quei dividendi che pur scaturendo da utili non tassati, devono essere considerati non imponibili, in capo al socio, onde non vanificare l’esenzione o l’esclusione già attribuita alla società. Le norme del Tuir richiedono alle società di conteggiare separatamente (art. 105 Tuir) – nei c.d. “canestri” – da un lato le imposte effettivamente assolte, in autoliquidazione o in base ad accertamento, che daranno luogo ad un credito pieno e utilizzabile senza limitazioni, e dall’altro lato le imposte “figurative”, riferite a redditi che non hanno scontato alcuna imposizione e che dunque consentono il riconoscimento del credito in presenza di una norma specifica che lo preveda (16). 2.3. I redditi diversi. – L’attuale assetto dei redditi diversi di natura finanziaria costituisce il risultato di una evoluzione normativa che se inizialmente ha ritenuto di circoscrivere il rilievo reddituale alle sole operazioni speculative, nel tempo ha saputo cogliere le potenzialità delle negoziazioni di partecipazioni e valori mobiliari in genere, nella consapevolezza che una loro
(16) Per un approfondimento sulla composizione dei canestri delle imposte effettive e virtuali, nonché sugli adempimenti contabili a carico della società anche in sede di distribuzione dei dividendi, si rinvia a quanto esposto nell’ampio contributo di L. Carpentieri - S. M. Ceccacci, Dall’abrogazione della maggiorazione di conguaglio al nuovo credito d’imposta sugli utili di partecipazione, cit., 328 ss.
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regolamentazione nell’ottica dell’intermediazione avrebbe potuto consentire una tassazione sistematica dei risultati delle medesime operazioni. Soffermarsi brevemente sull’evoluzione delle fattispecie fiscalmente rilevanti può essere utile per leggerne il parallelo evolversi delle modalità di tassazione. Secondo quanto disposto dall’art. 2, comma 1, n. 5, della legge delega n. 825 del 1971, il legislatore delegato avrebbe dovuto prevedere che nell’ambito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche concorressero alla formazione del reddito complessivo le plusvalenze realizzate da persone fisiche a seguito di operazioni effettuate con fini speculativi su beni non relativi all’impresa commerciale (17). Nell’attuare la legge delega, il D.P.R. n. 597 del 1973 stabilisce due norme rilevanti: da un lato l’art. 76, che per l’appunto assoggetta a imposizione le plusvalenze speculative, proponendo un elenco di fattispecie per le quali tale intento risulta presunto senza possibilità di prova contraria (trattasi di plusvalenze immobiliari e di oggetti d’arte) (18), e dall’altro lato l’art. 80 che, in via residuale, dispone che concorra al reddito complessivo, per il periodo d’imposta e nella misura in cui sia stato percepito “ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati dalle disposizioni del presente decreto”. Non è contenuto, all’interno delle disposizioni richiamate, un espresso riferimento alle plusvalenze finanziarie, di talché le medesime si prestano, in linea di principio, a rientrare nell’art. 76 – laddove l’Amministrazione finanziaria sia in grado di provare il carattere speculativo della cessione, sovente di difficile dimostrazione attesa l’occasionalità della fattispecie – oppure nell’art. 80, poiché la norma è suscettibile di accogliere ipotesi di reddito-entrata non accompagnate da intento speculativo (19).
(17) Sull’opportunità che la legge delega prevedesse strumenti di presunzione dell’intento speculativo e su altre questioni aperte relative alla tassazione delle plusvalenze (specie quelle relative alle partecipazioni “prevalenti”), v. G. Falsitta, Note critiche e ricostruttive sul trattamento fiscale delle plusvalenze e sopravvenienze attive nelle imposte sul reddito istituite dalla legge delega di riforma tributaria 9-10-1971, n. 825, in Imp. Dir. Er., 1972, 2. (18) In tema v. G. Falsitta, La certa e definitiva produzione delle plusvalenze quale presupposto della loro imponibilità, in Imp. Dir. Er., 1974, 42. (19) Si v. G. Gaffuri, I redditi diversi, in Dir. prat. trib., 1979, I, 836, che oltre ad una articolata ricostruzione sistematica delle fattispecie di redditi diversi, esclude in particolare che l’art. 80 assuma concreta rilevanza pratica, criticando la scelta di introdurre una norma residuale la cui ragion d’essere è l’“ancestrale timore di qualche vuoto dell’imposta”.
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Il Tuir contempla per la prima volta uno specifico riferimento alle plusvalenze da partecipazioni a seguito dell’art. 3, comma 1, d.l. 853 del 1984, norma con la quale si introduce la presunzione, senza possibilità di prova contraria, della speculatività delle cessioni a titolo oneroso (compresi i conferimenti in società) di partecipazioni sociali superiori a determinate soglie ed escluse quelle acquisite per successione e donazione (20). Al momento dell’adozione del Testo Unico delle imposte sui redditi del 1986 (D.P.R. n. 917 del 1986) tale disposizione confluisce nella lett. c) dell’art. 81, ma per effetto dell’art. 4, d.l. 13 gennaio 1988 n. 3, due delle soglie riguardanti le partecipazioni vengono ridotte. L’art. 81 Tuir sarà interessato da un progressivo ampliamento delle fattispecie fiscalmente rilevanti (21) fino all’intervento normativo di riordino operato dal D. Lgs. 461 del 1997. Quest’ultimo ci restituisce una norma la cui formulazione per un verso ripropone un approccio testuale, in base al quale le singole fattispecie sono espressamente previste, e per l’altro poggia sulla distinzione tra partecipazioni qualificate e non qualificate destinata a permanere inalterata – eccettuata la nuova numerazione dell’articolo, oggi art. 67 – sino alla l. 27 dicembre 2017, n. 205, con la quale, come si vedrà, tale distinzione non ha più rilievo ai fini
(20) Le partecipazioni cedute devono essere superiori al due, al dieci o al venticinque per cento del capitale della società partecipata, a seconda che si tratti di azioni ammesse alla borsa o al mercato ristretto, di altre azioni ovvero di partecipazioni non azionarie. La percentuale di partecipazione è determinata tenendo conto di tutte le cessioni effettuate nel corso di dodici mesi ancorché nei confronti di soggetti diversi. La disposizione non si applica se il periodo di tempo intercorso tra la data dell’ultimo acquisto a titolo oneroso, o dell’ultima sottoscrizione per ammontare superiore a quello spettante in virtù del diritto di opzione inerente alle azioni o quote possedute, e la data della cessione o della prima cessione, è superiore a cinque anni. Per una disamina dell’evoluzione della normativa sulla tassazione dei redditi diversi di natura finanziaria si rinvia a G. Corasaniti, Le attività finanziarie nel diritto tributario, Milano, 2012, 72 ss. (21) La disciplina viene sostanzialmente ampliata ad opera dell’art. 3, d.l. 28 gennaio 1991, n. 3, che da un lato modifica l’art. 81, lett. c) Tuir – disponendo che anche le partecipazioni acquisite per donazione sono suscettibili di generare plusvalenze tassabili e che la plusvalenza emerge a prescindere dall’intervallo temporale intercorso tra acquisto e cessione – e che dall’altro lato introduce la lett. c-bis), attribuendo rilievo, ai fini dell’imposta sul reddito, alle plusvalenze diverse da quelle di cui alla lett. c) e derivanti dalla cessione di azioni, di quote rappresentative del capitale o del patrimonio o di certificati rappresentativi di quote o partecipazioni in società ed altri enti. A partire dall’anno successivo, rilevano, quale lett. c-ter), le cessioni di valute estere.
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delle imposte sui redditi, essendo tassate in modo analogo tutte le cessioni di partecipazioni, a prescindere dalla loro entità. Con riguardo alle modalità di tassazione, occorre ricordare che se in base al sistema risultante dal Tuir del 1973 si prevede che i redditi diversi seguano le regole generali (tassazione in base alla dichiarazione unica annuale (22)), a fronte della delega n. 408 del 1990 ed in attesa della emanazione dei decreti legislativi di riordino della complessiva disciplina delle rendite finanziarie, viene adottato il d.l. 28 gennaio 1991, n. 27, che dispone due distinti regimi di tassazione delle plusvalenze, uno di tipo analitico, il secondo forfetario. Quello analitico, obbligatorio per le partecipazioni qualificate [dunque quelle superiori alle soglie indicate nella lett. c) dell’art. 81 Tuir] prevede l’indicazione della plusvalenza all’interno della dichiarazione dei redditi ma con applicazione di un’imposta sostitutiva del 25 per cento (in luogo dell’Irpef ordinaria) sulla sommatoria tra plusvalenze e minusvalenze determinate con le medesime modalità. L’eventuale risultato negativo è computabile in diminuzione dei redditi della stessa specie realizzati in esercizi successivi, non oltre il quinto. Per le sole partecipazioni non qualificate, in alternativa al regime analitico, gli interessati possono avvalersi di un regime forfetario, applicabile nei soli casi in cui la partecipazione sia ceduta con atto notarile o nell’operazione intervengano, come intermediari professionali o acquirenti, aziende e istituti di credito, agenti di cambio, commissionari di borsa, società fiduciarie, Sim, etc. Tale regime, accessibile mediante dichiarazione sottoscritta dal contribuente e valida per tutte le plusvalenze successivamente realizzate, costituisce, in embrione, il regime del risparmio amministrato e comporta la tassazione per singola operazione, riservando al contribuente un’aliquota ridotta (15 per cento), esonerandolo dall’adempimento dichiarativo e rimettendo all’intermediario l’obbligo di effettuare il versamento dell’imposta. L’esigenza di individuare nuove forme di tassazione delle plusvalenze è strettamente legata alla tendenza, avviata con l’intervento normativo del 1991, per la quale si assiste, nell’ambito della categoria dei redditi diversi, ad una progressiva emancipazione dal modello del reddito prodotto in favore di una sempre più ampia area di fattispecie più immediatamente riconducibili al “reddito entrata”. In sostanza, le successive emendazioni apportate all’art. 81
(22) G. Gaffuri, I redditi diversi, cit., 839.
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Tuir, mostrano l’intendimento del legislatore di assoggettare a tassazione tutte le tipologie di redditi di natura finanziaria conseguiti al di fuori dell’esercizio dell’impresa ed il cui tratto comune consiste nella circostanza che il provento non è direttamente ricollegato al negozio di impiego del capitale (23). Con specifico riguardo alle modalità di tassazione delle plusvalenze da partecipazioni sociali, oltre all’abrogazione del regime forfetario precedente, viene meno la norma che escludeva da imposta le plusvalenze realizzate a fronte della cessione di partecipazioni non qualificate possedute da più di 15 anni e sono rivisti i requisiti per la qualificazione delle partecipazioni, con introduzione delle soglie legate ai voti esercitabili nell’assemblea della società partecipata. Plusvalenze e minusvalenze della stessa natura possono essere
(23) Secondo la dottrina più autorevole, a questa conclusione si perviene a fronte della lettura della lett. h) dell’art. 41 Tuir, norma che, originariamente formulata per accogliere “altri proventi derivanti da rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale” è stata emendata con l’aggiunta dell’inciso “esclusi i rapporti attraverso cui possono essere realizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto”; tale modifica conferma che anche nell’art. 81 rientrano proventi che presuppongono anch’essi l’impiego del capitale, ma per i quali “l’impiego del capitale si innesta in un rapporto aleatorio che può dar luogo sia a proventi che a perdite” [v. F. Gallo, La nozione dei redditi di capitale alla luce del D. Lgs. 21 novembre 1997, n. 461, in Dir. prat. trib., 1998, I, 1227. Il contributo prosegue idealmente le riflessioni avviate nel decennio precedente al momento dell’adozione del nuovo Tuir (v. F. Gallo, Prime considerazioni sulla disciplina dei redditi di capitale nel nuovo T.U., in Rass. trib., 1988, 39)]. In tal modo il legislatore, non solo ha sganciato la tassazione dei redditi diversi di natura finanziaria dalla ricorrenza di un intento speculativo, ma è giunto ad assoggettare a tassazione risultati differenziali che non scaturiscono da un atto di investimento di capitale in senso proprio. Sennonché, mentre questo tipo di approccio, fino al 1997, è stato il frutto di interventi estemporanei tali da palesare la tassabilità dei redditi diversi di natura finanziaria come eccezione, al contrario, con la riforma operata dal D. Lgs. n. 461 del 1997, avviene, come segnalato in dottrina (G. Corasaniti, Le attività finanziarie nel diritto tributario, cit., 80) un vero e proprio rovesciamento del precedente modello concettuale, tale da far divenire l’imponibilità di tali proventi una regola definitivamente acquisita dal sistema dell’imposta sul reddito. Questo intendimento si trae già dai principi e criteri direttivi individuati dalla legge delega (art. 3, comma 160, l. n. 662 del 1996), laddove si prevede che il Governo deve attuare una revisione della disciplina dei redditi derivanti da cessioni di partecipazioni in società o enti, di altri valori mobiliari, nonché di metalli preziosi, deve introdurre norme volte ad assoggettare ad imposizione i proventi derivanti da strumenti finanziari con o senza attività sottostanti, può prevedere esclusioni, anche temporanee, dalla tassazione e deve introdurre norme di chiusura volte ad evitare arbitraggi fiscali tra fattispecie produttive di redditi di capitali o diversi e quelle produttive di risultati economici equivalenti. La traduzione di questi principi avviene attraverso la revisione delle fattispecie di carattere analitico già previste e l’introduzione di tre nuove fattispecie, delle quali l’ultima assume funzione di chiusura (in tema G. Corasaniti, Le attività finanziarie nel diritto tributario, cit., 81).
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tra loro compensate in vista dell’applicazione dell’imposta sostitutiva, con aliquote differenziate (12,5 per cento per le non qualificate, 27 per cento per le qualificate). Con la riforma del 1997, infatti, il legislatore decide di abbandonare il sistema dell’imposizione progressiva in favore dell’applicazione dell’imposizione sostitutiva – anche se a ciò non corrisponde in ogni caso l’esonero dagli adempimenti dichiarativi – e conferma la centralità del ruolo degli intermediari nella dinamica della tassazione, ruolo che, come si è visto, essi avevano iniziato ad assumere in termini strutturati già a partire dal 1991. Come è noto, il decreto n. 461 del 1997 prevede tre distinte modalità d’imposizione delle plusvalenze, delle quali una di tipo generale, rimessa del tutto al contribuente, e due fruibili su base opzionale a fronte della sussistenza di un rapporto con l’intermediario (24). Il primo regime, quello “dichiarativo”, prevede che il contribuente, all’interno della dichiarazione annuale, debba separatamente indicare le plus-minusvalenze realizzate per ciascuna categoria, provvedendo ad una loro distinta compensazione in vista dell’applicazione dell’imposta sostitutiva direttamente in dichiarazione. In tal modo, vi è evidenza dei redditi diversi realizzati anno per anno, con previsione del riporto in avanti delle eventuali minusvalenze non compensate, deducibili nei periodi d’imposta successivi, non oltre il quarto. La tassazione in base al realizzo, in questo caso, avviene quindi senza l’intermediario e senza l’applicazione di ritenute alla fonte. Il regime del risparmio amministrato (art. 6) presuppone viceversa un rapporto stabile con l’intermediario, l’esercizio di un’opzione (comunque revocabile), la tassazione delle singole operazioni di cessione delle partecipazioni e l’applicazione dell’imposta sostitutiva direttamente da parte dello stesso intermediario; l’esonero del contribuente dall’adempimento dichiarativo – compreso peraltro quello relativo al monitoraggio fiscale – non esclude la compensabilità di eventuali minusvalenze, provvedendovi direttamente l’intermediario a fronte di successive plusvalenze e con previsione di riporto in avanti nei periodi d’imposta successivi (entro il quarto, analogamente a quanto accade per il regime dichiarativo). Il contribuente non perde la possibilità di utilizzare eventuali minusvalenze nemmeno nel caso in cui venga meno il rapporto con l’intermediario. In caso di revoca dell’opzione e chiusura del rapporto, infatti, le minusvalenze potranno essere utilizzate nell’ambito del regime dichiarativo
(24) V. A. Marinello, I regimi di tassazione dei redditi di natura finanziaria, in F. Marchetti (a cura di), I redditi finanziari, cit., 93 ss.
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e in altro rapporto per il quale il contribuente abbia esercitato l’opzione per il “risparmio gestito” (art. 7), che costituisce il terzo regime introdotto dal decreto n. 461 del 1997. Esso presuppone la sussistenza di una gestione individuale di portafoglio intrattenuta con l’intermediario e consente di far confluire nella medesima sia i redditi diversi, sia i redditi di capitale, permettendo in tal modo la compensazione di questi ultimi con eventuali minusvalenze relative a partecipazioni societarie. Il sistema del risparmio gestito sottopone a tassazione, anno per anno, il risultato maturato del patrimonio gestito, a prescindere dall’effettivo realizzo di plus-minuvalenze. Ciò comporta una sostanziale deroga rispetto ai principi generali di determinazione sia dei redditi di capitale, che di regola sono tassati al lordo e senza alcuna deduzione, sia dei redditi diversi, assoggettati ad imposizione solo in caso di effettivo realizzo (25). Pur costituendo attività del portafogli gestito, non rilevano, ai fini della determinazione del risultato maturato di gestione, eventuali proventi esenti, esclusi da tassazione, o comunque i redditi assoggettati a ritenuta alla fonte. Sulla differenza tra valore del patrimonio al termine dell’anno solare e valore iniziale del medesimo,
(25) Sul punto va ricordato che la differente modalità di tassazione del risparmio gestito rispetto al regime dichiarativo e al risparmio amministrato aveva indotto il legislatore della riforma ad introdurre uno strumento (c.d. equalizzatore) volto a rendere la tassazione in base al realizzo equivalente alla tassazione sul maturato, qualora plusvalenze, minusvalenze, redditi e differenziali negativi fossero stati realizzati decorsi dodici mesi dal momento dell’acquisizione delle attività finanziarie. Tale strumento era stato criticato dalla dottrina (M. Beghin, L’equalizzatore nella prospettiva della tassazione dl reddito: aspetti funzionali e profili di incostituzionalità, in Riv. dir. trib., 2000, I, 1152) poiché esso, in concreto, avrebbe sottoposto a tassazione risultati non effettivamente conseguiti dal contribuente ma conseguibili se l’interessato avesse negoziato le partecipazioni in un momento diverso da quello del realizzo effettivo. In sostanza, si sosteneva che l’equalizzatore fosse in contrasto con il principio di capacità contributiva, poiché mirava a recuperare ad imposizione un potenziale maturato in base all’andamento borsistico emerso in un determinato periodo di possesso ma non realmente oggetto di realizzo. Cosicché, a seguito dell’impugnativa avanti la giurisdizione amministrativa, il D.M. 4 agosto 2000 – volto a prevedere le modalità operative di applicazione dell’equalizzatore ed applicabile dall’1 gennaio 2001 – ha formato oggetto di sospensione (TAR Lazio, sez. II, ord. 3 agosto 2001, n. 4971). A seguito di tale provvedimento, peraltro non accompagnato da una decisione di merito, il legislatore è stato indotto ad abrogare la previsione normativa (d.l. n. 350 del 2001, su cui v. M. Beghin, L’abolizione dell’equalizzatore tra esigenze di semplificazione e profili di costituzionalità, in Corr. trib., 2001, 3437, nonché P. Anello, Le Entrate chiariscono alcuni aspetti dell’abrogazione dell’equalizzatore, in Corr. trib., 2002, 1665).
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l’intermediario applica una imposta sostitutiva – originariamente del 12,5 per cento, oggi allineata alle aliquote delle rendite finanziarie (26 per cento). Il quadro dei redditi diversi risultante dalla riforma del 1997, dunque, conferma che la fiscalità dei proventi finanziari non rientranti nell’ambito dei redditi di capitale è sottratto alla progressività dell’imposizione. Senza dubbio tale assetto dipende in larga misura dal ruolo che le nuove disposizioni riservano agli intermediari finanziari – la cui disciplina sostanziale verrà ridisegnata a breve distanza di tempo – perché da un lato il loro intervento è in grado di assicurare una tassazione effettiva e alla fonte dei proventi conseguiti dai contribuenti, dall’altro lato risulta più semplice, per l’Amministrazione finanziaria, rivolgere l’attività di controllo verso soggetti professionali anziché nei confronti di una pluralità di contribuenti. Questi ultimi sono portati a considerare più favorevole i regimi opzionali perché sono esonerati da adempimenti dichiarativi (anche sul fronte del monitoraggio) e di versamento delle imposte dovute. Va tuttavia considerato che l’intervento dell’intermediario non è condizione per accedere al regime sostitutivo, né per fruire di una tassazione ridotta, ma se l’opzione viene esercitata per il risparmio gestito, il contribuente accede ad un differente regime di determinazione della base imponibile (maturazione) a fronte della possibilità di assoggettare a tassazione unitaria redditi di capitale e redditi diversi, con compensazione dei primi con le minusvalenze e assicurandosi la deduzione dei costi di gestione. Per il resto, il contribuente è nelle condizioni di utilizzare il regime dichiarativo – che, anzi, rappresenta la modalità di tassazione ordinaria – e assoggettare a tassazione i redditi diversi alle stesse condizioni cui essi sarebbero stati tassati dall’intermediario con il risparmio amministrato (salvo l’adempimento del monitoraggio). Si conferma in tal modo che la dichiarazione è funzionale alla tassazione anche quando il reddito non concorre alla formazione della base imponibile complessiva soggetta a tassazione progressiva, il ché valorizza, allo stesso tempo, la sua funzione conoscitiva. Questa impostazione è suffragata dal regime riservato alle partecipazioni qualificate, la cui separata evidenza, in dichiarazione, si spiega con la soggezione ad un’imposizione sostitutiva con aliquota più elevata, mentre appaiono più evanescenti le ragioni per le quali non sia stato previsto un regime opzionale di risparmio amministrato con applicazione dell’aliquota loro applicabile nel regime dichiarativo.
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3. Imposizione alla fonte, progressività (e ritorno): la tassazione dei dividendi (e delle plusvalenze) dopo l’introduzione dell’IRES. – A seguito della riforma operata con il D. Lgs. n. 461 del 1997 e del D. Lgs. 23 dicembre 1999, n. 505, la tassazione dei dividendi è affidata ad un sistema nel quale si trovano a coesistere, pur in alternativa tra loro, la ritenuta a titolo d’imposta (o un’imposta sostitutiva) e l’imposizione progressiva. In linea di principio, l’imposizione alla fonte costituisce la regola e la distinzione tra partecipazioni qualificate e non qualificate rileva solo ai fini della concreta modalità di soggezione ad imposta: mentre per le partecipazioni non qualificate è la società che eroga il dividendo a dover applicare la ritenuta a titolo d’imposta (per partecipazioni non relative all’impresa), per le partecipazioni qualificate il contribuente è tenuto ad applicare in dichiarazione un’imposta sostitutiva con la stessa aliquota della ritenuta (12,5%); l’imposizione sostitutiva si applica anche nell’ipotesi di utili derivanti da azioni e titoli similari immessi nel sistema di deposito accentrato (Monte Titoli S.p.a.). Le persone fisiche, tuttavia, possono optare per la non applicazione della ritenuta a fronte di una espressa richiesta alla società erogante. In tal caso, così come qualora il contribuente ritenga di non optare per l’imposta sostitutiva, il provento concorre alla formazione del reddito complessivo del beneficiario, con applicazione dell’imposizione personale sul reddito (26). La salvaguardia del diritto di assoggettare i dividendi ad imposta personale deriva dalla considerazione del socio come effettivo possessore dell’utile societario: da qui scaturisce la natura di “acconto” dell’imposta assolta dalla società (Irpeg), con la conseguenza che a fronte della distribuzione del dividendo, ove il socio scelga di far concorrere il reddito di capitale al suo reddito complessivo, egli ha diritto di scomputare, dall’imposta personale, un credito d’imposta, “ordinario” o “limitato”. A seguito della riforma del diritto societario del 2003, il legislatore si confronta con un sistema nel quale i dividendi, pur rimanendo il pilastro della remunerazione dei conferimenti a capitale, non costituiscono la sola rappresentazione dei proventi spettanti agli apportanti (27); da ciò discende l’esigenza
(26) Cfr. M. Giorgi, La libera circolazione dei capitali nella Comunità Europea e il regime impositivo dei dividendi nel diritto interno, in Rass. trib., 2000, 1368. (27) In questo senso, oltre a confermare le azioni e le obbligazioni quali strumenti cardine della raccolta del capitale da parte delle imprese, il legislatore ha inteso introdurre nuove categorie di strumenti finanziari differenziati in relazione al contenuto e alla natura dei diritti attribuiti al titolare, divenendo più corretto, secondo l’indicazione della dottrina più
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di ridisegnare la corrispondente disciplina fiscale delle remunerazioni degli strumenti finanziari (28). Per effetto delle disposizioni concernenti l’imposta sul reddito delle società di cui al D. Lgs n. 344 del 2003 (29), si perviene ad una radicale riforma della tassazione dei redditi di capitale e dei dividendi in particolare, con abbandono, anzitutto, del previgente regime fondato sull’imputation system, attuando un passaggio al regime di (parziale) esenzione (30). Nella legge delega n. 80 del 2003, sono fissati i principi e criteri direttivi fondanti del nuovo sistema. In particolare, si fa riferimento: i) all’inclusione parziale nell’imponibile degli utili percepiti e delle plusvalenze realizzate, fuori dall’esercizio di impresa, su partecipazioni societarie qualificate, per ridurre gli effetti di doppia imposizione economica [art. 3, comma 1, lett. c), n. 5]; ii) all’applicazione, per la determinazione del reddito d’impresa, in quanto compatibili, delle norme contenute nella disciplina della imposta sul reddito delle società, con inclusione parziale nell’imponibile degli utili percepiti e
autorevole, distinguere tra strumenti finanziari partecipativi e non partecipativi. Nella prima categoria, in cui si annoverano le azioni, rientrano quei titoli che attribuiscono diritti sociali, e come tali consentono l’esercizio di diritti che incidono sul contrato sociale e sulla situazione soggettiva dei soci. Nella seconda, viceversa, sono compresi strumenti che ai sensi dell’art. 2346, comma 6, c.c. – che consente l’apporto di denaro, beni in natura, crediti, opere e servizi – da un lato riconoscono al titolare i diritti patrimoniali, ma dall’altro lato non attribuiscono la qualità di socio, pur potendo consentire l’esercizio del diritto di voto in ambiti ben individuati, quali la nomina di un componente del consiglio di amministrazione o di un sindaco (rimanendo precluso il voto nell’assemblea ordinaria). V. M. Notari, Partecipazione al rischio d’impresa, strumenti finanziari e categorie giuridiche, in Strumenti finanziari e fiscalità, 1-2010, 15. In argomento v. anche G. Giannelli, Obbligazioni. Strumenti finanziari partecipativi, Patrimoni destinati, in Aa. Vv., Diritto delle società, Milano, 2003, 78 ss. Per approfondimenti sulla disciplina codicistica v. M. Notari - A. Giannelli, Commento al comma 6, in M. Notari (a cura di), Azioni (artt. 2346-2362 c.c.), in P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari (diretto da), Commentario alla riforma delle società, Milano, 2008, 52. (28) Anche allo scopo di individuare modelli coerenti con le disposizioni di diritto sostanziale, attesa peraltro la possibilità di legare la redditività dei titoli di debito ai risultati economici della società. Sul tema, si v. l’articolata trattazione di G. Corasaniti, Le attività finanziarie nel diritto tributario, cit., 114 ss., Id., Azioni, strumenti finanziari partecipativi e obbligazioni: dalla riforma del diritto societario alla riforma dell’imposta sul reddito delle società, in Dir. prat. trib., 2003, I, 875. (29) Per una compiuta disamina, v. F. Tesauro (a cura di), Imposta sul reddito delle società, Torino, 2007. (30) V. Relazione allo schema di decreto legislativo recante riforma dell’imposizione sul reddito delle società in attuazione dell’art. 4, comma 1, lett. da A) a O), della legge 7 aprile 2003, n. 80, attualmente reperibile in www.fondazioneoic.eu., 6-7.
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delle plusvalenze realizzate su partecipazioni societarie qualificate e non qualificate, per ridurre gli effetti di doppia imposizione economica; simmetrica deducibilità dei costi relativi e delle minusvalenze realizzate [art. 3, comma 1, lett. d), n. 6]; iii) all’esclusione dal concorso alla formazione del reddito imponibile del 95 per cento degli utili distribuiti da società con personalità giuridica sia residenti che non residenti nel territorio dello Stato, anche in occasione della liquidazione, ferma rimanendo l’applicabilità dell’art. 127-bis Tuir, per quelle residenti in Paesi a regime fiscale privilegiato; deducibilità dei costi connessi alla gestione delle partecipazioni. Alle modifiche apportate al Tuir (nonché al D.P.R. n. 600 del 1973) a seguito della legge delega e della relativa attuazione consegue una differente modalità di tassazione che confermando la distinzione tra partecipazioni qualificate e non qualificate, valorizza la misura della partecipazione al capitale (31) e, con essa, dell’ampiezza delle prerogative esercitabili, in particolare sul piano dei diritti amministrativi, da parte del titolare della partecipazione. Sotto questo profilo, mentre la previsione di una (non più derogabile) ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (32) applicata dalla società erogante (o di un’imposta sostitutiva applicata dal sistema di deposito accentrato) è coerente con la finalità di perseguire una semplificazione anche sul fronte degli adempimenti a carico del socio marginalmente coinvolto nella vita sociale dell’impresa, la scelta di circoscrivere (in termini altrettanto obbligatori) l’area della progressività dell’imposizione alle fattispecie nelle quali è più saldo il contatto tra socio e società rende l’idea di un interesse gestorio a partire dal quale si giustifica una continuità con la precedente impostazione, che riconduceva al socio il possesso dell’utile societario.
(31) Ricordiamo che in forza dell’art. 67, comma 1, lett. c), Tuir, una partecipazione si definisce qualificata quando sia in grado di assicurare una percentuale di diritti di voto esercitabili in assemblea ordinaria superiore al 2 per cento per i titoli di società quotate in mercati regolamentati italiani o esteri ovvero superiore al 20 per cento per tutte le altre partecipazioni, oppure quando rappresenti una partecipazione al capitale sociale o al patrimonio (nel caso degli strumenti finanziari partecipativi) superiore al 5 per cento per le società quotate in mercati regolamentati italiani o esteri e superiore al 25 per cento per le altre partecipazioni. Sulla distinzione tra partecipazioni qualificate e non qualificate, sui diritti ad esse connessi e su vicende e diritti che possono influire sulla qualificazione, v. G. Corasaniti, Commento sub art. 27, D.P.R. n. 600 del 1973, in F. Moschetti (a cura di), Comm. Breve alle leggi tributarie, Tomo II – Accertamento e sanzioni, 130 ss. (32) Sui profili applicativi v. N. Arquilla, Il regime di tassazione dei dividendi di fonte italiana, in Corr. trib., 2001, 2462.
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In questi termini, la coesistenza tra imposizione alla fonte e progressività non appare distonica rispetto all’espresso obiettivo del passaggio dal criterio dell’imputazione a quello di (parziale) esenzione, poiché ciascuna possiede una giustificazione in ottica sistematica, pur non priva di risvolti problematici. Sotto questo profilo, l’imposizione alla fonte, peraltro affidata ad un prelievo in sé esiguo prima della revisione delle aliquote delle rendite finanziarie, mira a favorire i risparmiatori, esonerati da adempimenti di natura dichiarativa. Allo stesso tempo, tuttavia, la mancata inclusione nell’imponibile complessivo, dei redditi assoggettati a ritenuta a titolo d’imposta o a imposta sostitutiva (art. 3, comma 3, lett. a, Tuir) sbiadisce la funzione conoscitiva propria della dichiarazione dei redditi, che in tal modo non consente una lettura dell’effettiva e complessiva situazione reddituale del contribuente, con dispendio di risorse per l’effettuazione di procedimenti di accertamento sintetico (di per sé non esclusi dalla possibilità di controlli incrociati, segnatamente a carico del sostituto d’imposta). Altro aspetto, legato sempre alla tassazione alla fonte, è quello connesso all’indiretto favore verso gli investimenti in società residenti in Italia, attesa l’impossibilità di recuperare l’imposta assolta all’estero su partecipazioni non qualificate in ragione della previsione della tassazione alla fonte nel nostro Paese (soggetta alla regola del c.d. “netto frontiera” in punto di determinazione della base imponibile su cui applicare la ritenuta). Tali criticità, se da un lato assumono rilievo per caldeggiare un ritorno alla tassazione progressiva dei dividendi, dall’altro lato, a maggior ragione, consentono di esprimere perplessità sulla scelta del suo complessivo abbandono, avvenuto con l’art. 1, comma 1003, l. 27 dicembre 2017, n. 205. Tale disposizione, intervenendo sull’art. 27 del D.P.R. n. 600 del 1973 e sull’art. 67 Tuir, ha disposto l’equiparazione dei dividendi e delle plusvalenze derivanti da partecipazioni qualificate a quelli delle partecipazioni non qualificate, in tal modo prevedendo che entrambe le tipologie, sino ad oggi distinte sul piano del regime fiscale, siano soggette alla ritenuta alla fonte a titolo d’imposta in egual misura, 26 per cento. Nell’ottica del legislatore (33), la modifica si è resa necessaria poiché a partire dalla riforma del 1997, il livello di tassazione di dividendi e plusva-
(33) V. Relazione illustrativa legge di bilancio 2018, in Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, n. 2960, 166 (54), in http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01048139. pdf.
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lenze da partecipazioni qualificate è sempre stato più elevato rispetto a quello previsto per le partecipazioni non qualificate. Sennonché, sia a seguito della progressiva riduzione dell’aliquota Ires (34), sia a fronte dell’aumento dell’aliquota della ritenuta alla fonte sui dividendi scaturenti da partecipazioni non qualificate (35), si è in sostanza pervenuti a tassare i proventi da partecipazioni qualificate in misura pari, attualmente, al 25 per cento (considerando l’aliquota marginale Irpef massima e l’Ires al 24 per cento (36)). A seguito della modifica normativa, dunque, la tassazione su dividendi e plusvalenze da partecipazioni qualificate subisce un modesto innalzamento, a fronte, tuttavia, di una modifica del complessivo assetto della tassazione e di una significativa semplificazione degli adempimenti formali, dal momento che i redditi diversi realizzati da partecipazioni qualificate e non qualificate confluiscono in un’unica e indistinta massa nella quale le plusvalenze possono essere compensate con le minusvalenze (eliminando l’obbligo di separata indicazione in dichiarazione delle plus e minusvalenze di ciascuna categoria) e che anche per le partecipazioni qualificate è possibile optare per i regimi del risparmio amministrato e del risparmio gestito (37).
(34) Inizialmente prevista al 33 per cento, è stata ridotta al 27,5 per cento dall’art. 1, l. 27 dicembre 2007, n. 244 con decorrenza 1 gennaio 2008. Successivamente, ai sensi dell’art. 1, comma 61 l. 28 dicembre 2015 n. 208 si è disposto che a decorrere dall’1 gennaio 2017, con effetto per i periodi d’imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2016, l’aliquota fosse ulteriormente ridotta al 24 per cento. (35) Con il d.l. 13 agosto 2011, n. 138, l’aliquota del 12,5 per cento è stata innalzata al 20 per cento, con ulteriore aumento al 26 per cento a seguito del d.l. 24 aprile 2014, n. 66. (36) Ciò in quanto la quota imponibile, inizialmente pari al 40 per cento allorché l’aliquota Ires era pari al 33 per cento, è passata al 49,72 per cento a fronte della riduzione dell’Ires al 27,5 per cento e, da ultimo, si è assestata sul 58,61 per cento in funzione della riduzione dell’aliquota Ires al 24 per cento. (37) Il nuovo assetto si applica ai redditi di capitale percepiti dall’1 gennaio 2018 - ma si prevede un regime transitorio per il caso in cui gli utili siano stati prodotti fino al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2017 la cui distribuzione sia deliberata successivamente. Secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 1006, l. n. 205 del 2017, alle distribuzioni di utili derivanti da partecipazioni qualificate in società ed enti soggetti ad Ires formatesi con utili prodotti fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2017, deliberate dall’1 gennaio 2018 al 31 dicembre 2022, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 26 maggio 2017. Quanto ai redditi diversi, la nuova norma è applicabile ai redditi diversi realizzati a partire dall’1 gennaio 2019, senza previsione (criticabile) di limitazioni alla compensazione con eventuali minusvalenze da partecipazioni non qualificate realizzate anteriormente all’entrata in vigore della legge.
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Attraverso la suddetta modifica normativa – destinata ad incidere, peraltro, sia sui contratti di associazione in partecipazione (38), sia su dividendi e plusvalenze da partecipazioni in società residenti in Paesi a fiscalità privilegiata – si cristallizza, nell’ambito della tassazione delle rendite finanziarie, un quasi completo azzeramento della progressività dell’imposizione sul reddito. Tale mutamento potrebbe essere spiegato (come avvenuto nella relazione alla legge di bilancio 2018) sul fronte della concreta misura dell’imposizione e dunque della congruità richiesta espressamente dalla relazione alla legge delega n. 80 del 2003 quale criterio indiscutibile per l’attuazione di un perequato passaggio dal sistema dell’imputazione a quello dell’esenzione, in ragione della necessità di ragionare sull’unità economica socio-società per verificare l’adeguata tassazione dell’utile. Tuttavia, non può sottacersi che le ragioni poste a fondamento del differente trattamento introdotto a seguito della riforma fiscale del 2003 risultano tuttora valide, perché sono di ordine qualitativo, non quantitativo. E anche quelle di ordine quantitativo rischiano di essere contingenti, perché l’aver sottratto i proventi da partecipazione qualificate all’imposizione progressiva equivale al metterle al riparo dal (pur eventuali e future) modifiche delle aliquote Irpef. 4. Dallo strumento d’investimento al sottoscrittore: il mutamento di prospettiva per i proventi da OICR. – Le modifiche alla disciplina della tassazione dei proventi derivanti dalla partecipazione ad organismi di investimento collettivo del risparmio si collocano nel più ampio contesto dell’adozione di norme euro-unitarie uniformi, volte ad introdurre un quadro normativo armonizzato anche per la regolamentazione complessiva dei gestori (39). Ciò ha determinato un allineamento della disciplina italiana a quella prevista da altri ordinamenti, con particolare riferimento al sostanziale spostamento della tassazione dal gestore al sottoscrittore. A tale impostazione si è pervenuti previa attribuzione di una soggettività passiva al patrimonio separato: gli OICR rientrano nel novero dei soggetti Ires non esercenti attività d’impresa, di cui
(38) L’art. 1, comma 1004, l. n. 205 del 2017 modifica l’art. 47, comma 2, Tuir. (39) In proposito, v. G. Corasaniti, La tassazione delle attività finanziarie, cit., 517, nonché A. Immacolato - F. Moretti, La tassazione degli OICVM di diritto italiano dopo la Direttiva UCITS IV, in Corr. trib., 2013, 2231, che rammentano come la Direttiva 2009/65/ CE del 13 luglio 2009 (e il D. Lgs. 16 aprile 2012, n. 47 che ne costituisce attuazione) abbiano apportato significative modifiche alla gestione collettiva del risparmio, promuovendo l’attività transfontaliera delle SGR. Nella prassi, v. Ag. Entr., circ. 4 giugno 2013, n. 19.
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all’art. 73, comma 1, Tuir (40). In particolare, tale disposizione – che al terzo comma considera residenti nel territorio dello Stato gli OICR istituiti in Italia (da SGR italiane o estere) (41) – prevede, al successivo comma 5-quinquies, un’esenzione da imposte sui redditi riservata agli OICR istituiti da gestori soggetti a vigilanza prudenziale nel Paese della loro sede. La creazione del “soggetto fondo”, in tal modo, lungi dall’essere volta a strutturare definitivamente sul fondo la tassazione basata sul risultato della gestione – trasferendo dal gestore al patrimonio la soggettività passiva – è viceversa funzionale a collocare temporalmente il prelievo al momento della effettiva percezione del provento da parte del sottoscrittore, in applicazione del principio di cassa quale pilastro del regime tributario dei redditi di capitale. Da questo punto di vista, non si tratta di un “rinvio” della tassazione, quanto piuttosto della più corretta scelta di tassare il reddito al momento in cui si manifesta la capacità contributiva effettiva ed attuale in capo al soggetto che ha impiegato il capitale (42). Alla scelta di ricomprendere gli OICR tra i soggetti passivi Ires conseguono, poi, due ulteriori effetti. Da un lato la possibilità di applicare le convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni in relazione ai redditi di fonte estera percepiti dai fondi (43); dall’altro, la sostanziale attenuazione del previgente regime della percezione al lordo. In coerenza con l’applicazione del regime di esenzione, lo stesso comma 5-quinquies prevede infatti che le ritenute sui
(40) Una scelta, questa, del tutto diversa rispetto a quella palesata dal legislatore della prima disciplina organica dei fondi comuni d’investimento (l. n. 77 del 1983); sul tema v. F. Bosello, Aspetti fiscali dei fondi comuni d’investimento, in Dir. prat. trib., 1984, I, 73. (41) Sul tema della residenza fiscale degli OICR, v. M. Piazza, L’Agenzia chiarisce la decorrenza delle modifiche al regime fiscale dei fondi d’investimento, in Corr. trib., 2014, 2461 (3), che sottolinea come anche alla luce del D. Lgs. 4 marzo 2014, n. 44, la residenza fiscale degli OICR italiani ed esteri è quella dello Stato di istituzione dell’OICR, che prevale sia sul luogo di direzione effettiva dell’organismo, sia sul luogo di stabilimento del soggetto gestore quale risultante dal “passaporto del gestore”; in tal modo, il luogo di istituzione dei fondi italiani ed esteri è il luogo della legge regolatrice degli stessi. (42) Del resto, al momento dell’introduzione dell’imposta sostitutiva, era stato osservato che il fondo, per il legislatore, non è un’entità, nemmeno volta all’esercizio di un’attività commerciale, ma una “proiezione delle persone fisiche, da trattare – ai fini della tassazione dei redditi di capitale – come le persone fisiche” (v. G. Falsitta, Lineamenti del regime fiscale dei fondi comuni d’investimento mobiliare aperti, in Rass. trib., 1984, 9). (43) V. S. Capilupi, Anomale discrasie nel regime tributario degli organismi di investimento collettivo del risparmio, in F. Marchetti (a cura di), I redditi finanziari, cit., 186; N. Arquilla, La soggettività degli OICR ai fini delle imposte sui redditi, in Corr. trib., 2012, 1294.
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redditi di capitale siano a titolo definitivo, con espressa esclusione di alcune ipotesi testualmente previste (44). È stato osservato che la tendenza alla soggettivizzazione di entità giuridiche come i patrimoni, tradizionalmente concepite come oggetto di diritti, è conseguenza della nascita di nuove forme giuridiche che, se sul fronte del diritto comune impongono di rivedere o comunque aggiornare le categorie dogmatiche, sul versante tributario determinano da un lato un ampliamento della platea di soggetti passivi Ires ad entità prive di personalità giuridica in senso proprio, e dall’altro lato si svincolano da una concezione c.d. antropocentrica del sistema tributario (45). Quest’ultima – fondata sull’imposizione personale e progressiva come regola volta ad assicurare la tassazione di una capacità contributiva realmente in grado di esprimere il possesso del reddito – sarebbe in grado di esplicarsi anche con riferimento ai prelievi alla fonte, quantomeno nei casi in cui essi costituiscono una tassazione provvisoria. Sennonché, mentre con riferimento al beneficiario effettivo (e definitivo) del reddito, la legittimità del prelievo anticipato è indubitabile, meno immediata sarebbe potuta risultare l’ipotesi in cui la ritenuta venisse applicata nei confronti della società di gestione del fondo; tale rilievo è stato superato, tuttavia, dalla duplice considerazione che quest’ultima è titolare di una patrimonio autonomo e svolge un’attività d’investimento, quindi deve poter disporre dei redditi prodotti dal fondo (nei limiti previsti dalla legge e dal regolamento). Occorre allora chiedersi se, in relazione agli OICR, l’emancipazione dal sistema dell’imposizione personale possa dirsi definitiva. Sul punto, per vero, va rilevato che questo percorso appare compiuto solo in parte: più che (o oltre che) di tassazione degli OICR, oggi, pur a fronte dell’attribuzione di soggettività fiscale ai fondi, si discute di tassazione dei proventi da OICR, in ciò confermandosi la necessaria verifica del reddito prodotto in capo al titolare
(44) Non sono applicate: i) le ritenute di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 26 D.P.R. n. 600 del 1973, su interessi ed altri proventi di conti correnti e depositi bancari (a prescindere dalla giacenza); ii) le ritenute di cui all’art. 26, comma 3-bis del medesimo decreto, che si riferisce al prelievo alla fonte sui proventi dei riporti, dei pronti contro termine e del contratto di mutuo di titoli garantito [art. 44, comma 1, lettere g-bis) e g-ter)], Tuir; iii) le ritenute sui proventi derivanti dalla partecipazione a fondi italiani o lussemburghesi storici (art. 26-quinquies, D.P.R. n. 600 del 1973); iv) le ritenute su proventi da fondi esteri (art. 10-ter, l. n. 77 del 1983. (45) V. D. Cané, Prelievo alla fonte su redditi senza possessore e nuove ipotesi di soggettività tributaria, in Rass. trib., 2016, 170.
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dell’impiego del capitale, attesa la natura esclusivamente strumentale del soggetto Ires. La fattispecie appare peraltro pienamente distinguibile da alternative parimenti soggette alla medesima imposta, come le società di capitali. Come è già stato ricordato, al momento dell’introduzione dell’Ires era stata sottolineata (46) l’esigenza di abbandonare il sistema dell’imputazione nella tassazione dei dividendi, in favore di quello fondato sull’esenzione. Questo passaggio, come abbiamo visto, era dipeso dalla difficoltà di considerare l’imposta assolta dalla società come acconto sulla tassazione dell’utile in capo al socio, per la problematica applicazione di tale sistema in relazione ai dividendi di fonte estera, i cui percettori avrebbero beneficiato di un credito d’imposta pur a fronte dell’assolvimento all’estero dell’imposta sull’utile societario. Con il metodo dell’esenzione, l’utile viene tassato in capo alla società, dunque solo al momento della produzione e non in sede di distribuzione ai soci; se viceversa è percepito al di fuori del regime d’impresa si applica una ritenuta che costituisce una tassazione alla fonte ormai definitiva, che sottrae il provento al concorso al reddito complessivo. Per il provento da OICR, viceversa, si prospetta una “esenzione rovesciata”: anziché tassare il reddito in capo al patrimonio “soggettivato” e considerarlo esente in capo al percettore, si esonera da imposta il risultato del fondo e si assoggetta a imposizione il provento distribuito. A ciò va aggiunto che l’art. 26-quinquies, D.P.R. n. 600 del 1973, mantiene ferma la previsione che la ritenuta applicata sul provento del fondo sia a titolo d’acconto nei confronti di imprenditori individuali (se le quote sono relative all’impresa), nonché di società di capitali o di società di persone commerciali; nessuna ritenuta nel caso di percettore escluso o esente da Ires (47).
(46) V. Relazione allo schema di decreto legislativo recante riforma dell’imposizione sul reddito delle società in attuazione dell’art. 4, comma 1, lett. da A) a O), della legge 7 aprile 2003, n. 80, attualmente reperibile in www.fondazioneoic.eu., pp. 6-7. (47) La ritenuta si applica sui proventi periodici percepiti in costanza di partecipazione all’organismo e su quelli compresi nella differenza positiva tra il valore di riscatto, liquidazione o di cessione delle quote e il costo medio ponderato di sottoscrizione o acquisto delle quote o azioni medesime. A seguito del D. Lgs. n. 44 del 2014, il reddito di capitale è determinato, senza alcuna deduzione di spese ed oneri, effettuando una differenza tra il valore effettivo di riscatto, liquidazione o cessione delle quote o azioni e il costo medio ponderato delle quote o azioni; in caso di acquisto sul mercato, il costo deve essere documentato dal partecipante e, in mancanza della documentazione, con dichiarazione sostitutiva. Sul punto v. Ag. Entr., circ. 10 luglio 2014, n. 21. Sul regime precedente v. A. Immacolato - F. Moretti, Il nuovo
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Questa impostazione conferma che il “ribaltamento” del sistema di tassazione del provento da OICR rispetto al dividendo – e dunque l’esenzione in capo al fondo e la tassazione al momento della percezione – non sottraggono tuttavia sempre e comunque il provento medesimo all’imposizione progressiva direttamente (nel caso di imprenditore individuale) o per “imputazione successiva” (società di persone), in linea con quanto previsto per i dividendi. E a tale allineamento contribuisce l’abbandono, ai fini tributari, della distinzione tra partecipazioni qualificate e non qualificate: entrambe le ipotesi costituiscono proventi derivanti dalla partecipazione ad entità che trovano, nell’Ires, il loro momento di sintesi non per ragioni meramente strumentali – quali l’esigenza di creare un soggetto residente ai fini convenzionali – ma poiché in comune possiedono il loro tratto caratterizzante, l’impiego del capitale. Senza contare che le ragioni di interferenza nella gestione sottese alla tassazione progressiva valevole per i dividendi da partecipazioni qualificate non sono del tutto estranee ai fondi comuni, atteso che anche le assemblee dei quotisti possono vincolare la società di gestione in talune decisioni (48). Va oltremodo considerato se, in relazione agli OICR, oggi soggetti Ires, possa assumere rilievo quanto considerato dal legislatore della riforma Ires con riguardo alla tassazione “congrua”, principio che la relazione di accompagnamento alla l. n. 80 del 2003 aveva sottolineato allo scopo di assicurare che l’esclusione del dividendo dall’imponibile del socio fosse accompagnata da un prelievo adeguato in capo alla società erogante. Sul punto, potrebbero prospettarsi due differenti ricostruzioni. Secondo la prima, il criterio della tassazione congrua andrebbe riferito all’“utile societario” propriamente detto (come riportato nella relazione di accompagnamento) e quindi sarebbe irrilevante per gli OICR; la disposizione di legge, in tal modo, consentirebbe di sgombrare il campo da criticità di ordine sistematico (comunque prive di risvolti di illegittimità).
regime di tassazione degli OICR di diritto italiano, in Corr. trib., 2011, 3157 che rammentano come alle plusvalenze realizzate a fronte della cessione di quote di fondi, l’intermediario sia chiamato ad applicare l’imposta sostitutiva anche in mancanza dell’esercizio dell’opzione per il risparmio amministrato. Sui riflessi, sul regime degli OICR, dell’unificazione al 20 per cento dell’aliquota di tassazione dei redditi di natura finanziaria, v. A. Immacolato - F. Moretti, Regime tributario degli OICR e tassazione dei partecipanti, in Corr. trib., 2012, 1560, nonché Ag. Entr., circ. 28 marzo 2012, n. 11 (par. 8). (48) V. ancora, D. Cané, Prelievo alla fonte su redditi senza possessore cit., 163.
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In alternativa, si potrebbe considerare quello della “tassazione congrua” un criterio che il legislatore della delega del 2003 ha inteso introdurre con riferimento alla disciplina tributaria dei soggetti Ires in quanto tali e che andrebbe applicata non solo con riferimento alla tassazione dell’utile in capo alla società, ma in uno con la previsione delle ritenute alla fonte applicate a titolo definitivo. Della condivisibilità di questa seconda impostazione recherebbe traccia la stessa relazione, laddove prevede l’imponibilità integrale degli utili distribuiti da società residenti in paradisi fiscali (salvi i casi di imputazione per trasparenza). Se sono questi i termini della questione, occorre allora chiedersi se il criterio della congruità possa essere applicato anche ai proventi da OICR, laddove i medesimi sono tassati (solo) mediante ritenuta alla fonte (o imposizione sostitutiva) e se dunque in tal caso la tassazione possa dirsi non congrua. Vi sono differenti ragioni per pervenire, sul punto, ad una risposta negativa. In primo luogo va considerato che a seguito della riforma dell’Ires, la tassazione dei dividendi distribuiti era soggetta ad una ritenuta sostanzialmente ridotta (ed anzi ciò aveva determinato le critiche della dottrina più autorevole) che ha necessitato essa stessa una revisione in aumento. Inoltre, non può non segnalarsi che la soggettivizzazione degli OICR ha portato alla creazione di soggetti chiamati a svolgere attività non commerciale, e non d’impresa, il ché osta ad una effettiva comparazione giuridica tra i due soggetti (che invece costituiscono strumenti confrontabili in termini di scelta dell’investimento e sul piano della tassazione del provento distribuito). Da ultimo, va considerato che a fronte dell’esenzione da Ires, come detto, gli OICR scontano, come regola, le ritenute sui redditi di capitale da essi percepite, ciò che in sostanza non accade per i soggetti Ires “ordinari”. Ciò considerato, va rilevato dunque che l’attuale regime “ordinario” della tassazione dei proventi da fondi d’investimento (ritenuta a titolo d’imposta) allinea il trattamento dei redditi derivanti dalla partecipazione a OICR istituiti in Italia a quelli da quote di organismi di investimento collettivo in valori mobiliari conformi alla direttiva 2009/65/CE e istituiti in Stati membri UE o dello SEE e soggetti a vigilanza prudenziale. Sennonché, tale allineamento sarà esattamente coincidente nel caso in cui la percezione del provento estero avvenga per il tramite di un intermediario italiano chiamato ad applicare la ritenuta alla fonte. Al contrario, per i proventi derivanti dalla partecipazione ad organismi di investimento collettivo in valori mobiliari di diritto estero conformi alla diret-
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tiva comunitaria 2009/65/CE ovvero non conformi alla direttiva comunitaria, e il cui gestore sia soggetto a forme di vigilanza nel paese estero nel quale è costituito, istituiti negli stati membri UE e negli stati aderenti al SEE che sono inclusi nella lista di cui al decreto ministeriale 4 settembre 1996 ai quali non sia stata applicata la ritenuta di cui all’art. 10-ter, comma 1, l. n. 77 del 1983, il contribuente sarà chiamato ad effettuare l’adempimento dichiarativo (quadro RM) assoggettando ad imposizione sostitutiva il reddito ed applicando la medesima aliquota che sarebbe stata applicata dall’intermediario (49). In tal modo, pur a fronte di una analoga tassazione (sul piano quantitativo), sarà differente solo la modalità applicativa, rimessa al contribuente in dichiarazione. All’adempimento dichiarativo seguirà viceversa il concorso al reddito imponibile qualora i proventi siano percepiti in relazione a fondi esteri diversi, vale a dire quando si tratti di organismi istituiti in Stati che non siano membri dell’UE o del SEE, o di fondi non armonizzati, per i quali dunque la disciplina italiana prevede un (residuale) regime di imposizione progressiva (50). 5. L’approdo al regime di esenzione (condizionata): i piani individuali di risparmio. – Dalla relazione di accompagnamento alla l. 11 dicembre 2016, n. 232 (51) emerge che l’introduzione di un’esenzione d’imposta sui redditi di capitale e sui redditi diversi prodotti nell’ambito dei piani di investimento a lungo termine (52) – schema mutuato da altri ordinamenti, quali Francia (53)
(49) Detti proventi sono determinati valutando le somme impiegate apportate o affidate in gestione nonché le somme percepite o il valore normale dei beni ricevuti, rispettivamente secondo il cambio del giorno in cui le somme o i valori sono impiegati o incassati. (50) La norma di riferimento è l’art. 10-ter, comma 6, l. n. 77 del 1983. I proventi sono soggetti a dichiarazione all’interno del quadro RL, il cui codice 4 contempla i proventi derivanti da OICVM di diritto estero non conformi alla direttiva comunitaria 2009/65/CE, diversi da quelli il cui gestore sia assoggettato a forme di vigilanza nei paesi esteri nel quale è istituito, istituiti negli stati membri dell’unione europea e negli stati aderenti all’accordo sullo spazio economico europeo che sono inclusi nella lista di cui al decreto ministeriale 4 settembre 1996 e successive modificazioni ed integrazioni. (51) V. Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XVII legislatura, A.C. n. 4127, 144. (52) V. A. Quattrocchi, La disciplina tributaria dei piani di risparmio a lungo termine, in Strumenti finanziari e fiscalità, n. 30-2017, 15. (53) Quanto all’istituto vigente oltralpe v. W. Vigo, M. Papetti, Il regime fiscale dei piani di risparmio a lungo termine francesi: spunti di riflessione, in Strumenti finanziari e fiscalità, n. 29, 2017, 101.
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e Regno Unito (54) – nasce dalla necessità di movimentare il risparmio immobilizzato delle famiglie, destinandolo al finanziamento delle imprese. Il regime dei PIR è riservato alle (sole) persone fisiche, residenti nel territorio dello Stato, in relazione ad attività di natura finanziaria detenute al di fuori dell’impresa commerciale. Sottratto all’ordinaria disciplina di tassazione dei proventi delle attività finanziarie, esso si caratterizza per l’introduzione di alcune condizioni e limitazioni: l’esenzione non possiede quindi natura oggettiva ma è subordinata alla ricorrenza di alcuni presupposti che confermano la centralità del ruolo degli intermediari (55) nel trattamento fiscale delle rendite finanziarie anche quando, come in questo caso, ne è prevista l’esenzione (56). Poiché la sottoscrizione di un PIR reca con sé la prospettiva di un’esenzione condizionata, è invero indispensabile un intermediario che vigili sulla consistenza delle attività che formano oggetto dell’investimento e che sia pronto, nei casi che vedremo nel prosieguo, ad applicare l’imposta sui proventi sino a quel momento esenti. La previsione di un limite annuale (30mila euro) e complessivo (150mila euro) all’investimento manifesta la volontà del legislatore di circoscrivere l’ambito applicativo dell’agevolazione (57).
(54) Nel Regno Unito lo schema dei c.d. Individual Savings Account, introdotto nel 1999, ha prodotto risultati incoraggianti, confermando, in particolare, la possibilità di far coesistere forme di investimento a tassazione posticipata (“tax post paid products”) con il regime di tassazione generale sui redditi finanziari (così M. Huertas, Capital Markets Union and the need for greater retail investor participation in financial markets, in Journal of International Banking Law and Regulation, 31/2016, 481). (55) È peraltro possibile che anche una società fiduciaria intervenga nella gestione di un piano di risparmio a lungo termine, atteso che l’intestazione fiduciaria non influisce sull’individuazione del soggetto passivo d’imposta, che rimane sempre e comunque il fiduciante, al quale sono riferibili i redditi e che quindi deve potersi avvalere dei regimi d’imposizione previsti dalla legge, purché siano soddisfatti i requisiti da essa previsti (V. Assofiduciaria, Circ. 17 gennaio 2017, L. BILANCIO_ COM_2011_011). (56) Per espressa previsione normativa, infatti, si richiede che l’interessato intrattenga con l’intermediario un rapporto di custodia, amministrazione o di gestione di portafogli, o altro rapporto “stabile” per il quale sia stata esercitata l’opzione per il risparmio amministrato, oppure che egli abbia sottoscritto un contratto di assicurazione sulla vita o di capitalizzazione con una compagnia residente in Italia o quivi operante mediante stabile organizzazione o in regime di libera prestazione di servizi, purché in tale ultimo caso, abbia provveduto alla nomina di un rappresentante fiscale. (57) Nonostante il limite indicato sia riferito all’investimento su base individuale, l’area dell’agevolazione si presta ad essere espansa laddove lo strumento del PIR venga utilizzato nell’ambito della pianificazione patrimoniale familiare, accedendovi nell’interesse del coniuge o dei figli.
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A conferma delle finalità di favorire il più possibile la raccolta di capitali immobilizzati, va rilevato che mentre la destinazione di somme al piano d’investimento risulta fiscalmente irrilevante, viceversa il conferimento di valori si considera cessione a titolo oneroso e come tale è soggetto all’applicazione dell’imposta sostitutiva prevista per il risparmio amministrato ex art. 6, D. Lgs. n. 461 del 1997. È tuttavia sul piano oggettivo dell’investimento che le norme introducono taluni vincoli per l’applicazione del beneficio fiscale, alcuni di carattere generale, altri specifici. In termini del tutto generali (ed “esterni”), occorre anzitutto che, come previsto dal comma 105, le somme e i valori non siano investiti in strumenti finanziari emessi o stipulati con soggetti residenti in Stati e territori diversi da quelli che garantiscono un adeguato scambio di informazioni. Inoltre, per almeno i due terzi dell’anno le somme o i valori destinati nel piano di risparmio devono essere investiti, per almeno il settanta per cento del valore complessivo, in strumenti finanziari, anche non negoziati nei mercati regolamentati o nei sistemi multilaterali di negoziazione, emessi o stipulati con imprese che svolgono attività diverse da quella immobiliare e che siano residenti nel territorio dello Stato o in Stati membri dell’Unione Europea o aderenti all’Accordo sullo Spazio Economico Europeo, purché dispongano in Italia di stabile organizzazione. È oltremodo necessario che le somme o i valori destinati al PIR non siano investiti per una quota superiore al dieci per cento del totale in strumenti finanziari di uno stesso emittente o stipulati con la medesima controparte o comunque con società appartenente allo stesso gruppo dell’emittente o della controparte, o in depositi e conti correnti. A fronte dei tre limiti generali (o “esterni”) si prevede un limite ulteriore (“interno” ad uno di essi) in base al quale della quota del settanta per cento oggetto di vincolo “nazionale-UE/SEE (con stabile organizzazione”), almeno il trenta per cento deve essere investito in strumenti finanziari di imprese diverse da quelle inserite nell’indice FTSE MIB di Borsa italiana o in indici equivalenti di altri mercati regolamentati. Oltre all’investimento diretto, il beneficio correlato al piano a lungo termine può essere conseguito sia attraverso l’investimento in quote di OICR residenti in Italia o in Stati UE e SEE, c.d. “PIR compliant” – vale a dire fondi dedicati ed appositamente costruiti in modo tale da rispettare le prescrizioni
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quantitative e qualitative previsti per i PIR dalla disciplina in esame (58) – sia mediante la sottoscrizione di contratti assicurativi sulla vita e di capitalizzazione in relazione ai quali le quote minime di investimento sono da riferirsi al singolo contratto, a prescindere dall’articolazione delle opzioni di investimento allo stesso sottostanti e tenendo anche conto che le quote minime di investimento vincolate devono essere calcolate su quanto effettivamente investito, dunque al netto del caricamento applicato dalla compagnia (59). Con riguardo all’ampiezza dell’esenzione da imposte sui redditi riservata ai piani di risparmio a lungo termine, occorre coordinare opportunamente tra loro la previsione di cui al comma 100 e quella di cui al successivo comma 106. La prima disposizione, in effetti, introduce un regime di non imponibilità riferito sia ai redditi di capitale percepiti in relazione agli strumenti finanziari compresi nel piano, sia ai redditi diversi realizzati sui medesimi strumenti. La seconda norma, tuttavia, prevede espressamente che gli strumenti finanziari in cui è investito il piano di risparmio debbano essere detenuti per almeno cinque anni, conseguendone, in caso di cessione anticipata, il versamento delle imposte dovute sia sul capital gain che determina la decadenza dall’agevolazione, sia sui redditi di capitale prodotti dal momento della sottoscrizione del piano sino alla data della cessione. Dal combinato disposto delle due norme si trae che per tutto il quinquennio di durata del piano (60) il sottoscrittore del PIR beneficia dell’esenzione sui redditi di capitale, purché vi sia la continuità di detenzione ed il rispetto delle norme sulla composizione oggettiva del piano medesimo. Successivamente al decorso del quinquennio l’esenzione si consolida, e non solo i futuri redditi
(58) Secondo quanto disposto dal comma 104 è necessario che il fondo investa almeno il settanta per cento dell’attivo in strumenti finanziari di cui al comma 102 nel rispetto delle condizioni di cui al comma 103. (59) Su entrambi i profili, v. G. Scifoni, Agevolati fiscalmente i piani d’investimento a lungo termine, in Corr. trib., 2017, 513. Sulle modalità con le quali va verificato, nel caso di polizze assicurative, il rispetto dei requisiti di legge in tema di composizione dell’investimento, v. Ania, Circ. 19 maggio 2017, n. 0187, 16 ss. (60) Con riguardo alle polizze assicurative, è stato ritenuto (Ania, circ. n. 0187/2017, 24) che ai fini della decorrenza del quinquennio occorre riferirsi all’anno solare di versamento dei premi. “Dall’anno di versamento di ciascun premio consegue, dunque, il decorso di un quinquennio, anche nel caso di versamento di una pluralità di premi nel corso del medesimo anno”.
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di capitale continueranno a non essere tassati ma la cessione degli strumenti finanziari compresi nel piano non genererà alcuna plusvalenza tassabile (61). Sotto il profilo operativo, poiché è possibile che i proventi percepiti nel corso del periodo di detenzione abbiano però subito l’applicazione di imposte applicate direttamente dall’emittente, si prevede espressamente (comma 108) che le eventuali ritenute e le imposte sostitutive applicate sui redditi oggetto di esenzione, facciano sorgere, in capo al titolare del piano, il diritto di ricevere una somma corrispondente, accreditata in suo favore da parte dell’intermediario presso cui è stato costituito il piano di risparmio. La disciplina non chiarisce se i redditi esenti percepiti in relazione agli strumenti finanziari compresi nel piano e che siano reinvestiti nel PIR debbano essere considerati nuovi apporti e, come tali, rimanere soggetti al limite annuale e complessivo previsto dal comma 101. In difetto di una norma di espressa esclusione è da ritenere che al quesito debba essere data risposta affermativa: i nuovi redditi saranno nuovi apporti e concorreranno al raggiungimento delle soglie previste annualmente e complessivamente dalla legge, a meno che non siano prelevati (62). Con specifico riferimento alle cause di decadenza dall’agevolazione, esse attengono sia al mancato completamento del quinquennio di detenzione richiesto dalla disciplina, sia al mancato rispetto dei vincoli quantitativi visti in precedenza, riferiti alla composizione dell’investimento, diretto o attuato per il tramite di fondi e polizze assicurative (ai quali sono di conseguenza riferiti i parametri qualitativi e quantitativi). Per disposizione testuale del comma 106, nell’eventualità che si verifichi una “cessione ante tempus”, sia i redditi realizzati in ragione della cessione che quelli percepiti durante il periodo minimo di investimento del piano sono soggetti a tassazione (“recapture”) secondo le regole ordinarie (63), con interessi ma senza che vi sia irrogazione di sanzioni amministrative. Secondo
(61) G. Scifoni, Agevolati fiscalmente i piani d’investimento a lungo termine, cit., 509 e 514. (62) A tale conclusione è giunto anche il Min. Finanze, Linee guida per l’applicazione della normativa sui piani di risparmio a lungo termine, in www.finanze.it, 11. (63) L’applicazione delle imposte compete all’intermediario presso cui è stato aperto il rapporto di custodia o di amministrazione o di gestione di portafogli o altro “stabile” rapporto per il quale sia stata esercitata l’opzione per il risparmio amministrato. Quest’ultimo può procedere al relativo versamento provvedendo ad adeguati disinvestimenti o richiedendo una provvista al cliente.
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quanto chiarito dal Ministero delle Finanze, l’assoggettamento a tassazione non si verifica quando il disinvestimento è seguito dal reinvestimento (64). Il meccanismo della recapture non risulta applicabile ai PIR basati su schemi assicurativi che prevedano la capitalizzazione dei redditi: in questi casi, poiché al titolare non sono attribuiti proventi, non essendo stato applicato alcun regime di esenzione, non vi è l’esigenza di recuperare alcuna imposta non applicata; di conseguenza, qualora la polizza sia riscattata prima del decorso del quinquennio, si applicherà, come avviene ordinariamente, l’art. 45, comma 4, Tuir (65). Nel caso di rimborso infra-quinquennale è previsto un termine di novanta giorni entro i quali, a fronte del reinvestimento del provento conseguito, il rimborso rimane fiscalmente neutro in sé e con riferimento ai redditi frattanto prodotti dal titolo rimborsato (66). Dalle ipotesi di cessione (o rimborso) degli strumenti finanziari compresi nel piano va distinto il caso del trasferimento del piano di risparmio a lungo termine dall’intermediario o dall’impresa di assicurazione presso cui è stato costituito ad altro intermediario o compagnia; tale eventualità non rileva ai fini del computo del quinquennio di detenzione degli strumenti finanziari e dun-
(64) Min. Finanze, Linee guida per l’applicazione della normativa sui piani di risparmio a lungo termine, cit., 19-20. (65) G. Scifoni, Agevolati fiscalmente i piani d’investimento a lungo termine, cit., 514. Per quanto concerne la recapture relativa ai contratti di assicurazione sulla vita, invece, è stato osservato che occorre partire dal presupposto, già anticipato, in base al quale la decorrenza del quinquennio deve tener conto dei premi annualmente versati. In tal modo, il riscatto totale della polizza, ove non sia decorso un quinquennio per ciascun premio annuale versato, determinerà l’assoggettamento ad imposta per i redditi conseguiti afferenti a premi per i quali il quinquennio non si è ancora compiuto, con applicazione dell’imposta secondo le regole ordinarie; in caso di riscatto parziale esso andrà imputato ai premi versati in data meno recente (in coerenza con il metodo FIFO previsto dal comma 110), per cui i rendimenti non saranno tassati se i premi cui afferiscono avranno assolto il vincolo quinquennale (così Ania, circ. n. 0187/2017, 26, secondo la quale, per i casi in cui la compagnia non sia in grado di determinare analiticamente il rendimento riferibile a ciascuno dei premi versati, la stessa dovrebbe potersi avvalere di un metodo forfetario, sia perché la legge nulla prevede di specifico al riguardo, sia per ragioni di semplificazione). (66) Secondo quanto sostenuto da S. Capilupi, Il regime fiscale dei piani di risparmio a lungo termine, cit., 243, il reinvestimento, essendo “obbligato”, non andrebbe trattato come nuovo conferimento ma dovrebbe poter acquisire l’anzianità del titolo rimborsato e dunque non concorrere alla formazione del limite annuo di trentamila euro.
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que risulta fiscalmente neutra, analogamente – aggiungiamo – a quanto accade in altre fattispecie di trasferimento di posizioni individuali (67). Sul fronte dell’utilizzo dei risultati negativi, va ricordato che eventuali minusvalenze, perdite e differenziali negativi realizzati mediante cessione a titolo oneroso ovvero rimborso degli strumenti finanziari nei quali è investito il piano sono deducibili dalle plusvalenze, differenziali positivi o proventi realizzati nelle successive operazioni poste in essere nell’ambito del medesimo piano e sottoposti a tassazione, in caso di decadenza dall’agevolazione ai sensi dei commi 106 e 107, nello stesso periodo d’imposta e nei successivi, ma non oltre il quarto. 6. Tendenze evolutive tra aspirazioni di riforme organiche e (mere) revisioni di aliquote. – Nel corso dell’ultimo decennio, la materia della fiscalità finanziaria è stata interessata da numerosi interventi del legislatore, che hanno in parte innovato il sistema precedente, sia mediante la previsione di nuovi strumenti/regimi – come quello dei PIR, su cui ci siamo appena sopra soffermati – sia attraverso l’aggiornamento e il riordino delle aliquote applicabili, con un sostanziale aumento dell’imposizione in molti casi e con un generale allineamento delle aliquote su una percentuale ormai superiore all’aliquota Irpef prevista per il primo scaglione di reddito. Nella consapevolezza che l’aggiornamento dell’aliquota originaria del 12,5 per cento non potesse essere attuata come provvedimento estemporaneo – per gli effetti che avrebbe prodotto sulla propensione dei risparmiatori agli investimenti – era stata formata, nel 2006, una Commissione Parlamentare (“Commissione Guerra”) che avrebbe dovuto proporre, al termine dei lavori, un nuovo disegno della fiscalità finanziaria, volto non solo ad un aumento delle aliquote in vigore, ma all’introduzione di nuove modalità di determinazione della base imponibile, verificando l’attualità dei regimi opzionali in essere. La Commissione si era prefissata di informare la proposta legislativa ai principi di efficienza, neutralità, antielusività e soprattutto – è opportuno sottolinearlo – di equità, allo scopo di escludere che il prelievo impositivo applicabile
(67) Ci si riferisce all’art. 14, comma 7, D. Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, secondo cui le operazioni di trasferimento delle posizioni pensionistiche sono esenti da ogni onere fiscale, a condizione che avvengano a favore di forme pensionistiche ammesse ai sensi del medesimo decreto.
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ai proventi e ai differenziali derivanti da rapporti finanziari sostanzialmente equivalenti variasse in ragione della differente forma negoziale adottata. A tale scopo, la Commissione, oltre a valutare l’introduzione di correttivi minimi seguiti dall’unificazione delle aliquote con innalzamento al 20 per cento, aveva indicato due possibili alternative di revisione del sistema, rispettivamente fondate sulla generalizzata applicazione della tassazione in base al realizzo, o, in alternativa, in base al criterio di maturazione. Archiviata la possibilità di una riforma organica della fiscalità finanziaria, il legislatore, dopo qualche anno, è intervenuto sul segmento più immediatamente attuabile, la revisione delle aliquote, allineandone la misura al 20 per cento (68), con esclusione dei proventi derivanti da titoli del debito pubblico, dei rendimenti delle forme pensionistiche complementari e di altre fattispecie più marginali, soggetti alle aliquote originarie (69). A fronte del generale incremento, si registravano tuttavia alcune riduzioni, relative agli interessi di depositi e conti correnti bancari e postali, ai proventi dei titoli atipici e agli interessi delle obbligazioni di emittenti privati di durata inferiore a 18 mesi. Tuttavia, al provvedimento del 2011 è seguito il riordino operato dal d.l. n. 66 del 2014 a seguito del quale tutte le aliquote relative a rendite finanziarie – redditi di capitale e redditi diversi – sono state elevate al 26 per cento, rimanendo esclusi dal provvedimento i proventi dei titoli pubblici (emessi anche da Stati white list) e i project bond (70). A mutare il quadro in termini più sostanziali è invece intervenuta, come abbiamo visto, la recente legge di bilancio 2018, che ha modificato il regime di tassazione dei redditi di capitale e dei redditi diversi derivanti relativi alle partecipazioni qualificate, elidendo dal sistema delle imposte sui redditi la distinzione ormai acquisita e prevedendo sia che i dividendi saranno soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta con aliquota del 26 per cento valevole anche per le partecipazioni non qualificate, sia che le plusvalenze saranno tassate con imposizione sostitutiva, potendo optare, il contribuente, sia per il regime del risparmio amministrato che per il risparmio gestito.
(68) V. D.L. 13 agosto 2011 n. 138. V. F. Rasi, Unificazione delle aliquote sulle rendite finanziarie o rinuncia del legislatore a politiche redistributive?, in Rass. trib., 2013, 218. (69) I titoli del debito pubblico al 12,5 per cento, i rendimenti dei fondi pensione all’11 per cento. (70) A questi si aggiungono oggi anche i titoli di solidarietà del terzo settore, previsti dall’art. 77, D.lgs. n. 117/2017.
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Il venir meno della distinzione comporta anche la possibilità di compensare minusvalenze in precedenza utilizzabili solo nell’ambito della medesima tipologia e determina, sotto questo profilo, anche la semplificazione degli adempimenti dichiarativi nel caso in cui il contribuente non eserciti le opzioni per l’art. 6 o 7 del D. Lgs. n. 461 del 1997. Il quadro complessivo che risulta a seguito della modifica normativa di cui trattasi appare in massima parte sovrapponibile a quello risultante dopo la riforma del 1997, rispetto al quale diverge per alcuni aspetti. Da un lato, l’aliquota applicata ai redditi diversi derivanti da partecipazioni qualificate era significativamente più alta rispetto a quella del 12,5 per cento riservata alle non qualificate. Questa differenza, tuttavia, è spiegata dal legislatore nella relazione di accompagnamento alla legge di bilancio 2018, ove si prende atto che l’attuale livello di tassazione delle plusvalenze da partecipazioni qualificate in base all’imposizione progressiva si sarebbe attestata su una soglia di poco inferiore (25 per cento) alla percentuale della (nuova) imposizione sostitutiva (26 per cento). A fronte della modifica dell’aliquota è comprensibile che sia venuta meno la necessità di una distinzione tipologica sul piano tributario, fermo restando che rimangono pienamente valide le ragioni che avevano determinato il legislatore della riforma Ires ad assoggettare a imposizione progressiva le predette plusvalenze, elidendo la tassazione sostitutiva. L’ulteriore differenza, che si è avuto modo di anticipare più sopra, è che all’allineamento della misura dell’aliquota segue anche la possibilità del contribuente di utilizzare i regimi opzionali, segnatamente quello dl risparmio amministrato, che a seguito della riforma del 1997 risultavano invece preclusi. Ciò detto, non può sottacersi che con la riforma della tassazione dei redditi di capitale e dei redditi diversi relativi a partecipazioni qualificate viene meno una delle aree nelle quali la progressività dell’imposta risultava in massima parte salvaguardata, confermando che le rendite finanziarie sono un ambito ormai sostanzialmente sottratto al concorso al reddito complessivo. Una riflessione sull’adeguatezza della tassazione sostitutiva è dunque quanto mai necessaria, partendo dalle ragioni stesse della sussistenza del principio di progressività dell’imposizione. 7. Profili costituzionali: progressività dell’imposizione e tutela del risparmio. – A questo fine occorre prendere le mosse dalle ragioni che hanno portato i Padri Costituenti ad avvertire l’esigenza di inserire nella Carta fondamentale il principio di progressività, e, ancor prima, a mutare impostazione
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rispetto a quanto previsto, in precedenza, all’interno dello Statuto Albertino, secondo cui (art. 25) i regnicoli avrebbero dovuto contribuire indistintamente ai carichi dello Stato “nella proporzione dei loro averi” (71). Nell’ambito dei lavori dell’Assemblea (72) è stato segnalato che la regola della proporzionalità, comune ad altri ordinamenti dell’epoca, non avesse impedito che il nostro sistema fiscale evolvesse nel senso della progressività, ciò che era avvenuto con riguardo all’imposta sulle successioni e a quella complementare sui redditi. In questo quadro, la scelta di optare per un sistema tributario progressivo sarebbe dipesa dalla necessità di utilizzare un principio più democratico in un contesto in cui da un lato le imposte dalle quali derivava il maggior gettito (imposte su terreni, fabbricati e ricchezza mobile) erano uniformate alla proporzionalità e i tributi indiretti attuavano una progressione rovesciata, poiché gravando in massima parte sui consumi avevano avuto ed avrebbero continuato ad avere un maggior impatto sulle classi meno abbienti. L’obiettivo non era quello di prevedere che tutti i tributi fossero progressivi, poiché, proprio le imposte indirette (così come quelle reali) la progressività non si presta; ed anzi, secondo il relatore, proporzionalità e progressività sarebbero state due alternative che, volendo, la costituente avrebbe potuto valutare parimenti. Tuttavia, in ultimo, si ritiene che “una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a principi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività”; in tal caso, però, “la regola della progressività deve essere effettivamente operante” (73). Oltre a ricordare che accanto ai sostenitori del passaggio ad un sistema tributario progressivo (74), vi fossero anche posizioni più conservative, la dottrina (75) considera la scelta della Costituente non come il frutto di una decisione di equità ma di sostanziale compromesso tra giustizia sociale e diritti
(71) V. P. Boria, La dialettica costituzionale del fenomeno tributario, in Dir. prat. trib., 2004, I, 995. (72) V. Commissione per la Costituzione, Intervento del Presidente Terracini nella seduta del 23 maggio 1947, in www.nascitacostituzione.it, sub art. 53. (73) Si v. ancora Commissione per la Costituzione, Intervento del Presidente Terracini nella seduta del 23 maggio 1947, loc. cit. (74) Tra questi l’on. Scoca, seduta 23 maggio 1947, loc. cit. secondo il quale nel futuro sistema tributario si potrà “potenziare l’imposta progressiva sul reddito e farla diventare la spina dorsale del nostro sistema tributario”. (75) Così A. Giovannini, Equità impositiva e progressività, in Dir. prat. trib., 2015, I, 679, che ricorda come sia stato l’on. Aldo Moro ad esprimere perplessità sull’abbandono del sistema di tassazione proporzionale.
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individuali, tra esigenze di riequilibrio tra gli averi e libertà del singolo. La stessa dottrina rammenta che a porsi è anche il problema della discriminazione qualitativa del reddito, tendenza che in altri ordinamenti, quale quello tedesco dei primi del novecento, era scaturita dal convincimento che la ricchezza prodotta senza sacrificio avrebbe dovuto essere tassata maggiormente, costituendo, la modalità di produzione del reddito, parametro di riferimento anche per la misura della relativa tassazione. La lettura dei lavori della Costituente consente di cogliere questo specifico aspetto con riferimento ai redditi di natura finanziaria, attesa la previsione di una disposizione costituzionale di tutela del risparmio. Nel corso della discussione che porterà alla formulazione dell’art. 47 Cost., i costituenti si interrogano, invero, su quale sia la nozione di risparmio che s’intende proteggere ed in quali termini. Secondo una prima opinione, essendo il risparmio frutto del sacrificio del lavoratore, la relativa tutela deve essere affidata ad una norma costituzionale compresa nell’elencazione dei diritti del lavoro. Non sarebbe stato corretto, da questo punto di vista, considerare la proprietà e il risparmio in uno stesso contesto, poiché “il risparmio dice qualcosa di più; è qualcosa di più sudato e di più rispettabile” (76). Secondo altri tale impostazione è limitante, perché oltre al risparmio frutto del lavoro occorre tutelare il risparmio in generale: “fino a che la società sarà l’attuale, che non è società esclusivamente di lavoratori, ma anche di imprenditori e di capitalisti (occorre accettare) di tutelare il risparmio anche di questi ultimi” (77). La discussione sulla tutela del risparmio – conclusasi con la previsione di un principio dedicato, separato dalla norme sulla tutela del lavoro (artt. 35 ss., Cost.) e trattato congiuntamente all’esercizio del credito – si è svolta prima del confronto che porterà alla formulazione del principio di capacità contributiva e di quello di progressività, di talché dalle relazioni non risultano elementi
(76) V. Commissione per la Costituzione, Intervento del relatore Lucifero nella seduta del 9 ottobre 1946, in www.nascitacostituzione.it, sub art. 47, il quale sottolinea che “Il risparmio è la genesi della proprietà. È proprio questa filiazione dal lavoro che si può consolidare e trasformare in proprietà, ma essa è in uno stato fluido di particolare delicatezza e ha bisogno di particolare protezione. Ecco perché si ritiene che debba essere protetto il risparmio in questa sede”. (77) V. Commissione per la costituzione, Intervento del relatore Togliatti nella seduta del 9 ottobre 1946, loc. cit.
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specifici dai quali trarre la chiara volontà dei costituenti di riservare al risparmio una tutela in ambito tributario. Da questo punto di vista, vale per la tutela del risparmio quanto la dottrina osserverà con riguardo alla possibilità che la sussistenza di una norma costituzionale volta alla difesa di un valore riconosciuto meritevole di protezione possa giustificare deviazioni dalla regola generale della capacità contributiva e dunque la previsione di regimi “dedicati” ai fini delle imposte sui redditi. Non è possibile in questa sede ripercorrere l’intenso dibattito dottrinale riguardante la extrafiscalità, la nozione di agevolazione e le distinzioni concettuali tra agevolazioni in senso proprio e fenomeni di erosione: si può tuttavia rammentare come negli anni novanta la tendenza alla extrafiscalità – intesa come utilizzo delle disposizioni tributarie per introdurre trattamenti derogatori giustificati dalla necessità di perseguire e realizzare, per tale via, i principi costituzionali – si avvia verso una fase recessiva. Da elemento comune a tutte le agevolazioni tributarie (78), infatti, essa perde specificità in ragione della prevalenza dell’analisi strutturale dei fenomeni giuridici, che impone di individuare la direzione finalistica di una norma tributaria all’interno della norma stessa, senza indagare sulle ragioni esterne che ne abbiano determinato l’adozione (79). E’ per questa ragione che più che esaminare la tassazione dei proventi di natura finanziaria in una dimensione di tipo agevolativo – rinvenibile nella tassazione ridotta dei proventi di titoli quali quelli del debito pubblico (80) – è stato interessante osservarne la dinamica normativa che ha portato alla disciplina attuale, dunque adottando una prospettiva storico-evolutiva, per ve-
(78) V. F. Fichera, Le agevolazioni tributarie, Padova, 1992, 161, nota 42. (79) V. S. La Rosa, Le agevolazioni tributarie, in A. Amatucci (diretto da), in Tratt. Dir. Trib., Padova, 1994, I, 403. (80) Contra, F. Rasi, La tassazione dei redditi di natura finanziaria tra proporzionalità e progressività, in F. Marchetti, I redditi finanziari, cit., 57, che tuttavia giunge a tale conclusione argomentando non sulla base dell’art. 47 Cost. in quanto tale ma dell’indicazione contenuta nella relazione illustrativa al D. Lgs. n. 461 del 1997, ove si stabilivano alcuni criteri (che il legislatore riteneva derivanti dall’art. 47 Cost.) per considerare giustificata l’aliquota del 12,5 per cento. Secondo tale A., “l’investimento in titoli di Stato non può ritenersi sia compreso in tale casistica” e dunque “nel sistema attuale, non si riscontra alcuna reale forma di agevolazione del risparmio finalizzata a dare attuazione al precetto dell’art. 47 Cost.”. Al riguardo, fermo restando che i titoli del debito pubblico sono senza dubbio “forme di risparmio rispondenti a criteri di trasparenza”, va osservato che le ragioni del mantenimento, nel 2011, dell’aliquota ridotta, si prestano ad essere lette anche a prescindere da quelle poste a fondamento della riforma degli anni novanta.
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rificare se permangano le ragioni che hanno portato all’odierno assetto e se, rispetto alla tassazione sostitutiva, debba o possa essere riaffermato il rilievo della progressività dell’imposizione. 8. Revisione del sistema e progressività nella tassazione dei redditi finanziari. – Una riflessione sull’adeguatezza della tassazione sostitutiva non è certamente sganciata dalle considerazioni più generali inerenti la stessa opportunità di mantenere la distinzione tra redditi di capitale e redditi diversi, categorie che la dottrina (81) ha già ritenuto dover essere unificate in quella, più ampia, di rendite finanziarie, poiché la distinzione non coglie la complessità della materia e genera distorsioni significative, specie per la possibilità di compensare redditi di capitale e redditi diversi nell’ambito del risparmio gestito ma non nell’ambito del regime amministrato. Senza contare che, come già segnalato dalla dottrina più autorevole, a porre in dubbio l’opportunità di tenere separate le due categorie era stata proprio la disciplina del risparmio gestito, nel cui ambito alla tassazione di un provento unitario avrebbe dovuto corrispondere una unificazione a monte, a livello di presupposto imponibile (82). A ciò aggiungiamo che probabilmente la tassazione al lordo dei redditi di capitale aveva senso in momenti storici diversi dal nostro, nei quali la rendita di capitale era sostanzialmente in grado di prodursi per il mero trascorrere del tempo, mentre oggi richiede la remunerazione di professionalità che non sono esclusivamente connesse alla gestione individuale e che dunque potrebbero essere dedotte anche al di fuori del regime di risparmio gestito. La compensazione del reddito di capitale con altri risultati (siano essi costi o differenziali negativi) potrebbe dunque essere affrontata in una prospettiva attualizzata, che dopo aver operato una scelta tra tassazione in base al realizzo e quella fondata sulla maturazione, non potrà esimersi dal valutare se la “fuga” dalla progressività debba essere interrotta per ragioni di giustizia distributiva,
(81) G. Corasaniti, Le attività finanziarie nel diritto tributario, cit., 110, il quale ricorda (p. 92) che già la legge delega n. 80 del 2003 [art. 3, comma 1, lett. d)] prevedeva, tra i principi e criteri direttivi, l’omogeneizzazione dell’imposizione su tutti i redditi di natura finanziaria, indipendentemente dagli strumenti giuridici utilizzati. V. anche L. Castaldi - G. Corasaniti, Per un’ipotesi di definizione dei “redditi finanziari” quale distinta categoria di reddito originantesi dall’unificazione dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria, in F. Marchetti, I redditi finanziari, cit., 31. (82) F. Gallo, Il reddito di capitale come frutto economico, in Fisco, 1998, 6520.
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e se sia legittimo continuare a tassare la ricchezza in sé, a prescindere dalla posizione del soggetto che ne è titolare. È quindi una riflessione più profonda quella da compiere, sulla funzione fiscale e sulla sua ampiezza. Secondo la dottrina più autorevole (83) se si definisce la funzione fiscale come funzione di riparto del carico pubblico tra i consociati, si scinde il contribuente dalla sua proprietà, il ché consente al legislatore di considerare soggetti passivi anche coloro i quali presentino potenzialità economicamente valutabili sul piano sociale. Si amplia, in tal modo, l’area della tassazione, comprendendo forme di ricchezza più evanescenti rispetto a quella finanziaria, e, allo stesso tempo, si estende l’area dei soggetti passivi a contribuenti “nuovi”, vale a dire coloro i quali siano portatori di tali presupposti (e non di altri). La scissione contribuente-proprietà, però, scalfisce, allo stesso tempo, la tradizionale rilevanza attribuita dal sistema tributario non solo al presupposto come fattispecie inclusiva di una manifestazione quantitativa convenzionalmente stabilita, ma (per quanto in particolare interessa in questa sede) anche il rilievo riservato al contribuente-persona, favorendo forme di tassazione che siano alternative a quella progressiva applicata al reddito complessivo del soggetto. Merita ricordare che secondo la dottrina tradizionale, se per un verso l’imposizione progressiva non è priva di significative criticità (84), per l’altro è una modalità di tassazione che prestandosi alla ripartizione della ricchezza, si rivela adeguata quando produzione e accumulazione si sono già verificate e s’intende porre in essere una redistribuzione attraverso lo strumento fiscale (85).
(83) F. Gallo, Nuove espressioni di capacità contributiva, in Rass. trib., 2015, 779. Sostanzialmente in linea A. Giovannini, Ripensare la capacità contributiva, in Dir. prat. trib., 2016, 23, secondo cui la capacità contributiva non coincide necessariamente con la forza che un fatto porta dentro di sé dal momento che esso può produrre conseguenze esterne (costi pubblici e benefici) che diventano il suo “abito economico”. Contra, G. Gaffuri, Qualche considerazione su capacità contributiva ed etica fiscale, in Boll. trib., 2017, 424-425. (84) C. Cosciani, Struttura dei sistemi tributari e loro riforma, in Dir. prat. trib., 1979, I, 508. (85) V. G. Marongiu, Alle radici dell’ordinamento tributario italiano, Padova, 1988, 273, nota 89, che ricorda come De Viti De Marco sostenesse che “Diversamente è dell’imposta progressiva. Dopo il grande slancio che la produzione e l’accumulazione della ricchezza hanno di fatto compiuto, si è cominciato a dare di nuovo importanza relativamente maggiore
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Questa considerazione, pur risalente, potrebbe ancora oggi offrire spunti di riflessione. Dopo la crisi dell’ultimo decennio, durante il quale, peraltro, il legislatore non ha solo elevato l’aliquota della tassazione delle rendite, ma ha adottato forme di imposizione patrimoniale o para-patrimoniali (sulle attività finanziarie, si pensi all’Ivafe e all’imposta di bollo sulle comunicazioni periodiche), probabilmente l’imposizione sostitutiva si è rivelata idonea a dare nuovo slancio all’economia e a favorire gli investimenti. Anzi, con i piani individuali di risparmio il legislatore tributario è andato ben oltre, riconoscendo un’esenzione (condizionata) pur di movimentare il risparmio immobilizzato verso le imprese. Ciò, tuttavia, non dovrebbe indurre a considerare tali misure – e con esse il sostanziale abbandono della progressività – come una scelta irreversibile e definitiva, perché a chiusura del ciclo negativo (ciò è quanto stiamo vivendo), si pone nuovamente il problema di valutare forme d’imposizione con effetti redistributivi. Sotto questo profilo, non solo vi sono degli spazi per recuperare la progressività dell’imposizione, ma probabilmente tale recupero appare doveroso, perché la tassazione alla fonte o sostitutiva – divenendo regola e non essendo più “eccezione” (86) – ha in concreto azzerato l’applicazione di un principio costituzionale in un ambito che non è più circoscritto ad un numero limitato di fattispecie, ma che, al contrario, come si è visto, è stato notevolmente esteso nel corso degli ultimi decenni. Tale esigenza è stata già avvertita dalla dottrina (87), secondo la quale la progressività andrebbe implementata attraverso una previa “destrutturazione” dell’Irpef, onde assicurare alle rendite finanziarie un sistema separato rispetto a tale imposta, con aliquote progressive e con base imponibile al netto dei costi.
ai problemi della ripartizione della ricchezza”. Rimane fermo che l’attuazione delle politiche redistributive è subordinata allo stato dei conti pubblici, atteso che l’indebitamento costituisce oggi uno dei limiti all’effettiva attuazione dei principi costituzionali (sul punto v. le riflessioni di S. Mangiameli, Il diritto alla “giusta imposizione”. La prospettiva del costituzionalista, in Dir. prat. trib., 2016, 1373). (86) Secondo Corte Cost., 5 febbraio 1992, n. 44, vi sono modalità di tassazione “maggiormente rispettose del canone costituzionale della progressività dell’imposizione (art. 53, 2 comma, Cost.), cui viceversa non si ispira l’(eccezionale) regime della ritenuta a titolo d’imposta (e non già d’acconto)”. (87) A. Giovannini, Equità impositiva e progressività, cit., 692-693.
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Questa soluzione, in effetti, oltre a richiedere una riforma complessiva dell’imposizione sui redditi (88), comporterebbe però una moltiplicazione “qualitativa” degli scaglioni, poiché la progressività rischierebbe di essere assicurata per singola categoria di reddito. Per tale ragione, ad avviso di chi scrive, anche al fine di immaginare realisticamente una riforma della materia senza tuttavia intaccare la struttura complessiva dell’imposta esistente (89), appare preferibile che la futura ed auspicabilmente unica categoria dei “redditi finanziari” rientri nell’ambito dell’Irpef, garantendo che i flussi reddituali effettivi (90), determinati al netto di costi di produzione, concorrano alla formazione del reddito complessivo del contribuente. A fronte di tale modifica, da un lato le ritenute alla fonte andrebbero applicate a titolo di acconto e con aliquote ridotte rispetto alla percentuale attuale, dall’altro lato andrebbe introdotto un obbligo dichiarativo, anche “semplificato”, destinato ad accogliere le risultanze sintetiche frutto delle elaborazioni che già oggi gli intermediari consegnano annualmente ai contribuenti. L’applicazione della progressività rappresenterebbe senza dubbio la soluzione più equa sia per tutelare il piccolo risparmio, peraltro gravemente colpito dalle crisi bancarie degli ultimi anni, sia per tassare in modo appropriato le rendite più significative (91). Non si tratta di adottare un approccio punitivo nei confronti dei redditi finanziari più elevati, poiché, come pure è stato sottolineato (92), la progressività è un principio in grado di assicurare anche le “disuguaglianze legitti-
(88) Tale intervento appare ormai necessario secondo F. Gallo, Tributi, costituzione e crisi economica, in Rass. trib., 2017, 178. (89) Va ricordato che, nell’auspicare una revisione del sistema fiscale, la dottrina è giunta anche a suggerire soluzioni volte a modificare profondamente l’assetto attuale, attraverso l’elaborazione di un insieme di disposizioni fondamentali dirette ad introdurre principi unitari e generali per elementi quali il reddito imponibile e gli oneri deducibili. Così G. Zizzo, Riflessioni in tema di tecnica legislativa e norma tributaria, in Rass. trib., 1988, 190. (90) Sono state valutate, in passato, modalità di determinazione presuntiva della fruttuosità degli investimenti, sulla base di modelli esteri, come quello olandese. In tema v. F. Gallo, Mercati finanziari e fiscalità, in Rass. trib., 2013, 35. (91) La soluzione prospettata potrebbe essere applicata anche in relazione ai dividendi, determinando la quota imponibile corrispondente, in modo da risolvere la doppia imposizione economica. Peraltro, il concorso al reddito complessivo consentirebbe il recupero delle imposte assolte sui dividendi di fonte estera. (92) A. Giovannini, Il limite quantitativo all’imposizione nel principio costituzionale di progressività, in Rass. trib., 2015, 1357.
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me”. Sotto questo profilo, ove a seguito dell’auspicato intervento normativo si giungesse a considerare gravosa la tassazione, ciò richiederebbe la verifica dell’adeguatezza delle aliquote e della stessa suddivisione degli scaglioni di reddito, eventualmente suggerendo una maggiore segmentazione dei medesimi e una rimodulazione delle aliquote per le fasce medio basse (mantenendo, per quelle più elevate, le percentuali odierne o rivedendo anche queste ultime) (93). In difetto di un intervento di tale natura, la previsione della tassazione sostitutiva rischia di esporre maggiormente (perché il rischio permane in ogni caso) la ricchezza ad una futura imposizione patrimoniale (straordinaria), più difficilmente spiegabile, viceversa, a fronte dell’imposizione sul reddito con aliquota progressiva. Tale imposizione patrimoniale, peraltro, risulterebbe sia più gravosa – perché riscossa in termini istantanei ed applicata su una ricchezza “trasformata” (non su flussi attuali di rendita) – sia più inefficiente, perché non in grado di colpire frazioni di ricchezza frattanto disperse. Il nuovo quadro potrà peraltro continuare a salvaguardare le aree del risparmio “funzionalizzato”, con esso intendendosi, principalmente, quello avente finalità previdenziale, già oggi soggetto a regole peculiari in relazione a tutte le sue fasi (accumulo del risparmio, produzione di proventi dal suo investimento, erogazione del trattamento) (94). E a questo si potrà affiancare anche il risparmio a lungo termine, valutando l’introduzione di norme specifiche per agevolare, a determinate condizioni, quello sottoscritto nell’interesse dei minori (95) e degli incapaci.
Andrea Quattrocchi
(93) Si ha la sensazione, infatti, che il favore verso la tassazione alla fonte o sostitutiva sia in buona parte determinato dalla circostanza che le aliquote Irpef (comprese le addizionali) possano apparire elevate. E questa considerazione è oltremodo alla base, nei fatti, della volontà di implementare soluzioni difficilmente conciliabili con la tenuta dei conti pubblici (come la flat tax, pur con gli opportuni correttivi volti ad escludere un contrasto con il principio di progressività). (94) D. Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252. (95) Potrebbe essere il caso di piani d’investimento dedicati, smobilizzabili per il finanziamento di spese di formazione, di studio o per l’avvio di iniziative imprenditoriali del minore divenuto maggiorenne.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
Corte cass., sez. unite civili, 24 marzo 2015 – 3 giugno 2015, n. 11373 (reg. ord. Corte cost. n. 335/2015); Pres. Roselli - Rel. Cappabianca Imposte e tasse – Agevolazioni tributarie – “Interpretazione stretta” – Art. 15 D.P.R. 29.9.1973, n. 601 – Inestensibilità ai finanziamenti effettuati dagli intermediari finanziari – Violazione degli artt. 3 e 53 cost. È principio assolutamente consolidato che le norme fiscali di agevolazione sono di “stretta interpretazione”, cioè in nessun modo applicabili a casi e situazioni non riconducibili al significato letterale del dato testuale (ciò anche per “ineludibile simmetria” con le norme impositive). L’art. 15 D.P.R. n. 601/1973 limita il regime agevolativo ivi previsto alle sole banche. Pertanto ne sono esclusi gli intermediari finanziari. Tale diverso trattamento si rivela di non sicura conformità agli artt. 3 e 41 cost. È quindi rilevante e non manifestamente infondata la relativa questione di legittimità costituzionale. (1)
(Omissis) Svolgimento Del Processo. In relazione alle formalità di cancellazione di ipoteca e privilegio speciale, oggetto di atto notarile 30.9.2003, concernenti mutuo agevolato in precedenza erogato e gestito da società poi incorporata, Sviluppo Italia s.p.a. – società d’intermediazione finanziaria – usufruì dell’esenzione dall’imposta ipotecaria, prevista dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, per le operazioni di finanziamento a medio e lungo tempo (e per tutti gli atti e le formalità connesse) effettuate da aziende ed istituti di credito. Riscontrata l’assenza del requisito soggettivo prescritto dalla norma agevolatrice (la qualità di “azienda” o “istituto di credito” ovvero di relativa “sezione o gestione” del soggetto erogante il finanziamento), l’Agenzia del Territorio provvide al recupero dell’imposta, con due distinti avvisi di liquidazione. Avverso tali avvisi, la società contribuente propose ricorso, assumendo di avere diritto all’agevolazione, quale “intermediario finanziario” iscritto nell’elenco contemplato dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 107, comma 1, e, quindi, abilitato all’attività di concessione di finanziamenti. L’adita Commissione provinciale accolse il ricorso, con sentenza che, in esito all’appello dell’Agenzia, fu confermata dalla Commissione regionale. Ad avviso dei giudici di merito, le innovazioni normative, che hanno determinato la sopravvenuta inclusione degli intermediari finanziari (rispondenti a determinati requisiti) nel novero dei soggetti abilitati ad operare nel settore dell’erogazione del credito, comportano necessariamente
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che a tali soggetti si applichi integralmente la normativa correlativamente predisposta, ivi compreso il beneficio fiscale di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15. Avverso la pronuncia di appello, l’Agenzia del Territorio ha promosso ricorso per cassazione, in unico motivo. In particolare – denunciata “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, e dell’art. 12 preleggi, e del loro combinato disposto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)” – la ricorrente ha censurato la decisione impugnata per non aver considerato che, in base al dato testuale del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, il beneficio fiscale ivi previsto è inequivocamente applicabile alle sole operazioni di finanziamento riferibili, dal punto di vista soggettivo, ad “aziende e istituti di credito” (e “loro sezioni o gestioni”) e non anche a quelle ricollegabili all’attività di intermediari finanziari, seppur iscritti nell’elenco di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 107, comma 1. La società intimata ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale condizionato, teso a far valere l’inammissibilità, in varia prospettiva, dell’appello promosso dall’Agenzia del Territorio; con memoria ex art. 378 c.p.c., ha, poi, formulato eccezione di giudicato. In esito ad ordinanza interlocutoria 10066/14 della Sezione tributaria – che, disattesa l’eccezione di giudicato, ha riscontrato, sul punto centrale della controversia, la ricorrenza, in seno alla Sezione, di orientamenti dissonanti – la causa è stata rimessa a queste Sezioni unite per la composizione del contrasto e, quindi, fissata per l’odierna udienza di discussione, in prospettiva della quale la società controricorrente ha depositato ulteriore memoria conclusionale. Motivi Della Decisione. 1) – La questione rimessa a queste Sezioni unite. Il contrasto rilevato dalla citata ordinanza interlocutoria e rimesso al vaglio di queste Sezioni unite investe la questione del se il beneficio fiscale, previsto dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, in combinato con il successivo art. 17, per le operazioni di finanziamento a medio e lungo termine effettuate da “aziende” ed “istituti di credito” e “loro sezioni o gestioni”, sia applicabile anche alle medesime operazioni poste, invece, in essere da “intermediari finanziari” abilitati alla relativa erogazione in quanto iscritti nell’apposito elenco speciale (poi Albo). 2)- Il quadro normativo di riferimento. 1. – Il D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, (in particolare nella formulazione applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame) sancisce che sono esenti dall’imposta di registro, dall’imposta di bollo, dalle imposte ipotecarie e catastali nonchè dalle tasse sulle concessioni governative le operazioni (e tutti indistintamente i provvedimenti, atti, contratti e formalità ad esse inerenti) relative ai finanziamenti a medio e lungo termine (di durata contrattuale, cioè, superiore a diciotto mesi: v. il comma 3), “effettuate da aziende e istituti di credito e da loro sezioni o gestioni”. Il successivo art. 17 dispone, complementarmente, che, nelle ipotesi di cui all’art. 15, “in luogo delle imposte di registro, di bollo, ipotecarie e catastali e delle tasse sulle concessioni governative”, si corrisponde “una imposta sostitutiva”. 2 – Il tenore delle riportate disposizioni rivela che, per le ipotesi considerate dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, viene a delinearsi, in relazione alle imposte richiamate, un regime (agevolato) d’imposizione alternativo rispetto a quello ordinario (con decorrenza dal 23.12.2013, a
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carattere opzionale, in conseguenza della modificazioni apportate alle disposizioni sopra menzionate dal D.L. n. 145 del 2013, art. 12, convertito in L. n. 9 del 2014); regime operante sul presupposto della ricorrenza di due requisiti: a) il primo, di natura oggettiva, consistente nel compimento di operazioni di concessione di finanziamento a medio e lungo termine; b) il secondo, di natura soggettiva, consistente nella riferibilità di dette operazioni (secondo il testuale dato normativo) ad “aziende e istituti di credito” e “loro sezioni o gestioni”. 3 – Laddove delinea l’ambito di applicazione soggettivo della disposta agevolazione in riferimento all’attività di “aziende” ed “istituti di credito”, il D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, richiama ben specifiche nozioni, già contemplate (sulla scia di ancor più risalente impostazione: v. R.D.L. n. 1151 del 1926) dalla legge bancaria vigente all’atto della sua emanazione e definite quali figure in dicotomica contrapposizione, nell’ambito degli enti esercitanti attività bancaria, in funzione della destinazione, rispettivamente, alla raccolta, e all’impiego, di risparmio “a vista” o a “breve termine” ovvero alla raccolta di risparmio “a medio o lungo termine” ed al correlativo impiego, con particolare riguardo al credito “speciale” ed a quello “agevolato”, inerente agli interventi dello Stato nell’economia. Essendo progressivamente venuta meno ogni distinzione funzionale tra “aziende” ed “istituti di credito” (come definitivamente sancito dal Testo unico sulle leggi in materia bancaria – t.u.l.b. – di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993), ne discende che elettive destinatarie del regime fiscale agevolato disposto dal D.P.R. n. 601 del 1973, artt. 15 e 17, vanno, in definitiva, ritenute le “banche” (anche “comunitarie” per i finanziamenti direttamente effettuati in Territorio italiano: cfr. dir. 89/646/Cee); cui, l’art. 10 del citato testo unico riserva l’esercizio dell’“attività bancaria” (v. il comma 2), indistintamente definita come “la raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito”, con carattere d’impresa (v. il comma 1). 4 – In aderenza all’evoluzione del settore creditizio e per effetto dell’acquisita consapevolezza dell’inadeguatezza di un regime di finanziamento del sistema produttivo basato sul monopolio bancario – il t.u.l.b. di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, (cfr. l’art. 106, comma 1) ha, peraltro, incluso nel novero dei soggetti abilitati all’attività di “concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma” (previa relativa iscrizione in apposito “elenco speciale”; “Albo”, a seguito delle innovazioni di cui al D.Lgs. n. 141 del 2010) anche gli “intermediari finanziari”: soggetti, diversi dalle “banche”, e, pur tuttavia, qualificati da adeguati requisiti professionali e patrimoniali nonché dall’assoggettamento ad incisivi controlli. Per effetto delle modifiche apportate dalla L. n. 342 del 1999, (in particolare: dal relativo art. 21, comma 1, e 9) al t.u.l.b. di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, (in particolare ai relativi artt. 47 e 107), gli intermediari suddetti sono stati, altresì, ammessi all’esercizio del credito “agevolato” (in precedenza indistintamente aperto a “tutte le banche”). Come emerge anche dal contenuto del D.Lgs. n. 141 del 2010, nella parte che ha modificato la disciplina del 5^ titolo del t.u.l.b., la tendenza evolutiva del sistema è, peraltro, nel senso dell’ulteriore liberalizzazione del mercato del credito e della sua apertura ad altri organismi. 5 – Seppur consistentemente assimilate, in esito dell’indicata evoluzione normativa, le sfere operative di “banche” ed “intermediari finanziari” continuano, tuttavia, a diversificarsi. In
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forza dell’endiadi, di cui alla previsione del sopra riportato D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 10, comma 1, e della riserva, di cui al comma 2 della medesima disposizione – soltanto alle “banche” (o, secondo la terminologia comunitaria, agli “enti creditizi”) è, infatti, riservato l’esercizio di attività di raccolta di risparmio tra il pubblico, congiunto all’esercizio del credito. Mentre agli “intermediari finanziari” è consentito esclusivamente l’esercizio del credito disgiunto dall’attività di raccolta di risparmio tra il pubblico. Ciò almeno tendenzialmente, atteso che, per la presenza di varie eccezioni alla regola (cfr. l’art. 11, comma 4 lett. c, d, e, f t.u.l.b.), sempre preclusa agli “intermediari finanziari” (anche in ossequio a normativa comunitaria: v. la dir. 89/646/Ce) è solo la raccolta di fondi “a vista” o “rimborsabili”; non anche quella di fondi destinati a fini speculativi, soggetti al rischio d’investimento (c.d. “risparmio di rischio”). 3) – Gli opposti indirizzi emersi nella giurisprudenza della Sezione tributaria. 1. – Come rilevato nell’ordinanza interlocutoria, nell’interpretare il quadro normativo di riferimento (sopra descritto nel divenire dei suoi profili qui rilevanti), la Sezione tributaria ha sviluppato due orientamenti inconciliabili. 2.- Cass. 5697/14 e ord. 6234/12 (senza tener conto di precedente contrario e, dunque, nella presumibile inconsapevolezza del contrasto) nonchè Cass. 5570/11 negano che l’agevolazione di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, possa essere riconosciuta anche agli intermediari finanziari. A tale conclusione le richiamate decisioni pervengono essenzialmente: a) in base al rilievo che la disposizione in rassegna, non subordinando il godimento dell’agevolazione al solo requisito oggettivo del compimento di operazioni di finanziamento a medio o lungo termine, accorda il trattamento privilegiato esclusivamente a quelle tra tali operazioni che siano soggettivamente riferibili ad “aziende e istituti di credito o loro sezioni o gestioni …” e, dunque, alle “banche”; b) in forza della considerazione che costituisce principio generale del diritto tributario che le norme, che (come quella di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15) riconoscono agevolazioni fiscali e benefici in deroga al regime ordinario, sono, in quanto eccezioni all’ordinario regime impositivo, norme di stretta interpretazione ed insuscettibili di applicazione analogica. In tale prospettiva, l’orientamento si salda a quello già in precedenza espresso da Cass. 3454/86 e 6183/84, le quali – con riguardo a fattispecie concernenti operazioni di finanziamento a medio o lungo termine eseguite da Cassa pensione per i dipendenti degli enti locali e quelle poste in essere, quali forme di investimento dei propri mezzi patrimoniali, da enti comunque istituiti per finalità (pur di rilevanza pubblica) diverse dalla concessione di finanziamenti – hanno ritenuto ineludibile al fine del godimento dell’agevolazione di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, così in concreto negando il beneficio, la qualificazione soggettiva d’impresa bancaria. 3.- In consapevole contrasto con l’indirizzo precedentemente esposto, Cass. 5845/11 (che, come rilevato dall’ordinanza interlocutoria, è intervenuta su controversia del tutto analoga tra le medesime parti qui coinvolte) ritiene, invece, che, l’agevolazione fiscale in oggetto deve esser riconosciuta anche agli intermediari finanziari. Pur dando atto delle indicazioni univocamente contrarie emergenti dalla lettera della legge (in particolare da quella del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15), la decisione perviene alla
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conclusione in base ad interpretazione dichiaratamente evolutiva e costituzionalmente orientata. La decisione, in particolare, ripercorre l’evoluzione storica dell’attività creditizia: dapprima, suddivisa, in funzione della durata del finanziamento, tra “aziende” ed “istituti” di credito, poi, indistintamente riservata a tutte le “banche” (cfr. l’art. 10, comma 2, t.u.l.b.), anche con riguardo al settore del credito agevolato (cfr. l’art. 47 t.u.l.b.), e quindi, in ottica di ulteriore liberalizzazione del settore nel perseguimento dei vantaggi connessi al regime di concorrenza, aperta agli intermediari finanziari (cfr. art. 106 e s. t.u.l.b.). Considera, poi, che, in conseguenza delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 21, alla disciplina del titolo 5^ del t.u.l.b. di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, agli intermediari finanziari è stato dischiuso – attraverso il richiamo all’art. 47, del citato D.P.R., operato dall’art. 107, comma 7, t.u.l.b., (poi, dall’art. 110, nella formulazione introdotta dal D.Lgs. n. 141 del 2010) – anche il settore del finanziamento agevolato (in precedenza riservato ad alcune banche e, quindi, indifferenziatamente aperto ad esse) e ciò in piena equiparazione con le banche medesime, anche sul piano della correlativa specifica disciplina fiscale. Ne inferisce, quindi, che – pur restando gli intermediari finanziari soggetti ontologicamente diversi dalle banche ed a queste non completamente omologabili nè dal punto di vista funzionale (essendo loro preclusa l’attività di raccolta del risparmio pubblico, costituente uno dei due termini dell’endiadi in cui si compendia l’attività bancaria) nè da quello della regolamentazione, (differente essendone fonte e contenuti, pur all’interno del medesimo testo unico) – la piena equiparazione degli intermediari finanziari alle banche, attuata, limitatamente all’erogazione di finanziamenti agevolati, anche con riguardo ai relativi profili fiscali, rende inevitabile riconoscere l’agevolazione di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, anche all’attività di finanziamento posta in essere dagli intermediari (che originariamente, non avendo alcun ruolo nel settore del finanziamento a medio e lungo termine, non avevano ragione di essere contemplati dalla norma). Altrimenti, sostiene, si verrebbero a determinare l’incoerenza nel sistema della disciplina normativa del settore e seri sospetti d’illegittimità costituzionale della norma con riguardo ai parametri di cui agli artt. 3 e 41 Cost.. A tale ultimo riguardo, in particolare, la decisione rivela che, non diversamente da quanto avviene per le altre norme, anche per le norme di agevolazione fiscale, ove il relativo tenore letterale porti a soluzioni incoerenti con l’evoluzione storica e, per effetto di questa, di dubbia conformità a parametri costituzionali, occorre procedere ad interpretazione adeguatrice e “costituzionalmente orientata”. 4) Ragione del contrasto. L’analisi degli indirizzi compresenti nella giurisprudenza della Sezione tributaria rende evidente che il contrasto trova essenzialmente causa nella difficoltà di conciliare due esigenze divaricanti e, pur tuttavia, entrambe meritevoli di considerazione: rispettare il principio generale del diritto tributario, secondo cui le norme che riconoscono agevolazioni e benefici fiscali in deroga al regime ordinario, essendo eccezionali e come tali di stretta interpretazione, sono insuscettibili d’interpretazione che trascenda il significato letterale del dato normativo; evitare un’ingiustificata disparità di trattamento ed una distorsione della concorrenza tra sog-
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getti operanti, ancorché limitatamente a parte delle rispettive attività, nel medesimo settore di mercato. 5) Analisi critica della tesi estensiva. 1. – Tanto premesso in sede di prima approssimazione al tema, occorre, in primo luogo, puntualizzare che – come, del resto, reso palese dalla stessa Cass. 5845/11, nel dichiarare necessario ancorare la conclusione propugnata ad un’interpretazione logico-evolutiva e costituzionalmente orientata – il richiamo al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 47, operato ai fini della disciplina degli intermediari finanziari dal D.P.R. n. 385 del 1993, art. 107, comma 4, come modificato dal D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 21, (e, poi, dall’art. 110, come modificato dal D.Lgs. n. 141 del 2010), è del tutto inidoneo a determinare, per proprietà transitiva, la riferibilità agli intermediari finanziari della previsione di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15. Infatti – mentre il D.P.R. n. 385 del 1993, art. 106, comma 1, abilita gli intermediari finanziari alla “concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma” – l’art. 47, che non contiene alcun richiamo al beneficio di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, riguarda i soli “finanziamenti agevolati” (finalizzati alla realizzazione di scopi di particolare rilevanza) ed il correlativo regime; con la conseguenza che il rinvio a tale norma disposto dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 107 (e poi dall’art. 110), nell’aprire agli intermediari finanziari il campo dei finanziamenti “agevolati”, non estende ad essi, in base alla concatenazione delle norme, che l’applicazione della disciplina (fiscale, tariffaria e procedimentale) ad essi specificamente relativa. Né contrari elementi di valutazione possono trarsi dalla previsione del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 19, che, non di meno, espressamente subordina l’(ulteriore) agevolazione prevista ai medesimi presupposti oggettivi e soggettivi richiesti dal (richiamato) precedente art. 15 (cfr. Cass. 5697/14, 2605/12). 2.1 – Ciò precisato, deve rilevarsi che nemmeno l’operazione ermeneutica intentata da Cass. 5845/11, pur non priva di suggestione, può ritenersi idonea a giustificare l’estensione della previsione di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, ai finanziamenti effettuati dagli intermediari finanziari. 2.2. – È, invero, principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte e condiviso dalla prevalente dottrina, che le norme fiscali di agevolazione sono norme di “stretta interpretazione”, nel senso che non sono in alcun modo applicabili a casi e situazioni non riconducibili al relativo significato letterale; sicchè, in particolare, non vi è possibilità di ricomprendere nell’ambito applicativo di una norma di agevolazione fiscale figura soggettiva diversa da quella specificamente contemplata dal testuale dato normativo (cfr. Cass. 14157/03, 15316/02). Il principio è generalmente fondato sull’esigenza dogmatica, codificata nell’art. 14 preleggi, connessa al fatto che le disposizioni agevolative costituiscono altrettante deroghe al sistema definito dalle norme tributarie impositrici ed al criterio di correlazione da esso attuato – nella prospettiva di cui all’art. 53 Cost. (che “è il presupposto ed il limite del potere impositivo dello Stato e, al tempo stesso, del dovere del contribuente di concorrere alle spese pubbliche”: v. C. cost. 10/2015) – tra imposizione fiscale e capacità contributiva. (Senza pretesa di completezza cfr., in tal senso: con riferimento alla specifica agevolazione in rassegna, Cass. 5697/14, 6234/12; 2605/12; 5570/11 ed, altresì, Cass. 12928/13 e 5270/09, con riguardo al profilo della non estensibilità del
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beneficio di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, alle operazioni relative a prestiti non superiori ai 18 mesi; nonchè, con riferimento ad altra tipologia di agevolazioni fiscali, Cass. 5484/08; 26106/05; 14658/05; 14170/03, 15316/02, 13502/91). Come puntualizzato da autorevole dottrina, il principio trova, ancor prima, fondamento nella circostanza che – a salvaguardia dell’equilibrio tra gli interessi che preminentemente si contrappongono nel rapporto tributario (la garanzia dei contribuenti e le esigenze di bilancio dell’ente impositore, di cui possono cogliersi referenti, oltre che nella previsione del già citato art. 53 Cost., rispettivamente, nella riserva di legge sancita dall’art. 23 Cost., e nella previsione dell’art. 81 Cost., in quest’ultima ancor più incisivamente dopo la novella di cui alla L. cost. 1 del 2012: v. C. cost. 10/15 e 260/90) – l’ambito dell’imposizione è tracciato dal legislatore (in positivo, così come, conseguentemente, in negativo), con compiuta indicazione di oggetti e soggetti tassabili. Cosicchè, non diversamente dalle norme impositive, in relazione alle quali è pacificamente escluso che la tassazione possa investire oggetti o soggetti non espressamente indicati dal dato normativo, anche le norme agevolative, per ineludibile simmetria, declinano un catalogo completo, insuscettibile di integrazione che trascenda i confini semantici del dato suddetto. 2.3 – Costituisce, dunque, caposaldo dell’ordinamento tributario il principio secondo cui le norme, che, come quella di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, riconoscono agevolazioni o benefici fiscali in deroga all’ordinario regime d’imposizione, sono norme ad interpretazione rigida ed anelastica, in quanto rigorosamente legata al dato letterale. Ed è la centralità stessa del criterio nel sistema dell’imposizione, al fine del perseguimento degli equilibri cui l’imposizione deve mirare in ottemperanza ai principi di cui agli artt. 23, 53 e 81 Cost., (cfr. C.cost. 10/2015), a rendere ineludibile la sua osservanza. Ne discende che, in relazione a dette norme, non può ritenersi ammessa operazione ermeneutica (quale quella attuata da Cass. 5845/11) che, quantunque in ottica di dichiarata interpretazione storico-adeguatrice e costituzionalmente orientata, si spinga oltre il limite del significato scaturente dalla lettera della legge, nella specie pretendendo di ridefinire il requisito soggettivo dell’agevolazione, riportando alla nozione di “banca”, testualmente riferibile al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, quella di “intermediario finanziario”, ontologicamente affatto eterogenea e nemmeno coincidente sul piano dell’operatività. Nei confronti di norma eccezionale e, comunque, di “stretta interpretazione”, anche l’interpretazione logico-evolutiva e quella costituzionalmente orientata sono, infatti, precluse, ove, operando in ottica non difforme da quella propria dell’applicazione analogica, inducano ad estendere la sfera di operatività della norma interpretata, in vista di pretesa ratio di norma sovraordinata, ad ipotesi non sussumibile nel relativo specifico significato testuale. Per di più, data la perdurante evoluzione del mercato del credito nel senso della sua apertura a nuovi operatori (v. sopra p. II n. 4), la tesi in rassegna, finendo con l’ancorare il beneficio al solo presupposto oggettivo del finanziamento, parrebbe dischiudere l’agevolazione a non preventivamente definibile estensione. 6) Analisi critica della tesi restrittiva. 1. – Il dato normativo ordinario e le regole di relativa interpretazione obbligano dunque, in base a quanto in precedenza esposto, alla
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conclusione dell’inapplicabilità dell’agevolazione di cui all’art. 15 d.p.r. 601/1973 agli intermediari finanziari. La tesi restrittiva trova, d’altro canto, elemento di ulteriore, ancorchè indiretto, conforto nel rilievo che, quando il legislatore ha inteso estendere l’applicazione dell’agevolazione in oggetto a situazioni non inquadrabili nel relativo dato letterale, lo ha fatto in maniera esplicita. Invero: a) Il D.L. n. 220 del 2004, art. 2, comma 1 bis, ha espressamente esteso la norma di esenzione alle operazioni di mutuo relative all’acquisto di abitazioni poste in essere da enti, istituti, fondi e casse previdenziali nei confronti dei propri dipendenti ed iscritti; b) La L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 32, (L. Fall. 2008), ha modificato il D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, includendo esplicitamente, tra i finanziamenti ammessi al regime agevolato, le operazioni poste in essere dalla Cassa Depositi e prestiti s.p.a. (ed è stato rilevato che quest’ultima circostanza assume peculiare rilievo nel senso prospettato, alla luce del fatto che alla Cassa depositi e prestiti s.p.a. si applicano le stesse disposizioni del t.u.l.b. previste per gli intermediari iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107 del medesimo t.u.l.b.. 2.1 – Obbligata in funzione del dato normativo ordinario e delle regole ermeneutiche, l’interpretazione restrittiva del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, resta, tuttavia, da valutare sul piano della tenuta costituzionale. Pur non condivisibile nella conclusione, Cass. 5845/11 induce, infatti, plausibilmente a riflettere sull’aderenza, ai precetti di cui agli artt. 3 e 41 Cost., del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, letto nel senso dell’inapplicabilità delle agevolazioni ivi previste agli intermediari finanziari. 2.2 – La questione è rilevante ai fini della decisione della presente controversia. Questa non è, infatti, suscettibile di risoluzione in via preliminare nè alla stregua dell’eccezione di giudicato conclusivamente proposta dalla società controricorrente, per i motivi già puntualmente esposti a p. 4 dell’ordinanza interlocutoria di rimessione alle Sezioni unite (l’incidenza del preteso giudicato su controversia diversa per petitum e causa petendi e solo coincidente per questione in diritto trattata) nè in funzione delle questioni dalla suddetta società introdotte quali motivi di ricorso incidentale, giacchè questo, oltre ad essere dichiaratamente concepito come condizionato all’accoglimento del ricorso dell’Agenzia, tale è oggettivamente, quale ricorso proposto dalla parte integralmente vittoriosa (cfr. Cass., ss.uu. 7381/13, 23318/09, 5456/09, Cass. 4619/15). D’altro canto – mentre si è, in precedenza (v. p. V, specie sub n. 2.2 e 2.3), riscontrata l’impossibilità di assorbire la prospettata aporia in via di pura interpretazione – appare intuitivo che la decisione della questione in rassegna assume rilevanza risolutiva ai fini della controversia concreta, dal momento che, sul presupposto dell’interpretazione restrittiva della norma, l’agevolazione di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, potrebbe ritenersi applicabile alla fattispecie in esame solo in esito a declaratoria d’incostituzionalità della norma nei termini indicati. 2.3 – La questione si rivela, peraltro, non manifestamente infondata. In proposito, occorre, in primo luogo, rilevare che, secondo concezione ormai ampiamente affermata in dottrina e nella giurisprudenza costituzionale, la libertà di concorrenza – consistente nell’eguale possibilità riconosciuta a tutti i soggetti di attivarsi materialmente e giuridicamente nello stesso settore, confrontandosi vicendevolmente e sottoponendo al giudizio del merca-
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to la valutazione ed il conseguente successo delle relative iniziative costituisce diritto coessenziale alla libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost., e ad essa immanente. Ciò posto, deve considerarsi che gli intermediari finanziari – benchè soggetti morfologicamente diversi dalla banche ed a queste non pienamente equiparabili sul piano funzionale (risultando, come detto, abilitati, oltre all’attività creditizia, alla sola attività di raccolta del “risparmio di rischio”; essendo loro, invece, preclusa la raccolta del risparmio pubblico “a vista” o “rimborsabile” e, cioè, con obbligo di restituzione) – operano, per quanto riguarda l’ambito di attività comune con le banche, sostanzialmente nei medesimi termini e, soprattutto, incidendo sullo stesso “mercato”. Ne consegue che il diverso trattamento riconosciuto a banche ed intermediari finanziari in rapporto alla previsione di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, – essendo incerto che possa trovare giustificazione nelle suindicate differenze e nei riflessi che la rilevata divaricazione sul piano della provvista possa eventualmente produrre sulle complementari attività creditizie – si rivela di non sicura conformità ai precetti di cui agli artt. 3 e 41 Cost., ed al relativo combinato. Ciò, con peculiare riferimento all’effetto distorsivo indotto, sul regime di concorrenza nel mercato di settore, dal vantaggio derivante alle banche dal minor costo del prodotto offerto, riferibile, non a specifici meriti imprenditoriali, ma a scelta fiscale del legislatore (per fattispecie non priva di analogia, cfr., con riferimento al solo parametro di cui all’art. 3 Cost., C. cost. 187/1995). La questione merita, dunque, di essere rimessa al vaglio del Giudice delle leggi, cui precipuamente spetta il compito di garantire che diversificazioni di regime tributario, in particolare per tipologia di contribuenti, siano supportate da giustificazioni adeguate in rapporto al profilo della coerenza interna del criterio impositivo e non si risolvano in arbitraria discriminazione (cfr. C. cost. 10/15, 201/14, 116/13, 223/12). 7) Conclusioni. Alla stregua delle considerazioni che precedono ed in conclusione, deve dichiararsi la rilevanza e la non manifesta infondatezza, per contrasto con l’art. 3 Cost., e art. 41 Cost., comma 1, della questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione fiscale, prevista per i finanziamenti a medio o lungo termine effettuati dalle banche, anche ai medesimi finanziamenti posti in essere da intermediari finanziari. Va, conseguentemente, disposta l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la sospensione del giudizio. P.Q.M. La Corte, a sezioni unite, visti l’art. 134 Cost., e L. n. 87 del 1953, art. 23, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, per contrasto, nei sensi di cui in motivazione, con gli artt. 3 e 41 Cost.. Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio. Dispone, inoltre, che la presente ordinanza sia notificata, a cura della Cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alle parti e comunicata al Presidente della Camera dei Deputati ed al Presidente del Senato della Repubblica.
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Corte cost., 24 ottobre 2017 - 20 novembre 2017, n. 242/2017; Pres. Grossi; Red. Carosi. Imposte e tasse – Art. 15 D.P.R. n. 601/1973 – Applicabilità alle sole banche e non agli intermediari finanziari – È “diritto vivente” – Estensione del beneficio quando lo esiga la ratio dello stesso – Identità di ratio – Illegittimità costituzionale nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione agli intermediari finanziari Costituisce “diritto vivente” l’applicabilità alle sole banche, non agli intermediari finanziari, dell’art. 15, D.P.R n.601/1973. Le norme di agevolazione fiscale, aventi carattere eccezionale e derogatorio, costituiscono esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile solo per eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità, con la conseguenza che la Corte non può estenderne l’ambito di applicazione “se non quando lo esiga la ratio del beneficio”. Le situazioni messe a confronto appaioni effettivamente rispondere ad una medesima ratio, consistente nel favor accordato agli investimenti produttivi corrispondenti ai finanziamenti a medi e lungo termine, che costituiscono l’elemento oggettivo comune alle situazioni stesse. La discriminazione a danno degli intermediari finanziari pone obiettivamente in essere un’irragionevole ed immotivata deroga al principio di eguaglianza ed una contestuale violazione dell’art. 41 cost., sotto il profilo della libertà di concorrenza. Deve dunque essere dichiarata l’illegittimità costituzionale del succitato art. 15 D.P.R. n. 601/1973 – nella versione anteriore alle modifiche apportate dalla L. 24.12.2007, n. 244 – nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione fiscale ivi prevista alle analoghe operazioni effettuate dagli intermediari finanziari. (2)
(Omissis) Ritenuto in fatto. 1. Con ordinanza del 3 giugno 2015 la Corte di cassazione, sezioni unite, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 15 (recte: primo comma) del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 (Disciplina delle agevolazioni tributarie) – nella versione applicabile ratione temporis, in vigore anteriormente alle modifiche apportate dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)” – in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, nella parte in cui esclude l’applicazione dell’agevolazione fiscale ivi prevista alle operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine effettuate dagli intermediari finanziari. Secondo la disposizione censurata “Le operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine e tutti i provvedimenti, atti, contratti e formalità inerenti alle operazioni medesime, alla loro esecuzione, modificazione ed estinzione, alle garanzie di qualunque tipo da chiunque e in qualsiasi momento prestate e alle loro eventuali surroghe, sostituzioni, postergazioni, frazionamenti e cancellazioni anche parziali, ivi comprese le cessioni di credito stipulate in relazione a tali finanziamenti, effettuate da aziende e istituti di credito e da loro sezioni o gestioni che esercitano, in conformità a disposizioni legislative, sta-
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tutarie o amministrative, il credito a medio e lungo termine, sono esenti dall’imposta di registro, dall’imposta di bollo, dalle imposte ipotecarie e catastali e dalle tasse sulle concessioni governative”. 1.1.- Il rimettente riferisce che, ai sensi del citato art. 15 del D.P.R. n. 601 del 1973, la società d’intermediazione finanziaria S.I. spa – ora Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa spa – aveva usufruito dell’esenzione dall’imposta ipotecaria in relazione ad un atto del 2003 concernente un mutuo precedentemente erogato. Riscontrata la mancanza del requisito soggettivo previsto per godere del beneficio, l’Agenzia del territorio aveva provveduto a recuperare l’imposta mediante due avvisi di liquidazione, avverso i quali la società contribuente aveva proposto ricorso, sostenendo di aver diritto all’esenzione in quanto “intermediario finanziario” iscritto nell’elenco all’epoca contemplato dall’art. 107, comma 1, del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, recante “Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia” (TUB), e quindi abilitato all’attività di concessione di finanziamenti. L’adita Commissione tributaria provinciale aveva accolto il ricorso con sentenza confermata in appello dalla Commissione tributaria regionale. Avverso la decisione di quest’ultima l’Agenzia del territorio aveva promosso ricorso per cassazione. Con ordinanza interlocutoria la sezione tributaria della Corte di cassazione aveva rimesso al vaglio delle sezioni unite la questione relativa all’applicabilità del beneficio fiscale di cui all’art. 15 del D.P.R. n. 601 del 1973 – con conseguente assoggettamento all’imposta sostitutiva prevista dal successivo art. 17 – alle operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine effettuate dagli intermediari finanziari abilitati alla relativa erogazione, rinvenendo nella giurisprudenza di legittimità due orientamenti tra loro inconciliabili. Il primo di essi esclude che il trattamento privilegiato possa essere riconosciuto agli intermediari finanziari, da un lato perché la norma lo riserverebbe esclusivamente alle “aziende e istituti di credito e… loro sezioni o gestioni” e ora – a seguito dell’evoluzione della disciplina di settore, di cui il rimettente dà ampiamente conto – alle “banche” e, dall’altro, in virtù del principio generale per cui le disposizioni che, come nella specie, riconoscano agevolazioni e benefici fiscali in deroga al regime ordinario, in quanto eccezionali, sarebbero di stretta interpretazione e insuscettibili di applicazione analogica. Il secondo orientamento, espresso in un’unica occasione, riconosce l’applicabilità del beneficio attraverso un’interpretazione logico-sistematica e costituzionalmente orientata dell’art. 15 del D.P.R. n. 601 del 1973, ripercorrendo l’evoluzione storica dell’attività creditizia – aperta anche agli intermediari finanziari, cui l’art. 47 del TUB, richiamato dal successivo art. 107, comma 7 (ora dall’art. 110, comma 1), avrebbe dischiuso il settore del finanziamento agevolato in piena equiparazione alle banche, anche sul piano della disciplina fiscale – ed ovviando al rischio di incoerenze, di dubbia legittimità costituzionale, nella disciplina di settore. Il rimettente esclude di poter condividere la tesi ermeneutica da ultimo citata. Anzitutto, nega che l’art. 47 del TUB possa essere interpretato nel senso propugnato dall’orientamento minoritario, atteso che esso riguarderebbe i soli “finanziamenti agevolati” – vale a
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dire finalizzati alla realizzazione di scopi di particolare rilevanza – e il relativo regime, con la conseguenza che il rinvio a tale norma disposto dall’art. 107 (ora dall’art. 110) del TUB, nell’aprire agli intermediari finanziari il settore dei finanziamenti agevolati, estenderebbe loro solo l’applicazione della disciplina fiscale, tariffaria e procedimentale a essi relativa. In secondo luogo, le sezioni unite della Corte di cassazione ribadiscono il principio per il quale le disposizioni fiscali di agevolazione sono di “stretta interpretazione”, ossia inapplicabili a casi o situazioni non riconducibili al significato letterale del testo normativo. Ciò in virtù sia dell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile, trattandosi di deroghe al regime fiscale e al criterio, cui esso si informa, di correlazione tra obbligo tributario e capacità contributiva (art. 53 Cost.), sia della circostanza che l’ambito dell’imposizione è tracciato dal legislatore – in positivo e, simmetricamente, in negativo – a salvaguardia dell’equilibrio tra gli interessi che si contrappongono nel rapporto tributario, ossia la garanzia dei contribuenti (art. 23 Cost.) e le esigenze di bilancio dell’ente impositore (art. 81 Cost.). Di qui l’impossibilità di un’integrazione interpretativa – ma in ottica non difforme da quella propria dell’analogia – che trascenda i confini semantici del dato normativo letterale, quale sarebbe quella di riportare alla nozione di “banca”, testualmente riferibile all’art. 15 del D.P.R. n. 601 del 1973, quella di “intermediario finanziario”, ontologicamente eterogenea e non pienamente coincidente sul piano dell’operatività. Tale conclusione troverebbe conforto nel rilievo che, quando il legislatore ha inteso estendere l’applicazione dell’agevolazione a situazioni esulanti dal dato letterale, vi ha provveduto esplicitamente, come accaduto per le operazioni di mutuo relative all’acquisto di abitazioni poste in essere da enti, istituti, fondi e casse previdenziali nei confronti dei propri dipendenti e iscritti (art. 2, comma 1-bis, del D.L. 3 agosto 2004, n. 220, recante “Disposizioni urgenti in materia di personale del Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione (CNIPA), di applicazione delle imposte sui mutui e di agevolazioni per imprese danneggiate da eventi alluvionali nonché di personale di pubbliche amministrazioni, di differimento di termini, di gestione commissariale della associazione italiana della Croce Rossa e di disciplina tributaria concernente taluni fondi immobiliari”, convertito, con modificazioni, dalla L. 19 ottobre 2004, n. 257) e per le operazioni di finanziamento realizzate dalla Cassa depositi e prestiti spa (art. 1, comma 32, della L. n. 244 del 2007). 1.2.- Tanto premesso, il rimettente, anche alla luce delle considerazioni svolte dalla giurisprudenza non condivisa, ritiene che l’art. 15 del D.P.R. n. 601 del 1973, interpretato nel senso dell’inapplicabilità dell’agevolazione agli intermediari finanziari, violi gli artt. 3 e 41 Cost. Infatti, sebbene morfologicamente e funzionalmente non pienamente assimilabili alle banche – essendo abilitati solo alla raccolta del “risparmio di rischio” e non del risparmio pubblico “a vista” o “rimborsabile”, cioè con obbligo di restituzione – gli intermediari finanziari, con riguardo all’attività considerata dalla norma censurata, opererebbero con le medesime modalità e nello stesso mercato degli operatori bancari. Con la conseguenza che il diverso trattamento provocherebbe un
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effetto distorsivo sulla concorrenza per il vantaggio derivante alle banche dal minor costo del prodotto offerto non per specifici meriti imprenditoriali ma per una scelta fiscale che non troverebbe giustificazione nelle differenze sul piano della costituzione della provvista che alimenta l’attività creditizia. Di qui la violazione della libertà di concorrenza, coessenziale alla libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost., e dell’art. 3 Cost. in ragione dell’ingiustificata discriminazione realizzata dalla norma agevolativa che la consentirebbe. 1.3.- Dopo aver escluso di poter definire altrimenti la controversia, il rimettente osserva che, una volta condivisa la tesi ermeneutica restrittiva, l’agevolazione prevista dall’art. 15 del D.P.R. n. 601 del 1973 potrebbe essere applicata alla fattispecie al suo esame solo in esito alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma nei termini richiesti, onde la rilevanza della questione. 2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata manifestamente infondata. Ad avviso della difesa erariale, banche e intermediari finanziari costituirebbero soggetti non equiparabili, in ragione delle differenze morfologiche e funzionali riconosciute dallo stesso rimettente, con la conseguenza di impedire il giudizio di equiparazione ai sensi dell’art. 3 Cost. La limitazione dell’agevolazione di cui all’art. 15 del D.P.R. n. 601 del 1973 alle sole banche troverebbe giustificazione nel fatto che solo a esse, e non anche agli intermediari finanziari, sarebbe concesso di operare la raccolta del risparmio pubblico, direttamente tutelato dall’art. 47, primo comma, Cost. Proprio tale esigenza di tutela fonderebbe quell’effetto ritenuto distorsivo della concorrenza dal rimettente, con conseguente esclusione del contrasto con l’art. 41 Cost. 3.- Si è costituita in giudizio Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa spa (già S.I. spa), parte nel giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata o, in subordine, l’adozione di una pronuncia interpretativa di rigetto. A suo avviso, la ratio dell’agevolazione prevista dalla norma censurata andrebbe individuata nel favore che il legislatore intenderebbe accordare agli investimenti produttivi, nella previsione che essi possano creare nuova ricchezza, sulla quale più adeguatamente applicare il prelievo fiscale. Poiché tale ratio sarebbe condivisa anche dai finanziamenti a medio e lungo termine offerti dagli intermediari finanziari, non sussisterebbero ostacoli all’estensione del beneficio in considerazione, pena una discriminazione che non troverebbe ragionevole giustificazione negli elementi di diversità rispetto alle banche e uno svantaggio competitivo che pregiudicherebbe l’assetto concorrenziale del mercato, con conseguente vulnus, rispettivamente, agli artt. 3 e 41 Cost. Considerato in diritto. 1.− La Corte di cassazione, sezioni unite, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 15 (recte: primo comma) del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 (Disciplina delle agevolazioni tributarie) – nella versione applicabile ratione temporis, in vigore anteriormente alle modifiche apportate dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio
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annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)” – in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione. La disposizione censurata esenta dalle imposte di registro, di bollo, ipotecarie e catastali e dalle tasse sulle concessioni governative le operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine effettuate da aziende e istituti di credito e da loro sezioni o gestioni. Ad avviso delle sezioni unite, il regime tributario in questione non sarebbe applicabile agli intermediari finanziari, alla cui categoria appartiene il contribuente parte del giudizio principale. A tale conclusione le sezioni unite pervengono dirimendo il contrasto insorto in seno alla sezione tributaria della medesima Corte di cassazione tra due orientamenti. Quello prevalente esclude l’applicabilità del trattamento privilegiato agli intermediari finanziari, in quanto riservato esclusivamente alle “banche” a seguito dell’evoluzione della disciplina di settore, nonché in virtù del principio generale per cui le disposizioni eccezionali che riconoscano benefici fiscali in deroga al regime ordinario sarebbero di stretta interpretazione e insuscettibili di applicazione analogica. Il contrario orientamento, espresso in un’unica occasione, estende il trattamento di favore agli intermediari finanziari attraverso un’interpretazione logico-sistematica. Pur escludendo di poter condividere la tesi ermeneutica minoritaria, il giudice a quo ritiene che l’art. 15 del D.P.R. n. 601 del 1973, interpretato in senso restrittivo, violi gli artt. 3 e 41 Cost. Sebbene morfologicamente e funzionalmente non del tutto assimilabili alle banche – essendo abilitati solo alla raccolta del “risparmio di rischio” e non anche di quello “a vista” o “rimborsabile” – gli intermediari finanziari, con riguardo all’attività considerata dalla norma censurata, agirebbero con le medesime modalità e nello stesso mercato degli operatori bancari. Con la conseguenza che il diverso trattamento normativo provocherebbe un effetto distorsivo sulla concorrenza per il vantaggio derivante alle banche dal minor costo del prodotto offerto. Ciò non in ragione della specificità imprenditoriale ma per una scelta fiscale, che non troverebbe giustificazione nelle differenze inerenti alla costituzione della provvista che alimenta l’attività creditizia. Di qui la violazione della libertà di concorrenza, riconducibile alla libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost., e dell’art. 3 Cost. È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata manifestamente infondata. Ad avviso della difesa erariale, banche e intermediari finanziari non sarebbero assimilabili, con la conseguenza di rendere impossibile il giudizio di equiparazione ai sensi dell’art. 3 Cost. La limitazione dell’agevolazione ai soli soggetti bancari troverebbe giustificazione nel fatto che soltanto ad essi, e non anche agli intermediari finanziari, sarebbe concesso di operare la raccolta del risparmio pubblico, direttamente tutelato dall’art. 47, primo comma, Cost. Proprio tale esigenza di tutela fonderebbe quell’effetto, ritenuto distorsivo della concorrenza dal rimettente, con conseguente esclusione del contrasto con l’art. 41 Cost. 2.- La questione di legittimità dell’art. 15, primo comma, del D.P.R. n. 601 del 1973, nella versione in vigore anteriormente alle modifiche apportate dalla L. n. 244 del 2007, è fondata in riferimento a entrambi i parametri evocati. Secondo la dispo-
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sizione censurata “Le operazioni relative ai finanziamenti a medio e lungo termine e tutti i provvedimenti, atti, contratti e formalità inerenti alle operazioni medesime, alla loro esecuzione, modificazione ed estinzione, alle garanzie di qualunque tipo da chiunque e in qualsiasi momento prestate e alle loro eventuali surroghe, sostituzioni, postergazioni, frazionamenti e cancellazioni anche parziali, ivi comprese le cessioni di credito stipulate in relazione a tali finanziamenti, effettuate da aziende e istituti di credito e da loro sezioni o gestioni che esercitano, in conformità a disposizioni legislative, statutarie o amministrative, il credito a medio e lungo termine, sono esenti dall’imposta di registro, dall’imposta di bollo, dalle imposte ipotecarie e catastali e dalle tasse sulle concessioni governative”. In luogo dei tributi da ultimo menzionati il successivo art. 17 prevede il pagamento di un’imposta sostitutiva – in seguito divenuta opzionale per effetto delle modifiche apportate alla disposizione dall’art. 12, comma 4, lettera b), del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145 (Interventi urgenti di avvio del piano “Destinazione Italia”, per il contenimento delle tariffe elettriche e del gas, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche ed EXPO 2015), convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2014, n. 9 – secondo quanto previsto dagli artt. da 18 a 20 del medesimo D.P.R. n. 601 del 1973. Il rimettente muove dal presupposto ermeneutico che il regime tributario previsto dalla disposizione censurata si applichi alle sole banche, con esclusione, pertanto, degli intermediari finanziari. Correttamente egli argomenta che tale interpretazione si è consolidata in diritto vivente poiché – a parte la pronunzia della Corte di cassazione, quarta sezione civile, sentenza 12 marzo 2014, n. 5697 – il giudice della legittimità ha costantemente affermato che l’agevolazione in esame riguarda le sole banche (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 28 novembre 1984, n. 6183 e sentenza 23 maggio 1986, n. 3454; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 9 marzo 2011, n. 5570; Corte di cassazione, quinta sezione civile, ordinanza 20 aprile 2012, n. 6234 e sentenza 12 marzo 2014, n. 5697), soluzione condivisa dalle stesse sezioni unite rimettenti. Ritenendo di non potersi discostare da tale indirizzo esegetico ma dubitando della conformità a Costituzione della norma in esame, il giudice a quo sottopone la stessa a scrutinio di costituzionalità (in senso conforme, ex plurimis, sentenza n. 191 del 2016). 2.1.- Tanto premesso, nell’esame delle censure rivolte all’art. 15, primo comma, del D.P.R. n. 601 del 1973, in riferimento all’art. 3 Cost., occorre prendere le mosse dalla natura agevolativa della norma censurata. La limitazione agli istituti bancari esclude automaticamente la sua applicabilità ad altri soggetti in quanto, oltre agli espressi destinatari, nessun altro è riconducibile al significato letterale del testo normativo (Corte di cassazione, sesta sezione civile, ordinanza 19 marzo 2014, n. 6412; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 24 maggio 2013, n. 12928, ordinanza 20 aprile 2012, n. 6234, sentenza 5 maggio 2011, n. 9903 e sentenza 11 marzo 2011, n. 5845). È costante orientamento di questa Corte che “norme di tale tipo, aventi carattere eccezionale e derogatorio, costituiscono esercizio di un potere discrezionale
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del legislatore, censurabile solo per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità (sentenza n. 292 del 1987; ordinanza n. 174 del 2001); con la conseguenza che la Corte stessa non può estenderne l’ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio dei benefici medesimi” (sentenza n. 177 del 2017). Nella fattispecie in esame, tuttavia, le situazioni messe a confronto dal rimettente appaiono effettivamente rispondere a una medesima ratio. Questa va rinvenuta nel favore che il legislatore accorda agli investimenti produttivi, in ragione del fatto che essi possono creare nuova ricchezza accrescendo, tra l’altro, il prelievo fiscale (ex multis, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 16 gennaio 2015, n. 695). Viene dunque in rilievo l’elemento oggettivo comune ad entrambe le situazioni messe a confronto, rappresentato dai finanziamenti a medio e lungo termine. Ciò comporta l’irrilevanza della diversa natura dei soggetti che pongono in essere tali attività poiché, siano essi le banche o gli intermediari finanziari – a ciò abilitati dall’art. 106, comma 1, del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, recante “Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia” (TUB) -, non v’è ragione per cui gli investimenti produttivi siano discriminati in relazione al soggetto finanziante. Se nel momento dell’introduzione della disposizione censurata “aziende e istituti di credito”, antesignani delle odierne banche, erano gli unici soggetti attivi sulla scena dei finanziamenti a medio e lungo termine, attualmente, in un contesto di pluralità degli operatori abilitati, l’esclusione degli intermediari non trova più ragionevole giustificazione. Né si può condividere l’argomento sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, che si fonda sulla esclusiva competenza delle banche a raccogliere il risparmio, la cui tutela, assicurata dall’art. 47, primo comma, Cost., spiegherebbe il diverso trattamento loro riservato dalla norma censurata. La tesi collide con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui occorre identificare la ratio sottesa al beneficio onde poi stabilire se sia comune ad entrambe le fattispecie messe a confronto. Poiché nel caso in esame essa afferisce al profilo dell’erogazione del credito e non a quello della predisposizione della provvista, è irrilevante la modalità di apprestamento di quest’ultima, venendo in rilievo solo il momento del finanziamento. 2.2.- Dirimente nel caso in esame è anche il profilo della tutela della concorrenza. La discriminazione nel conferimento dell’agevolazione fiscale pone obiettivamente in essere un’irragionevole e immotivata deroga al principio di eguaglianza e una contestuale violazione dell’art. 41 Cost. sotto il profilo della libertà di concorrenza, una delle manifestazioni della libertà d’iniziativa economica privata (sentenza n. 94 del 2013). Peraltro, anche il nono “considerando” della direttiva 15 marzo 1993, n. 93/6/ CEE (Direttiva del Consiglio relativa all’adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi), afferma che “in un mercato comune finanziario gli enti, a prescindere dal fatto che siano imprese di investimento o enti creditizi, sono direttamente concorrenti tra di loro”. Essendo di palmare evidenza la coincidenza oggettiva dei prodotti offerti, l’esclusività del beneficio fiscale attribuito alle operazioni di finanziamento poste in essere dalle banche costituisce, dunque, una discriminazione a danno degli intermediari finanziari e una distorsione della concorrenza nello
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specifico settore. Tale beneficio assicura ai prodotti offerti dalle banche un indebito vantaggio, in termini di appetibilità finanziaria, rispetto a quelli degli intermediari, che risultano gravati da maggiori oneri fiscali inevitabilmente ricadenti sul cliente e – per ciò stesso – influenzanti le sue scelte. 3.- Deve essere dunque dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, primo comma, del D.P.R. n. 601 del 1973, nella versione in vigore al momento dell’insorgere della controversia del giudizio a quo, per contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione fiscale ivi prevista alle analoghe operazioni effettuate dagli intermediari finanziari. P.Q.M. La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, primo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 (Disciplina delle agevolazioni tributarie) – nella versione in vigore anteriormente alle modifiche apportate dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)” – nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione fiscale ivi prevista alle analoghe operazioni effettuate dagli intermediari finanziari. (Omissis)
Corte Cass., Sez. unite civili, 27 febbraio 2018 - 18 luglio 2018, n. 19106; Pres. Mammone; Est. D’Ascola
Imposte e tasse – Art. 15 D.P.R. n. 601/1973 – Eccezione di incostituzionalità – Corte cost. n. 242/2017 – Incostituzionalità della norma nella parte in cui esclude l’applicazione dell’agevolazione alle analoghe operazioni effettuate dagli intermediari finanziari – Rigetto del ricorso – Consegue L’Agenzia del Territorio ricorreva in Cassazione contro la sentenza n. 36/4/2007, depositata il 26.9.2007, della Commissione tributaria regionale di Campobasso che estendeva l’agevolazione fiscale di cui all’art. 15 D.P.R. n. 601/1973 a finanziamento effettuato da intermediario finanziario iscritto nell’albo speciale di cui all’art 107 D. Lgs. n. 385/1993. La Sezione retributaria, rilevando la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla questione controversa, rimetteva gli atti al Primo presidente per l’assegnazione del ricorso alle Sezioni unite; queste ultime, premessa l’inestensibilità dell’agevolazione oltre il limite del significato letterale del testo, sollevavano, con ordinanza n. 11373/2015, eccezione di illegittimità costituzionale della norma per violazione degli artt. 3 e 41 cost. La Corte costituzionale, con sentenza n. 242/2017, dichiarava l’incostituzionalità del citato art. 15 “nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione fiscale ivi prevista alle analoghe operazioni effettuate dagli intermediari finanziari. Conseguentemente, le Sezioni unite definiscono il processo rigettando il ricorso. (3)
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(Omissis) Fatti Di Causa. 1) L’Agenzia del Territorio Ufficio provinciale di Campobasso notificava alla Sviluppo Italia s.p.a. avvisi di liquidazione relativi a imposta ipotecaria e imposta di bollo versate per le formalità di cancellazione di ipoteca e privilegio speciale afferenti un finanziamento concesso alla Ge.CO. srl. In tal modo revocava, per carenza dell’elemento soggettivo, i benefici fiscali di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15. La Sviluppo Italia S.p.a. impugnava gli avvisi di liquidazione dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale (CTP), sostenendo di avere diritto al regime agevolato, quale intermediario finanziario inserito nell’elenco speciale di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 107. La CTP (sentenza 227/305) accoglieva il ricorso e la Commissione Tributaria Regionale con sentenza depositata il 26 settembre 2007 confermava la decisione di primo grado, rigettando la richiesta dell’appellante Agenzia del Territorio. 1.1) Quest’ultima ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 10 novembre 2008. Parte intimata, ridenominatasi Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa spa, ha resistito con controricorso e ha svolto ricorso incidentale condizionato. Con provvedimento n. 10066/2014 la Sezione tributaria ha rigettato l’eccezione di giudicato proposta dalla resistente e ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione del ricorso alle Sezioni unite. Ha rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla questione controversa. Ha osservato: – che secondo l’orientamento dominante il regime agevolato ed il beneficio fiscale previsti dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, spettano dal punto di vista soggettivo solo alle aziende ed istituti di credito (e le loro sezioni e/o gestioni speciali) e cioè ad enti istituzionalmente preposti all’esercizio del credito, ovvero, alla raccolta e all’erogazione del risparmio tra il pubblico, ma non agli intermediari finanziari, iscritti nell’elenco di cui all’art. 107 del T.U.B., quale è la società Sviluppo Italia S.p.A. – che per contro Cass. civ. n. 5845/2011 – che ha deciso analogo contenzioso tra Sviluppo Italia S.p.A. (ora Agenzia Nazionale) ed Agenzia del Territorio (ora Agenzia delle Entrate) e su cui invano era stata imperniata l’eccezione di giudicato – ha riconosciuto il beneficio alla ricorrente, poichè “tale limitazione non corrisponde più alla mutata realtà giuridica”. 1.2) Le Sezioni Unite con ordinanza 11373/2015 hanno sollevato questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 15, “nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione fiscale, prevista per i finanziamenti a medio o lungo termine effettuati dalle banche, anche ai medesimi finanziamenti posti in essere da intermediari finanziari”. Pronunciatasi la Corte Costituzionale, la causa è stata nuovamente fissata per la trattazione in pubblica udienza. Ragioni Della Decisione. 2) Con la sentenza n. 242 del 2017 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, art. 15, comma 1, (Disciplina delle agevolazioni tributarie) – nella versione in vigore anteriormente alle modifiche apportate dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)” – nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione
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fiscale ivi prevista alle analoghe operazioni effettuate dagli intermediari finanziari. Ha infatti ritenuto che “non v’è ragione per cui gli investimenti produttivi siano discriminati in relazione al soggetto finanziante”. Ha inoltre ravvisato una contestuale violazione dell’art. 41 Cost., sotto il profilo della libertà di concorrenza, che è una delle manifestazioni della libertà d’iniziativa economica privata (sentenza n. 94 del 2013), oggetto anche del nono “considerando” della direttiva 15 marzo 1993, n. 93/6/ CEE (Direttiva del Consiglio relativa all’adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi). 3) Il disposto normativo che risulta dalla sentenza viene quindi a corrispondere a quanto era stato ritenuto in via interpretativa dalla sentenza impugnata n. 36/4/07 della Commissione tributaria regionale di Campobasso. Ne consegue l’infondatezza del ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, che deduceva l’impossibilità di estendere in via di interpretazione analogica un regime di esenzione eccezionale a soggetti diversi da quelli espressamente menzionati dal legislatore. 4) Va conseguentemente dichiarato assorbito il ricorso incidentale condizionato proposto dalla società resistente, che mirava alla declaratoria di inammissibilità dell’atto di appello a suo tempo proposto dall’Agenzia del territorio. Le spese del giudizio di legittimità possono essere interamente compensate, atteso che la decisione scaturisce dall’esito innovativo della sentenza resa dalla Corte Costituzionale. Ratione temporis non è applicabile il disposto di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17. P.Q.M. La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso. Spese compensate. (Omissis)
(1, 2, 3,) La sentenza della Corte costituzionale come “rimedio” al rifiuto dell’estensione analogica. Sommario: 1. L’“interpretazione stretta” e la problematicità dei suoi risultati. – 2. La
sentenza di accoglimento “additiva” della Corte costituzionale: efficacia ed interpretazione. – 3. La regola dell’“interpretazione stretta” produce irrazionalità: l’eventuale estensione delle agevolazioni va valutata caso per caso dal giudice del rapporto tributario.
La Cassazione mantiene ben ferma la tesi dell’inestensibilità delle agevolazioni fiscali oltre il significato letterale del testo dell’atto normativo che le dispone. L’“interpretazione stretta”, ben più stringente del divieto di analogia, non ha però giustificazione razionale; la sua rigorosa applicazione può quindi dar luogo ad irragionevoli discriminazioni, in contrasto con gli art. 3 e 53 cost. Nel caso in esame, le Sezioni unite della Cassazione, confermata l’impossibilità dell’estensione, hanno esse stesse sollevato l’eccezione di incostituzionalità. La Corte costituzionale, rilevato che l’inestensibilità è “diritto vivente”, ma che la ratio dell’agevolazione include anche operazioni poste in essere da soggetti diversi
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da quelli testualmente indicati nella disposizione, con sentenza di accoglimento “additiva” ne ha dichiarato l’incostituzionalità nella parte in cui non estende l’agevolazione stessa. La soluzione del caso appare inutilmente complicata: dovrebbe essere il giudice del rapporto tributario a valutare caso per caso, superando il preteso limite dell’“interpretazione stretta”, l’estensibilità dell’agevolazione in funzione della sua ratio. The Supreme Court (Corte di Cassazione) confirms the position that tax benefits cannot be extended beyond the literal meaning of the wording of the relevant statute. However, such “strict interpretation” principle, much stricter than a prohibition of application to analogous cases, does not have a rational ground. The strict application of such principle can cause irrational discrimination, contrasting with Article 3 and 53 of the Italian Constitution. In the case under exam, the Supreme Court in joint session, after confirming that a broader interpretation is not possible, has submitted to the Constitutional Court a question to verify the compliance of the statute (based on its “strict interpretation”) with the Italian Constitution. The Constitutional Court has stated that the strict interpretation is “living law”, but also that the ratio of the tax benefit includes also transactions carried out by persons not specifically indicated in the statute. As a consequence, the Constitutional Court, through an “additive” decision, has stated that the statute is unconstitutional where it does not extend the tax benefit to persons not specifically indicated. The approach seems needlessly complicated: it should be up to the tax Courts (including the tax section of the Supreme Court) to judge on a case by case the applicability of the tax benefit on the basis of its ratio, without application of the alleged “strict interpretation” principle.
1. L’“interpretazione stretta” e l a problematicità dei suoi risultati.– La sentenza più recente tra quelle sopra riportate conclude, adeguandosi al disposto della sentenza n. 242/2017 della Corte costituzionale, il giudizio nel corso del quale le stesse SS. UU. della Corte di cassazione avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale oggetto della medesima sentenza n. 242/2017. La Corte costituzionale ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, primo comma, D.P.R. 29.9.1973, n. 601, nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione fiscale ivi prevista alle “analoghe operazioni degli intermediari finanziari”. L’intera vicenda appare determinata dal pervicace orientamento della Cassazione, che esclude, in generale, l’estensione analogica delle agevolazioni fiscali. Questo orientamento non è argomentato, nelle sentenze della suprema corte, sulla base di una valutazione specifica della ratio della disciplina di favore e delle sue capacità espansive nel rapporto con i principi, ma, apoditticamente, con l’affermazione che ogni agevolazione è deroga rispetto alla norma impositrice e delle deroghe è sempre esclusa l’estensione analogica. Si tratta di un argomento largamente opinabile, in quanto fondato esclusivamen-
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te sul presupposto che l’analogia implichi necessariamente una “lacuna”, la cui identificazione è sempre meno compatibile con il diffondersi della concezione dell’ordinamento come realtà via via più articolata, ma conformata da principi, per lo più di rango costituzionale, di diretta applicazione, per cui ogni norma, ogni articolazione disciplinare, è deroga rispetto a regole più generali. D’altronde il limite all’analogia è stato tradizionalmente concepito per le norme eccezionali, non per gli assetti meramente derogatori. A prescindere dalle motivazioni, la Cassazione mantiene in realtà ben ferma l’antica regola dell’“interpretazione stretta” delle agevolazioni fiscali, che non ha, in sé, valido sostegno argomentativo, oltre al mero richiamo all’interesse fiscale (anzi, si allude ad una “ineludibile simmetria” con un’analoga regola che varrebbe per tutte le norme impositrici, riesumando così l’antica opinione che estendeva l’“interpretazione stretta” a tutte le norme tributarie sostanziali). Sul piano dei risultati pratici, appare comunque evidente la possibilità che l’orientamento in questione determini, relativamente a molte discipline agevolative, decisioni in contrasto con esigenze di razionale giustificazione della diversa incidenza dei tributi, dunque di equità distributiva, in primo luogo desumibili dagli artt. 3 e 53 cost.. La giurisprudenza ha tradizionalmente limitato queste conseguenze sfruttando l’ambiguità e problematicità della distinzione fra interpretazione estensiva e analogia. Da ultimo, però, la Corte costituzionale, elaborando e specificando la categoria del “diritto vivente”, è intervenuta con sentenze che (utilizzando la formula della dichiarazione d’incostituzionalità “nella parte in cui non la si dispone”) estendevano l’“agevolazione”, in contrasto con il suaccennato orientamento della Cassazione, sol perché ciò esigeva la ratio del beneficio medesimo (sentenza n. 117/2017 e quindi la stessa sentenza n. 242/2017 addietro riportata). Il ricorso a dispositivi di accoglimento “additivi” sembra qui derivare dal convincimento che sentenze interpretative di rigetto (invero più consone alla natura sostanzialmente interpretativa della questione) non avrebbero affatto modificato il “diritto vivente”, cioè l’orientamento della Cassazione: il “dialogo fra le Corti, che è talvolta conflitto, conforta tale convincimento. La particolarità del caso in esame è costituita però dal fatto che le Sezioni unite della Cassazione, di fronte ad un contrasto fra numerose sentenze conformi al tradizionale orientamento contrario all’estensione analogica dell’agevolazione ed una sola che invece tale estensione ha ammesso, hanno preferito sollevare esse stesse l’eccezione di legittimità costituzionale della disposizione agevolatrice. L’ordinanza è, a mio avviso, affetta da una sorta di intrinseca contraddizione, in quanto la prospettata incostituzionalità si confi-
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gura essenzialmente come violazione del principio di eguaglianza per diverso trattamento di categorie di soggetti non differenziabili secondo la ratio della norma agevolatrice (la violazione della libertà di concorrenza è un riflesso della discriminazione di una categoria di imprenditori), ma l’dentica rilevanza della fattispecie in ordine alla funzione della norma è proprio il fondamento della estensione analogica di cui la Cassazione nega la possibilità. D’altro canto, era stata la Corte costituzionale ad indicare, come si è detto, questa soluzione, ed infatti l’eccezione di incostituzionalità è stata accolta con la sentenza n. 242/2017, cosicché le Sezioni unite hanno potuto concludere il giudizio a quo estendendo l’agevolazione al contribuente che l’aveva richiesta. 2. La sentenza di accoglimento “additiva” della Corte costituzionale: efficacia ed interpretazione. – L’intervento della Corte costituzionale per “estendere” un’agevolazione tributaria di cui si nega l’estensibilità in via interpretativa solleva però alcuni dubbi sistematici e potrebbe anche implicare ulteriori problemi interpretativi. In primo luogo, se si integra la risalente formula per cui le norme di agevolazione fiscale “aventi carattere eccezionale e derogatorio” costituiscono “esercizio di un potere discrezionale del legislatore”, censurabile solo per l’eventuale “palese arbitrarietà o irrazionalità”, ma, come fa da ultimo la Corte costituzionale, se ne ammette l’estensione “quando lo esiga la ratio del beneficio” (sentenza n. 117/2017), si riconosce, in sostanza, alla Corte un potere difficilmente distinguibile da quella “discrezionalità” legislativa che deve stabilire l’equilibrio tra gli “interessi che si contrappongono nel rapporto tributario” (è significativa la giustapposizione fra gli artt. 23 e 81 cost.). D’altra parte, proprio per le sentenze di accoglimento “additive” si era formulato il criterio limitativo delle “rime obbligate”, non riducibile alla mera identità della ratio. Comunque, rimettere alla Corte costituzionale l’“estensione” delle agevolazioni fiscali implica una necessaria correlazione fra l’efficacia dispositiva della sentenza, desumibile esclusivamente dalla sua formulazione letterale, e l’ambito dell’estensione stessa. Insomma, dopo la sentenza della Corte costituzionale la norma di agevolazione è integrata dal portato “normativo” della sentenza stessa, che secondo il “diritto vivente” sarebbe limitato al “significato letterale” del suo testo. Ora, il passaggio decisivo nella motivazione della sentenza n. 242/2017 è costituito dall’identificazione della ratio dell’agevolazione, che la Corte afferma afferire “al profilo dell’erogazione del credito e non a quello della
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predisposizione della provvista”. D’altronde nel “mercato comune finanziario” (evocato dalla Direttiva 15.3.1993, n. 93/6/CEE, citata in motivazione) parrebbero direttamente concorrenti tra di loro tutti coloro che offrono finanziamenti. Dunque la dichiarazione di incostituzionalità della norma “nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione fiscale ivi prevista alle analoghe operazioni effettuate dagli intermediari finanziari” potrebbe risultare discriminante rispetto a “finanziatori” non “intermediari” (peraltro all’art. 41 cost. è è stata ricondotta anche la mera autonomia negoziale). Se fosse sollevata la questione (ad es. sulla necessità dell’iscrizione negli elenchi di cui alla legge bancaria), si renderebbe necessario un nuovo giudizio della Corte sulla legittimità della norma che essa stessa ha integrato. Per altro verso, il dispositivo della sentenza identifica la norma agevolativa “estesa” mediante riferimento all’art. 15, primo comma, D.P.R. 29.9.1973, n. 601 “nella versione in vigore anteriormente alle modifiche apportate dalla legge 24.12.2007, n. 244”. È evidente che tutte le sentenze della Corte costituzionale hanno ad oggetto la norma ratione temporis applicabile nel giudizio a quo, quindi rilevante ai fini del giudizio stesso, non le successive modificazioni; tuttavia, proprio perché comune a tutte le sentenze, la limitazione, già correttamente evidenziata all’inizio della motivazione, poteva non essere espressamente ribadita nel dispositivo. Ci si potrebbe allora domandare se quell’inciso concorra o meno a determinare il “significato letterale” della sentenza. Poiché la pronuncia ha esplicitamente riguardo all’estensione della categoria di soggetti cui l’agevolazione si applica, potrebbe innanzi tutto ritenersi che la Corte abbia ritenuto la legge dl 2007 idonea a modificare sostanzialmente la relativa definizione. Tuttavia le innovazioni con tale legge introdotte non riguardano specificamente il testo dell’art. 15, c. 1, D.P.R. n. 601/1973, ma si limitano (art.6) ad estendere le disposizioni del titolo V della legge bancaria, previste per gli intermediari iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107 della legge stessa, alla Cassa Depositi e Prestiti per l’attività della gestione separata (art.8) volta al finanziamento di enti pubblici, opere, impianti, reti e dotazioni destinati alla fornitura di servizi pubblici ed alle bonifiche (art. 7). L’unico elemento che potrebbe assumere un qualche rilievo in ordine all’estensione dell’area delle operazioni agevolate è il riferimento all’iscrizione nell’elenco speciale di cui all’art. 107 legge bancaria, che nella sentenza non è assunto a condizione per il riconoscimento del regime agevolato. Eventuali tentativi (piuttosto problematici sul piano interpretativo, visto che il richiamo all’art. 107 è funzionale solo all’individuazione della disciplina bancaria cui la C.D.P.
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è soggetta) di restringere l’applicazione del beneficio fiscale ai soggetti iscritti nell’elenco potrebbero dunque riportare la questione al giudizio della Corte. Non sembra invece ragionevole ipotizzare una limitazione temporale dell’efficacia della sentenza all’entrata in vigore della legge n. 244/2007. Pur identificato con riferimento alla disposizione di legge, oggetto della sentenza è la disciplina (la norma) che se ne desume e tale disciplina permane, così come integrata dalla Corte, anche dopo la previsione e l’inquadramento nella legge bancaria della C.D.P., gestione separata, che potrà godere del regime di favore in quanto “intermediario finanziario “. Andrebbe dunque superato ogni eventuale dubbio circa la necessità di sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale circa l’applicazione del beneficio fiscale a finanziamenti erogati da intermediari finanziari dopo l’entrata in vigore della L. n. 244/2007. 3. La tesi dell’“interpretazione stretta” produce irrazionalità: l’eventuale estensione delle agevolazioni va valutata, caso per caso, dal giudice del rapporto tributario. – Le osservazioni che precedono mi sembrano evidenziare, almeno in parte, incongruenze e difficoltà derivanti dalla pertinace osservanza, da parte della Corte di cassazione, che ne fa “diritto vivente”, di un’antica formula, l’“interpretazione stretta”, applicata in origine a tutte le norme tributarie e poi limitata alle sole norme agevolatrici (ma l’ordinanza di remissione sembra riferirla anche alle norme impositrici). La regola, in sé eccedente il divieto di analogia, perché limita il risultato dell’interpretazione al “significato letterale del testo”, rispondeva ad esigenze di tutela dapprima dell’interesse del contribuente, poi esclusivamente dell’interesse fiscale, ma non è oggi giustificabile con validi argomenti sistematici. La composizione fra garanzia del contribuente ed esigenze di bilancio (ricondotte, nelle sentenze annotate, rispettivamente agli artt. 23 e 81 cost.) è, ovviamente, intrinseca all’intero diritto tributario (ed il richiamo evoca il più vasto tema dei rapporti fra riserva di legge ed interpretazione-integrazione), così come il rapporto con l’art. 53 cost. (e qui sembra si dimentichi che, per parte della dottrina, le agevolazioni attuano il principio di capacità contributiva, non confliggono con esso). Anche la già criticata tesi circa l’impossibilità dell’estensione analogica di norme derogatrici ha un ambito di operatività che eccede le agevolazioni fiscali: basti pensare alle clausole limitatrici delle fattispecie agevolate, che potrebbero configurare deroghe alle deroghe. D’altra parte, quella tesi giustifica un limite all’analogia, non l’“interpretazione stretta”, che ha effetti ben più stringenti. Insomma l’“interpretazione stretta” non è ragionevolmente sostenibile e
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proprio per questo produce risultati irragionevoli. Nel caso in esame la Cassazione si è resa conto di ciò, rilevando essa stessa la violazione dell’art. 3 cost., ed ha cercato di por rimedio all’inconveniente richiedendo alla Corte costituzionale una sentenza di accoglimento al limite dei suoi poteri, che, oltre le apparenze, ha effetti sostanzialmente diversi dall’estensione analogica della norma agevolatrice. Invero, in un sistema a costituzione rigida, la norma non conforme al principio costituzionale è totalmente illegittima se nel bilanciamento con altri principi non trova una giustificazione razionale, ma, se tale giustificazione sussiste, risulta valida ed efficace per tutto l’ambito di operatività della ratio così identificata. Senza scaricarne la responsabilità sulla Corte costituzionale, spettava dunque alle Sezioni unite valutare la riconducibilità del caso considerato alla ratio del regime agevolativo e in caso affermativo, applicarlo direttamente, con maggiore economia dei giudizi e minori problemi per il futuro. La soluzione prescelta rimette invece a future, e assai problematiche, evoluzioni giurisprudenziali la conferma della tesi, che ritengo più fondata, per cui la regola dell’inestensibilità delle agevolazioni fiscali non è assoluta, ma va valutata di caso in caso, in funzione della ratio dell’agevolazione stessa, e tale valutazione è rimessa al giudice del rapporto tributario.
Andrea Fedele
Corte cost., 21 giugno 2017 - 13 luglio 2017, n. 181; Pres. Grossi - Rel. de Pretis Autotutela tributaria – Insussistenza di connotati differenziali dalla generale autotutela amministrativa - Istanze di annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari inoppugnabili – Insussistenza di obbligo di pronuncia da parte degli Uffici – Costituzionalità della disciplina per inconfigurabilità di un “vuoto di tutela” Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale – per violazione degli artt.3, 23, 24 53, 97 e 113 Cost. – dell’art. 2-quater, comma 1, D.L. n. 564/1994 e dell’art. 19, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, nella parte in cui non prevedono né l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento amministrativo espresso sull’istanza di annullamento d’ufficio proposta dal contribuente, né l’impugnabilità – da parte di questi – del rifiuto tacito di accoglimento di tale istanza; ciò in quanto non sussiste un interesse giuridicamente protetto a ottenere una decisione amministrativa espressa sull’istanza di autotutela, ed è da escludere l’esistenza di un “vuoto di tutela” poiché contro il provvedimento dell’amministrazione finanziaria oggetto della richiesta di annullamento d’ufficio l’interessato dispone degli ordinari rimedi di protezione giurisdizionale dei suoi diritti e interessi legittimi. (1)
[Omissis] Ritenuto in fatto. – 1. Con ordinanza del 1° luglio 2016, la Commissione tributaria provinciale di Chieti ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-quater, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell’art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413). La prima disposizione stabilisce che «con decreti del Ministro delle finanze sono indicati gli organi dell’Amministrazione finanziaria competenti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, degli atti illegittimi o infondati». La seconda elenca gli atti impugnabili davanti alle commissioni tributarie. Il giudice a quo riferisce che le questioni sono state sollevate nell’ambito di un
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processo instaurato da un contribuente contro il «silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di autotutela» (presentata il 14 febbraio 2013) avente ad oggetto il riesame degli avvisi di accertamento – non impugnati in sede giudiziaria – con cui, in relazione agli anni 2008 e 2009, erano stati rettificati in aumento i redditi professionali da lui dichiarati. Il rimettente afferma innanzitutto la propria giurisdizione sulla controversia in questione, richiamando un orientamento della Corte di cassazione secondo il quale apparterrebbero alla giurisdizione tributaria le controversie «nelle quali si impugni il rifiuto espresso o tacito dell’amministrazione a procedere ad autotutela», alla luce dell’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)», che avrebbe attribuito carattere generale alla giurisdizione tributaria. Il giudice a quo riferisce anche che la Cassazione ha precisato che «questione altra o diversa da quella di giurisdizione, e di competenza, appunto del giudice tributario, è stabilire se il rifiuto di autotutela sia o meno impugnabile». Su quest’ultimo punto la Cassazione avrebbe statuito, riferisce il giudice a quo, che non esiste un obbligo di pronuncia esplicita dell’Amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela e che l’omissione di pronuncia sarebbe inoppugnabile, «non potendosi configurare un silenzio-rifiuto tacito o implicito ricorribile in sede giurisdizionale». Secondo il rimettente, tale lacuna di tutela giurisdizionale si porrebbe in contrasto con gli articoli 3, 23, 24, 53, 97 e 113 della Costituzione. Sulla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che, nel caso di specie, gli avvisi di accertamento «sono scaturiti da presunzioni legali relative ex art. 32 del D.P.R. 600/1973 concernenti l’esito delle indagini finanziarie che hanno avuto ad oggetto esclusivamente i prelevamenti ed i versamenti dai conti bancari», e che «il quantum presuntivamente accertato sulla scorta dei prelevamenti è palesemente illegittimo e contra ius, per effetto della sentenza n. 228/2014 della Corte costituzionale» con cui è stata dichiarata «l’illegittimità costituzionale [parziale] dell’art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602». Il rimettente precisa poi che, «peraltro, nella fattispecie in esame l’oggetto del sospetto di costituzionalità è limitato all’ammissibilità del silenzio rifiuto tacito o implicito – ovvero alla doverosa, da parte della p.a., adozione di un atto espresso – ed alla sua impugnabilità in sede giurisdizionale». Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo denuncia, in primo luogo, «il contrasto con gli articoli 53 e 23 della Costituzione, anche in relazione all’art. 3 della Costituzione», ossia la «lesione del principio della capacità contributiva e del principio di ragionevolezza». La capacità contributiva rappresenterebbe un «principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale», da bilanciare con l’interesse fiscale dello Stato in base al criterio di ragionevolezza. Non sarebbe «concepibile un interesse egoistico del Fisco a conservare atti impositivi, ancorché divenuti definitivi,
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palesemente illegittimi al fine di trarne un profitto sostanzialmente ingiustificato e del tutto svincolato dalla capacità contributiva del contribuente». L’«assoggettamento del contribuente, privo di mezzi di tutela, ad una ingiusta ed illegittima imposizione» si tradurrebbe dunque nella violazione degli articoli 53, 23 e 3 Cost. Il giudice a quo lamenta poi la violazione «del diritto di azione in giudizio e del principio della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi». Ribadisce che la Cassazione «ha ritenuto insussistente l’obbligo di pronuncia esplicita dell’A.F. sull’istanza di autotutela proposta dal contribuente, ed inoppugnabile la medesima omissione di pronuncia, non potendosi configurare un silenzio-rifiuto tacito o implicito ricorribile in sede giurisdizionale». Sarebbe dunque «palese il vuoto di tutela giurisdizionale del contribuente sottoposto ad un’imposizione fiscale ingiustificata e lesiva della capacità contributiva del medesimo», con conseguente violazione degli articoli 24 e 113 Cost., dato che il citato art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994 attribuirebbe al contribuente «una posizione giuridica soggettiva avente consistenza di diritto soggettivo o quanto meno di interesse legittimo». In terzo luogo, il rimettente denuncia la «lesione dei principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione» (art. 97 Cost.). Tali principi rappresenterebbero «il vero fondamento dei poteri di autoannullamento dell’amministrazione finanziaria, specie su atti divenuti definitivi per mancata impugnazione», e non sarebbe conforme a essi «un quadro normativo che consenta all’Amministrazione Finanziaria di rimanere inerte sull’istanza sollecitatoria dell’esercizio dell’autotutela». Il giudice a quo osserva anche che non è preclusiva la circostanza che gli avvisi di accertamento (oggetto dell’istanza di autotutela) concretino “rapporti esauriti” in relazione alla dichiarazione di illegittimità costituzionale contenuta nella sentenza n. 228 del 2014, in quanto l’esercizio dell’autotutela tributaria «concerne, e può ovviamente avere ad oggetto, anche un atto impositivo inoppugnabile – per non essere stato gravato in sede giurisdizionale – palesemente illegittimo». Anzi, per il rimettente sarebbe «da tenersi in debita considerazione, ai fini dell’autotutela tributaria», l’annullamento delle norme in applicazione delle quali siano state riscosse somme a titolo d’imposta. Il giudice a quo individua le norme sospettate di illegittimità costituzionale nell’art. 2-quater, del d.l. n. 564 del 1994, che regola l’autotutela tributaria, e nell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, che indica gli atti impugnabili davanti alle commissioni tributarie, menzionando, fra gli altri, il rifiuto tacito della restituzione di tributi ma non il rifiuto tacito di autotutela, e precisando che «gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente». In conclusione, la Commissione tributaria dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994, «nella parte in cui non prevede né l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento amministrativo espresso sull’istanza di autotutela proposta dal contribuente né l’impugnabilità – da parte di questi – del silenzio tacito su tale istanza», e dell’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, «nella parte in cui non prevede l’impugnabilità, da parte del
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contribuente, del rifiuto tacito dell’Amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela proposta dal medesimo». Vengono invocati tutti i parametri sopra menzionati ma la questione relativa all’art. 97 Cost. riguarda solo l’art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994. 2.– Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con atto depositato il 20 dicembre 2016. L’interveniente osserva che il giudice contesta in sostanza «proprio il fatto che l’Amministrazione abbia la facoltà, e non l’obbligo, di eliminare in tutto o in parte propri provvedimenti che siano palesemente illegittimi», facoltà risultante dalle norme disciplinanti l’autotutela, cioè dall’art. 2-quater del d.l. n. 564 del 1994 e dagli artt. 2 e 3 del decreto ministeriale 11 febbraio 1997, n. 37 (Regolamento recante norme relative all’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell’Amministrazione finanziaria). Tale scelta legislativa deriverebbe dalla «necessità di contemperare diversi interessi»: quello «pubblico all’acquisizione delle entrate», quello alla «stabilità dei rapporti giuridici» e quello «dei contribuenti a non dover corrispondere imposte in misura superiore alla loro capacità contributiva». Se l’esercizio dell’autotutela costituisse un obbligo anche in relazione ad atti impositivi divenuti definitivi, «verrebbe ad essere compromesso il principio della certezza del diritto, che esige l’osservanza di termini di decadenza sia per l’esercizio del potere impositivo da parte degli uffici finanziari, sia per l’accesso alla tutela giurisdizionale da parte del contribuente». La difesa statale sottolinea che, nel caso di specie, a fronte di atti impositivi notificati il 31 luglio 2012, il contribuente non ha intrapreso alcuna azione giurisdizionale e ha presentato istanza di autotutela solo il 14 luglio 2013, per poi dolersi della mancata risposta dell’amministrazione con ricorso promosso il 19 giugno 2015. Sarebbe dunque «irragionevole, oltre che contrario ai principi della certezza del diritto, riconoscere al contribuente un diritto all’annullamento di pretese fiscali, a fronte di atti ormai consolidati e inoppugnabili». Le disposizioni censurate, come interpretate dalla Cassazione, coniugherebbero dunque ragionevolmente «diverse esigenze, quali la certezza e stabilità dei rapporti giuridici, il diritto di difesa del contribuente, la pronta riscossione dei debiti fiscali, il buon andamento della pubblica Amministrazione e la deflazione del contenzioso». Considerato in diritto. – 1. La Commissione tributaria provinciale di Chieti dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2-quater, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell’art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413). La prima disposizione stabilisce che «con decreti del Ministro delle finanze sono indicati gli organi dell’Amministrazione finanziaria competenti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di
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non impugnabilità, degli atti illegittimi o infondati». Essa è censurata «nella parte in cui non prevede né l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento amministrativo espresso sull’istanza di autotutela proposta dal contribuente né l’impugnabilità – da parte di questi – del silenzio tacito su tale istanza». L’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, elenca gli atti impugnabili davanti alle commissioni tributarie ed è a sua volta censurato «nella parte in cui non prevede l’impugnabilità, da parte del contribuente, del rifiuto tacito dell’Amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela proposta dal medesimo». Ad avviso della rimettente, tali lacune si porrebbero in contrasto con gli articoli 3, 23, 24, 53, 97 e 113 della Costituzione. Sarebbero infatti violati i principi della capacità contributiva e di ragionevolezza (artt. 3 e 53 Cost.), in quanto non sarebbe «concepibile un interesse egoistico del Fisco a conservare atti impositivi, ancorché divenuti definitivi, palesemente illegittimi al fine di trarne un profitto sostanzialmente ingiustificato e del tutto svincolato dalla capacità contributiva del contribuente». Nessun argomento è svolto in relazione all’art. 23 Cost. Sarebbero poi violati gli artt. 24 e 113 Cost. in quanto sarebbe «palese il vuoto di tutela giurisdizionale del contribuente sottoposto ad un’imposizione fiscale ingiustificata e lesiva della capacita contributiva del medesimo». Infine, sarebbero violati i principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), perché non sarebbe conforme ad essi «un quadro normativo che consenta all’Amministrazione Finanziaria di rimanere inerte sull’istanza sollecitatoria dell’esercizio dell’autotutela». 2.– Prima di esaminare le questioni sollevate dal giudice a quo, è opportuno soffermarsi brevemente sull’istituto dell’autotutela tributaria, oggetto del presente giudizio. L’annullamento d’ufficio degli atti dell’amministrazione finanziaria ha trovato il suo primo fondamento legislativo generale espresso nell’art. 68, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1992, n. 287 (Regolamento degli uffici e del personale del Ministero delle finanze). A questa disposizione hanno fatto seguito il censurato art. 2-quater del d.l. n. 564 del 1994, che detta, fra le altre, regole sull’individuazione degli organi competenti all’autotutela, sulla definizione dei criteri per il suo esercizio (commi 1, 1-bis e 1-ter) e sulle ipotesi di annullamento o revoca parziali (commi 1-sexies, 1-septies e 1-octies), e il decreto ministeriale 11 febbraio 1997, n. 37 (Regolamento recante norme relative all’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell’Amministrazione finanziaria). Ulteriori disposizioni concernenti l’autotutela sono dettate dalla legge 27 luglio 2000, n. 212, recante «Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente» (d’ora in avanti: statuto del contribuente), che, all’art. 7, comma 2, lettera b), prescrive che, negli atti dell’amministrazione finanziaria, sia indicata l’autorità presso la quale è possibile promuovere la loro revisione in sede di autotutela, e che, all’art. 13, comma 6, affida al Garante del contribuente il compito di attivare le procedure di autotutela nei confronti degli atti di accertamento e di riscossione notificati al contribuente.
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Nella disciplina legislativa e regolamentare dell’autotutela tributaria è previsto, in particolare, che l’amministrazione finanziaria può annullare d’ufficio i propri atti illegittimi o infondati anche in pendenza di giudizio e anche se si tratta di atti non impugnabili (art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994), e che, in caso di «grave inerzia» dell’ufficio che ha adottato l’atto illegittimo, può intervenire «in via sostitutiva la Direzione regionale o compartimentale dalla quale l’ufficio stesso dipende» (art. 1 del d.m. n. 37 del 1997). Il citato regolamento del 1997 individua inoltre espressamente alcuni casi in cui l’amministrazione finanziaria può procedere all’annullamento d’ufficio «senza necessità di istanza di parte» (art. 2) e dispone che nell’esercizio dell’autotutela «è data priorità alle fattispecie di rilevante interesse generale e, fra queste ultime, a quelle per le quali sia in atto o vi sia il rischio di un vasto contenzioso» (art. 3). L’autotutela tributaria conosce dunque una disciplina articolata e specifica, distinta da quella dell’autotutela amministrativa generale, la quale, si può ricordare, benché oggetto di una lunga e risalente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, è stata prevista legislativamente solo nel 2005 (ad opera della legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa»), con l’introduzione dell’art. 21-nonies nella legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi). In ogni caso, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, l’autotutela tributaria – che non si discosta, in questo essenziale aspetto, dall’autotutela nel diritto amministrativo generale – costituisce un potere esercitabile d’ufficio da parte delle Agenzie fiscali sulla base di valutazioni largamente discrezionali, e non uno strumento di protezione del contribuente (ex multis, Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 15 aprile 2016, n. 7511; Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 20 novembre 2015, n. 23765; Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 12 novembre 2014, n. 24058; Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 30 giugno 2010, n. 15451; Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 12 maggio 2010, n. 11457; Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 9 luglio 2009, n. 16097; Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 marzo 2007, n. 7388; Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 5 febbraio 2002, n. 1547; Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 4 ottobre 1996, n. 8685). Il privato può naturalmente sollecitarne l’esercizio, segnalando l’illegittimità degli atti impositivi, ma la segnalazione non trasforma il procedimento officioso e discrezionale in un procedimento ad istanza di parte da concludere con un provvedimento espresso. Sul carattere non doveroso dell’autotutela tributaria, la ricostruzione della giurisprudenza della Cassazione fornita dal rimettente è dunque corretta: non esiste un dovere dell’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela e, mancando tale dovere, il silenzio su di essa non equivale ad inadempimento, né, d’altro canto, il silenzio stesso può essere considerato un diniego, in assenza di una norma specifica che
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così lo qualifichi giuridicamente (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 marzo 2007, n. 7388; Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 9 ottobre 2000, n. 13412), con la conseguenza che il silenzio dell’amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela non è contestabile davanti ad alcun giudice. Si tratta allora di verificare se tale situazione determini un «vuoto di tutela» costituzionalmente illegittimo, come lamentato dal giudice a quo. 3.– Come visto, il rimettente censura l’art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994 e l’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, perché consentono all’amministrazione di mantenere in vita atti impositivi «palesemente illegittimi», che portano a essa «un profitto sostanzialmente ingiustificato e del tutto svincolato dalla capacità contributiva del contribuente», e di «rimanere inerte sull’istanza» di autotutela in ipotesi presentata dal destinatario interessato, con la conseguenza che per quest’ultimo è impossibile contestare il silenzio. Le censure si fondano sull’idea che l’autotutela costituisca un rimedio di carattere sostanzialmente giustiziale, in quanto tale idoneo a formare oggetto di una pretesa azionabile in sede giurisdizionale, e hanno l’obiettivo di renderne la disciplina coerente con tale funzione, operando una “mutazione genetica” dell’annullamento d’ufficio, da strumento di rivalutazione da parte dell’amministrazione delle proprie decisioni, a strumento di protezione delle aspettative del privato, in modo non dissimile da quanto avviene nel caso dell’annullamento su ricorso. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, l’annullamento d’ufficio non ha funzione giustiziale, costituisce espressione di amministrazione attiva e comporta di regola valutazioni discrezionali, non esaurendosi il potere dell’autorità che lo adotta unicamente nella verifica della legittimità dell’atto e nel suo doveroso annullamento se ne riscontra l’illegittimità. Certamente, l’apprezzamento discrezionale operato in sede di autotutela tributaria presenta tratti particolari per la forza che assume, nel suo contesto, l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi. L’annullamento d’ufficio di atti inoppugnabili per vizi “sostanziali”, cioè che hanno condotto l’amministrazione a percepire somme non dovute, tende infatti a soddisfare ipso jure l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi, che si può considerare una sintesi tra l’interesse fiscale dello Statocomunità e il principio della capacità contributiva, tutelati dall’art. 53, primo comma, Cost. Queste peculiarità contribuiscono a spiegare anche taluni aspetti della disciplina positiva dell’autotutela tributaria, come ad esempio il compito assegnato al Garante del contribuente di attivare le procedure di autotutela nei confronti degli atti di accertamento e di riscossione notificati al contribuente (art. 13, comma 6, dello Statuto del contribuente) o la possibilità di intervento in via sostitutiva della Direzione regionale o compartimentale in caso di «grave inerzia» dell’ufficio che ha adottato l’atto illegittimo (art. 1 del d.m. n. 37 del 1997). Anche in un contesto così caratterizzato, tuttavia, nel quale l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto acquista specifica valenza e tende in una certa misura a con-
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vergere con quello del contribuente, non va trascurato il fatto che altri interessi possono e devono concorrere nella valutazione amministrativa, e fra essi certamente quello alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico, inevitabilmente compromessa dall’annullamento di un atto inoppugnabile. Tale interesse richiede di essere bilanciato con gli interessi descritti – e con altri eventualmente emergenti nella vicenda concreta sulla quale l’amministrazione tributaria è chiamata a provvedere – secondo il meccanismo proprio della valutazione comparativa. Sicché si conferma in ogni caso, anche in ambito tributario, la natura pienamente discrezionale dell’annullamento d’ufficio. Questa configurazione dell’autotutela tributaria emerge del resto chiaramente dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che afferma il carattere discrezionale dell’autoannullamento tributario e, come visto, sottolinea che esso «non costituisce un mezzo di tutela del contribuente» (Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 20 febbraio 2015, n. 3442, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 24 maggio 2013, n. 12930, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 29 dicembre 2010, n. 26313; Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 30 giugno 2010, n. 15451, Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 12 maggio 2010, n. 11457, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 9 luglio 2009, n. 16097). 4.– Passando all’esame dei parametri invocati dal rimettente, la questione relativa agli artt. 3, 23 e 53 Cost. non è fondata. Il giudice a quo censura la possibilità per l’amministrazione di respingere “silenziosamente” l’istanza di autotutela e afferma l’irragionevolezza del bilanciamento – realizzato dal legislatore – tra interesse fiscale dello Stato e capacità contributiva. Prescindendo dalla questione dei limiti di applicabilità, in questa sede, del principio di capacità contributiva, occorre osservare che, nel valutare la ragionevolezza della disciplina legislativa dell’autotutela tributaria, il rimettente non considera l’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici. Se questa Corte affermasse il dovere dell’amministrazione tributaria di pronunciarsi sull’istanza di autotutela, aprirebbe la porta (ammettendo l’esperibilità dell’azione contro il silenzio, con la conseguente affermazione del dovere dell’amministrazione di provvedere e l’eventuale impugnabilità dell’esito del procedimento che ne deriva) alla possibile messa in discussione dell’obbligo tributario consolidato a seguito dell’atto impositivo definitivo. L’autotutela finirebbe quindi per offrire una generalizzata “seconda possibilità” di tutela, dopo la scadenza dei termini per il ricorso contro lo stesso atto impositivo. Affermare il dovere dell’amministrazione di rispondere all’istanza di autotutela significherebbe, in altri termini, creare una nuova situazione giuridicamente protetta del contribuente, per giunta azionabile sine die dall’interessato, il quale potrebbe riattivare in ogni momento il circuito giurisdizionale, superando il principio della definitività del provvedimento amministrativo e della correlata stabilità della regolazione del rapporto che ne costituisce oggetto. Sulla scia della tradizionale configurazione dell’autotutela amministrativa, le norme censurate – e più in generale la disciplina legislativa dell’annullamento d’ufficio
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tributario – operano dunque un bilanciamento non irragionevole tra l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi e l’interesse alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico (su cui recentemente sentenza n. 94 del 2017), che sarebbe inevitabilmente sacrificato da una scelta legislativa che imponesse all’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela del contribuente. Di fronte a una tale istanza, alle agenzie fiscali è invece consentito di valutare se attivarsi o meno, senza che la loro eventuale scelta di non provvedere possa essere oggetto di contestazione giurisdizionale da parte dell’istante, non essendo in tale caso il loro potere di provvedere in autotutela diverso da quello esercitabile in ipotesi spontaneamente. La non irragionevolezza della disciplina esaminata non comporta che siano precluse al legislatore altre possibili scelte. Questa Corte ha già osservato che, «in via di principio, il momento discrezionale del potere della pubblica amministrazione di annullare i propri provvedimenti non gode in sé di una copertura costituzionale» (sentenza n. 75 del 2000). La previsione legislativa di casi di autotutela obbligatoria è dunque possibile, così come l’introduzione di limiti all’esercizio del potere di autoannullamento, ma non può certo dirsi costituzionalmente illegittima, per le ragioni sopra viste, una disciplina generale che escluda il dovere dell’amministrazione e, per quanto qui interessa, delle Agenzie fiscali di pronunciarsi sulle istanze di autotutela. 4.1.– Ugualmente non fondata è la censura relativa all’art. 97 Cost. Dalla giusta considerazione che la disciplina legislativa del potere di annullamento d’ufficio degli atti divenuti inoppugnabili si fonda (anche) sull’art. 97, secondo comma, Cost., non è corretto inferire la necessità costituzionale della previsione legislativa di un dovere dell’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela, come prospetta il giudice a quo. Al contrario, proprio nel principio di buon andamento espresso nella norma costituzionale citata si radica il vincolo per il legislatore di tenere conto, nella disciplina dell’annullamento d’ufficio, anche dell’interesse pubblico alla stabilità dei rapporti giuridici già definiti dall’amministrazione, con la conseguenza che non irragionevolmente il legislatore stesso ha ritenuto di non prevedere che su eventuali istanze di autotutela l’amministrazione debba necessariamente pronunciarsi. 4.2.– La questione relativa agli artt. 24 e 113 Cost. è strettamente collegata a quelle appena esaminate. Dal momento che l’assenza del dovere di provvedere non è sotto altri profili costituzionalmente illegittima, e non sussiste dunque un interesse giuridicamente protetto a ottenere una decisione amministrativa espressa sull’istanza di autotutela, è escluso che vi sia un «vuoto di tutela». Fermo restando, infatti, che contro il provvedimento dell’amministrazione finanziaria oggetto della richiesta di annullamento d’ufficio l’interessato dispone degli ordinari rimedi di protezione giurisdizionale dei suoi diritti e interessi legittimi, la disciplina legislativa del potere di autotutela tributaria, nella parte in cui non prevede un obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi sulle istanze di annullamento presentate dal contribuente, non lede la garanzia costituzionale del diritto al giudice.
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P.Q.M. La Corte costituzionale dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-quater, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell’art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti, in riferimento agli articoli 3, 23, 24, 53, 97 e 113 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe. [Omissis]
(1) In tema di non impugnabilità dei dinieghi di autotutela e di responsabilità civile del fisco. Muovendo dalla sentenza che si pubblica, l’autore passa velocemente in rassegna gli attuali orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’Amministrazione Finanziaria per colposa o dolosa emissione di provvedimenti tributari palesemente illegittimi ed ingiusti. Ad avviso dell’Autore, nei confronti di tali provvedimenti, anche quando divenuti definitivi per mancata impugnazione nei termini di legge, dovrebbe ritenersi sempre esperibile l’azione risarcitoria ex art. 2043 del codice civile, per violazione dell’obbligo di correttezza e secondo le ordinarie regole civilistiche. Moving from the sentence that is published, the author quickly reviews the current jurisprudential guidelines on the civil liability of the Tax Administration for culpable or fraudulent issue of administrative provisions, clearly illegitimate and unjust. In the opinion of the author, in connection with these measures, even when they become definitive for non-appeal within the terms of the law, it is always possible the action for damages ex art. 2043 of the civil code, for violation of the obligation of correctness and according to ordinary civil law.
1. I primi commenti alla sentenza della Corte Costituzionale che si pubblica sono stati caratterizzati da dubbi e riserve di vario ordine, più che da convinte adesioni o incisive contestazioni (1); e può ragionevolmente prevedersi che, anche in considerazione della valenza lato sensu interpretativa di questa
(1) Cfr, in particolare, G. Fransoni, Il diniego (tacito o espresso) di autotutela non può essere impugnato, in Riv. Dir. Trib. (versione online) 18 luglio 2017; A. Marcheselli - L. Costanzo, L’autotutela tributaria tra buona fede e trasparenza amministrativa, in Corr. Trib., 2017, 3447 ss.; G. Glendi, È davvero legittima e insindacabile l’omessa risposta dell’Ammi-
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pronuncia di rigetto, i giudici tributari continueranno a navigare nell’incertezza nella gestione delle controversie determinate da dinieghi di accoglimento (espressi o taciti), da parte degli Uffici, delle istanze di annullamento in autotutela proposte dai contribuenti. Penso tuttavia che questa autorevole decisione offra anche spunti di riflessione che potrebbero far muovere primi passi verso più persuasive soluzioni di un dibattito che rimane ancora aperto; e prenderei a tal fine le mosse dal rilievo dell’esistenza, nella sua motivazione, di due distinti ordini di considerazioni; i quali meritano, entrambi, specifica attenzione. Il primo (e certamente avente maggior rilievo nella complessiva motivazione della sentenza) è da ravvisare nella diffusa esposizione delle ragioni per le quali deve escludersi che le disposizioni tributarie sull’autotutela amministrativa abbiano aperto la strada alla possibilità di impugnative giurisdizionali dei dinieghi di accoglimento delle istanze di annullamento presentate dai contribuenti. Per le considerazioni che già da tempo ho avuto occasione di svolgere (2), penso che su questa negazione debba pienamente convenirsi; e, a tal proposito, ribadirei qui soltanto che la nozione della “discrezionalità” deve ritenersi dalla Corte evocata in maniera sostanzialmente atecnica, perché il “bilanciamento” – che sta sempre a monte dell’esercizio dello jus poenitendi da parte della P.A. – in questi casi investe soltanto interessi egualmente pubblici; a fronte dei quali nel contribuente sono profilabili interessi di mero fatto; che poi sono di per se stessi, proprio perché tali, insuscettibili di qualsivoglia tutela giurisdizionale. Il secondo ordine di riflessioni (sul quale intendo qui soffermarmi) muove invece dal rilievo che, per un verso, la questione di costituzionalità sollevata dal giudice rimettente era sorta in un caso in cui l’istanza di annullamento d’ufficio aveva avuto ad oggetto un atto impositivo “palesemente illegittimo” (e non è stata dalla Corte negata la rilevanza della questione di costituzionalità sottoposta al suo esame), e che, per altro verso, la sentenza si conclude con la seguente importante puntualizzazione: “Fermo restando che contro il provvedimento oggetto della richiesta di annullamento d’ufficio l’interessato
nistrazione finanziaria all’istanza di aututela?, in GT – Riv. Giur. Trib., 2017, p. 853 ss.; P. Piantavigna, Disorientamenti della Corte Costituzionale in materia di autotutela tributaria, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 2017, II, 96 ss. (2) Cfr. S. La Rosa, Autotutela e annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari, in Riv. Dir. Trib., 1998, I, 1131 ss., ed anche in Scritti scelti, vol. II, Torino, 2011, 711 ss.
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dispone degli ordinari rimedi di protezione giurisdizionale dei suoi diritti e interessi legittimi, la disciplina del potere di autotutela tributaria, nella parte in cui non prevede un obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi sulle istanze di annullamento presentate dal contribuente, non lede la garanzia costituzionale del diritto al giudice”. In sintesi, può dirsi che sia stato fermamente censurato l’assunto (che stava alla base dei sollevati dubbi di incostituzionalità) secondo il quale l’autotutela tributaria costituirebbe “…un rimedio di carattere sostanzialmente giustiziale, in quanto tale idoneo a formare oggetto di una pretesa azionabile in sede giurisdizionale…”; ma non anche esclusa la possibile esistenza – anche a fronte di provvedimenti tributari inoppugnabili – di diritti ed interessi legittimi dei contribuenti suscettibili di tutela attraverso gli “ordinari rimedi di protezione giurisdizionale”; e, se si considera che le situazioni di “macroscopica ingiustizia” e “palese illegittimità” degli atti impositivi (alle quali soltanto, peraltro, la dottrina ha sempre riferito l’impugnabilità dei dinieghi di autotutela tributaria (3)) sono normalmente frutto di azioni amministrative lesive del neminem laedere, il pensiero naturalmente va a quelle tutele risarcitorie che anche al contribuente debbono riconoscersi, ex art. 2043 cod. civ., quando nei comportamenti degli Uffici finanziari ricorrono gli estremi (oggettivi e soggettivi) dell’illecito aquiliano. Guardando retrospettivamente, possono forse ravvisarsi – nel persistente convincimento dell’autonoma impugnabilità dei dinieghi di annullamento d’ufficio – non lievi analogie con le forzature che nei decenni antecedenti la riforma tributaria degli anni settanta caratterizzarono i tentativi di rimediare alle più gravi anomalie degli accertamenti tributari inoppugnabili attraverso, ad esempio, improprie evocazioni del paradigma della carenza assoluta del potere impositivo (4), ovvero l’affermazione della nullità radicale degli accertamenti di maggior valore (ai fini dell’imposta di registro) – a fronte di disposizioni che in quel tempo non prevedevano l’obbligo di motivazione di
(3) Per tutti, cfr. D. Stevanato, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria, Padova, 1996, part. 137 ss. (4) Per ampi riferimenti su questo orientamento giurisprudenziale (che in realtà riguardò sempre e soltanto il campo dei tributi locali), cfr. P. Russo, Diritto e processo nella teoria dell’obbligazione tributaria, Milano, 1969, 42, ss., ove si conclude che “…La verità è forse che l’orientamento giurisprudenziale in questione è giustificabile non tanto da una punto di vista giuridico, quanto dal temperamento, in via equitativa, del rigore formale che contrassegna il contenzioso tributario…” (ivi, p. 52, nota 78).
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tali atti – quando del tutto ingiustificati e meramente “cautelativi”; e, come in passato quegli equitativi orientamenti giurisprudenziali hanno poi gradualmente ceduto il campo a soluzioni normative e giurisprudenziali tecnicamente più ortodosse e maggiormente affidabili, così appare adesso auspicabile che venga raccolto l’implicito invito emergente da questa sentenza a mettere meglio a fuoco le tutele esperibili a fronte di atti “palesemente illegittimi”, e purtuttavia divenuti inoppugnabili. Ponendomi in questa prospettiva, svolgerei quindi alcune veloci notazioni di prima battuta, sulle principali questioni sostanziali e processuali che in essa meriterebbero specifica attenzione. 2. Sul versante del diritto sostanziale, è superfluo ricordare, anzitutto, la basilare necessità di non confondere il piano dei riscontri della legittimità – illegittimità (degli atti amministrativi) con quelli invece riguardanti la liceità – illiceità (della condotta che in essi si concretizza), ai fini della responsabilità aquiliana della P.A. ex art. 2043 cod. civ. Nel primo ordine di situazioni viene invero in gioco il rispetto delle regole dell’azione amministrativa, nonché degli effetti giuridici prodotti dagli atti che ne costituiscono applicazione; non è possibile operare distinzioni, in questo campo, tra vizi (degli “atti”) più o meno “palesi” e “macroscopici”; ed essi debbono sempre essere contestati in ristretti termini decadenziali avanti i giudici tributari. Nel secondo, rileva invece il generale obbligo di correttezza incombente anche sulla P.A., nonché quello di indennizzare i danni ingiusti eventualmente arrecati ai contribuenti mediante comportamenti dolosi o colposi; la condotta amministrativa (che in tali casi potrebbe definirsi “abusiva” invece che soltanto “illegittima”) rileva quindi come mero “fatto giuridico” produttivo (ex lege) dell’obbligo risarcitorio; l’azione risarcitoria può essere avviata in un termine (prescrizionale e quinquennale) molto più ampio di quello riservato ai meri vizi di legittimità (in fatto o in diritto); e le relative controversie sono normalmente devolute alla cognizione del giudice ordinario, in quanto attinenti alla salvaguardia dell’integrità patrimoniale del cittadino, invece che finalizzate alla garanzia dell’osservanza delle disposizioni tributarie. Per meglio evidenziare il senso e la rilevanza della necessaria distinzione tra le situazioni di illegittimità (degli atti) e di illiceità (delle condotte), può pragmaticamente formularsi un esempio (soltanto di scuola, e volutamente paradossale) di queste non eccezionali vicende: A) ad un contribuente viene notificato un avviso di accertamento; esso vie-
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ne tempestivamente impugnato; ed il relativo contenzioso si conclude con una sentenza di merito, passata in giudicato, di totale accoglimento del ricorso; B) colposamente misconoscendo gli effetti di tale sentenza, l’Ufficio iscrive comunque a ruolo l’intero ammontare delle imposte originariamente accertate, maggiorate delle relative sanzioni ed interessi; ed al contribuente viene notificata la relativa cartella di pagamento; C) quest’ultimo, confidando nell’annullamento d’ufficio di tale atto, non lo impugna, o lo impugna tardivamente, o malamente, rendendolo comunque inoppugnabile. In una situazione del genere, potrebbe dirsi che l’inoppugnabilità della cartella di pagamento di per sé “legittimi” la successiva riscossione coattiva degli importi iscritti a ruolo; ma indubbio dovrebbe ritenersi anche che l’inosservanza degli effetti del giudicato di merito, sulla non doverosità del tributo originariamente accertato, rende illecita tale “condotta”, esponendo l’Amministrazione, ex art. 2043 cod. civ. (ed almeno prima facie), al risarcimento dei danni arrecati al contribuente, in quanto (per giurisprudenza pacifica) l’omessa impugnazione del provvedimento lesivo non spezza il nesso causale tra l’illecito ed il danno che da esso può discenderne (5). Naturalmente, nella concretezza dei conflitti tra contribuenti ed Uffici finanziari non sempre può facilmente stabilirsi una netta linea di confine tra le mere illegittimità degli atti e le vere e proprie illiceità delle condotte; nulla vieta al contribuente di far valere (6) come vizi di legittimità degli atti anche irregolarità che potrebbero legittimare azioni risarcitorie; e, quando ciò non è avvenuto (per qualsivoglia motivo), le azioni finalizzate al risarcimento dei pregiudizi da illecito aquiliano tributario presentano le peculiarità del muovere da eventi lesivi fiscali e dell’avere finalità oggettivamente extratributarie; poiché il tributo ingiustamente preteso può in tali casi divenire componente (in tutto o in parte) di un danno risarcibile.
(5) Sul punto, cfr., per tutte, Cass. SS. UU. N. 8685/1996, in Rass. Trib., 1997, p. 1589 ss. (ed ivi C. Nocerino, Riflessioni in merito alla possibile esistenza di un concreto ed attuale interesse pubblico alla rimozione degli atti illegittimi.), ove si esclude che la mancata impugnazione di una sentenza della Commissione tributaria sfavorevole al contribuente valga ad escludere il nesso causale tra l’illecito civile e l’evento dannoso, in quanto tale esclusione ricorre solo nei casi di inosservanza di un obbligo giuridico, mentre “…l’esercizio del diritto di impugnazione – espressione di non vincolante strategia processuale e in definitiva della stessa libertà della parte nel processo – non appare comunque riconducibile alla nozione di ‘obbligo giuridico’ di impedire l’evento dannoso…”. (6) …Come, peraltro, normalmente avviene.
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Tutto ciò premesso, e con specifico riferimento al versante del diritto sostanziale, i profili disciplinari e le questioni che in prima battuta appaiono meritevoli di maggiore attenzione sembrano essere del seguente quadruplice ordine. 1°) Il fatto che l’Ufficio non sia tenuto a rispondere all’istanza di annullamento d’ufficio di atti inoppugnabili, e la non impugnabilità dell’eventuale risposta negativa, non implicano assoluta irrilevanza giuridica di tale istanza. Invero (e particolarmente nei casi in cui contiene formale riserva di agire in giudizio ex art. 2043 cod. civ), ad essa dovrebbero comunque riconoscersi effetti interruttivi (ex art. 2943 cod. civ.) del termine prescrizionale quinquennale entro il quale l’azione risarcitoria può poi proporsi. 2°) Dal punto di vista sostanziale, ritengo poi che (come già anticipato), quando gli Uffici pervengono al prelievo dei tributi mediante condotte lesive del neminem laedere ex art. 2043 cod. civ., la ricchezza in forza di esse prelevabile perda per ciò stesso i connotati del tributo ed assuma quelli del danno ingiusto risarcibile, in maniera non diversa da ogni altro pregiudizio economico arrecato al cittadino come conseguenza delle condotte medesime. Non si vede, invero, in forza di quale argomento potrebbero operarsi valide distinzioni tra le conseguenze economico-giuridiche egualmente prodotte dall’illecito aquiliano tributario. Ed è da escludere che la responsabilità aquiliana degli Uffici finanziari (ove ne ricorrano i presupposti) possa essere negata sulla base di considerazioni attinenti alla mancata impugnazione degli atti, o alla natura pubblicistica dell’interesse perseguito dall’Ufficio, ovvero ancora all’assenza di colpa o dolo nel funzionario che ha materialmente posto in essere l’evento lesivo, essendo quella della P.A. una responsabilità “di apparato”. In concreto, e per non restare troppo nel vago sulle implicazioni delle precedenti notazioni, richiamerei a questo punto l’attenzione sulle peculiarità del caso sfociato nella datata e già ricordata sentenza della Cassazione a Sezioni Unite N. 8685/1996 (7). In esso, la controversia aveva preso le mosse dal fatto che (per quanto risulta dalla suddetta sentenza) ad un contribuente – che aveva già definito per condono le sue pendenze fiscali per gli anni 1969/1973 – erano stati notificati, presso un domicilio errato, per le stesse annualità e per gli stessi tributi, degli avvisi di accertamento; i quali erano stati congiuntamente impugnati (ma con
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…che risulta così massimata in Mass. Giur. It., 1996: “La mera richiesta, anche
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esito negativo, per tardività del ricorso introduttivo), avanti le Commissioni tributarie sia di primo che di secondo grado. A questo punto (e, sembra, a seguito anche dell’iscrizione a ruolo delle imposte accertate), il contribuente aveva instaurato una azione risarcitoria ex art. 2043 cod. civ., avanti il Giudice Ordinario; la quale veniva rigettata sia dal Tribunale che dalla Corte d’Appello, e infine anche dalla Corte di Cassazione; nella cui finale pronuncia, senza nulla dirsi sulla circostanza costituita dall’antecedente definizione per condono delle pendenze, è stata negata l’esistenza dell’essenziale profilo psicologico dell’illecito aquiliano nella mera richiesta coattiva del pagamento delle imposte accertate, in quanto la mancata impugnazione della sentenza della Commissione di secondo grado aveva “… determinato il formarsi della cosa giudicata nel processo tributario, vale a dire l’irretrattabile accertamento dell’obbligo del contribuente, anche se si fosse verificata, prima del giudicato, una causa estintiva…”. In questo finale esito (e sempre per quel che dalla sentenza risulta), può dirsi evidente la confusione e sovrapposizione dei piani del discorso distintamente riguardanti il controllo giurisdizionale della legittimità degli atti amministrativi da un lato, e la tutela risarcitoria da illecito aquiliano ex art. 2043 cod. civ. dall’altro. Invero, la domanda risarcitoria del contribuente avrebbe richiesto che si verificasse la correttezza della condotta dell’Ufficio nella fase dell’iniziale elaborazione e notificazione degli avvisi di accertamento. Alle vicende procedimentali e processualtributarie avrebbe dovuto guardarsi in via soltanto incidentale e per valutarne l’incidenza sulla denunciata esistenza di un illecito aquiliano e di un danno risarcibile. Difficilmente avrebbe potuto negarsi l’esistenza degli estremi di una condotta quanto meno colposa nella contestuale emissione di una pluralità di accertamenti, per diversi tributi e molteplici an-
coattiva, di un tributo già in precedenza assolto, fondata su un atto di accertamento divenuto irretrattabile in conseguenza del passaggio in giudicato della decisione del giudice tributario, che ha respinto il ricorso del contribuente, non integra gli estremi dell’illecito aquiliano. Infatti, l’esistenza del giudicato rende del tutto non configurabile l’illecito sotto il profilo colposo, apparendo non rimproverabile la richiesta di un tributo il cui accertamento, anche se per avventura ingiusto, sia divenuto irretrattabile, mentre per integrare tale illecito sotto il profilo doloso il comportamento dei funzionari dell’amministrazione finanziaria non potrebbe esaurirsi nella mera richiesta del tributo, perché ciò troverebbe avallo nel giudicato inter partes, ma dovrebbe articolarsi in un più grave e complesso contesto operativo che ricomprenda la originaria emissione in mala fede dell’avviso di accertamento e si estenda all’uso altrettanto in mala fede del processo e del suo risultato, integrando un vero e proprio programma persecutorio”.
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nualità, senza che dall’Ufficio fosse stato preliminarmente verificato se le relative pendenze erano già state definite in qualsivoglia modo. E tali questioni sono invece rimaste del tutto eluse nel momento in cui la controversia è stata impropriamente decisa sulla base di argomenti praticamente costituiti soltanto dall’insussistenza dell’elemento psicologico dell’illecito aquiliano negli atti con i quali era stata avviata la riscossione coattiva dei tributi. In pratica, il limite della suddetta vicenda processualtributaria sta quindi nell’essersi prestata attenzione soltanto alla legittimità-illegittimità formale degli atti, in una controversia che postulava invece la verifica della liceitàilliceità sostanziale della condotta dell’Ufficio. 3°) Quanto alle generali problematiche – relative alla sussistenza, nell’operato degli Uffici, degli essenziali profili del dolo o della colpa, del rapporto di causalità tra evento e danno, dell’ingiustizia di quest’ultimo, nonché delle attenuanti derivanti da possibili “concorsi di colpa” del contribuente nella genesi dell’evento lesivo (8) – esse dovrebbero essere affrontate e risolte sulla base dei principi e delle regole normalmente applicate agli illeciti aquiliani della P.A. Con specifico riferimento agli accertamenti tributari, direi che, in linea di massima, gli estremi del dolo o della colpa dovrebbero ritenersi sempre ricorrenti nei casi di “palese illegittimità” e “macroscopica ingiustizia” del loro contenuto; che dovrebbe comunque escludersi che l’illecito aquiliano tributario postuli l’esistenza di veri e propri “programmi persecutori” nei confronti del contribuente; e che l’evento lesivo si concretizza nel momento in cui vengono al contribuente notificati provvedimenti impositivi siffatti, indipendentemente dal pagamento degli importi richiesti; il quale può poi ovviamente rilevare nel momento in cui si passa alla quantificazione del danno risarcibile. 4°) Le azioni risarcitorie ex art. 2043 c.c., infine (anche quando economicamente volte al mero recupero di importi già pagati), non possono essere confuse con le liti tributarie di rimborso, né a queste ultime accomunate dal punto di vista disciplinare. Tutto ciò, non soltanto perché esperibili soltanto in presenza di condotte amministrative colpose o dolose, ma anche perché aventi un’area di operatività estesa alle lesioni di interessi legittimi (si pensi ai casi di colposo rigetto
(8) …come potrebbe tipicamente dirsi per il caso in la condotta amministrativa sia stata determinata da inosservanze, da parte del contribuente, di obblighi dichiarativi relativi a mutamenti intervenuti nel domicilio fiscale, ecc.
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di istanze di dilazione, o di colpose revoche di rateazioni concesse), ed i loro referenti fattuali nelle attività amministrative gravemente scorrette, invece che nel pagamento di un tributo oggettivamente non dovuto, ovvero nel fatto in sé del rigetto delle istanze di annullamento d’ufficio. Deve quindi escludersi la riferibilità, a queste controversie, dei termini decadenziali, degli adempimenti procedimentali e delle regole processuali concernenti le liti tributarie di rimborso. 3. Sul versante propriamente processuale, hanno preminente rilievo le problematiche relative al riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice tributario in materia di azioni risarcitorie per comportamenti dolosi o colposi del Fisco; e la casistica emergente dalla giurisprudenza della Cassazione, non poco eterogenea, sembra in prima battuta inquadrabile nel seguente quadruplice ordine di questioni controverse. 1°) Non poco numerose sono, anzitutto, le pronunce su controversie (prevalentemente affrontate, in prima battuta, da giudici di pace) relative ad indennizzi dovuti dal Fisco per i pregiudizi (normalmente costituiti da compensi a terzi per assistenza professionale) subiti dal contribuente in fase precontenziosa, al fine del conseguimento di sgravi o annullamenti in autotutela degli atti impositivi (9). Per queste controversie (alle quali rimane estraneo ogni comportamento autoritativo della P.A.), è stata costantemente affermata la giurisdizione del giudice ordinario; ed alle relative pronunce potrebbe proficuamente guardarsi sia per cogliere le peculiarità degli eventi annoverabili nell’area degli illeciti aquiliani tributari, sia perché evidenziano come l’eventuale accoglimento delle istanze di annullamento d’ufficio non fa venir meno gli obblighi risarcitori dei pregiudizi comunque arrecati ai contribuenti (10). 2°) Del tutto eccezionali sono invece le sentenze su azioni risarcitorie (ex art. 2043 cod. civ.) per condotte illecite nell’esercizio dei poteri relativi all’emissione e notificazione di provvedimenti impositivi (avvisi di accertamento ed iscrizioni a ruolo); e può ragionevolmente spiegarsi questa anomalia con il
(9) Cfr., in particolare, Cass. n. 6283/2012; Cass. n. 5120/2011; Cass. n. 21963/2011; Cass. n. 698/2010; Cass. n. 4055/2007; Cass. SS.UU. n. 15/2007; Cass. n. 13801/2004. (10) Per un esempio emblematico di entrambi i suddetti profili, cfr. Cass. SS.UU. n. 15/2007, concernente una azione risarcitoria instaurata dopo che il contribuente aveva ottenuto l’annullamento d’ufficio dell’iscrizione a ruolo di una tassa automobilistica, che era stata in realtà regolarmente pagata.
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fatto che tali irregolarità vengono normalmente fatte valere come vizi di illegittimità dei provvedimenti impugnati avanti il giudice tributario; ovvero (e nei casi di omessa o tardiva impugnazione) con istanze di annullamento d’ufficio in autotutela (dalla almeno dubbia proficuità), e successive impugnazioni (avanti il giudice tributario) dei dinieghi (espressi o taciti) di accoglimento delle medesime. Di queste eccezionali controversie (ed a parte il già ricordato caso deciso da Cass. n. 8685/1996), meritevole di particolare attenzione è comunque quello concernente una azione di risarcimento danni direttamente proposta avanti il giudice ordinario, avverso una iscrizione a ruolo di rilevantissimo ammontare, che era stata dall’Ufficio effettuata (immediatamente dopo il deposito di una sentenza penale definitiva pienamente assolutoria del contribuente dai contestati reati fiscali) per il mero fatto del non avere il contribuente coltivato sino in fondo il contenzioso instaurato avverso il provvedimento impositivo (11). Nel caso suddetto, non si è dai giudici dubitato (giustamente) dell’ammissibilità della proposizione (formalmente anomala) di un ricorso contro ruolo avanti il giudice ordinario, invece che tributario; e la Cassazione ha riconosciuto la fondatezza dell’azione risarcitoria proposta dal contribuente, puntualizzando che “…la pronuncia assolutoria in sede penale aveva eliminato in radice il relativo potere impositivo dell’amministrazione, facendo venire meno il presupposto dell’obbligo tributario; donde l’inapplicabilità del meccanismo tributario di opposizione all’ingiunzione e del relativo termine di decadenza. Al contrario, l’iscrizione a ruolo del tributo dopo l’assoluzione in sede in sede penale del M. costituisce atto illegittimo, fonte di responsabilità dell’amministrazione ricorrente, per effetto della mancata osservanza, da parte della stessa, dell’obbligo dell’amministrazione di conformarsi al giudicato penale…” ecc. È stato, quindi, decisamente escluso che l’inoppugnabilità del provvedimento amministrativo rendesse inammissibile l’azione risarcitoria per illecito aquiliano. 3°) Una terza tipologia di sentenze può poi dirsi costituita da quelle concernenti azioni giudiziarie di condanna e risarcimento danni causate da misure cautelari (iscrizioni ipotecarie e fermo amministrativo dei veicoli) adottate
(11) Cfr. Cass. n. 1191/2003.
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dagli Agenti della riscossione in assenza dei relativi presupposti di legge (12). In tali casi, non risulta che siano mai stati fatti discorsi di inoppugnabilità dei provvedimenti per omessa o tardiva impugnazione dei medesimi avanti il giudice tributario; e la problematica relativa al riparto della giurisdizione è stata dalla Cassazione reiteratamente risolta affermando la giurisdizione del giudice tributario quando, e per la parte in cui, è stato chiesto l’annullamento delle misure cautelari suddette, e quella del giudice ordinario, invece, per la parte relativa all’accertamento e quantificazione dei danni che possono esserne derivati sui soggetti interessati. In tal senso si è argomentato dalla natura di causa pregiudiziale che dovrebbe riconoscersi alla domanda di annullamento dei provvedimenti cautelari suddetti, e dall’essere riservata al giudice tributario la pronuncia sulla loro validità; ma con non pochi dubbi sull’effettiva configurabilità di un siffatto nesso di pregiudizialità con una controversia che potrebbe ancora non esistere, e sulla proficuità comunque della così operata scissione tra l’ipotetica controversia sulla validità del provvedimento lesivo e quella sui fatti legittimanti l’istanza risarcitoria. 4°) Per completezza del quadro di riferimento, merita infine di essere ricordato che, con specifico riferimento al risarcimento danni per lite fiscale temeraria, la Cassazione medesima ha invece espressamente riconosciuto la giurisdizione del giudice tributario (invece che del giudice ordinario, e prima ancora dell’espressa estensione (13) di tale profilo disciplinare al processo tributario) sulle relative istanze; e ciò “…non solo perché nessun giudice può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso che decide sulla domanda che si assume, per l’appunto, temeraria, ma anche e soprattutto perché la valutazione del presupposto della responsabilità processuale è così strettamente collegata con la decisione di merito da comportare la possibilità, ove fosse separatamente condotta, di un contrasto pratico di giudicati…”; ed in tale occasione osservando anche che si dovrebbe “… intendere in senso estensivo il concetto di “responsabilità processuale”, comprensivo anche, cioè, della fase amministrativa che, qualora ricorrano i predetti requisiti, ha dato luogo alla necessità di instaurare un processo “ingiusto”…” (14).
(12) Cfr. Cass. SS.UU. n. 20426/2016; Cass. SS.UU. n. 15593/2014; Cass. SS.UU. n. 14506/2013; Cass. SS.UU. 20323/2012. (13) …avvenuta ad opera del D.Lvo 24/9/2015, n. 156. (14) Così, Cass. SS.UU. n. 13899/2013.
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Questa pronuncia merita particolare attenzione perché, attraverso il ricorso a nozioni non poco dilatate sia della “responsabilità processuale” che della “lite temeraria”, finisce nei fatti con il profilare una apertura tendenzialmente generalizzata della giurisdizione tributaria alle azioni risarcitorie da illecito aquiliano tributario; ma senza una adeguata identificazione dei relativi confini (15), né dei relativi profili propriamente disciplinari. 4. Tirando le fila delle considerazioni sin qui sommariamente svolte, sembra che dovrebbero quanto meno ridimensionarsi i diffusi timori sulle negative ripercussioni della sentenza che si annota sul sistema complessivo delle tutele giurisdizionali del contribuente a fronte dei provvedimenti tributari “palesemente illegittimi”. Invero, la loro eventuale inoppugnabilità, e la loro impugnazione avanti il giudice tributario con ricorsi non contenenti istanze risarcitorie, non dovrebbero escludere l’autonoma proponibilità di quest’ultima azione avanti il giudice ordinario, nel termine prescrizionale quinquennale ex art. 2947 cod. civ., quando (e per la parte in cui) nella condotta dell’Ufficio sono ravvisabili gli estremi dell’illecito aquiliano ex art. 2043 cod. civ.; e l’eventuale tardività del ricorso proposto avanti la Commissione tributaria non dovrebbe comunque ostare alla rimessione della controversia al competente giudice ordinario (secondo le regole della translatio judicii ex art. 59 della L. n. 69/2009), quando dal suo contenuto prima facie emerga l’esistenza (anche) di un petitum sostanziale di natura risarcitoria, rivendicato nei termini prescrizionali di legge. Molto resta tuttavia ancora da fare, poiché sono non poco diverse le discipline del processo civile e di quello tributario; e sarebbero probabilmente incostituzionali letture delle discipline positive che irragionevolmente differenziassero il regime delle controversie scaturenti da una medesima condotta illecita del Fisco a seconda del se, quando, come e dove sono state dal contribuente avanzate le conseguenti istanze risarcitorie. Quindi, e nel momento in cui sembrano profilarsi caute aperture della giurisdizione tributaria anche a tali controversie, l’auspicio formulabile è che a ciò si provveda con la consapevolezza della loro natura oggettivamente non
(15) …poiché, ad esempio, dovrebbero in ogni caso esorbitare dalla giurisdizione tributaria le questioni relative all’apprezzamento e valutazione dei danni morali, commerciali, esistenziali, ecc.
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tributaria, e della necessitĂ di tenerne fermi gli essenziali profili disciplinari civilistici, anche quando esse sono devolute alla cognizione dei giudici tributari.
Salvatore La Rosa
Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi
Supreme Court of the United States, 21 giugno 2018, No. 17-494, South Dakota, petitioner v. Wayfair, inc., et al.; Pre. Roberts Rel. Justice Kennedy Fiscalità dell’economia digitale – Sales tax – Presenza economica significativa – Imposta sui servizi digitali – Web tax È consentito agli Stati della Federazione applicare l’imposta sulle vendite (sales tax) anche a soggetti non residenti, aventi una certa presenza digitale nel proprio territorio, per le operazioni imponibili effettuate nei confronti di consumatori finali residenti, anche in difetto di presenza fisica. (1)
[Omissis] South Dakota, like many States, taxes the retail sales of goods and services in the State. Sellers are required to collect and remit the tax to the State, but if they do not then in-state consumers are responsible for paying a use tax at the same rate. Under National Bellas Hess, Inc. v. Department of Revenue of Ill., 386 U. S. 753, and Quill Corp. v. North Dakota, 504 U. S. 298, South Dakota may not require a business that has no physical presence in the State to collect its sales tax. Consumer compliance rates are notoriously low, however, and it is estimated that Bellas Hess and Quill cause South Dakota to lose between $48 and $58 million annually. Concerned about the erosion of its sales tax base and corresponding loss of critical funding for state and local services, the South Dakota Legislature enacted a law requiring out-of-state sellers to collect and remit sales tax “as if the seller had a physical presence in the State.” The Act covers only sellers that, on an annual basis, deliver more than $100,000 of goods or services into the State or engage in 200 or more separate transactions for the delivery of goods or services into the State. Respondents, top online retailers with no employees or real estate in South Dakota, each meet the Act’s minimum sales or transactions requirement, but do not collect the State’s sales tax. South Dakota filed suit in state court, seeking a declaration that the Act’s requirements are valid and applicable to respondents and an injunction requiring respondents to register for licenses to collect and remit the sales tax. Respondents sought summary judgment, arguing that the Act is unconstitutional. The trial court granted their motion. The State Supreme Court affirmed on the ground that Quill is controlling precedent. Held: Because the physical presence rule of Quill is unsound and incorrect, Quill Corp. v. North Dakota, 504 U. S. 298, and National Bellas
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Hess, Inc. v. Department of Revenue of Ill., 386 U. S. 753, are overruled. Pp. 5–24. (a) An understanding of this Court’s Commerce Clause principles and their application to state taxes is instructive here. Pp. 5–9. (1) Two primary principles mark the boundaries of a State’s authority to regulate interstate commerce: State regulations may not discriminate against interstate commerce; and States may not impose undue burdens on interstate commerce. These principles guide the courts in adjudicating challenges to state laws under the Commerce Clause. Pp. 5–7. (2) They also animate Commerce Clause precedents addressing the validity of state taxes, which will be sustained so long as they (1) apply to an activity with a substantial nexus with the taxing State, (2) are fairly apportioned, (3) do not discriminate against interstate commerce, and (4) are fairly related to the services the State provides. See Complete Auto Transit, Inc. v. Brady, 430 U. S. 274, 279. Before Complete Auto, the Court held in Bellas Hess that a “seller whose only connection with customers in the State is by common carrier or . . . mail” lacked the requisite minimum contacts with the State required by the Due Process Clause and the Commerce Clause, and that unless the retailer maintained a physical presence in the State, the State lacked the power to require that retailer to collect a local tax. 386 U. S., at 758. In Quill, the Court overruled the due process holding, but not the Commerce Clause holding, grounding the physical presence rule in Complete Auto’s requirement that a tax have a “substantial nexus” with the activity being taxed. Pp. 7–9. (b) The physical presence rule has long been criticized as giving out-of-state sellers an advantage. Each year, it becomes further removed from economic reality and results in significant revenue losses to the States. These critiques underscore that the rule, both as first formulated and as applied today, is an incorrect interpretation of the Commerce Clause. Pp. 9–17. (1) Quill is flawed on its own terms. First, the physical presence rule is not a necessary interpretation of Complete Auto’s nexus requirement. That requirement is “closely related,” Bellas Hess, 386 U. S. at 756, to the due process requirement that there be “some definite link, some minimum connection, between a state and the person, property or transaction it seeks to tax.” Miller Brothers Co. v. Maryland, 347 U. S. 340, 344–345. And, as Quill itself recognized, a business need not have a physical presence in a State to satisfy the demands of due process. When considering whether a State may levy a tax, Due Process and Commerce Clause standards, though not identical or coterminous, have significant parallels. The reasons given in Quill for rejecting the physical presence rule for due process purposes apply as well to the question whether physical presence is a requisite for an out-of-state seller’s liability to remit sales taxes. Other aspects of the Court’s doctrine can better and more accurately address potential burdens on interstate commerce, whether or not Quill’s physical presence rule is satisfied. Second, Quill creates rather than resolves market distortions. In effect, it is a judicially created tax shelter for businesses that limit their physical presence in a State but sell their goods and services to the State’s consumers, something that has become easier and more prevalent as technology has advanced. The rule also produces an incentive to avoid physical presence in multiple States, affecting development that might be efficient or
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desirable. Third, Quill imposes the sort of arbitrary, formalistic distinction that the Court’s modern Commerce Clause precedents disavow in favor of “a sensitive, case-bycase analysis of purposes and effects,” West Lynn Creamery, Inc. v. Healy, 512 U. S. 186, 201. It treats economically identical actors differently for arbitrary reasons. For example, a business that maintains a few items of inventory in a small warehouse in a State is required to collect and remit a tax on all of its sales in the State, while a seller with a pervasive Internet presence cannot be subject to the same tax for the sales of the same items. Pp. 10–14. (2) When the day-to-day functions of marketing and distribution in the modern economy are considered, it becomes evident that Quill’s physical presence rule is artificial, not just “at its edges,” 504 U. S. at 315, but in its entirety. Modern e-commerce does not align analytically with a test that relies on the sort of physical presence defined in Quill. And the Court should not maintain a rule that ignores substantial virtual connections to the State. Pp. 14–15. (3) The physical presence rule of Bellas Hess and Quill is also an extraordinary imposition by the Judiciary on States’ authority to collect taxes and perform critical public functions. Forty-one States, two Territories, and the District of Columbia have asked the Court to reject Quill’s test. Helping respondents’ customers evade a lawful tax unfairly shifts an increased share of the taxes to those consumers who buy from competitors with a physical presence in the State. It is essential to public confidence in the tax system that the Court avoid creating inequitable exceptions. And it is also essential to the confidence placed in the Court’s Commerce Clause decisions. By giving some online retailers an arbitrary advantage over their competitors who collect state sales taxes, Quill’s physical presence rule has limited States’ ability to seek long-term prosperity and has prevented market participants from competing on an even playing field. Pp. 16–17. (c) Stare decisis can no longer support the Court’s prohibition of a valid exercise of the States’ sovereign power. If it becomes apparent that the Court’s Commerce Clause decisions prohibit the States from exercising their lawful sovereign powers, the Court should be vigilant in correcting the error. It is inconsistent with this Court’s proper role to ask Congress to address a false constitutional premise of this Court’s own creation. The Internet revolution has made Quill’s original error all the more egregious and harmful. The Quill Court did not have before it the present realities of the interstate marketplace, where the Internet’s prevalence and power have changed the dynamics of the national economy. The expansion of e-commerce has also increased the revenue shortfall faced by States seeking to collect their sales and use taxes, leading the South Dakota Legislature to declare an emergency. The argument, moreover, that the physical presence rule is clear and easy to apply is unsound, as attempts to apply the physical presence rule to online retail sales have proved unworkable. Because the physical presence rule as defined by Quill is no longer a clear or easily applicable standard, arguments for reliance based on its clarity are misplaced. Stare decisis may accommodate “legitimate reliance interest[s],” United States v. Ross, 456 U. S. 798, 824, but a business “is in no position to found a constitutional right . . . on the practical opportunities for tax avoidance,” Nelson v. Sears, Roebuck & Co., 312 U. S. 359,
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366. Startups and small businesses may benefit from the physical presence rule, but here South Dakota affords small merchants a reasonable degree of protection. Finally, other aspects of the Court’s Commerce Clause doctrine can protect against any undue burden on interstate commerce, taking into consideration the small businesses, startups, or others who engage in commerce across state lines. The potential for such issues to arise in some later case cannot justify retaining an artificial, anachronistic rule that deprives States of vast revenues from major businesses. Pp. 17-22. (d) In the absence of Quill and Bellas Hess, the first prong of the Complete Auto test simply asks whether the tax applies to an activity with a substantial nexus with the taxing State, 430 U. S., at 279. Here, the nexus is clearly sufficient. The Act applies only to sellers who engage in a significant quantity of business in the State, and respondents are large, national companies that undoubtedly maintain an extensive virtual presence. Any remaining claims regarding the Commerce Clause’s application in the absence of Quill and Bellas Hess may be addressed in the first instance on remand. Pp. 22–23. 2017 S.D. 56, 901 N. W. 2d 754, vacated and remanded. [Omissis]
(1) La tassazione del commercio elettronico dopo la sentenza Wayfair: verso una territorialità digitale? Sommario: 1. Premessa. – 2. Il contesto normativo di riferimento: la sales tax e la use tax. – 3. La legge del South Dakota sull’applicazione della sales tax a venditori online. – 4. Il superamento del requisito della presenza fisica e l’introduzione del criterio di presenza economica. – 5. Considerazioni conclusive.
La presente nota intende indagare le ragioni giuridiche sottese alla recente sentenza, South Dakota contro Wayfair. Questo pronunciamento rappresenta una significativa svolta nella giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, affermando la validità di una normativa statale che impone alle società dell’e-commerce di riscuotere le imposte sulle vendite dai consumatori finali, pur senza presenza fisica nel proprio ordinamento. Partendo dall’analisi di questa decisione, nel corso del testo si vuole valutare la possibile influenza nei nostri diversi livelli ordinamentali: nazionale, europeo e internazionale. L’affermazione di un criterio di collegamento, basato sulla presenza digitale delle imprese, infatti, si pone idealmente in scia delle più recenti norme e proposte che sono state elaborate in Italia e nell’Unione Europea. The article aims to analyze the legal reason based on the last case, South Dakota v. Wayfair. This case represents a significative reconsideration of the US Supreme Court precedent, because it validates the South Dakota tax law that forced the sellers to collect and remit the sales tax to the State “as if the seller had a physical presence in the State”. Starting from the analysis of this SCOTUS case, the comment wants to evaluate the possible effect over the International, European and domestic tax law system. In fact, the establish of a new nexus, based on pervasive digital presence follows the Italian recent law and European proposals.
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1. Premessa. – Capita raramente che un caso giudiziario in materia di fiscalità trovi spazio nelle cronache della stampa internazionale di tipo generalista e, quando ciò avviene, è per lo più dovuto alla rinomanza delle parti processuali coinvolte, con scarso interesse per la materia giuridica in oggetto. Non è questo il caso della sentenza South Dakota v Wayfair (1) pubblicata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti in data 21 giugno 2018 e subito ripresa dalle principali testate internazionali che l’hanno indicata come rivoluzionaria nella tassazione del commercio elettronico. Effettivamente, la sentenza sarà probabilmente ricordata come una pietra miliare negli annali della giurisprudenza in materia tributaria, perché la Corte statunitense è intervenuta profondamente nel dibattito attuale sulla tassazione dell’economia digitale e, più precisamente, del commercio elettronico ribaltando posizioni precedentemente assunte che si erano piuttosto stratificate e consolidate nel tempo. In via di estrema sintesi, alla luce di questo pronunciamento, la Corte Suprema afferma che è consentito agli Stati della Federazione applicare l’imposta sulle vendite (sales tax) anche a soggetti non residenti, aventi una certa presenza economica, per le operazioni imponibili effettuate nei confronti di consumatori situati nel proprio territorio, mentre, in precedenza, riteneva indispensabile – ai fini dell’applicazione di tale imposta – una presenza fisica all’interno del territorio dello Stato. Avendo riguardo ai profili puramente fiscali, la decisione si compone di due parti. Da un lato, la pars destruens supera chiaramente la physical presence rule, che aveva creato un mercato inefficiente delle vendite online, offrendo un vantaggio competitivo alle imprese non stabilite nello Stato di vendita rispetto a quelle residenti, le quali, invece, erano sottoposte all’imposta. Dall’altro, la pars costruens valida un criterio di collegamento basato su una cd. pervasive virtual presence, data dalla quantità e dalla qualità dei contatti intrattenuti nel territorio dello Stato con i consumatori finali. A ben vedere, i concetti generali espressi in questa decisione rischiano di travalicare i confini statunitensi, essendo adattabili e riproducibili anche nell’attuale discussione sul futuro della fiscalità internazionale (2), euro-
(1) Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, South Dakota v. Wayfair et alii, udienza del 17 aprile 2018, pubblicata il 21 giugno 2018, 585 – 2018. Tra i primi commenti, si segnalano: R. Mason, Case law note: Implications of Wayfair, Intertax, 46, 10, 2018, 810; J. E. Maddison, Why Wayfair won’t matter, Tax executive, 70, 3, 2018, 21. (2) Si fa riferimento al recente report dell’OCSE, Tax Challenges Arising from Digitali-
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pea (3) e nazionale (4) alla luce dello sviluppo dell’economia digitale. È curioso, infatti, riscontrare una convergenza, quantomeno teorica, tra ordinamenti molto diversi fra di loro su una proposta alternativa agli attuali criteri di collegamento, orientata a superare gli istituti tradizionali, pensati in un’economia brick and mortar, per adattarli a una realtà virtuale. Non sembra, infatti, casuale che il criterio della presenza digitale, sganciato dal requisito fisico, qui utilizzato nell’imposta locale sulle vendite, stia progressivamente acquisendo maggiore spazio nelle normative (5) e nelle riflessioni dottrinali (6) trasversalmente alle categorie impositive. L’obiettivo della presente nota, dunque, sarà di verificare la possibilità di esportare, con i dovuti accorgimenti, i risultati a cui è giunta la giurisprudenza americana con la sentenza in epigrafe anche nel diritto eurounitario e nazionale, pur nelle profonde differenze esistenti tra questi sistemi giuridici.
sation – Interim Report 2018 Inclusive Framework on BEPS, del 21 marzo 2018, Parigi. (3) Cfr. Proposal for a Council Directive laying down rules relating to the corporate taxation of a significant digital presence, COM (2018) 147 final 2018/0072 (CNS), del 21 marzo 2018 e Proposal for a Council Directive on the common system of a digital services tax on revenues resulting from the provision of certain digital services, COM (2018) 148 final 2018/0073 (CNS) anch’essa del 21 marzo 2018. (4) Legge del 27 dicembre 2017 n. 205, art. 1, commi da 1011 a 1019, il quale istituisce l’imposta sulle transazioni digitali nell’ordinamento italiano. (5) Questo nuovo criterio della “significativa presenza digitale” proposto dall’OCSE in OECD, Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy (OECD 2014), p. 11 ss. venne poi sperimentato in alcuni Stati che lo positivizzarono nel loro ordinamento. Tra gli esempi più importanti si segnalano lo Stato di Israele che attraverso la circolare dell’Amministrazione Tributaria n. 4/2016 dell’11 aprile 2016, adottò una nuova interpretazione della Stabile Organizzazione basata sulla presenza digitale nel territorio dello Stato; un altro esempio simile è dato dall’India la quale con la legge di bilancio 2018 ha introdotto questo concetto nel proprio diritto tributario cfr. Government of India, Memorandum to the Finance Bill 2018, at 7 (2018). Si esaminerà in seguito la novità italiana introdotta con l’art. 1, comma 1010, della “significativa e continuativa presenza economica”. (6) Sulla significativa presenza digitale nel contesto europeo si veda J.A. Gomez Requena -S. Moreno Gonzalez, Adapting the Concept of Permanent Establishment to the Context of Digital Commerce: From Fixity to Significant Digital Economic Presence, in Intertax, 45 Intertax, Issue 11, 2017, 732-741; A.P. Dourado, ‘Editorial: Minimum Standards in Taxes: A Positive-Sum Game’, in 46 Intertax, Issue 5, 2018, 365-367; M. Merkx, ‘Fixed Establishments in European Value Added Tax: Base Erosion and Profit Shifting’s Side Effects?’, in 26 EC Tax Review, Issue 1, 2017, 36-44; M. De Wilde, “Tax Jurisdiction in a Digitalizing Economy; Why ‘Online Profits’ Are So Hard to Pin Down”, 43 Intertax, Issue 12, 2015, 796-803; per quanto riguarda la dottrina americana si veda su tutti W. Hellerstein, OECD – Jurisdiction to Tax in the Digital Economy: Permanent and Other Establishments, in Bulletin for International Taxation, 2014 (Volume 68), No. 6/7.
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Muovendo dal regime dell’imposizione indiretta sulle vendite vigente negli Stati Uniti, si tenterà in particolare di valutare la compatibilità di questo nuovo criterio di collegamento con le norme attualmente esistenti nelle imposte sui redditi presenti nel Vecchio Continente, soprattutto, alla luce delle nuove proposte avanzate dalla Commissione Europea in tema di tassazione dell’economia digitale. Per cercare di giungere a tali risultati, però, appare necessario, in via preliminare, ricostruire il contesto normativo della tassazione indiretta del commercio elettronico negli Stati Uniti così da chiarire la reale portata innovativa della pronuncia. 2. Il contesto normativo di riferimento: la sales tax e la use tax. – Corre l’obbligo di segnalare, fin dalla premessa, che il tributo oggetto della decisione, la cd. sales tax (o imposta sulle vendite), non è un tributo federale (7), ma rappresenta un tipico esempio del federalismo fiscale vigente negli Stati Uniti. La maggior parte degli Stati della Federazione, infatti, ha scelto di introdurre un complementary sales-and-use tax regime con uno statuto proprio che può divergere, anche significativamente, rispetto a quello di altri Stati, non essendo previsto un sistema federale di armonizzazione del tributo (8). Questo sistema di tassazione locale, nato come emergenziale (9), ma ormai definitivo, prevede una forma di imposizione indiretta sulle cessioni di beni e, talvolta (10), sulle prestazioni di servizi realizzate nel territorio dello Stato. Il modulo applicativo del tributo prevede che il venditore, stabilito nello Stato, debba applicare e addebitare tale tributo al consumatore finale in oc-
(7) Negli Stati Uniti, infatti, non c’è una sales tax federale, ma ci sono tante forme d’imposizione per quanti sono gli Stati che l’hanno adottata. (8) Si pensi che uno degli elementi tipici della struttura del tributo, ossia l’aliquota, per esempio, può divergere anche sensibilmente con il rischio di alimentare la concorrenza fiscale tra gli Stati. Per questa ragione, fin dal 2000, esiste il cd. Streamlined Sales Tax Project, con cui si intende semplificare la tassazione sulle vendite negli Stati Uniti. Da questo progetto è nato poi il cd. Streamlined Sales and Use Tax Agreement che tenda di armonizzare alcuni aspetti delle sales taxes dei vari Stati, mediante regole comuni e l’istituzione di alcuni organi a livello sovranazionale che garantiscono l’uniforme applicazione del tributo. Per approfondimenti, si veda N. Hahn, Sourcing and the Streamlined Sales Tax Project, in Journal of State Taxation, Vol. 26, Issue 3 (March-April 2008), pp. 23-51; J. Healy, Steamlined Sales Tax Project, in Journal of State Taxation, Vol. 24, Issue 3 (March-April 2006), 9-12. (9) C. Shoup -L. Haimoff, The Sales Tax, 34 in Columbia Law Review, 809 (1934). (10) J.R. Hellerstein-W. Hellerstein, State Taxation, State and Local Taxation: Cases and Materials, 2005, 701.
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casione dell’effettuazione di operazioni soggette all’imposta (taxable sales). Dialogando in chiave comparata con l’ordinamento europeo, questo tributo sembra avere alcuni profili similari con la struttura giuridica dell’imposta sul valore aggiunto, specialmente, considerando la condivisione della stessa natura di imposta indiretta orientata a colpire la manifestazione di capacità contributiva espressa nella fase del consumo. Cercare di individuare altri tratti comuni con l’imposta sul valore aggiunto, però, appare complicato, in quanto le divergenze tra questi tributi sembrano essere considerevoli, coinvolgendo finanche i tre profili essenziali del tributo europeo, ossia la soggettività, l’oggettività e la territorialità. Tra le differenze più importanti, si segnala il fatto che, mentre l’iva è un’imposta plurifase non cumulativa neutrale per l’operatore economico (11), la sales tax, d’altra parte, si sostanzia in un’imposta monofase sui consumi applicata solo al momento della vendita, escludendo così le operazioni intermedie business-to-business (12). In altre parole, lo schema essenziale prevede l’applicazione del tributo non per ogni anello della catena produttiva, così come avviene nell’iva, ma solo in un’unica fase, quella della vendita in cui il cd. retailer addebita il tributo al consumatore finale e versa, successivamente, il dovuto al Fisco. Con riferimento specifico alla questione della territorialità, pur nelle specificità di ogni regime, il sistema dell’iva risente della configurazione di imposta generale sugli scambi, dovuta dagli operatori economici sul volume d’affari (13), e, di conseguenza, pone maggiore attenzione sulla localizzazione dell’operazione imponibile e, dunque, sul luogo dello scambio e del consumo (14). Lo statuto americano delle sales taxes, assumendo la capacità contributiva espressa dalla vendita in sé, tiene conto dell’individuazione territoriale del venditore, non tanto del territorio in cui avviene il consumo. Per questo moti-
(11) A. Mondini, Il principio di neutralità dell’iva tra mito e (perfettibile) realtà, in A. Di Pietro-T. Tassani, Principi di diritto tributario europeo, Padova, 271. (12) R.F. Van Brederode, A Normative Evaluation of Consumption Tax Design: The Treatment of the Sales of Goods under VAT in the European Union and Sales Tax in the United States, in Tax Lawyer, Vol. 62, Issue 4 (Summer 2009), 1055-1084. (13) Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Banco Popolare di Cremona, C-375/03, ECLI:EU:C:2006:629. (14) In generale si veda sul punto E. Fazzini, Il principio di territorialità nel tributo sul valore aggiunto, Padova, 1995, ibidem.
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vo, la struttura tipica delle sales taxes coerentemente non imponeva, almeno fino a questa decisione, alcun obbligo formale o sostanziale al venditore non stabilito nello Stato. In tali evenienze, infatti, l’imposta operava e opera come una cd. use tax, demandando, di conseguenza, al consumatore finale l’onere di liquidare e di versare il tributo nelle casse statali in sostituzione del venditore. Sostanzialmente, nelle ipotesi in cui il venditore non fosse presente fisicamente nel territorio, ma operasse da remoto nel territorio dello Stato, questo non poteva essere assoggettato alla sales tax e l’unica forma di imposizione sul consumo si realizzava mediante la cd. use tax nei confronti del consumatore finale. Nella fenomenologia, però, le imprese, operanti nel mercato del commercio elettronico, avevano tutto l’interesse a stabilirsi in uno degli Stati che non adottava una sales tax per poi operare da lì verso qualsiasi altro territorio, non avendo obblighi nei confronti delle Amministrazioni tributarie statali. Questa forma di riscossione, però, per ovvie ragioni, alimentava una forte evasione dell’imposta con conseguente perdita di gettito per gli Stati della Federazione che hanno adottato questa forma di prelievo. Ben pochi, infatti, erano i consumatori che, dopo aver acquistato un bene online, dichiaravano, liquidavano e versavo il tributo, talvolta anche di modesta entità, al Fisco statale. Per ovviare a questo vulnus dello schema dell’imposta, diversi Stati, negli anni, hanno cercato, in vario modo, di obbligare l’operatore economico, non presente nel territorio, ad applicare e a riscuotere il tributo. 3. La legge del South Dakota sull’applicazione della sales tax a venditori online. – In questo senso deve essere letta la legge del South Dakota (15) da cui trae origine il caso in epigrafe, la quale obbliga i venditori di beni o servizi, pur non aventi presenza fisica nello Stato, ma con un volume di vendite o un numero di transazioni nello Stato superiori a determinate soglie (100.000 dollari o 200 transazioni), a riscuotere dai consumatori e versare all’erario l’imposta sul consumo statale su dette operazioni imponibili. Tale novità legislativa si poneva in aperto e voluto contrasto con un filone giurisprudenziale, inaugurato con la sentenza National Bellas Hess (16) e pre-
(15) Senate Bill 106, rubricato “An act to provide for the collection of sales tax from certain remote sellers” (SDCL Chapter 10-64). (16) Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, National Bellas Hess v. Department of
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cisato in Quill v Illinois (17), ai sensi delle quali era vietato fondamentalmente agli Stati della Federazione riscuotere “sales taxes” dai venditori non legati al proprio territorio con un certo tipo di connessione o nesso (o, se si preferisce, costringere i venditori a distanza di imporre la sales tax ai consumatori da riversare poi allo Stato, per le vendite all’interno del territorio di questo). La base giuridica del ragionamento della Corte in questi precedenti era costituita essenzialmente da due parametri costituzionali: la (Dormant o Negative) Commerce Clause (18); e la Due Process Clause, risultante dal combinato disposto del Quinto e Quattordicesimo Emendamento alla Costituzione statunitense. Il primo precetto vietava e vieta qualsiasi tipo di limitazione commerciale tra Stati positiva, mediante oneri non dovuti, e negativa, mediante discriminazioni quantitative o qualitative. In altre parole, poiché la Costituzione demanda solo al Congresso qualsiasi potere per regolare i traffici commerciali interstatali, agli Stati della Federazione è precluso qualsiasi intervento legislativo che possa alterare il commercio all’interno degli Stati Uniti. Volendo richiamare un parallelo con la giurisprudenza a noi più vicina, si tenga presente il famoso caso Dassonville (19) della Corte di Giustizia dell’Unione Europea con cui si vietava “ogni normativa commerciale degli Stati membri che potesse ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari”. Sulla possibile alterazione del regolare funzionamento del mercato interstatale, la Corte Suprema intervenne con la sentenza Complete Auto (20), sostenendo che la tassazione statale dei traffici all’interno della Federazione fosse compatibile con la Commerce Clause solo nel rispetto di alcuni criteri
Revenue of Illinois, 386 U.S. 753 (1967). (17) Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, Quill Corp. v. North Dakota, 504 U.S. 298 (1992). Per questa ragione, quando si fa riferimento alle norme che hanno tentato di indurre la Corte a revisionare il proprio precedente, talora, si usa la locuzione “Kill Quill” cfr. Galle, Kill Quill, Keep the Dormant Commerce Clause: History’s Lessons on Congressional Control of State Taxation, in Stanford Law Review Online, Vol. 70, 158-166. (18) L’art. 1, sezione 8 della Costituzione americana statuisce che “the Congress shall have Power…to regulate commerce with foreign nations, and among the several states, and with the Indian Tribes”. (19) Corte di Giustizia dell’Unione Europea, C-8/74 – Dassonville, dell’11 luglio 1974 ECLI:EU:C:1974:82. (20) Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, Complete Auto Transit, Inc. v. Brady, 430 U.S. 274 (1977).
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precisamente individuati, ossia: l’applicazione a un’attività con nesso sostanziale; la ripartizione equilibrata del potere impositivo; la non discriminazione nel commercio interstatuale; una sorta di correlazione rispetto ai servizi forniti dallo Stato, riecheggiando la teoria del beneficio. La seconda norma di rango costituzionale ha il fondamento nella cd. due process jurisdiction, la quale funge da salvaguardia dalla negazione arbitraria della vita, della libertà o della proprietà da parte del governo al di fuori della legge. Tale clausola, applicata anche nel diritto tributario attraverso l’equiparazione della tassazione a una privazione della proprietà (21), limita il potere degli Stati nell’imposizione fiscale dei commerci interstatuali, richiedendo l’esistenza di una “connessione minima” tra lo Stato e la fattispecie sottoposta a tassazione. Questa “connessione minima” è stata interpretata come quel minimum contact, non necessariamente fisico (22), sufficiente a prevenire la violazione delle tradizionali nozioni di fair play and substancial justice (23). In questo contesto, fino agli inizi degli anni Novanta, il combinato disposto dei due principi costituzionali obbligava gli Stati a tenere in considerazione un doppio criterio di collegamento per cui un potenziale fatto generatore poteva essere tassato solo se integrava entrambi i criteri. Tuttavia, l’emersione di modelli di business, come la vendita per corrispondenza, che consentivano alle attività produttive di commerciare con uno Stato senza la necessità di presenza fisica (il cd. trading with a country) (24), preoccupava gli Stati, i quali erano limitati nella loro sovranità impositiva dall’interpretazione fornita dalla Corte Suprema.
(21) Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, Browning v. Hooper, 269 U.S. 396, 46 S. Ct. 141, 70 L. Ed. 330 (1926). (22) Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, Burger King v. Rudzewicz, 471 U.S. 462 (1985) in cui si legge che “Jurisdiction in these circumstances may not be avoided merely because the defendant did not physically enter the forum”. (23) Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, International Shoe v. Washington, 326 U.S. 310 (1945). (24) In questo senso si legga la distinzione operata da C. J. Gregg, Double Taxation, 33 Transactions, Year 77 (1947), 86, il quale distingue tra trading in a country e trading with a country. In particolare: “a primary principle in the taxation of trade is the distinction to be drawn between trading with a country and trading in a country. If a trader in country A merely exports goods to someone in country B, there is trading with country B but the trader in country A should not be liable to any tax in country B that may arise from the sale there of the goods bought from him”. Una delle differenze fondamentali tra l’economia tradizionale e quella digitale è che quest’ultima consente alle attività produttive di ricorrere a modelli di business per cui non è necessaria la presenza fisica in un territorio per potervi commerciare.
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Il passaggio cruciale è rappresentato dal caso Quill in cui la Corte sanciva un’evoluzione sostanziale della giurisprudenza sulla Due Process Clause, ritenendo che questa non ostasse all’abbandono del requisito formale della presenza fisica all’interno di uno Stato a favore di una valutazione più flessibile e ragionevole che tenesse conto anche dei contatti dell’attività con il mercato di riferimento. D’altra parte, però, si invalidava l’abbandono della presenza fisica in quanto mancante del “substantial nexus” con lo Stato così richiesto dalla Commerce Clause. Di conseguenza, un’impresa avrebbe potuto aver un “contatto minimo” con lo Stato impositore, come richiesto dalla clausola Due Process, in assenza di un “nesso sostanziale” con lo stesso Stato così come richiesto dalla clausola del commercio. In sintesi, un criterio di collegamento slegato dalla presenza fisica nel territorio poteva essere legittimo ai sensi della Due Process Clause, ma non della Commerce Clause, poiché i due parametri costituzionali non sono affatto identici e sono animati da diversi obiettivi. La Due Process Clause riguarda la correttezza formale e sostanziale dell’azione governativa, mentre la clausola sul commercio e il relativo nesso concerne gli effetti della regolamentazione statale sull’economia nazionale e sui traffici interstatali all’interno della Federazione. Per non ostacolare gli scambi commerciali fra Stati, pertanto, si impediva allo Stato di emanare qualsiasi norma che avesse potuto obbligare un operatore economico, non residente o senza strutture fisiche in detto ordinamento (bright-line test) (25), a riscuotere il tributo dai consumatori finali, i quali restavano gli unici debitori d’imposta. Un vincolo di questo tipo, infatti, sarebbe stato considerato come un ostacolo alla libertà delle imprese di commerciare nel mercato federale. Incidentalmente, comunque, si rileva che il superamento della connessione minima di cui alla Due Process Clause, con il caso Quill, ha comunque avuto effetti importanti sulla tassazione diretta delle imprese del commercio elettronico (26), confermando implicitamente che il requisito della presenza fisica non fosse necessario ai fini delle imposte sul reddito (27).
(25) H.R. Holderness, Questioning Quill, in Virginia Tax Review, Vol. 37, Issue 2 (Winter 2018), 313-364. (26) J. Coalson-F. Marcus, What Is Substantial Nexus after Quill, in State and Local Tax Lawyer, Vol. 2, 17-58. (27) Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, Geoffrey, Inc. v. SC Tax Com’n, 437
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La giurisprudenza Quill, però, lasciava insoddisfatti gli Stati, i quali non potevano sottoporre a imposizione indiretta tali attività imprenditoriali che, grazie allo sviluppo tecnologico, stavano sempre di più aumentando il loro volume d’affari, sfruttando peraltro i vantaggi fiscali provenienti dalla regola della presenza fisica (28). Un primo spiraglio di un possibile mutamento giurisprudenziale si era già nella sentenza Direct Marketing del 2015 (29). In questa vicenda, lo stato del Colorado aveva promulgato una legge, che imponeva obblighi formali ai venditori non presenti fisicamente nello stato le cui vendite lorde superavano i 100.000 dollari all’anno nei confronti dei consumatori residenti, affinché questi ultimi adempiessero agli obblighi fiscali. L’interesse nei confronti della vicenda non è tanto da ricercare nella decisione unanime della Corte che ha stabilito l’incostituzionalità della norma statale, quanto nell’opinione concorrente del giudice Kennedy, relatore nella sentenza in epigrafe, il quale giudicava “inconsistente” (tenuous) la natura giuridica di Quill, basata sulla Commerce Clause, criticava l’incapacità dell’ordinamento di aggiornarsi alla nuova realtà economica, e auspicava che “the legal system should find an appropriate case for this Court to reexamine Quill and Bellas Hess”. Sulla base anche delle critiche avanzate in alcune decisioni (30) e dalla dottrina (31), il South Dakota approvò la norma sopracitata con lo scopo pre-
S.E.2d 13 (1993) in cui si legge che “it is well settled that the taxpayer need not have a tangible, physical presence in a state for income to be taxable there. The presence of intangible property alone is sufficient to establish nexus (…) A taxpayer who is domiciled in one state but carries on business in another is subject to taxation measured by the value of the intangibles used in his business”. (28) Dalla sentenza in epigrafe emerge che si è stimato che le sentenze Bellas Hess e Quill abbiano prodotto un mancato gettito per gli Stati quantificabile in una somma tra gli 8 e i 33 miliardi di dollari all’anno. Solo nello Stato del South Dakota la perdita è stimata sui 50 milioni di dollari all’anno. (29) Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, Direct Marketing Association v. Brohl, 575 U.S. (2015). (30) Non solo Kennedy, ma anche l’allora giudice del Tenth Circuit Gorsuch, oggi alla Corte Suprema degli Stati Uniti, espresse preoccupazione sugli effetti di Quill nell’economia americana cfr. United States Court of Appeals for the Tenth Circuit, Direct Marketing Association v. Brohl, Appellate Case: 12-1175 Document: 01019574558, 22 febbraio 2016, (J. Gorsuch, concurring with Circuit Court’s holding in favor of Colorado). (31) Cfr. Brief amici curiae of Law Professors and Economists presentato il 5 marzo 2018 nella causa South Dakota v Wayfair et al. In questo caso anche il governo degli Stati Uniti si è espresso in favore dello Stato del South Dakota cfr. Brief of the United States as Amicus Curiae
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cipuo di annullare la dottrina Quill e consentire la tassazione anche in capo ai venditori. Naturalmente la novità normativa introdotta dal South Dakota era percepita come un rischio assai rilevante per i propri interessi economici da una serie di imprese del commercio elettronico, le quali avevano ampiamente goduto della dottrina Quill. Tra queste la Wayfair, convenuta nel giudizio davanti alla Corte Suprema, per esempio, evidenziava sul proprio sito web che “[o]ne of the best things about buying through Wayfair is that we do not have to charge sales tax” ammettendo così apertamente di non ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa statale. Dopo le scontate risposte negative in ordine all’attuazione della norma statale da parte di un giudice di merito (32) e della Corte Suprema del South Dakota (33), i quali ovviamente erano tenuti a seguire l’orientamento Quill in virtù dello stare decisis, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha accettato la proposta dello Stato di valutare il caso (granted the certiorari). 4. Il superamento del requisito della presenza fisica e l’introduzione del criterio di presenza economica. – In sostanza, la Corte Suprema ha dovuto decidere se estendere il campo di applicazione dell’imposta anche a soggetti non presenti fisicamente nel territorio dello Stato, ma aventi una certa presenza digitale, risultante dal numero di transazioni effettuate o dal volume d’affari complessivo. La questione, a parere dei ricorrenti, avrebbe dovuto portare a un ripensamento del profilo sia soggettivo sia territoriale dell’imposta sulle vendite, ritenendo soddisfatto il collegamento con il proprio territorio attraverso la considerazione della presenza digitale nel mercato e, dunque, obbligando un soggetto estraneo allo Stato ad assolvere gli obblighi sostanziali e formali derivanti dalla legge di quello Stato. La Corte Suprema, nel suo revirement a stretta maggioranza (5 giudici contro 4), ha superato (overruled) apertamente l’orientamento precedente in tema di tassazione del commercio elettronico interstatuale, annullando gli effetti delle due decisioni Bellas Hess del 1967 e Quill del 1992.
Supporting Petitioner, Wayfair v. South Dakota, No. 17-494 (Sup. Ct. 2018). (32) State of South Dakota County of Hughes In Circuit Court Sixth Judicial Circuit, South Dakota v. Wayfair 32CIV16-000092, del 6 marzo 2017. (33) Corte Suprema del South Dakota, South Dakota v. Wayfair, #28160-a-GAS, 2017 S.D. 56 del 29 agosto 2017.
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La motivazione della decisione, innanzitutto, muove dal ragionamento per cui, se gli Stati della Federazione possono tassare una transazione solo se il soggetto ha una presenza fisica nel proprio territorio, allora ne deriva una limitazione ai poteri sovrani dello Stato perché questo non è libero di assoggettare a tassazione fattispecie che, comunque, presentano un nesso con il proprio territorio. Al contrario, la minoranza della Corte (relatore il Chief Justice Roberts), partendo da un’interpretazione letterale della Commerce Clause per cui il potere sovrano di legiferare sul commercio interstatuale è di competenza esclusiva del Congresso, sostiene conseguentemente che solo alla Federazione spetta il compito di regolare i traffici interstatuali e che, dunque, gli Stati devono astenersi dall’introdurre possibili ostacoli al potere sovrano del Congresso. Ma al di là di questo argomento, che attiene ad una ripartizione del potere normativo all’intero dell’ordinamento statunitense, sono le altre ragioni – essenzialmente di tipo storico-evolutivo – che sono degne di riflessione almeno per quanto interessa il piano fiscale comparato. Secondo i giudici, nella giurisprudenza risalente, non si sarebbe tenuto conto degli sviluppi economici e tecnologici della società americana che hanno permesso l’affermazione di modelli di business del tutto diversi rispetto a quelli conosciuti nell’epoca in cui si era consolidata la giurisprudenza precedente. Fondamentalmente, pur in vigenza di regole formalmente immutate, l’evoluzione tecnologica ha reso necessario un sensibile aggiornamento dell’interpretazione della Commerce Clause e, indirettamente, del principio o criterio di territorialità dell’imposta sulle vendite. Il requisito “fisico” di cui alla sentenza Quill era stato immaginato per garantire certezza all’applicazione delle norme e, dunque, prevenire eventuali dubbi derivanti dall’interpretazione del “substantial nexus” della sentenza Complete Auto. Veniva fissato, infatti, un criterio tangibile e netto, che, almeno in linea teorica, avrebbe dovuto, da un lato, limitare il potere di imporre tributi agli Stati nei commerci interstatali e, dall’altro lato, implicitamente ripartire la materia imponibile tra Stati. Questi obiettivi, però, non sono stati efficacemente raggiunti e, per questo, l’interpretazione precedente della Commerce Clause fatta in “Quill create(d) rather than resolve(d) market distortions”, prevedendo un limite del tutto arbitrario e facilmente aggirabile da parte degli operatori del mercato digitale, i quali possono operare senza necessità di stabilirsi negli Stati in cui commerciano. Pertanto, da un punto di vista pragmatico, il requisito della presenza fisica aveva fallito nel raggiungere gli scopi per cui era stato ideato.
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Volendo, invece, leggere la sentenza seguendo una prospettiva sistematica, la decisione sembrerebbe modificare i parametri della territorialità (34), intesa sia come principio, in quanto limite all’imposizione, che come criterio, cioè ripartizione dell’imponibile. In primo luogo, dopo questo pronunciamento, la minima connessione che giustifica la tassazione può essere rinvenuta anche in un collegamento reale/ oggettivo, come la presenza economica, nel territorio di riferimento, abbandonando un criterio personalistico. In questo senso la decisione si pone, idealmente nella scia di Quill che, già allora, aveva convalidato lo stesso criterio di collegamento, pur ritenuto incostituzionale, alla luce della Commerce Clause. In secondo luogo, la sentenza intende correggere i problemi di concorrenza fiscale tra Stati e tra imprese generati dalla regola Quill. La giurisprudenza precedente al nuovo orientamento, infatti, aveva promosso una distorsione del mercato tra operatori economici appartenenti a medesime categorie merceologiche, ma con differenti modelli di business, e un malfunzionamento del riparto del potere impositivo tra gli Stati della Federazione. La necessità di individuare un criterio di collegamento fisico aveva dunque creato un rifugio fiscale per le imprese del commercio elettronico che avevano progressivamente limitato la loro presenza fisica in alcuni Stati e che avevano provveduto a vendere i propri prodotti ai consumatori dello Stato senza assolvere l’imposizione sulle vendite, stabilendosi in Stati che non avevano introdotto un siffatto tributo. Il risultato di ciò è che l’interpretazione della Commerce Clause aveva sostanzialmente limitato il potere degli Stati di imporre tributi su questo tipo di operazioni, garantendo, peraltro, una serie di vantaggi ingiustificati per gli out-of-state sellers che mancavano di presenza fisica. Secondo questa logica si giustifica l’introduzione di una norma, come questa del South Dakota, la quale ha sostanzialmente discriminato tra imprese del commercio elettronico e di quello tradizionale contraddicendo uno dei principi fondamentali dell’OCSE (35). Tale differenziazione, però, viene in-
(34) G. Fransoni, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004; Sacchetto, voce Territorialità (dir. tribut.), Enciclopedia del diritto, [XLIV, 1992]. (35) OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy, Action 1 - 2015 Final Report, 11 in cui si legge: “Because the digital economy is increasingly becoming the economy itself, it would be difficult, if not impossible,
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terpretata e validata, seppure implicitamente, alla luce del criterio di proporzionalità per cui la Commerce Clause “treats economically identical actors differently for arbitrary reasons”. In sintesi, il test previgente di presenza fisica risultava una valutazione artificiale non adatta al moderno commercio elettronico, rappresentando una indebita imposizione da parte del potere giudiziario sull’autorità degli Stati di riscuotere i tributi e svolgere funzioni pubbliche. Per queste ragioni economiche, giuridiche e sociali, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso di abbandonare definitivamente la necessità del requisito della presenza fisica nell’imposizione di tributi da parte degli Stati. Nel ripensare il sistema di tassazione delle vendite i giudici hanno altresì osservato che il sistema fiscale del Dakota del Sud include diverse caratteristiche in grado di prevenire discriminazioni od oneri eccessivi sul commercio interstatale. In buona sostanza, attraverso l’elencazione di queste misure (esenzione de minimis per i piccoli operatori; la garanzia di un’applicazione solo pro futuro; l’adozione dello Streamlined Sales and Use Tax Agreement; una strumentazione informatica tesa a facilitare la compliance), in verità, il giudice sembra porre dei limiti ulteriori alle future iniziative statali di natura tributaria tese a regolare la materia del commercio elettronico. Implicitamente, infatti, sembrerebbe dettare una forma di armonizzazione primigenia della tassazione indiretta statale del commercio elettronico che sia coerente con i dettami costituzionali. 5. Considerazioni conclusive. – Traendo le fila del discorso, dunque, la Corte Suprema conferma la validità di un nuovo criterio di collegamento nelle imposte sulle vendite per intercettare la ricchezza manifestata dalle imprese del commercio elettronico. La fattispecie analizzata dalla Corte, infatti, si sussume in un tipico esempio di commercio elettronico indiretto, consistente nella conclusione “online” del contratto e la successiva consegna per via analogica del bene materiale, oggetto dell’accordo, fattispecie che può essere dunque facilmente ricondotta nella categoria delle cd. “vendite a distanza” (36).
to ring-fence the digital economy from the rest of the economy for tax purposes. The digital economy and its business models present however some key features which are potentially relevant from a tax perspective”. (36) V. Perrone, Nuovi criteri di collegamento e ridefinizione del concetto di stabile organizzazione nella Digital Economy, in Le nuove forme di tassazione della Digital Economy (a
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Nel sistema dell’iva (37), infatti, la stessa transazione business-to-consumer tra diversi Stati Membri riguardante una cessione di beni sarebbe tassata nel paese di destinazione del bene ai sensi dell’art. 40, commi 3 e 4, del Decreto-legge del 30/08/1993 n. 331 (38), non rilevando, generalmente, lo stabilimento territoriale dell’operatore economico. Questo disallineamento nella risoluzione del medesimo problema è giustificato dalla diversa natura dell’iva rispetto alle sales tax, che si configurano come imposte sulle vendite e, dunque, sui venditori, necessitando, dunque, di un referente territoriale a cui ricondurre una serie di obblighi sostanziali e formali. Sebbene questa vicenda, dunque, riguardi un tributo locale statunitense e un modello di business che, tutto sommato, non pone rilevantissimi problemi (39), almeno nella nostra ottica, le conclusioni più generali a cui sono giunti i giudici statunitensi consentono una riflessione più ampia sugli effetti che
cura di Del Federico), Roma, 2018, 66. (37) Per un approfondimento e futuri sviluppi della tassazione indiretta del commercio elettronico nell’Unione Europea si veda M. Lamensch, Adoption of the E-Commerce VAT Package: The Road Ahead Is Still a Rocky One, in Ec Tax Review, 4, 2018, 186. (38) Per quanto riguarda la territorialità dei servizi si veda la Direttiva 2008/8/CE denominata anche Direttiva “Mini one Stop Shop” o “Mini Sportello Unico (“MOSS”); si veda anche G. Melis, voce Commercio elettronico nel diritto tributario, in Dig. disc. priv. Sez comm., vol. IV, agg. Torino, 2008. (39) Il tema del commercio elettronico, infatti, ha occupato per lungo tempo gli annali della dottrina. Il differente trattamento tra commercio elettronico diretto, in cui vi è una completa digitalizzazione del bene, assimilato a una prestazione di servizi, rispetto a quello indiretto, in cui vi è sempre una consegna “fisica” del bene, che è sussunto nella fattispecie di cessione di beni, è apparso come uno dei primi problemi rilevanti per gli studiosi della materia tributaria. Nell’ultimo periodo, tuttavia, il commercio elettronico ha lasciato spazio all’avanzare di nuovi modelli di business che, in maniera significativamente diversa dal passato, pongono nuove sfide alle regole fiscali degli Stati. Tra i saggi più risalenti sul tema si ricordano, tra molti, C. McLure, Taxation of electronic commerce: Economic objectives, technological constraints, and tax laws, in Tax Law Review, 1996, 52, 273; W. Hellerstein, State Taxation of Electronic Commerce, in Tax Law Review, 1996, 52, 425; S. Avi-Yonah, International Taxation of Electronic Commerce, in Tax Law Review, 1996, 507; W.F. Fox-M. Murray, The sales tax and electronic commerce: So what’s new?, in National Tax Journal, 1997 – JSTOR, 573; L. Hinnekens, The Challenges of Applying VAT and Income Tax Territoriality Concepts and Rules to International Electronic Commerce, in Intertax, 1998, 26, 2, 52; in Italia, tra i primi, G. Maisto, Le prime riflessioni dell’Ocse sulla tassazione del commercio elettronico, in Riv. Dir. Trib., 1998, 1, 47; C. Garbarino, Profili impositivi delle operazioni di commercio elettronico, in Dir. prat. trib., 1999, I, 1448; in Francia, O. Boutellis, Fiscalité du commerce électronique, in Revue de Droit Fiscal, 1998, il report dell’OCSE, Taxation and Electronic Commerce Taxation and Electronic Commerce, Implementing the Ottawa taxation framework conditions, Paris, 2001.
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una siffatta decisione può avere nel dibattito contemporaneo sulla tassazione dell’economia digitale. Se si affronta la vicenda da un punto di vista più generale, la validazione di una presenza economico-digitale, costituita da un criterio quantitativo o qualitativo, è rappresentativa di una singolare confluenza da parte dei diversi ordinamenti verso un complessivo ripensamento dei criteri di collegamento così come conosciuti nell’imposizione sia diretta che indiretta. Come è chiaro anche dalla lettura della sentenza, la moderna tecnologia consente agli attori del mercato digitale di strutturare il proprio business in modo tale da poter ridurre progressivamente e lecitamente, senza evadere o eludere la normativa fiscale, il proprio carico impositivo. Ciò induce gli ordinamenti a ragionare sul modo di adattare e di aggiornare le regole del gioco a questa nuova economia. Fino ad oggi, diversi ordinamenti hanno raccolto la sfida lanciata dall’economia digitale con interventi di varia natura, talvolta isolati, che hanno riguardato l’imposizione reddituale, l’imposizione indiretta o, anche, mediante l’ideazione di tributi specifici. Su quest’ultimo punto, si intende riferirsi, per esempio, al nuovo tributo introdotto nell’ordinamento italiano dalla legge di bilancio 2018, denominato “imposta sui servizi digitali”, che, in verità, non è facilmente riconducibile alle categorie tradizionali (40). L’imposizione di questo nuovo tributo, insieme alla ridefinizione dell’isti-
(40) Per un commento critico sulla normativa si veda Della Valle, La web tax italiana e la proposta di direttiva sull’imposta sui servizi digitali: morte di un nascituro appena concepito?, in Fisco, 2018, 16, 1507. In generale, dato il meccanismo di funzionamento, per cui è prevista un’imposizione lorda sul volume delle transazioni, non sembra potersi sussumere all’interno né delle imposte reddituali né di quelle sul patrimonio, non essendo previsto peraltro alcun credito d’imposta al fine di ridurre il carico impositivo delle imposte reddituali. Allo stesso modo, difettando di alcune caratteristiche tipiche dell’iva ai sensi dell’articolo 401 della direttiva IVA, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (in particolare cfr. la sentenza già citata Banco Popolare di Cremona), come la possibilità di detrazione per l’operatore economico, non sembra neanche potersi ricondurre a una duplicazione dell’imposta sul valore aggiunto. Considerando che si applica con l’aliquota del 3 per cento sul valore della singola transazione, inteso come corrispettivo dovuto al netto dell’imposta sul valore aggiunto e, dunque, si ingloba nel prezzo, l’imposta sembra atteggiarsi come un’accisa così come è stato già sostenuto con riferimento alla cd. equilization levy cfr. A.P. Dourado, Debate: Digital Taxation Opens the Pandora Box: The OECD Interim Report and the European Commission Proposals, 46 in Intertax, Issue 6/7, 2108, p. 569; Per un quadro sistematico e aggiornato sul tema delle accise si rinvia a M. Logozzo, Le accise: inquadramento sistematico e questioni aperte, in Riv. Dir. Trib., 2018, 2, I, 129.
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tuto della stabile organizzazione con cui si è codificata la “significativa e continuativa presenza economica” (41), dovrebbe rappresentare la soluzione italiana, almeno di breve periodo, all’erosione delle basi imponibili operata dalle imprese digitali. L’istituto della “significativa e continuativa presenza economica”, in particolare, è stato poi ampiamente ripreso anche in una delle due proposte di Direttiva della Commissione Europea, la quale intende istituire un nuovo criterio di collegamento che tenga conto di una serie di fattori e funzioni tipiche di questa nuova economia, denominato significant digital presence ai sensi dell’art. 4 della Proposta di Direttiva della Commissione n. 72/2018 (42). È chiaro che, però, nelle variegate iniziative, l’individuazione di un criterio di collegamento che tenga conto della presenza economica e digitale ai fini dell’imposte sui redditi delle società, da affiancare o per sostituire la Stabile Organizzazione (43), presenta dei profili comuni con il nuovo orientamento della Corte Suprema americana nelle imposte indirette. Pur nella diversità dei contesti e degli scopi, sembra pacifica un’evidente sfiducia nei confronti dell’attuale territorialità che non sembra più in linea con la realtà sociale ed economica e, in particolare, verso criteri che presuppongano una “presenza fisica” del soggetto in un territorio. I nuovi modelli di business digitali consen-
(41) B. Ferroni, Stabile organizzazione: la disciplina nazionale si adegua al BEPS e introduce la “continuativa presenza economica”, in Fisco, 2018, 7, 632. (42) Nel progetto della Commissione si propone di codificare una definizione di presenza digitale significativa, così declinata: “A ‘significant digital presence’ shall be considered to exist in a Member State in a tax period if the business carried on through it consists wholly or partly of the supply of digital services through a digital interface and one or more of the following conditions is met with respect to the supply of those services by the entity carrying on that business, taken together with the supply of any such services through a digital interface by each of that entity’s associated enterprises in aggregate: a) the proportion of total revenues obtained in that tax period and resulting from the supply of those digital services to users located in that Member State in that tax period exceeds EUR 7 000 000; (b) the number of users of one or more of those digital services who are located in that Member State in that tax period exceeds 100 000; (c) the number of business contracts for the supply of any such digital service that are concluded in that tax period by users located in that Member State exceeds 3 000”. (43) Non è chiaro allo stato attuale quale possa essere il futuro della Stabile Organizzazione nell’affermazione del concetto della “significativa presenza digitale”. Dinanzi a questo dubbio possono porsi tre alternative: la prima che implica un superamento completo della Stabile Organizzazione in favore di una tassazione diretta nello Stato della fonte con tutti i rischi nell’accertamento; la seconda, invece, si sostanzia in un adattamento della Stabile Organizzazione con l’introduzione di una “sede virtuale d’affari” da parametrare sulla presenza significativa; infine, la terza opzione è la più radicale perché suggerisce una forma di tassazione specifica per l’economia digitale non più parametrata sui concetti economici classici, come il reddito o il consumo.
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tono ampiamente di prescindere dallo stabilimento fisico nel territorio verso cui si intende avere rapporti economici. La territorialità, dunque, è sotto attacco sia perché non garantirebbe un equo riparto della materia imponibile tra gli Stati, potendo l’imprenditore scegliere a quale regime fiscale essere sottoposto, sia perché i criteri di collegamento, in particolare l’istituto della Stabile Organizzazione, necessiterebbero di un ammodernamento alla nuova realtà economica, potendo essere facilmente aggirati. La Stabile Organizzazione (44), infatti, nasceva in una logica compromissoria tra la tassazione alla fonte e quella alla residenza, in un tempo in cui, comunque, era imprescindibile una presenza fisica non occasionale per ricavare profitti d’impresa nel territorio di un Paese. Tale necessità è chiaramente venuta meno con l’avanzamento delle tecnologie informatiche e, forse, potrebbe costringere gli Stati a un ritorno al passato con la reintroduzione del concetto di collegamento economico (economic allegiance), attraverso una interpretazione adattata della teoria del beneficio (45). In aggiunta a questo, la necessità di introdurre nuovi criteri di collegamento che siano idonei a riallineare il luogo della tassazione alla catena del valore, in realtà, sembra essere dettata anche da considerazioni sull’emersione di una nuova ricchezza nell’economia digitale non facilmente rapportabile a schemi passati (46) e, forse, anche da una sostanziale diffidenza nei confronti dell’imposta personale (47). Il principio per cui un’impresa può essere tassata, se è presente economicamente e digitalmente in una giurisdizione estera, può essere evidentemente esteso anche ad altri modelli imprenditoriali, come quelli dei cd. Over the Top o delle piattaforme online (48).
(44) Ex multis: A. Fantozzi, La stabile organizzazione, in Riv. Dir Trib., 2, 2013, 99; A. Garcia Prats, El establecimiento permanente: análisis jurídico-tributario internacional de la imposición societaria, Valencia, 1996; A. Skaar, Permanent Establishment. Erosion of a Tax Treaty Principle, Boston, 1990. (45) W. Schön, Ten Questions about Why and How to Tax the Digitalized Economy, in Bulletin for International Taxation, 2018 (Volume 72), No. 4/5. (46) A. Di Pietro, Imposte Moderne e Stati Post Nazionali, in European Tax Studies, 1, 2016, 9. (47) L. Einaudi, La coopération internationale en matière fiscale, in Recueil des Cours de l’Academie de Droit International de la Haye, 1928, 81 in G. Fransoni, La stabile organizzazione: nihil sub sole novi?, Riv. Dir. Trib., 2, 2015, 123, nota 25. (48) Per un’analisi dei vari modelli di business nell’economia digitale cfr. l’Action 1 “Ad-
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In questi casi, normalmente, non si ragiona esclusivamente di transazioni economiche classiche riguardanti cessioni di beni materiali, ma di atipiche prestazioni di servizi a cui, spesso, non corrisponde un controvalore monetario, ma “solo” il conferimento di dati personali, utilizzati poi dalle imprese digitali per fini pubblicitari attraverso la “profilazione”. Quando l’utente di un servizio digitale, a titolo esemplificativo, invece di remunerare l’impresa con il pagamento del prezzo, conferisce dei dati personali, in questa fase non emerge alcuna capacità contributiva né tantomeno sembra giustificabile la pretesa di tassare questo scambio “capzioso” (49). Il dato raccolto non è di per sé una forma di ricchezza, ma è un mezzo produttivo o asset che può generare ricchezza solo se inserito in un determinato contesto imprenditoriale. L’estrazione del dato, dunque, rappresenta una fase necessaria e necessitata della catena del valore di queste imprese e, dunque, attraverso l’introduzione di un criterio di collegamento che ne tenga conto, si vuole ripensare le tradizionali categorie, accettando l’assioma tra nuova ricchezza e nuovo mercato, modellando il sistema impositivo sulla base di questi rinnovati parametri (50). Pertanto, nell’individuazione di questo nuovo criterio, probabilmente, si dovrebbe prescindere da riferimenti espliciti a transazioni aventi contenuto patrimoniale, potendo essere esclusi casi in cui l’attività produttiva genera ed estrare valore in un modo prima non immaginabile (51). Concludendo, se la gestazione delle due proposte di direttiva sulla tassazione dell’economia digitale sembra essere lunga, soprattutto considerando i contrasti politici esistenti sul tema e la posizione ambigua di alcuni Stati Membri dell’U-
dressing the Tax Challenges of the Digital Economy” del Progetto BEPS/OCSE. (49) Si veda la proposta contenuta nel rapporto P. Collin-N. Colin, Task Force on Taxation of the Digital Economy, Report to the Minister for the Economy and Finance, the Minister for Industrial Recovery, the Minister Delegate for the Budget and the Minister Delegate for Small and Medium-Sized Enterprises, Innovation and the Digital Economy. (50) Si veda G. Fransoni, La web tax: miti, retorica e realtà, in Riv. Dir. Trib. (supplemento online), 5 aprile 2018. (51) In linea generale, onde evitare fraintendimenti, in questa ricostruzione questo tipo di “scambio” di dati contro servizio online ha sicuramente contenuto economico-patrimoniale. Da un lato, il consumatore/utilizzatore ottiene un’utilità, economicamente apprezzabile, consistente nella possibilità di sfruttare il servizio digitale e, dall’altra parte, il prestatore riceve dei dati personali che, con gli strumenti tipici dell’attività pubblicitaria, una volta “raffinato” ha una potenzialità economica evidente.
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nione Europea che, in realtà, traggono vantaggio dalla situazione attuale (52), in una sorta di dialogo orizzontale tra le Corti, un ruolo significativo potrebbe essere giocato dalla Corte di Giustizia, la quale, fino ad adesso, ha sempre difeso il concetto di equa ripartizione del potere impositivo, con una giurisprudenza che ha talvolta confermato e giustificato l’esistenza di una concorrenza fiscale dannosa (53), la quale, però, oltre ai rischi di mancato gettito per i singoli Stati Membri, rischia di minare il corretto funzionamento del mercato interno. Seppure nei limiti del riparto delle competenze, un intervento deciso da parte dei giudici di Lussemburgo che limiti, in qualche modo, la possibilità per gli Stati Membri di concorrere nella “race to the bottom”, magari con l’utilizzo degli strumenti propri del regime degli aiuti di Stato, potrebbe finalmente spingere le Istituzioni Europee verso una nuova era della tassazione dell’economia digitale in un mercato europeo pienamente integrato, rinnovando il ruolo dell’interpretazione giurisprudenziale (54) nella regolamentazione del Mercato europeo così come è già avvenuto nell’armonizzazione dell’imposta sul valore aggiunto. Insomma, nei prossimi tempi, vedremo se l’influenza della decisione americana sarà destinata a ripercuotersi sull’attività del legislatore e del giudice europeo o se gli effetti della decisione resteranno solo sul piano mediatico e dottrinale. Sembra paradossale, ma l’occasione offerta dall’avvento del nuovo governo americano tendente a un isolazionismo economico e politico, potrebbe essere l’occasione giusta per l’Unione Europea per rinnovare il proprio ruolo nello scenario economico mondiale partendo, in ipotesi, anche da un diverso approccio alla fiscalità diretta (55). Le proposte della Commissione
(52) Si pensi ai casi in cui la Commissione Europea è dovuta intervenire per censurare alcune condotte di alcuni Stati Membri che favorivano irregolarmente alcune imprese della digital economy contravvenendo alle regole sul divieto di aiuti di Stato. In questo momento la Commissione Europea ha concluso sull’illeceità dell’accordo tra il Granducato del Lussemburgo e Amazon in data 4.10.2017 (riferimento IP/17/3701-SA.38944) e dell’accordo tra Irlanda e Apple in data (IP/16/2923-SA.38373). Sul punto, in particolare, si veda S. Moreno Gonzalez, Tax rulings: intercambio de información y ayudas de Estado en el contexto post-Beps, Valencia, 2017. (53) Conclusioni dell’Avvocato Generale Jaaskinen in Commissione c. Gibilterra, C-106/09 e C-107/09, ECLI:EU:C:2011:732, punti 122 -134 (54) G. D’Angelo, Integrazione europea e interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2013. (55) G. D’Angelo, La territorialità del tributo nell’era di internet, Ianus Diritto e Finanza, 2014, 28. In generale, su un diverso approccio alla fiscalità europea A. Carinci, La questione fiscale nella Costituzione europea, tra occasioni mancate e prospettive per il contribuente,
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Europea, sicuramente, vanno in una direzione diversa da quella avviata negli anni precedenti, anche se nell’incognita dell’atteggiamento che assumeranno gli Stati Membri dinanzi a queste proposte. Per questo il compito della Corte di Giustizia potrebbe essere importante nel ridisegnare i confini di una fiscalità europea che sia più integratacosì da contrastare il sempre più crescente “mercato delle imposte” (56), in cui la concorrenza non è tanto quella tra imprese, ma quella tra Stati, i quali, al fine di attirare investimenti e capitali nel proprio ordinamento, usano la leva fiscale, offrendo condizioni sempre più vantaggiose ai giganti del web. In questo l’opera degli attori istituzionali europei, invece, potrebbe portare a una circoscrizione dell’ambito territoriale di riferimento del Mercato, costruendo dei confini artificiali estesi quanto l’Unione Europea al fine di garantire la certezza e l’effettività delle norme poste a presidio del gettito degli Stati Membri e dell’Unione stessa. Tale azione sarebbe ispirata alla nascita del Mercato Unico e, poi, Comune con la differenza sostanziale che, in quell’occasione, si dovevano abbattere le barriere statuali che limitavano il Mercato, qui si tratta di crearle “artificialmente”per integrare e garantirne l’efficacia e l’effettività di un vero Mercato Unico Digitale (57).
Carmine Marrazzo
Rass. Trib., 2005, 2, 543. (56) P. Boria, Diritto tributario europeo, 2017, Milano, 17. (57) M. C. Fregni, Mercato unico digitale e tassazione: misure attuali e progetti di riforma, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2017, 1, 51