Rivista di Diritto Tributario 1/2018

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Vol. XXVIII- Febbraio

Rivista di

Diritto Tributario

www.rivistadirittotributario.it

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Rivista bimestrale

Vol. XXVIII - Febbraio 2018

Fondata da Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

2018

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In evidenza: • La definizione del tributo nella giurisprudenza costituzionale

Andrea Fedele • Sulla figura del responsabile d’imposta

Laura Castaldi • Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza

in Italia (cd. flat tax per neo-residenti) Guido Salanitro • Le operazioni “strettamente connesse” a un’operazione esente Iva (nota a Corte di Giustizia,

4 maggio 2017, causa C-699/15 Francesco Pedrotti

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

Diretta da Loredana Carpentieri - Gaspare Falsitta - Salvatore La Rosa Francesco Moschetti - Roberto Schiavolin

Pacini


Indici DOTTRINA Laura Castaldi

Sulla figura del responsabile d’imposta.....................................................................

I, 21

Simone Francesco Cociani

Il contraddittorio preventivo e la favola di Fedro della volpe e della maschera da tragedia........................................................................................................................

I, 89

Andrea Fedele

La definizione del tributo nella giurisprudenza costituzionale ................................

I, 1

Gabriele Giusti

Le operazioni di stock lending tra evasione, elusione e legittimo risparmio d’imposta (nota a Cass. civ. n. 11872/2017)...................................................................... II, 44 Francesco Montanari

La responsabilità tributaria nelle operazioni di scissione parziale: la deriva della Suprema Corte verso la salvaguardia della ragion fiscale (nota a Cass. n. 22225/2016)..................................................................................................

II, 4

Francesco Pedrotti

Le operazioni “strettamente connesse” a un’operazione esente Iva (nota a Corte di Giustizia, 4 maggio 2017, causa C-699/15)..........................................................

IV, 8

Damiano Peruzza

Ruolo straordinario e misure cautelari preclusi se l’accertamento è annullato (nota a Cass. civ. n. 758/2017)................................................................................... II, 25 Stefano Piccioli

Confisca di beni sequestrati: profili penal-tributari della determinazione del reddito agli effetti del calcolo di proporzionalità tra mezzi ed impieghi....................... III, 1 Guido Salanitro

Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (cd. flat tax per neo-residenti)..................................................

I, 53

Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Ivo Caraccioli............................................................................................... III, 1 Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi.................................................................................................. Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.

IV, 1


II

indici

INDICE ANALITICO QUESTIONI GENERALI RISCOSSIONE Ruolo – Misure cautelari – Sentenza – Esecutività (Cass. civ., Sezioni Unite, 19 aprile 2016 - 13 gennaio 2017, n. 758, con nota di Damiano Peruzza)................... II, 19

OPERAZIONI STRAORDINARIE Scissione non proporzionale – Debiti tributari anteriori alla scissione – Responsabilità limitata alle imposte sui redditi – Esclusione – Applicabilità dell’art. 2506 quater c.c. – Esclusione (Cass., Sez. V, 20 ottobre 2016 - 3 novembre 2016, n. 22225, con nota di Francesco Montanari).................................................................

II, 1

IMPOSTE SUI REDDITI REDDITI DI IMPRESA Costi deducibili – Contratto di stock lending – Nullità per difetto di causa in concreto – Irrilevanza – Assimilazione all’usufrutto azionario – Sussistenza – Indeducibilità della commissione ex art. 109, comma 8, TUIR – Sussistenza (Cass. civ., Sez. trib., 8 marzo 2017 - 12 maggio 2017, n. 11872, con nota di Gabriele Giusti).......................................................................................................................... II, 37

IMPOSTE INDIRETTE IVA (IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO) Operazioni esenti – Operazione “strettamente connessa” ad un’operazione esente di “interesse pubblico” – Esenzione – Sussistenza – Equiparazione con operazioni “accessorie” di un’operazione principale – Sussiste (Corte di Giustizia UE, Prima Sezione, 4 maggio 2017, causa C-699/15, con nota di Francesco Pedrotti)........................................................................................................... IV, 1


indici

III

INDICE CRONOLOGICO Corte di Giustizia 4 maggio 2017, causa C-699/15.................................................................................

IV, 1

*** Cass., Sez. V 20 ottobre 2016 - 3 novembre 2016, n. 22225..........................................................

II, 1

Cass. civ., Sezioni Unite 19 aprile 2016 - 13 gennaio 2017, n. 758.................................................................. II, 19 Cass. civ., Sez. trib. 8 marzo 2017 - 12 maggio 2017, n. 11872................................................................ II, 37

Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio



indici

V

INDICE DEGLI AGGIORNAMENTI ONLINE 2017

Andrea Aliberti - Luca Romanelli, Illegittima, per la Corte di Giustizia, la disposizione “anti-abuso” francese sui limiti all’esonero da ritenuta per i dividendi pagati a “madre” comunitaria controllata da società extra UE. Effetti sugli accertamenti basati sull’omologa disposizione italiana, 07/09/2017 Andrea Aliberti, Troppe disposizioni confondono anche la Corte di cassazione, 18/10/2017 Paolo Arginelli, La Corte di giustizia UE si pronuncia sul requisito dell’assoggettamento ad imposta previsto dalla Direttiva Madre Figlia, 02/04/2017 Paolo Arginelli, ATRiD: Harmonizing the rules on the allocation of taxing rights within the EU and in the relations with third countries, 27/07/2017 Edoardo Belli Contarini, Accordo fiscale concordatario ed effetti processuali, 28/11/2017 Edoardo Belli Contarini, La “rottamazione” delle cartelle esattoriali e delle liti tributarie ed eventuali riflessi penali, 07/12/2017 Susanna Cannizzaro, O Favor rei o abolitio criminis, purché non si applichi la sanzione!, 28/02/2017 Cristina Caraccioli, Dichiarazione dei redditi correggibile anche nel procedimento penale, 29/05/2017 Cristina Caraccioli, Ancora sui profili dell’“antieconomicita”, 28/07/2017 Cristina Caraccioli, Quando l’occultamento di scritture contabili è punibile ex art.10 dlgs 74/2000 mod.dlgs 158/2015, 28/07/2017 Ivo Caraccioli, Abuso del diritto e simulazione : limitazione del rischio penale, 19/01/2017 Ivo Caraccioli, Abuso del diritto e simulazione : limitazione del rischio penale, 03/03/2017 Ivo Caraccioli, Ritenuta d’acconto detraibile dall’imposta dovuta solo se effettivamente versata all’erario, 10/03/2017 Ivo Caraccioli, “Atto fraudolento” ex art. 11 D. Lgs. 74/2000 e “mezzi fraudolenti” ex art. 1 g-ter D. L.gs. 158/2015, 24/03/2017 Ivo Caraccioli, Anche nel patteggiamento la confisca per equivalente è obbligatoria, 29/05/2017 Ivo Caraccioli, Riciclaggio o reimpiego di denaro, beni, o utilità?, 29/05/2017 Ivo Caraccioli, Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte e parametrazione della confisca all’importo delle sanzioni, 27/07/2017 Fabio Coli, Ancora sull’inammissibilità del ricorso per cassazione “indaginoso”, 05/08/2017 Arno Crazzolara, Il Trattato Multilaterale BEPS è self-executing?, 24/05/2017


VI

indici

Barbara Denora, Imposta sulle successioni: il coacervo del donatum con il relictum non serve più?, 11/01/2017 Barbara Denora, Abrogazione tacita del coacervo ai fini dell’imposta sulle successioni, 11/01/2017 Barbara Denora, Sì alla falcidia dell’IVA, ma non per tutti, 30/01/2017 Barbara Denora, Adempimento unico: il notaio paga l’imposta di registro a titolo di “integrazione”?, 06/03/2017 Barbara Denora, La discussa rilevanza delle passività dell’azienda nell’imposta di registro, 13/03/2017 Barbara Denora, Datio in solutum e imponibilità IVA: un nodo (ancora) da sciogliere, 10/04/2017 Barbara Denora, Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, atti a titolo gratuito e rilevanza dell’art. 2929-bis cod. civ., 10/05/2017 Barbara Denora, Le strategie di contrasto allo stock lending agreement: un grande equivoco?, 08/06/2017 Barbara Denora, La Cassazione conferma ancora una volta che la plusvalenza non è accertabile sul maggior valore determinato ai fini delle imposte d’atto, 17/08/2017 Barbara Denora, Il trattamento ai fini IVA del leasing finanziario sotto la lente della Corte di Giustizia UE, 14/11/2017 Barbara Denora, Dopo dieci anni di mancato pagamento, una variazione in diminuzione ai fini IVA non si nega a nessuno, 19/12/2017 Francesco Farri, Aliquota IRES dimezzata tra obiter dicta e altri fraintendimenti, 17/01/2017 Francesco Farri, Quando i principi supremi dell’ordinamento italiano prevalgono sul diritto europeo: dalla Corte costituzionale italiana una pronuncia storica sulla effettività dei “controlimiti”, 06/02/2017 Francesco Farri, Detrazione IVA e antieconomicità del corrispettivo: abuso dell’abuso del diritto, 18/02/2017 Francesco Farri, Sull’invalidità “caducante” nel diritto tributario, 31/03/2017 Francesco Farri, Estinzione della società in corso giudizio: conseguenze processuali, 24/05/2017 Francesco Farri, Flat tax per neo-residenti: i dubbi permangono, 22/06/2017 Francesco Farri, Privilegi dei crediti erariali e retroattività: c’è davvero bisogno di rimettersi alla cedu?, 26/07/2017 Francesco Farri, Termini raddoppiati: la CTR MILANO tiene aperta la partita, 25/09/2017 Francesco Farri, Tassa sui rifiuti: limiti alla discrezionalità dei comuni nella fissazione delle tariffe, 27/09/2017 Francesco Farri, Beneficio dell’escussione e decadenza nella solidarietà tributaria, 29/09/2017


indici

VII

Francesco Farri, Famiglia discriminata nell’accesso a benefici di finanza pubblica: il monito della corte costituzionale, 09/11/2017 Francesco Farri, Accise su oli vegetali: limiti all’applicazione dell’analogia, 11/12/2017 Francesco Farri, Frodi iva e principi costituzionali: la cgue dà ragione alla corte costituzionale italiana, 12/12/2017 Andrea Fedele, Ma si tratta veramente di agevolazione (a proposito dell’applicazione del principio di alternatività IVA-registro agli atti giurisdizionali)? 17/07/2017 Andrea Fedele, L’imposta di consumo sulle “sigarette elettroniche” e la “ratio” dell’accisa sui tabacchi, 14/12/2017 Guglielmo Fransoni, The “foreseeable relevance” of the information under article 26 of OECD Model Convention, 01/03/2017 Guglielmo Fransoni, Per la chiarezza delle idee su Bill Gates e la tassazione dei robot, 10/03/2017 Guglielmo Fransoni, La Cassazione e le perduranti incertezze sulla nozione di inerenza, 16/03/2017 Guglielmo Fransoni, Da quando decorrono gli effetti della modifica dell’elenco dei Paesi white list?, 19/04/2017 Guglielmo Fransoni, Promesse “condizionate” a una prestazione, onerosità, contratti di scambio e imposta sul valore aggiunto, 03/07/2017 Guglielmo Fransoni, Illecito e inerenza nella determinazione del reddito d’impresa, 13/07/2017 Guglielmo Fransoni, Il diniego (tacito o espresso) di autotutela non può essere impugnato, 18/07/2017 Guglielmo Fransoni, L’Agenzia delle entrate esclude il carattere “abusivo” delle operazioni “strumentali”, 04/08/2017 Guglielmo Fransoni, La Cassazione Penale e l’abuso del diritto, ovvero: tutto quel chiasso ei non degnò di un guardo e a brucar serio e lento seguitò, 10/08/2017 Guglielmo Fransoni, Prime considerazioni sulla web tax ovvero sull’iniziativa congiunta di Francia, Germania, Italia e Spagna di tassare le società attive nel settore della digital economy, 19/09/2017 Guglielmo Fransoni, La proposta estone di una web tax basata sul numero dei clienti: stabile organizzazione virtuale o reale?, 22/09/2017 Guglielmo Fransoni, La Corte di Giustizia “travolge” la disciplina dell’esenzione IVA per l’attività dei consorzi fra soggetti “esenti”, 17/10/2017 Guglielmo Fransoni, L’annullamento del provvedimento di sgravio del ruolo, 19/10/2017 Guglielmo Fransoni, Importanti novità dalla Cassazione in merito alla motivazione degli avvisi di accertamento catastale, 20/10/2017


VIII

indici

Guglielmo Fransoni, La rettifica della fatturazione nell’interpretazione della Corte di Giustizia UE, 22/10/2017 Guglielmo Fransoni, Un esempio di irrazionalità assoluta: il calcolo del valore della rendita vitalizia ai fini dell’imposta di registro, 24/10/2017 Guglielmo Fransoni, La riforma fiscale di Trump e i suoi effetti sulla tassazione internazionale e sulla web tax, 17/11/2017 Guglielmo Fransoni, Osservazioni sulla nozione di azienda nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 22/11/2017 Guglielmo Fransoni, Contraddizioni pericolose: il regime dei versamenti a fondo perduto o in conto capitale in un’opinabile sentenza della Corte Costituzionale, 15/12/2017 Simone Ghinassi, Decadenza da agevolazioni fiscali e responsabilità solidale del venditore per imposta di registro, 16/01/2017 Valeria Mastroiacovo, L’attività riqualificatoria ex art.20 TUR non può travalicare lo schema negoziale tipico in cui l’atto risulta inquadrabile, 07/02/2017 Valeria Mastroiacovo, La Cassazione riesuma la supersolidarietà nell’imposta di registro?, 21/10/2017 Enrica Mencatelli, Il Gruppo i.v.a. secondo gli orientamenti della Corte di Giustizia U.E. (rassegna di giurisprudenza), 18/01/2017 Enrica Mencatelli, Violazione del principio all-in all-out e cessazione del gruppo i.v.a., 18/05/2017 Maria Teresa Montemitro, Dichiarazione non veritiera sull’origine delle merci e previsione sanzionatoria, 22/05/2017 Maria Teresa Montemitro, L’inapplicabilità della disciplina del raddoppio dei termini all’Irap, 04/09/2017 Francesco Padovani, Stabile organizzazione e branch exemption, 20/01/2017 Francesco Padovani, La Corte di Cassazione interviene sui principi di tassazione dei redditi di capitale conseguiti da imprese domestiche e non residenti, 18/04/2017 Giulia Paroni Pini, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: la Grande Camera detta i limiti di applicabilità del principio del ne bis in idem, 17/01/2017 Guido Salanitro, “Autoliquidazione” dell’imposta di registro e limiti della responsabilità fiscale del notaio, 13/06/2017 Costantino Scalinci, Sull’esistenza di un generale diritto al contraddittorio preventivo la Cassazione conferma una “frattura interna corporis” tuttora scomposta, 19/01/2017 Costantino Scalinci, La giurisdizione sulle sanzioni tributarie amministrative e il caso dell’avvocato “sospeso per la toga in un limbo professionale sine die”, 27/03/2017 Costantino Scalinci, Se il fermo del veicolo è “fiscale” (e non “stradale”) per la Consulta la tassa automobilistica resta dovuta, 13/04/2017


indici

IX

Costantino Scalinci, La Cassazione alle prese con il “rebus” del cumulo delle donazioni ai fini della soglia esente dall’imposta istituita nel 2006, 05/06/2017 Costantino Scalinci, Favor iurisdictionis, prova ragionevole della tempestiva notifica a mezzo posta e tempi (necessari e facoltativi) per la costituzione “introduttiva” nel giudizio tributario, 09/06/2017 Costantino Scalinci, Gli interpelli del contribuente e la predeterminazione normativa dell’interesse ad agire, 21/07/2017 Costantino Scalinci, Una “prova d’appello” per il mancato deposito in CTP, persino, costituzionale, 02/08/2017 Costantino Scalinci, Graduale liberalizzazione del servizio “atti giudiziari” e ricorso tributario notificato «a mezzo posta privata», o terzo incaricato della “consegna”, all’Agente della riscossione, 23/10/2017 Costantino Scalinci, Incerto inquadramento dell’emergenza rifiuti del 2008, diritto alla riduzione della TARSU e onere di provare il mancato svolgimento del servizio di raccolta, 03/11/2017 Costantino Scalinci, La Cassazione conferma che per gli accertamenti standardizzati il contraddittorio preventivo è un obbligo anche “ontologicamente” fondato, 03/02/2017 Mattia Tencalla, Equity Crowdfunding per tutte le PMI con la Legge di Bilancio 2017: aspetti tributari, 03/02/2017 Mattia Tencalla, Riporto delle perdite in caso di fusione: la CTR Lombardia supera l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate, 08/03/2017 Mattia Tencalla, Imposta sostitutiva sui finanziamenti anche per gli intermediari finanziari, 06/12/2017 Marco Versiglioni, Imprese minori, Compecassa e Liquid Income Taxation System, 23/06/2017



Dottrina

La definizione del tributo nella giurisprudenza costituzionale* Sommario: 1. Implicazioni ideologiche della nozione e pluralità di definizioni del

tributo. – 2. La nozione “ampia” di tributo desumibile dall’art. 2 D. Lgs. n. 546/1992. – 3. La rilevanza costituzionale della categoria “tributi”: riferimenti testuali ed enunciazioni giurisprudenziali. – 4. La definizione e le singole proposizioni che la costituiscono: a) il testo consolidato. – 5. Segue: b) la (definitiva) decurtazione patrimoniale. – 6. Segue: c) gli ulteriori tratti distintivi del tributo rispetto alle altre prestazioni patrimoniali imposte; la destinazione a sovvenire pubbliche spese. – 7. Segue: d) la nozione di spese pubbliche. – 8. Segue: e) l’esclusione delle “modifiche di un rapporto sinallagmatico”. – 9. I tributi giudiziari; le tasse. – 10. Conclusioni. La giurisprudenza della Corte costituzionale sembra orientarsi ad una nozione unitaria ed onnicomprensiva di tributo. L’esame dei vari elementi della formula definitoria ormai standardizzata in molte sentenze si incentra sulla nozione di “destinazione a sovvenire pubbliche spese”, che identifica la stessa struttura essenziale del tributo come istituto giuridico, risolta in soggetti, presupposti, criteri di determinazione e modalità attuative del concorso alle pubbliche spese. Se ne dovrebbe quindi desumere il superamento delle tesi che assegnano un diverso regime costituzionale a distinte categorie di istituti tributari (ad es., imposte e tasse). The case law of the Italian Constitutional Court seems oriented towards a single and all-inclusive concept of tax. The analysis of the various elements of the standard definition used in many decisions is focused on the concept of “finalized to support public expenditure”, which identifies the essential structure of the tax as legal concept, based on entities, grounds, quantification criteria and modalities of the contribution to public expenditure. Therefore it seems possible to assume that the theory which applies a different constitutional regime to different categories of tax concepts (e.g. taxes and duties) is no longer valid.

* Si tratta del testo dell’intervento al Corso su “Il diritto tributario nella dimensione europea”, organizzato dalla Corte costituzionale e dal Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria tenutosi a Roma, Palazzo della Consulta, nei giorni 18 e 19 maggio 2017.


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Parte prima

Vorrei innanzitutto ringraziare per l’invito a partecipare ad una così stimolante esperienza didattica e di confronto fra le diverse prospettive di analisi del dato giurisprudenziale e dei rapporti fra le diverse giurisdizioni. Il tema a me assegnato propone un’impressionante vastità di tematiche. Tenuto anche conto dell’ampio contributo fornito, l’anno passato, dal prof. Fantozzi, che ha esaustivamente delineato le molteplici linee evolutive ed i nuclei problematici emergenti, in materia tributaria, dalla giurisprudenza della Corte costituzionale nella sua più che sessantennale attività, mi sembra preferibile soffermarmi oggi su di un unico tema, ma di rilevanza fondamentale, per sua natura idoneo ad influire sui problemi di legittimità costituzionale attinenti qualsiasi profilo sostanziale del sistema tributario. Mi occuperò pertanto della definizione del tributo nella giurisprudenza della Corte costituzionale. 1. Implicazioni ideologiche della nozione e pluralità di definizioni del tributo. – La nozione di tributo si rivela teoricamente difficile e necessariamente discussa e discutibile perché direttamente condizionata da presupposti ideologici spesso non evidenziati (e talvolta nemmeno percepiti) da chi affronta l’argomento. È sufficiente il raffronto fra la classica nozione, di ispirazione liberale, che articola la fiscalità, intesa come sistema delle remunerazioni dei servizi pubblici, includendovi imposte, tasse, tributi speciali (e, se si vuole, monopoli fiscali) e l’altrettanto (o forse più) risalente tesi per cui il tributo è essenzialmente manifestazione di sovranità, quindi, sulla scia della sistematica tedesca, identifica il diritto tributario come diritto delle (sole) imposte, per rendersi conto della difficoltà di formulare definizioni generalmente accolte del sistema tributario e del tributo. A livello teorico, la divergenza tra i presupposti ideologici che, esplicitamente od implicitamente, condizionano i diversi autori determina notevoli divaricazioni fra le definizioni dei singoli istituti o categorie e della stessa nozione del tributo. Soprattutto, si manifesta una tendenza a differenziare nettamente le nozioni utilizzabili a fini classificatori ed interpretativi al livello della legislazione ordinaria da quelle rilevanti ai fini dell’applicazione di norme e principi costituzionali. In modo forse più sistematico, parte della dottrina ha elaborato la tesi, in astratto coerente con i principi generali dell’interpretazione (e specificamente dell’interpretazione giuridica), secondo la quale al termine “tributo” si devono attribuire significati diversi in funzione del contesto normativo in cui è inserita la disposizione contenente il termine stesso.


Dottrina

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Esigenze di coerenza sistematica, che esprimono anche necessità di congruità applicativa, militano però a favore di soluzioni omogenee, tendenzialmente inclusive, in grado di superare anche divergenze derivanti da fattori meramente testuali. Un esempio pertinente di elaborazione progressivamente inclusiva di istituti fiscali, che giunge a far coincidere la nozione di tributo con la tradizionale e più ampia delimitazione della fiscalità, è, ovviamente, rinvenibile nella disciplina legislativa dell’ambito della giurisdizione del giudice tributario. 2. La nozione “ampia” di tributo desumibile dall’art. 2 D. Lgs. n. 546/1992. – Come è noto, nell’evoluzione della disciplina del processo tributario si è passati da formule che definivano la giurisdizione delle Commissioni tributarie limitandola alle controversie relative a singoli tributi, nominativamente indicati, ad una clausola definitoria incentrata sul termine “tributi”, nella massima possibile espansione del suo significato (“di ogni genere e specie comunque denominati”). La vicenda legislativa ha giustificazioni risalenti, giacché, nell’individuare l’ambito del legittimo esercizio del potere giurisdizionale in materia tributaria è tradizionale, nella nostra legislazione, il ricorso a formule “inclusive” (nell’art. 9 c.p.c. “imposte e tasse”). Ma il vero fondamento di questa evoluzione va ricercato nella giurisprudenza costituzionale che proprio nella giurisdizione in materia di tributi (di qualsiasi tributo, quindi nella più ampia accezione possibile del termine) ha individuato il tratto distintivo (ma anche il requisito necessario per la sua attuale permanenza) del giudice speciale tributario “preesistente” alla Costituzione, “revisionato” ai sensi della sua VI disposizione transitoria, quindi non in contrasto con l’art. 102 cost. Sviluppando questa indicazione giurisprudenziale, il legislatore ha introdotto il termine “tributi” nell’art. 2 D. Lgs. n. 546/1992, dapprima nella formula limitata ai “tributi locali e comunali”, poi (con la L. 28.12.2001, n.448) nella clausola generale addietro riportata. La giurisprudenza della Corte costituzionale, e sopratutto della Cassazione, ha interpretato la disposizione senza porre minimamente in dubbio la sussistenza, nel sistema, di una nozione unitaria ed esclusiva del tributo ed è giunta ad una definizione sostanzialmente conforme a quella che emerge dalla casistica relativa ad altre norme e a diversi principi costituzionali. Tuttavia questo risultato, indubbiamente significativo, risulta parzialmente problematico quanto a livello di stabilità e non totalmente incompatibile con la tesi favorevole alla compresenza, nel nostro ordinamento, di nozioni diverse del


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Parte prima

tributo. In effetti la giurisprudenza costituzionale individua nelle controversie in materia di tributi solo un limite estremo alla legittimità costituzionale delle norme di fonte primaria che regolano la giurisdizione del giudice tributario. Tali norme risulterebbero incostituzionali se volte ad estendere la giurisdizione oltre quel limite, ma ben possono restringerla (anzi, lo stesso c. 1 dell’art. 2 D. Lgs. n. 546/1992 la delimita con riguardo alle “controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata successivi alla notifica della cartella di pagamento”). La restrizione può derivare dalla previsione di requisiti ulteriori del tributo, in carenza del quale sarebbe precluso al giudice tributario di conoscere le relative controversie. Ad es., si potrebbe derivare da un’interpretazione combinata degli artt. 2, 10 e 19 D. Lgs. n. 546/1992 la conclusione che la giurisdizione del giudice tributario è limitata alle controversie relative ai soli tributi per la cui attuazione è emanato almeno uno degli atti indicati nel citato art. 19, seppure estensivamente interpretato, e nelle quali sia resistente uno dei soggetti di cui all’art. 10 (si noti che proprio a questa interpretazione fa riferimento – senza condividerla, ma definendola “non implausibile” – la motivazione della sentenza n. 116/2013, di cui oltre, al fine di ammettere la legittimazione della Corte dei conti a sollevare l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma impositrice di una prestazione nel prosieguo della sentenza identificata come tributo). Per converso, si è sostenuta (incidentalmente ed in contrasto, come vedremo, con il costante indirizzo della Corte costituzionale) la natura tributaria dei contributi previdenziali (cfr., ad es., Cass., Sez. Unite, n. 123/2007; Sez. III penale, n. 29755/2013), fermo restando, naturalmente, che specifiche norme di legge attribuiscono al giudice ordinario la giurisdizione sulle relative controversie. Il particolare assetto del rapporto fra principi costituzionali e autonomia normativa del legislatore ordinario nella fissazione dei limiti della giurisdizione del giudice tributario rende però possibile una ulteriore e più drastica soluzione: il legislatore ordinario potrebbe intervenire espressamente, fornendo, ad integrazione dell’art. 2 D. Lgs. n. 546/1992, una definizione del tributo più restrittiva di quella che attualmente fornisce alla giurisprudenza la base testuale dell’indirizzo interpretativo consolidato. La norma non sarebbe, in sé, incostituzionale, ma riproporrebbe il tema dei plurimi significati, a seconda del contesto, del termine tributo. In definitiva, solo risalendo alla Costituzione ed al sistema dei principi che la connotano si può trovare fondamento per una definizione unitaria e relativamente stabile, in quanto “costituzionalmente necessaria”, del tributo.


Dottrina

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3. La rilevanza costituzionale della categoria “tributi”: riferimenti testuali ed enunciazioni giurisprudenziali. – Come è noto, nella Costituzione i riferimenti testuali sono scarsi: il sostantivo “tributi” appare solo nell’art. 119 (ove si menzionano i “tributi propri”); l’aggettivo “tributario” è riferito, negli artt. 53, c. 2, e 117, c. 2 e 3, al “sistema”, nell’art. 75, c. 2, alle “leggi”; significativamente, proprio la disposizione che più concorre a definirlo (l’art. 53, c. 1) non utilizza il termine. Di “tributi” (o “entrate tributarie”) si tratta invece, espressamente, negli Statuti delle Regioni a statuto speciale, ove è essenziale l’individuazione, sia delle competenze normative ed amministrative degli organi regionali (e qui si fa anche riferimento al “sistema tributario” o all”ordinamento tributario” i cui principi devono essere osservati), sia degli istituti che danno luogo ad entrate erariali attribuite, per intero o per quote alle Regioni stesse. I profili di rilevanza costituzionale degli istituti e delle vicende attuative della fiscalità sono, evidentemente, ben più numerosi di questi limitati riferimenti testuali ed emergono nelle sentenze emesse in materia dalla Corte in oltre un sessantennio di attività. Mi sembra però che, pur nella diversità delle questioni affrontate e risolte, questa giurisprudenza sia caratterizzata dalla costante esigenza di elaborare, anche con progressivi affinamenti terminologici, una nozione unitaria del tributo. Per una più esaustiva argomentazione a sostegno di questo assunto si può fare riferimento al saggio del prof. Fransoni pubblicato nel volume sui cinquanta anni della Corte costituzionale (a cura di L. Perrone e C. Berliri, Diritto tributario e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, 123 ss.). Nel periodo più recente, la Corte sembra aver preso coscienza della necessità e rilevanza, anche in termini di indirizzo per la giurisprudenza futura e di incentivo all’intrinseca coerenza delle decisioni, di una definizione stabilizzata del tributo. Laddove le implicazioni fiscali delle norme della cui legittimità costituzionale si discute assumono rilievo ai fini della decisione, la motivazione delle sentenze riporta una compendiosa definizione, via via perfezionata, che sembra ormai cristallizzata. Appunto da questa definizione deve, a mio avviso, prendere le mosse ogni ulteriore considerazione sull’argomento. 4. La definizione e le singole proposizioni che la costituiscono: a) il testo consolidato. – La formula definitoria che, sia pure con minime varianti, si riproduce in tutte le sentenze più recenti aventi ad oggetto discipline la cui qualificazione fiscale assume rilievo ai fini del giudizio può essere tratta


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dalla sentenza n. 304/2013, al punto 5 delle considerazioni in diritto, ed è la seguente: “gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese.” Formule pressoché identiche si trovano in altre sentenze (ad es., sentenze nn. 310/2013; 154/2014; 219/2014; 70/2015 – nella motivazione delle ultime due con aggiunta di un’ulteriore clausola definitoria rinvenibile nella precedente giurisprudenza, ad es., nella sentenza n. 73/2008: “prelievo coattivo finalizzato al concorso alle pubbliche spese posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva”). Va premesso che il riferimento, nella definizione, dell’aggettivo “tributaria” al sostantivo “fattispecie” non deve essere inteso come un richiamo a quello che nella tradizione dottrinaria e legislativa italiana è indicato come “presupposto del tributo” (o fatto imponibile, situazione base, fattispecie imponibile). Non bisogna dimenticare, infatti, che la definizione surriportata è funzionale al giudizio di legittimità costituzionale, avente ad oggetto norme, ed è destinata ad identificare e qualificare una “disciplina legale”. Dunque dell’incipit della formula definitoria non si deve valorizzare il potenziale conflitto con la dottrina dominante, che concepisce il tributo come dato effettuale, esso va piuttosto coordinato, in un’ottica funzionale, con la configurazione, a mio avviso più idonea, del tributo come assetto disciplinare, come istituto giuridico. Insomma, forse impropriamente, il termine “fattispecie” sta qui ad indicare il complesso di norme rispetto alle quali la Corte è chiamata ad accertare l’eventuale non conformità a Costituzione. Passiamo ora ad un esame analitico dei tre elementi della definizione. 5. Segue: b) la (definitiva) decurtazione patrimoniale. – Il primo periodo della definizione ha per soggetto la “disciplina legale”. Viene così sinteticamente individuato l’elemento necessario di ogni “imposizione”, che è esercizio di un potere pubblico e presuppone quindi un atto in cui tale potere si esprime: legge, regolamento, atto amministrativo generale, provvedimento amministrativo collettivo od individuale.


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L’aggettivo “legale” non limita la rilevanza della definizione alle sole prestazioni patrimoniali imposte in base ad una legge: ove manchi la necessaria “base” legislativa, la relativa disciplina risulta illegittima ed invalido, per violazione dell’art. 23 cost., l’atto, regolamento od altro che determina la decurtazione patrimoniale (in carenza della necessaria “base” legislativa); ma pur sempre di prestazione (per quanto illegittimamente) imposta si tratta. Altrimenti, la riserva di legge non potrebbe operare. Si dovrebbe invero (paradossalmente) concludere che l’atto, ad es., il regolamento assolutamente privo di “base legislativa”, non impone una prestazione patrimoniale, ma regola un diverso fenomeno giuridico, dunque non viola l’art. 23 cost. Detto in altri termini, la disciplina posta dalla norma costituzionale non può essere confusa con la fattispecie prevista dalla norma stessa, perché ciò ne determinerebbe l’inoperatività proprio nel caso estremo della totale carenza di qualsiasi previsione normativa di rango primario. Tuttavia, nel contesto in cui la definizione è posta, il riferimento alla sola disciplina “legale” appare giustificato: sin dall’inizio della sua attività la Corte ha sempre escluso che possano essere innanzi a lei sollevate eccezioni di incostituzionalità di atti diversi dalle leggi e dagli atti aventi forza di legge. Dunque, ferma restando la possibilità di “imposizioni” derivanti dall’esercizio di poteri diversi da quello legislativo, nell’esercizio della sua giurisdizione in via incidentale, la Corte potrà conoscere solo della legittimità costituzionale di “discipline legali”. Solo nei giudizi sui conflitti Stato-Regioni, od in genere in via diretta, possono assumere rilievo atti che non costituiscono espressione del potere legislativo (ad es., il caso deciso con la sentenza n.73/2008 riguardava un atto dell’amministrazione dello Stato, una circolare, che la Regione Sicilia asseriva ledere i suoi diritti sul gettito di un certo tributo; la Corte non nega la propria giurisdizione a causa della natura dell’atto, ma si limita a rilevare che la regolamentazione contabile e dell’accredito su di un determinato conto non pregiudica il diritto della Regione alle somme in questione). Confermato il carattere della “coattività” della prestazione in quanto espressione di poteri pubblici, normativi od amministrativi, risulta poi pacifica l’irrilevanza della denominazione, e comunque della terminologia, utilizzata per designarla (per un esempio nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia dell’U. E. si può richiamare la sentenza C/189/15, del 18.1.2017, in cui si qualificano pianamente come tributi prestazioni denominate dal legislatore italiano come “corrispettivi a copertura degli oneri generali del sistema elettrico”). Resta, a mio avviso, aperto il problema della possibile qualificazione come “imposizioni” di interventi autoritativi atti a produrre solo una parte


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(decisiva però ai fini della “decurtazione patrimoniale”) di un più complesso assetto regolamentare, per il resto derivante da altra fonte (anche negoziale, in questo caso secondo lo schema dell’integrazione legale degli effetti del contratto – artt. 1339 e 1374 c.c.).Naturalmente, se la fonte del complessivo rapporto è principalmente negoziale, solo in parte integrata dalla legge o da atto dell’amministrazione, l’”imposizione” si rivelerà mezzo efficace per la copertura delle pubbliche spese solo in ragione del particolare assetto del mercato (ad es., monopolio legale o di fatto, mercato ad accesso limitato, prezzi regolamentati con notevoli margini di guadagno per il soggetto che subisce un aggravio della prestazione a suo carico, ecc.) che rende comunque appetibile, anche alle nuove condizioni, la conclusione del contratto. La Corte ha talvolta ammesso la rilevanza di forme di “imposizione” prodotte da atti espressivi di poteri pubblici che integrano solo in parte assetti giuridici per il resto già disciplinati (è il caso delle sentenze sugli “sconti” sui prezzi dei medicinali imposti a favore di enti pubblici: ad es., sentenze nn. 70/1960 e 92/1972), altre volte l’ha, invece, negata (ad es. escludendo ogni rilevanza fiscale delle norme volte a ridurre le indennità di espropriazione di determinate categorie di beni ad importi di molto inferiori al valore di mercato dei beni stessi: sentenze nn.395/1996 e 148/1999). La questione coinvolge il secondo elemento della definizione surriportata, sul quale tornerò più oltre, visto che questo tipo di interventi autoritativi “integra”, di regola, la disciplina di assetti “commutativi”. Ma non trova ancora, sempre a mio avviso, una soluzione definitiva nella giurisprudenza della Corte. Pur rendendomi conto che la tesi contrasta con risalenti e consolidate opinioni (ad es., circa la natura necessariamente estranea ad ogni forma di “imposizione” – quindi all’area della fiscalità – di rapporti di fonte negoziale), continuo a ritenere che un’idea di “coazione” inclusiva di forme di intervento autoritativo “parziale” rispetto al complessivo regolamento del rapporto consenta più agevoli ricostruzioni di istituti ricondotti dalla dottrina dominante e dalla giurisprudenza costituzionale all’area della fiscalità o comunque delle prestazioni patrimoniali imposte. È il caso, ad es., dei monopoli fiscali, nei quali la “decurtazione patrimoniale” potrebbe considerarsi “imposta” con il provvedimento (atto amministrativo generale o regolamento, a sua volta previsto dalla legge) che fissa l’importo del corrispettivo a carico del consumatore (e, nel suo ammontare, la quota qualificata come “imposta di consumo”). È nota però la diversa costruzione teorica che assimila il monopolio fiscale ad un’accisa il cui soggetto passivo (“percosso” dal tributo) sarebbe il dettagliante, che la trasla sul consu-


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matore (definitivamente “inciso”). La giurisprudenza della Corte parrebbe, in realtà, compatibile con ambedue le tesi (cfr., ad es., le sentenze nn. 209/1976 e 83/2015). Il riconoscimento di forme di coazione “parziale” potrebbe poi essere utile a fornire giustificazioni a mio avviso sistematicamente più coerenti alle sentenze in cui si riconoscono forme di “imposizione di fatto” (cfr., ad es., Corte cost. nn. 72/1969, 127/1988, 236/1994, 215/1998); infatti gli assetti disciplinari in esse considerati parrebbero prevedere comunque un atto, espressione di potere pubblico, che determina l’entità della prestazione “imposta” al soggetto passivo. D’altronde, l’inciso “in via prevalente”, nella proposizione in esame sicuramente riferibile alle ipotesi di concorso di più profili funzionali della disciplina, potrebbe anche implicare la non esclusività dell’intervento autoritativo, la possibilità che l’imposizione risulti da parte soltanto di una più complessa disciplina. La manifestazione del potere normativo od amministrativo, per costituire “imposizione”, deve risultare funzionalmente ordinata (almeno in via prevalente) a determinare, nel patrimonio di un “soggetto passivo”, una “decurtazione patrimoniale”. Delimitare l’”imposizione” sotto il profilo funzionale vale a distinguere i fenomeni che qui interessano da altre ipotesi in cui i poteri pubblici sono esercitati, con riflessi diretti sul patrimonio dei privati, ma con finalità diverse dalla mera riduzione del loro patrimonio. Si possono portare ad esempio di interventi autoritativi incisivi del patrimonio del privato, ma con funzione diversa dalla sua “decurtazione”, le diverse ipotesi in cui la legge prevede la distruzione di beni dei privati, ma ordinata a soddisfare interessi generali (di natura edilizia od urbanistica, ma anche sanitaria, come nel caso degli ordini di abbattimento di bestiame infetto, e così via). Più complesso il caso della espropriazione per pubblica utilità, che tradizione normativa e giurisprudenza consolidata escludono dall’area delle prestazioni patrimoniali imposte, e comunque potrebbero dar luogo a decurtazioni patrimoniali solo nei margini fra il valore di mercato ed un “ristoro” che possa dirsi “non irrisorio”. Per contro, restano inclusi nell’ambito dell’”imposizione” di prestazioni (non tributarie però) gli assetti normativi in cui il depauperamento patrimoniale realizza, in via principale, finalità sanzionatorie (ad es., se sono previste sanzioni pecuniarie amministrative) o reintegrativo – indennitarie (artt. 2041 e 2043 c. c.). L’aspetto più innovativo di questo primo elemento della definizione consiste indubbiamente nell’uso dell’espressione “decurtazione patrimoniale”, che,


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letteralmente, ha portata più ampia dell’espressione “prestazione patrimoniale” contenuta nell’art. 23 cost., ma esprime più compiutamente l’ambito di operatività del principio ivi enunciato, già individuato da parte almeno della dottrina. “Decurtazione” indica il risultato, in termini di riduzione del valore complessivo del patrimonio del soggetto passivo, del dispiegarsi degli effetti dell’”imposizione”. Sono infatti inclusi gli effetti di “ablazione reale”. Piuttosto che all’ablazione di cose (o diritti reali su cose), meno probabili dacché i sistemi tributari hanno abbandonato e superato i tributi in natura (la confisca, magari preceduta da sequestro per equivalente, dovrebbe, al più, estinguere obbligazioni preesistenti), si può pensare ad effetti estintivi (in tutto o in parte) di diritti di credito. D’altronde, l’effetto estintivo è “reale” in senso proprio, potendo realizzarsi, e dare soddisfazione all’interesse sotteso alla vicenda, a prescindere dalla collaborazione di altro soggetto. Nella giurisprudenza recente della Corte si prendono spesso in considerazione ipotesi di riduzione di crediti pecuniari spettanti al soggetto passivo; ad es.: - dell’indennità integrativa speciale spettante ai magistrati (sentenza n. 213/2012); - del trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici (sentenza n. 213/2012); - dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatoria (sentenza n. 116/2013); si afferma infatti che il legislatore può intervenire, purché non irragionevolmente, anche su “diritti soggettivi perfetti” derivanti da contratti (o rapporti) di durata. È però implicita, nell’idea stessa della decurtazione, la previa sussistenza del diritto parzialmente o totalmente estinto. Potrebbero essere apprezzate in quest’ottica le sentenze che hanno posto fuori della logica delle “prestazioni imposte” (qualificandoli come meri “risparmi di spesa”): - i “blocchi” della progressione stipendiale dei diplomatici (n. 304/2013), dei docenti universitari (n. 310/2013), degli ufficiali della guardia di finanza (n. 154/2014), dei dipendenti degli istituti scolastici (n. 219/2014); - nonché il “blocco” della progressione dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il minimo (n. 70/2015, che pure ha dichiarato incostituzionale il blocco stesso, ma sotto altro profilo, non attinente l’”imposizione di prestazioni” – si veda anche la sentenza n. 173/2013). Anche rispetto alla nozione di “decurtazione” va comunque tenuto conto del potenziale limite derivante dal secondo periodo della definizione.


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L’espresso riferimento alla “definitività” della vicenda patrimoniale parrebbe infine escludere la rilevanza, in questo contesto, dei prestiti forzosi, purché, naturalmente, “redimibili”, rispetto ai quali potrebbe però porsi il problema dell’eventuale esclusione (o rilevante riduzione rispetto alla misura stabilita dal mercato) degli interessi, in sé idonea a determinare una “decurtazione patrimoniale”. In definitiva, questo primo elemento definitorio individua istituti giuridici in sostanza corrispondenti a quelli che giurisprudenza e dottrina inquadrano fra le “prestazioni patrimoniali imposte” di cui all’art. 23 cost.. Poiché le ulteriori proposizioni che integrano la formula definitoria sono rivolte a precisare gli ulteriori caratteri distintivi dei tributi, trova qui conferma la tesi, di gran lunga prevalente in dottrina, secondo la quale tutti i tributi sono prestazioni imposte, anche se non tutte le prestazioni patrimoniali imposte sono tributi. 6. Segue: c) gli ulteriori tratti distintivi del tributo rispetto alle altre prestazioni patrimoniali imposte; la destinazione a sovvenire pubbliche spese. – I caratteri propri dei tributi, che pertanto li distinguono dalle altre prestazioni imposte, sono individuati dalla Corte mediante il ricorso a criteri funzionali, fermo restando che i profili funzionali si risolvono in caratteristiche strutturali degli istituti in questione. L’elemento fondamentale della definizione, che individua il carattere proprio e fondamentale dei tributi, è posto al termine dell’ultima proposizione: le risorse derivanti dalla decurtazione “devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese”. La frase parrebbe esprimere un’ovvietà: tutte le entrate pubbliche vanno a coprire (sono destinate a coprire) spese pubbliche; che operi il principio di unicità del bilancio, per il quale tutte le entrate in esso confluite sono indistintamente distribuite fra i capitoli di spesa, ovvero singole previsioni legislative dispongano specifiche destinazioni di determinate entrate a spese specificamente individuate, non vi è dubbio che ogni entrata sovvenga, in definitiva, a spese pubbliche. Tuttavia la frase coglie esattamente la funzione del tributo come assetto disciplinare: tenuto conto di tutte le altre entrate pubbliche già previste (oltre a quelle tributarie, entrate patrimoniali in senso lato, indennitarie, sanzionatorie, ecc.), ciascun tributo esprime la scelta di porre attualmente a carico dei consociati parte delle spese pubbliche, fermo restando che quanto eventualmente non coperto da entrate (“attuali”, appunto, rispetto alla periodicità del


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bilancio) andrà a costituire disavanzo (nei limiti consentiti dall’art. 81 cost.), spostando il problema nel futuro, probabilmente anche sulle generazioni a venire. L’istituzione del tributo, o la modifica della sua disciplina sostanziale, comporta quindi una scelta di grande rilevanza politica, implicando l’individuazione di chi, tra i consociati, dovrà sopportare il relativo onere e la fissazione della misura dell’onere stesso per ciascuno dei soggetti prescelti. Per assolvere a tale funzione, il tributo deve necessariamente risolversi in disciplina idonea ad individuare: le spese cui si deve sovvenire (di regola mediante l’identificazione del soggetto attivo, ma, nei tributi di scopo, anche tramite specifiche prescrizioni circa la destinazione del gettito); i soggetti che dovranno a tali spese concorrere, sopportandone l’onere; le condizioni perché il concorso stesso si realizzi (cioè i fatti e situazioni al cui verificarsi esso è doveroso); la misura della compartecipazione di ciascuno (dall’abbandono del sistema del “contingente” stabilita, per i tributi maggiori, mediante identificazione di un parametro e di un rapporto tra questo e l’importo a carico di ciascun contribuente). Il tributo come istituto giuridico si identifica dunque con la sua disciplina sostanziale, come definita da giurisprudenza e dottrina dominanti, relativa a soggetti, presupposto e misura, fissa o variabile. Questa articolazione disciplinare è sinteticamente evocata, nella definizione adottata dalla Corte, tramite il richiamo ad un “presupposto economicamente rilevante”, fatto o situazione riguardo al quale si possono identificare: per riferibilità soggettiva, i soggetti passivi; per rilevanza economica, la “misura” del corrispondente indice di capacità contributiva, quindi del concorso del singolo contribuente alle singole spese. Non si deve invece intendere la “connessione” con un presupposto economicamente rilevante come rinvio, nella definizione del tributo, alla necessità che il concorso avvenga “in ragione” della capacità contributiva dei soggetti passivi: l’osservanza del principio di capacità contributiva è condizione di legittimità costituzionale del tributo, non suo criterio distintivo, altrimenti la relativa disciplina dovrebbe qualificarsi come “non tributo”, estraneo all’area di operatività dell’art. 53 cost., e, come dimostra anche la giurisprudenza costituzionale addietro citata, la sua illegittimità costituzionale potrebbe essere dimostrata solo sulla base di altri parametri. Sembra invece chiaro che una disciplina ordinata al riparto dei carichi pubblici, ma non rispettosa del principio di capacità contributiva, va qualificata come tributo, ma dichiarata incostituzionale per violazione dell’art. 53 cost.. Anche in questo caso va evitata la confusione fra fattispecie e disciplina della norma costituzionale.


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Questa parte della definizione pone quindi in luce la funzione del tributo in quanto disciplina di un parziale riparto fra i consociati delle spese pubbliche, ricondotta ad unità di istituto giuridico in ragione dell’indice di capacità contributiva adottato, che è criterio di riparto, dunque ratio ispiratrice delle singole norme in cui la disciplina si articola. Si tratta di un elemento essenziale, non solo per l’identificazione del tributo, ma anche per un giudizio sulla sua legittimità costituzionale, ma non sempre la sua individuazione risulta sufficientemente ponderata; ad es.: - la ratio dell’imposizione sui tabacchi è stata identificata esclusivamente nel disfavore per l’assunzione del principio attivo, della nicotina; qualificato così il tributo come istituto con funzioni meramente dissuasive del consumo della droga (quindi esclusivamente extrafiscale), si è pianamente dichiarata “incongrua”, costituzionalmente illegittima ex art. 3 cost., la norma che estendeva l’imposizione a “prodotti succedanei” del tabacco, a prescindere dal loro contenuto di nicotina (sentenza n. 83/2015); per quanto la Corte abbia dovuto, in passato, sottolineare la funzione “dissuasiva”, a tutela del diritto alla salute, del monopolio fiscale per respingere eccezioni di illegittimità costituzionale ai sensi degli artt. 41 e 43 cost. (e in sostanza negare anche la violazione dei principi del diritto comunitario), il tributo si qualificava originariamente, e forse in parte anche oggi, come imposta su di un consumo voluttuario, cosicché potrebbe apparire non incongrua l’estensione a “consumi succedanei”; certamente convincente l’ulteriore argomentazione che, valorizzando la scarsa determinatezza della definizione di tali consumi, rileva una violazione dell’art. 23 cost.; - qualificato pacificamente come tributo il contributo unificato per l’iscrizione a ruolo (sentenza n. 73/2008), si da atto della difficoltà ad individuarne il criterio ispiratore, ma ciò rende difficile motivare adeguatamente le sentenze che rigettano l’eccezione di ingiustificata disparità di trattamento dei ricorsi “cumulativi” nel processo tributario rispetto ad analoghe azioni nel processo civile (sentenza n. 78/2016) ovvero quelle attinenti le modalità applicative del “raddoppio” del contributo a carico del ricorrente la cui impugnazione sia integralmente respinta, dichiarata inammissibile o improcedibile (sentenza n. 120/2016); la mera evocazione di una funzione di “recupero” del costo dei processi non giustifica una diversità di trattamento (anzi è probabile che i costi del processo tributario siano inferiori), né un “raddoppio” a scopo di esclusiva “deterrenza” dell’impugnazione infondata. Talvolta, però, è lo stesso legislatore a determinare incertezza circa l’effettiva ratio del tributo:


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- nell’istituire la c. d. Robin Hood Tax, si è dichiarato un “intento” (l’imposizione di un “sovrareddito”) incoerente con la disciplina effettivamente posta, che configurava una sovrimposta ordinaria sull’intero reddito di una certa categoria di operatori economici; la Corte ha avuto buon gioco nel rilevare l’irrazionalità della scelta (sentenza n. 10/2015); forse ci si potrebbe tuttavia domandare quale sia, nell’identificazione della ratio degli istituti fiscali, la rilevanza di “dichiarazioni d’intenti” cui non corrisponde il dettato disciplinare, dal quale, per l’appunto, emerge un diverso criterio di riparto. 7. Segue: d) la nozione di spese pubbliche. – La clausola della “destinazione a sovvenire pubbliche spese” presuppone una nozione di “spese pubbliche”. La Corte sembra ritenere pacifico il senso dell’espressione e non percepisce, al riguardo, alcun profilo problematico. Ciò si spiega, probabilmente, perché il criterio di identificazione delle pubbliche spese cui si fa implicito riferimento è quello soggettivo: sono pubbliche le spese degli enti pubblici. Ad esse è destinata, indistintamente, ogni entrata degli enti stessi secondo il principio dell’unicità del bilancio. Pertanto, ai fini dell’identificazione dei tributi, è sufficiente che la relativa disciplina indichi come soggetto attivo un ente pubblico. Tuttavia il principio dell’unicità del bilancio è derogabile dalla legge, che può espressamente destinare le “risorse derivanti dalla decurtazione” ad una specifica spesa che, se soggettivamente riferibile ad ente pubblico, è pubblica secondo lo stesso criterio soggettivo summenzionato; può darsi, però (si pensi all’eventualità di tributi con soggetti attivi di cui è per lo meno dubbia la natura pubblicistica) che la natura pubblica della spesa debba essere stabilita oggettivamente, sulla base di criteri analoghi a quelli utilizzati, ad es., in materia di servizi pubblici. Come si è detto, la Corte sembra presupporre l’operatività del criterio soggettivo (pur evocando, talvolta, una distinzione fra tributi destinati a sovvenire “spese generali” ed altri il cui gettito è destinato a “singole spese pubbliche”). Anzi, talune prese di posizione potrebbero apparire testualmente eccessive laddove si afferma che requisito essenziale del tributo è l’acquisizione allo “stato” (sentenza n. 173/2016) o “al bilancio dello stato” (sentenza n. 70/2015), mentre è ovvia la natura tributaria di “decurtazioni” il cui importo è acquisito, con le modalità di riparto addietro indicate, da altri enti pubblici. Si deve però tener conto che quelle affermazioni, nei contesti in cui si pongono, mirano ad escludere dall’area della fiscalità (ma non delle prestazioni imposte) i “circuiti previdenziali” di cui oltre.


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Invero, l’attribuzione della qualità di soggetto attivo di un tributo (“derivato” o meno) ad ente pubblico diverso dallo stato implica destinazione del gettito alle spese di quell’ente, necessariamente diverse da quelle di altri, ed anche dello stato. La nozione di bilancio pubblico allargato, determinante ai fini degli equilibri di bilancio, non esclude la rilevanza dei singoli enti (e dei loro bilanci) per la comprensione degli istituti fiscali. Si chiarisce, allora, il senso della “naturale” inclusione degli enti pubblici, ed eventualmente dello stesso stato, fra i soggetti passivi dei tributi, ove il legislatore non li escluda espressamente: sussistendone i presupposti, la “decurtazione patrimoniale” subita dal soggetto passivo, anche se pubblicisticamente qualificato, concorre a sovvenire alle spese pubbliche del soggetto attivo; si attua cioè una nuova “destinazione” (che non esclude quella impressa alle eventuali entrate tributarie del soggetto passivo). In un recente caso (sentenza n. 7/2017), il prelevamento, da parte dello stato, a carico di un ente previdenziale, del risultato attivo, in termini di risparmio di spese, della spending revue (prelevamento dichiarato comunque incostituzionale per specifici profili di irragionevolezza ed incongruità) ben poteva essere qualificato come tributo. 8. Segue: e) l’esclusione delle “modifiche di un rapporto sinallagmatico”. – La proposizione definitoria di cui mi riesce più difficile identificare l’esatta portata è quella che esclude dal novero dei tributi le “decurtazioni” consistenti in “modifiche di un rapporto sinallagmatico”. Una prima e più drastica interpretazione potrebbe infatti portare semplicemente al recupero della risalente ed autorevole opinione che esclude, appunto, dall’area della fiscalità tutti gli assetti giuridici connotati dallo scambio, dal sinallagma. Si tratta però di una tesi che nega la possibilità stessa di un’”imposizione” laddove il rapporto sia conformato dallo scambio, considerato forma “naturale” dei rapporti umani, in quanto tale incompatibile con la “coazione” o “coercizione” apprezzata essenzialmente come “alterazione” di tale assetto naturale. Nella giurisprudenza della Corte, invece, è espressamente ammessa la possibilità di “prestazioni imposte” in assetti latamente “corrispettivi” (si pensi alle già indicate sentenze sulle contribuzioni previdenziali obbligatorie). Naturalmente, queste considerazioni non escludono la rilevanza del sinallagma tra le prestazioni come possibile indice della natura negoziale, quindi non autoritativa, della fonte del rapporto; non sembra però che questo sia il senso della clausola in esame nel contesto di una definizione che presuppone la natura autoritativa della disciplina. Personalmente, sono piuttosto portato a ritrovare, nell’espressione “modifica di un rapporto sinallagmatico” l’eco della distinzione fra interventi auto-


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ritativi che conformano l’intero rapporto nell’ottica di un complessivo riequilibrio, di una nuova valutazione di tutti gli interessi in gioco (alla stregua, ad es., degli interventi ordinati alla regolazione del mercato), ed altri, anch’essi espressione di potere normativo od amministrativo, che incidendo su una delle prestazioni, decurtano il patrimonio di una sola delle parti, determinando un corrispondente concorso alle pubbliche spese. È questa, in effetti, la modalità dell’imposizione per integrazione solo parziale di regole di altra fonte cui ho accennato in precedenza e a suo tempo chiaramente evidenziata nella giurisprudenza sugli “sconti” sui prezzi dei medicinali. Il riferimento al “rapporto sinallagmatico”, considerato nel suo complesso, sembra inoltre emergere dalla più recente giurisprudenza, che lo estende ad assetti disciplinari di origine non contrattuale, ma pubblicistica, come quelli relativi a diritti e doveri dei dipendenti pubblici “non contrattualizzati”, per i quali la Corte distingue interventi legislativi che riequilibrano, con modifiche di compensi, ma anche aumenti o diminuzioni di prestazioni lavorative, il rapporto complessivo, da nuove discipline che, per “decurtazione” dei soli compensi, impongono ai dipendenti vere e proprie prestazioni tributarie (si vedano, ad es., le già citate sentenze nn. 304/2013; 310/2013; 70/2015; 173/2016). Considerazioni analoghe compaiono laddove si sostiene che la riduzione di un trattamento pensionistico dopo la cessazione dell’attività lavorativa da parte dell’avente diritto non potrebbe comunque essere inquadrata tra le modifiche di rapporti sinallagmatici, visto che la prestazione lavorativa, già svolta, non può più essere modificata (sentenza n. 116/2013). Infine, il “limite” qui posto nella definizione del tributo potrebbe, più semplicemente, corrispondere alla tesi, consolidata nella giurisprudenza costituzionale, che pone nettamente fuori dall’area della fiscalità i “circuiti previdenziali”, perché connotati da forti elementi mutualistici (nella sentenza n. 47/2008 l’espressione “nesso sinallagmatico” è riferita proprio al rapporto previdenziale). La legittimità costituzionale di interventi legislativi in quest’ambito non potrebbe, in quest’ottica, essere valutata sulla base di parametri costituzionali relativi ai tributi (in particolare gli artt. 3 e 53 cost.), ma eventualmente sulla base di altri parametri (ad es., artt. 3, 36 e 38 cost.). Questo orientamento, confortato dalla progressiva espansione dei criteri “contributivi” nella determinazione delle prestazioni previdenziali, corrisponde, però, all’implicita esclusione delle erogazioni previdenziali dalle “spese pubbliche” di cui all’art. 53 cost. ed imporrebbe, d’altro canto, la fissazione di un livello minimo di prestazioni (eventualmente “assistenziali”, ma rientranti


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fra le “spese pubbliche”) da assicurare anche in caso di carenza od insufficienza della “mutualità previdenziale”, obbligatoria o volontaria. 9. I “tributi giudiziari”, le tasse. – Resterebbe forse da chiarire un ultimo punto cui la definizione del tributo non sembra dare rilievo. Con una serie di sentenze (a cominciare dalla n. 30/1964) la Corte ha affrontato il tema dei”tributi lato sensu giudiziari”, affermando, rispetto al recupero di “spese giudiziarie la cui entità è misurabile per ogni singolo atto”, che il prelievo per tale finalità non è riconducibile all’art. 53 cost., in quanto i criteri della capacità contributiva e della progressività possono riferirsi solo ad entrate correlate a “servizi il cui costo non si può determinare divisibilmente”. Questo orientamento è stato confermato per un certo periodo di tempo (si vedano, ad es., le sentenze nn.23/1968; 41/1972, 149/1972; 62/1977). L’introduzione del contributo unificato, commisurato al valore della causa e configurato dalla stessa Corte come tributo soggetto ai principi di cui all’art. 53 cost. (sentenze nn. 73/2008; 78/2016; 120/2016), ha reso oggi inutile la distinzione con riguardo ai tributi giudiziari. L’originaria presa di posizione della Corte era però enunciata in termini generali e potenzialmente riferibile a tutti gli istituti classificati, secondo la risalente partizione, fra le tasse. La questione ha un notevole impatto a livello sistematico. Infatti l’orientamento espresso nella succitata giurisprudenza della Corte è addotto dalla dottrina dominante a sostegno sia delle tesi che limitano l’area del diritto tributario alle sole imposte, sia dell’elaborazione di definizioni diverse del tributo in funzione dei diversi principi costituzionali e/o del diverso livello gerarchico delle norme da applicare. Tralasciando il dibattito teorico, mi limiterò qui ad osservare che il tradizionale criterio distintivo delle tasse cui la citata giurisprudenza della Corte fa espresso riferimento si collocava e trovava giustificazione in una visione unitaria della fiscalità come fenomeno di “scambio” fra servizi pubblici e tributi, inclusivo anche delle imposte. Gran parte degli autori che affermano l’autonomia del solo “diritto delle imposte” ne traggono il carattere distintivo dalla più immediata connessione con l’esercizio del potere sovrano, così aprendo l’infinito dibattito sulla natura più o meno doverosa delle tasse, che conduce, di regola, ad assimilarne una parte alle imposte ed a negare alle altre la natura di prestazioni imposte. D’altra parte, la stessa definizione, qui esaminata, del tributo ormai consolidata nella giurisprudenza della Corte assume a criterio identificatore della categoria (tratto, evidentemente, dall’art. 53 cost.) la destinazione a “sovveni-


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re” alle pubbliche spese, che, in se, non implica alcuna rilevanza del rapporto fra “decurtazione patrimoniale” e costo, divisibilmente determinabile, di un “servizio” reso al contribuente. Si potrebbe quindi concludere che, proprio in base a questa definizione, ogni istituto avente i caratteri della “prestazione patrimoniale imposta” e della “destinazione a sovvenire a pubbliche spese” vada incluso nell’unitaria categoria dei tributi, a prescindere dalla sua denominazione o qualificazione come “imposta” o “tassa”. Resta, naturalmente, il problema di individuare il razionale rapporto tra questa nozione di tributo e la “capacità contributiva”, cui necessariamente esso va collegato ai sensi dello stesso art. 53 cost.. Ma questo potrebbe essere l’oggetto di altro intervento. Mi limiterò qui ad esporre una questione che sta emergendo nella prassi applicativa dell’imposta di registro. Sin dai risalenti commentari e dalle classiche trattazioni in materia, si considera pacifica la qualificazione dell’”imposta fissa” come “tassa”, mera remunerazione dello specifico servizio reso con la registrazione. Se ne deduce che per ogni atto registrato sia dovuta una sola imposta fissa. L’Agenzia delle entrate (circolari nn. 225/E/2008 e 44/E/2011) distingue invece le scritture nelle quali non sono rappresentate vicende indici di capacità contributiva ai fini dell’applicazione dell’imposta, sempre soggette ad una sola imposta fissa, a prescindere dal numero degli “atti” documentati (si portano ad esempio le rinunzie pure e semplici all’eredità, le procure, le delibere societarie non soggette ad imposta proporzionale), dalle scritture dalle quali risultino più negozi, indici ciascuno di capacità contributiva (e qui si citano le cessioni di quote di società a responsabilità limitata), cui si devono applicare, secondo la regola di cui all’art. 21 D. P. R. n. 131/1986, tante imposte quante sono le “disposizioni”. Trascuro i riferimenti alla storia del tributo, che potrebbero giustificare il regime della circolazione a titolo oneroso delle partecipazioni in società di capitali in termini di “esclusione” (per “surrogazione”/sostituzione con altri tributi e poi come effetto della Direttiva sulla circolazione dei capitali), con conseguente irrilevanza delle relative fattispecie come indici di capacità contributiva. Devo però rilevare che, nel ragionamento dell’Agenzia, il regime proprio della “tassa” è applicato perché manca un indice di capacità contributiva, mentre nell’originaria giurisprudenza sui “tributi lato sensu giudiziari” li si qualificava come “tasse” in base ad altre caratteristiche (la divisibilità del costo da recuperare) e quindi si negava l’applicabilità del principio di capacità


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contributiva. Per altro verso, la misura “fissa” del tributo vale anche come “importo minimo” del medesimo a fronte di indici effettivi di capacità contributiva, ma di ridotta rilevanza quantitativa (nell’art. 1 Tariffa allegata al citato D. P. R. n. 131/1986 è stato, ad es., inserito un minimo “fisso” di euro 1000, cui possono quindi corrispondere indici non del tutto irrilevanti di capacità contributiva). Anche questo tentativo di connettere conseguenze pratiche alla distinzione tra imposte e tasse mi sembra dunque evidenziare piuttosto lo scarso fondamento sistematico della distinzione stessa nel contesto dei principi costituzionali e la maggior funzionalità della nozione unitaria del tributo desumibile dalla definizione adottata dalla Corte. 10. Conclusioni. – Sia pure con le precisazioni addietro riportate, ritengo che la definizione del tributo elaborata dalla Corte risulti, nel complesso, equilibrata, fornendo una nozione generale ed unitaria. Ad essa si può fare riferimento per l’applicazione dei molteplici parametri di legittimità costituzionale che interessano l’area della fiscalità, desumibili, in particolare, dagli artt. 2, 3, 53, 75, 117 e 119 cost., ma anche dagli Statuti delle Regioni a statuto speciale che alla categoria dei tributi fanno riferimento. Peraltro questa definizione ha valenza sistematica, anche oltre l’ambito dei principi costituzionali. Essa corrisponde infatti al significato attribuito da dottrina e giurisprudenza alla formula “tributi di ogni genere e specie, comunque denominati” di cui all’art. 2 D. Lgs. n.546/1992 e, nel rispetto dei diversi contesti normativi, dovrebbe essere utilizzata come base necessaria per un primo approccio interpretativo ad ogni disposizione contenente riferimenti alla categoria dei tributi, od, in genere, agli istituti della fiscalità. Dalla giurisprudenza costituzionale sembrano, in definitiva, potersi trarre rilevanti argomenti a favore dell’unitarietà della nozione fondante l’intero diritto tributario come partizione razionale dell’ordinamento giuridico.

Andrea Fedele



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Sulla figura del responsabile d’imposta* Sommario: 1. Introduzione. – 2.1. L’evoluzione del quadro normativo sostanziale. – 2.2. (Segue). – 3.1 Le indicazioni ritraibili dalla ricognizione effettuata. – 3.2. (Segue). – 4.1. Le problematiche procedurali. – 4.2. (Segue). – 4.3. Le indicazioni ritraibili dall’attuale assetto normativo alla stregua dell’assetto valoriale costituzionale. – 5.1. Le problematiche processuali – 5.2.1. (Segue). – 5.2.2. (Segue).

In questi ultimi anni le fattispecie di responsabilità d’imposta sono venute moltiplicandosi nel sistema per effetto di interventi legislativi e giurisprudenziali. A fronte di un simile panorama di riferimento, il presente contributo si propone di individuare i criteri ordinatori e le logiche di principio seguiti dal legislatore nella selezione delle nuove fattispecie di responsabilità evidenziando l’incidenza spiegata al riguardo dall’enunciazione del principio di collaborazione e buona fede di cui all’art. 10 comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente come pure dalla necessità per il legislatore di confrontarsi con assetti negoziali e/o nuovi regimi impositivi di difficile apprezzamento quanto alla riferibilità soggettiva dell’obbligazione impositiva.L’analisi prosegue evidenziando le problematiche che continuano a interessare i profili procedurali e processuali di coinvolgimento del responsabile d’imposta nella dinamica attuativa del prelievo impositivo: anche alla luce di recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di efficacia riflessa del giudicato.

In recent years, the number of cases of tax liability has increased due to case law and legislative interventions. In such a context, this work aims at individuating the criteria and the principles applied for the selection of the new cases of liability, highlighting the importance of the principle of cooperation and good faith referred to in Art. 10, subsection 1, of the Taxpayers’ Statute of rights, as well as the need for the legislator to take into account the negotiation frameworks and/or the new tax regimes of difficult evaluation as for to the subjective profile of the tax obligation. The work then goes on to highlight the

* Il presente contributo, già da tempo pronto per l’inserimento nella raccolta di “Scritti in onore del prof. Pasquale Russo”, sconta i ritardi di pubblicazione fisiologicamente connessi al confezionamento di collettanee. Molte delle riflessioni qui svolte pertanto sono state, nel frattempo, partecipate e condivise dalla sottoscritta con il prof. Pasquale Russo e il prof. Guglielmo Fransoni in occasione della revisione e aggiornamento delle Istituzioni di diritto tributario ed. 2016 dove hanno trovato, in parte, recepimento.


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problems that still concern the procedural and trial aspects of the involvement of the tax liable person in the tax collection activity: also considering the recent case law on the reflex force of res iudicata.

1. Introduzione. – Negli scritti dello studioso in onore del quale il presente contributo vede la luce, un posto di primaria importanza rivestono le riflessioni condotte intorno alla figura del responsabile d’imposta: e ciò sia per quel che attiene agli estremi identificativi della stessa dal punto di vista sostanziale, sia per ciò che concerne le problematiche implicazioni sul piano procedurale e processuale che ad essa figura, da sempre, si riconnettono. Sotto il primo profilo esse riflessioni hanno concorso ad opportunamente distinguere il responsabile d’imposta all’interno di quella assai variegata e composita platea di soggetti, sicuramente da annoverare come terzi avuto riguardo alla riferibilità soggettiva della manifestazione di capacità contributiva colpita dal tributo, eppure comunque coinvolti nella dinamica attuativa dell’obbligazione impositiva insieme con il contribuente: e ciò facendo correttamente leva sull’oggetto e/o sul titolo giustificativo della prestazione a ciascuno di costoro rispettivamente facente carico (1). Al contempo, soffermandosi ad indagare la frastagliata trama dei dati normativi rilevanti in argomento (2) con l’intento di focalizzare i criteri seguiti dal legislatore ordinario nella descrizione delle diverse ipotesi di responsabilità, le stesse hanno condotto a significativi risultati quanto all’individuazione di possibili limiti costituzionali alla discrezionalità legislativa nella selezione e modulazione delle singole fattispecie.

(1) In tale contesto, pervenendo così a circostanziare la figura rispetto a quelle – non sempre ad essa esattamente limitrofe – dei cd. coobbligati solidali dipendenti limitati, dei soggetti chiamati, insieme al contribuente, ad assolvere esclusivamente meri adempimenti strumentali a carattere per lo più dichiarativo, dei soggetti coinvolti nel pagamento dell’imposta per debito proprio (com’è, in talune vicende patologiche, per quanto attiene alla figura del sostituto d’imposta), di coloro che – pur in forza di previsioni normative a ciò legittimanti – assurgono a garanti del contribuente quanto all’adempimento dell’obbligazione impositiva a costui facente carico ma in forza di fattispecie negoziali e ancora, di coloro che sono, sì coobbligati assieme al contribuente nell’adempimento (anche, ma non solo) dei suoi debiti tributari, ma in forza di disposizioni civilistiche ecc. (2) Peraltro riconducibili a interventi legislativi risalenti a epoche storiche anche molto distanti fra loro: come tali espressivi di assetti ideologici e valoriali nient’affatto omogenei.


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Del pari rilevanti si sono rivelati, poi, gli apporti teorici sul piano procedurale oltre che processuale (3). L’attenzione dello studioso essendosi più volte soffermata ad indagare, quanto al primo profilo, le scansioni formali di attivazione della chiamata in responsabilità del terzo ad opera dell’Ufficio finanziario e, dunque, le modalità (e connesse tempistiche) di suo formale coinvolgimento nell’iter procedurale attuativo e satisfattorio del credito tributario; quanto al secondo profilo e in via strettamente (ancorché non necessariamente) riconnessa al primo, l’ampiezza delle ragioni di difesa a costui da riconoscere come giudizialmente spendibili tenuto conto delle implicazioni discendenti dal vincolo giuridicamente qualificato di connessione sostanziale, secondo lo schema della pregiudizialità-dipendenza, intercorrente tra la fattispecie costitutiva dell’obbligazione facente capo al contribuente e quella a lui riferibile: da cui i ben noti problemi in ordine a possibili fenomeni di efficacia riflessa del giudicato e, più in generale, in merito ai possibili effetti preclusivi predicabili a danno del responsabile d’imposta quanto alla contestabilità dei presupposti generici della propria obbligazione laddove questi ultimi abbiano acquisito i crismi della definitività (in sede amministrativa o contenziosa) in capo al contribuente. Orbene, un simile bagaglio di riflessioni ci sospinge – in questa occasione – ad una rinnovata analisi dell’intero fenomeno nelle sue molteplici e variegate sfaccettature: a ciò sollecitati dall’incessante modificarsi e arricchirsi del materiale normativo rilevante in argomento – rispetto al quale si rivela opportuno un tentativo di riordino sistematico così da individuare le possibili architetture di principio che attualmente lo ispirano e lo sostengono – ma anche dall’evolversi, mutevole, delle chiavi di lettura di molti dei principi costituzionali di riferimento nel nostro settore – sia nella loro individualità come pure nella loro intrinseca correlazione reciproca – a motivo anche degli apporti, in termini di strumentario ermeneutico, promananti dalla trama dei principi comunitari alla luce dell’elaborazione di essi offerta dalla Corte di Giustizia UE: fenomeno, quest’ultimo, suscetti-

(3) Tematiche, come vedremo, ancora lungi dal trovare un soddisfacente assetto risolutivo di principio, stanti anche le spesso contraddittorie ed estemporanee indicazioni rinvenibili al riguardo nel tessuto normativo come pure (ma sul punto torneremo più diffusamente in prosieguo) le differenti cifre di lettura adottate nell’interpretarle alla stregua dei valori costituzionali (oltreché, più di recente, di matrice comunitaria) di volta in volta chiamati in gioco.


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bile di sviluppi anche inaspettati, come recenti vicende giurisprudenziali dimostrano (4). 2.1. L’evoluzione del quadro normativo sotto il profilo sostanziale. – Prendendo le mosse dal versante strettamente sostanziale, a noi sembra che – anche limitandoci ad una ricognizione sommaria del panorama normativo vigente – il suo apprezzamento in chiave storicamente prospettica evidenzi due diversi, ma per certi versi contigui, fenomeni che specificamente interessano l’area dei soggetti coinvolti nell’adempimento dell’obbligazione impositiva insieme con il contribuente e in solido con esso. Innanzitutto, un considerevole ampliamento delle fattispecie riconducibili a siffatto paradigma soggettivo. In questi ultimi anni si sono invero moltiplicate in via esponenziale le disposizioni normative alla cui stregua soggetti, terzi rispetto a colui che è chiamato al pagamento del tributo in quanto titolare della corrispondente manifestazione di capacità contributiva, sono coinvolti in solido con quest’ultimo nell’adempimento dell’obbligazione tributaria (5) e nei riguardi dei quali l’Amministrazione finanziaria può rivolgersi per il soddisfacimento (se del caso, anche in via coattiva) del proprio credito d’imposta (6). Le fonti d’innesco di siffatti interventi normativi si rivelano (almeno apparentemente) le più varie e diversificate. E così, di volta in volta, l’introduzione di nuove fattispecie di responsabilità è dipesa e ha tratto origine: 1) a motivo e in occasione della compiuta regolamentazione dei risvolti

(4) È sufficiente rammentare, in questa sede, i passaggi che hanno contrassegnato il recepimento nell’ordinamento domestico del divieto di abuso del diritto di matrice comunitaria: desunto dalla giurisprudenza in chiave ermeneutica come portato dell’art. 53 Cost. Ma analoghe considerazioni hanno da farsi con riguardo al diritto al contraddittorio endoprocedimentale ritenuto declinazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. (5) Fermo rimando poi la loro possibile ulteriore distinzione e classificazione interna alla stregua di altri parametri (il momento di loro coinvolgimento nell’adempimento della prestazione tributaria, la cadenza temporale di nascita dell’obbligazione del terzo rispetto a quella dell’obbligato principale, l’ampiezza oggettiva della responsabilità ecc.) su cui vd. per tutti G. Fransoni, L’esecuzione coattiva a carico dei debitori diversi dall’obbligato principale in Rass. trib. 2011, 823 ss. (6) È solo il caso di ricordare in questa sede il notevole incremento registratosi in questi ultimi anni altresì delle ipotesi di coobbligazione solidale con funzione di garanzia di fonte negoziale (quand’anche astrattamente consentite nell’an e rigorosamente regolamentate nel quomodo dal legislatore tributario): come nel caso dell’accollo non liberatorio cd. cumulativo di cui all’art. 8 lg. 212/2000.


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fiscali connessi a operazioni di riassetto societario precedentemente non disciplinate dal legislatore tributario: è questo, tipicamente, il caso delle scissioni societarie con la previsione, per l’ipotesi di scissione totale, della responsabilità delle altre società beneficiarie, oltre a quella appositamente designata a subentrarne nella titolarità, per i debiti tributari della società scissa di cui all’art. 123 bis co. 13 t.u.i.r. introdotto nel 1992 (e, ora, all’art. 173 co. 13 t.u.i.r.) (7); laddove invece, per trasformazioni e fusioni, la pacificamente affermata continuità soggettiva e il relativo automatico subentro della società risultante dalla fusione, ovvero incorporante, ovvero ancora trasformata, nella titolarità dei rapporti giuridici pregressi della società fusa o trasformata (siano essi definiti o pendenti) (8) ha eliso in radice la necessità di prevedere fattispecie di responsabilità in connessione con siffatte operazioni societarie: non ricorrendo, rispetto ad esse, potenziali fenomeni riduzione e contrazione delle pregresse garanzie patrimoniali in pregiudizio delle ragioni di credito erariale (9); 2) in stretta correlazione con l’introduzione di nuovi regimi impositivi – è quanto è avvenuto in particolare per effetto della riforma Tremonti con riferimento ai due regimi opzionali di trasparenza fiscale rispettivamente delle società di capitali ex art. 115 t.u.i.r. (10), e delle società a respon-

(7) Da leggersi in rapporto con l’art. 2506 bis e 2506 quater c.c. laddove peraltro la disposizione tributaria (a differenza di quelle civilistiche) non pone limiti quantitativi alla responsabilità per quanto attiene alle pretese in tema di imposte sul reddito. (8) Vd. art. 2504 bis c.c. e art. 2498 c.c.: laddove si configura un fenomeno di successione universale nei rapporti pregressi ex art. 110 c.p.c. (9) Tant’è che, riguardato da questo profilo, il disposto di cui all’art. 15 d.lgs. 472/1997 si rivela, per quanto attiene alle ipotesi di fusioni e trasformazioni, norma sostanzialmente ricognitiva di principio e, al più, resa opportuna stante il principio di stretta imputazione soggettiva dell’illecito (e della connessa misura sanzionatoria) cui si impronta la nostra normativa punitiva in ragione di quanto previsto dall’art. 25 Cost. E fermo restando invece la precettività della disposizione per le scissioni – comportando l’operazione societaria una riduzione delle garanzie patrimoniali che assistono i debiti (anche sanzionatori) della scissa – laddove la responsabilità in solido delle società risultanti dalla scissione per le sanzioni irrogate o irrogabili a carico della scissa risulta sancita espressamente e in via generalizzata con riferimento ad ogni settore impositivo (la responsabilità di cui all’art. 173 co. 13 valendo, per contro, solo per i debiti tributari e sanzionatori concernenti le imposte sui redditi). (10) Secondo quanto disposto dall’art. 115 co. 9, infatti, la società partecipata è coobbligata in solido con le società partecipanti per imposte, sanzioni e interessi da queste ultime dovute in conseguenza dell’imputazione per trasparenza del reddito della prima. Analoga previsione, com’è noto, vale anche per le srl a ristretta base societaria che optano


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sabilità limitata a ristretta base societaria ex art. 116 t.u.i.r., come pure in relazione al regime, anch’esso all’epoca di novella introduzione, del consolidato nazionale di cui all’art. 127 t.u.i.r. (11) – ovvero in occasione della previsione di nuove imposte (com’è stato per la Tobin Tax ex art. 1, comma 498 lg. 228/2012 per quanto attiene alla responsabilità di banche, intermediari finanziari, società fiduciarie ecc. per l’imposta dovuta dai soggetti indicati ai precedenti commi 494 e 495 del medesimo articolo); 3) in chiave reattiva a fronte di modifiche normative, medio tempore intervenute nella disciplina civilistica concernente le vicende estintive societarie, rivelatesi fortemente pregiudizievoli (rispetto ad un’adeguata tutela) delle ragioni di credito erariali (12), cui si è tentato, al contempo,

per il regime di trasparenza ex art. 116 t.u.i.r. stante il rinvio ivi contenuto al disposto di cui all’art. 115 t.u.i.r. (11) Com’è noto, la norma dispone un meccanismo di coobbligazione abbastanza complesso in cui, per effetto della maggior imposta accertata in capo alla consolidante riferita al reddito complessivo globale risultante dalla sua dichiarazione in conseguenza della rettifica operata in capo alla controllata sul proprio reddito imponibile ovvero in esito a controllo ex art. 36 bis e 36 ter, sorge un vincolo di coobbligazione solidale fra le due società; fermo restando l’obbligo per la controllante di trasmettere alla controllata gli atti a lei notificati anche come domiciliataria di quest’ultima se vuole conservare il diritto di rivalsa nei confronti della stessa. (12) Si intende ovviamente far riferimento alle modifiche apportate dal d.l. 175/2014 all’art. 36 d.p.r. 602/1973 che hanno comportato l’estensione dell’operatività della fattispecie di responsabilità ivi prevista a carico dei liquidatori, amministratori e soci per i debiti tributari delle società di capitali a tutti gli ambiti impositivi e non più solo al settore delle imposte sui redditi. È solo il caso di ricordare in questa sede che analogo intervento normativo comportante l’estensione di operatività di una preesistente fattispecie di responsabilità ha riguardato altresì la figura del cessionario d’azienda la cui relativa disciplina di responsabilità ex art. 14 d.lgs. 472/1997 l’art. 16 del d.lgs. 158/2015 ha espressamente esteso a tutte le ipotesi di trasferimento d’azienda per atto tra vivi – permuta, donazione, datio in solutum – ivi compreso il conferimento. C’è da dire peraltro che, quanto meno avuto riguardo al conferimento d’azienda, l’operatività dell’art. 14 in relazione alla figura del conferitario era già data fondamentalmente per pacifica anche anteriormente alle modifiche da ultimo introdotte (vd. anche per riferimenti dottrinali e giurisprudenziali S. Donatelli, Osservazioni sulla responsabilità tributaria del cessionario d’azienda in Rass. trib. 2003, 486 ss.). Si rivela dunque non particolarmente felice (e foriera di non poche incertezze interpretative) la scelta legislativa di cui all’art. 1 co. 133 lg. 208/2015 che fa decorrere espressamente dal 1° gennaio 2016 l’applicazione dell’art. 14 co. 5 ter d.lgs. 472/1997: con ciò deponendo a favore del riconoscimento di una sua valenza precettiva piuttosto che meramente ricognitiva, come invece sarebbe stato lecito aspettarsi.


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di dare maldestramente soluzione altresì con il disposto di cui all’art. 28, co. 4, d.lgs. 175/2014 (13) sull’efficacia postergata dell’estinzione della società di capitali di cui all’art. 2495 c.c; 4) nel contesto di più ampie strategie politico-legislative volte a contrastare diffusi e radicati fenomeni di evasione fiscale (14). È questo il caso della previsione di responsabilità degli agenti immobiliari per l’imposta di registro dovuta con riferimento alle scritture private non autenticate di natura negoziale stipulate a seguito della loro attività per la conclusione degli affari di cui all’art. 57 co. 1bis d.p.r. 131/1986 (15) introdotto nel 2006, (16)

(13) Norma, quest’ultima, dalla fattura quanto mai infelice (per le cui molteplici criticità vd. G. Fransoni, L’estinzione postuma della società ai fini fiscali ovvero della società un poco morta e di altre amenità in Rass. trib. 2015, 47 ss.), la quale, pretendendo incidere sull’imputazione soggettiva delle fattispecie impositive in termini diversificati rispetto a quanto discenderebbe dalla novellata normativa civilistica – alla stregua della quale si verificherebbe un subentro dei soci alla società estinta chiamati a rispondere nei limiti di quanto riscosso in base al bilancio finale di liquidazione: con la conseguenza che, una volta intervenuta l’estinzione, gli atti dell’Amministrazione finanziaria relativi a pretese imputabili alla società estinta andrebbero notificati a tutti i soci laddove, invece, in presenza di giudizi già pendenti, ex art. 110 cpc l’estinzione della società comporterebbe l’interruzione del processo e la sua riassunzione nei confronti di tutti i soci in litisconsorzio necessario tra loro – è stata considerata dalla giurisprudenza insuscettibile di spiegare effetti retroattivi (vd. Cass. 6743/2015 e Cass. 5736/2016). (14) In questi casi, anche se non sempre, il legislatore tende a coinvolgere nell’adempimento dell’obbligazione tributaria, con funzioni di garanzia, soggetti terzi rispetto alla realizzazione del presupposto ma in rapporto tale con il contribuente – in ragione, di regola, dei vincoli negoziali che li correlano a quest’ultimo – da essere in grado di contrastarne, anche in termini meramente deterrenti, l’eventuale intento evasivo e pertanto a ciò compulsati dall’ordinamento attraverso il loro coinvolgimento nell’adempimento tributario a titolo, appunto, di responsabilità. (15) Da leggersi in combinato con l’art. 10 lett. d bis) d.p.r. 131/1986 che dispone altresì l’obbligo per i medesimi a richiederne altresì la registrazione. (16) Probabilmente di diverso inquadramento e giustificazione teorica si rivela invece il quasi coevo intervento normativo effettuato sempre sul dettato dell’art. 57 cit. e relativo alla responsabilità dell’utilizzatore dell’immobile concesso in locazione finanziaria per l’imposta di registro dovuta dalla società di leasing per l’acquisto dell’immobile in caso di leasing immobiliare: fattispecie contemplata al successivo co. 1ter del medesimo art. 57 (fattispecie introdotta dalla L.220/2010). Laddove – come diremo meglio più avanti – la natura intrinsecamente di finanziamento del contratto di leasing immobiliare induce a superare lo schermo puramente formale del rapporto contrattuale e comporta un coinvolgimento sostanziale della figura dell’utilizzatore nelle valutazioni legislative di imputazione soggettiva della manifestazione di capacità contributiva connesse alla fattispecie, in uno con il locatore/ cessionario ed il cedente, attraverso una soluzione compromissoria che passa per il tramite della previsione di un’ipotesi di responsabilità (analogamente a quanto già accade, in termini meno


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come pure quella del cessionario per il caso di mancato versamento, da parte del cedente, dell’IVA afferente cessioni effettuate a prezzi inferiori a quello di mercato ex art. 60bis d.p.r. 633/1972 (17) e, ancora, ma sul punto torneremo subito di seguito, della fattispecie di responsabilità posta a carico degli appaltatori (rispetto ai subappaltatori) e dei committenti (rispetto all’appaltatore e agli eventuali subappaltatori) per i versamenti IVA e delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente inerenti alle prestazioni rese nel contesto dell’appalto originariamente prevista all’art. 35 d.l.223/2006 (18). Si inseriscono inoltre a pieno titolo in siffatto contesto, concorrendo a completarne il quadro, una serie di recenti interventi legislativi che, incidendo su fattispecie di responsabilità preesistenti, ne hanno significativamente inasprito i contorni. È quanto si è registrato in particolare con riferimento alla già menzionata previsione di cui all’art. 36 d.p.r. 602/1973 la quale, oltre a veder ampliato (come già detto) il proprio ambito impositivo di operatività, ha subìto importanti interventi di modifica che hanno comportato una significativa alterazione dei termini di riparto dei carichi probatori (19) ai fini della sua invocabilità: essa finendo per atteggiarsi a presunzione relativa, con prova contraria vincolata, di responsabilità del liquidatore rispetto ai debiti tributari societari rimasti insoddisfatti in esito alla liquidazione; il tutto con evidenti intenti di rafforzamento delle garanzie a tutela delle ragioni di credito erariali nonché di semplificazione dell’attività degli Uffici finanziari ma con risultati fortemente pregiudizievoli per la figura del liquidatore – stante anche la connotazione negativa della prova su costui gravante (in chiave liberatoria dalla sua propria

equivoci, ai fini ICI e IMU ex art. 3 co. 2 D.lgs. 504/1992) (17) Fattispecie introdotta con lg. 311/2004 e dipoi implementata e inasprita con l’introduzione dell’ulteriore fattispecie di responsabilità di cui all’art. 60 bis co. 3 bis dalla lg. 244/2007. (18) Vd. art. 35 co. 28 d.l. 223/2006 come modificato dall’art. 2 co. 5bis d.l. 16/2012 “In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, al versamento all’erario delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell’imposta sul valore aggiunto scaturente dalle fatture inerenti alle prestazioni effettuate nell’ambito dell’appalto, ove non dimostri di avere messo in atto tutte le cautele possibili per evitare l’inadempimento”. (19) Com’è noto, invertiti a carico del liquidatore.


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responsabilità) (20) – che fanno fortemente dubitare della legittimità costituzionale, anche in chiave comunitariamente orientata, della norma in esame: stanti i profili di sua manifesta criticità rispetto (in particolare, ma non solo) al principio di effettività di esercizio del diritto di difesa, a maggior ragione quando contemperato alla luce del criterio di proporzionalità. Non sono mancati poi casi di nuove fattispecie di solidarietà dipendente di (discutibile ma inequivocabile) creazione giurisprudenziale: e qui la mente corre, in particolare, alla pretesa coobbligazione solidale con il sostituto d’imposta, quanto al pagamento delle ritenute d’acconto da quest’ultimo effettuate ma non versate, che la giurisprudenza di legittimità ha di recente inopinatamente prefigurato a carico del sostituito (21): a dispetto del contrario tenore normativo e nonostante l’aperta ostilità della dottrina. (22) Laddove è interessante notare come la coobbligazione del sostituito – pur formalmente giustificata dai giudici di legittimità dall’essere, costui, asseritamente non li-

(20) Tra l’altro la norma profila problematiche di non lieve momento quando correlata: a) alla prevista sopravvivenza fiscale alla liquidazione/cancellazione civilistica delle società di capitali di cui all’art. 28 d.lgs. 175/2014; b) al consolidato indirizzo giurisprudenziale che avalla la prassi degli Uffici finanziari di contestare, in chiave presuntiva, la distribuzione occulta di utili extrabilancio ai soci in caso di società di capitali a ristretta base societaria. È evidente infatti che le interrelazioni tra le disposizioni normative richiamate e siffatti indirizzi giurisprudenziali potrebbero ingenerare una dilatazione incontrollata – per non dire un cortocircuito – dei margini di responsabilità rispettivamente dei liquidatori e dei soci di società di capitali in misura tale da prefigurare conseguenze perturbative in chiave reattiva del mercato. Come del resto non ha mancato di evidenziare attenta dottrina seppur con riferimento a interventi fiscali diversi e peraltro dettati da analoghe esigenze e finalità (cfr. A. Mondini, Corresponsabilità tributaria per le evasioni Iva commesse da terzi, in Rass. trib. 2014, 435 ss.: “un tale regime si può rivelare inefficiente sotto il profilo economico sacrificando eccessivamente le esigenze di conformazione del mercato rispetto alla tutela dell’interesse fiscale”). (21) Vd. da ultimo Cass. sent. 13.6.2016 n. 12076 (ma già Cass. sent. 9933/2015 nonché Cass. sent. 23121/2013). L’orientamento dei giudici di legittimità – consolidandosi – uniforma anche la giurisprudenza di merito, originariamente meno allineata, come dimostra da ultimo Comm. trib. reg. Lombardia sez. XV sent. 13.12.2016 n. 6716 (con nota di P. Antonini, Il sostituito ancora con le spalle al muro. E i giudici fanno fuoco, in GT 2017, 443 ss.) (22) Per una puntuale critica all’orientamento giurisprudenziale di cui alle sentenze citate alla nota precedente vd., in specie, M. Beghin, La “nuova grammatica” della sostituzione tributaria: l’abbattimento degli steccati tra ritenute a titolo definitivo e ritenute a titolo d’acconto e la nascita, contra legem, di un singolare rapporto di solidarietà passiva tra sostituto e sostituito, in Riv. dir. trib. 2014, 32 ss.; A. Carinci, La (non condivisibile) responsabilità del sostituto per le ritenute d’acconto operate ma non versate dal sostituto, in Corr. trib. 2013, 3546 ss. nonché, da ultimo – peraltro nel quadro di una più ampia e diffusa rimeditazione dell’istituto della sostituzione tributaria nel suo complesso – A. Fedele, Sostituzione tributaria e situazioni giuridiche soggettive dei privati coinvolti, in Riv. dir. trib. 2016, 555 ss.


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berato dalla mera effettuazione della ritenuta (quando, appunto, non seguita dal suo versamento ad opera del sostituto) – sembra piuttosto attingere il suo fondamento giustificativo in una logica di responsabilità para-sanzionatoria per la mancata accortezza del sostituito nel vigilare sull’operato del sostituto – in qualche misura riconducibile ad una condotta negligente del primo nel pretendere dal secondo il rilascio del certificato attestante il versamento delle ritenute operate – così da compulsare quest’ultimo al corretto adempimento dei suoi obblighi tributari (23) (24). Si sono venuti registrando infine alcuni, al momento circoscritti ma comunque significativi, fenomeni di slittamento di talune fattispecie di responsabilità su piani ancora non sufficientemente indagati quanto al loro esatto inquadramento sistematico ma dove, al ricorrere di determinate condizioni, scompare il vincolo di coobbligazione solidale tra il soggetto passivo d’imposta e colui che, di regola, rivestirebbe il ruolo di responsabile d’imposta: e, piuttosto, quest’ultimo pare chiamato a rispondere in prima persona e in via esclusiva nei confronti dell’Erario del pagamento del tributo facente capo al primo (25). Vengono in rilievo al riguardo in particolare: a) il disposto di cui all’art. 6 d.lgs. 175/2014 alla cui stregua l’intermediario abilitato che apponga il visto di conformità infedele su dichiarazione precompilata è tenuto nei confronti dello Stato o del diverso ente impositore al pagamento di una somma pari all’importo dell’imposta, della sanzione e degli interessi che sarebbero stati richiesti al contribuente ai sensi dell’art. 36 ter

(23) Che si traduce, appunto, nel predicare una responsabilità solidale a carico del sostituito così dal sottrarre l’Erario dal pericolo dell’incapienza (e dunque dalla prospettiva di una vana escussione) del sostituto per le ritenute non versate. (24) Del resto la conferma che questo sia il paradigma logico-argomentativo sulla cui base la giurisprudenza ricostruisce la coobbligazione del sostituito è data dal ripetuto accento che essa pone, nel corpo motivazionale delle sentenze, sull’azione di rivalsa come strumento di tutela del sostituito, legittimato a esercitarla nei confronti del sostituto per effetto della sua chiamata al pagamento delle ritenute d’acconto da quest’ultimo non versate: sintomatico del fatto che il sostituito è concepito, appunto, fondamentalmente come una sorta di responsabile per l’obbligo di versamento della ritenuta d’acconto gravante sul sostituto. (25) Talché, laddove siffatte fattispecie si reputino non riconducibili sotto l’egida dell’art. 64 d.p.r. 600/1973 (una simile ricomprensione essendo possibile solo ipotizzando, come taluna parte della dottrina ha invero ritenuto di ipotizzare, il terzo come una sorta di sostituto d’imposta rispetto al contribuente), si pone il problema dell’an e dell’eventuale titolo legittimante l’azione di regresso del terzo nei confronti del contribuente. Sulle diverse tesi ricostruttive avanzate con riferimento alla posizione del notaio e anche per un’analisi critica delle stesse vd. in quest’opera S. Ghinassi, La posizione sostanziale e processuale del pubblico ufficiale in ordine alle imposte dovute sull’atto rogato, in Riv. dir. trib. 2016, 731 ss.


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d.p.r. 600/1973, sempre che l’apposizione del visto infedele non sia imputabile alla condotta dolosa o gravemente colposa del contribuente. b) quanto previsto dall’art. 3 ter d.lgs. 463/1997 riguardo al notaio per quanto attiene alla c.d. imposta principale integrativa (o cd. “postuma”) dovuta a seguito del controllo di autoliquidazione effettuato dall’Ufficio finanziario (26). 2.2. (Segue). – Al contempo, e in termini solo apparentemente speculari e contraddittori rispetto al fenomeno appena rilevato, recenti interventi legislativi hanno comportato l’eliminazione di fattispecie di responsabilità ritenute eccessivamente farraginose e fonte di incertezza per gli operatori economici: come tali, percepite come suscettibili di arrecare grave pregiudizio al regolare espletamento dei traffici commerciali e, dunque – in una logica di equo contemperamento, della cd. ragion fiscale con la salvaguardia dei valori della certezza del diritto (intesa come prevedibilità delle conseguenze fiscali connesse alle proprie condotte economicamente rilevanti) dei singoli consociati – ritenute eccedenti, alla stregua del criterio di proporzionalità, rispetto all’obiettivo perseguito e così destinate a decedere. Particolarmente significativa, in questi termini, la tormentata vicenda che ha contrassegnato la già citata disciplina di cui all’art. 35 commi 28 ss. d.l. 223/2006: la norma originariamente configurata come comportante una responsabilità solidale dell’appaltatore con il subappaltatore quanto all’effettuazione e il versamento delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente dovute da quest’ultimo (27) vedeva successivamente estesa siffatta responsabili-

(26) In argomento lodevole si è rivelato così il lavoro di delimitazione dei confini e dei limiti di operatività dell’art. 3 ter posto in atto dalla Corte di Cassazione in particolare e da ultimo con ord. 17 maggio 2017 n. 12257 (con commento di V. Mastroiacovo, Non è sempre principale l’imposta recuperata nei sessanta giorni dalla registrazione telematica in Corr. trib. 2017 1993 ss.) laddove la Suprema Corte, oltre a riaffermare comunque il ruolo di responsabile d’imposta rivestito dal notaio anche nella fattispecie in discussione, ne ha escluso altresì la ricorrenza per le ipotesi in cui il recupero impositivo discenda da contestazioni che attengono a circostanze ed elementi non direttamente desumibili dal contenuto dell’atto. (27) L’art. 35 co. 28 ss. d.l. 223/2006 così disponeva: “L’appaltatore risponde in solido con il subappaltatore della effettuazione e del versamento delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e del versamento dei contributi previdenziali e dei contributi assicurativi obbligatori per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dei dipendenti a cui è tenuto il subappaltatore. La responsabilità solidale viene meno se l’appaltatore verifica, acquisendo la relativa documentazione prima del pagamento del corrispettivo, che gli adempimenti di cui al comma 28 connessi con le prestazioni di lavoro dipendente concernenti l’opera, la fornitura o il servizio affidati sono stati correttamente eseguiti dal subappaltatore. L’appaltatore può


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tà altresì al committente (sotto il versante soggettivo) nonché per i versamenti IVA (per quanto attiene al versante oggettivo) (28); salvo poi, in un primo momento, degradare la responsabilità solidale di quest’ultimo all’assoggettamento ad una misura sanzionatoria in caso di pagamento del corrispettivo senza previa acquisizione della prova documentale dell’avvenuto versamento delle ritenute da parte dell’appaltatore, per pervenire infine e da ultimo ad una sua totale abrogazione per effetto di quanto disposto dall’art. 28 d.lgs. 175/2014 (29). Non solo: è giusto il caso di ricordare come analoghe ragioni giustificative, altrettanto recentemente, hanno condotto il legislatore ad eliminare tutta una nutrita schiera di previsioni normative che subordinavano alla prestazione di fideiussioni il perfezionamento di forme di definizione concordata delle controversie tributarie con riferimento all’ipotesi di rateazione del carico definito (30), come pure la concessione di sospensioni e dilazioni di pagamento dei carichi iscritti a ruolo ad opera dell’Agente della riscossione (31). Anche in questo caso le criticità rilevate – dipendenti dall’irrigidimento dei rapporti tra istituti di credito e clientela a motivo della delicata congiuntura economica che ha investito il settore produttivo e quello finanziario in questi anni – si sono rivelate tali da pregiudicare la funzionalità degli istituti deflattivi e

sospendere il pagamento del corrispettivo fino all’esibizione da parte del subappaltatore della predetta documentazione. (28) Il testo della norma è riportato supra nt. 18. (29) Significativa al riguardo la Circ. 31/E del 2014 secondo la quale la disposizione in commento “ha destato molte criticità in capo ai soggetti operanti nell’ambito degli appalti, per i quali erano previsti adempimenti complessi, con rischi reali di blocco dei pagamenti tra i soggetti coinvolti nella filiera degli appalti. Nell’incertezza della prova, infatti, taluni committenti/appaltatori hanno sospeso i pagamenti a favore di appaltatori/subappaltatori, aggravando così la situazione in cui si trovano le imprese, già molto colpite e messe in difficoltà dalla stretta creditizia e dalla recessione economica. Tale effetto è apparso, peraltro, in netto contrasto con le finalità della Direttiva europea n.7 del 2011, contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 192 del 2012. Tanto premesso, con il comma 1 della novella normativa in esame è stata disposta l’abrogazione del richiamato art. 35, commi da 28 a 28 ter, del d.l. n. 223 del 2006, ossia degli adempimenti amministrativi sopra richiamati”. (30) Vd. il previgente art. 8 co. 2 d.lgs. 218/1997 (nel contesto dell’accertamento con adesione) richiamato poi dall’art. 15 d.lgs. 218/1997 (per l’ipotesi dell’acquiescenza ovvero dell’adesione pura e semplice all’accertamento) nonché l’art. 48 co. 3 d.lgs. 546/1992 (in tema di conciliazione giudiziale) la cui soppressione è stata disposta con il d.l. 98/2011. (31) Vd. art. 19 co 4 bis d.p.r. 602/1973, abrogato a seguito delle modifiche apportate alla disposizione dal d.l. 112/2008.


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dilatori sopra menzionati ostacolandone sistematicamente l’operatività. Il che ha condotto all’eliminazione delle fattispecie di garanzia (32) e suggerito, piuttosto, il ricorso a schemi operativi alternativi volti, per un verso, a sospingere e indurre il contribuente ad un diligente adempimento dei carichi rateizzati attraverso la leva sanzionatoria e, per l’altro, l’introduzione di istituti di tolleranza del sistema rispetto a situazioni di comprovate contingenti difficoltà economiche ovvero a condotte integranti inadempienze di lieve entità (33). 3.1. Le indicazioni ritraibili dalla ricognizione effettuata. – Orbene un così composito quadro normativo di riferimento consente di formulare alcune brevi considerazioni, tese a offrire un qualche criterio ordinatore ad una produzione legislativa che, almeno prima facie, sembra invece peccare di asistematicità se non addirittura ispirarsi all’improvvisazione. Innanzitutto è dato osservare che molte delle nuove figure di responsabilità d’imposta di recente introdotte nel nostro sistema (ma il rilievo investe anche la risultante di molti degli interventi modificativi che hanno pesantemente interessato talune storiche fattispecie di responsabilità) si contrassegnano per ciò che la responsabilità d’imposta del terzo: - è contemplata nel contesto di particolari regimi fiscali opzionali che, al ricorrere di determinati assetti societari (e dunque in presenza di vincoli partecipativi), dissociano soggettivamente la titolarità della manifestazione di forza economica colpita dal tributo da quella di sua imputazione in chiave liquidatoria ai fini dell’insorgenza del correlativo debito d’imposta; - ovvero è prevista con riferimento ad assetti negoziali che presentano non lievi problematiche di apprezzamento quanto alla corretta imputabilità soggettiva della manifestazione di capacità contributiva colpita dal tributo (34); - ovvero ancora si connette ad una condotta, anche meramente omissiva del terzo (e, in quest’ultimo caso, spesso risolventesi nella violazione di

(32) Quanto alla previsione del rilascio della fideiussione a garanzia in caso di dilazioni di pagamento dei carichi di ruolo ex art. 19 d.lgs. 602/1997, alla sua eliminazione probabilmente ha concorso anche il disposto dell’art. 8 lg. 212/2000 che impone agli uffici finanziari il rimborso dei costi delle fideiussioni richieste laddove venga “definitivamente accertato che l’imposta non era dovuta o era dovuta in misura minore rispetto a quella accertata”. (33) Significativo in questo senso quanto ora disposto dall’art. 15ter d.p.r. 602/1973 introdotto con il d.lgs. 159/2015. (34) Cfr. supra nt. 16.


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oneri di diligenza ovvero lato sensu di vigilanza posti a suo carico dall’ordinamento anche in ragione del ruolo istituzionale da questi ricoperto e/o delle competenze professionali che, in ragione di ciò, è lecito aspettarsi da costui), che si rivela potenzialmente pregiudizievole, se non addirittura concretamente lesiva, delle ragioni di credito vantate dal soggetto attivo d’imposta nei confronti del contribuente. Da cui una coloritura para-sanzionatoria, giacché dipendente da una valutazione di sostanziale riprovevolezza rispetto al comportamento tenuto dal terzo nella fattispecie, che il sistema sembra porre a fondamento giustificativo di siffatte ultime ipotesi di responsabilità: e che si spinge, in taluni casi – dove al terzo sembra ragionevolmente potersi imputare una condotta gravemente negligente e imprudente nell’ottemperare agli obblighi che gli incombono in ragione del ruolo professionale ricoperto e tale da aver impedito al contribuente, suo malgrado, di correttamente adempiere ai propri doveri contributivi – a giustificare la concentrazione della pretesa impositiva esclusivamente nei confronti di costui (con, almeno apparente, liberazione del contribuente da qualsivoglia pretesa promuovibile nei suoi confronti da parte dell’ente impositore (35)) (36).

(35) Talché, in questi casi (cui sembra potersi annoverare il peculiare atteggiarsi della responsabilità del notaio per le ipotesi di autoliquidazione dell’imposta di registro laddove si addivenga alla pretesa di una cd. imposta principale integrativa), il sistema sembra congegnato in termini tali da rendere il responsabile d’imposta l’unico obbligato alla prestazione impositiva nei confronti dell’Erario: fermo restando poi il diritto per costui di rivalersi nei confronti del contribuente (subendo i rischi connessi all’eventuale incapienza patrimoniale di quest’ultimo) in ragione di quanto disposto, in via generale e di principio, dall’art. 64 co. 2, d.p.r. 600/1973. (36) Sono fattispecie, quest’ultime, in cui sembrano trovare riconoscimento e tutela due, soggettivamente distinti, ma convergenti profili di affidamento: quello del contribuente, rispetto alle competenze del professionista incaricato di coadiuvarlo nel compimento di atti e attività fiscalmente rilevanti, e quello dell’Erario nella correttezza di condotta e competenza professionale del soggetto istituzionalmente prescelto e demandato dal sistema all’espletamento di un tale compito di ausilio. Esemplare in questo senso la già ricordata fattispecie di cui all’art. 39 d.lgs. 241/1997 (come modificato dall’art. 6, co.1, lett. a), d.lgs. 175/2014) che vede l’intermediario abilitato alla trasmissione telematica delle dichiarazioni il quale apponga un visto di conformità infedele su dichiarazione precompilata, tenuto nei confronti dello Stato o del diverso ente impositore al pagamento di una somma pari all’importo dell’imposta, della sanzione e degli interessi che sarebbe stata richiesta al contribuente ai sensi dell’art. 36ter del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 salvo che il visto infedele non sia stato indotto dalla condotta dolosa o gravemente colposa del contribuente. Laddove la scriminante implicitamente e a contrario conferma, a regime, la coloritura in chiave garantista – rispetto, appunto, all’affidamento riposto e dal contribuente, e dal sistema, sulla correttezza e competenza professionale dell’intermediario abilitato – sottesa alla disposizione in questione.


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3.2. (Segue) – Non solo. Proprio i rilievi che precedono sembrano a noi essere indice sintomatico di due diversi processi evolutivi in atto nel nostro sistema. Uno che, giusta anche l’enunciazione del principio di collaborazione e buona fede recata dall’art. 10, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, sembra tendere a declinare il dovere contributivo di cui all’art. 53 Cost. anche in chiave di doverosa fattiva cooperazione di tutti i soggetti dell’ordinamento, e dunque anche della generalità dei consociati, nel dare compiuta e corretta realizzazione alla concorsualità fiscale nell’ottica della giusta imposizione: con ciò richiedendo o presupponendo da costoro comportamenti collaborativi che – seppur diversamente graduati e modulati in ragione della veste istituzionale e/o professionale da ciascuno ricoperta, del contesto in cui trovasi ad operare nonché dei rapporti che si trova a intrattenere con altri contribuenti – sembrano tradursi, in particolare nei confronti degli operatori economici e delle figure professionali di cui costoro si avvalgono, in un vero e proprio onere di vigilanza sulla correttezza del comportamento fiscale altrui, posto a loro carico a tutela di un interesse, quello, appunto, fiscale, ritenuto di primario rilievo ordinamentale (37). Onde la loro inosservanza, nei termini di volta in volta tipizzati nelle singole fattispecie, comporta la reazione (lato sensu punitiva) dell’ordinamento e costituisce fondamento giustificativo dell’insorgere della responsabilità d’imposta (ovvero addirittura di un obbligo esclusivo di pagamento del debito tributario altrui nei confronti dell’ente creditore d’imposta) in capo al soggetto imperito e/o negligente. L’altro che vede come sempre più frequente la necessità per il legislatore di confrontarsi con assetti negoziali e/o regimi impositivi di problematico ap-

(37) La vigilanza fiscale sugli altri operatori sembra insomma apprezzarsi come un comportamento cui il singolo è tenuto (e che è legittimo da costui pretendere) in chiave di realizzazione di per una compiuta concorsualità fiscale: obiettivo che rappresenta un interesse generale ordinamentale sovraindividuale. Secondo una logica che su larga scala e da tempo contrassegna l’approccio sul piano comunitario al sistema IVA. Come osserva acutamente A. Mondini (Corresponsabilità tributaria per le evasioni Iva commesse da terzi, in Rass. trib. 2014, 435 ss.) secondo il quale l’imprenditore proprio perché costituisce il tessuto connettivo del mercato dev’essere necessariamente reso dal diritto comunitario “parte attiva del sistema di difesa dalle frodi [IVA] coinvolto nella salvaguardia della liceità del mercato in cui opera”; tant’è che “Per evitare il fallimento del sistema d’imposta armonizzato, l’evasione individuale dell’IVA va dunque assunta come un fenomeno idoneo a generare un rischio collettivo (sociale) di alterazione del mercato che impone ai suoi attori una responsabilità diffusa per la socializzazione del danno erariale che contraddistingue le frodi IVA”.


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prezzamento quanto alla riferibilità soggettiva dell’obbligazione impositiva, avuto riguardo alla possibile divergenza tra l’imputabilità sostanziale dell’indice di attitudine alla contribuzione colpito dal tributo e quella, formale, della correlata obbligazione impositiva. Da cui la tendenza dell’ordinamento a coinvolgere nell’adempimento dell’obbligazione impositiva la totalità dei centri soggettivi coinvolti nella realizzazione della complessa fattispecie graduandone diversamente il ruolo anche, se del caso, per il tramite della loro chiamata in responsabilità. 4.1. Le persistenti problematiche in merito alle modalità procedurali di attivazione della chiamata in responsabilità del terzo. – Orbene, ciò premesso e venendo a spostare l’attenzione sul distinto versante più strettamente connesso ai profili procedurali (e processuali) della chiamata in responsabilità del terzo al pagamento della prestazione tributaria, una prima considerazione si impone. E cioè che – nonostante l’appena constatato progressivo ampliamento e la costante diversificazione della platea dei soggetti chiamati con il contribuente al pagamento del tributo in chiave di responsabilità – nel nostro settore continua a registrarsi una sostanziale assenza di una disciplina generale a costoro riferibile (38): e ciò sia per quanto attiene ai profili procedurali di loro coinvolgimento nella dinamica attuativa del prelievo impositivo (da cui dipendono le forme di accesso a costoro riconosciute per la tutela della propria posizione giuridico soggettiva, stante lo schema fondamentalmente impugnatorio a scansioni decadenziali che, a tutt’oggi, caratterizza il processo tributario), sia per quel che attiene al profilo, non necessariamente consequenziale, della latitudine del diritto di difesa loro riconoscibile. Ci si trova così a fare i conti con un panorama normativo che permane fortemente lacunoso e disorganico (39) e uno, giurisprudenziale, altrettanto frammentato e diversificato; entrambi, seppur con dinamiche diverse, interessati da profondi processi evolutivi dove, sottese e confliggenti tra loro, trovano eco diverse e spesso incompatibili istanze: a) quella, di cui è portavoce lo Stato-istituzione (anche quale ente esponen-

(38) Già da tempo, peraltro, da altri rilevata e denunciata. Cfr. in questi termini A. Guidara, La riscossione dei tributi nei confronti del garante in Riv. dir. trib. 2005, I, 679 ss. nonché G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, cit. passim. (39) Ciò, come già osservato, dipendendo altresì dalla costante stratificazione temporale che contrassegna la formazione del tessuto normativo rilevante di riferimento.


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ziale della collettività e dunque espressione apicale, in chiave rappresentativa, dell’interesse dei consociati), alla sollecita riscossione dei tributi che si traduce, per un verso, nella previsione di misure tese a garantire sempre maggiore snellezza, tempestività, efficienza, efficacia e proficuità (anche in chiave di economicità dell’agire amministrativo) delle procedure di soddisfacimento in via coattiva dei crediti tributari, per l’altro, nell’attivazione di politiche normative tese a potenziare la flessibilità, nei modi e nei tempi, dei versamenti in chiave di rafforzamento e incentivazione all’adempimento spontaneo. (40) b) quella emergente a livello di sistema, tesa a dare compiuta realizzazione all’obiettivo della giusta imposizione (41) declinata in termini di equo riparto dei carichi pubblici tra i consociati (42) che trova traduzione in orientamenti di matrice eminentemente giurisprudenziale tese ad esaltare la funzionalità/strumentalità del processo in chiave di conseguimento del massimo possibile coordinamento e omogeneità di regolamentazione della disciplina

(40) In questa logica hanno da apprezzarsi i recenti ripetuti interventi di ampliamento della sfera di operatività dell’istituto del ravvedimento operoso di cui all’art. 13 d.lgs. 472/1997, ma anche la costante implementazione delle forme di dilazionamento nel pagamento delle imposte di cui all’art. 19 d.p.r. 602/1973, la previsione nel corpo del d.lgs. 74/2000 dell’estinzione del debito tributario mediante suo integrale pagamento (anche in forma rateale) come causa di non punibilità di talune fattispecie di reato (in specie, reati di omesso versamento) ovvero come circostanza attenuante del reato. Nella stessa ottica si pongono poi i recenti interventi volti a preservare gli effetti premiali connessi a forme di definizione concordata dell’obbligazione tributaria pur in presenza di lievi inadempimenti nel pagamento degli importi conseguentemente dovuti di cui all’art. 15 ter d.p.r. 602/1973 (ed è significativo osservare come la prima giurisprudenza formatasi in argomento abbia sposato una lettura della disposizione appena richiamata tale da massimamente estenderne la latitudine temporale di applicazione vd. Comm. trib. reg. Genova sent. 21.10.2016 n. 1227/4/16, ma contra Cass. sent. 6.5.2016 n. 9176). (41) Di cui si fa fautrice in termini inequivocabili la Suprema Corte di Cassazione laddove individua la “giusta imposizione” come “obiettivo di sistema” rappresentando un “interesse dell’ordinamento ancor prima che un interesse personale del contribuente” giacché nel “microcosmo normativo tributario (…) ogni ingiustificata disparità di trattamento contrasta in modo forte con i principi espressi dagli artt. 3 e 53 della Costituzione che impongono ad ogni livello una coerenza del sistema nel rispetto della capacità contributiva” (così Cass. SS.UU. sent.1052/2007). (42) Espressione di una sempre maggiormente valorizzata ottica sovraindividuale e non più solo squisitamente personalistico-garantistica di apprezzamento del principio costituzionale di capacità contributiva. In argomento per più diffuse considerazioni rinvio a L. Castaldi, Sul processo tributario litisconsortile. Lineamenti storico ricostruttivi, Pisa, 2013, 144 ss. ma anche, con la consueta incisività, A. Fedele, Ancora sulla nozione di capacità contributiva nella Costituzione italiana e sui “limiti” costituzionali all’imposizione, in Riv. dir. trib. 2013, 1035 ss.


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sostanziale di rapporti controversi soggettivamente distinti ma concernenti una medesima vicenda sostanziale (43) così da evitare il proliferare dei processi con il connesso pericolo della formazione di giudicati anche solo logicamente contrastanti e per contro garantire la stabilità delle decisioni, e dunque la certezza e stabilità nella configurazione dei rapporti, in un’ottica di perseguimento dell’economicità ed efficienza/efficacia processuale (e così evitare inutile dispendio di attività giurisdizionale). c) Quella infine che, concernendo la dimensione strettamente soggettiva dell’obbligato, si fa portatrice dell’esigenza di offrire soluzioni volte ad assicurare adeguato riconoscimento e tutela del diritto di azione e di difesa oltreché il rispetto del principio del contraddittorio (44). 4.2. (Segue) – In un panorama così composito e complesso, non sorprende dunque constatare come assai sporadiche e talvolta confliggenti siano state da sempre le indicazioni normative quanto agli atti per il cui tramite attivare la chiamata in responsabilità del terzo (e che attengono correlativamente alla formazione del titolo esecutivo in forza del quale procedere, se del caso coattivamente, nei confronti di quest’ultimo per il soddisfacimento del credito tributario): con peraltro un significativo percorso evolutivo, anche in chiave applicativo-giurisprudenziale, di notevole interesse per gli impliciti ma inequivocabili esiti garantistici cui sembra ad oggi approdare. E così, se prima della riforma legislativa in tema di riscossione del 1999, il tenore dell’allora vigente art. 46 d.p.r. 602/1973 aveva condotto parte della dottrina e la giurisprudenza a ritenere il ruolo di riscossione emesso e notificato al debitore principale come spiegante efficacia, quale titolo esecutivo,

(43) Vd. significativamente Cass. SS.UU. sent.15 giugno 2015 n. 12310 § 4 laddove i giudici di legittimità sottolineano l’esigenza “di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale”. (44) Non è peregrino osservare come proprio di recente, a fronte di una giurisprudenza di legittimità fortemente oscillante rispetto al pieno riconoscimento al contribuente del diritto al contraddittorio endoprocedimentale (cfr. Cass. SS.UU. sent. 9 dicembre 2015 n. 24823 ma in termini difformi, subito dopo, Cass. ord. 12.2.2016 n. 2879 su cui vd. C. Scalinci, La Cassazione muta ancora orientamento e riafferma il generale diritto al contraddittorio preventivo, in Riv. dir. trib. suppl. online 2016) si contrappone una giurisprudenza di merito con spiccati orientamenti garantisti (così Comm. trib. reg. Firenze, ord. 10 gennaio 2016 n. 1 nonché, da ultimo, Comm. trib. reg. Milano sent. 3 gennaio 2017 n. 2/27/17).


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anche nei confronti del condebitore solidale dipendente (45), fatto salvo l’obbligo per il concessionario di notificare comunque a quest’ultimo l’avviso di mora prima di procedere coattivamente nei suoi confronti (46), con la conseguente evidente penalizzazione del responsabile d’imposta nell’esercizio delle sue ragioni a motivo e del tipo di atto per il tramite della cui impugnazione esercitare il suo diritto di difesa (47), e per l’imminenza delle azioni esecutive in cui siffatto esercizio veniva consentito dispiegarsi (azioni esecutive sostanzialmente incontrastabili stante la mancata previsione, all’epoca, del potere di sospensione giudiziale in via cautelare dell’atto impugnato), già con la novella del 1999, ferma l’ambiguità del dettato normativo di cui all’art. 25 d.p.r. 602/1973 quanto all’efficacia ultrasoggettiva del ruolo intestato nei confronti del solo debitore principale (48), in ogni caso risultava indubbio che la chiamata in responsabilità del terzo necessitasse quantomeno della notifica della cartella di pagamento nei suoi confronti: con significativa anticipazione della soglia temporale di coinvolgimento del terzo (in chiave partecipativo-conoscitiva delle contestazioni e/o pretese esercitabili ed esercitate nei suoi confronti)

(45) Così mettendosi capo al cd. fenomeno di efficacia ultrasoggettiva del ruolo di riscossione. Espressamente in questi termini taluni dati normativi. Segnatamente l’art. 17 lg. 13 aprile 1977 n. 114 il quale, per l’ipotesi di coniugi codichiaranti, prescriveva la notifica dell’avviso di accertamento e delle conseguenti cartelle di pagamento nei soli confronti del marito e non già della moglie rispetto alla quale peraltro, in forza di quanto disposto dall’art. 46 cit., qualunque iniziativa esecutiva doveva essere preceduta dalla notifica dell’avviso di mora. Sulla legittimità costituzionale di siffatta disposizione ex art. 24 Cost. – seppur nei termini meglio specificati infra nt. 46 – cfr. C.Cost. sent. 184/1989. (46) Da cui l’intervento riequilibratorio e in chiave di tutela delle ragioni di difesa del responsabile di imposta, messo in atto dalla Consulta a cavallo tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90 con la negazione di qualsivoglia effetto preclusivo a carico del coobbligato dipendente nel dispiegamento della propria attività difensiva a motivo e in ragione degli atti posti in essere da o contro il debitore principale e il conseguente riconoscimento a costui di un diritto pieno alla contestazione, sempre e comunque, non solo dei presupposti specifici ma altresì di quelli generici della propria responsabilità mediante l’impugnazione di qualsivoglia atto per tramite della cui notifica venisse reso edotto della pretesa tributaria vantata nei suoi riguardi (cfr. ex multis C.Cost. sent. 348/1987, C.Cost. sent. 207/1988; C.Cost. sent. 178/1990). (47) Notoriamente carente di qualsivoglia parvenza di contenuto motivazionale. (48) Per l’esistenza di indicatori normativi di segno convergente – segnatamente l’art. 35 d.p.r. 602/1973 e, forse, l’art. 19 co. 4 bis d.p.r. 602/1973 (su cui vd. però infra nt. 53) – tali da escludere come regola generale e in via di principio la formazione di un ruolo specificamente intestato anche a carico del condebitore solidale dipendente per procedere esecutivamente nei suoi confronti (fermo l’obbligo di sua notifica per il tramite della relativa cartella) vd. già P. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 1996, 360 nonché Id., Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2007, 387.


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nell’iter attuativo dell’obbligazione tributaria, con conseguenti positivi riflessi per quest’ultimo quanto al momento di esercizio del proprio diritto di difesa. 4.3. Le indicazioni ritraibili dall’attuale assetto normativo alla stregua dell’assetto valoriale costituzionale. – E però la dottrina più avvertita e garantista non ha mancato di evidenziare, soprattutto in questi ultimi anni, il moltiplicarsi di segnali nel sistema prefiguranti la necessità per il creditore d’imposta che intenda agire esecutivamente nei confronti del coobbligato dipendente di munirsi di un autonomo titolo esecutivo in esito ad una del pari autonoma procedura di accertamento eseguita nei confronti di quest’ultimo: come tale comportante la previa notifica di un atto accertativo della responsabilità, nei suoi presupposti specifici e generici, anche nei di lui riguardi (49). Si è così, di volta in volta, fatto richiamo: a) all’art. 36 d.p.r. 602/1973 il cui ultimo comma dispone espressamente che le responsabilità dei liquidatori, degli amministratori e dei soci sia accertata con atto motivato e notificato avverso il quale è ammesso ricorso alle Commissioni tributarie, senza che ciò sospenda la riscossione salva la possibilità di accedere alla sospensione amministrativa della riscossione ex art. 39 d.p.r. 602/1973 (50).

(49) Si rinvia in proposito, per la dottrina più risalente da sempre fautrice della tesi di cui al testo, alle indicazioni offerte in L. Castaldi, Sul processo tributario litisconsortile, cit., 77 nt. 153; per quella più di recente che ha valorizzato i dati normativi richiamati di seguito nel testo come espressivi – per la loro molteplicità – di una regola di principio, cfr. in particolare gli AA.citati supra nt. 38. Non è mancato poi chi (cfr. G. Fransoni, L’esecuzione coattiva, cit.) ha ulteriormente avvalorato la tesi in questione argomentando a contrariis su talune sporadiche disposizioni di segno contrario, reputandole come derogatorie (e, come tali, dunque, confirmative dell’immanenza) di un principio generale ad esse opposto: in particolare facendo leva sull’art. 173 t.u.i.r. laddove la norma – nel prevedere che in caso di scissioni i controlli, gli accertamenti e ogni altro procedimento relativo ai suddetti obblighi siano svolti nei confronti della società scissa o, in caso di scissione totale, di quella appositamente designata, e che le altre società beneficiarie siano con essa responsabili in solido delle somme conseguentemente dovute sia a titolo d’imposta che a titolo di sanzioni o interessi, dispone espressamente che “le società coobbligate hanno facoltà di partecipare ai suddetti procedimenti e di prendere cognizione dei relativi atti senza oneri di avvisi o di altri adempimenti per l’Amministrazione” (e ciò ferma restando una lettura giurisprudenziale assolutamente riduttiva della disposizione in esame: considerata tale da non legittimare l’Agente della riscossione a procedere esecutivamente nei confronti della società beneficiaria della scissione sulla scorta di un ruolo emesso nei confronti della scissa. Così CTR Firenze, sent. 9.11.2015 n. 2005 consultabile in GT 2016, 262 ss.) (50) È opportuno sin d’ora osservare che la disposizione è presente nell’articolato normativo dell’art. 36 d.p.r. 602/1973 sin dalla sua prima originaria stesura: all’epoca un


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b) Agli artt. 8 e 15 d.lgs. 218/1997 e art. 48 d.lgs. 546/1992 i quali, nel testo previgente alle modifiche apportate dal d.l. 98/2011 (51) stabilivano, con riferimento a vari istituti di definizione concordata della pretesa impositiva con dilazionamento degli importi dovuti, che in caso di mancato pagamento di una delle rate successive alla prima, l’Ufficio finanziario provvedesse alla notifica al garante di apposito invito al versamento dell’importo garantito nei successivi 30 giorni, contenente l’indicazione delle somme dovute e dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa, prima di procedere all’iscrizione a ruolo delle predette somme a carico del contribuente e dello stesso garante. c) All’art. 19 co. 4 bis d.p.r. 602/1973 (52) che analogamente disponeva nei confronti del garante (fideiussore o terzo datore d’ipoteca) anche per il caso di decadenza del debitore principale dal beneficio di dilazionamento nel pagamento di somme iscritte a ruolo a costui concesso (53).

unicum probabilmente giustificabile e giustificato in ragione della valenza schiettamente para-sanzionatoria della fattispecie di responsabilità ivi descritta nascente per effetto dell’imputazione di circostanze fattuali la cui ricorrenza doveva essere adeguatamente motivata dall’Ufficio finanziario per il tramite di un atto a ciò funzionalmente preposto. Non è dunque un caso che, a differenza della stragrande maggioranza di successive fattispecie normative che verranno richiamate subito di seguito nel testo, sia una delle poche a essere sopravvissuta sino ad oggi e a essere rimasta invariata e inalterata pur a seguito delle pesanti modifiche apportate alla disposizione in cui trovasi collocata (con, per la verità, non poche difficoltà di suo coordinamento rispetto al nuovo contesto normativo di riferimento e in particolare con l’art. 28 d.lgs. 175/2014) (51) Vd. retro nt. 30. (52) Introdotto con d.l. 193/2001 e abrogato dipoi con d.l. 112/2008. (53) La norma infatti disponeva “in caso di decadenza del contribuente dal beneficio della dilazione” la notificazione al fideiussore o al terzo datore di ipoteca di apposito invito “contenente l’indicazione delle generalità del fideiussore stesso ovvero del terzo datore d’ipoteca, delle somme da esso dovuto e dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa”. La disposizione proseguiva poi prevedendo espressamente che, in caso di mancato versamento, “il concessionario [potesse] procedere alla riscossione coattiva sulla base dello stesso ruolo emesso a carico del debitore”. Vale solo la pena evidenziare in questa sede che la previsione solo apparentemente, ratione temporis, varrebbe a conferma dell’efficacia plurisoggettiva del ruolo e così risentire delle precedenti disposizione di cui all’art. 35 d.p.r. 602/1973 (efficacia plurisoggettiva del ruolo emesso nei confronti del sostituto anche nei confronti del sostituito) e dell’art. 25 d.p.r. 602/1973 (notifica della cartella sulla base dell’iscrizione a ruolo del debitore anche al coobbligato solidale nei cui confronti procede), stante la peculiarità della fattispecie da essa disciplinata nella quale il ruolo emesso a carico del debitore principale era quello rispetto al quale era stata originariamente riconosciuta la dilazione di pagamento e, dunque, concessa la fideiussione o l’ipoteca del terzo (così infatti anche CTR Firenze, sent. 9.11.2015 n. 2005 consultabile in GT 2016, 262 ss.).


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d) Agli artt. 43 bis e 43 ter d.p.r. 602/1973 (54) che con riferimento a operazioni di cessione di crediti d’imposta dispongono che il cessionario del credito risponda in solido con il contribuente fino a concorrenza delle somme indebitamente rimborsate a condizione che gli siano notificati gli atti con cui l’Ufficio procede al recupero delle somme stesse. e) All’art. 35, comma 28, d.l. 223/2006, dipoi abrogato con d.lgs. 175/2014, il quale – nel disporre la solidarietà dell’appaltatore con il subappaltatore per il versamento delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente – stabiliva espressamente che “gli atti che devono essere notificati entro un termine di decadenza al subappaltatore sono notificati entro lo stesso termine anche al responsabile in solido appaltatore”. D’altro canto, non è inopportuno ricordarlo, in ambito giurisprudenziale non sono mancate significative, seppur isolate, pronunce che – per talune ipotesi specifiche di responsabilità riconnesse, quanto al loro insorgere, alla verificata ricorrenza di ben individuate e circoscritte circostanze fattuali – hanno mostrato di condividere l’orientamento dottrinale appena riportato quanto alla necessità della notifica di uno specifico atto accertativo dei presupposti specifici e generici della coobbligazione, quale indefettibile strumento di esercizio della chiamata in responsabilità del terzo nell’adempimento dell’obbligazione tributaria facente capo al contribuente, per così trarne coerenti corollari nell’individuazione delle preclusioni decadenziali a suo carico nell’esercizio del proprio diritto di difesa (55). E se la progressiva, intervenuta, abrogazione di molte delle disposizioni sopra richiamate potrebbe indurre a dubitare della persistente bontà della tesi dottrinale che su esse faceva leva, risultandone minati i fondamenti giustificativi di riscontro, a noi sembra che una decisiva svolta in argomento abbiano impresso due interventi legislativi di tenore convergente e di equivalente rilevanza sistematica che militano, per contro, proprio a rafforzare un simile orientamento interpretativo. L’uno è sicuramente rappresentato dall’art. 7 co. 3 lg. 212/2000 laddove la norma dispone che sul titolo esecutivo vada riportato il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione

(54) Entrambe introdotte con lg. 548/1995. (55) Interessanti spunti di riflessione si rinvengono in Cass. 26 febbraio 2009 n. 4622 per l’ipotesi di notifica dell’avviso di accertamento societario all’ex amministratore della società nonché in Cass. 28 luglio 2006 n. 17225 quanto alla notifica dell’avviso di accertamento societario nei confronti del cd. socio occulto.


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della pretesa tributaria, l’altro è offerto dall’art. 29 co. 1 lett. g) d.l. 78/2010 che, nel disciplinare i profili procedurali connessi agli avvisi accertamento esecutivi (c.d atti impoesattivi) (56), espressamente stabilisce che “ai fini della procedura di riscossione [ivi contemplata] i riferimenti contenuti in norme vigenti al ruolo o alla cartella di pagamento si intendono effettuati agli atti indicati nella lettera a)” (57): con ciò dando ad intendere che, ai fini delle conseguenti procedure esattive, l’avviso di accertamento esecutivo (ma lo stesso ha da dirsi per i successivi atti di riliquidazione e intimazione di pagamento degli importi dovuti in pendenza di causa) abbia da essere notificato non solo al contribuente ma anche ai coobbligati nei cui confronti si intenda procedere. E proprio la rilevanza sistematica spiegata da entrambe siffatte norme, stante la loro latitudine di incidenza nel panorama impositivo, implica un riconoscimento loro di intrinseche potenzialità espansive, in chiave ricognitiva di principio, che, laddove negate, non potrebbero non mettere capo a problematiche di incostituzionalità di non poco momento sia sotto il profilo dell’art. 3 che dell’art. 24 e 113 Cost. Seppur con una certa cautela, il sistema sembra insomma orientarsi nel senso di riconoscere al coobbligato solidale dipendente il diritto a vedersi notificato un atto di accertamento della propria responsabilità tale da attribuirgli le stesse equivalenti chances difensive riconosciute dal sistema al contribuente, in ordine alla conoscenza/conoscibilità ed eventuale contestazione/contestabilità delle pretese avanzate nei suoi confronti e dei fondamenti giustificativi (sia generici che specifici) delle stesse: a maggior ragione quando questa sorga per effetto della ricorrenza di determinate condizioni o circostanze che debbano essere adeguatamente comprovate e motivate (58). 5.1. Le problematiche processuali. – C’è poi, collegato a quanto sinora detto, anche se non del tutto ad esso consequenziale, il problema della possi-

(56) Secondo il neologismo coniato da Glendi (cfr. C. Glendi, Notifica degli atti “impoesattivi” e tutela cautelare ad essi correlata, in Dir. prat. trib. 2011, I, 10481 ss. ed ivi nt. 2). Si tratta, com’è noto degli avvisi di accertamento ai fini delle imposte sui redditi IVA e IRAP relativi alle annualità d’imposta in corso al 31 dicembre 2007 e successive, notificati a partire dal 1 luglio 2011. (57) E dunque all’avviso di accertamento ovvero all’atto di irrogazione sanzioni. (58) Si pensi, tanto per esemplificare, alle ipotesi in cui la responsabilità del cessionario sia invocata dall’Ufficio come illimitata per pretesa cessione d’azienda attuata in frode dei crediti tributari ex art. 14, co. 4, d.lgs. 472/1997.


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bile efficacia che la definitività di accertamento giudiziale del modo di essere del rapporto pregiudiziale intervenuta nei confronti del contribuente, obbligato principale, è suscettibile di spiegare nei confronti del coobbligato solidale dipendente, in punto di preclusione per quest’ultimo alla possibilità di contestare i presupposti generici della sua obbligazione (59). In via generale e di primo acchito si dovrebbe pensare che: a) per un verso, il vincolo di solidarietà che intercorre tra contribuente e responsabile d’imposta (e dunque l’operatività generalizzata della regola dell’art. 1306 c.c. che comporta l’efficacia riflessa solo in utilibus – ovvero secundum eventum litis – del giudicato altrui, rimessa comunque ad una specifica determinazione volitiva in tal senso del coobbligato) (60), b) per l’altro, la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale che, negli anni, pur ammettendo come legittimo uno spostamento in avanti del momento di esperibilità del diritto di difesa del coobbligato dipendente a motivo dell’individuazione normativa del primo atto a costui notificabile per la sua chiamata in responsabilità (61), ha sempre escluso limiti all’esercizio del diritto di difesa da parte di quest’ultimo, inducano a ritenere escluso qualsivoglia automatismo quanto a fenomeni di efficacia riflessa del giudicato sul rapporto pregiudiziale nei confronti del coobbligato dipendente, in ragione della terzietà di quest’ultimo rispetto al giudizio in cui il giudicato si è formato. E che dunque il sistema, anche dal punto di vista processuale, salvaguardi prioritariamente, in termini valoriali, le esigenze di tutela del diritto di difesa del terzo e il suo diritto al contraddittorio a dispetto della speculare esigenza di coordinamento tra le decisioni e di omogenea regolamentazione della disciplina sostanziale dei rapporti controversi (62).

(59) È il dibattuto problema della possibile efficacia che la definitività (per mancata impugnazione ovvero per intervenuto giudicato) di accertamento intervenuta inter alios in ordine all’esistenza e al modo di essere del rapporto pregiudiziale è suscettibile di spiegare ai fini della decisione del rapporto dipendente nei confronti del coobbligato dipendente (60) Comunque, com’è noto, preclusa da un precedente giudicato diretto di segno contrario, non idonea a legittimare richieste di rimborso, non rilevabile d’ufficio, non opponibile per la prima volta in cassazione (salvo il formarsi del giudicato inter alios successivamente al radicamento del giudizio in cassazione). (61) Come detto al paragrafo precedente: in un primo momento l’avviso di mora ex art. 46 d.p.r. 602/1973 e dipoi, con le modifiche apportate alla disciplina della riscossione nel 1999, la cartella di pagamento ex art. 25 d.p.r. 602/1973, da ultimo l’avviso di accertamento esecutivo. (62) Talché, per l’ipotesi di irrimediabile conflitto fra i due ordini di istanze, esso debba


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In un simile assetto di principi, il contestuale perseguimento di siffatte contrapposte e, in qualche misura, irriducibilmente incompatibili istanze sarebbe pertanto e piuttosto da intendersi rimesso al potere dispositivo delle parti nel determinarsi, se del caso, alla configurazione litisconsortile del giudizio (in via originaria, ovvero successiva – per disposta riunione dei separati giudizi o per intervento in causa ad adiuvandum del titolare del rapporto dipendente – ) (63): dovendosi piuttosto e semmai ritenere che la scelta del simultaneus processus, rimessa alla libera determinazione delle parti ab origine (64), una volta effettuata debba essere preservata, poi, come vincolante nel prosieguo del giudizio dal sistema mettendo capo ad un’ipotesi del litisconsorzio necessario processuale ex art. 331 c.p.c. in ragione dei valori sovraindividuali preservati per suo tramite (primo fra tutti, quello di evitare il formarsi di un contrasto logico di giudicati) (65). La realtà è invece più complessa: e il panorama giurisprudenziale in argomento disvela prospettive diverse e più articolate. C’è invero da considerare che, soprattutto in questi ultimi tempi, si è ingenerata una tensione nel cercare di combinare la tutela processuale del terzo titolare del rapporto dipendente (in punto di pieno riconoscimento e salvaguardia del suo diritto di difesa e di accesso al contraddittorio processuale) con l’esigenza sempre più sentita come primaria – soprattutto, ma non solo, in

considerare recessive le seconde. (63) Ma in argomento, particolarmente rilevanti per le prospettive che – in chiave evolutiva e de iure condendo – potrebbero aprire, si rivelano le considerazioni rinvenibili in Cass. sez. III civ. sent. 26 settembre 2016 n. 18782 (in specie par. 2.3.3.) laddove la Suprema Corte ribadita la “non configurabilità dell’abuso processuale per il mancato esercizio di una facoltà, quella delle parti di agire insieme nello stesso processo in ragione della connessione delle domande proposte (art. 103 c.p.c.), osserva altresì che “il ricorso a due distinte azioni determina (…) la possibile diversità delle decisioni in ordine allo stesso evento lesivo” per così concludere come “proprio questi effetti potrebbero suggerire al legislatore di riconsiderare le scelte di fondo effettuate con il codice di procedura in tempi lontani, a Costituzione assente. Allora si potrebbe prevedere che (…) in astratto in tutte le ipotesi di cui all’art. 103 c.p.c., l’esercizio congiunto dell’azione sia obbligatorio, proprio alla luce dei principi del giusto processo inverati nell’art. 111 Cost., come interpretati dalla costante giurisprudenza di legittimità”. (64) Ex art. 103 c.p.c. in combinato con l’art. 105 c.p.c. e con l’art. 274 c.p.c. (e per quanto ci riguarda ai sensi degli artt. 14 e 29 d.lgs. 546/1992). (65) In questi termini (nel senso cioè che, in presenza di fattispecie controversie in causa connesse per pregiudizialità dipendenza anche quando contrassegnate da vincoli di solidarietà, il litisconsorzio, facoltativo nell’instaurazione, una volta configuratosi, divenga necessario quanto alla conduzione successiva del giudizio ex art. 331 c.p.c.) cfr. già Cass. 19 gennaio 2007 n. 1225, Cass. 24 luglio 2009 n. 17359 nonché da ultimo, Cass. sent. 12 ottobre 2016 n. 20533.


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ambito tributario – a far sì che lo strumento processuale si atteggi in termini tali da garantire, nei limiti del possibile, massimo coordinamento tra diritto sostanziale e risultato processuale in punto di coerenza di disciplina sostanziale dei rapporti, in una con l’economicità dell’attività giurisdizionale e l’efficienza/efficacia della tutela di cui si invoca l’approntamento, attraverso la concentrazione in luogo della (e in contrapposizione rispetto alla) parcellizzazione e proliferazione dei giudizi (66): e ciò non solo in un’ottica di salvaguardia della celerità ed economicità dei giudizi, così da garantire i valori fondanti il giusto processo (fra i quali quello alla stabilità delle decisioni, la funzionalità del processo e l’effettività della tutela giurisdizionale), ma anche in chiave, precipuamente tributaria, di piena attuazione del principio di capacità contributiva, quest’ultimo declinato in termini e di attuazione della giusta imposizione (67), e di sicura, tempestiva ed effettiva esazione dei tributi (68). Con sviluppi giurisprudenziali, con riferimento alla tematica che qui interessa, di indubbio interesse. Invero è alla luce di un contesto assiologico siffatto che sembrano doversi leggere talune recenti pronunce che, in aperta rottura rispetto ai precedenti e già ricordati orientamenti giurisprudenziali, sono pervenute ad affermare il coobbligato solidale dipendente (sub specie di responsabile d’imposta) soggetto agli effetti riflessi del giudicato formatosi inter alios sul rapporto impositivo principale riconoscendolo, al contempo (69), ammesso a spiega-

(66) In questi ultimi anni si registra invero una crescente attenzione e un costante richiamo, soprattutto da parte della giurisprudenza di legittimità a favorire una definizione omogenea e un massimo coordinamento possibile delle pronunce di accertamento del modo di essere dei rapporti tributari fra loro (sia soggettivamente che oggettivamente) variamente connessi: ritenuto obiettivo primario per garantire il superiore interesse pubblico ad un sistema giusto di imposizione. (67) Nell’ottica di tutela della platea dei consociati a vario titolo chiamati a realizzare la concorsualità fiscale. (68) Ed è così che talune logiche squisitamente privatistiche che, tradizionalmente, contrassegnano e rappresentano il substrato giustificativo del peculiare atteggiarsi della disciplina civilistica delle obbligazioni solidali, vengono percepite come estranee agli assetti di principio che governano il nostro settore e comunque inadeguate a giustificare facili automatismi nella trasposizione della normativa codicistica della solidarietà in ambito tributario. Vd. significativamente da ultimo Cass. 30 marzo 2016 n. 6079 secondo la quale “sebbene in linea generale l’obbligazione solidale tuteli il creditore, dandogli la facoltà di rivolgersi indifferentemente a uno qualsiasi dei debitori solidali, in materia tributaria, in base ad una lettura costituzionalmente orientata, deve ritenersi che l’ordinamento non sia indifferente rispetto ad una diversità di posizioni [dei coobbligati] rispetto ad uno stesso tributo”. (69) E in termini del tutto innovativi rispetto alla giurisprudenza pregressa, di segno


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re intervento ad adiuvandum nel giudizio altrui e dunque messo in grado di partecipare al contraddittorio giudiziale in esito al quale sarà pronunciata la sentenza che inciderà in via riflessa sul modo di essere del rapporto giuridico di cui è titolare (70). Il tutto secondo una logica che, appunto, sembra ricercare, quel (difficile) contemperamento tra opposte esigenze di tutela di cui si è appena dato conto sopra ma che, indubbiamente, si risolve in una pesante, e per certi versi inaspettata, penalizzazione delle prospettive di difesa della parte privata (71). Risultato, questo, vieppiù di difficile comprensione se si considera la parallela parabola giurisprudenziale che ha interessato le diverse ma limitrofe ipotesi in cui la connessione per pregiudizialità/dipendenza che intercorre tra rapporti soggettivamente distinti è svincolata dallo schema della solidarietà e la tutela del terzo titolare del rapporto dipendente (rispetto ad un giudicato

negativo rispetto alla possibilità di esperimento dell’intervento adesivo dipendente nel processo tributario, stante il tenore letterale dell’art. 14 d.lgs. 546/1992 (in argomento mi permetto di rinviare a L. Castaldi, L’intervento adesivo dipendente nel processo tributario, in Rass. trib. 2010, 1323 ss.). (70) Così Cass. sent. 255/2012 (per un cui commento rinvio a L. Castaldi. L’intervento adesivo dipendente nella giurisprudenza della Corte di Cassazione in Rass trib. 2012, 1284 ss.). La posizione di apertura all’intervento adesivo dipendente nel processo tributario assunta dalla Corte di Cassazione nella citata sentenza ha prodotto interessanti sviluppi che sono ancora tutti da indagare. In questa sede ci sembra solo il caso di ricordare Cass. 9567/2013 – laddove in un contenzioso tra Agenzia fiscale e fornitore relativo ad addizionali all’imposta di consumo energia elettrica è stato ammesso l’intervento del consumatore ritenuto interessato all’esito del giudizio perché potenzialmente soggetto alla rivalsa, prospettandosene anche la possibile chiamata in causa per evitare vuoti di tutela al fine di stabilire se ha subito o meno la rivalsa da parte del fornitore – nonché Cass. 1677/2014 – laddove in un contenzioso di rimborso dell’IVA indebitamente versata dal cedente, si è riconosciuto al cessionario il diritto ad intervenire in causa ad adiuvandum in ragione del suo diritto alla restituzione dell’IVA laddove accertata come indebitamente versata da parte del cedente. (71) Ciò a maggior ragione se si considera che la dottrina processualcivilistica più autorevole, sulla scorta di un’attenta e puntuale disamina dei dati normativi rilevanti in argomento, ha sottolineato come, nelle rare ipotesi in cui il legislatore espressamente assoggetta il terzo, titolare del rapporto dipendente, agli effetti riflessi del giudicato altrui sul rapporto principale, appronta al contempo a sua tutela almeno due diversi strumenti di garanzia: l’uno, preventivo, rappresentato dall’intervento ad adiuvandum, l’altro, successivo, costituito dall’opposizione di terzo revocatoria: ferma restando la valenza sistematica e di principio che si ritiene debba riservarsi agli artt. 2485, 2859 e 2870 c.c. laddove consentono al terzo titolare del rapporto dipendente soggetto all’efficacia riflessa del giudicato altrui di sottrarvisi in ogni caso dimostrando l’ingiustizia della sentenza resa inter alios nel giudizio in cui essa gli sia invocata contro.


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reso inter alios sul rapporto principale suscettibile di pregiudicare la sua posizione) riguarda la parte titolare dell’interesse fiscale (72). Laddove si è passati, in un breve volger di tempo, dal considerare il soggetto attivo d’imposta, titolare del rapporto dipendente, come destinato a subire, puramente e semplicemente, l’efficacia riflessa del giudicato formatosi inter alios sul rapporto tributario pregiudiziale negandogli al contempo qualsivoglia strumento di tutela del proprio diritto di difesa (73), al riconoscere nei suoi confronti la possibilità di spiegare intervento adesivo dipendente nel giudizio avente ad oggetto il rapporto principale dal cui esito costui potrebbe subire pregiudizio (74) (con prosecuzione del giudizio secondo le regole di cui all’art. 331 c.p.c. in caso di positivo esperimento dell’intervento), per infine pervenire al, per certi versi davvero sorprendente, approdo giurisprudenziale (75) che – seppur con riferimento ad una

(72) Rientrano in questo schema segnatamente le controversie tra contribuenti e Comuni in tema di ICI/IMU rispetto alle pregiudiziali controversie catastali che contrappongono il contribuente all’Agenzia delle entrate – Territorio; assetti di interesse in buona misura analoghi possono ravvisarsi in capo alle Regioni con riferimento alle controversie in materia di IRAP che contrappongono giudizialmente contribuenti e Agenzia delle entrate (non è peregrino ricordare a questo proposito che in data 24 gennaio 2017 la Giunta regionale della Toscana ha approvato la delibera di impugnazione davanti alla Corte Costituzionale degli artt. 6 e 6 ter della lg. 225/2016 – disciplinanti la cd. rottamazione delle cartelle di Equitalia- perché ritenuti in contrasto con l’autonomia tributaria regionale e suscettibili di generare ingiustificate disparità di trattamento tra le Regioni: e ciò nella misura in cui la normativa nazionale non permette di escludere dal pagamento agevolato delle cartelle di Equitalia i tributi regionali a differenza di quanto invece previsto per le Regioni che si rivolgono a concessionari privati per la riscossione coattiva). Da ultimo, e in corso di pubblicazione del presente contributo, sulla questione di costituzionalità si è pronunciata la Consulta con sent. 14 febbraio b2018 n. 29: dichiarandola infondata. (73) Esclusa per costui ogni forma di tutela anche declinata in veste di mero intervento ad adiuvandum, (stante la lettura rigorosamente letterale originariamente data all’art. 14 d.lgs. 546/1992 dalla Corte di Cassazione) ovvero di esperimento dell’opposizione di terzo di cui all’art. 404 c.p.c. ritenuta mezzo di impugnazione non contemplato nel processo tributario (così Cass. sent. 19 gennaio 2010 n. 675 per il cui commento rinvio a L. Castaldi, L’intervento adesivo dipendente nel processo tributario, in Rass. trib. 2010, 1323 ss.) (74) E ciò, appunto, proprio in ragione della sua riaffermata soggezione all’efficacia riflessa del giudicato altrui che impone una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 14 d.lgs. 546/1992 alla stregua degli artt. 24 e 111 Cost.: così Cass. sent. 12 gennaio 2012 n. 255 cit. e, dipoi, Cass. ord. 19 aprile 2013 n. 9567 e Cass. ord. 9 gennaio 2014 n. 333 nonché Cass. sent. 20803/2013 che ha riconosciuto ad una Regione la legittimazione ad intervenire nella controversia avente ad oggetto una pretesa IRAP nonostante che la gestione del rapporto tributario sia devoluta integralmente all’Agenzia delle entrate. (75) Ci riferiamo a Cass. SS.UU. ord. 21 luglio 2015 n. 15203 con commento di G. Consolo, Sulla legittimazione dei Comuni a impugnare davanti alle Commissioni tributarie


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specifica tipologia di controversie qual è quella concernente gli accertamenti catastali (in rapporto di pregiudizialità rispetto a quelle, dipendenti, relative agli accertamenti ICI-IMU e riconnessi tributi locali) – ha affermato la legittimazione, oltre che della parte contribuente, altresì del Comune, titolare del rapporto dipendente, ad impugnare direttamente la rendita catastale attribuita all’immobile dall’Ufficio del Territorio avanti le Commissioni tributarie (76) riconoscendolo portatore di un interesse giuridicamente qualificato ad agire: laddove l’attenzione per un siffatto pronunciamento sta nel constatare come le acrobazie interpretative della Suprema Corte sul dettato dell’art. 2 co. 2 d.lgs. 546/1992 (77) per riconoscere siffatta legittimazione siano, dai giudici di legittimità, apertamente riconosciute come giustificate dalla asserita necessità che la rendita catastale venga accertata in un medesimo, unico giudizio e nel contraddittorio di tutti i potenziali interessati così da salvaguardare i valori fondanti del giusto processo (78) fra i quali, in particolare, quello all’effettività della tutela giurisdizionale, altrimenti compromessa dalla possibilità di decisioni contrastanti in ordine alla rendita attribuibile ad un medesimo immobile rese nei confronti di soggetti diversi e per giunta provenienti da giudici appartenenti a giurisdizioni diverse (79). Va peraltro sottolineato che una diversa ottica di approccio – più attenta alle esigenze di tutela del diritto di difesa del coobbligato e più in linea con le logiche di principio sottese alla giurisprudenza appena da ultimo citata (80)- sem-

gli atti di classamento e di attribuzione delle rendite catastali, in Rass. trib. 2017, 233 ss.). (76) Peraltro già in questi termini, seppur solo incidentalmente, Cass. sent. 8845/2010. (77) Che letteralmente sembra legittimare all’impugnazione dell’atto di classamento esclusivamente la parte contribuente, individuata normativamente ne “i singoli possessori”. (78) Sottolinea infatti la Suprema Corte – richiamandosi al proprio precedente sent. 12310/2015 – che la “previsione costituzionale di un processo “giusto” impone al giudice nella esegesi delle norme di verificare sempre che l’interpretazione adottata sia necessaria e idonea ad assicurare le garanzie fondamentali in funzione delle quali le norme oggetto di interpretazione sono state poste, evitando che il rispetto di una ermeneutica sottratta alla suddetta imprescindibile verifica si traduca in concreto in uno spreco di tempi e di risorse e comunque in una riduzione o perdita di effettività della tutela giurisdizionale”. (79) Sostiene invero la Suprema Corte che “diversamente opinando occorrerebbe ritenere che (…) mentre il contribuente può impugnare la rendita catastale ricorrendo al giudice tributario, il Comune deve invece rivolgersi al giudice amministrativo, con l’effetto di dilapidare un bene prezioso come la giurisdizione (se della medesima questione debbono conoscere due diversi giudici) ma soprattutto con l’effetto di compromettere la certezza e la stabilità delle situazioni giuridiche nonché la stessa funzionalità del processo, valori che verrebbero tutti inevitabilmente frustrati dalla possibilità che sulla medesima questione intervengano decisioni contrastanti”. (80) E cioè Cass. SS.UU. ord. 21 luglio 2015 n. 15203 cui si riferiscono i passaggi


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bra emergere, sia sul piano legislativo che giurisprudenziale, con riferimento alle ipotesi in cui alla connessione per pregiudizialità/dipendenza dei rapporti si accompagna, sì, pur sempre, lo schema della solidarietà e la tutela del terzo (rispetto ad un giudicato inter alios suscettibile di pregiudicare la sua posizione) riguarda la parte non titolare dell’interesse fiscale, ma la responsabilità (fiscale o civilistica) del coobbligato solidale dipendente non è riconducibile alla figura del fideiussore/terzo in senso stretto ma si innesta su schemi impositivi sostanziali in cui si registra una scissione in punto di riferibilità soggettiva delle fasi di determinazione/accertamento dell’imponibile e di sua imputazione ai fini impositivi (consolidante/consolidata; soci o società partecipanti/società partecipata nei regimi opzionali di cui agli artt. 115 e 116 t.u.i.r.) ovvero su fenomeni di soggettività debole dal punto di vista civilistico (società di persone/soci) (81): il coobbligato solidale dipendente è in realtà in qualche misura partecipe con il coobbligato principale nella titolarità della capacità contributiva colpita dal tributo ancorché non sia, a stretto rigore e sul piano rigorosamente formale, il soggetto passivo del tributo (82). In queste ipotesi infatti, sia a livello giurisprudenziale che normativo, si registra una netta propensione per una configurazione necessariamente litisconsortile del giudizio in cui si discuta del modo di essere della fattispecie impositiva: con accesso al contraddittorio giudiziale di tutti coloro che, seppur a diverso titolo, – per disposizione civilistica e/o fiscale – sono poi chiamati a rispondere del correlativo debito tributario in coobbligazione solidale. E così, se a livello normativo rileva il disposto di cui all’art. 40 bis d.p.r. 600/1972 che nell’introdurre l’accertamento unico con riguardo alla rettifica del reddito complessivo proprio di ciascun soggetto che partecipa al consolidato e alla conseguente liquidazione maggior imposta accertata relativa al complessivo reddito globale

argomentativi riportati alle precedenti ntt 78 e 79. (81) Vd. in argomento seppur a supporto di considerazioni diverse da quelle di cui al testo G. Boletto, Due diverse ipotesi di responsabilità dei soci di società di persone per debiti d’imposta, in Riv. dir. trib. 2003 II, 925 ss. e G. Fransoni, L’esecuzione coattiva a carico di debitori diversi, cit., in specie 842 ss. (82) Sintomatico in proposito il fatto che nelle società di persone i soci coobbligati in solido con la società per i debiti (anche tributari) di quest’ultima, hanno regresso interno tra di loro ma non nei confronti della società (come correttamente osserva G. Boletto, Due diverse ipotesi di responsabilità, cit., 931): il che dal punto di vista strettamente tributario e alla luce del principio di capacità contributiva si giustifica solo ipotizzando una ripartizione pro quota della titolarità della manifestazione di attitudine alla contribuzione unitariamente imputata alla società in capo ai soci.


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conseguentemente determinato, ne ha stabilito l’obbligo di notifica alla società consolidante e alla società consolidata definite ex lege litisconsorti necessarie, sul versante giurisprudenziale sovviene quanto affermato da Cass. SS.UU. sent. 24815/2008 che, relativamente alla definizione giudiziale del reddito societario delle società di persone, ha prefigurato il coinvolgimento necessario di tutti i soci in litisconsorzio necessario con conseguenti effetti anche ai fini IVA e IRAP di cui i soci sono poi, civilisticamente, limitatamente o illimitatamente responsabili, ma altresì da Cass. sent. 24472/2015 che, più di recente, ha esteso i principi di cui alla precedente pronuncia anche alle società trasparenti per opzione ex artt. 115 e 116 t.u.i.r. (83): con il risultato che la definizione giudiziale, nel contraddittorio necessario di tutti i soggetti coinvolti nella fattispecie reddituale, del modo di essere della fattispecie impositiva è destinato a ridondare sulla coobbligazione solidale della società partecipata per le somme dovute a titolo di imposta, sanzioni e interessi da parte dei singoli soci/società partecipanti in conseguenza dell’imputazione per trasparenza del reddito (84). Siamo insomma di fronte, ancora una volta, ad un quadro composito e in continua evoluzione dove il contributo di approfondimento e l’impegno spesso anche inaspettatamente creativo della giurisprudenza non mancano: una costante, del resto, in un contesto, qual è quello del contenzioso tributario, dove la scarsità e spesso sommarietà dei dati normativi rendono possibile, più che altrove, percorsi esplorativi di grande interesse.

Laura Castaldi

(83) Vd. in termini altresì Cass. ord. 18 aprile 2017 n. 9751. (84) È solo il caso di aggiungere in questa sede – l’argomento esorbitando dal tema del presente contributo – che sarebbe auspicabile la sentenza costituisse precedente per ravvisare un’ipotesi di litisconsorzio necessario anche e altresì con riferimento alle vicende accertative facenti leva sulla presunzione di distribuzione occulta di utili extrabilancio ai soci nelle società di capitali a ristretta base societaria: al momento, infatti, si registra in argomento una posizione giurisprudenziale tutt’altro che felice e decisamente lesiva del diritto di difesa del socio – posto che siamo in un caso di schema classico di pregiudizialità dipendenza tra rapporti facenti capo a soggetti diversi senza la sovrapposizione del vincolo solidale –: allo stato, infatti il socio è ritenuto soggetto all’efficacia riflessa del giudicato ovvero della definitività dell’avviso formatosi in capo alla società (così, da ultimo, Cass. 16818/2017 peraltro per un’ipotesi di efficacia riflessa in bonam partem) – con, se del caso, la sospensione necessaria del giudizio ai sensi del novellato art. 39 d.lgs. 546/1992 (così Cass. 5581/2015 nonché Cass. ord. 27 ottobre 2017 n. 25556) – senza per costui riconoscimento di legittimazione a ricevere notifica dell’avviso di accertamento della società né a contraddire rispetto ad esso (Cass. sent. 441/2013).



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Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (cd. flat tax per neo – residenti) Sommario: 1. Quadro normativo di riferimento. L’imposizione delle persone fisiche residenti e non residenti. – 2. La nuova disciplina dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia. – 3. I requisiti di applicazione della norma. – 4. L’interpello. – 5. L’obbligatorietà dell’interpello. – 6. L’impugnazione della risposta all’interpello. – 7. L’istruttoria dell’istanza di interpello. – 8. L’opzione. – 9. I familiari. – 10. Le discipline affini. – 11. Imposta sostitutiva e capacità contributiva. – 12. Imposta sostitutiva e conformità ai principi di diritto internazionale ed europeo. Sulla concorrenza fiscale tra gli stati.

Con un recente intervento legislativo è stata introdotta, per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia, la possibilità di pagare un’imposta sostitutiva per i redditi prodotti all’estero. La relativa disciplina contempla interpelli ed opzioni, è applicabile alla famiglia e presenta profili problematici in ordine alla tassazione in base alla capacità contributiva e ai principi di diritto internazionale ed europeo. By a recent legislative intervention has been introduced, for individuals who establish their residence in Italy, a substitute tax on income obtained abroad. The new rule includes tax ruling and fiscal option, is applicable to the family, and presents problematic profiles with regard to ability to pay and international and European tax principles.

1. Quadro normativo di riferimento. L’imposizione delle persone fisiche residenti e non residenti. – L’art. 1, comma 152, della legge 11 dicembre 2016, n. 232, ha introdotto un’imposta sostitutiva forfetaria applicabile, in via opzionale, sui redditi prodotti all’estero da persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia. La nuova disposizione, che consente a determinate condizioni un trattamento differenziato tra i redditi domestici e quelli di fonte estera, si inserisce nell’ambito della disciplina concernente l’imposizione reddituale delle persone fisiche residenti e non residenti. Si tratta di un sistema normativo che, al-


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meno nelle linee generali, appare abbastanza stabile nel tempo e che è opportuno richiamare per un corretto inquadramento del nuovo regime opzionale. Ai sensi dell’art. 2 del d.p.r. 22 dicembre 1986 n. 917, sono soggetti passivi delle imposte sui redditi le persone fisiche residenti e non residenti nel territorio dello Stato (indipendentemente dalla cittadinanza); si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile (1). Per le persone fisiche residenti la base imponibile, ai sensi dell’art.3 d.p.r. n. 917/1986, è costituita dal reddito complessivo formato da tutti i redditi posseduti (in tutto il mondo: principio della worldwide taxation) (2). La base imponibile delle persone fisiche non residenti, invece, è costituita soltanto dai redditi prodotti nel territorio dello Stato (3), come individuati dall’art. 23 d.p.r. n. 917/1986 (4).

(1) Poiché il periodo di imposta dura un anno, bastano poco più di sei mesi (183 giorni o 184 in caso di anno bisestile) di presenza nello Stato che non sia mera dimora per affermare l’esistenza di una residenza fiscale. Su queste nozioni cfr. da ultimo F. Peddis, Considerazioni sugli effetti dell’iscrizione all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero nel trasferimento della residenza fiscale, in Riv. dir. trib., 2016, n. 6, II, 341 ss. In generale cfr. R. Baggio Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà territoriale, Milano, 2009; G. Melis, Il trasferimento della residenza fiscale nelle imposte sui redditi, Milano,2009; G. Fransoni, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004. (2) Se il residente paga le imposte in un paese straniero su ricchezze tassate in Italia, gli spetta un credito d’imposta ai sensi dell’art. 165 d.p.r. n. 917/1986, per il quale se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo sui vari redditi sono ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta fino alla concorrenza dalla quota dell’imposta italiana corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero e il reddito complessivo. Più in generale, sulla doppia imposizione giuridica internazionale cfr., anche per i riferimenti bibliografici, R. Franzè, I metodi di eliminazione della doppia imposizione internazionale sul reddito, in Principi di diritto europeo e internazionale, a cura di C. Sacchetto, Torino, 2016, 83 ss. (3) Principio similare è previsto per gli enti. A norma dell’art. 5, comma 3, lett. d, e art. 72 comma 3, d.p.r. n. 917/1986, si considerano residenti le società, le associazioni e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. L’oggetto principale è determinato in base all’atto costitutivo, se esistente in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, e quindi di atto di notaio, e in mancanza, in base all’attività effettivamente esercitata. (4) In particolare, per i redditi fondiari si guarda al luogo dove è ubicato il bene immobile; i redditi di capitale rilevano se il soggetto che li corrisponde è fiscalmente residente nel territorio dello Stato; i redditi di lavoro dipendente sono tassati se l’attività lavorativa è svolta in Italia, così come i redditi di lavoro autonomo; i redditi di impresa sono soggetti a imposizione se l’attività è svolta in Italia attraverso una stabile organizzazione; per i redditi diversi rileva se il bene che ha generato il reddito è situato nel territorio dello Stato.


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In forza di queste norme, chi trasferisce la residenza in Italia è soggetto alla tassazione con le aliquote italiane (comunemente considerate elevate rispetto alle aliquote di altre nazioni) anche sui redditi prodotti all’estero, compresi quelli dello Stato di provenienza. In un contesto di concorrenza fiscale tra gli Stati e di notevole mobilità delle persone, l’elevata tassazione, e le annesse complicazioni burocratiche, possono indurre il soggetto (specialmente se titolare di un ricco patrimonio) a non trasferire la residenza in Italia e a porre tutte le precauzioni idonee ad evitare di essere considerati residenti. Per fronteggiare questa situazione, che può tenere lontane ricchezze umane ed economiche, è stato introdotto il regime tributario in esame, disciplinato nell’art. 24 bis, d.p.r. n. 917/1986, rubricato “Opzione per l’imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero realizzati da persone fisiche che trasferiscono la propria residenza fiscale in Italia”. 2. La nuova disciplina dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia. – Le persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia ai sensi dell’articolo 2, comma 2, d.p.r. n. 917/1986, possono optare per l’assoggettamento all’imposta sostitutiva, dei redditi prodotti all’estero individuati secondo i criteri di cui all’articolo 165, comma 2 (5), a condizione che non siano state fiscalmente residenti in Italia, ai sensi del detto articolo 2, comma 2, per un tempo almeno pari a nove periodi d’imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio del periodo di validità dell’opzione. Per effetto dell’esercizio dell’opzione, relativamente ai redditi prodotti all’estero, è dovuta un’imposta sostitutiva dell’imposta sui redditi delle persone fisiche calcolata in via forfetaria, a prescindere dall’importo dei redditi percepiti, nella misura di euro 100.000,00 (centomila) per ciascun periodo d’imposta in cui è valida la predetta opzione (6). Tale importo è ridotto a euro 25.000 per ciascun periodo d’imposta per ciascuno dei familiari. L’imposta è versata in un’unica soluzione entro la data prevista per il versamento del saldo

(5) I redditi si considerano prodotti all’estero sulla base di criteri reciproci a quelli previsti dall’articolo 23 Tuir per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato. (6) Non avendo relazione con la base imponibile, non si tratta di un’imposta sostitutiva ma di un ticket per essere esonerati dal pagamento dell’imposta sui redditi esteri secondo D. Stevanato, Imposta a forfait sugli stranieri rimpatriati ed equità fiscale, in dariostevanato. blogspot.it, 10 marzo 2017.


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delle imposte sui redditi (7). L’imposta non è deducibile da altra imposta o contributo. L’opzione deve essere esercitata dopo aver ottenuto risposta favorevole a specifica istanza di interpello presentata all’Agenzia delle entrate, ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lettera b), della legge 27 luglio 2000, n. 212, entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui viene trasferita la residenza in Italia ed è efficace a decorrere da tale periodo d’imposta. Le persone fisiche indicano nell’opzione la giurisdizione o le giurisdizioni in cui hanno avuto l’ultima residenza fiscale prima dell’esercizio di validità dell’opzione (8). L’opzione è revocabile e comunque cessa di produrre effetti decorsi quindici anni dal primo periodo d’imposta di validità dell’opzione. Gli effetti dell’opzione cessano in ogni caso in ipotesi di omesso o parziale versamento, in tutto o in parte, dell’imposta sostitutiva nella misura e nei termini previsti dalle vigenti disposizioni di legge. Sono fatti salvi gli effetti prodotti nei periodi d’imposta precedenti. La revoca o la decadenza dal regime precludono l’esercizio di una nuova opzione (9). Le persone fisiche, per sé o per uno o più dei familiari, possono manifestare la facoltà di non avvalersi dell’applicazione dell’imposta sostitutiva con riferimento ai redditi prodotti in uno o più Stati o territori esteri, dandone specifica indicazione in sede di esercizio dell’opzione ovvero con successiva modifica della stessa. Soltanto in tal caso, per i redditi prodotti nei suddetti Stati o territori esteri si applica il regime ordinario e compete il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero (10). Come avviene sempre con maggiore frequenza, il legislatore ha demandato l’integrazione della disciplina ad un provvedimento di natura non rego-

(7) Per l’accertamento, la riscossione, il contenzioso e le sanzioni si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste per l’imposta sul reddito delle persone fisiche. (8) L’Agenzia delle entrate trasmette tali informazioni, attraverso gli idonei strumenti di cooperazione amministrativa, alle autorità fiscali delle giurisdizioni indicate come luogo di ultima residenza fiscale prima dell’esercizio di validità dell’opzione. (9) La norma prevede, inoltre, che per le successioni aperte e le donazioni effettuate nei periodi d’imposta di validità dell’opzione, l’imposta sulle successioni e donazioni è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti esistenti nello Stato al momento della successione o della donazione. Su quest’aspetto della disciplina si rinvia a P. PURI, Profili di interesse notarile del regime tributario di favore per i c.d. “neo residenti”, Studio n. 100-2017 del Consiglio nazionale del notariato, in CNN notizie del 18 luglio 2017. (10) Ai fini dell’individuazione dello Stato o territorio estero in cui sono prodotti i redditi si applicano i medesimi criteri di cui all’articolo 23.


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lamentare. Si tratta di una sostanziale elusione dei limiti al potere regolamentare posti dalla legge n. 400 del 1988, perché si approvano atti amministrativi generali che, di fatto, hanno un contenuto almeno in parte regolamentare, in quanto integrano l’ordinamento giuridico, senza il rispetto delle forme regolamentari (11). Il provvedimento è stato emanato il giorno 8 marzo 2017 (12), con correlato comunicato (13), con molta enfasi della stampa che ha parlato di flat tax per gli stranieri (14). 3. I requisiti di applicazione della norma. – Per pagare l’imposta sostitutiva, in luogo della imposizione ordinaria, occorre avere determinati requisiti e (salvo quanto diremo in seguito) osservare un particolare procedimento. Il contribuente deve essere innanzitutto una persona fisica. La nozione di persona fisica non è espressamente definita nel nostro ordinamento, che le dedica però gli articoli da 1 a 10 del codice civile (15). A contrario è esclusa l’applicazione alle persone giuridiche e a tutti quei centri di imputazione di diritto e doveri tributari che il legislatore riconosce. Da un lato la limitazione alle sole persone fisiche potrebbe considerarsi ingiustificata in quanto anche per gli altri soggetti di diritto è prevista la disciplina della tassazione dell’utile mondiale. Dall’altro lato, la nozione di residenza, da un punto di vista civilistico, è legata a quella di persone fisiche. Da un pun-

(11) Cfr. P. Russo, G. Fransoni, L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2016, 43. Per un criterio formale, per il quale è il legislatore a qualificare le disposizioni integrative come regolamenti o atti amministrativi generali G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte gen., Padova, 2015, 72 nt. 13; nello stesso senso sembra P. Boria, Diritto tributario, 2016, 82. In senso critico appare anche D. Conte, Imposizione fiscale e nuovi accordi preventivi per le imprese con attività internazionale, in Riv. dir. trib., 2016, I, n. 5, 682 nt. 13. Sull’argomento cfr. anche le notazioni critiche di G. FRANSONI, Appunti a margine di alcuni “provvedimenti” attuativi emanati dalla Agenzia delle Entrate, in Rass. trib., 2001, n. 2, 365 ss; V. Nucera, I provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate ed i confini della normatività, in Riv. dir. trib. 2011, n.10, I, 961 ss. (12) Successivamente è stata emanata la circolare n. 17/E del 23 maggio 2017 dell’Agenzia delle Entrate. (13) Sottolinea che i comunicati stampa sono funzionali al migliore svolgimento dell’attività amministrativa, ma sono incapaci di generare regole giuridiche M. Beghin, Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, Torino, 2016, 75. (14) In realtà, come meglio vedremo, la disciplina si applica a prescindere dalla cittadinanza. (15) La persona fisica è identificata nella persona umana da C.M. Bianca, Diritto civile, vol. 1, Milano, 2002, 136; sull’evoluzione del concetto di persona cfr. anche G. Alpa – A. Ansaldo, Le persone fisiche, in Il codice civile, Commentario, Artt. 1-10, Milano, 2013, 2 ss.


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to di vista fiscale, a ben vedere, nelle norme si discorre sempre di residenza e, quindi, si sarebbe potuto introdurre uno strumento simile anche per società e enti similari. Si tratta, pertanto, di una scelta del legislatore che, però, non sembra contrastare di per sé con i principi costituzionali di uguaglianza e di tassazione in base alla capacità contributiva, in quanto la residenza delle persone fisiche è certamente nozione sostanzialmente distinta da quella degli enti. Irrilevante è invece la cittadinanza, con la conseguenza che dell’imposta sostitutiva può beneficiarne anche il cittadino italiano che voglia trasferire la residenza in Italia. Principio conforme alla disciplina generale, in quanto le norme fiscali, a partire dall’art. 53 della Costituzione, non fanno riferimento alla cittadinanza. Il secondo requisito, appunto, è il trasferimento della residenza ai sensi della legge dell’Irpef. Questa scelta del legislatore può essere foriera di complicazioni perché l’art. 2, comma 2, d.p.r. n. 917/1986 fa riferimento alla residenza anagrafica, alla residenza effettiva e al domicilio. La residenza effettiva e il domicilio sono due elementi non verificabili in modo oggettivo, ma frutto comunque di una valutazione. In base alla previsione di legge, il contribuente potrebbe trasferire solo la residenza effettiva o il domicilio: sarebbe stato meglio limitare la disciplina al cambiamento di residenza anagrafica, in modo da ancorarla ad un elemento obiettivamente verificabile. È vero che è prevista la procedura di interpello, ma non è obbligatoria (come meglio vedremo in seguito) e la relativa risposta potrebbe arrivare comunque dopo l’esercizio dell’opzione. Altro requisito è costituito dalla condizione di non essere stato fiscalmente residente in Italia, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, per un tempo almeno pari a nove periodi d’imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio del periodo di validità dell’opzione. Anche in questo caso il requisito della residenza abbraccia la residenza anagrafica, quella effettiva e il domicilio ai sensi dell’art. 43 c.c. (16). Il requisito della residenza anagrafica è agevolmente verificabile; la residenza effettiva e il domicilio sono invece di più difficile accertamento. Si tratta di elementi verosimilmente oggetto del parere preventivo da parte dell’amministrazione in sede di interpello e successivamente in sede di controllo della corrispondenza delle circostanze di fatto a quanto riferito nell’istanza.

(16) Su queste nozioni cfr. C.M. Bianca, Diritto civile, vol. 1, Milano, 2002, 271 ss.; I. Riva, Domicilio e residenza, in Il Codice civile. Commentario, artt. 43-47, Milano, 2015, 9 ss.


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Il riferimento alla residenza ai sensi della normativa domestica è chiaro e tassativo (17). Ciononostante, vi sono interpretazioni che tendono a svalutarlo, per dare rilevanza alla nozione di residenza ai sensi dei trattati basati sul modello Ocse (18), in forza dei quali una persona residente in Italia potrebbe essere considerata residente in altro Stato contraente (19). In tal modo per esempio, un contribuente che è residente in Italia in forza della residenza (non essendosi iscritto all’Aire), ma che in forza e ai fini del trattato sulla doppia imposizione è da considerarsi residente nell’altro stato contraente, potrebbe avvalersi dell’opzione come se non residente in Italia. Si tratta, però, di opinioni da rigettarsi in quanto la normativa appare testuale e la nozione di resi-

(17) Nel silenzio della legge, non è escluso che il contribuente resti anche residente nel Paese di origine. Cfr. il documento di studio n. 1/2017 del gruppo di studio “resident non domiciled” dell’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Milano. (18) Cfr. l’art. 4 del modello “the term ‘‘resident of a Contracting Statè’ means any person who, under the laws of that State, is liable to tax therein by reason of his domicile, residence, place of management or any other criterion of a similar nature, and also includes that State and any political subdivision or local authority thereof. This term, however, does not include any person who is liable to tax in that State in respect only of income from sources in that State or capital situated therein. Where by reason of the provisions of paragraph 1 an individual is a resident of both Contracting States, then his status shall be determined as follows: a) he shall be deemed to be a resident only of the State in which he has a permanent home available to him; if he has a permanent home available to him in both States, he shall be deemed to be a resident only of the State with which his personal and economic relations are closer (centre of vital interests); b) if the State in which he has his centre of vital interests cannot be determined, or if he has not a permanent home available to him in either State, he shall be deemed to be a resident only of the State in which he has an habitual abode; c) if he has an habitual abode in both States or in neither of them, he shall be deemed to be a resident only of the State of which he is a national; d) if he is a national of both States or of neither of them, the competent authorities of the Contracting States shall settle the question by mutual agreement. Il Modello, sotto un profilo di diritto internazionale, rappresenta una raccomandazione (reccomandation) che l’organizzazione internazionale ha emanato all’unanimità, ai sensi dell’art.5, comma 1, lett. b), del Trattato istitutivo dell’Ocse, pertanto priva di quel carattere vincolante che caratterizza le decisioni assunte ai sensi della lett. a) di tale articolo: così G. Melis, L’interpretazione del diritto tributario europeo e internazionale, in Principi di diritto tributario europeo e internazionale, a cura di C. Sacchetto, Torino, 2011, 28. Hanno natura normativa, invece, i singoli trattati. (19) Cfr. D. Antonacci, Agevolazioni fiscali per chi trasferisce la residenza: confronto con la normativa internazionale, in www.altalex.it, 19 gennaio 2017. Nello stesso senso, e più in generale per la rilevanza delle tie - breaker rules il documento di studio n. 1/2017 del gruppo di studio “resident non domiciled” dell’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Milano. Ma la lettera della legge non consente questa interpretazione estensiva.


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denza dei modelli e dei trattati sulla doppia imposizione è più ampia e riguarda, appunto, i rapporti tra le potestà impositive dei due Stati contraenti (20). Ultimo requisito sembra essere il rispetto di un determinato procedimento. Il contribuente deve presentare apposita istanza di interpello all’Amministrazione, ottenere parere favorevole e solo dopo può esercitare l’opzione (21). Questo almeno l’iter previsto dal legislatore. Legislatore che però non indica le modalità di esercizio dell’opzione, delineato come successivo all’interpello. Sembra quindi desumersi, innanzitutto, che il contribuente possa non esercitare l’opzione dopo avere avuto una risposta favorevole. Ma non è chiaro neanche come possa esercitare l’opzione, nella quale deve peraltro indicare la giurisdizione o le giurisdizioni in cui ha avuto l’ultima residenza fiscale (22). E lascia perplessi che il riferimento legislativo al contenuto dell’opzione, di per sé successiva all’interpello, e non al contenuto dell’istanza di interpello. Fin qui il legislatore. È poi intervenuto il provvedimento applicativo del 8 marzo 2017 n. 47060 del direttore dell’Agenzia delle Entrate che almeno su due punti sembra innovare quanto previsto dal legislatore. Questo provvedimento dispone che il contribuente “può” presentare una specifica istanza di interpello. In altri termini, per il provvedimento l’interpel-

(20) La dottrina qui criticata nega che si possa parlare di treaty abuse, sostenendo che per esservi abuso del trattato vi dovrebbe essere doppia non imposizione, mentre in questo caso si ha l’imposizione forfetaria italiana. Argomentazione non condivisibile in quanto una bassa tassazione è equiparabile a mancata tassazione. Sulla nozione di abuso dei trattati cfr. P. Mastellone, L’abuso del diritto tributario, in Principi di diritto tributario, a cura di C. Sacchetto, Torino, 2016, 147 ss. Diversa questione è se i soggetti che esercitano l’opzione possono da considerarsi residenti anche ai fini convenzionali; la risposta sembra essere positiva in quanto la totalità dei loro redditi sconta, in via ordinaria o forfetaria, le imposte in Italia. Così Ag. entrate, circ. 23 maggio 2017 n. 17/E; P. Pistone, Diritto tributario internazionale, Torino, 2017, 127. (21) La circ. n. 17/E del 23 maggio 2017 sottolinea che, in sede di interpello, il contribuente può vincere la presunzione di cui al comma 2-bis dell’art. 2 del Tuir. La norma pone una presunzione, salvo prova contraria, di residenza in Italia per i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori elencati nel d.m. 4 maggio 1999. Per l’Amministrazione, grazie all’interpello, e alla relativa risposta positiva, l’imposta sostitutiva si può applicare anche alla persona fisica che si trasferisca in Italia provenendo da uno di detti Paesi. (22) Lascia perplessi il riferimento alla giurisdizione, che nel nostro linguaggio è nozione puramente processuale; ma va riconosciuto che nel linguaggio giuridico internazionale di derivazione anglosassone è sinonimo di Stato, o meglio di autorità sovrana che esercita i relativi poteri su un determinato territorio.


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lo non è obbligatorio ma facoltativo (punto 1.3). Si precisa (anche se in modo non esplicito) che l’opzione è esercitata con la dichiarazione dei redditi dove vanno indicati gli elementi che andrebbero indicati nell’interpello qualora questo non sia stato presentato (punto 1.9 e 1.12). Si tratta di previsioni che apparentemente contrastano con il testo della legge ma che, come vedremo possono risultare compatibili attraverso una corretta esegesi delle norme. 4. L’interpello. – L’opzione di cui al comma 1 deve essere esercitata dopo aver ottenuto risposta favorevole a specifica istanza di interpello presentata all’Agenzia delle entrate, ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lettera b), della legge 27 luglio 2000, n. 212, entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui viene trasferita la residenza in Italia ai sensi del comma 1 del presente articolo ed è efficace a decorrere da tale periodo d’imposta. Prima dell’opzione bisogna quindi, secondo la lettera della legge che si è fedelmente riportata, presentare un interpello (cd. probatorio) (23) e ottenere una risposta positiva (24). L’interpello probatorio giova al contribuente per

(23) L’interpello probatorio (comma 1, lettera b) dello Statuto dei contribuenti) riguarda la sussistenza delle condizioni e la valutazione della idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge per l’adozione di specifici regimi fiscali nei casi espressamente previsti dalla legge. Prima della riforma legislativa non aveva una sua rilevanza autonoma ma era stato enucleato dalla dottrina. Cfr. E.M. Bagarotto, Interpello e accordi amministrativi, (dir. trib.), in Diritto online, in www.treccani.it, 2013, par. 4.1; F. Pistolesi, Gli interpelli tributari, Milano, 2007, passim.; G. Glendi, in Abuso del diritto e novità sul processo tributario, a cura di C. Glendi, C. Consolo, A Contrino, Assago, 2016. Si tratta di interpello probatorio che normalmente avrà come specifico oggetto questioni relative alla residenza. È opportuno ricordare come la stessa Circolare dell’Agenzia delle entrate n. 9/E del giorno 1 aprile 2016, relativa alla disciplina degli interpelli, da un lato non ammette interpelli ordinari o qualificatori in tema di residenza, in quanto rilevano elementi fattuali di cui è necessario verificare la veridicità e completezza, possibile solo in sede di accertamento; dall’altro lato, ammette sulla residenza gli interpelli probatori espressamente previsti dalla legge. La posizione dell’Amministrazione finanziaria potrebbe apparire eccessivamente ancorata alla distinzione formale tra i diversi tipi di interpello. Peraltro, la ricchezza degli elementi fattuali si dovrebbe riflettere sul contenuto della risposta all’istanza, non sulla sua ammissibilità, ex ante e in astratto: così G. Fransoni, “Qual vaghezza…?”: considerazioni sui presupposti dell’interpello “qualificatorio”, in Rass. Trib., 2016, n. 3, 570 ss. (24) In tal senso la relazione illustrativa al senato per la quale l’opzione può infatti essere esercitata dopo aver ottenuto risposta favorevole a specifica istanza di interpello probatorio, presentata all’Agenzia delle entrate, in base all’articolo 11, comma 1, lettera b), dello Statuto dei contribuenti (legge n. 212 del 2000).


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avere chiarimenti circa la sussistenza delle condizioni per l’accesso al regime agevolato e l’idoneità degli elementi probatori, inducendo l’amministrazione ad anticipare l’attività di controllo (25). Ne discende un effetto preclusivo, in quanto l’amministrazione non potrà, dopo la risposta positiva, ritenere insussistente o non provata la circostanza di fatto oggetto dell’interpello (26). Infatti, ai sensi dell’art. 11 della legge 27 luglio 2000 n. 212, il contribuente può interpellare l’amministrazione per ottenere una risposta riguardante fattispecie concrete e personali relativamente alla sussistenza delle condizioni e la valutazione della idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge per l’adozione di specifici regimi fiscali nei casi espressamente previsti. L’amministrazione risponde alle istanze nel termine di centoventi giorni. La risposta, scritta e motivata, vincola ogni organo della amministrazione con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell’istanza e limitatamente al richiedente. Quando la risposta non è comunicata al contribuente entro il termine previsto, il silenzio equivale a condivisione, da parte dell’amministrazione, della soluzione prospettata dal contribuente. Gli atti, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio difformi dalla risposta, espressa o tacita, sono nulli. Tale efficacia si estende ai comportamenti successivi del contribuente riconducibili alla fattispecie oggetto di interpello, salvo rettifica della soluzione interpretativa da parte dell’amministrazione con valenza esclusivamente per gli eventuali comportamenti futuri dell’istante. Fin qui la disciplina. Resta il dubbio sul grado di certezza che il contribuente consegue attraverso la risposta positiva. In primo luogo, la possibilità prevista dalla disciplina generale di rettificare la soluzione interpretativa sembra consentire all’amministrazione di mutare orientamento, anche se senza effetto retroattivo, non consentendo al contribuente di godere dell’agevolazione per tutti gli anni per i quali è prevista; impedendo in tal modo una programmazione sicura delle proprie scelte di natura fiscale in ordine al cambio di residenza. In secondo luogo, fermo restando che non dovrebbero rilevare con effetto retroattivo i mutamenti interpretativi contenuti nelle circolari e risoluzioni (27), e che gli effetti preclusivi non operano nel caso di difformità dei fatti esposti da quelli reali, resta il dubbio sulla rilevanza della successiva

(25) Cfr. S. Muleo, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2016, 55. (26) Cfr. P. Russo - G. Fransoni - L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2016, 146. (27) Cfr. S. Muleo, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2016, 54.


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acquisizione di nuovi elementi probatori o del sopraggiungere di norme interpretative (e come tali retroattive), dichiarazioni di incostituzionalità, nuovi orientamenti delle giurisdizioni superiori (28). Infine, la nullità dell’atto difforme non è così intensa da escludere la necessità dell’impugnazione entro sessanta giorni dalla notificazione (29). 5. L’obbligatorietà dell’interpello. – L’applicazione dell’imposta sostitutiva appare a prima vista subordinata all’esercizio dell’interpello (30). In senso contrario dispone il provvedimento attuativo che considera l’interpello una mera facoltà (31). Si tratta di un contrasto fra fonte primaria e altro atto (che forse non è neanche fonte normativa) che andrebbe risolto dando rilevanza al testo di legge. Ma un’esegesi diversa della norma, e del contesto in cui si inserisce, può condurre l’interprete al risultato di assorbire il contrasto tra legge e provvedimento attuativo (32). Potrebbe rilevare, in primo luogo, l’art. 2, primo comma, del d.l. 2 marzo 2012 n. 16 (33), in virtù del quale la fruizione di benefici di natura fiscale o l’accesso a regimi fiscali opzionali, subordinati all’obbligo di preventiva comunicazione ovvero ad altro adempimento di natura formale non tempestivamente eseguiti, non è preclusa, sempre che la violazione non sia stata constatata o non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività am-

(28) Così S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2016, 292. Preoccupazioni manifestate con riferimento agli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale da D. Conte, Imposizione fiscale e nuovi accordi preventivi per le imprese con attività internazionale, in Riv. dir. trib., 2016, n. 5, 694. (29) La differenza essenziale tra vizi di nullità e di annullabilità rispetto all’atto tributario sembra limitari alla rilevabilità d’ufficio e in ogni grado, fermo restando il termine per l’impugnazione. Cfr. P. Boria, Diritto tributario, Torino 2016, 452. (30) Osserva che l’interpello probatorio è solitamente connotato dalla doverosità S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2016, 291. (31) La circ. n. 17/E del 23 maggio 2017 sostiene anche che, data la sua natura preventiva, non può essere presentato dopo avere espresso l’opzione. Soluzione forse un po’ rigida visto che l’opzione ha effetto per più anni e il controllo può essere esercitato dopo alcuni periodi d’imposta. La stessa circolare sottolinea che l’interpello è necessario nel caso di persone fisiche che si presumono fiscalmente residenti in Italia ai sensi dell’art. 2-bis del d.p.r. n. 917/1986. (32) In senso critico verso la diffusa tendenza dell’Amministrazione finanziaria a sfumare il connotato della doverostià degli interpelli “obbligatori” S. La Rosa, L’interpello obbligatorio, in Riv. dir. trib., 2011, nn. 7-8, I, 711 ss. Per l’Autore gli interpelli “obbligatori” mirano a soddisfare esigenze di monitoraggio fiscale che rendono imprescindibile, sul piano dello stesso diritto sostanziale, l’istanza, la cui assenza andrebbe assimilata al mancato esercizio dell’opzione. (33) Convertito dalla legge 26 aprile 2012 n. 44.


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ministrative di accertamento delle quali l’autore dell’inadempimento abbia avuto formale conoscenza, laddove il contribuente: a) abbia i requisiti sostanzialmente richiesti dalle norme di riferimento; b) effettui la comunicazione ovvero esegua l’adempimento richiesto entro il termine di presentazione della prima dichiarazione utile; c) versi contestualmente l’importo pari alla misura minima della sanzione stabilita dall’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 (34). In tal modo la norma, infatti, escluderebbe la preventività, consentendo che si possa optare unitamente alla presentazione della dichiarazione dei redditi. Si tratta di una disposizione generale che potrebbe essere stata derogata dalla norme speciale successiva. Ma la ratio della norma è propria quella di prendere atto che se vi sono i requisiti richiesti dalla norma, gli adempimenti di natura formale devono essere considerati facoltativi. In altri termini, il contribuente che voglia essere sicuro di non ricevere contestazioni dall’amministrazione finanziaria, si avvarrà dell’istituto dell’interpello; ma nulla impedisce al contribuente, almeno sul piano teorico di non fare l’interpello. Anche qualora si ritenga non applicabile la norma configurando l’interpello come adempimento di natura sostanziale, la soluzione del provvedimento attuativo appare conforme alla natura dell’interpello che è una richiesta di un atto di indirizzo da parte dell’amministrazione; parere al quale il contribuente, a suo rischio e pericolo, può certamente rinunciare. Anzi, affine è il dubbio se il contribuente possa procedere ad applicarsi l’imposta sostitutiva, anche se riceve risposta negativa. Dubbio che si dovrebbe risolvere in senso positivo in quanto si tratta di un atto di indirizzo che non vincola il contribuente (35), rimettendosi la decisione finale sui requisiti a chi ha tale funzione, il giudice (36). In altri termini, l’interpello non sembra essere condizione necessaria per l’esercizio dell’opzione (37).

(34) Peraltro, l’opzione può essere manifestata per fatti concludenti, come riconosce il DPR 10 novembre 1997 n. 442, che sembra costituire una sorta di regime generale: cfr. F. Farri, Spunti di riflessione sull’ambito oggettivo e temporale della disciplina regolamentare delle opzioni, in Riv. dir. trib., 2009, II, 233 ss. (35) Cfr. S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2016, 289 ss. (36) Peraltro, ricostruita come necessaria la risposta positiva dell’interpello, questa si configurerebbe più come una autorizzazione che come un parere. (37) Naturalmente, il contribuente che non presenta istanza di interpello e non ottenga una risposta positiva rischia, soprattutto nel caso di possibili residenze fittizie, un successivo accertamento, con l’annesso problema della possibilità di compensare l’imposta sostitutiva nel


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In questo modo è superato il dissidio con il testo di legge e si può condividere la scelta del provvedimento disciplinante le modalità applicative dell’opzione, che al punto 1.3 dà per scontato che il contribuente “può” presentare una specifica istanza di interpello, ma non la si considera obbligatoria. Piuttosto si precisa che, in assenza di interpello, gli elementi per il riscontro delle condizioni per l’applicazione della disciplina, dai dati anagrafici, alla check list, sono indicati nella dichiarazione nella quale si perfeziona l’esercizio dell’opzione. Disposizioni che conducono l’interprete anche a considerare non applicabile la sanzione, seppur minima, sopra richiamata (38). 6. L’impugnazione della risposta all’interpello. – La risposta negativa all’interpello, recita l’art. 6, primo comma, d. lgs. 24 settembre 2015 n. 156, non è impugnabile (39). Sorge il dubbio se il richiamo dell’art.11, operato dalla disciplina in esame, comprende anche il citato art. 6 e quindi determina la non impugnabilità della risposta (negativa) (40). Se si propende per la soluzione negativa si potrebbe ammettere l’impugnazione equiparandola ad un diniego di agevolazione (41).

frattempo versata. (38) Una conferma della facoltatività dell’interpello discende anche dalla scarsa chiarezza della norma che recita che l’opzione deve essere esercitata dopo aver ottenuto risposta favorevole a specifica istanza di interpello, entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui viene trasferita la residenza in Italia ed è efficace a decorrere da tale periodo d’imposta. Non è chiaro se il termine riguarda l’interpello o l’opzione. Se il termine riguarda l’interpello, poi non vi sarebbe il tempo per l’opzione; se il termine riguarda l’opzione, l’interpello deve essere presentato parecchio tempo prima. Il provvedimento applicativo, senza porsi particolari problemi, precisa che l’opzione è esercitata anche qualora, essendo stata presentata specifica istanza di interpello, non sia ancora pervenuta la risposta da parte dell’Agenzia delle entrate. (39) La norma contempla l’impugnabilità unitamente all’atto impositivo solo per gli interpelli disapplicativi. (40) Sulla nuova norma e sui dubbi che comunque permangono cfr. G. Glendi, Nonostante l’intervento del legislatore permangono le divergenze dei giudici di merito sull’autonoma impugnabilità del diniego di interpello, in Dir. prat. trib., 2016, n. 6, II, 2596 ss. (41) Cfr., con riferimento agli interpelli disapplicativi, G. Fransoni, Efficacia e impugnabilità degli interpelli fiscali con particolare riguardo all’interpello disapplicativo, in Elusione ed abuso del diritto tributario, a cura di G. Maisto, Milano, 2009, 95. Nello stesso senso, con riferimento all’interpello ex art. 37 bis, d.p.r. 29-9-1973 n. 600, G. Zoppini, Lo strano caso delle procedure di interpello in materia di elusione fiscale, in Riv. Dir. trib., 2002, n. 10, 990 ss. Un’ipotesi di agevolazione collegata a interpello era, a nostro avviso, quella prevista


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Ma anche se si ammette l’applicazione dell’art. 6 e delle altre norme connesse, come sembra preferibile trattandosi di una disciplina generale (42), non appare sicura la soluzione in quanto in dottrina, dopo l’approvazione della nuova disciplina degli interpelli, si è sottolineato che la previsione della non impugnabilità degli interpelli (e della impugnabilità differita degli interpelli obbligatori) appare norma priva di reale contenuto prescrittivo. Prevale comunque, infatti, l’art. 24 della Costituzione, che impone il riconoscimento del diritto alla tutela giurisdizionale ogni qualvolta sussiste un interesse ad agire (43). Per sostenere la non vincolatività della risposta occorre ammettere che essa consiste in un mero atto di indirizzo non impugnabile in quanto non vincolante dal contribuente, che può scegliere di non seguire la risposta dell’amministrazione. In tal caso, in generale, il contribuente impugnerebbe gli eventuali atti recuperativi del tributo. Se si ammette, quindi, che la risposta non è impugnabile, occorre anche ammettere che non sia vincolante (44) e quindi che l’opzione non sia subordinata alla risposta favorevole (e neppure alla presentazione dell’istanza) (45).

dall’art. 41 del decreto legge n, 78 del 2010. Si tratta(va) del cd. regime fiscale di attrazione europea, per il quale, previo interpello, un’impresa residente in uno stato membro dell’Unione Europea che intraprende nuove attività economiche in Italia per un periodo di tre anni può chiedere l’applicazione, in luogo della normativa tributaria italiana, della normativa tributaria vigente in uno degli stati membri dell’Unione Europea. Il tema del rapporto tra agevolazione e interpelli è stato affrontato in particolare con riferimento alle norme di disapplicazione di fattispecie antielusive; cfr. G. Falcon, Interpello in materia tributaria, in Enc. Giur., Roma, 2003; F. Tundo, Impugnabile il diniego di disapplicazione delle norme antielusive, in Corr. Trib., 2011,n. 21, 1701 ss. (42) Soluzione non certa appunto perché il diniego potrebbe essere riqualificato come uno degli atti espressamente impugnabili. (43) G. Fransoni, La riforma degli interpelli, in Il libro dell’anno del diritto, Roma, 2017, 419 ss. Per es., l’interesse ad agire non può essere negato ogni qualvolta la combinazione della pronuncia di inammissibilità e del decorso del termine precluda la reiterazione dell’istanza emendata dei vizi riscontrati dall’Amministrazione. (44) Mentre per la lettera della legge l’opzione deve essere esercitata dopo aver ottenuto risposta favorevole a specifica istanza di interpello. (45) La legge dispone che l’opzione deve essere esercitata dopo avere ottenuto risposta favorevole a specifica istanza di interpello. Il provvedimento attuativo, invece, al punto 1.9, prevede che l’opzione è esercitata entro i termini di presentazione della dichiarazione anche qualora, essendo presentata specifica istanza di interpello, non sia ancora pervenuta la risposta; al punto 1.12 dispone che qualora il contribuente non presenti l’istanza di interpello, gli elementi probatori sono indicati nella dichiarazione nella quale si perfeziona l’esercizio dell’opzione.


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7. L’istruttoria dell’istanza di interpello. – La legge non specifica i dati che il contribuente deve indicare nell’istanza di interpello. L’indicazione della giurisdizione o delle giurisdizioni in cui ha avuto l’ultima residenza fiscale è, infatti, prevista dal legislatore nell’opzione che sembra distinta dall’interpello. Il provvedimento attuativo, invece, dispone l’indicazione di tutti gli elementi rilevanti nell’interpello e, solo in sua mancanza, nell’opzione (1.4 e ss.). Lo stesso provvedimento fa salva la disciplina generale degli artt. 2 ss del d. lgs. 24 settembre 2015 n. 156, dalla quale si deve partire viste le lacune del testo normativo. In particolare, l’istanza, a mente dell’art.2, può essere presentata dal contribuente e dai soggetti che in base alla legge sono obbligati a porre in essere gli adempimenti tributari per conto dei contribuenti o sono tenuti insieme con questi o in loro luogo all’adempimento di obbligazioni tributarie. Quest’ultima categoria non sembra applicabile alla nostra ipotesi sia perché la norma fa riferimento solo al contribuente sia perché non è agevole individuare con certezza i soggetti obbligati a porre in essere gli adempimenti tributari nel caso di persone fisiche. Non rileva il comma 2, che riguarda i termini e che è superato dalla espressa previsione della disciplina in esame. Il contenuto delle istanze è disciplinato dall’art. 3. A parte alcuni elementi generici (46), e altri che non sembrano applicabili alla fattispecie (47), rileva la lett. c) relativa alla circostanziata e specifica descrizione della fattispecie. All’istanza di interpello e’ allegata copia della documentazione, rilevante ai fini della risposta, non in possesso dell’amministrazione procedente o di altre amministrazioni pubbliche indicate dall’istante. Non sembra rilevare la previsione per la quale nei casi in cui la risposta presupponga accertamenti di natura tecnica, non di competenza dell’amministrazione procedente, alle istanze devono essere allegati altresì i pareri resi dall’ufficio competente. Nei casi in cui le istanze siano carenti dei requisiti di cui alle lettere b), d), e), f) e g) del comma 1, l’amministrazione invita il contribuente alla loro regolarizzazione entro il termine di 30 giorni. I termini per la risposta iniziano a decorrere dal giorno in cui la regolarizzazione e’ stata effettuata.

(46) Dai dati identificativi dell’istante al tipo di istanza. (47) Vedi le lettere d) ed e) relativi alle specifiche disposizioni di cui si chiede l’interpretazione, l’applicazione o la disapplicazione e l’esposizione, in modo chiaro e univoco, della soluzione proposta.


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Sarebbe applicabile l’art. 4, concernente l’istruttoria dell’interpello, per il quale, quando non e’ possibile fornire risposta sulla base dei documenti allegati, l’amministrazione chiede, una sola volta, all’istante di integrare la documentazione presentata. In tal caso il parere e’ reso, per gli interpelli di cui all’articolo 11 della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente, entro sessanta giorni dalla ricezione della documentazione integrativa. La mancata presentazione della documentazione richiesta ai sensi del comma 1 entro il termine di un anno comporta rinuncia all’istanza di interpello, ferma restando la facoltà di presentazione di una nuova istanza, ove ricorrano i presupposti previsti dalla legge. L’applicazione di questo comma, comporterebbe la impossibilità di esercitare l’opzione laddove ritenuto necessario il previo interpello. Ai sensi del successivo art. 5, l’istanza sarebbe inammissibile se a) sono prive dei requisiti di cui alle lettere a) e c), e nel caso in cui il contribuente non integri la documentazione, dell’articolo 3, comma 1; non rilevando le altre ipotesi. Sull’applicabilità dell’art. 6 abbiamo già discorso. Non sembra applicabile l’art. 6 comma 2 in quanto riguarda l’interpello disapplicativo (48). Il provvedimento attuativo precisa una serie di elementi che vanno indicati (49), con allegazione di apposita check list e della relativa documentazione

(48) Per il comma 2 dell’art. 6 se è stata fornita risposta, senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice, l’atto di accertamento avente ad oggetto deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta, o altre posizioni soggettive del soggetto passivo è preceduto, a pena di nullità, dalla notifica di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni. La richiesta di chiarimenti è notificata dall’amministrazione ai sensi dell’articolo 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, entro il termine di decadenza previsto per la notificazione dell’atto impositivo. Tra la data di ricevimento dei chiarimenti, ovvero di inutile decorso del termine assegnato al contribuente per rispondere alla richiesta, e quella di decadenza dell’amministrazione dal potere di notificazione dell’atto impositivo intercorrono non meno di sessanta giorni. In difetto, il termine di decadenza per la notificazione dell’atto impositivo è automaticamente prorogato, in deroga a quello ordinario, fino a concorrenza dei sessanta giorni. L’atto impositivo è specificamente motivato, a pena di nullità, anche in relazione ai chiarimenti forniti dal contribuente nel termine di cui al periodo precedente. (49) Il provvedimento dispone che tra l’altro, si indicano i dati anagrafici, codice fiscale, se già attribuito, la residenza, se già residente; lo status di non residente in Italia per un tempo pari a nove periodi d’imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio di validità dell’operazione; la giurisdizione in cui ha avuto l’ultima residenza fiscale prima dell’esercizio di validità dell’opzione; gli Stati o i territori esteri per i quali intende esercitare la facoltà di non avvalersi dell’applicazione dell’imposta sostitutiva. Il provvedimento fa riferimento alla possibilità di


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a supporto, ove rilevante (50). Elementi che vanno indicati nell’opzione, ove l’interpello non sia presentato. Il provvedimento dispone l’inammissibilità dell’interpello per la mancata compilazione della check list, prevista dallo stesso provvedimento, o per la mancata produzione della documentazione a supporto. Lascia perplessi questa previsione, sia perché la check list non è prevista dalla legge, sia perché non sono precisati i documenti a supporto. 8. L’opzione. a) Procedimento, natura ed effetti. – Si ha opzione quando si riconosce al contribuente la facoltà di scegliere tra diverse discipline tributarie di uno stesso fatto. Nel caso in esame abbiamo due discipline, quella generale della tassazione dell’utile mondiale, e quella opzionale dell’imposta sostitutiva (51). Il patto di opzione in diritto civile ha dato luogo, da sempre, a difficoltà di classificazione (52). Prevalentemente è qualificato come contratto da cui discende per l’opzionario il diritto potestativo (cui corrisponde, in capo al concedente, una soggezione), avente ad oggetto la conclusione del contratto finale; diritto potestativo che viene esercitato con un atto unilaterale (53).

una residenza già in Italia; la previsione apparentemente contraddittoria, in quanto la legge parla di trasferimento della residenza, si può spiegare se si pensa che la dichiarazione si presenta dopo il decorso dell’anno cui si riferisce. L’avverbio “tra l’altro” è utilizzato dal legislatore, che in tal modo consente di aggiungere ulteriori informazioni facoltative. (50) La check list fa riferimento a una serie di criteri che sono solitamente utilizzati per identificare la residenza anche ai fini del modello Ocse (in particolare CIV e habitual abode), quali il domicilio del coniuge e dei familiari, l’esistenza di stabili legami personali, sociali, culturali, ricreativi e politici, utilizzo effettivo di immobile adibito ad uso abitativo, anche con contratti di locazione, cariche sociali, beni e quota di vario genere. (51) La subordinazione dell’imposta sostitutiva all’interpello e alla risposta dell’amministrazione (anche se in parte superata dal provvedimento applicativo) mal si coniuga con l’idea di opzione; lo stesso richiamo dell’interpello disciplinato dalla lettera b), trattandosi di interpello qualificato legislativamente come probatorio, appare incoerente con la natura di opzione. Si avrebbe, infatti, un’ulteriore manifestazione di potere da parte dell’amministrazione, successiva all’opzione; in altri termini, la diversa modulazione dell’obbligazione tributaria non dipende solo dalla volontà del contribuente ma anche, nella misura in cui lo si ritenga necessario, dalla risposta dell’amministrazione. (52) Cfr. R. Sacco – G. De Nova, Il contratto, Torino, 2004, 319 ss. (53) Cfr. C.M. Bianca, Diritto civile, vol. III, Il contratto, Milano, 1996, 267 ss.. Cfr. anche M.C. Diener, Il contratto in generale, Milano, 2015, 145 ss, ove ampi riferimenti sulle


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In diritto tributario non abbiamo un contratto, ma il diritto potestativo discende dalla legge (54). Nessun potere discrezionale si può, infatti, considerare riconosciuto in capo all’amministrazione, né si può riscontrare una qualche forma di esercizio consensuale del potere (55). La misura dell’obbligazione tributaria discende dalla manifestazione unilaterale di volontà del contribuente secondo uno schema che sempre più si diffonde in diritto tributario (56). Per la dottrina che si è occupata sul piano monografico del tema, le opzioni in materia tributaria non sono atti negoziali in senso proprio ma manifestazioni di volontà non negoziali, o meri atti giuridici, che attengono a profili secondari di regolamentazione di una disciplina già prevista dalla legge (57). Secondo questa impostazione, l’opzione non si traduce in una volontà del risultato in termini di imponibili e di imposta ma si indirizza e assume rilevanza in relazione alla specificazione del regime applicabile (58). La scelta del contribuente non costituisce nuove situazioni giuridiche in quanto la fonte normativa del tributo rimane la legge. Altra dottrina (direi tutta la manualistica), invece, afferma che le varie determinazioni volitive siano senza dubbio atti di natura negoziali, generatori degli effetti in vista dei quali sono specificamente contemplati (59)

varie e opposte ricostruzioni civilistiche dell’istituto, e R. Sacco - G. De Nova, Il contratto, Torino, 2004, 319 ss., nota 3, ove si sottolinea che, aldilà delle questioni dogmatiche e oziose se non inutili, struttura e effetti sono quelli dell’accettazione . (54) Nel caso in esame, in base al testo legislativo, questo diritto potestativo sarebbe condizionato all’esercizio dell’interpello all’amministrazione che dovrebbe controllare l’esistenza dei requisiti per l’esercizio del diritto potestativo. Ma appunto perché il diritto all’opzione discende dalla legge e i requisiti sono obiettivi e non vi è spazio la discrezionalità o la consensualità, l’opzione può essere esercitata anche senza interpello o senza interpello con risposta positiva. (55) Su interpello e moduli consensuali cfr. L. Del Federico, Autorità e consenso nella disciplina degli interpelli fiscali, in Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, a cura di S. La Rosa, Milano, 2008, 155 ss., per il quale nella disciplina degli interpelli il consenso risulta alquanto etereo. (56) Si pensi per es. all’opzione per la tassazione delle compravendite immobiliari sulla base del valore catastale anziché del prezzo vero. (57) P. Coppola, La dichiarazione tributaria e la sua rettificabilità, Padova, 2005, 36 ss. (58) M. Nussi, La dichiarazione tributaria, Torino 2008, 118 ss. (59) Cfr., P. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 246, confermata in P. RUSSO, G. Fransoni, L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2016, 159. Ravvisa nelle opzioni (e non solo) vere e proprie manifestazioni negoziali di volontà I. Manzoni - G. Vanz, Il diritto tributario, Torino, 2008, 244, M. Beghin, Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, Torino, 2016, 132.; A. Giovannini, Il diritto tributario per principi,


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La tesi che nega la natura negoziale delle opzioni tributarie può lasciare perplessi, in quanto almeno nella nostra ipotesi, il contribuente decide quanto pagare sulla base di alternative previste dal legislatore; esercitata l’opzione, il contribuente è tenuto a pagare quel determinato importo non solo in base alla legge, ma anche in base alla sua volontà. Non si intende dire che il contribuente voglia pagare l’importo di euro 100.000,00, perché nessuno “vuole” pagare le tasse; piuttosto, il contribuente sceglie tra le alternative obbligandosi a pagare l’importo determinato dalla legge (60). Ma è la stessa nozione di negozio giuridico che non va sopravvalutata in quanto non presente nel codice civile, che conosce le figure dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale (61). La nostra fattispecie, con le cautele dovute alla materia tributaria, rientra certamente negli atti unilaterali aventi contenuto patrimoniale, poiché ne discende l’obbligazione di pagare un determinato importo di tributo. Pertanto, sia che si riscontri un negozio, sia che non lo si voglia riscontare, può essere comunque applicabile, in linea di principio, la disciplina civilistica degli atti unilaterali e quindi quella dei contratti (62). Agli atti unilaterali aventi contenuto patrimoniale si applicano, infatti, le norme che regolano i contratti, in quanto compatibili (art. 1324 c.c.). Disciplina che va, poi, coordinata con quella tributaria del d.p.r. 10 novembre 1997 n. 442, che contiene un complessivo riordino della disciplina delle opzioni (63).

Milano, 2014, 91. Per M. Basilavecchia, Corso di diritto tributario, Torino, 2017, 358, le opzioni hanno natura lato sensu negoziale, ma è discusso se la irrevocabilità deriva dalla natura negoziale o dal fatto che l’amministrazione ha conformato i propri atti alla scelta operata dal dichiarante. (60) Esula, dal presente lavoro un’indagine circa l’esistenza di un’obbligazione tributaria. Ma è difficile negare l’esistenza di un vincolo, relativo ad una prestazione di natura patrimoniale, che lega il debitore - contribuente al creditore - Stato. (61) Cfr. F. Galgano, Le categorie generali, in Diritto civile e commerciale, vol. I, Padova, 1993, 35 ss.; Vd. anche N. Irti, Itineriari del negozio giuridico, in Quaderni fiorentini, 7, 1978; Id., Letture bettiane del negozio giuridico, Milano, 1991, 66 ss. per il quale il negozio giuridico non è più una categoria giuridica ma storiografica. Peraltro, se si guarda alla nozione tradizionale del negozio, appare difficilmente applicabile de plano alle dichiarazioni del contribuente. Si pensi per es. alla definizione di F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2002, 125, che definisce il negozio giuridico come atto di privata autonomia indirizzato a uno scopo che l’ordinamento giuridico reputa meritevole di tutela, nel quale la volontà è determinante degli effetti. (62) Sempre che non si voglia negare alla radice ogni collegamento, sostenendo che l’opzione tributaria sia strutturalmente distinta, e distante, dall’istituto civilistico. (63) Cfr. S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2016, 221 ss.


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Sul piano procedurale, non è chiaro, come si è già detto, il momento in cui viene effettuata l’opzione. Probabilmente è effettuata in sede di dichiarazione dei redditi, e in questo senso il provvedimento applicativo, punto 1.2 e 1.9 (64). E sembra vada fatta anche in caso di interpello precedente (65). La dichiarazione, a seconda del tipo, può essere presentata anche successivamente al pagamento del saldo e quindi dell’imposta sostitutiva in esame. Infatti, attualmente il termine ultimo, anche per le dichiarazioni dei contribuenti non residenti è il 30 settembre, il saldo invece va pagato entro il trenta giugno. Non sembra avere particolari conseguenze la mancata comunicazione dell’opzione nella dichiarazione. Sembra rilevare, infatti, l’art. 1 del citato d.p.r. n. 442/1997, per il quale l’opzione e la revoca di regimi di determinazione dell’imposta e di regimi contabili si desumono da comportamenti concludenti del contribuente o dalle modalità di tenuta delle scritture contabili, depotenziando il relativo formalismo. La dottrina sottolinea come in tal modo si enuclea il principio per il quale la manifestazione di volontà dipende dalla condotta concreta del contribuente; in tal modo la scelta dispositiva avviene in un momento anteriore e diverso dalla dichiarazione, che mantiene solo una funzione informativa e quindi, se abbiamo bene inteso, di dichiarazione di scienza (66). Tesi certamente apprezzabile, anche se non si può escludere in linea teorica che la dichiarazione sia il momento formale (quasi come fosse l’atto pubblico (67)) in cui viene cristallizzata una volontà già espressa per fatti concludenti; in altri termini, una manifestazione di volontà che si esprime attraverso due momenti, uno attuativo precedente e uno dispositivo successivo (68). Se si propende per la rilevanza del solo comportamento concludente (il pagamento dell’imposta sostitutiva) si ha solo, verosimilmente, l’applicazione della sanzione pecuniaria di modesta entità (da euro 250 a euro 2000) ai

(64) Così anche la circ. n. 117/E del 23 maggio 2017. (65) Non vi è quell’effetto premiale consistente nella possibilità di evitare la, altrimenti doverosa, segnalazione dell’operazione in sede di dichiarazione, che normalmente si accompagna all’interpello probatorio; cfr. P. Russo - G. Fransoni - L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, Milano 2016, 148. (66) Cfr. P. Boria, Diritto tributario, 2016, 366 ss. (ribadendo quanto già sostenuto in La dichiarazione tributaria, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Torino, 2012, 582). (67) Si pensi all’ipotesi del prezzo integralmente pagato prima della stipula dell’atto di vendita. (68) Può risultare difficile ammettere che interpello e opzione, previsti dal legislatore come obbligatori, siano, in ultima analisi, sostituiti dal semplice pagamento dell’imposta.


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sensi dell’art. 8, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997 n. 471, che si applica ogniqualvolta il contribuente non indica nella dichiarazione in maniera esatta e completa i dati rilevanti per la determinazione del tributo (69). Peraltro, la previsione delle modalità di esercizio dell’opzione solo nel provvedimento attuativo che non è fonte normativa, e non nella legge, fa propendere per l’idea che non è applicabile alcuna sanzione o che comunque l’opzione sia esercitabile in modo libero. b) La revoca. – Le discipline summenzionate potrebbero rilevare sia per la revoca sia per l’annullamento della dichiarazione. La revoca è l’atto diretto a cancellare il precedente atto, onde privarlo di efficacia giuridica (70). In dottrina è ammessa specialmente tra coloro che negano o sfumano la natura negoziale dell’opzione tributaria, precisandosi che essa ha effetto ex nunc e non ex tunc (71) (non rilevando quindi per i periodi d’imposta precedenti). La questione dottrinale è qui risolta dal legislatore che, al comma 4 della disciplina in esame, prevede la revocabilità dell’opzione, che sono fatti salvi gli effetti prodotti nei periodi d’imposta precedenti e che la revoca o la decadenza dal regime precludono l’esercizio di una nuova opzione. La previsione della revoca con effetto non retroattivo non è, a ben vedere, in contrasto con la disposizione dell’art. 1328 c.c. che prevede come l’accettazione, cui può essere assimilato l’atto unilaterale in esame, possa essere revocata purché la revoca giunga a conoscenza prima dell’accettazione. Si può, infatti, ricostruire la fattispecie come opzione ope legis rinnovata tacitamente anno per anno, salvo appunto revoca con effetto ex nunc. Occorre, però, precisare se la revoca ha effetto per i periodi d’imposta successivi o anche per quello in ordine al quale si presenta la dichiarazione. In altri termini, poiché il versamento dell’imposta precede la dichiarazione, ci si può domandare se il contribuente che ha versato l’imposta sostitutiva e,

(69) Così la circolare n. 17/E del 23 maggio 2017. (70) Non si parla di recesso (che comunque non ha effetto retroattivo) in quanto non si ha un contratto a prestazione continuata o periodica. (71) Cfr. S. La Rosa, Principi, cit., 210, per il quale l’opzione è revocabile ex nunc una volta decorso il termine minimo previsto dalla legge per la loro vigenza. Nello stesso senso sembra M. Nussi, La dichiarazione tributaria, 268, il quale sottolinea che non può influire su situazioni ormai verificate. P. Coppola, cit., ammette una revoca e sostituzione della dichiarazione in cui è contenuta l’opzione entro gli ordinari termini di scadenza.


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per es., si accorga di non avere conseguito un risparmio, possa revocare l’opzione non ancora espressa e conseguire il rimborso. La soluzione dovrebbe essere negativa in quanto l’opzione è esercitata tacitamente con il pagamento dell’imposta, e l’opzione in dichiarazione sarà meramente ricognitiva. A maggior ragione, non si può revocare l’opzione dopo che si è presentata la dichiarazione: è, infatti, preclusa la revoca una volta che si sia esplicitata l’opzione e siano scaduti i termini, a tutela dell’interesse alla certezza e stabilità dei rapporti giuridici in modo che determinate condotte soggettive siano qualificate giuridicamente in via definitiva (72). Il legislatore non chiarisce dove si esercita la revoca; interviene anche qui il provvedimento attuativo, al paragrafo 3.2, prevedendo che va inserita nella dichiarazione oppure, qualora il contribuente non sia tenuto a presentare dichiarazione, a mezzo raccomandata o posta certificata. L’omesso o parziale versamento non comporta revoca ma decadenza, con effetto dal periodo d’imposta rispetto al quale doveva essere eseguito il versamento. Non si comprende, infine, perché la revoca precluda l’esercizio di una nuova opzione. Si tratta, infatti, di una sanzione che si comprende con riferimento alla decadenza ma non alla revoca; possono, infatti, mutare le circostanze di fatto o di diritto che rendano conveniente riesercitare l’opzione (ovviamente per diversi periodi d’imposta. c) L’annullamento. – All’opzione, almeno per chi vi ravvisa natura negoziale, è applicabile la disciplina dei vizi del consenso di cui agli artt. 1425 ss del codice civile. Si tratta della disciplina dell’annullabilità dell’atto se il consenso è stato dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo. In particolare, si sostiene che la dichiarazione sia correggibile (rectius annullabile) applicando la disciplina dell’annullamento per vizi del consenso (art. 1427 ss) e quindi in particolare,se l’errore è essenziale e riconoscibile ai sensi dell’art. 1428 c.c. (73). Più precisamente, l’atto unilaterale sarebbe an-

(72) Cfr. P. Boria, Diritto tributario, Torino, 2016, 381. (73) Oltre che per violenza e dolo, altamente improbabili. Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova, 2015, 378 (il quale pure vi ravvisa manifestazioni di volontà negoziale); S. Muleo, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2016, 111 (per il quale tali contenuti della dichiarazione rappresentano altrettanti atti di volontà che, in quanto tali, si ritiene debbano seguire la disciplina del negozio giuridico); F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2011, 154, il quale osserva come con le opzioni il contribuente influisca sulla misura del debito di imposta, con ciò dimostrando che il debito non sorge per effetto del solo presupposto di fatto ma


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nullabile se la volontà è stata dichiarata per errore ai sensi dell’art. 1427 (74). L’errore è essenziale se è stato determinante del volere, nel senso che l’atto non sarebbe stato manifestato se non si fosse incorso in errore. L’elenco di cui all’art. 1429 è considerato esemplificativo (75), ma va ricordato che ai sensi dell’art. 1430 il mero errore di calcolo non rende annullabile il contratto, ma dà luogo solo a rettifica, nella nostra ipotesi impossibile in quanto l’imposta sostitutiva è fissa. L’errore è riconoscibile quando una persona di normale diligenza, tenuto conto delle circostanze, avrebbe potuto rilevarlo (art. 1431). L’errore del contribuente che non si è accorto che con l’opzione paga di più potrebbe essere riconoscibile (76). Ma il contribuente potrebbe comunque preferire l’imposta forfetaria per semplificare i propri adempimenti ed evitare accertamenti futuri. Anche in caso di mancata indicazione in dichiarazione per mero errore, prevarrà il fatto del pagamento. Da escludersi anche il dolo, discendendo il diritto all’opzione direttamente dal legislatore e non da un funzionario dell’amministrazione (77). Infine, quanto alla violenza, che può essere esercitata anche da un terzo, non si può escluderla, ma sembra essere un caso di scuola. Ed infatti si è sempre sottolineato che in concreto sia difficile che si concretino le condizioni poste a fondamento delle cause di annullabilità dell’atto negoziali (78).

anche con il concorso della volontà del contribuente; D. Stevanato, Utilizzo in dichiarazione di una predite inesistente tra errori materiali e vizi di volontà, in Dialoghi tributari, 2012, 253.ss. (74) Per P. Coppola, La dichiarazione tributaria…, 182 ss, in ordine alle scelte dispositive esercitate in dichiarazione, occorrerebbe distinguere i casi in cui l’errore in cui è corso il contribuente concerna l’esercizio di una scelta discrezionale, dal caso in cui l’errore sia stato commesso in sede di esecuzione della scelta effettuata, ammettendo la rettificabilità degli errori solo nel secondo caso. Per M. NUSSI, La dichiarazione.., 268, i vizi di volontà sarebbero irrilevanti in quanto atti non negoziali. Esclude la ritrattazione per errore con effetto ex nunc S. La Rosa, Principi…, 210. (75) F. Galgano, Diritto civile e commerciale, vol. II, t. I, Padova, 1993, 302 ss. (76) Considera realizzabili in concreto errori di fatto e di diritto M. Beghin, Principi, cit., 132. In particolare, per l’Autore l’errore sul fatto potrebbe configurarsi quando il contribuente confonde situazioni rilevanti ai fini dell’applicazione della legge fiscale con situazioni che, invece, non lo sono, in quanto l’errore non dipenderebbe dalla mancata conoscenza della legge ma dalla confusione tra due determinate fattispecie. L’errore di diritto si potrebbe configurare quando il contribuente, posto in essere un certo fatto, ritiene di ricondurlo all’interno di una disposizione che, invece, non lo contempla. (77) Quando i raggiri sono stati usati da un terzo, l’atto annullabile se noti al contraente che ne ha tratto vantaggio. (78) P. Boria, Diritto tributario, 2016, 381.


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In altri termini, anche se teoricamente possibile, in concreto non sembra che i vizi del consenso possano essere rilevanti. 9. I familiari. – Ai sensi dell’articolo 24-bis, comma 6, il beneficiario dell’opzione può chiedere che essa venga estesa, nel corso di tutto il periodo di validità, a uno o più familiari individuati dall’articolo 433 del codice civile: si tratta dei soggetti obbligati a prestare gli alimenti nei casi disposti dal codice civile, ossia il coniuge, i figli legittimi o legittimati, anche adottivi (in loro mancanza, i discendenti prossimi), i genitori (in loro mancanza, gli ascendenti prossimi) e gli adottanti, i generi e le nuore, il suocero e la suocera, i fratelli e le sorelle germani o unilaterali. Per usufruire dell’imposta sostitutiva i familiari si devono trovare nelle medesime condizioni poste dal comma 1 dell’articolo 24-bis in esame: devono avere trasferito la propria residenza fiscale in Italia, ma non devono essere state residenti fiscalmente nello Stato per un periodo almeno pari a nove periodi di imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio del periodo di validità dell’opzione. In tale ipotesi, il soggetto che esercita l’opzione indica la giurisdizione o le giurisdizioni nelle quali i familiari, cui si estende il regime, avevano l’ultima residenza prima dell’esercizio di validità dell’opzione. L’estensione dell’opzione può essere revocata in relazione ad uno o più familiari. La revoca dall’opzione o la decadenza dal regime del soggetto che esercita l’opzione si estendono anche ai familiari. Tuttavia, la decadenza dal regime di uno o più dei familiari per omesso o parziale versamento dell’imposta sostitutiva loro riferita non comporta decadenza dal regime per le persone fisiche che hanno esercitato l’opzione in prima persona. La norma lascia perplessi perché sembra rimettere la potestà dell’opzione a persona diversa dall’interessato, in contrasto con i principi basilari del nostro ordinamento. Sembrerebbe, in altri termini, che l’opzione non venga esercitata dal familiare ma dal “capo famiglia”, indipendentemente dalla loro minore età. Peraltro, nell’art. 433 c.c. non sono contemplati solo i figli, ma anche generi e nuore, fratelli e sorelle, germani e unilaterali. Sembra quasi che la norma voglia dire che tutta la famiglia si può trasferire, dimenticandosi che si tratta comunque di soggetti titolari di una capacità giuridica, ancor prima che fiscale. Per cercare di dare una lettura razionale della norma, bisogna ritenere che ciascun familiare debba autonomamente, se maggiorenne, esercitare o me-


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glio confermare l’opzione (79), e che l’indicazione da parte del “capo famiglia”, valga solo ai fini della commisurazione dell’imposta sostitutiva in euro 25.000,00, che va pagata autonomamente da ciascun contribuente. Interpretazione che sembra confermata dalla autonoma previsione della decadenza per omesso versamento dell’imposta sostitutiva, ma che non elimina del tutto le perplessità in ordine allo “sconto famiglia”. Resta inoltre il dubbio della applicabilità della norma alle cd. “unioni civili tra persone dello stesso sesso” e alle convivenze di fatto, entrambe disciplinate dalla legge 20 maggio 2016 n. 76 (80). Per le prime la risposta dovrebbe essere positiva in quanto alle unioni civili è applicabile la disciplina degli alimenti (81). Per le convivenze di fatto, invece, sembra che l’attuale legislazione non abbia contemplato nulla rispetto agli obblighi di alimenti, se non in relazione alla cessazione del rapporto (82). Ne discende che rileva soltanto il rapporto di coniugio o l’unione civile. Resta ancora il dubbio della rilevanza dei rapporti di coniugio, unioni civili e convivenze come disciplinati negli ordinamenti stranieri; opereranno i principi di diritto internazionale privato (83).

(79) Ed infatti il provvedimento attuativo prevede al punto 2.4 che ciascun familiare manifesta l’intenzione di avvalersi dell’estensione degli effetti dell’opzione nella propria dichiarazione dei redditi, indicando il soggetto che ha effettuato l’opzione. Si realizza così un incrocio tra dichiarazioni ed elementi in esse contenuti che può produrre errori, contraddizioni e conseguenti contestazioni. (80) In generale, sul rapporto tra la legge sulle unioni civili e le norme tributarie cfr. V. Mastroiacovo, Considerazioni a margine della legge sulle unioni civili: il concorso delle pubbliche spese nella prospettiva dell’effettiva attuazione dei diritti, in Riv. dir. trib., 2016, n. 4, 511 ss.; A. Comelli - A. Benazzi, L’applicabilità alle persone unite civilmente delle norme di diritto tributario relative al coniuge, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da G. Bonilini, vol. V, Unione civile e convivenza di fatto, Torino, 2017, 537 ss. (81) In forza dell’art. 1, comma 19, l. 76/2016, che dispone l’applicazione alle unioni civili delle disposizioni del titolo XIII del libro primo del codice civile. Cfr. F. S. Mattucci, Gli alimenti della persona unita civilmente, in Trattato di diritto di famiglia, vol. V, Unione civile e convivenza di fatto, a cura di G. Bonilini, Torino, 2017, 365 ss; E. Bivona, Gli alimenti, in G. Amadio - F. Macario, Diritto di famiglia, Bologna, 2016, 262 ss. (82) Sulla questione vd. G. Ballarani, Alimenti, matrimonio dello straniero e allontanamento dalla casa familiare, in Unioni civili e convivenze, a cura di C.M. Bianca, 2017, 227 ss.; F.S. Mattucci, Gli alimenti in favore del convivente di fatto, in Trattato di diritto di famiglia, vol. V, Unione civile e convivenza di fatto, a cura di G. Bonilini, Torino, 2017, 866 ss. Irrilevanti sul punto, avendo natura negoziale, dovrebbero essere eventuali pattuizioni nell’ambito dei contratti di convivenza. (83) Sui quali è intervenuto di recente anche il d.ls 19 gennaio 2017 n.7.


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10. Le discipline affini. – Il comma 154 dispone che gli effetti dell’opzione non sono cumulabili con quelli previsti dall’articolo 44 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e dall’articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147. Si tratta di discipline che introducono nel nostro sistema legislativo agevolazioni fiscali per i c.d. “lavoratori impatriati” (84). In particolare, l’art. 16, d.lgs n. 147/2015, tuttora vigente, riconosce l’abbattimento del 50 per cento della base imponibile del reddito di lavoro dipendente e autonomo dei lavoratori che trasferiscono la residenza nel territorio dello Stato, a condizione tra l’altro che i lavoratori non siano stati residenti in Italia nei cinque periodi di imposta precedenti il predetto trasferimento e si impegnano a permanere in Italia per almeno due anni; che l’attività lavorativa venga svolta presso un’impresa residente nel territorio dello Stato in forza di un rapporto di lavoro instaurato con questa o con società che direttamente o indirettamente controllano la medesima impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa; che l’attività lavorativa sia prestata prevalentemente nel territorio italiano; che i lavoratori rivestano ruoli direttivi ovvero siano in possesso di requisiti di elevata qualificazione o specializzazione come definiti con il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze. Il criterio di determinazione del reddito si applica anche ai cittadini di Stati diversi da quelli appartenenti all’Unione europea, con i quali sia in vigore una convenzione per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito ovvero un accordo sullo scambio di informazioni in materia fiscale, in possesso di un diploma di laurea, che hanno svolto continuativamente un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa fuori dall’Italia negli ultimi ventiquattro mesi ovvero che hanno svolto continuativamente un’attività di studio fuori dall’Italia negli ultimi ventiquattro mesi o più, conseguendo un diploma di laurea o una specializzazione post lauream. Le disposizioni si applicano a decorrere dal periodo di imposta in cui è avvenuto il trasferimento della residenza e per i quattro periodi successivi (85).

(84) Sulle quali cfr. G. Berretta, Le agevolazioni fiscali per i lavoratori “impatriati”. Il decreto attuativo del mef tra chiarimenti e criticità, in Rivista di diritto tributario, supplemento online, 4 luglio 2016; F. delli Falconi - A. Costa, Redditi dei lavoratori “impatriati” tra nuovi incentivi e razionalizzazione dei regimi agevolati già esistenti, in Il Fisco, 2015, n. 41, 3924 ss, circolare n. 17/E del 23 maggio 2017 dell’Agenzia delle Entrate. (85) Il comma 4 dell’art. 16 prevede che i soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, della


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La disciplina dei lavoratori rimpatriati prevede alcune differenze che la rendono sicuramente di più facile applicazione. Non è, infatti, prevista né un’esplicita opzione né un interpello. Indipendentemente dagli auspici formulati in dottrina, l’agevolazione si applica, come recita testualmente la norma, ai redditi prodotti in Italia, e non anche ai redditi prodotti all’estero (86). Non è, pertanto, chiaro perché le due agevolazioni non siano cumulabili visto che una riguarda i redditi esteri, l’altra i redditi italiani. È vero che si potrebbero ritenere eccessive le due agevolazioni ma resta un problema di coordinamento. Il contribuente che, infatti, opta per la nuova disciplina rinuncia tacitamente ad una disciplina agevolativa la cui applicazione è quasi automatica. L’art. 44 del d.l. n. 78/2010 riguarda gli Incentivi per il rientro in Italia di ricercatori residenti all’estero, prevedendo l’esclusione dalla formazione del reddito di lavoro dipendente o autonomo del novanta per cento degli emolumenti percepiti dai docenti e dai ricercatori che, in possesso di titolo di studio universitario o equiparato e non occasionalmente residenti all’estero, abbiano svolto documentata attività di ricerca o docenza all’estero presso centri di ricerca pubblici o privati o università per almeno due anni continuativi e che vengono a svolgere la loro attività in Italia, acquisendo conseguentemente la residenza fiscale nel territorio dello Stato. Gli emolumenti non concorrono neanche alla formazione del valore della produzione netta dell’imposta regionale sulle attività produttive (87). Anche in questo caso l’incompatibilità è solo frutto di una scelta del legislatore, chi esercita l’opzione rinuncia, di fatto, all’applicazione sostanzialmente automatica di una disciplina agevolativa.

legge 30 dicembre 2010, n. 238 (cittadini dell’Unione Europea), che si sono trasferiti in Italia entro il 31 dicembre 2015 possono optare per il regime agevolativo previsto dall’art. 16 oppure mantenere quello originario per il quale i redditi di lavoro dipendente, i redditi d’impresa e i redditi di lavoro autonomo percepiti dalle persone fisiche in questione concorrono alla formazione della base imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in misura ridotta, pari al 20 per cento per le lavoratrici e al 30 per cento per i lavoratori, in presenza dei requisiti prescritti dalla medesima legge n. 238. Il termine per l’esercizio dell’opzione è prorogato al 30 aprile 2017 dall’articolo 3, comma 3-novies, del decreto legge 30 dicembre 2016n. 244, convertito in legge 27 febbraio 2017 n. 19 (cd. millleproroghe). (86) Cfr. G. Berretta, Le agevolazioni fiscali per i lavoratori “impatriati”, cit.; G. Marianetti, Nuove agevolazioni fiscali per il rientro in Italia dei lavoratori, in Corr. trib., 2015, n. 42, 4181 ss. (87) Per la prassi applicativa cfr. la circolare n. 17/E del 23 maggio 2017 dell’Agenzia delle Entrate.


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Opposta, invece, è la disciplina dell’imposta sul valore degli immobili situati all’estero, a qualsiasi uso destinati dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato (Ivie) e dell’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato (Ivafe) (88). Queste imposte, approvate di recente, sono a carico anche di coloro che trasferiscono la residenza in Italia; pertanto il legislatore ha previsto, con rara precisione, che i soggetti che esercitano l’opzione ne sono esenti (89). Previsione che rende la disciplina ancora più appetibile ma ne accentua i profili di incostituzionalità (90). 11. Imposta sostitutiva e capacità contributiva. – Lo scopo agevolativo della disciplina appare difficilmente negabile. In senso contrario potrebbe militare la mancata qualificazione da parte del legislatore della disciplina come agevolativa. Inoltre, non si prevede espressamente una aliquota ridotta, o una percentuale di riduzione dell’imposta, ma una cifra forfetaria che in linea puramente teorica potrebbe essere superiore alle imposte effettivamente dovute. In senso favorevole alla configurazione come agevolazione, milita lo scopo della norma, che è diretta a invogliare i contribuenti a trasferire la residenza in Italia. Si tratta, però, di una norma diretta a contribuenti medio-grandi, perché devono avere un reddito comunque rilevante, almeno trecentomila euro, per trovare realmente vantaggiosa la disposizione. In altri termini, il legislatore non ha voluto agevolare il trasferimento tout court in Italia, ma solo quello dei grandi contribuenti, sulla base verosimilmente dell’idea che possano portare ricchezza in Italia. Nel diritto tributario italiano (e della maggioranza dei paesi europei) ormai da quasi un secolo si attribuisce rilevanza al collegamento di fatto del contribuente con lo Stato percettore del tributo (la cd. residenza), piuttosto

(88) Cfr. G. Salanitro, Prime riflessioni sull’imposta sul valore degli immobili situati all’estero, in Riv. dir. trib., 2014, I, n. 1, 55 ss; A. Viotto, Considerazioni critiche, nella prospettiva costituzionale e in quella comunitaria, sulla tassazione degli immobili e delle attività finanziarie detenuti all’estero, in Riv. trim. dir. trib., 2016, n. 3, 701 ss. (89) I soggetti che esercitano l’opzione sono esenti dalle imposte previste dall’articolo 19, commi 13 e 18, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. (90) I soggetti che esercitano l’opzione non sono tenuti agli obblighi di dichiarazione relativi agli investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia,di cui all’articolo 4 del decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1990, n. 227.


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che alla mera appartenenza formale connessa alla disciplina della cittadinanza (91). In altri termini, conta l’aspetto sostanziale della titolarità di ricchezza collegata al territorio statale, mentre l’aspetto formale della cittadinanza rileva normalmente solo in funzione antielusiva (92). La Costituzione italiana è chiaramente espressiva di questo principio. L’art. 53, primo comma, della Costituzione recita che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. La norma fa riferimento a “tutti”, a differenza dell’art. 25 dello Statuto Albertino che faceva riferimento ai “regnicoli” (93). Il pronome “tutti” non è unito al termine “cittadini” come in numerose altre norme costituzionali. Si veda, per es., l’art. 3 sull’uguaglianza, che fa riferimento solo ai cittadini (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione pubblica, di condizioni personali e sociali) (94). Non si tratta di una svista del legislatore costituzionale, ma di una scelta consapevole (95): la cittadinanza è in linea di massima irrilevante, rilevando solo la presenza di una capacità contributiva collegata al territorio ed idonea a concorrere alle spese pubbliche (96). La norma, nell’ambito del principio di uni-

(91) La residenza denota un inserimento effettivo ed attuale nella comunità tale da giustificare l’attribuzione al singolo di una quota delle spese pubbliche. Sottolinea M.C. Fregni, La residenza fiscale delle persone fisiche, in Giur. It, 2009, n. 9, 2566, che “la partecipazione piena di un soggetto ad una comunità non è dunque espressa dalla cittadinanza, ma dalla partecipazione di fatto, in senso economico e sociale, alla vita della collettività”. (92) Nel senso che il cittadino italiano che si trasferisce in paesi a fiscalità privilegiata continua ad essere considerato residente in Italia. Si considerano, infatti, residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati aventi un regime fiscale privilegiato (inseriti nella cd. black list) (art. 2, comma 2 bis, d.p.r. n. 917/1986). (93) Cfr. P. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 50 ss., per il quale l’espressione «regnicoli» identificava i soggetti passivi dell’obbligo contributivo esclusivamente nei cittadini nel presupposto, suffragato dalla limitatezza dei rapporti internazionali soprattutto a livello commerciale, che solo i medesimi fossero i protagonisti della vita economica del paese e come tali, pertanto, i beneficiari esclusivi dell’attività pubblica; S. La Rosa, Principi di diritto tributario, Torino, 2016, 10. (94) Anche se la dottrina afferma che l’art. 3 è applicabile, almeno per alcune situazioni, anche agli stranieri e agli apolidi (cfr. T. Martine, Diritto costituzionale, Milano, 1988, 624), il significato letterale è inequivocabile. (95) Le norme del titolo IV della Costituzione fanno tutte riferimento ai cittadini, tranne appunto l’art. 53. (96) Non altrettanto chiare sembrano essere altre Costituzioni che risentono della vecchia impostazione che dava rilevanza alla cittadinanza. Si veda, per es., l’art. 31 della


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versalità della tassazione, in contrapposizione ai sistemi dell’ancien regime ove la contribuzione era esclusa per alcune classi, esprime l’intenzione di coinvolgere anche gli stranieri, come risulta dagli stessi lavori preparatori (97). La stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di precisare che l’universalità delle persone soggette a tassazione vada intesa come riferimento a «cittadini e non cittadini, in qualche modo con rapporti di collegamento con la Repubblica» (98). Irrilevante è invece la cittadinanza. Si pensi all’ipotesi del soggetto residente all’estero ma cittadino italiano, con conseguente diritto di voto. Questo soggetto appartiene in un certo senso alla comunità, tant’è che gli è consentito, tramite l’espressione del diritto di voto, di concorrere a orientarne le scelte. Ma il semplice legame di cittadinanza, se porta a riconoscere perfino un momento di esercizio della sovranità, non manifesta quel concreto inserimento nella collettività che giustifica l’imposizione fiscale.

Costituzione Spagnola, che inserisce l’obbligo di contribuzione con riferimento ai cittadini; l’art. 104, comma 3, della Costituzione del Portogallo, che pure fa riferimento ai cittadini, o l’art. 13 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo della Francia. Nel senso della Costituzione Italiana alcune Costituzioni più recenti come quella della Repubblica della Croazia che all’art. 51 (nella sua traduzione inglese) prevede che “Everyone shall partecipate in the defrayment of public expenses in accordance with his or her economic capabilities”. Nel sistema fiscale ordinario, però, i principi informatori in ordine alla tassazione dei residenti e dei non residenti appaiono similari nei Paesi dell’Unione Europea. In Francia, per esempio, rileva il domicile fiscal. Sono, infatti, soggetti all’imposta sui redditi ovunque prodotti nel mondo: a) les personnes qui int en France leur foyer ou le lieu de leur sejour principal; b) celles qui exercent en France une activitè professionelle, salariee ou non, a moins qu’elles ne justifient que cette activitè y est exercee a titre accessorie; c) celles qui ont en france le centre de leurs interets economique (Code General de Impots). Cfr., anche per riferimenti agli altri ordinamenti, G. Marino, La residenza, in Diritto tributario internazionale, a cura di V. Uckmar, Padova, 2005, 345 ss. (97) Cfr. F. Maffezzone, Il principio di capacità contributiva nel diritto finanziario, Torino, 1970, 24; E. Marello, Art. 53, in Commentario breve alla Costituzione, a cura di R. Bin - S. Bartole, Padova, 2008, 533; D. Scandiuzzi, Art. 53 Cost., Commentario breve alle leggi tributarie, Padova, 2011, t. I, 244; G.C. Croxatto, La imposizione delle imprese con attività internazionale, Padova, 1965, 33, che sottolinea come la norma riguardi cittadini, stranieri e apolidi. In un passaggio dei lavori dell’Assemblea Costituente, il presidente Ruini precisava come non fosse necessario «entrare in elocuzioni vaghe: basta dire che “tutti devono concorrere”. Quel “tutti” riguarda anche gli stranieri, come risulta dall’intero testo costituzionale che agli altri articoli distingue quando vuol riferirsi ai cittadini, od a “tutti” ove sono inclusi anche gli stranieri, che potranno essere assoggettati a tributi, in quanto ve ne siano le ragioni obiettive, e lo consentano le norme internazionali». Il testo è reperibile sul sito internet della camera www. camera.it. (98) Cfr. Corte Cost. ordinanza 24 luglio 2000 n.341. Va, però, ricordato che si tratta di un obiter dictum, non rilevando la cittadinanza rispetto alla decisione del caso concreto.


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Il collegamento con il territorio è sufficiente a far parte dei consociati, con il conseguente obbligo di contribuire, ma con i correlati diritti riconosciuti dalla Costituzione; si veda l’art. 2, che fa riferimento all’uomo e alle sue formazioni sociali; l’art. 32, che in materia di salute richiama la nozione di individuo; l’art. 34, che in materia di istruzione è chiaro nel sottolineare che la scuola è aperta a tutti. Norme della Costituzione dove, a differenza di altre, non si fa riferimento ai cittadini ma a “tutti”. Può, certamente, rilevarsi una contraddizione tra l’obbligo di pagare i tributi e l’impossibilità di concorrere a determinarle non potendo votare per il Parlamento (99). Ma è proprio l’art. 53 Cost., nell’imporre la relazione con la capacità contributiva, a garantire anche i non cittadini sulla corretta distribuzione del carico fiscale (100). Peraltro, solo la cittadinanza normalmente assicura quella stabilità nel tempo che giustifica il diritto elettorale e quindi il diritto di determinare le imposte e le spese, che poi vanno distribuite tra “tutti” (anche nel caso in cui, come detto, il cittadino non essendo residente non paga le tasse). La norma, pertanto, individua non solo un obbligo ma anche un criterio di riparto che garantisce “tutti”. In quest’ambito, lascia chiaramente perplessi una norma che limita, anche se nei grandi numeri, l’imposizione di un soggetto residente (101). È noto come ogni agevolazione fiscale possa costituire una violazione della tassazione in base alla capacità contributiva. E come la dottrina ritenga che le singole norme possano essere considerate costituzionalmente confor-

(99) Va ricordato l’art. 23 della Costituzione per il quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta in base alla legge. Si tratta di una riserva (relativa) di legge che trova la propria giustificazione, storica ancor prima che giuridica, nella necessità che i tributi siano approvati, attraverso i loro rappresentanti, da coloro che devono pagarli. Sul rapporto tra sovranità e fisco cfr. P. Boria, L’antisovrano. Potere tributario e sovranità nell’ordinamento comunitario, Torino, 2004, passim; C. Belluzzi, Il denaro del re: forme ed itinerari del potere impositivo: dalle origini alla crisi dell’antico regime in Francia, Padova, 2013. (100) Sull’art. 53, fra i tanti, cfr. G. Tieghi, Fiscalità e diritti nello stato costituzionale contemporaneo: il contribuente partner, Napoli, 2012; F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, Napoli, 2012; G. Falsitta, Il principio della capacità contributiva: nel suo svolgimento storico prima e dopo la Costituzione repubblicana, Milano, 2014. Collega il dovere contributivo ai doveri di voto, di difesa della Patria, di fedeltà alla Repubblica e di obbedienza alla Costituzione A. Giovannini, Capacità contributiva, in Diritto online, www-treccani.it, 2013. La tesi, motivata in base all’inserimento dell’art. 53 nel titolo IV dedicato ai rapporti politici, non convince in quanto la norma fa riferimento a tutti, compresi gli stranieri, le persone giuridiche e gli enti non personificati. (101) Peraltro, esercitata l’opzione, l’importo resta identico negli anni successivi.


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mi o in quanto contribuiscono a evidenziare l’effettiva capacità contributiva del contribuente o in quanto trovino il loro fondamento in altre norme della Costituzione (102). Non sembra ci siano norme costituzionali che consentano di agevolare il trasferimento della residenza in Italia (103). La norma si può quindi salvare solo ammettendo che il principio dell’utile mondiale (104) entri in sofferenza nei grandi contribuenti che hanno fuori del territorio dello stato enormi ricchezze, che vanno ben oltre quel dovere contributivo che li lega al territorio di residenza. Solo in questa prospettiva di ridimensionamento di principi tradizionalmente ripetuti si può salvare una disciplina diversamente verosimilmente incostituzionale. In altri termini, si dovrebbe dare rilevanza ad una nozione di capacità contributiva di fatto, che consenta al legislatore di modulare la tassazione in relazione a differenti situazioni, pur a parità di reddito o patrimonio. Nello specifico, l’imposizione sembrerebbe spostarsi dalla ricchezza sita o prodotta all’estero ai consumi effettuati direttamente o indirettamente in Italia (105). Un ulteriore elemento da considerare è il numero dei contribuenti che si avvarranno della disciplina. Benché infatti la platea potenziale è incommensurabile, riguardando tutti i non residenti che possano avere un vantaggio fiscale, in pratica occorrerà verificare quanti si avvarranno dell’opzione. Un numero esiguo di contribuenti trasformerebbe la norma in una agevolazione ad personam, senz’altro inammissibile (106). 12. Imposta sostitutiva e conformità ai principi di diritto internazionale ed europeo. Sulla concorrenza fiscale tra gli Stati. – Negli ultimi vent’anni sono state lanciate, sia a livello internazionale sia a livello europeo, varie

(102) Cfr. A. Guidara, Agevolazioni fiscali, in Diritto online, www.treccani.it, 2013, ove ampi riferimenti bibliografici. (103) Esprime perplessità in ordine alla legittimità costituzionale della disciplina F. Farri, Flat-tax per neo- residenti: i dubbi permangono, in Riv. dir. trib. Supplemento online. (104) Rilevante anche ai fini della progressività e della personalità dell’imposizione. Sulla progressività cfr. L. Carpentieri, L’illusione della progressività, Roma, 2012. (105) Sullo spostamento della tassazione dal reddito ovunque prodotto ai consumi cfr, in generale R. Cordeiro Guerra, Diritto tributario internazionale, Istituzioni, cit. 2016, 33 ss. Anche negli Stati Uniti d’America, la riforma proposta dal Presidente Trump mira ad applicare alle US companies le imposte solo sugli US-related profits, limitando il principio del worldwide income. (106) La relazione tecnica governativa, in www.ilsole24ore.it, sottolinea che pur ritenendo che dalla disposizione potrebbero derivare effetti positivi per il bilancio dello Stato, alla stessa, prudenzialmente, non si ascrivono effetti.


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iniziative volta a contrastare la competizione fiscale tra gli Stati, intesa come concorrenza fiscale dannosa (107). Tant’è che vi è chi ha riscontrato un principio di diritto tributario internazionale, o quantomeno una norma consuetudinaria generale, volto a vietare la concorrenza fiscale dannosa (harmful tax competition) (108). Gli strumenti per contrastarlo sono costituiti da uno scambio di informazioni fiscalmente rilevanti sempre maggiore (109), da trattati bilaterali più raffinati e da pressioni diplomatiche. Il punto è distinguere tra concorrenza dannosa e quella competizione che i teorici ritengono positiva in quanto consente di volgere verso il basso la tassazione complessiva e migliorare il sistema della spesa pubblica (teoria del benessere collettivo o della competizione fiscale welfare-enhancing). Non v’è dubbio, che la di là degli approcci teorici, una concorrenza fiscale sana contribuisce a ridurre le aliquote e a rendere meno distorsivi i propri sistemi fiscali (110). Ma un’imposta sostitutiva così introdotta, benché con una serie di limiti e con un’imposta comunque di misura importante (ma non tanto) sembra ricordare le politiche dei paradisi fiscali (111). Quasi un vorrei, ma non posso. Si tratta pertanto di una misura, slegata peraltro dal requisito di investimenti o attività lavorative in Italia, che lascia alquanto perplessi. Né riduce queste perplessità la presa d’atto che discipline simili sembrano riscontrarsi anche in altri ordinamenti europei e non solo (112): lungi dall’essere una giustifi-

(107) Cfr., fra gli altri, V. Ceriani, Competitività dei sistemi fiscali, in XXI Secolo, 209, www.treccani.it.; R. Cordeiro Guerra, Diritto tributario internazionale, Istituzioni, Padova, 2016, passim, spec. 124; P. Adonnino, La pianificazione fiscale internazionale, in Diritto tributario internazionale, coordinato da V. Uckmar, Padova, 2005, 68 ss.; AA. VV., L’evasione e l’elusione fiscale in ambito nazionale e internazionale, a cura di F. Amatucci e R. Cordeiro Guerra, Roma, 2017, passim. (108) Cfr. M. Santamaria, Fiscalità internazionale, Milano, 2009, 159 ss. (109) Cfr. G. Fransoni, The “foreseeble relevance” of the information under article 26 of OECD Model Convention, in Riv. Dir. Trib. Supplemento online, 1 marzo 2017. (110) Anche se rattrista alquanto l’idea che una persona sposti la sua residenza per motivi fiscali. La residenza si dovrebbe spostare per motivi di lavoro, di famiglia, di amicizia, per cultura o per la salubrità dei luoghi, non certo per risparmiare le tasse. (111) Volgendo lo sguardo al passato, in qualche misura ricorda anche l’imposta di famiglia applicata dai Comuni in Italia fino ai primi anni settanta. L’imposta aveva dato luogo a episodi di concorrenza tra i Comuni, in quanto i contribuenti ricchi erano indotti a stabilire la residenza in Comuni generalmente piccoli che non solo applicavano basse aliquote ma chiudevano anche un occhio sull’evasione. (112) L’Unione Europea non ha sovranità in materia fiscale, soprattutto in tema di tassazione diretta. L’assenza di un potere sovrano sul punto produce un’assenza anche di sole


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cazione, potrebbe creare delle preoccupazioni l’idea che si vada estendendo una politica fiscale di concorrenza tra gli stati basata sulla promessa di una riduzione della tassazione (113). Si può quindi riconoscere che normative di questo tipo non contrastano attualmente con i principi internazionali ed europei in materia di tassazione (114), anzi sono il frutto delle “attuali mode legislative” in materia (115);

politiche di coordinamento, lasciando spazio solo alle decisioni della Corte di Giustizia Europea, spesso prive di coerenza sistematica. Cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2015; Id., L’antisovrano. Potere tributario e sovranità nell’ordinamento comunitario, Torino, 2004. Piuttosto si ha una competizione fiscale tra gli Stati in materia di aliquote, con conseguente imitazione degli istituti inventati nei vari ordinamenti per attirare persone e investimenti. Peraltro non tutte le nazioni puntano a attirare stranieri con aliquote agevolate. In Australia, per es., è stata di recente approvata una imposta sui non resident owners of under-utilised residential property, to encourage foreign owners of second homes to rent them out: cfr. quanto riferito in notaio-busani.it. (113) Cfr. sul punto S. Blasco, I danni della concorrenza fiscale in Europa, in Rass. Trib., 2015, n.1, 119 ss., il quale attribuisce l’assenza di un modello europeo di tassazione diretta alla visione liberista dell’Unione Europea. Forse, più semplicemente, gli Stati non vogliono rinunciare ad una fetta importante, anzi fondamentale, della loro sovranità. Scelta da non considerarsi sbagliata viste le criticità che sta attualmente incontrando l’Unione Europea. La misura in esame, peraltro, ha suscitato critiche nei paesi stranieri, come in Germania (cfr. un articolo del Welt am Sonntag pubblicato nel marzo 2017). (114) Non sembra contrastare neanche con il principio di non discriminazione. A livello di Unione Europea la discriminazione è vietata se posta se posta da uno stato membro a sfavore dei cittadini di altri stati membri; non riguarda discriminazione a sfavore dei propri cittadini (discriminazioni a rovescio). Cfr. P. Laroma Jezzi, Territorialità e diritto Ue. Le istruzioni per l’uso delle libertà fondamentali nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Riv. dir. trib., 2013, n. 9, 489 ss.; G. Bizioli, I principi di non discriminazione fiscale in ambito europeo e internazionale, in Principi di diritto tributario europeo ed internazionale, a cura di C. Sacchetto, Torino, 2016. A livello di diritto tributario internazionale appare pacifico che non esiste un principio generale di non discriminazione. Né rileva l’art. 24 del modello Ocse per il quale i cittadini (national) di uno stato contraente non possono subire nell’altro stato contraente un trattamento fiscale più gravoso di quello riservato ai cittadini di detto altro stato che si trovano nelle stesse circostanze. Anche in questo caso, infatti, il divieto non riguarda discriminazioni a rovescio. Non sembra contrastare neanche con il divieto di aiuti di stato (che assume invece particolare rilevanza negli accordi preventivi: cfr. il caso Apple – Irlanda; in dottrina G. Pizzonia, Gli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale: opportunità e criticità, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2016, 421 ss.). Infatti non abbiamo imprese né aiuti selettivi. (115) Sembrano costituire invece forme di concorrenza fiscale virtuosa strumenti come gli accordi preventivi o gli interpelli sui nuovi investimenti che, lungi dal ridurre le tasse ad alcuni e di fatto aumentarle ad altri, consentono, se ben applicati, alle imprese estere di avere una ragionevole certezza sul regime di tassazione: cfr. D. Conte, Imposizione fiscale e nuovi accordi preventivi per le imprese con attività internazionale, in Riv. dir. trib., 2016, n. 5. Anche questi strumenti, però,


Dottrina

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ma occorre domandarsi se, ferma restando la sovranità dei singoli Stati, non sia necessario, o quantomeno opportuno, coordinare scelte normative che possano cozzare con la capacità contributiva dei cittadini europei (116). In altri termini, un conto è ridurre l’imposizione fiscale a tutti i contribuenti di uno Stato, un conto è prevedere tassazioni in misura ridotta al solo scopo di attirare investimenti e persone (117).

Guido Salanitro

potrebbero divenire “patologici” se di fatto si tramutano in strumenti per consentire a determinate imprese una riduzione delle imposte, come sottolineato nella nota precedente. Da notizie di stampa risulta che è stata presentata anche una proposta di legge per attirare (con un’aliquota forfetaria) in Italia i pensionati di altre nazioni… (116) È oggetto di discussione se il principio di capacità contributiva rileva anche a livello dell’ordinamento giuridico europeo. Parte della dottrina si pronuncia in senso negativo assumendo che i principi sviluppati dalla corte di giustizia europea hanno una diversa ratio e non hanno la stessa forza espansiva, la stessa intensità e la stessa valenza economica e sociale. Cfr. F. Gallo, Ordinamento comunitario e principi costituzionali tributari, in Rass. Trib., 2006, 410; nello stesso senso anche P. Boria, Diritto tributario Europeo, 2015, 415; in senso meno deciso V. Mastroiacovo, Principio di legalità nel diritto comunitario: riflessioni in materia tributaria, in Riv. Dir. trib. 2011, I, 807 ss.. Ma è sostenuta una differente tesi per la quale il principio della capacità contributiva è riconosciuto come uno dei principi fondamentali dell’ordinamento comunitario. Cfr. G. Falsitta, I principi di capacità contributiva e di uguaglianza tributaria nel diritto comunitario e nel diritto italiano tra ragioni del fisco e diritti fondamentali della persona, in Riv. Dir. trib., 2011, I, 519 ss; G. Bizioli, Imposizione e costituzione Europea, in Riv. Dir. trib., 2005, I, 233. Nell’ordinamento comunitario, si sostiene, il principio di capacità contributiva vive tramite una triplice radice fondativi. La prima è rappresentata dalla giurisprudenza comunitaria, Si pensi al caso Schumacker, che ha il suo perno nel concetto di capacità contributiva globale espressa dal reddito complessivo. La seconda radice consiste nell’osservazione che tutti i diritti fondamentali delle costituzioni degli stati membri dell’Unione Europea, se presenti nelle tradizioni costituzionali comuni, sono automaticamente inglobati nella costituzione dell’Unione (cfr. il preambolo e l’art. 52, comma 4, della Carta di Nizza). Or bene, il principio della tassazione in ragione della capacità contributiva è presente nelle costituzioni di numerosi paesi (Francia, Inghilterra, Germania, Spagna, ecc.). Infine, il principio di uguaglianza è solennemente riconosciuto nel trattato Ue. E il principio della capacità contributiva è da molti visto come espressione del principio di uguaglianza, metro misuratore dell’uguaglianza tributaria. (117) Il comunicato stampa dell’Agenzia delle Entrate del 8 marzo 2017 ha “pubblicizzato” l’istituto definendolo come una flat tax per incentivare il trasferimento della residenza degli High net worth individual, ossia delle persone con alto patrimonio. Quasi a suggerire l’idea che le imposte vanno pagate dai poveri e non dai ricchi (per di più stranieri o italiani scappati all’estero). Diversa sarebbe ovviamente la scelta di una flat tax generalizzata (su cui D. Stevanato, Dalla crisi dell’Irpef alla flat tax, Bologna, 2017; A. GIOVANNINI, Il re fisco è nudo. Per un sistema equo, Milano, 2016); ma si tratta di argomento che esula dall’economia del presente articolo.



Dottrina

Il contraddittorio preventivo e la favola di Fedro della volpe e della maschera da tragedia* Sommario: 1. Premessa. – 2. Il perimetro di applicazione dell’art. 12, comma 7,

della legge 27 luglio 2000, n. 212 nella prevalente (e più recente) giurisprudenza della Cassazione. – 3. Le singole, e speciali, “regole di azione” che affermano il diritto del contribuente ad essere previamente sentito. – 4. L’assenza della regola del contraddittorio preventivo rispetto a talune fattispecie di esercizio della potestà amministrativa d’imposizione (riferita a tributi non armonizzati), quale conseguenza della ricostruzione delle sezioni unite del 2015. Profili critici. – 5. Una possibile composizione delle contraddizioni derivanti dalla ricostruzione delle ss.uu. del 2015. – 6. Irrilevanza dei limiti all’analogia. – 7. La distinzione tra tributi armonizzati e tributi non armonizzati. – 8. (Segue): e la sua (scarsa) significatività ai fini dell’applicazione del principio (comunitario) del contraddittorio preventivo. – 9. Alcuni spunti ricostruttivi forniti dalla giurisprudenza comunitaria in tema di divieto di abuso del diritto. – 10. (Segue): le ricadute anche nella prospettiva interna. – 11. Conclusioni. L’autore esamina le ricadute della recente giurisprudenza di legittimità (Cass., ss.uu., 9 dicembre 2015, n. 24823) in tema di contraddittorio preventivo. E, dopo averne messo in evidenza talune incongruenze, ne prospetta il superamento facendo ricorso all’analogia legis, peraltro anche alla luce dei principi generali in materia così come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. The author examines the impact of recent Supreme Court jurisprudence (Cass., ss.uu., 9 December 2015, n. 24823) about the “audi alteram partem” principle. And, after having highlighted certain inconsistencies, he suggests overcoming these by resorting to the analogia legis, but also considering the general principles as interpreted by the EU Court of Justice jurisprudence.

* Il presente lavoro è stato elaborato nell’ambito del progetto di ricerca “Diritti e situazioni giuridiche soggettive tra incertezze (nazionali) e ricerca dell’effettività della tutela (sovranazionale). Una ricerca interdisciplinare”, diretto dalla Prof.ssa Luisa Cassetti e finanziato dalla Ricerca di base 2015 – Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Perugia.


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1. Premessa. – Le recenti ordinanze della Corte costituzionale nn. 187, 188 e 189, tutte depositate in data 13 luglio 2017, con cui – come noto – la Consulta ha dichiarato manifestamente inammissibili le rispettive questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, così come sollevate in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, sembra abbiano deluso le attese degli operatori. Difatti, assai carica di aspettative era l’attesa per la pronuncia del Giudice delle leggi sul tema del diritto del contribuente al contraddittorio preventivo (1). Invero, più in particolare, è dato rilevare come – anche nell’ambito

(1) Sul tema del contraddittorio preventivo e, in termini più generali sull’auspicata collaborazione tra amministrazione finanziaria e contribuente, merita senz’altro ricordare l’opera riformatrice di E. Vanoni nella sua qualità di Ministro delle Finanze (cfr. discorso tenuto avanti al Seanato della Repubblica in data 30 ottobre 1948, anche in A. Tramontana, Discorsi parlamentari, Roma, 1978), su cui si vedano: G. Marongiu, Ezio Vanoni. Ministro delle Finanze, Torino, 2016; E. De Mita, Ezio Vanoni, in Ragucci (a cura di), Ezio Vanoni. Giurista ed economista, Milano, 2017, 106 s.; A. Fantozzi, Attualità del pensiero di Ezio Vanoni in tema di accertamento tributario, in Riv. dir. trib., 2000, I, 599 ss. Più recentemente, volendo distinguere la collaborazione di tipo “servente” da quella in chiave difensiva, nella cui prospettiva il presente contributo si pone, oltre ai testi manualistici tradizionali, si vedano, senza pretesa di esaustività: L. Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990, Id., La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo statuto del contribuente ed oltre), in Uckmar (a cura di), L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, Padova, 2000, 588 ss.; S. Muleo, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, in partic. 217 ss.; P. Selicato, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, in partic. 374 ss.; G. Ragucci, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009; A. Marcheselli, Il «giusto procedimento» tributario. Principi e discipline, Padova, 2012; Aa.Vv., Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente. Studi in onore del Prof. G. Marongiu, a cura di A. Bodrito, A. Contrino, A. Marcheselli, Torino, 2012, passim; F. Tundo, Procedimento tributario e difesa del contribuente, Padova, 2013; Id., Diritto al contraddittorio endoprocedimentale anche in assenza di previsione normativa, in GT Riv. giur. trib., 2014, 937 ss., in nota a Cass., ss.uu., n. 19667/2014; P. Coppola, Riflessioni sull’obbligo generalizzato d’una decisione partecipata ai fini della legittimità della pretesa tributaria e dell’azionabilità del diritto di difesa, in Riv. dir. trib., 2014, I, 1041; C. Scalinci, Lo Statuto e l’«auretta» dei princìpi che ... incomincia a sussurrar: il contraddittorio «preventivo» per una tutela «effettiva» e un giusto procedimento «partecipato», in Riv. dir. trib., 2014, I, 883; S. Sammartino, Il diritto al contraddittorio endoprocedimentale, in Rass. trib., 2016, 986 ss. Per la prospettiva comunitaria si vedano altresì: G. Corasaniti, Il principio del contraddittorio nella giurisprudenza nazionale e dell’Unione Europea, in Dir. prat. trib., 2016, II, 1585 ss.; R. Iaia, Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario nell’ordinamento dell’unione europea. Riflessi nel diritto nazionale, in Dir. prat. trib., 2016, I, 55 ss.; M.V. Serrano’, Innovativo e sostanziale contributo della Corte di Giustizia europea in tema di contraddittorio endoprocedimentale tributario, in Boll. trib., 2015, 466 ss.; A. Renda, Il contraddittorio quale nucleo insopprimibile di rilievo sostanziale nell’ambito del


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della stessa giurisprudenza di legittimità (oltre che in sede di merito) – si contendono il campo (o forse occorrerebbe dire: “si sono contesi il campo”) due opposti orientamenti: il primo, secondo cui esisterebbe un principio fondamentale ed immanente dell’ordinamento che, a sua volta, riconosce il diritto del contribuente ad essere sentito prima dell’emanazione del provvedimento impositivo allo stesso diretto (cfr. Cass., ss.uu., 29 luglio 2013, n. 18184; Cass., ss.uu., 18 settembre 2014, n. 19667 e 19668, Cass., ss.uu., 3 dicembre 2014, n. 25561, cui ha fatto seguito la Corte cost., con sent. n. 132/2015); e il secondo, come sembra ormai prevalente, in base al quale un tale principio (immanente), in ragione della sua derivazione comunitaria, sarebbe riscontrabile unicamente con riferimento al novero dei tributi c.d. “armonizzati”, ma non anche rispetto a tutti gli altri tributi (non armonizzati) diversi da quelli per i quali il principio in discorso trova già applicazione per effetto di specifiche regole espressamente dirette ad affermare l’obbligatorietà del contraddittorio preventivo (cfr. Cass., ss.uu., 9 dicembre 2015, n. 24823) (2). Per completezza, quanto alle conseguenze della violazione del principio (immanente) in discorso, quest’ultima giurisprudenza – a differenza della precedente – precisa poi che, con riferimento al novero dei tributi armonizzati (per il quale il principio trova generale applicazione), il contribuente è tenuto a dimostrare che, se il contraddittorio si fosse svolto, il procedimento avrebbe potuto (anche astrattamente) comportare un risultato utilmente diverso per il destinatario dell’atto (è la tesi della c.d. “utilità”) (3). Solo in tal caso potrà così farsi valere l’illegittimità dell’atto. Differentemente, quanto ai tributi per i quali l’ordinamento interno prevede già l’obbligo per l’ufficio del contraddittorio preventivo, la violazione di tale obbligo determina ex sé la nullità dell’atto di accertamento. Peraltro, sul tema del contraddittorio endoprocedimentale si è altresì misurata gran parte della dottrina tributaria, in prevalenza schierata per l’affer-

procedimento tributario: le conferme della giurisprudenza comunitaria e di legittimità, in Dir. prat. trib., 2015, II, 639 ss.; F. Amatucci, L’autonomia procedimentale tributaria nazionale ed il rispetto del principio europeo del contraddittorio, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 257 ss. (2) Nello stesso senso si veda anche la più recente Cass. 22 agosto 2017, ord., n. 20267. La sentenza della Cass. n. 24823/2015 sopra citata è stata pubblicata anche in Dir. prat. trib., 2016, II, 241, con commento di E. De Mita, nonché in Corr. Trib., 2016, 866, con nota di M. Beghin. (3) In altre parole, il contribuente è chiamato a dimostrare che la mancata attuazione del contraddittorio ha pregiudicato, ovvero limitato (anche in termini di efficacia), le difese del contribuente medesimo in relazione al contenuto dell’atto di accertamento (cfr. A. Lovisolo, Sulla c.d. “utilità” del previo contraddittorio endoprocedimentale, in Dir. prat. trib., 2016, II, 719).


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mazione dell’esistenza di un principio generale ed immanente secondo cui il contraddittorio preventivo sarebbe in ogni caso obbligatorio, a prescindere dalla derivazione comunitaria, o meno, del singolo prelievo (4). A tale conclusione, come noto, si ritiene di poter giungere valorizzando l’interpretazione del dato positivo, oltre che in senso costituzionalmente orientato (5), anche

(4) Senza pretesa di esaustività, oltre agli autori già citati retro (cfr. nota 1), si vedano altresì: G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale nel diritto comunitario, in Rass. trib., 2009, 580 ss.; A. Marcheselli, L’indefettibilità del contraddittorio tra i principi interni e comunitari, in Corr. Trib., 2010, 1776 ss.; G. Marongiu, Accertamenti e contraddittorio tra Statuto del contribuente e principi di costituzionalità, in Corr. trib., 2011, 474 ss.; A. Fantozzi, Violazione del contraddittorio ed invalidità degli atti tributari, in Riv. dir. trib., 2011, I, 137 ss.; P. Coppola, Riflessioni sull’obbligo generalizzato d’una “decisione partecipata” ai fini della legittimità della pretesa tributaria e dell’azionabilità del diritto di difesa, in Riv. dir. trib., 2014, I, 1041 ss.; D. Stevanato, R. Lupi, Sul contraddittorio procedimentale la Cassazione decide (forse bene), ma non spiega, in Dialoghi Tributari, n.4/2015, 383 ss.; A. Lovisolo, L’osservanza del termine di cui all’art. 12 7° comma dello Statuto dei diritti del contribuente nell’ottica del principio del contraddittorio, in Dir. prat. trib., 2015, I, 405 ss.; A.E. La Scala, L’effettiva applicazione del principio del contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario tra svolte, ripensamenti e attese, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2015, I, 394 ss.; G. Ragucci, Il principio del contraddittorio nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Rass. trib., 2015, 1217 ss.; M. Pierro, Il dovere di informazione dell’Amministrazione finanziaria e il diritto al contraddittorio preventivo, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2016, I, 193 ss.; A. Carinci – D. Deotto, Il contraddittorio tra regola e principio: considerazioni critiche sul revirement della Suprema Corte, in Il fisco, 2016, 207 ss.; G. Corasaniti, Il principio del contraddittorio nella giurisprudenza nazionale e dell’Unione Europea, in Dir. prat. trib., 2016, II, 1585 ss.; G. Ragucci, Contraddittorio e “giusto procedimento” nella giurisprudenza costituzionale, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2016, I, 474 ss.; A. Fantozzi, È già tramontata la (breve) stagione del garantismo? In tema di contraddittorio procedimentale non resta che sperare nella Corte Costituzionale, in Riv. dir. trib., supplemento online, 24 maggio 2016; F. Farri, Contraddittorio: la Cassazione “suggerisce” alla Corte Costituzionale ma sbaglia a inquadrare il problema, ivi; A. Renda, Il contraddittorio preventivo tra speranze (deluse), rassegnazione e prospettive, in Dir. prat. trib., 2016, II, 732 ss.; R. Miceli, Il contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie: un principio generale senza disciplina di attuazione, in Riv. dir. trib., 2016, I, 345 ss.; A. Colli Vignarelli, Il contraddittorio endoprocedimentale e l’“idea” di una sua “utilità” ai fini dell’invalidità dell’atto impositivo, in Riv. dir. trib., 2017, II, 21 ss.; D. Zardini, La partecipazione del contribuente all’attività di accertamento, d’irrogazione delle sanzioni e d’iscrizione a ruolo, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 145 ss. (5) In tal senso sembra potersi leggere A. Fantozzi, È già tramontata la (breve) stagione del garantismo? In tema di contraddittorio procedimentale non resta che sperare nella Corte Costituzionale, cit., il quale ritiene che il richiamo (fatto dall’art. 12, comma 7) al p.v.c. non abbia altra funzione che ancorare ad un atto formale la rappresentazione della posizione dell’ufficio (posizione che potrebbe alternativamente essere espressa anche attraverso un verbale di risposta ai quesiti o ai questionari), così da poter poi innescare il confronto con il contribuente.


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in senso “comunitariamente orientato” (6) e ciò, in particolare, facendo leva sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (7). Ora, la decisione della Consulta di dichiarare manifestamente inammissibili le tre questioni di costituzionalità sollevate, se da un lato impone il protrarsi dell’attesa per giungere all’auspicabile definitiva sistemazione della questione sopra accennata (8) (giacché non è difficile prevedere che altre analoghe questioni di legittimità saranno presto sollevate), dall’altro impone all’esegeta di verificare se – per via interpretativa – non si possa fin da ora comunque pervenire ad una soluzione capace di ricondurre ad unità l’articolato quadro ricavabile dalla ricostruzione fatta sul tema dalla giurisprudenza di legittimità da ultimo ricordata (9).

(6) Tale ricostruzione fa leva sul principio comunitario del giusto procedimento che, riconosciuto anche dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, ha portato più volte la Corte di Giustizia ha farne applicazione in tema di accertamento dei tributi armonizzati, facendo così sorgere un’esigenza di pari trattamento dei comportamenti abusivi riguardanti i tributi non armonizzati. Infatti, secondo il principio del giusto procedimento, ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto per esso lesivo, il destinatario della decisione atta ad incidere sensibilmente sui propri interessi deve perciò essere messo in condizione di manifestare utilmente il suo punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione. Peraltro il principio del giusto procedimento, seppur non espressamente codificato nel Trattato EDU (che, come noto, all’art. 6 codifica invece il principio del giusto processo), risulta altresì sviluppato ed affermato all’interno dell’ordinamento convenzionale ora richiamato quale principio generale condiviso, in quanto fondamento degli ordinamenti giuridici cui il principio in argomento si riferisce ed in quanto enunciato e reso altresì vincolante dal giudicato degli organi giurisdizionali competenti. (7) In tal senso, sembra, la stessa Corte cost. nella sentenza n. 132 del 26 maggio 2015 ove, per l’appunto, viene richiamata la giurisprudenza comunitaria (Corte Giust., sent. 18 dicembre 2008, causa C-349/07, Sopropé e Corte Giust., sent. 3 luglio 2014, causa C-130/13, Kamino; per i commenti alla prima delle due pronunce ora richiamate si vedano: G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario, in Rass. trib., 2009, 569 ss.; A. Marcheselli, Il diritto al contraddittorio è diritto fondamentale del diritto comunitario, in G.T. Riv. giur. trib., 2009, 203 ss.; C. Borgia, Il principio del contraddittorio nella giurisprudenza tributaria della Corte di Giustizia. Il caso Sopropé., in http://diritti-cedu.unipg.it). (8) ovvero all’affermazione dell’esistenza, o meno, di un principio generale ed immanente che riconosca il diritto del contribuente al contraddittorio preventivo, anche per quanto attiene i tributi non armonizzati per i quali la specifica disciplina non abbia già previsto un simile obbligo. (9) Ci si riferisce, in particolare, all’analitica pronuncia resa da Cass., ss.uu., 9 dicembre 2015, n. 24823, con cui, appunto, si è tracciato un quadro assai articolato dei casi in cui sussiste l’obbligo del contraddittorio preventivo, nonché delle conseguenze sull’atto impositivo derivanti dalla violazione di tale obbligo.


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Circa il metodo, al fine di evitare quanto più possibile le suggestioni derivanti da un approccio che muove dal generale (ovvero dai principi (10)) per poi andare a cercarne l’incarnazione nelle singole regole di azione, si ritiene di rovesciare l’usuale prospettiva. In altre parole, nel condurre l’indagine ora prospettata, si partirà quindi dall’esame della singola regola di esercizio del diritto (di cui all’art. 12, comma 7, dello statuto dei diritti del contribuente), allo scopo di verificare se sia possibile prospettarne l’applicabilità ai casi diversi da quelli originati dall’esercizio dei poteri di accesso, ispezione e verifica nei locali destinati ad attività commerciali, industriali, agricole, artistiche e professionali (dal medesimo art. 12 previsti). Solo dopo si verificherà se la soluzione prospettabile risulti anche compatibile con i principi costituzionali, nonché con quelli ricavabili dagli ordinamenti comunitario e convenzionale che, in ogni caso, per parte loro, contribuiscono a costituire uno spazio giuridico nel quale la tutela del contribuente è sempre più “multilevello” (11). Talché s’impone di tenere in adeguata considerazione anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE e quella della Corte Edu che, a ben vedere, con la giurisprudenza interna intessono un sempre più fitto dialogo che, talvolta, assume il carattere di un vero e proprio confronto (12).

(10) Specie se si intende muovere dai principi comunitari (e, in particolare, dal principio del giusto procedimento di cui all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea). Non si dimentichi, infatti, che il procedimento tributario è connotato da una significativa vincolatezza, mentre il procedimento amministrativo in generale (cui il predetto art. 41 si riferisce), è tendenzialmente discrezionale. (11) Su tali profili, tra i tanti, si veda L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010. (12) In linea generale, esempio recente di intenso dialogo tra corti è quello costituito da Corte giust., 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco, cui ha fatto seguito Corte cost., ord. n. 24, 1° febbraio 2017, che ha sollevato in via pregiudiziale – ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del TFUE – la questione dell’interpretazione dell’art. 325, parr. 1 e 2, del medesimo TFUE. Come noto, la questione è stata poi (definitivamente) risolta dalla Corte di Giustizia con la recente sentenza in data 5 dicembre 2017, causa C-42/17. D’altro canto, in termini più specifici rispetto al tema dell’indagine, è appena il caso di osservare come i principi e le regole di azione del diritto comunitario – come noto capaci di influenzare l’attuazione e l’elaborazione del diritto interno – ne sono a sua volta influenzati. E, specie quando il diritto comunitario non risulti disciplinare determinate fattispecie, la Corte UE, per non denegare giustizia, ha in passato ritenuto di attingere alle leggi, alla dottrina e alla giurisprudenza dei Paesi membri (cfr. Corte giust., 12 luglio 1957, cause C-7/56 e da C-3/57 a C-7/57, Algera e a.) Sul tema si veda D.U. Galletta, Le fonti del diritto amministrativo europeo, in Aa.Vv., Diritto amministrativo europeo, a cura di M.P. Chiti, Milano, 2013, 103, ove – anche


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All’esito, si cercherà infine di prospettare alcune riflessioni volte a verificare se tali principi, di fonte costituzionale, comunitaria e convenzionale (13), non possano anche dirsi universalmente riconosciuti in quanto espressione stessa del vivere civile dell’uomo all’interno della società e quindi, come tali, bisognevoli di tutela e protezione da parte di ciascun ordinamento (14). 2. Il perimetro di applicazione dell’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 nella prevalente (e più recente) giurisprudenza della Cassazione. – Come accennato, ritenendo di principiare dall’esame dell’ambito di applicazione dell’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000, occorre tener

per quanto si rileverà più innanzi – si accosta il fenomeno ora richiamato al procedimento di intergrazione per via analogica di cui all’art. 12, comma 2, disp. prel. c.c., secondo cui: “Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”, e su cui si vedano altresì G. Gaja - A. Adinolfi, Introduzione al diritto dell’Unione europea, Bari, 2014. Ancora, sulla rilevanza delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, oltre alle indicazioni fornite dai trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo a cui gli stati membri hanno cooperato o aderito, si veda la (ormai nota) Corte di Giustizia, 18 dicembre 2008, causa C-349/07, Sopropé, in partic. al punto n. 33. Infine, sul tema della rilevanza delle “tradizioni”, si vedano: U. Draetta, Elementi di diritto comunitario. Parte istituzionale. Ordinamento e struttura dell’Unione europea, Milano, 1995, 201 ss.; L. Azzena, Le forme di rilevanza della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in AA.Vv., La difficile Costituzione europea. Ricerca dell’Istituto Luigi Sturzo, a cura di U. De Siervo, Bologna, 2001, 249 ss., spec. 256-7; J. Ziller, I diritti fondamentali tra tradizioni costituzionali e «costituzionalizzazione» della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Aa.VV., Diritti fondamentali e politiche dell’Unione europea dopo Lisbona, a cura di S. Civitarese Matteucci, F. Guarriello, P. Puoti, Rimini, 2013, 61 ss.; G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008, passim, nonché S. Marchese, Diritti fondamentali europei e diritto tributario dopo il Trattato di Lisbona, in Dir. prat. trib., 2012, I, 257 ss. (13) Sula rilevanza dei principi comunitari nella nostra materia si vedano altresì: V.F. Vanistendael, Le nuove fonti del diritto ed il ruolo dei principi comuni nel diritto tributario; J. Malherbe, L’equo procedimento in materia fiscale: principio generale ovvero garanzia nell’ambito dell’armonizzazione, entrambi in Aa.Vv., Per una Costituzione fiscale europea, a cura di A. Di Pietro, Padova, 2008, rispett. 111 e 249; M. Miccinesi, I principi comunitari nell’esperienza del giudice tributario. La cooperazione della giurispudenza nazionale nella applicazione del diritto comunitario, in Dir. part. trib., 2013, I, 863. (14) Per una rassegna degli ordinamenti dei singoli Stati membri U.E. ove è riconosciuto il diritto al contraddittorio procedimentale e per il rilievo che i relativi principi assumono rispetto all’ordinamento comunitario si veda R. Iaia, Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario nell’ordinamento dell’unione europea. Riflessi nel diritto nazionale, cit., 58 ss.


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conto che la prevalente (e più recente) giurisprudenza di legittimità, sulla base di un’interpretazione quanto mai aderente al dato letterale, ritiene la norma in parola riferibile agli accertamenti conseguenti ad “accessi”, “ispezioni” e “verifiche fiscali” svolti “nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali” (cfr. art. 12, comma 1, della legge n. 212/2000), tanto è vero che lo stesso comma 7 del medesimo art. 12 afferma il diritto del contribuente di controdedurre (solo) “dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo” (15). Peraltro, secondo la medesima giurisprudenza di legittimità, l’intera disciplina contenuta nell’art. 12 risulta palesemente calibrata sulle esigenze di tutela del contribuente in relazione alle visite ispettive (dallo stesso) subite in loco. Ed ancora, sempre a parere dei supremi giudici, ravvisare nella disposizione in rassegna la fonte di un generalizzato diritto del contribuente al contraddittorio fin dalla fase di formazione della pretesa fiscale comporterebbe un’inammissibile interpretatio abrogans di parte qualificante del dato normativo. Ciò tanto più in considerazione del fatto che non irragionevole proiezione teleologica del riferito dato testuale – tendente alla limitazione della garanzia del contraddittorio endoprocedimentale alle sole verifiche in loco – è riscontrabile nella peculiarità stessa di tali verifiche, in quanto caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca, quivi, di elementi valutativi a lui sfavorevoli: peculiarità, che specificamente giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali (16).

(15) Cfr., tra le tante, Cass., ss.uu. civ., 9 dicembre 2015, n. 24823, secondo cui l’ordinamento non offre spunti positivi per postulare l’esistenza di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale. Anzi, a parere della stessa S.C., le garanzie di cui all’art. 2, comma 7, trovano applicazione esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove è esercitata l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente (nello stesso senso si vedano: Cass. n. 26316/2010, Cass. n. 21391/2014, Cass. n. 15583/2014, Cass. n. 13588/2014, Cass. n. 7598/2014, Cass. n. 25515/2015, 2360/2013, Cass. n. 446/2013, Cass. n. 16354/2012, con l’eccezione di Cass. n. 2594/14) e ciò indipendentemente dal fatto che l’operazione abbia o meno comportato la constatazione di violazioni fiscali (cfr. Cass., 15010/2014, Cass. n. 9424/2014, Cass. n. 5374/2014, Cass. n. 2593/2014, Cass. n. 20770/2013, Cass. n. 10381/11). (16) Così Cass., ss.uu. civ., 9 dicembre 2015, n. 24823, ove non si manca di osservare che, nel definire il principio di diritto affermato, la precedente Cass., ss.uu. civ., 14 maggio 2013, n. 18184, ha, non a caso, espressamente correlato la decorrenza del termine dilatorio,


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3. Le singole, e speciali, “regole di azione” che affermano il diritto del contribuente ad essere previamente sentito. – Così delineato, sulla scorta della ricostruzione effettuata dalla giurisprudenza di legittimità assolutamente prevalente, l’ambito di applicazione dell’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000, non resta che prendere atto di quanto precisato dalle stesse sezioni unite del 2015 in ordine al complessivo – ed articolato – quadro delle fattispecie per le quali sussiste il diritto del contribuente ad essere sentito prima dell’emanazione del provvedimento impositivo. Più in particolare, come appunto ritenuto dalla menzionata giurisprudenza, in aggiunta alle fattispecie ricomprese nella clausola – che potremmo anche definire – “quasi generale” costituita dall’art. 12, comma 7, più volte richiamato, occorre dare atto che esistono nel nostro ordinamento alquante speciali clausole (rectius: regole di azione) che, seppur a condizioni e con modalità differenti fra loro, affermano, di volta in volta, in rapporto cioè a specifiche ipotesi, il diritto del contribuente ad essere previamente sentito. Basti pensare, ad esempio, agli accertamenti c.d. “standardizzati” (perché fondati su parametri o su studi di settore) (17), ovvero a quelli in materia di iscrizioni ipotecarie (18), o a quelli in materia di abuso del diritto (19), o ancora in tema di iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni (20), come pure da iscrizioni a ruolo ex artt. 36-bis e 36-ter del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, ovvero all’accertamento sintetico del reddito complessivo netto ai fini dell’Irpef (21), o ancora all’accertamento con cui si contesti la deducibilità di componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti o localizzate in stati o territori a regime fiscale privilegiato (22), ovvero, infine, all’accertamento in materia di tributi doganali (23). Ebbene, come accennato, da un così articolato quadro la giurisprudenza di legittimità ha dedotto la mancanza di una clausola generale – diversa da quella

destinato all’espletamento del contraddittorio, al momento del rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni al contribuente nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività. (17) Cfr. art. 3, comma 185, legge n. 549 del 1995 e art. 10, comma 3-bis, legge n. 146/1998. (18) Art. 77, comma 2-bis, d.p.r. n. 602/1973. (19) Art. 10-bis, comma 6, legge n. 212/2000. (20) Cfr. art. 6, comma 5, legge n. 212/2000. (21) Cfr. art. 38, comma 7, d.p.r. n. 600/1973. (22) Cfr. il testo dell’ormai abrogato art. 110, comma 11, d.p.r. n. 917/1986. (23) Cfr. art. 11, comma 4-bis, d. lgs. n. 374/1990.


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di cui al più volte richiamato art. 12, comma 7, dello statuto – da cui possa ricavarsi l’esistenza di un principio, generale ed immanente, che affermi l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale (24). Invero, secondo la predetta ricostruzione giurisprudenziale, non potrebbe a tal fine invocarsi la legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo (che, espressamente, esclude dalla disciplina partecipativa dalla stessa prevista i procedimenti tributari in quanto regolati da apposite norme (25)) e difatti, se un tale principio generale potesse dirsi esistente, non si spiegherebbe perché mai la legge delega n. 11 marzo 2014, n. 23, per la revisione del sistema fiscale, ancorché sul punto rimasta inattuata, avrebbe comunque previsto l’introduzione di forme di contraddittorio propedeutiche alla adozione degli atti di accertamento dei tributi [cfr. art. 1, comma 1, lett. b)], nonché il rafforzamento del contraddittorio nella fase di indagine e la subordinazione dei successivi atti di accertamento e di liquidazione all’esaurimento del contraddittorio procedimentale [cfr. art. 9, comma 1, lett. b)] (26).

(24) Si potrebbe quindi ritenere che, negando l’esistenza di un principio generale ed immanente che affermi il diritto del contribuente al contraddittorio, si impedisce così di procedere attraverso la c.d. “analogia juris”. L’analogia juris, infatti, presuppone l’esistenza di un principio generale ricavabile da una pluralità di norme, in guisa tale da consentire poi l’applicazione del principio al caso singolo per il quale vi è una lacuna. Si noti però che, secondo taluni, la distinzione tra analogia juris e analogia legis è da considerarsi quanto meno superata (cfr. M. Boscarelli, L’analogia giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, 647 ss.). Deve tuttavia sul punto osservarsi che, ancorché la funzione sia la medesima, la struttura logica dei due tipi di analogia è comunque diversa: nell’analogia juris vi è un rapporto di sussunzione tra la specie e il genere, mentre nell’analogia legis vi è un rapporto di somiglianza (cfr. N. Bobbio, Analogia, in Noviss. dig. it., Torino, I, 1957, 605). (25) Cfr. art. 13, comma 2, L. n. 241/1990. Anche se, deve osservarsi (e su questo la giurisprudenza di legittimità in discorso a noi sembra sia voluta intervenire), la stessa legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, all’art. 1, nel testo così come modificato dalla L. n. 15/2005, dichiara applicabili i principi di origine europea a tutti i procedimenti amministrativi nazionali e, dunque, deve ritenersi, anche a quelli di natura tributaria. Cosi, tra i vari, G. Melis, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2017, 262, ove, sul punto, richiama altra giurisprudenza (Cass. n. 406/15) secondo cui il principio del contraddittorio in parola non può tollerare discriminazioni in relazione alla natura armonizzata o meno del tributo. (26) Invero, non sembra che il riferimento alla legge delega possa dirsi (univocamente) conducente nel senso fatto proprio dalla giurisprudenza in esame. Difatti, potrebbe anche ritenersi che il principio che afferma l’obbligo del contraddittorio nella legge delega in discorso abbia in realtà valenza ricognitiva, nel senso che abbia la funzione di esprimere con nettezza l’esistenza di un principio comunque già ricavabile dalla sistematica dell’ordinamento. Analogamente A. Lovisolo, La sentenza Sezioni Unite 24823/2015 e il requisito della “utilità” del previo contraddittorio endoprocedimentale: osservazioni e critiche, in Fondazione Antonio Uckmar, Per un nuovo ordinamento tributario, atti preparatori, Padova, vol. II, 519.


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Da quanto sopra esposto consegue che – sempre secondo le medesime sezioni unite del 2015 – in tema di tributi non armonizzati, al di fuori dei casi in cui l’attività ispettiva sia svolta in loco (rectius: presso i locali destinati all’esercizio dell’attività), ovvero al di fuori dei casi in cui singole regole di azione impongano all’Ufficio di previamente sentire il contribuente (27), non sussiste alcun principio generale che affermi il diritto del contribuente al preventivo contraddittorio. 4. L’assenza della regola del contraddittorio preventivo rispetto a talune fattispecie di esercizio della potestà amministrativa d’imposizione (riferita a tributi non armonizzati), quale conseguenza della ricostruzione delle sezioni unite del 2015. Profili critici. – Giunti a questo punto è senz’altro opportuno precisare che, in base a quanto ritenuto dalle sezioni unite del 2015, nel caso di tributi non armonizzati ben vi possono essere casi in cui la potestà amministrativa d’imposizione può essere esercitata senza necessariamente dover osservare il principio del contraddittorio endoprocedimentale. Le relative fattispecie possono essere desunte leggendo, a contrario, l’art. 12 dello statuto, così come pure le singole regole di azione in precedenza richiamate. In altri termini, in tutti i casi diversi da quelli di cui alle singole regole di azione prima elencate, così come anche nei casi di controlli che non si concludano con un rilascio di un verbale e, infine, così come pure in tutti i casi diversi da quelli in cui i controlli siano svolti presso i locali dal contribuente destinati all’esercizio dell’attività, beninteso con riferimento al solo (invero ampio) novero dei tributi non armonizzati, a detta della più volte richiamata giurisprudenza non sussiste alcuna regola (né tantomeno alcun principio generale) che impone il contraddittorio preventivo con il contribuente (28). È questo il caso dei controlli svolti direttamente presso l’Ufficio (ad esempio, a tutta prima, anche nell’ambito dell’accertamento parziale ex art. 41-bis del d.p.r. n. 600/1973 (29)), come pure è il caso – a quanto sembra stando al

(27) Cfr. le singole regole di azione richimate retro nel presente paragrafo. (28) Ciò vale a dire che – all’esito dell’interpretazione della Cassazione sopra richiamata – ci si trova di fronte ad una lacuna dell’ordinamento. Sul problema posto dalle lacune nell’interpretazione del diritto tributario si veda G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 370 ss., ove, appunto, si premette che la lacuna è una creazione dell’interprete che accerta l’impossibilità di ricavare mediante il procedimento ermeneutico una risposta immediata ad una questione di diritto (cfr., in part., 372-373). (29) Eccezion fatta che per quei casi in cui l’accertamento parziale muova da


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tenore letterale dell’art. 12, comma 1, della legge n. 212/2000 – dei controlli operati presso l’abitazione del contribuente. Difatti, con particolare riferimento a quest’ultima modalità di controllo, è innegabile che essa si pone al di fuori del perimetro fissato dall’art. 12 predetto che, al comma 1, per l’appunto, si limita a prendere in considerazione i soli accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuati, letteralmente, “nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali” (30). Peraltro, anche sulla base di un’interpretazione logica del predetto art. 12, comma 1 – laddove esso (al secondo periodo del medesimo comma 1) precisa che tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali “si svolgono, salvo casi eccezionali e urgenti adeguatamente documentati, durante l’orario ordinario di esercizio delle attività e con modalità tali da arrecare la minore turbativa possibile allo svolgimento delle attività stesse nonché alle relazioni commerciali o professionali del contribuente” –, è possibile evincere che la fattispecie del controllo c.d. “domiciliare” (31) si pone al di fuori del perimetro di riferimento tracciato dal predetto art. 12 dello statuto (32) e quindi, in via di ulteriore conseguenza, non s’impone il preventivo confronto con il contribuente a mente del successivo comma 7 dello stesso art. 12. Secondo questa ricostruzione, del resto, a nulla rileva l’obbligo sussistente in capo ai verificatori di contestare, mediante apposito processo verbale, le

segnalazioni della stessa amministrazione periferica (es. un ufficio della medesima Agenzia delle entrate), magari all’esito di attività ispettiva svolta in loco (rectius: presso i locali destinati all’attività). (30) Ora, è pur vero che, generalmente, in caso di accessi e ispezioni presso l’abitazione del contribuente il medesimo sarà stato comunque già fatto oggetto di accessi e ispezioni anche presso la sede destinata ad esercizio dell’attività, ma non può per questo escludersi il caso di un contribuente (o forse, più genericamente, di un soggetto passivo) che non svolga alcuna attività e che, ciò nonostante, sia fatto oggetto di controlli domiciliari e successivo accertamento, dunque senza che l’Ufficio debba perciò rispettare l’obbligo di cui all’art. 12, comma 7, della legge 212/2000. Analogamente potrebbe darsi il caso di contribuente verificato in ufficio (c.d. “verifica a tavolino”) dopo (o anche prima di) essere stato fatto oggetto di accesso e ispezione domiciliare. E, dunque, anche in questo caso senza avere diritto ad essere previamente sentito. (31) Di cui all’art. 52, comma 2, del d.p.r. n. 633/1972, debitamente richiamato dall’art. 33, comma 1, del predetto d.p.r. n. 600/1973. (32) Opinare diversamente (nel senso di ravvisare nella disposizione in rassegna la fonte di un generalizzato diritto del contribuente al contraddittorio fin dalla fase della formazione della pretesa) – secondo la più volte citata giurisprudenza di legittimità – “comporterebbe un’inammissibile interpretazione abrogans di parte qualificante del dato normativo” (cfr. Cass., ss.uu. civ., n. 24823/2015, par. 4.1.).


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violazioni (delle norme contenute nelle leggi finanziarie) eventualmente rilevate nel corso dell’attività ispettiva (33). Difatti, la giurisprudenza sopra richiamata fa discendere il “quasi generale” obbligo del contraddittorio preventivo (al di fuori del novero dei tributi armonizzati, come pure al di fuori delle singole regole di azione che un tale contraddittorio anticipato prevedono) dalla consolidata interpretazione della “regola” di cui all’art. 12, comma 7, dello statuto, di tal guisa negando l’esistenza di un principio generale ed immanente volto ad affermare l’esistenza di uno speculare diritto al contraddittorio in capo al contribuente (34). E ancora, sempre secondo la predetta impostazione, la disposizione da ultimo richiamata, lungi dall’affermare la necessità (e quindi l’obbligatorietà) del contraddittorio in discorso in ragione della funzione che ad esso può attribuirsi in chiave cooperativa rispetto alle contestazioni contenute nel processo verbale, afferma la sussistenza del diritto in parola unicamente nel caso in cui l’attività di verifica sia svolta nei locali dal contribuente destinati all’esercizio dell’attività e non già anche, più genericamente, in loco, ad esempio presso l’abitazione del contribuente medesimo. In quest’ultima ipotesi, portando alle estreme conseguenze l’impostazione della giurisprudenza di legittimità in esame, ancorché sussiste l’obbligo di redigere un processo verbale di constatazione, ciò non imporrebbe all’Ufficio di attendere lo spirare del termine di sessanta giorni prima di emanare l’atto di accertamento, così impedendosi al contribuente verificato (ove non già fatto oggetto di controlli presso i locali destinati all’esercizio dell’attività (35)) di disporre del tempo necessario per offrire all’Ufficio le opportune spiegazioni, anche in ragione di quel principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente di cui all’art. 12, comma 7, sopra ricordato. Invero, se si osserva che la giurisprudenza in esame – nel motivare la ricostruzione di cui sopra si è dato conto – giustifica la propria impostazione sulla base della ratio legis (36) dell’art. 12 predetto – consistente nella pecu-

(33) Obbligo, questo, sussistente a mente del disposto di cui all’art. 24 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, nel testo ancora vigente. (34) È appena il caso di osservare che le Sezioni Unite della Cassazione, nella precedente sentenza n. 19667 del 2014, avevano invece riconosciuto l’esistenza, nell’ordinamento interno, del diritto al contraddittorio, considerato principio immanente riconducibile agli artt. 24 e 97 Cost. ed attuabile anche in caso di mancanza di espressa previsione normativa. (35) Nel qual caso il suo diritto al contraddittorio sussisterebbe in ragione del verificarsi di tale circostanza. (36) È appena il caso di osservare che la succitata giurisprudenza evita accuratamente di richiamare il sintagma “ratio legis”, preferendo esprimersi in termini di “proiezione


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liarità stessa delle verifiche (effettuate presso i locali destinati all’esercizio di attività) in quanto caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca, quivi, di elementi valutativi a lui sfavorevoli, di talché si giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente, e della stessa amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali ove l’attività è svolta –, non ci si può non avvedere che anche nel caso (non espressamente previsto nell’art. 12 dello statuto) delle verifiche effettuate presso l’abitazione del contribuente s’imporrebbe un analogo controbilanciamento, ancorché esso non risulti espressamente ricavabile dal tenore letterale del medesimo art. 12, comma 7, più volte richiamato. 5. Una possibile composizione delle contraddizioni derivanti dalla ricostruzione delle ss.uu. del 2015. – L’actio finium regundorum sopra svolta con riferimento alla portata della norma di cui all’art. 12, comma 7, dello statuto, così come interpretato coerentemente sviluppando la tesi argomentativa della consolidata giurisprudenza di legittimità, ha mostrato come possano verificarsi alcune aporie. Una di queste è senz’altro costituita dalla – secondo la predetta giurisprudenza – ritenuta applicabilità del diritto al contraddittorio preventivo al (solo) caso delle verifiche svolte presso i locali aziendali e – deve ritenersi – non anche a tutti gli altri casi di verifiche svolte in luoghi diversi da tali locali aziendali, ma pur sempre ove i verificatori possano direttamente esercitare i loro più penetranti poteri istruttori. Ad esempio, uno di tali casi si ha quando l’attività di controllo sia svolta presso l’abitazione privata del contribuente (ma considerazioni analoghe potrebbero svolgersi pure nell’ipotesi di controlli svolti presso l’abitazione di un soggetto terzo, diverso dal contribuente). In una simile ipotesi, nel caso in cui l’attività di controllo riguardasse tributi non armonizzati, e qualora non risultasse applicabile alcuna delle regole di azione sopra richiamate che un tale diritto al contraddittorio endoprocedimentale espressamente affermano, non risulterebbe applicabile il disposto di cui all’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000 perché – come già chiarito –

teleologica”. Ora – pur senza anticipare considerazioni che saranno più oltre svolte – si noti che, nella ricostruzione delle più acute elaborazioni di logica giuridica, la ratio legis ha la funzione di dar conto del criterio alla cui stregua a due differenti fattispecie astratte viene imputata la stessa conseguenza giuridica, così come derivante da una premessa (ancorché implicita) situata ad un livello di generalità superiore rispetto al livello delle premesse esplicite (cfr. N. Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, passim).


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secondo la giurisprudenza di legittimità esso presuppone l’esercizio di poteri istruttori nei locali destinati all’attività del contribuente. Viene quindi da chiedersi se una tale contraddizione possa essere tollerata – anche in quanto essa porta con sé un’irrazionale discriminazione (e dunque una violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.) – o se non si debba prima cercare di comporla, se del caso, pure tentando di ricostruire le connessioni razionali ed organiche che formano la trama del quadro sistematico di riferimento (37). Nel condurre un simile procedimento volto alla composizione della segnalata aporia (38), quanto meno in una prima fase, si eviterà di premettere l’esistenza di un principio generale ed immanente (invero escluso dalla Cassazione n. 24823/2015) che proclami il diritto del contribuente al contraddittorio endoprocedimentale (39); tuttavia non si potrà evitare di procedere ad una ricostruzione della portata del complesso normativo e delle relazioni giuridiche che si sviluppano al suo interno, onde, per questa via, giungere all’individuazione della soluzione giuridica più appropriata da applicare al caso concreto (40). Ora, tale procedimento di giustificazione giuridica (svolto ad un livello logico “inferiore” rispetto a quello occupato dai principi), stanti le somiglianze tra la fattispecie disciplinata (controlli presso la sede dell’attività) e quella non disciplinata (controlli presso l’abitazione) (41), sembra poter essere efficacemente

(37) E ciò anche attraverso il ricorso all’art. 12, comma 2, delle disposizioni sulla legge in generale in precedenza già richiamato. (38) che, per parte sua, discende dalla formulazione casistica dell’art. 12 dello statuto. È infatti noto che il carattere casistico di una norma ne aumenta (e non già ne diminuisce) la vaghezza e l’ambiguità, diminuendo così il grado di certezza del diritto. (39) È infatti noto che, se pure la legge può ben mostrare alcune lacune, l’esigenza che per qualsiasi caso concreto si trovi una soluzione impone che le lacune vengano colmate. E, a tal fine, il diritto offre due mezzi: l’analogia e il ricorso ai principi generali del diritto. (cfr. E. Vanoni, Natura e interpretazione delle leggi tributarie, (1932), in Opere giuridiche, vol. II, Milano, 1962, 290). (40) Cfr. P. Boria, Diritto tributario, Torino, 2016, 185, secondo cui la norma da applicare in una determinata fattispecie non è il risultato di un’operazione di interpretazione di una singola e limitata disposizione, quanto piuttosto il risultato dell’opera di riconoscimento del sistema di diritto e dei suoi nessi interni. (41) È infatti la rilevanza delle somiglianze che determina l’equiparazione del trattamento giuridico, mentre la rilevanza delle differenze determina la negazione dell’equiparazione del trattamento giuridico (cfr. V. Velluzzi, E. Vanoni e l’analogia giuridica: note a margine, in G. Ragucci, cur., Ezio Vanoni. Giurista ed economista, Milano, 2017, 184 ss., ove la precisazione che, nel tentativo di procedere per analogia, l’interprete compie la comparazione tra classi


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realizzato – attraverso il ricorso all’analogia (42) – applicando alla fattispecie sopra ipotizzata (controllo presso l’abitazione del contribuente, non incluso tra le fattispecie previste dall’art. 12, comma 1) quella stessa disposizione di cui all’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000 che il contraddittorio preventivo prevede (43) (perché necessitato in occasione di controlli presso i locali aziendali attraverso i quali i verificatori possono autonomamente cercare, e se del caso acquisire, elementi probativi a sostegno della pretesa fiscale) (44). Deve però ammettersi che a una simile conclusione (applicazione dell’art. 12, comma 7, al caso dei controlli presso l’abitazione) non può giungersi se si limita l’esame alla sola disposizione di riferimento (art. 12, comma 1) – come peraltro sembra voler fare la giurisprudenza di legittimità –, rinunciando quindi a conoscere e a ponderare sia la ratio legis della disposizione in discorso, ma anche l’intero quadro sistematico (45). In altre parole, solo conoscendo il sistema, ricostruito nella sua razionalità e coerenza (anche in ragione delle rationes delle varie disposizioni), sarà possibile trovare per ciascun caso la sua esatta collocazione alla luce della singola norma che, peraltro, di quel sistema è espressione (46).

di casi omogenee per grado di generalità, e non tra una fattispecie concreta e una astratta. Ed, ancora, che in ambito giuridico si ritiene, in maniera pressoché pacifica, che il criterio da utilizzare per tale giudizio di somiglianza altro non è che la ratio legis). (42) Nella sua particolare declinazione della analogia legis. Questa presuppone il ricorso ad una singola norma (e non già ad un principio generale) per colmare una lacuna dell’ordinamento. Quanto all’analogia giuridica (sotto il particolare profilo dell’analogia legis), questa può essere spiegata facendo ricorso all’eloquente esemplificazione già fatta da autorevole dottrina: “Se è vietata la vendita di libri osceni, sarà analogicamente da vietarsi la vendita dei libri gialli (e perché non anche, aggiungo, dei libri di filosofia?), o invece quella dei dischi osceni?” (cfr. N. Bobbio, Analogia, in Noviss. dig. it., Torino, I, 1957, 603) (43) O meglio, applicando alla fattispecie non regolata, più che la disposizione (che altra fattispecie regola), la medesima conseguenza giuridica prevista dalla disposizione per la fattispecie (analoga) dalla medesima (già) regolata. (44) Difatti, se la “giustificazione” (o meglio la ratio legis) della norma di cui all’art. 12, comma 7, dello statuto – così come ricostruita dal richiamato giudice di legittimità – è conseguenza dell’invasività dei controlli in quanto effettuati, ex art. 12, comma 1, del medesimo statuto, presso i locali aziendali del contribuente, non può allora negarsi che, a fortiori, anche nel caso di controlli presso l’abitazione privata (ancorché non contemplati nella casistica prevista dal medesimo art. 12, comma 1) debba prevedersi l’applicazione della garanzia del contraddittorio preventivo di cui all’art. 12, comma 7, predetto. Invero, risulta del tutto evidente l’eadem ratio che sta alla base delle garanzie del contribuente in entrambi i casi di controlli ispettivi (sia presso i locali c.d. “aziendali”, sia presso l’abitazione privata). Difatti: ubi eadem ratio, ibi eadem juris dispositio. (45) Cfr G. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, 352 s.. (46) In tal senso L. Gianformaggio, Analogia, in Dig. IV, disc. priv. sez. civ., I,


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Ed ancora, parafrasando una felice definizione, poiché il sistema giuridico non è un locus naturalis ma un locus artificialis (47), non v’è dubbio che questo è il prodotto perennemente in fieri della collaborazione tra legislatori, giuristi e giudici (48) che, indistintamente, tutti assieme debbono concorrere all’innalzamento del grado di razionalità e coerenza interna dello stesso, anche allo scopo di formare il quadro di riferimento entro il quale sia possibile ricavare regole per la risoluzione dei casi non previsti dalle singole norme che il sistema stesso compongono (49). 6. Irrilevanza dei limiti all’analogia. – Per completezza, risolta, attraverso il ricorso all’analogia, la contraddizione originata dalla posizione della giurisprudenza di legittimità in precedenza esaminata, conviene ora dar conto – seppur brevemente – dell’insussistenza di limiti espliciti all’impiego del procedimento analogico nel diritto tributario, in specie con riferimento al principio della riserva di legge (50). Così, se è pur vero che il ricorso all’analogia incontra dei limiti: costituiti dalle norme c.d. “eccezionali” e da quelle di tipo penale (cfr. art. 14 delle disposizioni preliminari sulla legge in generale), può osservarsi che – quan-

1987, 320 s. Si noti poi che, secondo l’Autrice, il fondamento dell’analogia nel diritto è il nucleo razionale dell’idea della giustizia distributiva, cioè l’eguaglianza, che non soccorre solo nell’applicazione delle regole, ma anche nella loro produzione. Talché anche la giustizia delle regole è eguaglianza: eguaglianza di rapporti, cioè proporzionalità. Tanto è vero che la giustificazione della soluzione sopra proposta (applicabilità dell’art. 12, comma 7, al caso del controllo presso l’abitazione del contribuente) non può che discendere da un giudizio da svolgere intorno all’art. 12, comma 1, (che il caso del controllo presso l’abitazione privata non considera) alla luce del fondamentale parametro dell’eguaglianza costituito dell’art. 3 Cost. (47) N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Bari, 2004, 31 ss. Peraltro, già Vanoni osservava che l’esigenza della generalità e dell’uguaglianza dell’imposizione spiega e giustifica l’uso dell’analogia nell’interpretazione della legge tributaria che, in quanto opera umana, per quanto ben elaborata, non può essere completa, non può essere perfetta e non può prevedere tutte le ipotesi possibili. Cfr. E. Vanoni, Natura e interpretazione delle leggi tributarie, (1932), in Opere giuridiche, vol. II, Milano, 1962, 299. (48) Cfr. L. Gianformaggio, Analogia, cit., 326. (49) Il criterio della coerenza interna del sistema, infatti, si risolve in un giudizio di compatibilità logica con i principi e con le regole di fondo che emergono dalle varie partizioni del sistema. (50) Il tema è stato da tempo affrontato. Cfr. M.S. Giannini, L’interpretazione e l’integrazione delle leggi tributarie, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1941, 173; E. Vanoni, Natura e interpretazione delle leggi tributarie, cit., 291 ss.; A. Amatucci, L’interpretazione della norma di diritto finanziario, Napoli, 1965, 58; G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, VIII ed., Torino, 1989, 81 e, più di recente, A. Fantozzi, Il diritto tributario, III ed. Torino, 2003, 235.


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to meno in linea generale – la norma tributaria sostanziale è sì a fattispecie (tendenzialmente) esclusiva ma non anche, necessariamente, norma eccezionale (51). E in ogni caso, per quanto concerne ciò che ci occupa, il ricorso all’analogia – da tempo ritenuto praticabile (anche) con riferimento alle norme tributarie sostanziali, seppur nei limiti (talvolta ristretti) del carattere esclusivo di queste (52) – è stato qui proposto con riferimento non già a norme tributarie impositrici ma, più semplicemente, con riferimento a norme procedimentali (che, come nel caso de quo, fissano le regole di azione della finanza nell’ambito dell’attività di attuazione amministrativa del tributo) (53). È dunque evidente che, nel caso di specie, non vi sono impedimenti a ricorrere all’analogia (54), specie ove questa sia considerata alla stregua di uno

(51) Per vero si è altresì osservato che vi possono anche essere fattispecie sostanziali a forma “libera” o “aperta”, la cui interpretazione comporta inevitabilmente il superamento del dato testuale e l’individuazione di casi analoghi (cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2017, 197 s.). (52) Cfr. gli autori citati nelle due note che precedono. Diversamente, ritengono che dal principio della riserva di legge discenda un divieto di analogia (beninteso con riferimento alle sole norme tributarie impositrici) A. Uckmar, La legge del registro. Commento teorico, Padova, 1958, vol. I, p. 91; A.D. Giannini, Istituzioni di diritto tributario, Milano, ristampa IX ed., 1968, p. 44; A. Berliri, Corso istituzionale di diritto tributario, I, Milano, 1980, 19 ss. (53) Sulla praticabilità del ricorso all’analogia, specialmente con riferimento alle norme dirette a consentire l’attuazione del tributo, si veda, di recente, G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario, I principi generali, Padova, 2016, 142. Secondo l’Autore, infatti, una lacuna normativa nel sistema applicativo del tributo richiede un intervento correttivo che ben può essere desunto da norme regolanti fattispecie analoghe o, in mancanza, dagli stessi principi generali dell’ordinamento. Nello stesso senso, ovvero sulla pacifica praticabilità dell’analogia rispetto alle norme che regolano il procedimento che porta all’accertamento e alla riscossione del tributo, come pure come riferimento alle norme sul processo tributario, si veda da ultimo G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, cit., 195 s. (54) E peraltro il ricorso all’analogia – come osservato senz’altro ammissibile, vieppiù stante l’ingiustificata discriminazione tra la fattispecie dei controlli presso i locali aziendali (dal legislatore prevista) e quella dei controlli presso il domicilio privato del contribuente (dal legsilatore non prevista) e, quindi, costituente la lacuna presupposto per il ricorso all’analogia legis – finisce altresì per rappresentare, su di un diverso piano d’indagine (costituito dall’esame delle conseguenze derivanti dall’ingiustificata discriminazione di cui sopra), lo strumento per assicurare un’interpretazione costituzionalmente orientata della stessa norma di cui all’art. 12 più volte richimato. Difatti, se è vero che il giudice delle leggi, anche attraverso pronunzie di tipo additivo o manipolativo, potrebbe verosimilmente dichiarare l’incostituzionalità della norma in parola laddove essa, ingiustificatamente, non prevede che anche nel caso del controllo domiciliare si debbano applicare le garanzie statutarie previste per i controlli presso i locali aziendali, è allora a fortiori consentito prospettare il ricorso all’analogia legis che, dunque, costituisce strumento per colmare una lacuna e, allo stesso tempo, per rimuovere un profilo di incostituzionalità dello stesso art. 12 nella parte in cui, appunto, esso non prevede le garanzie


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dei possibili procedimenti “di giustificazione esterna (o di secondo livello)” di una data data decisione giuridica (55). Quanto poi alla possibile eccezione secondo la quale gli impedimenti testuali che caratterizzano la norma statutaria lascerebbero preferire una soluzione fondata sull’interpretzione estensiva di questa piuttosto che sull’integrazione per via analogica della medesima, sia consentito osservare come autorevole dottrina abbia da tempo qualificato l’analogia alla stregua di un mezzo d’interpretazione della norma, non dissimile dalla c.d. “interpretazione estensiva” (56). Difatti, a voler ricercare una distinzione fra analogia e inter-

in parola pure per il caso dei controli domiciliari. Insomma, in altri termini, non sembra che i due piani dell’indagine ora richiamati (l’analogia, da un lato, e i profili d’incostituzionalità della norma, dall’altro) si pongano in una situazione di reciproca incompatibilità. In questo senso, quanto all’approccio, pare potersi leggere anche A. Fantozzi, È già tramontata la (breve) stagione del garantismo? In tema di contraddittorio procedimentale non resta che sperare nella Corte Costituzionale, cit., ove, premessa la critica alla ricostruzione strettamente letterale del comma 7 in discorso rispetto al comma 1 del medesimo art. 12, così come proposta dalle Sezioni Unite del 2015, sul presupposto della praticabilità di una lettura estensiva dell’art. 12 medesimo sino a ricomprendere i “controlli” anche “a tavolino”, auspica una soluzione che passi attraverso una pronuncia additiva o manipolativa della Corte costituzionale che, in quest’ottica, potrebbe sostenere l’esistenza di un generalizzato obbligo del contraddittorio, sia in caso di controlli “esterni” che “interni”, e ciò anche attraverso un’ampia accezione del termine “verbali”, così salvando la ricostruzione delle Sezioni Unite con riferimento all’art. 12, comma 7, quanto alle verifiche presso i locali aziendali; ovvero, in alternativa, sempre a parere della succitata dottrina, la Consulta potrebbe accogliere la stretta interpretazione dell’art. 12, comma 7 e, seguendo la prospettazione dell’ordinanza di rimessione formulata dalla CTR Toscana (cfr. ord. n. 736/16), dichiarare l’illegittimità della norma nella parte in cui si riconosce al contribuente il diritto a ricevere copia del verbale, da cui decorrono 60 giorni per le controdeduzioni, nelle sole ipotesi in cui l’amministratore abbia effettuato un accertamento, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività del contribuente. Ora, a prescindere da quello che potrebbe decidere la Consulta sul punto, ciò che si intende in questa sede prospettare è la possibilità, in via interpretativa e senza attendere l’intervento della Corte costituzionale, di riumuovere alcuni profili di illegittimità della norma de qua, invero strettamente discendenti dalla ricostruzione delle Sezioni Unite del 2015, facendo ricorso all’analogia legis. (55) Nel senso che essa costituisce un procedimento che serve a fondare su norme espresse la norma posta nel corso del ragionamento giustificativo a fungere da premessa maggiore dell’inferenza deduttiva che costituirà la giustificazione interna (o di primo livello) della norma contenuta nella decisione (così L. Gianformaggio, Analogia, op. cit., 326). (56) Cfr. N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960, 172. Peraltro, anche in seguito, è stata considerata come “abbastanza futile” la questione – invero a carattere meramente terminologico – dell’analogia come interpretazione, integrazione o creazione giuridica (cfr. L. Gianformaggio, op. ult. cit., 326). Talché, “oltre alla tesi radicalmente negativa della distinzione tra interpretazione estensiva ed analogia, sono stati proposti svariati criteri per la distinzione in oggetto, criteri che, però, si ammette per lo più, funzionano solo in


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pretazione estensiva, è stato osservato che l’unica differenza che si rileva “è di grado e non di sostanza”, nel senso che “l’interpretazione estensiva è una analogia ‘facile’ (ritenuta o pretestuosamente fatta passare per), accettabile dal senso comune dei giuristi”, mentre “l’analogia è una estensione che richiede giustificazione” (57). 7. La distinzione tra tributi armonizzati e tributi non armonizzati. – Superata, mediante il ricorso all’analogia, l’aporia costituita dalla mancata espressa applicabilità della regola di cui all’art. 12, comma 7, della n. 212/2000 al caso di verifiche presso l’abitazione del contribuente (ipotesi questa non contemplata espressamente fra quelle di cui all’art. 12, comma 1, del medesimo statuto del contribuente), conviene ora ritornare al principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione, nella sentenza n. 24823/2015, laddove si riconosce l’esistenza di un generalizzato diritto del contribuente al contraddittorio endoprocedimentale (solo) con riferimento ai tributi c.d. “armonizzati”. Al riguardo, i supremi giudici affermano che, in tema di tributi armonizzati, ha luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, cosicché la violazione del correlativo obbligo del contraddittorio preventivo comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto purché il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, sempreché

teoria, ma che difficilmente consentono di discriminare nella pratica le ipotesi di interpretazione estensiva dalle analogie” (così, testualmente, L. Gianformaggio, op. ult. cit., 326, la quale, sul punto specifico, conclude che si tratta dunque di mere convenzioni e che un criterio distintivo teoricamente valido tra le due figure in discorso non è dato trovare). (57) Così, ancora, L. Gianformaggio, op. ult. cit., 326 s. ove specifica altresì che vi è una connessione alquanto stretta tra analogia legis e ricorso ai principi generali, talché “può ben capitare che qualcuno chiami ‘analogia’ quello stesso processo di giustificazione esterna che altri sarebbe piuttosto propenso a dire ‘ricorso ad un principio’. Abbiamo quindi una sequenza ordinata di tre procedimenti giustificativi, dal più semplice al più complesso, ognuno dei quali sfuma nell’altro: interpretazione estensiva, analogia, ricorso ai principi generali del diritto”. Infine, l’insussistenza di alcuna diversità tra interpretazione estensiva ed analogia è poi riconosciuta anche da autorevole dottrina tributaristica, secondo cui l’analogia si identifica con l’interpretazione logica mediante la quale si individua il significato della norma in base ad una indagine sulla ratio del’enunciato lessicale, estendedone la portata oltre la sua lettera. Talché – secondo la medesima dottrina da ultimo richiamata – “la differenza tra interpretazione estensiva ed analogia sembra essere un espediente escogitato dagli operatori dell’applicazione per aggirare il divieto di analogia, spacciando, a seconda dei casi, come estensiva una interpretazione analogica o come analogica una interpretazione estensiva” (così, testualmente, G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, cit., 194).


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l’opposizione di dette ragioni non si riveli puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali (finalità) esso è stato predisposto (58). A ben vedere, la richiamata giurisprudenza di legittimità, nel costruire il percorso argomentativo volto all’affermazione del principio di diritto sopra accennato, dà atto che nel diritto europeo il contraddittorio endoprocedimentale, (anche) in materia tributaria, costituisce principio di generale applicazione, pur essendone valutati gli effetti in termini restrittivamente sostanzialistici, mentre nel diritto interno tale principio – costruito in termini di obbligo gravante sull’a.f. a pena di nullità dell’atto – opera soltanto in relazione ai singoli (ancorché molteplici) atti per i quali detto obbligo è esplicitamente contemplato (59). Talché – a detta della richiamata giurisprudenza – “l’indicata divaricazione si proietta inevitabilmente sulla regolamentazione dei tributi c.d. “non armonizzati” (in particolare: quelli diretti), estranei alla competenza dell’Unione Europea, e di quelli c.d. “armonizzati” (in particolare: l’Iva), in detta sfera rientranti” (60). In altre parole, dalla lettura della sentenza in esame, il novero dei tributi armonizzati – poiché rientrante nella competenza del legislatore comunitario – costituisce l’ambito privilegiato nel quale trova applicazione il principio generale del contraddittorio, appunto in quanto espressione del diritto dell’Unione. Diversamente, quanto ai tributi non armonizzati (poiché al di fuori dell’ambito di competenze dell’Unione), tale principio generale di matrice comunitaria non trova applicazione, se non nei casi tassativamente previsti (dalle norme interne). 8. (Segue): e la sua (scarsa) significatività ai fini dell’applicazione del principio (comunitario) del contraddittorio preventivo. – Come sopra osservato, i giudici di legittimità distinguono i tributi in “armonizzati” (ai quali si

(58) Sotto quest’ultimo profilo si veda Corte giust., sent. 3 luglio 2014, causa C-130/13, Kamino. (59) Cfr. Cass., ss.uu., n. 24823/2015, par. 6.1. (60) Cfr. Cass., ss.uu., n. 24823/2015, par. 6.1., ove poi si aggiunge che nel campo dei tributi armonizzati l’obbligo del contraddittorio assume, invece, rilievo generalizzato (cfr. il successivo par. 6.3.).


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applica de plano il principio del contraddittorio) e “non armonizzati” (ai quali il principio non si applica). Tuttavia, a ben vedere, pare a chi scrive che tale novero dei tributi armonizzati non esaurisca, di per sé, l’ambito delle competenze (anche solo materiali) del legislatore comunitario (61), quanto meno ai fini che in questa sede interessano. È infatti fin troppo noto, da tempo, che il legislatore comunitario ha ritenuto di intervenire anche in materia di imposte dirette, allorquando queste assumano una rilevanza tale da mettere in discussione il funzionamento del mercato unico, ovvero tale da ostacolare l’esercizio delle quattro libertà fondamentali garantite dall’ordinamento comunitario (62). Del pari, anche la Corte di Giustizia è sempre più frequentemente intervenuta allorquando essa abbia ritenuto anche solo messi in pericolo i diritti (insopprimibili) che stanno alla base dell’ordinamento dell’Unione (63). A quest’ultimo riguardo, a titolo esemplificativo, si veda poi quanto affermato con riferimento al principio di non discriminazione (64) ovve-

(61) Ambito delle competenze che – vale ribadire – ha consentito alle Sezioni Unite del 2015 di affermare che il diritto dell’Unione trova diretta applicazione rispetto al (solo) novero dei tributi armonizzati. (62) Ci si riferisce alla libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali. (63) È infatti ormai nota posizione espressa dalla Corte di Giustizia secondo cui essa ritiene di poter intervenire anche su questioni che riguardano tematiche formalmente ricomprese nelle competenze dei singoli Stati membri (es. imposte dirette), giacché questi ultimi devono in ogni caso esercitare le loro competenze nel rispetto del diritto dell’Unione. Sul punto si vedano, senza pretesa di esaustività, a partire dalla ormai nota Corte giust., 14 febbraio 1995, causa C-279/93, Schmacker; Corte giust., 22 ottobre 2014, cause C-344/13 e C-367/13; Corte giust., 23 gennaio 2014, causa C-296/12; Corte giust., 6 giugno 2013, causa C-383/10. (64) Non a caso, la prima decisione in assoluto in materia di imposte dirette resa dalla Corte di Giustizia riguarda proprio il divieto di discriminazione (cfr. Corte Giust., sent. 28 gennaio 1986, C-270/83, Avoir Fiscal). Si noti poi che tale divieto è stato successivamente dalla giurisprudenza precisato anche in termini indiretti, mediante forme occulte o dissimulate, i cui effetti lesivi ben possono essere giudicati non solo in termini effettivi ma anche di mera potenzialità. In tal senso P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2017, 133, il quale sottolinea che il principio di non discriminazione può essere inteso (estensivamente) anche solo come semplice rischio di produrre un’alterazione dell’assetto concorrenziale. Per quanto concerne poi la libertà di stabilimento, di cui all’art. 49 TFUE, e il conseguente diritto di svolgere attività in altro Stato membro alle stesse condizioni previste dalla normativa di detto altro Stato membro di stabilimento per i propri cittadini in guisa tale che la libera scelta della forma giuridica più appropriata per l’esercizio dell’attività nell’altro Stato membro di stabilimento non sia limitata da disposizioni tributarie discriminatorie si veda, di recente, anche Corte di Giustizia, sent. 17 maggio 2017, X, C-68/15, EU:C:2017:379, punto 40 e la giurisprudenza ivi citata. E, peraltro, debbono essere considerate restrizioni alla libertà di stabilimento tutti i provvedimenti che vietano, ostacolano o rendono meno attraente l’esercizio di tale libertà (cfr. Corte Giustizia, sent. 8 marzo 2017, Euro Park Service, C-14/16,


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ro, più recentemente, con riferimento al principio di non restrizione (inteso come divieto di attuare restrizioni ad una delle quattro libertà comunitarie, indipendentemente dagli effetti distorsivi prodotti da una regola discriminatoria) (65). Basti infatti pensare – tanto per rimanere alla dimensione sostanziale – agli interventi normativi in materia di trattamento fiscale, ai fini delle imposte sui redditi, delle operazioni di riorganizzazione transfrontaliera (Dir. n. 434/90), ovvero agli interventi in materia di tassazione dei dividendi tra società madri e figlie comunitarie (Dir. n. 435/90) (66), o, ancora, agli interventi in materia di tassazione di interessi e royalties fra società consociate di stati membri diversi (Dir. n. 49/2003) (67) o, ancora, agli interventi della Corte di Giustizia

EU:C:2017:177, punto 59 e la giurisprudenza ivi citata). (65) Su cui P. Boria, Diritto tributario europeo, cit., 134, il quale sul punto osserva che tale tendenza giurisprudenziale produce un sensibile allargamento del giudizio di compatibilità comunitaria delle norme fiscali nazionali. (66) A quest’ultimo proposito, è appena il caso di annotare che la Corte di Giustizia UE, nella recente sentenza 7 settembre 2017, Causa C-6/16, sul caso Eqiom, riferita alla normativa francese sulla disciplina relativa alla corresponsione di dividendi da società figlia a società madre, ha censurato la legge francese per violazione del principio di proporzionalità: ritenendo illegittima una norma che istituisce una presunzione generale di frode, pregiudicando così l’obiettivo di evitare la doppia imposizione. Il principio statuito dalla Corte, a ben vedere, non consiste nel pretendere che gli Stati membri rendano più puntuali i presupposti delle norme antielusive, ma, più semplicemente, si risolve nell’imporre agli organi delle amministrazioni fiscali di individuare, caso per caso, gli elementi da porre a base della presunzione di abuso, quindi anche all’esito di un contraddittorio endoprocedimentale. Difatti, anche se i presupposti delle norme antielusive o antiabuso fossero specifici, secondo la Corte si tratterebbe comunque di “presunzioni generali” che, come tali, impongono di essere verificate con riferimento al singolo caso concreto. In questo senso, è dunque sempre necessario un esame delle circostanze del singolo caso qualora sussista un fondato principio di sospetto. Solo così il contribuente sarà messo in condizione di superare la contestazione dell’abuso. In questa chiave dunque, con riferimento al tema che ci occupa, seppure si controverta in materia di imposte dirette (tributi non armonizzati), è però evidente che il principio del contraddittorio preventivo, ancorché non espressamente previsto dalle singole disposizioni antielusive interne riferite a operazioni intracomunitarie, deve essere necessariamente osservato. (67) Ora, è pur vero che i richiamati interventi in materia di imposte sui redditi sono stati realizzati attraverso lo strumento della direttiva che, come noto, non può di per sé creare obblighi a carico del singolo e, dunque, non può essere fatta valere in quanto tale davanti ad un giudice nazionale fino a quando essa non sia stata recepita nel diritto nazionale del singolo Stato membro, a meno che la direttiva non contenga disposizioni self executing (ovvero incondizionate e sufficientemente chiare e precise da poter essere fatte valere direttamente), ma è anche vero che quanto stabilito in materia con direttiva costituiva già principio dell’Unione e ha trovato, anche precedentemente all’emanazione di singole regole di diritto comunitario c.d. “secondario”, il proprio riconoscimento nella giurisprudenza della Corte di Giustizia (cfr. la già richiamata Corte Giust., sent. 28 gennaio 1986, C-270/83, Avoir Fiscal), peraltro, a volte, anche


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in materia di exit taxes (68). Tanto è vero che, con i ricordati interventi, il legislatore comunitario (come pure, dal canto suo, la Corte di Giustizia) ha inteso perseguire un’armonizzazione (sotto il profilo sostanziale) delle discipline interne dei singoli stati membri in alcuni particolari settori, ancorché riferiti alle imposte dirette che, come noto, più di altri tributi sono gelosamente custoditi perché meglio riflettono la sovranità fiscale dei singoli stati (69). Peraltro, si noti poi che proprio in materia di imposte dirette risulta più evidente il carattere “creativo” della giurisprudenza della Corte di Giustizia che, in tal modo, supplisce alla mancanza di norme di riferimento, talvolta integrando la disciplina legislativa esistente (70). 9. Alcuni spunti ricostruttivi forniti dalla giurisprudenza comunitaria in tema di divieto di abuso del diritto. – Sotto altro profilo, allargando ora lo sguardo alla giurisprudenza comunitaria resa con riferimento all’ambito di applicazione del principio comunitario che vieta l’abuso del diritto (tributario), è di tutta evidenza la tendenza a superare la tradizionale impostazione secondo la quale il principio generale in parola si intende operare con riferimento al (solo) novero dei prelievi armonizzati. Difatti, come pure recentemente messo in luce dalla stessa Corte di Giustizia (cfr. sent. 22 novembre 2017, causa C-251/16), il principio che vieta l’abuso del diritto, ancorché configurato come obiettivo riconosciuto e promosso dalla Sesta direttiva Iva, non per questo autorizza a ritenere che la relativa applicazione presupponga anche la (previa) trasposizione (del principio) nel diritto interno, al pari delle disposizioni della direttiva. E soprattutto, essendo il principio in discorso stato affermato in diverse materie del diritto comunitario, indipendentemente dall’espressa previsione in regolamenti o direttive, esso viene ad assumere carattere generale al pari dei principi generali del diritto dell’Unione (71).

al di fuori della sola materia fiscale. (68) Cfr. Corte giust., 29 novembre 2011, causa C-371/10, National Grid Indus. (69) Un tale processo risulta comunque giustificato dalla regola generale di cui all’art. 115 TFUE, in ragione del quale è possibile procedere al ravvicinamento delle legislazioni nazionali nella misura in cui ciò sia necessario, o comunque utile, rispetto al processo di instaurazione del mercato comune. Cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, cit., 92 s., ove la precisazione che la norma di cui all’art. 115 TFUE è stata altresì interpretata come il fondamento assiologico della utilizzazione di raccomandazioni ed in genere di meccanismi di soft law rivolti agli stati membri aventi ad oggetto il progressivo avvicinamento delle disposizioni relative alle imposte sul reddito. (70) Cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, cit., 136. (71) Cfr. Corte di Giustizia, 22 novembre 2017, nella causa C-251/16, ove si aggiunge


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Da quanto ora osservato consegue che i principi generali del diritto europeo, in quanto tali, debbono trovare applicazione in tutti gli ambiti in cui il diritto comunitario si applica e, dunque, non solo con riferimento al novero dei tributi armonizzati ma anche con riferimento ai tributi non armonizzati, beninteso allorquando la concreta fattispecie di cui si controverta rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione (72). E difatti, ad esempio, in questa prospettiva, secondo la Corte di Giustizia il principio generale del diritto comunitario, secondo il quale nessuno può beneficiare abusivamente o fraudolentemente dei diritti derivanti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, deve essere interpretato restrittivamente, in quanto esso costituisce deroga alle disposizioni dell’ordinamento europeo e, pertanto, le eventuali presunzioni generali di frode o di abuso (seppure dettate con riferimento alle imposte dirette) non possono giustificare un provvedimento che pregiudichi (radicalmente) gli obiettivi di una direttiva, ovvero l’esercizio di una delle libertà fondamentali garantite dal Trattato (73).

che il diniego di un diritto o beneficio in ragione di fatti abusivi o fraudolenti non necessita di una base giuridica specifica. Talché, secondo la medesima sentenza, il principio (generale) del divieto di pratiche abusive deve essere interpretato nel senso che, indipendentemente da una misura nazionale che ad esso dia attuazione nell’ordinamento giuridico interno, il medesimo può essere direttamente applicato, anche a fattispecie realizzate prima della pronuncia della sentenza 21 febbraio 2006, Halifax, (C-255/02, EU: C: 2006: 121), senza che vi ostino i principi della certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento. (72) È il caso, ad esempio, in una dimensione procedimentale, della disciplina comunitaria sullo scambio di informazioni fra Stati membri, sebbene in materia di imposte dirette (cfr. Corte giust., 22 ottobre 2013, causa C-276/12, Sabou, su cui P. Mastellone, L’Unione europea non riconosce participation rights al contribuente sottoposto a procedure di mutua assistenza amministrativa tra autorità fiscali, in Riv. dir. trib., 2013, IV, 349 ss.); come pure, per quanto attiene la dimensione sostanziale, è il caso delle controversie intorno al trattamento fiscale da riservare agli utili distribuiti – su base intracomunitaria – da una società figlia alla propria madre (su cui si veda la giurisprudenza comunitaria citata nelle note che precedono). (73) Cfr. Corte di Giustizia, 7 settembre 2017, nella causa C-6/16, ove si aggiunge che, per verificare se un’operazione persegue un obiettivo di frode e di abuso, le autorità nazionali competenti non possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma devono procedere, caso per caso, ad un esame complessivo dell’operazione interessata. Talché – sempre secondo la medesima Corte di Giustizia – l’introduzione di un provvedimento fiscale di portata generale che escluda automaticamente talune categorie di contribuenti dall’agevolazione fiscale, senza che l’amministrazione sia tenuta a fornire il benché minimo principio di prova o indizio di frode e abuso, eccede quanto necessario per evitare le frodi e gli abusi. Più in particolare, a detta della Corte, subordinando l’esenzione dalla ritenuta alla fonte degli utili distribuiti da una società figlia residente alla propria società madre non residente alla condizione che tale società madre dimostri che la catena di partecipazioni non abbia come fine principale, o fra i propri fini


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Pertanto – come chiarito dalla stessa Corte – ciò non significa che gli stati membri debbano rendere (ancora) più puntuali le varie norme antielusive, ma, più semplicemente, equivale a dire che le singole amministrazioni fiscali debbano, caso per caso, verificare gli elementi concreti da porre a base della presunzione di abuso (74). E – sia consentito osservare – al fine di innalzare il grado di verosimiglianza della pretesa fiscale non c’è migliore verifica, caso per caso, rispetto a quella che si attua attraverso un effettivo contraddittorio endoprocedimentale (peraltro da tempo positivizzato nella norma, interna, che afferma il principio generale che vieta l’abuso del diritto (75)). Invero, tanto più è intenso il carattere autoritativo della pretesa, nonché incisiva la (ri)qualificazione della rappresentazione dell’obbligazione tributaria originariamente offerta dal contribuente, e tanto più, anche in chiave di riequlibio, deve essere assicurato al destinatario dell’atto della finanza prospettare, anzitutto all’interno del procedimento, le sue ragioni (76). E ciò, come si vedrà subito dopo, non tanto (e comunque non solo) in una prospettiva difensiva degli interessi del contribuente, quanto, piuttosto, nell’interesse stesso dell’a.f. perché, come appena accennato, una pretesa frutto di un effettivo confronto fra le parti è tendenzialmente dotata di un più elevato grado di verosimiglianza rispetto a quanto non lo sia una pretesa che di tale confronto non abbia potuta giovarsi (77).

principali, quello di trarre vantaggio da tale esenzione, senza che l’amministrazione sia tenuta a fornire il benché minimo principio di prova di frode e di abuso, la normativa di cui trattasi finisce così per istituire una presunzione generale di frode e di abuso e, dunque, in tal modo pregiudica l’obiettivo perseguito dalla direttiva sulle società madri e figlie, ossia prevenire la doppia imposizione (cfr., in partic. punti 32 e 36). (74) Cfr. Corte di giustizia UE, sentenza 7 settembre 2017, Causa C-6/16, Eqiom. (75) Cfr. il previgente art. 37-bis, quarto comma, del d.p.r. n. 600/1973. (76) Cfr. M. Miccinesi, Riflessioni sull’abuso del diritto, in Aa.Vv., Scritti in onore di E. De Mita, Napoli, 2013, 604; F. Tundo, La mancata instaurazione del contraddittorio su un’ipotesi potenzialmente elusiva rende nullo il successivo atto impositivo, in GT – Riv. giur. trib., 2012, 639; A. Renda, Il contraddittorio quale nucleo insopprimibile di rilievo sostanziale nell’ambito del procedimento tributario, le conferme della giurisprudenza comunitaria e di legittimità, in Dir. prat. trib., 2015, II, 648. (77) Peraltro, come si vedrà subito appresso, l’audizione e l’intervento dell’interessato (o, per quanto in questa sede rileva, del contribuente) è indubbiamente strumentale alla realizzazione piena dell’interesse della p.a. (segnatamente dell’a.f.) – come noto retto dal principio di cui all’art. 97 Cost. (all’interno del quale, fra l’altro, il contradittorio si colloca) – la cui azione deve perseguire l’(imparziale) attuazione della legge. Argomentando a contrario è infatti stato osservato che l’obliterazione del contraddittorio (endoprocedimentale) è quindi contraria sia al principio di “imparzialità” che a quello di “buon andamento” della p.a.,


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Difatti, in una prospettiva interna, invero perfettamente compatibile con quella comunitaria, specie se si ha riguardo al principio della buona amministrazione di cui all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (78), un effettivo contraddittorio preventivo certamente contribuisce ad elevare l’attendibilità, la fondatezza e la sostenibilità della pretesa fiscale contenuta nel provvedimento impositivo (79), e ciò, appunto, anche in attuazione del principio di imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa di cui all’art. 97 Cost. (80), di cui lo statuto dei diritti del contribuente – così come

giacché il primo impone che l’amministrazione, prima di provvedere, accerti diligentemente la situazione di fatto e il secondo impone di evitare l’emissione di accertamenti “al buio”, come tali suscettibili di essere modificati o ritirati alla luce degli elementi successivamente offerti dal contribuente. Cfr. G. Marongiu, La necessità del contraddittorio nelle verifiche fiscali “tutela” del contribuente, in Corr. trib., 2010, 3052. (78) Tale principio si concretizza nel diritto all’imparzialità, all’equità di trattamento e, infine, al contraddittorio in chiave difensiva. (79) Sulla rispondenza del contraddittorio agli interessi della stessa a.f., si veda P. Russo, Le conseguenze del mancato rispetto del termine di cui all’art. 12, ultimo comma, della legge n. 212/2000, in Riv. dir. trib., 2011, I, 1087 ss. (80) Sull’assoluta centralità dell’art. 97 Cost., nella dottrina e nella giurisprudenza, nonché sul ruolo cardine del principio in parola nella prospettiva della profonda evoluzione del rapporto tributario, sia per quanto attiene la dimensione della struttura organizzativa, sia per quanto attiene la dimensione dell’azione amministrativa, si veda M. Trivellin, Art. 97 Cost., in G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu, F. Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie, Tomo I, Diritto costituzionale tributario e Statuto del contribuente, a cura di G. Falsitta, 323 ss., ove si evidenzia come il principio in discorso sia oggi inteso come portatore del dovere di adozione di criteri di equità, di buona fede e di parità di trattamento in chiave di qualificazione dell’attività amministrativa come tesa alla soddisfazione di fini pubblici. In questo quadro, secondo la dottrina appena citata, i poteri pubblici non vanno considerati come mero strumento per perseguire interessi “di parte”, ma si legittimano perché il fine specifico dell’azione amministrativa è rivestito di un grado superiore di “dignità” che deriva dal fatto che esso si sposa e si contempera con un fine di giustizia (affinché la soluzione concreta possa risultare adeguata alla esigenza di giustizia sostanziale); ove ulteriori riferimenti. Ancora, secondo l’Autore ora citato, l’art. 97 Cost. si armonizza pienamente con il significato che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea attribuisce al concetto di “buona amministrazione” che, all’art. 41, viene qualificata come diritto cui si collegano ulteriori garanzie del singolo, in particolare sotto il profilo dell’imparzialità e della ragionevolezza oltre che, per quanto qui interessa, del contraddittorio. Cfr. M. Trivellin, Art. 97 Cost., cit., 326 cui, infine, non sfugge il ruolo che all’art. 97 Cost. è assegnato in termini di principio dotato di una spiccata valenza interpretativa nella soluzione di concreti problemi applicativi, anche in chiave di conformazione del diritto interno al diritto comunitario, specie con riguardo alle regole processuali o procedimentali, concorrendo tale norma costituzionale ad assicurare il rispetto del principio di effettiva applicazione del diritto sovranazionale. Da ultimo, con particolare riferimento al contraddittorio, l’art. 97 Cost. sembra infatti accompagnare il passaggio verso una progressiva consapevolezza della connotazione di esso (contraddittorio) come principio generale


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per altri principi costituzionali – è per buona parte esso stesso incarnazione (81). Tanto è vero che, seppure in una prospettiva interna, già in passato (anche prima della codificazione dell’abuso del diritto all’interno dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000), la stessa giurisprudenza di legittimità, aveva più volte ritenuto che l’applicazione del principio generale (di derivazione comunitaria) che vieta l’abuso del diritto potesse estendersi anche a fattispecie non tipizzate dalla legge ma, in questi casi, senza consentire all’a.f. di trascurare il diritto del contribuente ad essere previamente sentito per potersi giustificare, indipendentemente dalla natura, armonizzata o meno, dei relativi tributi (82). Da ciò, ulteriormente, consegue che il diritto del contribuente al contraddittorio preventivo – quale espressione del relativo principio generale affermato in sede comunitaria – deve poter trovare applicazione, ai fini della corretta attuazione del diritto eurounionale, in tutte le situazioni che risultano disciplinate dal diritto dell’Unione, e quindi anche nei casi in cui si discuta dell’applicazione (ad

dell’azione dell’amministrazione finanziaria nella fase istruttoria, dotando così di coperatura costituzionale il principio (interno) del “giusto procedimento”. E ciò anche nella prospettiva servente, laddove, come accennato nel testo, il contraddittorio ha comunque la funzione di assicurare il potenziamento delle capacità conoscitive dell’a.f. Così M. Trivellin, Art. 97 Cost., cit., 327 ss., ove richiami di dottrina, anche in chiave critica rispetto all’orientamento della giurisprudenza costituzionale che ha in passato negato la rilevanza costituzionale del principio del contraddittorio. In senso analogamente critico si veda pure L. Buffoni, Il rango costituzionale del “giusto procedimento” o l’archetipo del “processo”, paper del Forum di Quaderni costituzionali in www.forumcostituzionale.it. (81) Nella prospettiva interna, sulla partecipazione del contribuente alla stregua delle disposizioni della legge 212/2000 (a loro volta attuative dell’art. 97 Cost.), oltre agli autori in precedenza già citati, si vedano: R. Miceli, La partecipazione del contribuente alla fase istruttoria, in AA.VV., Lo statuto dei diritti del contribuente, A. Fedele – A. Fantozzi (a cura di), Milano, 2005, 673 ss.; F. Gallo, Contraddittorio procedimentale e attività istruttoria, in Dir. prat. trib., 2011, I, 467; G. Marongiu, Diritto al contraddittorio e statuto del contribuente, in Dir. prat. trib., 2012, I, 613; L. Del Federico, L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’amministrazione di risultato, in Riv. trim. dir. trib., 2013, 859. È tuttavia da precisare che, pur essendo lo statuto del contribuente attuativo di principi costituzionali, esso non per questo assume il ruolo di parametro di legittimità costituzionale. In ogni caso è indubbio che – come affermato da autorevole dottrina – l’affermazione (o riproduzione) testuale di un principio ad opera della norma (in specie dello statuto), vale ad assicurare una maggiore incidenza pratica del principio stesso, imponendone la considerazione e sollecitando riferimenti e argomentazioni in ogni atto o fase dell’attuazione dei tributi. Cfr. A. Fedele, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, in Riv. dir. trib., 2013, I, 888. (82) Tra le tante, si vedano Cass. n. 25759/14 e n. 406/2015, curiosamente richiamate dalla stessa Cass. ss.uu., 24823/2015 (cfr. par. 4.2.), secondo cui, appunto, in tema di imposte dirette, l’obbligo del contraddittorio di cui al quarto comma dell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973, deve ritenersi operante anche in relazione agli accertamenti basati su fattispecie atipiche di abuso del diritto.


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esempio attraverso l’invocazione del principio che vieta l’abuso del diritto, con riferimento) ai tributi non armonizzati (es. imposte dirette) (83). Opinare diversamente significherebbe consentire all’amministrazione fiscale di escludere (o anche solo limitare) il diritto del contribuente (o comunque dell’amministrato) di godere di determinati vantaggi che possano incidere sull’esercizio di una delle quattro libertà fondamentali, ovvero dei diritti, garantiti dal diritto europeo (su cui, più in dettaglio, infra) (84), e ciò sulla base dell’unico (e peraltro non conducente) criterio distintivo costituito dalla tipologia di tributo (armonizzato ovvero non armonizzato) (85). Insomma, se si vuole evitare di incorrere in una ulteriore aporia, stavolta derivante dalla restrittiva applicazione del principio del contraddittorio preventivo di matrice comunitaria, è inevitabile riconoscere come si debba estenderne la portata anche oltre il novero dei tributi armonizzati per abbracciare tutte quelle fattispecie in cui venga in rilievo l’esercizio (quanto meno) di una delle quattro libertà fondamentali, ovvero di uno dei diritti garantiti dal diritto dell’Unione (86), ancorché in concreto riferito a tributi non armonizzati (87).

(83) Cfr., ancora, Corte di Giustizia, 7 settembre 2017, nella causa C-6/16. (84) Peraltro, scorrendo la giurisprudenza comunitaria in materia di principio del contraddittorio, è dato osservare che il relativo diritto è stato riconosciuto, oltre che nel settore tributario, negli ambiti più disparati; ad esempio: in materia di pubblico impiego, di tutela della libera concorrenza, con riferimento all’accesso ai fondi europei, in relazione alle misure restrittive a tutela della sicurezza pubblica, con riferimento al diritto alla salute, ecc. Per una rassegna delle relative sentenze della Corte di Giustizia si veda pure R. Iaia, Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario nell’ordinamento dell’unione europea. Riflessi nel diritto nazionale, cit., 62. (85) Ritiene il contraddittorio una “regola generale”, propria non solo della fase processuale ma anche di quella procedimentale, a prescindere dalla sua previsione espressa e che, in quanto espressione di un principio munito di valenza comunitaria, dispiega i suoi effetti anche nel diritto interno, indipendentemente dal tipo di tributo (armonizzato o meno), A. Colli Vignarelli, Il contraddittorio endoprocedimentale e l’“idea” di una sua “utilità” ai fini dell’invalidità dell’atto impositivo, cit., 29. La citata dottrina, poi, ritiene che la soluzione accolta dalle Sezioni Unite del 2015 finisce per determinare un’irragionevole discriminazione, non solo fra tributo e tributo, ma anche tra tipo di accertamento in concreto seguito dall’Ufficio qualora si tratti di prelievi non armonizzati (si pensi infine al caso in cui, con un unico atto impositivo, l’a.f. rettifichi – senza garantire il contraddittorio – tributi armonizzati e non armonizzati). (86) In via di prima approssimazione è possibile considerare sia gli stessi diritti proclamati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia), ma anche, più in generale, tutti i diritti derivanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, come pure i diritti riconosciuti dalla Corte di Giustizia, ovvero dalla Corte Edu, beninteso nella misura in cui essi rilevino nell’attuazione di un dato prelievo tributario, sia esso armonizzato o meno. (87) Più in particolare, di immediata rilevanza rispetto al fenomeno tributario, è possibile


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Più in dettaglio, quanto alla concreta individuazione di tali diritti “garantiti”, oltre al già menzionato diritto a non essere fatto oggetto di discriminazioni, ovvero di restrizioni, beninteso rispetto all’esercizio di un determinato diritto o di una delle quattro libertà più volte richiamate (persone, merci, servizi e capitali), a noi sembra che possano senz’altro individuarsi anche quei diritti che risultano volti a garantire la tutela di posizioni giuridiche soggettive attive come, ad esempio, il diritto alla certezza giuridica, alla tutela dell’affidamento e della buona fede, il diritto al rispetto del domicilio e della corrispondenza, il diritto al giusto procedimento, al giusto processo o, se si vuole, il diritto alla buona amministrazione e il diritto ad un equo processo o, più genericamente, il diritto di difesa, peraltro tutti da inquadrarsi anche alla luce del più generale principio di proprzionalità (88), come pure in relazione alla protezione che, in ambito europeo, è accordata al diritto di proprietà (89).

considerare, azitutto, i principi comunitari c.d. “ordinamentali” (es.: sussidiarietà, effettività, proporzionalità, leale collaborazione fra stati), ovvero quelli fondamentali che garantiscono la tutela di posizioni giuridiche soggettive (es.: certezza giuridica, tutela dell’affidamento e della buona fede, giusto procedimento, giusto processo o, se si vuole, diritto alla buona amministrazione e diritto ad un equo processo e diritto di difesa). Per un esame del principio europeo del contraddittorio alla luce del principio di proporzionalità si veda F. Amatucci, L’autonomia procedimentale tributaria nazionale ed il rispetto del principio europeo del contraddittorio, cit., 257 ss. Peraltro, si noti che la natura dinamica dell’ordinamento comunitario realizza una progressiva cessione di sovranità tributaria in vista del raggiungimento degli obiettivi ultimi dell’integrazione sovranazionale piena da parte degli stati membri dell’Unione. Talché la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha sviluppato una serie di principi – riflessi anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – che producono i loro effetti pure in materia tributaria (con particolare riferimento al sistema delle imposte dirette), seppur attraverso un processo di integrazione negativa. Cfr. P. Pistone, Diritto tributario internazionale, Torino, 2017, 25 s. (88) Cfr. C. Califano, Principi comuni e procedimento tributario: dalle tradizioni giuridiche nazionali alle garanzie del contribuente, in Riv. dir. trib., 2014, I, 993 ss., in partic. 1022 ss., ove una particolare enfasi è riservata ai principi del contraddittorio e di proporzionalità. Quest’ultimo, in particolare, è ritenuto dall’Autore assurgere a vero e proprio diritto azionabile, specie in presenza di settori non oggetto di armonizzazione (cfr. C. Califano, Principi comuni e procedimento tributario: dalle tradizioni giuridiche nazionali alle garanzie del contribuente, cit., 1032, cui si rinvia per gli opportuni riferimenti, anche giurisprudenziali). (89) Cfr. art. 1 Protocollo n. 1 al Trattato Edu. Sul punto, è appena il caso di ricordare che la materia fiscale non è estranea all’ambito dell’art. 1 Protocollo n. 1, talché risulta applicabile anche l’art. 14 del medesimo Trattato EDU sul divieto di discriminazione, con l’ulteriore effetto di consentire alla Corte Edu di trattare, sotto il profilo del divieto di discriminazione e con i relativi criteri, questioni relative all’applicazione di prelievi tributari e previdenziali che, in sé considerati, come noto, vedrebbero l’estrema prudenza della Corte nel sindacare le scelte dei singoli Stati che non siano manifestamente prive di ragionevole giustificazione. Cfr. V.


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10. (Segue): le ricadute anche nella prospettiva interna. – Seguendo ora la prospettiva appena indicata, ed accogliendo altresì gli spunti offerti da alcuni recenti arresti della giurisprudenza comunitaria (90), sembra utile svolgere ulteriori considerazioni intorno ad alcune norme interne a carattere antielusivo, dettate per contrastare talune specifiche fattispecie (ad esempio con riferimento al trasferimento di utili da entità collocate in paesi black listed), norme tuttavia prive di un esplicito riconoscimento del diritto al contraddittorio (diversamente quindi da quanto previsto in sede di norma generale di cui all’art. 10-bis della legge n. 212/2000 che, appunto, tale contraddittorio già prevede). Il riferimento è alla disciplina degli utili da partecipazione provenienti da società residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata di cui all’art. 47, comma 4, del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, ovvero alla disciplina dei dividendi e interessi di cui all’art. 89, comma 3, del medesimo d.p.r. n. 917/1986. O, ancora, pensi alla disciplina dell’esterovestizione di cui all’art. 73, commi 5-bis e 5-ter, del predetto d.p.r. n. 917 (91). Ebbene, nella misura in cui tali norme – peraltro dettate con riferimento al sistema delle imposte dirette – si prestano ad essere applicate anche nei rapporti intracomunitari (92), certamente si pone la questione del riconoscimento o meno del diritto al contraddittorio nei casi in cui l’a.f. abbia proceduto, in chiave antielusiva, nei termini previsti dalla relativa norma. Ebbene, nei casi sopra indicati, assumendo il diritto al contraddittorio preventivo un indubbio rilievo – seppur nel più ampio (ma comunque pur sempre limitato) ambito dell’esercizio di una delle quattro libertà garantite dal diritto europeo ovvero, se si preferisce, rispetto all’esercizio della libertà di stabilimento (ancorché con riferimento all’applicazione di tributi non armonizzati)–, esso non potrà non trovare diretta applicazione anche all’interno dell’ordinamento nazionale quando, in difetto, risulterebbe in-

Zagrebelsky, R. Chenal, L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, Bologna, 2016, 359, ove riferimenti. (90) Su cui si veda quanto già richiamato nel contesto del paragrafo precedente. (91) Diverso è il caso della disposizione di cui all’art. 167 del medesimo Tuir, in materia di imprese estere controllate, che invero, al comma 8-quater, fa obbligo all’amministrazione finanziaria, prima di procedere all’emissione del provvedimento impositivo, di notificare all’interessato un apposito avviso con il quale viene concessa al medesimo la possibilità di fornire, nel termine di novanta giorni, le prove per la disapplicazione della norma antielusiva altrimenti ad esso applicabile. (92) Ad esempio nell’ipotesi in cui la controllata comunitaria che distribuisce i dividendi abbia una stabile organizzazione in un Paese black listed.


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giustificatamente limitata anche una sola delle prerogative di cui alle situazioni soggettive attive tutelate dal diritto dell’unione (ad esempio: certezza giuridica, tutela dell’affidamento e della buona fede, giusto procedimento, giusto processo o, più genericamente, diritto di difesa); e tale applicazione del principio in discorso dovrebbe poter essere riconosciuta anche senza passare necessariamente per il filtro costituito dalle “regole” di cui all’art. 12, comma 7, ovvero all’art. 10-bis, comma 6, dello statuto dei diritti del contribuente (93). Comunque, quandanche – discostandosi dall’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato – si ritenesse di non potersi prescindere (al fine della concreta attuazione della tutela costituita dal suddetto diritto al contraddittorio) dall’applicazione di una qualche espressa regola di azione (94), potrà applicarsi, per via analogica, la disposizione di cui all’art. 12, comma 7, più volte citata, ovvero quella di cui all’art. 10-bis, comma 6, della medesima

(93) Difatti, secondo la Corte di Giustizia, premesso che si è costituito un consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria secondo cui il rispetto dei diritti della difesa, in qualsiasi procedimento che possa concludersi con un atto lesivo per il relativo destinatario, costituisce un principio fondamentale che dev’essere garantito anche se non vi è una normativa specifica, ciò significa che sussiste il diritto del contribuente ad essere ascoltato prima dell’emanazione di un provvedimento che possa incidere sui propri interessi; e tale diritto può essere fatto valere immediatamente dinanzi ai giudici nazionali (Corte Giust. sent. 3 luglio 2014, causa C-130/13, Kamino). Sul punto è appena il caso di osservare che, anche a mente dell’art. 1, comma 1, legge 7 agosto 1990, n. 241, l’attività amministrativa – ivi compresa quella tributaria – deve svolgersi, tra l’altro, secondo i principi dell’ordinamento comunitario che, in ogni caso, rilevano già per il tramite dell’art. 117 Cost. E ciò indipendentemente dall’oggetto del tributo. Sul tema dell’applicabilità della L. 241/90 al procedimento tributario si veda, da ultimo, A. Colli Vignarelli, Mancata considerazione delle osservazioni del contribuente e invalidità dell’atto impositivo art. 12, comma 7, Statuto del contribuente, in Riv. dir. trib., 2014, I, 681; A. Carinci – D. Deotto, Il contraddittorio tra regola e principio, cit., 207 ss. Infine, sul vulnus rispetto all’art. 3, primo comma, Cost., in termini di discriminazione a rovescio, qualora all’art. 1, primo comma, della L. 241/1990 sopra ricordata non fosse riconosciuta applicazione anche al di fuori del novero dei tributi armonizzati, si veda ancora R. Iaia, Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario nell’ordinamento dell’unione europea, cit., 94 ss., ove la critica alla giurisprudenza delle Sezioni Unite del 2015 che, sul punto, limita l’operatività del diritto al contraddittorio (ove non anche espressamente previsto) ai soli tributi armonizzati. (94) Si veda l’impostazione secondo cui l’attuazione del principio richiede comunque una disciplina interna per poter essere effettivamente realizzata nei rapporti giuridici, con la conseguenza che i principi appaiono dotati di effetto diretto ma non anche di diretta applicabilità (cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, cit., 289. È questa l’impostazione anche di R. Miceli, Il contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie: un principio generale senza disciplina di attuazione, in Riv. dir. trib., 2016, I, 345 ss.).


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legge n. 212/2000, in quanto regolanti casi simili o materie analoghe a quelle che qui occupano (95). In quest’ultimo caso, ai fini della verifica degli effetti sull’atto per come derivanti dalla violazione del principio del contraddittorio, data la matrice comunitaria del principio in parola, si imporrà di verificare che il contribuente abbia altresì debitamente assolto l’onere di enunciare in concreto le ragioni (non meramente pretestuose) che avrebbe potuto far valere qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato. Da ultimo, nella medesima prospettiva interna ora esaminata, fermo restando il rilievo che va riconosciuto al principio comunitario in discorso così come declinato dalla giurisprudenza sopra ricordata, non è senza importanza osservare che una simile ricostruzione si pone in rapporto di reciproca (e sinergica) integrazione con il principio – tutto interno – dell’imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. (96). Difatti quest’ultimo principio, come poco sopra accennato, tutela in buona parte gli stessi interessi che il medesimo sistema comunitario intende patrocinare (97). Talché in definitiva, così come prospettato, pare a chi scrive che il ricorso all’analogia varrebbe ad assicurare la conformazione della regola, così come ricavabile all’esito dell’integrazione della norma (la cui corrispondente disposizione risulta comunque sul punto silente (98)), rispetto al principio: sia esso rintracciato in ambito comunitario (ad esempio nell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali), ovvero in ambito interno (quale declinazione del principio di cui all’art. 97 Cost.) o ancora, qualora ritenuto inespresso, comunque desumibile in ragione della coerenza sistematica della trama nor-

(95) Per la verità, la disposizione di cui all’art. 10-bis sembra la più completa, perché specifica dettagliatamente il procedimento che l’Ufficio deve seguire, ad esso imponendo anche un obbligo di motivazione c.d. “rafforzata”. E ciò pare più pertinente anche in relazione a quanto statutito dalla giurisprudenza comunitaria in precedenza più volte richiamata. È infine appena il caso di osservare che una simile ricostruzione è altresì pienamente coerente con la ricostruzione della giurisprudenza di legittimità secondo cui – sotto il vigore del previgente art. 37-bis del d.p.r. n. 600/1973 – anche in caso di contestazione di comportamenti abusivi in presenza di fattispecie innominate doveva riconoscersi l’obbligo del fisco di assicurare il contraddittorio preventivo (cfr. il paragrafo che precede). (96) Su cui si rinvia a quanto già osservato retro, al paragrafo che precede. (97) Si si veda, per tutti, lo stesso art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, su cui al paragrafo che precede. (98) Laddove la norma altro non è che l’effetto scaturente, a seguito dell’interpretazione, dall’atto, ovvero dalla disposizione o proposizione normativa.


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mativa (nonché del formante giurisprudenziale) di cui sopra si è cercato di dare conto. Insomma, in altre parole, si potrebbe ritenere che l’enunciazione del testo normativo di cui all’art. 12 dello statuto altro non abbia che una funzione di mero ausilio all’interprete, senza per questo incidere (restringendola) sulla vigenza del principio la cui “eccedenza assiologica” si è cercato in queste pagine di dimostrare (99). 11. Conclusioni. – Da quanto sinora osservato emerge chiaramente che l’attuale elaborazione del c.d. “diritto vivente”, così come affermato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, talvolta dà luogo ad alcune aporie: rilevanti sia in una prospettiva interna, sia una prospettiva comunitaria. Tuttavia, le difficoltà sopra accennate pare possano essere superate attraverso l’interpretazione costituzionalmente orientata (100), ovvero attraverso l’interpretazione “comunitariamente orientata” (in questo senso anche attingendo ai principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (101) e, talvolta, pure della Corte EDU (102)), in ogni caso per il tramite del ricorso all’analogia quale procedimento, formalmente d’integrazione, ma, in definitiva, facente

(99) In tema si veda A. Fedele, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, in Riv. dir. trib., 2013, I, 875 ss., ove riferimenti alla giurisprudenza di legittimità. (100) È infatti appena il caso di annotare come autorevole dottrina abbia già osservato che nei settori interessati da leggi generali (quale lo statuto dei diritti del contribuente) risulta in espansione l’ambito dell’interpretazione adeguatrice, che, ove manchi di un preciso supporto a livello costituzionale, è espressione di esigenze sistematiche e di intrinseca coerenza in aree disciplinari consolidate piuttosto che del principio di conservazione degli atti e della loro efficacia giuridica. Così A. Fedele, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, cit., 879. (101) Al riguardo si veda anche E. Traversa, E. Traversa, La protezione dei diritti dei contribuenti nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in Dir. prat. trib., 2016, I, 1365 ss. (102) Cfr. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sez. III, 21 febbraio 2008, Ravon et al c. France, C-18497/03, ove – come noto – particolare enfasi è posta sul contraddittorio, quale carattere distintivo del giusto processo, così come pure del giusto procedimento. Più in generale, si veda P. Laroma Jezzi, Il riconoscimento in materia fiscale dei diritti fondamentali tutelati dalla CEDU e dalla carta dei diritti UE, in Corr. trib., 2015, 679 ss. Infine, sulla sempre maggiore rilevanza della giurisprudenza della Corte Edu anche nel quadro dell’assorbimento delle disposizioni del Trattato Edu nella sfera dell’ordinamento comunitario, si veda A. Amatucci, Il rafforzamento dei principi comuni europei e l’unicità del sistema fiscale nazionale, in Riv. trim. dir. trib., 2013, 3 ss.; come pure F. Gallo, Ordinamento UE e principi fondamentali, Napoli, 2006, passim.


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comunque leva su di un processo, lato sensu “interpretativo” (103), volto ad attribuire un significato (in termini di effetto) alla proposizione normativa. Per ciò che pare a chi scrive, il merito del ricorso all’analogia (quanto meno limitatamente ai soli casi rispetto ai quali l’impiego dell’integrazione è prospettabile, seppur in chiave adeguatrice) risiede nel consentire di scongiurare un’applicazione ingiustificatamente discriminatoria della “regola” espressa dalla norma sul contraddittorio preventivo (così come risulta essere quella affermata dalle Sezioni Unite del 2015), invero coerente con il relativo principio (se si vuole inespresso), senza, per ciò stesso, dover attendere l’intervento della Corte costituzionale o, in ipotesi, della stessa Corte di Giustizia (104). Sotto altro profilo, ancora, il ricorso all’analogia consente altresì di tenere opportunamente distinto il piano dei principi (quali “sintesi valoriali di assetti disciplinari”) da quello delle norme (quali “regole prescrittive di specifici comportamenti”), al contrario di quanto spesso non risulta ad opera della stessa giurisprudenza di legittimità (105). In altre parole, quanto prospettato consente di porre rimedio rispetto ad un’interpretazione fondata sull’applicazione, al singolo caso, delle regole derivanti dalle (sole) disposizioni normative che, in quanto tale, può anche apparire formalmente ineccepibile ma, talvolta, essa può altresì risultare priva di sistematicità e, dunque, rivelarsi fallace (rectius: ingiusta). Tutto ciò richiama alla mente l’ammonimento che Kant aveva premesso alla sua “Metafisica dei Costumi”, ovvero che se non ci si vuole accontentare di aspirare ad una mera conoscenza del diritto positivo che, al massimo, potrebbe produrre “una dottrina del diritto puramente empirica” – con ciò paragonandola alla testa di legno della maschera da tragedia della nota favola di Fedro (“una testa che può essere bella, ma che, ahimè, non ha cervello”) (106) – bisogna allora ricercare la “conoscenza sistematica della

(103) Quanto alla compatibilità logica del ricorso all’analogia al fine di superare l’interpretazione (strettamente letterale) proposta dalla giurisprudenza di legittimità più volte richiamata e, come osservato, suscettibile di dar luogo a ingiustificate discriminazioni rilevanti a mente dell’art. 3, comma 1, Cost., basta in questa sede richiamare quanto precisato retro sulla natura “latamente interpretativa” del procedimento analogico (cfr. § 6). (104) Su cui, ancora, R. Iaia, Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario nell’ordinamento dell’unione europea, cit., 111 ss. (105) Cfr. A. Fedele, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, cit., 880. (106) Cfr. Fedro, La volpe e la maschera tragica, in Fabulae, I, 7 che, data la sua brevità, vale riportare testualmente come in appresso: «La volpe aveva visto per caso una maschera da tragedia: “Che magnificenza!”, disse. “Oh, non ha cervello!”».


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dottrina del diritto naturale”, ossia quella parte della metafisica dei costumi contenente il “sistema di cognizioni a priori derivato da puri concetti” e avente a suo oggetto “non la natura, ma la libertà dell’arbitrio” (107). E poiché proprio l’esercizio della libertà dell’arbitrio ha portato con sé – fin dall’origine dell’uomo –, quale conseguenza, l’affermazione del principio dialogico e, per quanto ora d’interesse, del conseguente principio del contraddittorio (si veda la c.d. “Cacciata di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden”) (108), non può rinunciarsi a ricercare nei principi generali ed universali la luce capace di orientare l’interpretazione (e talvolta, se necessario, l’integrazione) delle regole di diritto positivo, per tale via consentendo a queste di poter essere considerate – con spirito critico – anche giuste (109). In definitiva, affinché il c.d. “dialogo fra Corti” non si riveli un “dialogo fra sordi”, sembra irrinunciabile fare uso del libero arbitrio (rectius: dello spirito critico) e del principio dialogico per cercare di verificare se non possa giungersi ad una ricostruzione della portata della norma (ed esempio di quella cui all’art. 12, comma 7, dello statuto dei diritti del contribuente) che tenga in adeguata considerazione i principi del sistema (110) (ivi compresi quelli ine-

(107) Cfr. I. Kant, La metafisica dei Costumi, (1797), trad. it., a cura di G. Vidari, BariRoma, 1983, 34. (108) Cfr. Libro della Genesi, cap. 3, par. 9-13.: «E l’Eterno Iddio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?” E quegli rispose: “Ho udito la tua voce nel giardino, e ho avuto paura, perch’ero ignudo, e mi sono nascosto”. E Dio disse: “Chi t’ha mostrato ch’eri ignudo? Hai tu mangiato del frutto dell’albero del quale io t’avevo comandato di non mangiare?” L’uomo rispose: “La donna che tu m’hai messa accanto, è lei che m’ha dato del frutto dell’albero, e io n’ho mangiato”. E l’Eterno Iddio disse alla donna: “Perché hai fatto questo?” E la donna rispose: “Il serpente mi ha sedotta, ed io ne ho mangiato”». (109) Sulla rilevanza dei principi generali ed universali tra cui, su tutti, il principio di libertà e quello di eguaglianza, con i relativi corollari quali il principio di democraticità, che a sua volta presuppone il pluralismo e quindi la proporzione, l’armonia e, infine, la giustizia, si veda B. R omano, Principi generali del diritto, Principio di ragione e principio dialogico, ed. cur. da C. Palumbo, G. Petrocco. A. Siniscalchi, Torino, 2015, passim, ove un posto di particolare rilievo è assegnato al principio dialogico (dall’etimo “dia”–“logos”), proprio e consustanziale dell’umano ed estraneo tanto al non-umano quanto al post-umano. (110) Perché una legge senza principi è come una testa senza cervello (cfr. B. Romano, Principi generali del diritto, Principio di ragione e principio dialogico, passim).


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spressi ma comunque “immanenti” (111)). Ed allora, proprio adeguatamente muovendo dai principi generali ed universali (del diritto), anche nell’ottica di una tutela del contribuente multilivello, potrebbe risultare possibile integrare i principi, di origine comunitaria (112), della “buona amministrazione” (113) e del “giusto procedimento”, con il relativo corollario del contraddittorio preventivo (114), con i principi, tutti interni, dell’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (115) (di cui all’art. 97 Cost. che, come noto, significa anche “economicità dell’azione amministrativa” (116)) (117), da un

(111) È stato infatti puntualmente osservato (proprio con riferimento alla violazione dell’art. 12, comma 7, dello Statuto) che l’esclusione dell’immanenza (di un determinato principio) si potrebbe risolvere, tendenzialmente, in un depotenziamento dell’effettiva garanzia per il contribuente. Così A. Fedele, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, cit., 882. (112) Ormai operanti anche all’interno del nostro ordinamento per il tramite dell’art. 117 Cost. (113) Sul diritto alla buona amministrazione di cui all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (come tale comprensivo del diritto al contraddittorio preventivo), come espressione di una sorta di “diritto naturale” cui deve ispirarsi ogni procedimento amministrativo, si veda A. Lovisolo, La sentenza Sezioni Unite 24823/2015 e il requisito della “utilità” del previo contraddittorio endoprocedimentale: osservazioni e critiche, cit., 521. (114) Su cui si veda anche A. Marcheselli, Il “Giusto procedimento” tributario. Principi e discipline, Padova, 2012, in partic. 96 ss. (115) Dai quali possono farsi discendere i principi di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente, come noto anche diretti al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Cfr. F. Tesauro, In tema di invalidità dei provvedimenti impositivi e di avviso di accertamento notificato ante tempus, in Rass. trib., 2013, 1137 ss. (116) E l’economicità dell’azione amministrativa risulta certamente potenziata se il contraddittorio preventivo è assicurato. Di ciò sembra consapevole pure la stessa prassi amministrativa (cfr. Agenzia delle Entrate, Circ. n. 25/E del 6 agosto 2014 e, più di recente, Circ. n. 16/E del 28 aprile 2016, ove si afferma che: “Un’attività di controllo sistematicamente incentrata sul contraddittorio preventivo con il contribuente, da un lato rende la pretesa tributaria più credibile e sostenibile, dall’altro scongiura l’effettuazione di recuperi non adeguatamente supportati e motivati perché non preceduti da un effettivo confronto”). Sul punto si veda poi la recentissima (e ponderosa) circolare della Guardia di Finanza n. 1 del 2018, rilasciata in data 4 dicembre 2017 (“Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi”), ove particolare enfasi è posta sul contradditorio con il contribuente, proprio nella prospettiva di un innalzamento della qualità dell’attività ispettiva svolta, anche in vista e del successivo esercizio della potestà d’imposizione da parte dell’ufficio tributario (in partic. Vol. II, pag. 74 ss.). (117) Nello stesso senso della valorizzazione del principio di cui all’art. 97 Cost., si veda G. Fransoni, La parabola del contraddittorio, in Fondazione Antonio Uckmar, Per un nuovo ordinamento tributario, atti preparatori, Padova, vol. III, 153 s. e, da tempo, P. Russo, Le conseguenze del mancato rispetto del termine di cui all’art. 12, ultimo comma, della legge n. 212/2000, cit., 1087 ss. Sul collegamento fra art. 97 Cost. e i principi comunitari si veda A. Renda, Il contraddittorio quale nucleo insopprimibile di rilievo sostanziale nell’ambito del procedimento


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lato, e di eguaglianza e di dignità della persona (di cui all’art. 3 Cost.), dall’altro lato (118), per giungere infine all’attuazione della c.d. “giusta imposta” (di cui all’art. 53 Cost.) (119). Un’adeguata valorizzazione di questi ultimi principi, difatti, consentirebbe di superare l’impasse venutasi a creare per effetto dell’operare – per così dire disgiunto ed autonomo – delle regole poste dai formanti giurisprudenziali, comunitario e interno che, se isolatamente esaminate nelle loro rispettive conseguenze senza tentare una qualche reductio ad unitatem, finiscono per scaricare sull’unico contribuente problematiche di non poco momento. In altri termini, appunto in chiave di tutela multilivello del contribuente, sembra allora possibile prospettare l’elevazione del livello di protezione, già apprestato dell’ordinamento comunitario, ad opera dei principi costituzionali posti dall’ordinamento interno (120). Una simile operazione ermeneutica sembra pertanto consentire già da ora – senza quindi nemmeno attendere un intervento legislativo volto ad aggiornare lo Statuto dei diritti del contribuente – di affermare un principio, operante in via generalizzata, che proclami il diritto al contraddittorio preventivo (di cui peraltro, nei fatti (121), già da tempo ha preso atto la migliore prassi amministrativa (122)). Insomma, concludendo, allorquando la giurisprudenza si limita all’applicazione delle sole disposizioni di legge, tralasciando i principi, essa tradisce la sua stessa funzione (espressa dal sintagma iuris-prudentia), appunto consistente nella prudente (anche nel senso di ragionata) applicazione del diritto.

tributario, le conferme della giurisprudenza comunitaria e di legittimità, cit., 639, ss. (118) Sul primato storico e logico della persona rispetto allo Stato, e nel rispetto assoluto della dignità umana nonché delle libertà che possono salvaguardarla appieno, si veda la chiave di lettura recentemente proposta da autorevole dottrina per comprendere appieno i valori, i principi e le norme della nostra Costituzione (cfr. P. Grossi, L’invenzione del diritto, RomaBari, 2017, passim). (119) Per il collegamento: “giusto tributo, giusto procedimento, giusto processo”, si vedano anche A. Marcheselli, R. Dominici, Giustizia tributaria e diritti fondamentali, Torino, 2016, passim. (120) Deve infatti convenirsi che le garanzie sovranazionali, come quella in materia di contraddittorio procedimentale, costituiscono solo il livello minimo di tutela che gli Stati membri sono obbligati ad apprestare, non potendo essi soffrire di limitazioni rispetto a previsioni in melius. In tal senso anche S. Muleo, Il contraddittorio procedimentale: un miraggio evanescente?, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 252. (121) Verrebbe da dire secondo quella che viene comunemente chiamata la c.d. “law in action” (in contrapposizione alla c.d. “law in the books”). (122) Cfr. Agenzia delle Entrate, Circ. n. 25/E del 6 agosto 2014, Circ. n. 16/E del 28 aprile 2016 e G.d.F. Circ. n. 1/2018 del 4 dicembre 2017, sopra ricordate.


Dottrina

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Diversamente, ad evitare che la sola applicazione della legge (lex) porti con sé il prevalere della legalità (e dunque della forza delle legge) sulla giustizia, occorre dar luce – e voce – pure ai principi generali, potendosi così pervenire all’applicazione di un diritto (jus) anche universalmente “giusto”.

Simone Francesco Cociani



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Cass., Sez. V, 20 ottobre 2016 - 3 novembre 2016, n. 22225; Pres. Chindemi; Rel. Chindemi. Scissione non proporzionale – Debiti tributari anteriori alla scissione – Responsabilità limitata alle imposte sui redditi – Esclusione – Applicabilità dell’art. 2506 quater c.c. – Esclusione Gli artt. 173, comma XII e XIII, Tuir e 15, comma II, D. lgs. 472/1997 devono trovare applicazione in qualunque settore impositivo e non, quindi, limitatamente alle imposte sui redditi. Trattandosi, altresì, di norme speciali rispetto all’art. 2506 quater, c.c., in ambito tributario non opera il regime della responsabilità limitata all’effettivo patrimonio netto trasferito dalla società scissa.

[Omissis] Svolgimento del processo. - Con sentenza depositata il 11.5.2011 la Commissione Tributaria Regionale della Campania, in parziale riforma della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Napoli n. 704/30/2010 che aveva rigettato il ricorso proposto dalla società F. S. s.r.l., accoglieva parzialmente l’appello della società, in relazione alla Tarsu per gli anni 2005 e 2007, annullando le relative cartelle, in quanto i debiti erano maturati in anni successivi alla scissione della società, avvenuta nel 2004, limitando la responsabilità solidale della società beneficiaria, con riferimento alle altre annualità, alla quota di patrimonio netto derivante dall’atto di scissione. Equitalia Sud s.p.a. impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale deducendo i seguenti motivi: a) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 15, comma 2, in relazione al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 173, commi 12 e 13, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 rilevando come, in base alla normativa citata, in caso di scissione parziale la società è obbligata in solido al pagamento delle somme dovute per le violazioni commesse anteriormente alla data della scissione; b) illegittimità, carenza di motivazione, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 15 rilevando come la CTR avesse affermato la prevalenza della norma speciale cit. senza specificare se la limitazione di responsabilità debba essere


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applicata solamente all’imposta principale, senza nulla motivare con riferimento alle relative sanzioni e interessi; c) vizio di motivazione, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 173, comma 12, e D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 15, comma 2, art. 1292 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, rilevando la contraddittorietà della motivazione in relazione alla affermata prevalenza del criterio di limitazione della responsabilità patrimoniale rispetto alle premesse della parte motiva. La società intimata non si è costituita nel giudizio di legittimità. Motivi della decisione. - La questione controversa concerne la responsabilità solidale o parziale, limitatamente alla quota di patrimonio netto assegnato, della società beneficiaria in caso di scissione parziale, per le obbligazioni tributarie antecedenti la scissione. I motivi di ricorso, stante la loro connessione logica possono essere esaminati congiuntamente. La scissione è un’operazione di carattere straordinario mediante la quale una società, definita scissa, estinguendosi (scioglimento senza liquidazione) o rimanendo in vita, trasferisce ad una società preesistente o di nuova costituzione, definita beneficiaria, l’intero suo patrimonio o una parte di esso attribuendo ai soci della scissa azioni o quote della beneficiaria in modo proporzionale ovvero non proporzionale rispetto alla percentuale di attribuzione sussistente presso la scissa (artt. 2506 e 2506 quater c.c.). Nella scissione parziale la società scissa prosegue la propria attività conservando la titolarità di determinati rapporti attivi e passivi, sia pure con un patrimonio ridotto. L’operazione, sotto il profilo della disciplina generale dei tributi e sulla riscossione degli stessi, è regolamentata dall’art. 173 T.U.I.R. e, per quanto in questa sede interessa, dai commi 11, 12 e 13 ove è disposto, che “11. Ai fini delle imposte sui redditi, la decorrenza degli effetti della scissione è regolata secondo le disposizioni dell’art. 2506-quater c.c., comma 1, ma la retrodatazione degli effetti, ai sensi dell’art. 2501ter c.c., nn. 5) e 6), opera limitatamente ai casi di scissione totale ed a condizione che vi sia coincidenza tra la chiusura dell’ultimo periodo di imposta della società scissa e delle beneficiarie e per la fase posteriore a tale periodo. 12. Gli obblighi tributari della società scissa riferibili a periodi di imposta anteriori alla data dalla quale l’operazione ha effetto sono adempiuti in caso di scissione parziale dalla stessa società scissa o trasferiti, in caso di scissione totale, alla società beneficiaria appositamente designata nell’atto di scissione. 13. I controlli, gli accertamenti e ogni altro procedimento relativo ai suddetti obblighi sono svolti nei confronti della società scissa o, nel caso di scissione totale, di quella appositamente designata, ferma restando la competenza dell’ufficio dell’Agenzia delle entrate della società scissa. Se la designazione è omessa, si considera designata la beneficiaria nominata per prima nell’atto di scissione. Le altre società beneficiarie sono responsabili in solido per le imposte, le sanzioni pecuniarie, gli interessi e ogni altro debito e anche nei loro confronti possono essere adottati i provvedimenti cautelari previsti dalla legge. Le società coobbligate hanno


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facoltà di partecipare ai suddetti procedimenti e di prendere cognizione dei relativi atti, senza oneri di avvisi o di altri adempimenti per l’Amministrazione”. Occorre distinguere gli obblighi tributari gravanti sulla società scissa da quelli gravanti sulla società beneficiaria. In caso di scissione parziale, in forza della normativa speciale citata, prevalente sulle norme codicistiche civili (art. 2506-quater c.c., comma 3), gli obblighi tributari sono adempiuti dalla società scissa, mentre nel caso di scissione totale gli obblighi tributari sono integralmente trasferiti alla società beneficiaria. Il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 15, comma 2, afferma che, in caso di scissione parziale, ciascuna società è obbligata in solido al pagamento delle somme dovute per violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione produce effetti; Lo stesso comma 12 art. 173 TUIR cit. prevede che “le altre società beneficiarie sono responsabili in solido per le imposte, le sanzioni pecuniarie, gli interessi e ogni altro debito e anche nei loro confronti possono essere adottati i provvedimenti cautelari previsti dalla legge”. Viene, quindi, estesa la solidarietà illimitata tra scissa e beneficiaria, anche in forza del principio della unitarietà dell’imposta, nel caso di debito di imposta derivante da violazioni connesse anteriormente alla scissione, dovendosi ritenere, anche con riferimento a tale normativa speciale, la prevalenza rispetto alla norma codicistica di cui al cit. art. 2506-quater c.c., comma 3, (cfr Cass. 24.6.2015 n. 13061). Nella fattispecie la intimata è, dunque, obbligata in solido, nei confronti della Agenzia, oltre il limite del patrimonio netto conferito, per il debito di imposta riferito agli anni 2000-2004, essendo la scissione avvenuta in tale anno e tale obbligazione solidale si estende, oltre che all’imposta principale, anche agli interessi e accessori. Erroneamente, quindi, la CTP ha limitato la solidarietà della società intimata sulla base del solo valore del patrimonio netto attribuitole. Tale limitazione alla quota del patrimonio netto conferito potrà assumere rilevanza in sede di regresso con la società scissa obbligata in solido, ma non nei confronti della Agenzia delle Entrate nei cui confronti sussiste solidarietà integrale indipendentemente dalla sussistenza o meno della integrità del patrimonio originariamente considerato in capo al debitore originario piuttosto che pro quota a favore di soggetti che gli siano succeduti nei singoli elementi patrimoniali. Va, conseguentemente accolto il ricorso, cassata senza rinvio l’impugnata sentenza e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di merito, ex art. 384 c.p.c., rigettato l’originario ricorso introduttivo. La particolarità e novità della questione costituiscono giusto motivo per la compensazione delle spese dell’intero giudizio. P.Q.M. Accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della società. Dichiara compensate le spese dell’intero giudizio. [Omissis]


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Parte seconda

La responsabilità tributaria nelle operazioni di scissione parziale: la deriva della Suprema Corte verso la salvaguardia della ragion fiscale. Sommario: 1. Il caso all’esame della Suprema Corte – 2. La responsabilità ex art. 2506

quater c.c. ed i rapporti con la disciplina tributaria – 3. segue: il perimetro applicativo dell’art. 173, TUIR – 4. Note (critiche) conclusive. La Suprema Corte ritiene che, nelle operazioni di scissione parziale, la normativa tributaria prevede una responsabilità illimitata tra società scissa e beneficiaria. Secondo la Corte, dunque, l’art. 2506 quater c.c. – a mente del quale la responsabilità dei soggetti coinvolti nelle operazioni di scissione è limitata al valore effettivo del patrimonio netto trasferito – non è applicabile in ambito tributario. L’articolo critica, fortemente, tali conclusioni le quali, da un lato, non sono supportate dal dato normativa (in particolare gli artt. 173 TUIR e 14, D. Lgs. 472/1997 sono completamente “silenti” sul punto) e, dall’altro, si pongono in contrasto con l’evoluzione dell’ordinamento il quale tende verso la prevalenza della sostanza civilistica rispetto al particolarismo tributario. In conclusione è, dunque, auspicabile un radicale revirement della giurisprudenza in una logica di migliore equilibrio tra i diversi valori e principi dell’ordinamento, nonché della certezza del diritto.

In the field of the partial corporate divisions, the Italian Supreme Court states that tax law provides an unlimited liability for the being divided company and for the recipient one. According to the Court, therefore, art. 2506 quarter of the Italian Civil Code – that provides a liability limited to the transferred equity for the corporations involved in the divisions – is not relevant in tax law. This paper strongly disapproves the above-mentioned statement that, on one hand, is not sustained by legal provisions (particularly art. 173, Italian Tax Code and art. 14, Legislative Decree n, 472/1997 are completely “silent” on this issue) and, on the other, is in contradiction with the development of the legal system that is inclined to the prevalence of the civil law substance over the tax particularism. In conclusion, a drastic turnaround in case-law in the direction of a preferable balance between the different values and principles of the legal system and of the legal certainty is desirable.

1. Il caso all’esame della Suprema Corte. – La sentenza in commento, nell’affrontare una tematica di particolare rilevanza circa i rapporti tra categorie civilistiche e tributarie, fornisce soluzioni fortemente opinabili e dalle quali emerge una strenua (e, soprattutto, immotivata, vd. infra § IV) prevaricazione della ragion


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fiscale (1) che va ben oltre la salvaguardia dell’interesse fiscale quest’ultimo, invece, radicato nei principi costituzionali (ed, in particolare, nell’art. 53 Cost) (2). Tale pronuncia, infatti, si inserisce in un recente filone interpretativo che attribuisce una vis espansiva, pressoché illimitata, alle disposizioni dettate in materia di effetti della scissione parziale in ambito IRES (nonché di sanzioni amministrative) le quali, secondo la Corte, travalicano i confini dell’imposizione societaria trovando, addirittura, applicazione nell’ambito della fiscalità locale (la sentenza in commento riguardava, nello specifico, un debito della società scissa anteriore alla scissione a titolo di TARSU) (3). In particolare, secondo la Suprema Corte, l’art. 173 del TUIR e l’art. 15, 2 co., D.Lgs. n. 472/1997 si porrebbero in una sorta di rapporto di species a genus rispetto all’art. 2506-quater c.c. (vd. infra § II). A ciò, dunque, conseguirebbe, come affermano testualmente i Giudici, una estensione della “solidarietà illimitata tra scissa e beneficiaria, anche in forza del principio della unitarietà dell’imposta, derivante da violazioni commesse anteriormente alla scissione, dovendosi ritenere, anche con riferimento a tale normativa speciale, la prevalenza rispetto alla norma codicistica”. In altre parole, i giudici di legittimità ritengono, lapidariamente, che le norme tributarie summenzionate pongano una deroga espressa ai principi contenuti nel codice civile: ciò in quanto i commi 12 e 13 dell’art. 173 del TUIR dovrebbero essere qualificati alla stregua di norme “di diritto tributario generale” applicabili a qualunque tributo, senza alcuna limitazione. Infatti, come si legge, testualmente, nella motivazione la scissione “sotto il profilo della disciplina generale dei tributi e della riscossione, è regolamentata dall’art. 173 Tuir” La sentenza in epigrafe, quindi, non introduce significativi elementi di novità rispetto all’orientamento consolidatosi nell’ultimo biennio (4), tanto che la

(1) Sulla tematica della ragion fiscale “ad oltranza” vd. G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008. (2) Sul tema vd., in particolare, E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2006; P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002. Sul bilanciamento dei diversi valori costituzionali, anche con riferimento all’interesse fiscale cfr. F. Moschetti, Il principio democratico sotteso allo statuto dei diritti del contribuente e la sua forza espansiva, in questa rivista, 2011, I, 731; ID, Il principio di capacità contributiva espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità in AA. VV., Diritto tributario e Costituzione, a cura di A. Berliri - A. Perrone, 2007, Napoli, 39. (3) Medesimi principi, peraltro, sono rinvenbili in un precedente di pochi mesi addietro in materia di ICI. Cass. 11 maggio 2016, n. 9594. (4) Il riferimento è alle sentenze 16 novembre 2016, n. 23342 e 29 novembre 2016, n.


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menzionata “lapidarietà” della motivazione impone un rinvio agli altri precedenti per comprenderne il significato. La Corte, infatti, è tranchant e si limita a rinviare alla propria sentenza 24 giugno 2015, n. 13061 (ben più argomentata di quella in commento, ma non meno criticabile) ove si legge che “deve essere in primo luogo fatto osservare come la responsabilità per i debiti fiscali relativi a periodi d’imposta anteriori l’operazione di scissione parziale, sia stata disciplinata…dall’art.173, comma 13, mediante aggiunta di un elemento specializzante rispetto alla omologa responsabilità riguardante le obbligazioni civili. E ciò nel senso che, fermi gli obblighi erariali in capo alla scissa e alla designata, la disposizione in esame stabilisce che per i debiti fiscali rispondono non solo solidalmente, ma altresì illimitatamente, tutte le società partecipanti all’operazione. …. Lettura questa palesemente confermata dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 15, comma 2, che, dal lato interpretativo sistematico, coerentemente prevede che le società partecipanti la scissione siano tutte solidalmente e illimitatamente responsabili per le somme dovute per le violazioni tributarie. E, nella appena veduta previsione di una illimitata responsabilità solidale, sta appunto il carattere eccezionale della disciplina fiscale della solidarietà discendente dalle operazioni di scissione parziale”. Il quadro normativo di riferimento – ma anche i recenti sostanziali mutamenti nell’ambito della fiscalità d’impresa (vd. infra, § III e IV) – non legittimano, in alcun modo, la posizione assunta dalla Suprema Corte, pur essendo evidentemente criticabile la frammentarietà del contesto normativo di riferimento (5). 2. La responsabilità ex art. 2506 quater c.c. ed i rapporti con la disciplina tributaria. – Il rapporto tra le disposizioni contenute nel codice civile e quelle tributarie è, come spesso accade, particolarmente complesso. A conferma di ciò basti pensare che è stata rinviata alla Corte Costituzionale la questione della compatibilità degli artt. 173, Tuir e 14, D. Lgs. 472/1997 con gli artt. 3 e 53 Cost. Ciò in quanto – aderendo, sostanzialmente, all’orientamento

24207 (con ampia nota redazionale di B. Denora, Sulla responsabilità solidale illimitata delle società beneficiarie della scissione e con commento critico di G. Fransoni, Fiscalismo, cultura del sospetto, asistematicità e obliterazione delle garanzie costituzionali nella giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di esecuzione nei confronti dei co-obbligati, nella versione on line di questa Rivista, 6 dicembre 2016), nonché alla Cass. 24 giugno 2015, n. 13059. (5) Vi è chi ha parlato, con riferimento all’art. 173, di “deprecabile” vuoto normativo. E. Belli Contarini, La responsabilità tributaria del cessionario di azienda tra gli artt. 14, D. Lgs. 472/1997 e 2505, c.c., in questa rivista, 2015, 535.


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del Supremo Collegio – i giudici di merito hanno ritenuto che la responsabilità illimitata in capo alla società beneficiaria per debiti tributari anteriori alla scissione andrebbe a collidere con il principio di neutralità fiscale (a sua volta espressione dei precetti costituzionali) (6). Tuttavia, sarebbe stata sufficiente una interpretazione diversa da quella fatta propria dalla Suprema Corte per “spazzare via” qualunque (inesistente) dubbio circa la costituzionalità delle norme testé richiamate (7). Come è noto, il perno attorno al quale ruota tutta la disciplina degli effetti della scissione è l’art. 2506 quater c.c. (8) il quale, per quanto di nostro interesse, al terzo comma stabilisce che “ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico”. Tale disposizione, dunque, sancisce la responsabilità solidale tra le società coinvolte nell’operazione (ivi compresa la scissa, nell’ipotesi di scissione parziale) per i debiti propri della scissa, sorti anteriormente alla scissione, e non adempiuti. Sotto tale profilo, ed in estrema sintesi, appare abbastanza pacifico in dottrina che si tratti di responsabilità sussidiaria, operante cioè soltanto nel caso di inadempimento della società scissa e limitatamente al patrimonio netto assegnato a ciascuna società chiamata a rispondere (9). Non paiono sussistere, altresì, seri dubbi che la menzionata limitazione di responsabilità al valore del patrimonio netto assegnato abbia rilevanza esterna (nel senso che risulta opponibile al creditore istante che pretenda l’adempimento di un debito maggiore), perché essa è nota ai terzi sin dalla pubblicazione del progetto di scissione (10).

(6) Comm. Trib. prov. di Pisa, sez. VI, Ord. 10 settembre 2015 n. 322, edita in Corr. Trib. con nota di M. Palmeri, Alla consula la questione di legittimità sull’illimitata responsabilità tributaria delle società nella scissione parziale. (7) Nel presente scritto non ci soffermiamo sulle problematiche procedimentali-attuative (in quanto non direttamente trattate dalla sentenza) sulle quali rinviamo, per tutti, alle considerazioni sistematiche di G. Fransoni, L’esecuzione coattiva a carico dei debitori diversi dall’obbligato principale, in Rass. Trib., 2011, 823. (8) Su tali disposizioni, con riferimento ai più recenti approcci della giurisprudenza vd. G. Salatino, La responsabilità delle società partecipanti alla scissione ex,art. 2506-quater, comma 3, c.c, in Giur. Comm., 2016, 972; F. Urbani, La responsabilità delle società partecipanti alla scissione: sussidiarietà e limite del valore effettivo del patrimonio netto, in Le società, 2016, 800. (9) Su tali profili cfr. i commenti di F. Lapertosa, S. Liebman, G. Sbisà, A. Zoppini, sub art. 2506 quater c.c. in AA.VV. Codice Civile commentato, a cura di Alpa - Mariconda, Milano, 2005, 1960 s. (10) Per ampi riferimenti, anche giurisprudenziali, vd. F. Menti, sub art. 2506 quater c.c., in AA.VV.. Commentario breve al Codice Civile, a cura di Cian - Trabucchi, Padova, 2011,


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Accanto a detta normativa, di matrice civilistica, il Tuir, come anticipato, all’art. 173 si limita a disciplinare gli aspetti fiscali della scissione. In particolare, i commi 12 e 13 prevedono che “gli obblighi tributari della società scissa riferibili a periodi d’imposta anteriori alla data dalla quale l’operazione ha effetto sono adempiuti in caso di scissione parziale dalla stessa società scissa o trasferiti in caso di scissione totale, alla società beneficiaria appositamente designata nell’atto di scissione”. Sul piano attuativo, poi, la medesima norma dispone che “13. I controlli, gli accertamenti e ogni altro procedimento relativo ai suddetti obblighi sono svolti nei confronti della società scissa o, nel caso di scissione totale, di quella appositamente designata, ferma restando la competenza dell’ufficio dell’Agenzia delle entrate della società scissa. Se la designazione è omessa, si considera designata la beneficiaria nominata per prima nell’atto di scissione. Le altre società beneficiarie sono responsabili in solido per le imposte (11), le sanzioni pecuniarie, gli interessi ed ogni altro debito e anche nei loro confronti possono essere adottati i provvedimenti cautelari previsti dalla legge. Le società coobbligate hanno facoltà di partecipare ai suddetti procedimenti e di prendere cognizione dei relativi atti, senza oneri di avvisi o di altri adempimenti per l’Amministrazione”. Dalle disposizioni sopra riportate si può, preliminarmente, desumere che, nell’ipotesi di scissione parziale, soggetto passivo degli obblighi fiscali relativi ai periodi d’imposta precedenti la scissione, rimane la società scissa. Alla responsabilità principale della società scissa si affianca, poi, la responsabilità solidale delle società beneficiarie. Si è, altresì, evidenziato che la formulazione letterale dei due commi in esame induce a ritenere che la responsabilità solidale che si configura in capo alle beneficiarie sia di tipo sussidiario, nel senso che l’Amministrazione finanziaria è tenuta a rivolgersi in primo luogo alla società che assume la responsabilità in proprio (la società scissa) e solamente in caso di inadempimento di quest’ultima nei confronti delle “altre beneficiarie” (12).

3181. Per considerazioni sistematiche vd. Scogniamiglio (G.), Fusione, scissione, in AA. VV, Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo - G.B. Portale, Torino, 2004. (11) Trattavasi, all’epoca dell’introduzione della disposizione, dell’IRPEG e dell’ILOR, e dei relativi accessori. (12) In tal senso vd. F. Paparella, sub art. 173 DPR n. 917/1986, in AA.VV. Commentario breve alle leggi tributarie (a cura di A. Fantozzi), Padova, 2010, 879.


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Il contenuto delle disposizioni in esame lascia, dunque, totalmente impregiudicata la questione della configurabilità o meno di limiti, analoghi a quelli previsti dal codice civile, alla responsabilità solidale delle società beneficiarie (per i debiti fiscali della scissa sorti anteriormente alla scissione). Non pare, quindi, in alcun modo condivisibile la posizione di chi – pur criticando la farraginosità del quadro normativo – ritiene che la responsabilità illimitata emerga chiaramente dal tenore letterale dell’art. 173 (13). Ed è, certamente, questo il nodo centrale della questione. Come detto, nell’ipotesi di scissione parziale, l’art. 173 sancisce, genericamente, una responsabilità solidale (a parere dei più sussidiaria) della società beneficiaria, senza specificare alcunché in ordine alla sussistenza di eventuali limiti a detta responsabilità. Nella diversa formulazione della norma tributaria, rispetto a quella civilistica, si potrebbe ravvisare la diversa volontà del Legislatore di prevedere per le obbligazioni tributarie – in un’ottica di strenua salvaguardia dell’interesse fiscale – la responsabilità illimitata della società beneficiaria che, quindi, risponderebbe nei confronti dell’erario per i debiti tributari sorti in capo alla originaria società anteriormente alla scissione, con tutto il proprio patrimonio (e non nei limiti del patrimonio netto attribuitole). Ed in tale solco interpretativo si muove, quanto meno implicitamente, la sentenza in epigrafe. Ciò non toglie, come detto, che siano prospettabili diverse impostazioni di fondo. Il silenzio dell’art. 173 TUIR, infatti, potrebbe essere interpretato anche nel senso che il Legislatore fiscale non ha inteso differenziare la disciplina fiscale da quella civilistica, sul presupposto che il sistema del codice civile configura un quadro generale applicabile a tutte le vicende societarie, di qualsivoglia genere e specie, e attinenti ad ogni rapporto obbligatorio, privatistico o pubblicistico. I commentatori della disposizione in esame per lo più propendono per la prima soluzione: quindi, seguendo tale impostazione, nel silenzio del Legislatore dovrebbe ritenersi che la responsabilità solidale della società beneficiaria sia illimitata, fatto salvo il diritto di regresso nei confronti della società scissa (14). In tal senso si è pure espressa l’Amministrazione finanziaria, la quale nell’esaminare la normativa in tema di sanzioni amministrative (art. 15, 2 co., D.Lgs.

(13) Dami, La responsabilità delle beneficiarie per i debiti tributari della scissa tra norme civilistiche e fiscali, in Questa rivista, II, 2014, 382. (14) Così F. Paparella, sub art. 173, op. cit., 879.


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n. 472/1997), ha avuto modo di precisare che, tanto nell’ipotesi di scissione totale, quanto in quella di scissione parziale, sorge una responsabilità solidale delle società scissa e beneficiarie per le violazioni commesse prima della scissione, in conformità del resto a quanto già stabilito dall’art. 2504 decies (oggi 2506 quater) c.c., “ma senza i limiti ivi previsti” (15). Ancora in tema di applicabilità delle misure cautelari, è stato sostenuto che, nel caso di scissione, l’ipoteca ed il sequestro conservativo possono avere ad oggetto beni per un valore sufficiente a garantire il pagamento delle somme dovute per le violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale essa produce effetto (16). Riflettendo attentamente, tuttavia, la tesi della configurabilità di una responsabilità solidale illimitata in capo alla società beneficiaria risulta palesemente errata per diversi ordini di ragione, letterali e sistematici. Si deve, innanzi tutto, premettere che al silenzio serbato dal legislatore in punto di limiti alla responsabilità solidale delle società beneficiarie non deve, necessariamente, riconnettersi l’intento di differenziare il regime tributario da quello civilistico, soprattutto in un “momento storico” in cui il legislatore mostra la volontà di uniformare le categorie. Come è noto, infatti, a fronte della riforma dell’art. 83 del TUIR, attuata ad opera del D. L. 30 dicembre 2016, n. 244, oggi le modalità di determinazione del reddito d’impresa dipendono, de plano, dalle qualificazioni civilistiche e dalle classificazioni di bilancio derivanti dalla applicazione dei principi contabili. Tale circostanza non può non essere tenuta in considerazione anche sul piano interpretativo, specialmente in un settore (quello delle operazioni straordinarie) sensibilmente influenzato dalla disciplina contabile e “bilancistica” e nel quale deve prevalere la sostanza giuridica dell’operazione garantita dalla disciplina civilistica. Inoltre, il principio previsto dall’art. 2506 quater, 3 co., c.c., della responsabilità delle società beneficiarie nei limiti del valore del patrimonio netto loro assegnato in occasione della scissione, appare assolutamente coerente con l’altro principio generale (applicabile, senza dubbio, anche nei rapporti con il fisco), secondo cui ciascun debitore risponde dei debiti con tutto il proprio patrimonio, così come stabilito dall’art. 2740 c.c. La regola sancita dal terzo comma dell’art. 2506 quater cit., nel prevedere la responsabilità delle società beneficiare nei limiti del patrimonio netto loro

(15) Circ. 10.7.1998, n. 180. (16) Circ. 6.7.2001 n. 66; Circ. 15.2.2010 n. 4.


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assegnato, non fa altro che ricostituire, idealmente, il patrimonio della società originaria, che in assenza di scissione avrebbe costituito la garanzia dell’assolvimento degli obblighi fiscali da parte di questa. A quanto sopra, aggiungasi che nulla in ordine alla responsabilità solidale delle società beneficiarie era previsto nelle legge delega (17). Con essa, invero, in via di estrema semplificazione, il Legislatore si era limitato a prevedere la sostanziale neutralità fiscale della scissione, con mantenimento in capo agli elementi dell’attivo e del passivo degli stessi valori fiscalmente riconosciuti che avevano presso la società scissa, nonché il criterio di proporzionalità per la ricostituzione delle riserve e dei fondi in sospensione di imposta e per il riporto delle perdite, senza il benché minimo cenno alla responsabilità delle società beneficiarie. Conseguentemente, nel silenzio del Legislatore delegante e di quello delegato, si ritiene che non vi siano argomenti, oltre che valide ragioni, per sostenere la configurabilità di una responsabilità solidale illimitata in capo alla società beneficiarie in deroga alla regola generale della responsabilità pro quota prevista dal codice civile. Al contrario, ragioni di coerenza del sistema e la necessità di fornire di una norma l’interpretazione che la adegui all’intero ordinamento, depongono nel senso che la responsabilità delle società beneficiarie deve incontrare il limite civilistico del valore del patrimonio netto assegnato. Tale interpretazione risponde, non solo ad esigenze di coerenza con il fondamentale assetto codicistico, ma soprattutto è interpretazione doverosa sul piano dei principi costituzionali. Invero la beneficiaria non può che rispondere nei limiti della quota del patrimonio netto assegnatole, sia in ragione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., sia soprattutto in ragione del collaterale principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost.: una responsabilità illimitata della beneficiaria risulterebbe assolutamente priva di senso ed in palese spregio a tali fondamentali principi costituzionali. D’altro canto, oltre che per non incorrere in interpretazioni contrastanti con i menzionati precetti costituzionali, ragioni sistematiche impongono di attribuire prevalenza alla sostanza civilistica (ed aziendalistica) degli assetti societari derivanti dalla operazione di scissione: al contrario, infatti, verrebbe legittimato il prelievo su di una ricchezza che non è stata oggetto di “trasferimento” e, dunque, su di un patrimonio privo di effettività sul piano sostanziale.

(17) Con l’art. 34, co. 2, della L. 19.2.1992 n. 142 il Governo veniva delegato ad emanare uno o più decreti legislativi recanti le norme occorrenti a disciplinare il regime fiscale da applicare alle scissioni di società nazionali.


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Parte seconda

La questione, del resto, si pone negli stessi termini con riguardo alla responsabilità per il pagamento delle sanzioni amministrative connesse alle violazioni di obblighi tributari. Anche l’art. 15, 2 co., del D.Lgs. n. 472/1997, infatti, non fa riferimento ad alcun limite alla responsabilità delle società beneficiarie, limitandosi a prevedere che ciascuna società coinvolta nella operazione di scissione è obbligata in solido al pagamento delle somme dovute per le violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione ha effetto. Tuttavia, anche in questo caso, in ragione dei canoni dell’interpretazione adeguatrice e della coerenza sistematica, la questione deve essere risolta nel senso che anche la solidarietà per le sanzioni tributarie dovrebbe incontrare l’ordinario limite codicistico (18) Invero, la legge delega (19), alla lett. c), si limitava alla “previsione di obbligazione solidale a carico della persona fisica, società o ente, con o senza personalità giuridica, che si giova o sul cui patrimonio si riflettono gli effetti economici della violazione, anche con riferimento ai casi di cessione d’azienda trasformazione fusione, scissione di società o enti”. Quindi, da un lato, non si riscontrano specifiche deroghe alla disciplina civilistica della scissione e, dall’altro, la solidarietà sanzionatoria ha quale limite il vantaggio economico della violazione per il coobbligato. Conseguentemente, a fronte della laconica formulazione dell’art. 15, 2 co., del D.Lgs. n. 472 cit. è proprio il peculiare requisito del vantaggio economico – e quindi la specifica attribuzione del patrimonio netto – (che giustifica, razionalmente, la coobbligazione) a rendere preferibile l’interpretazione che, armonizzando l’art. 15, 2 co., D.Lgs. n. 472 cit. con l’art. 2506 quater, limita la responsabilità solidale al valore effettivo del patrimonio netto assegnato (20). Tanto nel caso dell’art. 173, 13 co., TUIR, quanto in quello dell’art. 15, 2 co., D.Lgs. n. 472/1997, ci troviamo, dunque, di fronte a disposizioni che nascono da deleghe del tutto silenti rispetto all’ipotesi dell’estensione alle società beneficiarie della responsabilità illimitata per i debiti sorti anteriormente alla scissione. Nell’interpretazione di dette norme, quindi, deve aversi riguardo ai diversi criteri ermeneutici possibili e, soprattutto – cosa che la Suprema

(18) In questi termini Del Federico, sub art. 15 D.Lgs. n. 472/1997, in AA. VV., Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria, a cura di Moschetti - Tosi, Padova, 2000, 491. (19) L. 23.12.1996 n. 662, art. 3, co. 133. (20) Sul punto vd., ancora, per tutti, L. Del Federico, Op. loc. cit., 491.


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Corte non ha fatto nella sentenza in commento – spiegare le ragioni per la preferenza dell’una o dell’altra ipotesi interpretativa. In particolare, si richiama il fondamentale principio dell’interpretazione adeguatrice secondo cui “fra le varie interpretazioni in astratto possibili di una fonte legislativa, l’interprete è tenuto a privilegiare quella che non si pone in contrasto con la Costituzione” (21). Conseguentemente, per le norme contenute in un decreto delegato, in presenza di diverse letture possibili (una difforme ed una conforme alla legge delega), deve essere preferita quella rispondente ai principi ed ai criteri direttivi della delega (22). Emergono quindi due limiti, che assurgono a veri e propri criteri ermeneutici: quello della salvaguardia delle complessive finalità della delega e quello del rispetto della coerenza sistematica dell’ordinamento. A fronte di una delega silente, o estremamente vaga, al delegato non è consentito, né emanare norme che nella sostanza risultino tali da eludere le finalità della legge delega, né introdurre disposizioni incoerenti rispetto alla pregressa normativa di settore ed ai principi generali dell’ordinamento (23). Tanto la disposizione di cui all’art. 173, co. 13, TUIR, quanto quella di cui all’art. 15, 2 co., D.Lgs. n. 472/1997, dunque, risultano norme pleonastiche, che nulla aggiungono alla regola generale fissata dal codice civile della responsabilità solidale limitata delle società beneficiarie. Evidentemente la ratio della loro previsione si ravvisa nella preoccupazione del Legislatore di ribadire che le obbligazioni fiscali, di natura pubblicistica, rientrano nel più ampio genus dei rapporti obbligatori previsti dal codice civile, con conseguente applicabilità, in difetto di apposita deroga, dei medesimi principi ispiratori. A ciò aggiungasi che l’Agenzia delle Entrate è sottoposta al principio di legalità potendo agire sul piano procedimentale e provvedimentale mediante

(21) Così fra le tante C. Cost. 27.12.1996 n. 418. Su tali profili vd., per tutti, G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003. (22) V’è poi da dire che la “legge delegata si collega, in un naturale rapporto di riempimento, con la legge delegante, con la conseguenza che il silenzio della norma di delegazione non osta all’emanazione di norme rappresentanti il coerente sviluppo e completamento della scelta espressa dal Legislatore delegante e delle ragioni ad essa sottese, fermo restando che il potere si deve conformare non soltanto alle finalità che lo hanno determinato, ma pure al sistema delineato dalla legislazione precedente”. Così C. Cost. 27.4.1997, n. 111. (23) In questi termini L. Del Federico, Introduzione alla riforma delle sanzioni amministrative tributarie: i principi sostanziali del D.Lgs. n. 472/1997, in questa rivista, 1999, 110; ID, voce Violazioni e sanzioni in materia tributaria, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 2001, 398 ss.


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Parte seconda

poteri autoritativi soltanto nei limiti in cui la legge le attribuisca specificatamente tali poteri (artt. 23 e 97 Cost.); in mancanza di norme attributive di specifici poteri gli Uffici avrebbero la stessa naturale capacità dei soggetti privati. È, quindi, ragionevole concludere nel senso che tali interventi legislativi settoriali si spiegano con l’esigenza di evitare contrasti sul potere di agire in via di riscossione coattiva pubblicistica sui beni della società beneficiaria, ma sempre nei limiti del patrimonio netto assegnatole. Nel senso che in virtù di tali norme, l’amministrazione finanziaria non sarà costretta a rivolgersi alla beneficiaria secondo gli schemi di azione di diritto civile, essendole consentito di agire in via di controlli, accertamenti, autotutela esecutiva, riscossione coattiva esattoriale, etc. A chiusura del cerchio, peraltro, nel caso di operazioni “spregiudicate” e prive di effettività giuridica, gli Uffici possono, certamente, disconoscerne gli effetti mediante l’applicazione del novellato istituto dell’abuso del diritto. Per contro, nel caso di scissioni perfettamente genuine sul piano civilistico ed aziendalistico – anche con riferimento al valore ed al contenuto degli assets trasferiti – non sono ammissibili forzature degli effetti giuridico-sostanziali delle operazioni in una prospettiva biecamente fiscale. 3. Segue: il perimetro applicativo dell’art. 173 TUIR. – In ultima analisi, quand’anche si volesse propendere per la soluzione accolta dai più, ma qui decisamente criticata, della configurabilità di una responsabilità solidale illimitata, non paiono sussistere appigli normativi o principi rinvenibili dal sistema che consentano una applicazione generalizzata dell’art. 173 al di fuori dell’IRES (e ciò, a maggior ragione, nell’ambito della fiscalità locale). D’altro canto, anche in tal caso la Suprema Corte detta il principio ma non ne esplicita il fondamento (vd. infra, § IV). L’art. 173 TUIR, evidentemente, per sua collocazione si riferisce solo ed esclusivamente alle imposte sul reddito delle società interessate da operazioni straordinarie. Ed, invero, la disposizione in parola si trova nel Capo III (Operazioni straordinarie) del Titolo III (Disposizioni comuni), e dunque risulta sicuramente inapplicabile all’IVA, all’IRPEF ma anche all’IRAP. Ancora una volta la risposta a tale problematica deve ricercarsi nei principi di carattere generale, e dunque, nella regola della responsabilità solidale, ma con il limite del valore effettivo del patrimonio netto ricevuto, della società beneficiaria. Quella prospettata sembra la soluzione più ragionevole, se solamente si considera che, diversamente opinando, per le imposte diverse dall’IRES si do-


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vrebbe coerentemente escludere qualsivoglia responsabilità solidale in capo alle società beneficiarie per i debiti della scissa sorti nel periodo antecedente la scissione, proprio per difetto di una norma ad hoc che preveda altri soggetti coobbligati (le società beneficiarie appunto) accanto al debitore principale (la società scissa). Né a conclusioni differenti può condurre la constatazione che il Legislatore è intervenuto a disciplinare gli effetti della scissione in maniera asistematica, soltanto con riguardo ad alcune imposte ed in modo apparentemente pleonastico. Queste apparenti “frammentarietà” ed asistematicità si spiegano, in realtà, con la considerazione che, trattandosi di obbligazioni di diritto pubblico, il Legislatore ha inteso scongiurare il rischio che si potesse sostenere per tali rapporti obbligatori pubblicistici l’inapplicabilità delle norme del codice civile. Alla luce di tali considerazioni appare davvero incomprensibile quanto affermato dalla Corte nella sentenza in commento, cioè che la estensione della responsabilità illimitata operante anche per debiti Tarsu sarebbe giustificata dal “principio dell’unitarietà dell’imposta”. Ciò sarebbe, tutt’al più, forse giustificabile nell’ambito della fiscalità d’impresa (ciò dell’Iva e dell’Irap) ma non, certamente, in quello dei tributi locali caratterizzati da principi e regole totalmente diverse rispetto a quelle che riguardano l’Ires. Appare evidente che i Giudici di Legittimità avrebbero dovuto quanto meno spiegare le ragioni giuridiche a sostegno di principi così dirompenti, mentre nella motivazione della sentenza è del tutto oscuro il percorso logico seguito. Ciò che, invece, stupisce è che l’applicabilità degli artt. 173 del Tuir e 15, D. lgs. 472/1997 al settore dei tributi locali viene data per scontato, senza neppure che tale circostanza (desumibile solamente dallo “svolgimento del processo”) venga neppure rimarcata dalla Corte nella motivazione. 4. Note (critiche) conclusive. – Come si è già avuto di approfondire in altra sede (24) il problema sotteso a numerosi orientamenti della Suprema Corte non è quello dell’eccessivo rigorismo o della prevalenza dell’interesse fiscale rispetto ad altre esigenze, ma quello della palese mancanza di una idonea argomentazione delle decisioni: cioè, di quel pericoloso fenomeno comunemente definito come discrezionalità giudiziale – quest’ultima intesa come potere in-

(24) Oltre agli autori citati alle note n. 1 e 2, cfr. F. Montanari, Diritto giurisprudenziale, contrasto ai comportamenti abusivi e certezza nei rapporti tributari, in questa rivista, 2016, I, 231 ss.


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sindacabile e, dunque, non controllabile del giudice – che nel diritto tributario si traduce in prevaricazione della ragion fiscale su gli altri valori dell’ordinamento. Quindi, ciò che si contesta ai Giudici di Legittimità, anche nel caso in esame, non è la formulazione di principi dirompenti o la strenua salvaguardia dell’interesse fiscale, ma la mancanza di argomenti a sostegno delle sentenze. Il problema di un approccio che potremmo definire “casistico-casuale” è particolarmente dannoso in ambito tributario, in quanto tale disciplina è caratterizzata da una continua commistione tra diversi rami dell’ordinamento e, quindi, tra categorie del tutto eterogenee (25): ciò che è quanto mai preoccupante è proprio la carenza di punti di riferimento e di linee guida uniformi, a discapito della certezza del diritto ed a grave detrimento della funzione nomofilattica della Corte. Osserva autorevole dottrina, con riferimento ai rapporti tra i diversi rami dell’ordinamento, che “il vero problema è quello di individuare chiavi di lettura affidabili affinché, da un lato, la non coincidenza di prospettive abbia un fondamento razionale, e non si traduca in costi di transazione da «eccesso di differenza legislativa» e, dall’altro lato, possa recuperarsi l’unità del sistema” (26). E ciò che caratterizza la sentenza in epigrafe è proprio la carenza di un solido impianto argomentativo che possa fungere da guida per l’interprete. Ovviamente, per “recuperare” la citata “unitarietà del sistema” occorre che la Corte adotti criteri interpretativi uniformi laddove, invece, a seconda del caso, il metro di giudizio muta radicalmente per esigenze contingenti: occorre, infatti, evitare la “giustizia caso per caso” (27). Peraltro, enfatizzare il particolarismo del diritto tributario – e, dunque, la deviazione dai modelli civilistici e contabili – appare, certamente, in controtendenza rispetto al recente trend legislativo in materia di fiscalità d’impresa: come si è osservato (vd. retro § III) la scelta di uniformare i principi di determinazione del reddito d’impresa ai criteri civilistici ed ai principi contabili determina un “salto culturale” notevolissimo (28). È, quindi, certamente

(25) Sulla commistione ed, a volte, “ibridazione” delle categorie civilistiche con quelle tributarie vd., da ultimo, A. Carinci, I profili di rilevanza fiscale del contratto: spunti di riflessione, in AA.VV., Corrispettività, onerosità e gratuità: profili tributari, a cura di V. Ficari - V. Mastroiacovo, Torino, 2014, 405 e gli ampi riferimenti bibliografici. (26) P. Montalenti, Diritto commerciale, diritto tributario, scienze aziendali: categorie disciplinari a confronto in epoca di riforme, in Giur. It., 2004, 684. (27) F. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2009, 130-131. (28) Per una esaustiva ed approfondita analisi di tali profili vd., per tutti, M. Grandinetti, Il principio di derivazione nell’Ires, Padova, 2016.


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contraddittorio derogare a regole civilistiche consolidate (e che andranno ad affermarsi sempre di più), proprio nel settore delle operazioni straordinarie ove è marcata la esigenza di neutralità rispetto alla variabile fiscale. Peraltro, per garantire davvero unitarietà al sistema, la posizione della Suprema Corte secondo cui i principi in materia di Ires avrebbero una valenza di carattere generale – che supera addirittura i confini del Tuir fino ad arrivare nel “lontano mondo” dei tributi locali – dovrebbe essere applicata “a tutto tondo”. Tuttavia così non è stato. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla consolidata giurisprudenza della Corte in materia di operazioni di conferimento con successiva cessione di quote ritenuta di natura elusiva. È, certamente, lecito domandarsi la ragione per cui i Giudici di Legittimità non ritengano anche l’art. 176 del TUIR norma “generalmente applicabile” in tutti i settori impositivi e, quindi, il principio di neutralità delle operazioni straordinarie parametro generale applicabile oltre gli “angusti confini” della disciplina Ires del conferimento (29). È, in conclusione, del tutto auspicabile – al di là del caso concreto – una “normalizzazione” della giurisprudenza la quale deve agire nel rispetto della legge (e del diritto), in conformità alla sostanza giuridica delle operazioni e senza palesi forzature delle categorie. In altri termini, occorre che la giurisprudenza non ceda ad un “protagonismo creativo” in favor fisci, fenomeno che, in una materia di matrice pubblicistica quale è il diritto tributario, rischia di porsi come premessa tecnica per derive autoritarie della Cassazione: ciò proprio perché, come si è già rilevato, nutriamo una “profonda consapevolezza dell’estrema importanza del ruolo della Corte e un vivo senso di rispetto per questa istituzione” (30).

Francesco Montanari

(29) Il tema è vastissimo e ci si limita a segnalare, da ultimo, G. Tabet, L’applicazione dell’art. 20 TU registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, in Rass. Trib., 2016, 913; Contrino, La trama dei rapporti tra abuso del diritto, evasione fiscale e lecito risparmio d’imposta, in Dir. prat. Trib., 2016, I, 1407. Per talune considerazioni sistematiche connesse A. Carinci, La rilevanza fiscale del contratto tra modelli impositivi, timori antielusivi e fraintendimenti interpretativi, in Rass. Trib., 2014, 961. (30) G. Fransoni, Cultura del sospetto, asistematicità e obliterazione delle garanzie costituzionali nella giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di esecuzione nei confronti dei co-obbligati, op. cit.



Corte di Cassazione, sez. unite civili, 19 aprile 2016 - 13 gennaio 2017, n. 758; Pres. Rordorf - Rel. Virgilio Riscossione – Ruolo – Misure cautelari – Sentenza – Esecutività Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che l’annullamento, parziale o totale, dell’avviso di accertamento, anche con sentenza non definitiva, determina la caducazione, in tutto o in parte, del ruolo straordinario formato per riscuotere le somme ivi accertate. Il principio dettato dalle Sezioni Unite, che chiarisce il rapporto tra accertamento, giurisdizione e iscrizione a ruolo straordinaria, è suscettibile di un’applicazione generalizzata alla totalità delle misure cautelari che consente il superamento della prevalente giurisprudenza della Sezione tributaria in tema di fermo amministrativo o contabile.

[Omissis] Ritenuto in fatto. 1. L’Agenzia delle entrate, Ufficio di Desio 2, notificò, in data 26 novembre 2007, alla N. s.r.l., fallita, avviso di accertamento per IRPEG e IRAP, oltre interessi e sanzioni, in relazione all’anno d’imposta 2000. Il ricorso proposto dalla curatela fallimentare venne accolto dalla CTP di Milano con sentenza depositata l’1 ottobre 2008. Nelle more di tale giudizio fu emessa una prima cartella di pagamento, recante l’intero importo risultante dall’avviso di accertamento, anch’essa oggetto di impugnazione, accolta dalla CTP di Milano con sentenza del 16 dicembre 2008, basata sull’intervenuto annullamento dell’avviso di accertamento. A seguito di ciò l’Ufficio emise provvedimento di sgravio del ruolo. Tuttavia, dopo aver proposto appello avverso la sopra citata sentenza relativa all’avviso di accertamento, l’Ufficio iscrisse nuovamente, a ruolo straordinario, ai sensi dell’art. 15-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, le imposte e gli accessori di cui all’avviso medesimo. Il ricorso della curatela avverso la relativa cartella di pagamento è stato accolto dalla CTP di Milano con sentenza depositata l’8 ottobre 2009. La Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza n. 201/1/11, depositata il 9 novembre 2011, ha accolto l’appello principale dell’Ufficio e rigettato quello incidentale della curatela della società.


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Il giudice d’appello ha ritenuto, per quanto qui interessa, che l’iscrizione a ruolo straordinario trova il suo fondamento nel citato art. 15-bis del d.P.R. n. 602 del 1973 ed è legittima quando vi è fondato pericolo per la riscossione, senza che rilevi l’eventuale emissione di un avviso di accertamento o la pendenza del relativo giudizio d’impugnazione. Ha aggiunto che nella fattispecie sussistevano tutti i motivi per l’iscrizione a ruolo straordinario poiché la società era stata dichiarata fallita, né si era in presenza di bis in idem, poiché i presupposti delle due iscrizioni a molo erano differenti, in quanto la prima nasceva dal naturale iter a seguito dell’avviso di accertamento e la seconda si basava sul fondato pericolo per la riscossione. 2. Avverso la sentenza la N. s.r.l. in fallimento ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi e ha depositato memoria. 3. L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso. 4. La sesta sezione civile, sottosezione tributaria, con ordinanza interlocutoria n. 14849/14, depositata il 30 giugno 2014, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione del ricorso alle sezioni unite, sia in quanto vi è contrasto nella giurisprudenza della quinta sezione civile in ordine agli effetti che la pronuncia del giudice, ancorché non definitiva, che accerti l’illegittimità di un avviso di accertamento produce sul potere dell’Amministrazione di emettere misure cautelari a tutela del credito erariale, sia in considerazione dell’importanza della questione. 5. Il ricorso è stato, quindi, fissato per l’odierna udienza. 6. L’Agenzia delle entrate ha depositato memoria. Considerato in diritto. 1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 15-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nonché dell’art. 68 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Sostiene, in sintesi, che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo, il citato art. 15-bis del d.P.R. n. 602 del 1973 esplica la sua efficacia, come il precedente art. 15, nell’ambito della riscossione provvisoria nella fase amministrativa (nella quale il fondamento dell’iscrizione a ruolo è costituito dall’avviso di accertamento), mentre, una volta emanata la sentenza di primo grado, inizia l’eventuale riscossione frazionata nella fase giudiziale, che è invece disciplinata dall’art. 68 del d.lgs. n. 546 del 1992 e trova il suo presupposto giuridico nella sentenza medesima, la quale sostituisce l’avviso di accertamento. 2.1. Il d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (“Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito”), prevede, al capo II, nelle disposizioni qui rilevanti – nel testo, applicabile nella fattispecie ratione temporis, risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 –, quanto segue: – art. 11 (“Oggetto e specie dei ruoli”). 1. Nei ruoli sono iscritte le imposte, le sanzioni e gli interessi. 2. I ruoli si distinguono in ordinari e straordinari. 3. I ruoli straordinari sono formati quando vi è fondato pericolo per la riscossio-


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ne”. – art. 15 (“Iscrizioni nei ruoli in base ad accertamenti non definitivi”). “Le imposte, i contributi ed i premi corrispondenti agli imponibili accertati dall’ufficio ma non ancora definitivi, nonché i relativi interessi, sono iscritti a titolo provvisorio nei ruoli, dopo la notifica dell’atto di accertamento, per la metà degli ammontari corrispondenti agli imponibili o ai maggiori imponibili accertati”. “Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche per l’iscrizione a ruolo delle ritenute alla fonte dovute dai sostituti d’imposta in base ad accertamenti non ancora definitivi”. (Nel primo comma, la misura della metà è stata ridotta ad un terzo dall’art. 7 del d.l. n. 70 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 106 del 2011; l’originario secondo comma, il quale regolava la riscossione graduale in pendenza di giudizio, è stato soppresso dal citato d.lgs. n. 46 del 1999, ma doveva ritenersi già implicitamente abrogato, per incompatibilità, ad opera dell’art. 68 del d.lgs. n. 546 del 1992, di seguito riportato, avente il medesimo oggetto: cfr. Cass. nn. 7339 del 2003, 12791 del 2011). – art. 15-his (“Iscrizioni nei ruoli straordinari”). “1. In deroga all’articolo 15, nei ruoli straordinari le imposte, gli interessi e le sanzioni sono iscritti per l’intero importo risultante dall’avviso di accertamento, anche se non definitivo”. Il d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (che disciplina il processo tributario) dispone, all’art. 68 (rubricato “Pagamento del tributo in pendenza del processo”), per quanto interessa – e anche in questo caso nel testo applicabile ratione temporis, che: “1. Anche in deroga a quanto previsto nelle singole leggi d’imposta, nei casi in cui è prevista la riscossione frazionata del tributo oggetto di giudizio davanti alle commissioni, il tributo, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere pagato: a) per i due terzi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale che respinge il ricorso; b) per l’ammontare risultante dalla sentenza della commissione tributaria provinciale, e comunque non oltre i due terzi, se la stessa accoglie parzialmente il ricorso; c) per il residuo ammontare determinato nella sentenza della commissione tributaria regionale. Per le ipotesi indicate nelle precedenti lettere a), b) e c) gli importi da versare vanno in ogni caso diminuiti di quanto già corrisposto. 2. Se il ricorso viene accolto, il tributo corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere rimborsato d’ufficio entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza”. 2.2. Il nucleo della questione sottoposta all’esame di queste sezioni unite, che riveste notevole importanza nell’ambito del tema dell’assetto dei rapporti tra Fisco e contribuente, attiene all’efficacia dell’istituto cautelare di garanzia del credito tri-


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butario costituito dall’iscrizione nel ruolo straordinario, effettuata in caso di fondato pericolo per la riscossione ai sensi del citato art. 15-bis del d.P.R. n. 602/1973, a fronte di una sentenza non definitiva del giudice tributario che annulli, in tutto o in parte, l’atto impositivo presupposto: si tratta, cioè, di stabilire se la pronuncia del giudice in senso (totalmente o parzialmente) favorevole al contribuente, sia pure ancora soggetta ad impugnazione, si rifletta sulla detta misura cautelare, incidendo sulla sua efficacia, oppure se questa resti insensibile alla statuizione giudiziale e i suoi effetti perdurino fino all’eventuale sopravvenire del giudicato negativo del credito. 2.3. La risposta al quesito non può che essere la prima. Essa discende dal riconoscimento della efficacia immediata delle sentenze delle commissioni tributarie concernenti atti impositivi (ora l’immediata esecutività è stata espressamente prevista – ed ampliata – dall’art. 9 del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, che ha introdotto varie modifiche al d.lgs. n. 546/92 in attuazione dell’art. 10 della legge di delega n. 24 del 2013). Oltre al generale rinvio alle norme del codice di rito ordinario, e quindi anche all’art. 282, operato dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, tale immediata efficacia rinveniva la sua specifica base normativa nel citato art. 68 del medesimo testo normativo: sia il comma 2 – il quale prevede l’obbligo dell’Amministrazione di rimborsare entro breve termine al contribuente quanto versato in eccedenza rispetto al decisum della sentenza di accoglimento totale o parziale del ricorso -, sia il comma 1 – che disciplina la riscossione frazionata e graduale del tributo e dei relativi interessi sempre sulla base delle statuizioni della sentenza, trovando in questa, quindi, il titolo per l’esercizio del relativo potere -, postulano evidentemente che le sentenze tributarie di merito abbiano un effetto immediato: basta osservare che, se quanto già eventualmente riscosso in più va (celermente) restituito, a fortiori non può configurarsi la riscossione di un credito la cui esistenza sia stata negata dalla pronuncia del giudice. Va aggiunto che, in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, l’art. 18 del d.lgs. n. 472 del 1997 prevede, al comma 4, che le sentenze delle commissioni tributarie concernenti provvedimenti di irrogazione delle sanzioni sono “immediatamente esecutive” (nei limiti di cui al successivo art. 19, che richiama il menzionato art. 68). 2.4. Se, dunque, il giudice tributario – conformemente al consolidato orientamento di questa Corte secondo il quale il processo tributario è annoverabile non tra quelli di “impugnazione-annullamento” bensì tra quelli di “impugnazione-merito”, in quanto è diretto non alla mera eliminazione dell’atto impugnato, ma, estendendosi al rapporto d’imposta, alla pronunzia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione del contribuente sia dell’accertamento dell’amministrazione (tra altre, Cass. nn. 4280 del 2001, 3309 del 2004, 6918 del 2013, 19750 del 2014) – annulla, totalmente o parzialmente, l’atto impositivo (pur se in via non definitiva in attesa dell’eventuale giudizio di impugnazione), quest’ultimo, rispettivamente in toto o nei limiti


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della parte annullata, non può che perdere efficacia quale titolo idoneo a legittimare, in radice, l’inizio o la prosecuzione di un’azione di riscossione provvisoria, anche avente natura cautelare: riconoscere all’istituto in esame una capacità di resistenza all’annullamento, ancorché non ancora irretrattabile, dell’avviso di accertamento che ne costituisce il presupposto di base, cioè, in definitiva, al venir meno anche della mera probabilità di fondatezza della pretesa tributaria in ragione della quale la misura è adottata (e quindi dell’esistenza del diritto di credito il cui soddisfacimento si intende garantire), non ha fondamento normativo e non risponde ad un equo bilanciamento degli interessi contrapposti. 2.5. L’Agenzia delle entrate, nella memoria depositata ex art. 378 cod. proc. civ., sostiene che l’iscrizione a ruolo straordinario non troverebbe ostacolo nella sentenza che accerti l’insussistenza del credito qualora essa sia emessa (come nella fattispecie) nei confronti di un soggetto fallito, in quanto in tal caso la misura ha il solo fine di consentire all’agente della riscossione l’ammissione dell’intero credito al passivo del fallimento. La tesi non può essere accolta, ponendosi in contrasto con le considerazioni sin qui svolte, le quali hanno portata generale e non autorizzano, quindi, distinzioni nell’ambito delle situazioni in presenza delle quali è consentito il ricorso allo strumento in esame. Non può non rilevarsi, peraltro, che questa Corte ha affermato, in materia, da un lato che la legittimazione del concessionario a far valere il credito tributario nell’ambito della procedura fallimentare non esclude la legittimazione dell’Amministrazione finanziaria, che conserva la titolarità del credito azionato e la possibilità di agire direttamente per farlo valere in sede di ammissione al passivo; dall’altro, che la domanda di ammissione al passivo di un fallimento avente ad oggetto un credito di natura tributaria non presuppone necessariamente, ai fini del buon esito della stessa, la precedente iscrizione a ruolo del credito azionato, la notifica della cartella di pagamento e l’allegazione all’istanza di documentazione comprovante l’avvenuto espletamento delle dette incombenze, potendo viceversa essere basata anche su titoli di diverso tenore (quali, ad esempio, titoli erariali, fogli prenotati a ruolo, sentenze tributarie di rigetto dei ricorsi del contribuente) (Cass., Sez. U., n. 4126 del 2012). 3. Posto, dunque, che l’iscrizione nei ruoli straordinari non si sottrae alle conseguenze della pronuncia giudiziale non definitiva che incide sulla legittimità dell’atto impositivo che ne costituisce il titolo, restano da precisare gli effetti che l’iter di quel processo produce sulla misura stessa. Va escluso che la disciplina possa essere identificata con quella dettata dal più volte richiamato art. 68 del d.lgs. n. 546 del 1992, il quale modula variamente l’ammontare del pagamento del tributo in relazione all’esito dei singoli gradi del processo nei casi ordinari: tale regime è inapplicabile all’istituto dell’iscrizione nel ruolo straordinario, che ha natura speciale e risponde a peculiari finalità di garanzia del credito erariale in caso di pericolo per la riscossione, meritevoli di tutela.


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Ne deriva che la soluzione non può che essere, anche sotto il profilo di un giusto contemperamento degli interessi in conflitto, quella del pieno adeguamento dello strumento cautelare alla statuizione del giudice; con la conseguenza, quindi, che il ruolo (il cui importo corrisponde a quello dell’atto impositivo) deve essere sgravato, in tutto o in parte, in conformità al decisum, dall’ente impositore, o la relativa cartella annullata, nella stessa misura, dal giudice eventualmente adito; a fortiori è illegittima la misura cautelare adottata – come nella specie – dopo l’integrale accoglimento del ricorso del contribuente avverso l’atto presupposto. Resta, infine, fermo, anche in questo caso e in base alla stessa ratio, l’obbligo di rimborso dell’eccedenza eventualmente versata. 4. Va, pertanto, enunciato il seguente principio di diritto: “L’iscrizione nei ruoli straordinari dell’intero importo delle imposte, degli interessi e delle sanzioni risultante dall’avviso di accertamento non definitivo, prevista, in caso di fondato pericolo per la riscossione, dagli artt. 11 e 15-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, costituisce misura cautelare posta a garanzia del credito erariale, la cui legittimità dipende pur sempre da quella dell’atto impositivo presupposto, che ne è il titolo fondante: ne deriva che, qualora intervenga una sentenza, anche se non passata in giudicato, del giudice tributario che annulla, in tutto o in parte, tale atto, l’ente impositore (così come il giudice dinanzi al quale sia stata impugnata la relativa cartella di pagamento) ha l’obbligo di agire in conformità alla statuizione giudiziale, sia nel caso in cui l’iscrizione non sia stata ancora effettuata, sia, se già effettuata, adottando i consequenziali provvedimenti di sgravio e, eventualmente, di rimborso dell’eccedenza versata”. 5. Il primo motivo di ricorso va, pertanto, nei detti termini, accolto, con assorbimento del secondo. La sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con l’accoglimento del ricorso introduttivo della contribuente. 6. La novità della questione induce a disporre la compensazione delle spese dell’intero giudizio. P.Q.M. Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della contribuente. Compensa le spese dell’intero giudizio.


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Ruolo straordinario e misure cautelari preclusi se l’accertamento è annullato. Sommario: 1. L’intervento delle Sezioni Unite in tema di riscossione straordinaria. – 2. L’iscrizione a ruolo straordinaria e la sua funzione cautelare. – 3. Il rapporto tra riscossione straordinaria e giudizio sull’atto di accertamento. – 4. L’estensione del principio di diritto con riguardo alle altre misure cautelari. – 5. Il superamento della giurisprudenza in tema di fermo amministrativo o contabile.

Il contributo analizza le ripercussioni della sentenza a Sezioni Unite con la quale la Corte di Cassazione ha dichiarato l’illegittimità del ruolo straordinario formato sulla base di un avviso di accertamento annullato dal giudice tributario in via non definitiva. La novità del principio di diritto va apprezzata soprattutto con riguardo alle misure cautelari diverse dal ruolo straordinario, ed in particolare in relazione ai fermi amministrativi o contabili: anche tali strumenti dovrebbero perdere efficacia a seguito di sentenza, anche non definitiva, di accoglimento del ricorso del contribuente nel giudizio relativo all’atto impositivo. The article analyses the repercussions of the Supreme Court ruling in which the Grand Chamber (“Sezioni Unite”) stated that the extraordinary measures in tax collection (“ruolo straordinario”) cannot be imposed upon the taxpayer when the notice of assessment has been declared illegitimate by any tax court ruling, including non-final statements. The novelty of the ruling must be appreciated as it seems to be applicable also to all precautionary measures different from the extraordinary tax collection, including in particular administrative holds. Also them should lose their effectiveness when any ruling, including intermediate ones, upholds the appeal of the taxpayer in the judgment concerning the underlying notice of assessment.

1. L’intervento delle Sezioni Unite in tema di riscossione straordinaria. – Con la sentenza in commento (1), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito i limiti dell’iscrizione a ruolo straordinaria. Secondo il Supremo Collegio, in presenza di una sentenza favorevole al contribuente, ancorché non passata in giudicato, che annulla in tutto o in parte l’atto impositivo presupposto, l’ente impositore ha l’obbligo di agire in conformità a tale statuizione giudiziale, astenendosi dall’iscrizione a ruolo straordinario ovvero

(1) In dottrina, cfr. M. Basilavecchia, Effetti della sentenza tributaria sulla riscossione straordinaria, in GT - Riv. giur. trib., 2017, 217; F. Randazzo, Iscrizione nei ruoli straordinari: immediatamente esecutiva la sentenza anche se impugnata, in Corr. trib., 2017, 1349.


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effettuando lo sgravio, totale o parziale, del ruolo emesso. Per le Sezioni Unite gli strumenti cautelari, tra i quali rientra l’iscrizione a ruolo straordinario, devono infatti adeguarsi pienamente alla statuizione del giudice tributario relativa all’atto impositivo. La questione, assegnata al Supremo consesso della Cassazione sia per dirimere il contrasto interpretativo (2) sia per la sua importanza (3), concerne più in generale i rapporti tra giurisdizione e misure cautelari, nonché i presupposti di queste ultime. La soluzione adottata, incentrata sul riconoscimento della natura cautelare dell’iscrizione a ruolo straordinaria, costituisce un principio di carattere generale che merita di trovare applicazione con riguardo a tutte le misure cautelari pro Fisco, con particolare riguardo al fermo amministrativo e alla sospensione dei rimborsi (non a caso il contrasto giurisprudenziale delle Sezioni semplici concerneva perlopiù questi ultimi), istituti rispetto ai quali l’intervento delle Sezioni Unite dovrebbe comportare il superamento della prevalente ricostruzione giurisprudenziale avallata dalla Sezione tributaria della Cassazione.

(2) Secondo Cass., Sez. trib., 22 settembre 2006, n. 20256, in Corr. trib., 2006, 3500, con commento di M. Basilavecchia, Il fermo amministrativo non sopravvive all’annullamento dell’atto impugnato, la sentenza che annulla l’atto impositivo «priva, sia pure non in via definitiva (non essendosi ancora formato il giudicato) del supporto di un atto amministrativo legittimante la pretesa tributaria, che non può più formare oggetto di alcuna forma di riscossione provvisoria». Tale orientamento, espresso in tema di fermo contabile ex art. 69, R.D. n. 2440/1923, esclude che la situazione patrimoniale del contribuente venga pregiudicata da un atto amministrativo che il giudice competente ha valutato illegittimo, richiamando a supporto di tale conclusione il principio di “parità delle parti” sancito dall’art. 111 della Costituzione: «quando si entra nell’ambito del processo, le parti, debbono essere collocate “in condizioni di parità”, davanti a giudice terzo e imparziale. E questa “parità” sarebbe lesa ove la Amministrazione potesse continuare a godere di una garanzia che, lungi dall’essere avallata dal giudice, sia stata da questo disattesa e dichiarata illegittima». In senso opposto, a partire da Cass., Sez. trib., 13 luglio 2012, n. 11962, si è andato consolidando l’orientamento recepito da Cass., Sez. trib., 28 marzo 2014, n. 7320 e da Cass., Sez. trib., 16 marzo 2016, n. 5139, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 789, con nota di D. Peruzza, Fermo amministrativo: confermata la “teoria dei cerchi concentrici”. Secondo tali pronunce, l’Amministrazione avrebbe piena facoltà di disporre misure cautelari, in particolare il fermo contabile dei crediti vantati dal contribuente, «fino al sopraggiungere dell’eventuale giudicato negativo circa la concorrente ragione di credito vantata dall’erario», alla luce del potere autoritativo conferito alla Pubblica Amministrazione. (3) La questione è stata assegnata alle Sezioni Unite a seguito di Cass., Sez. VI-T, ord. 30 giugno 2015, n. 14849, in Corr. trib., 2014, 2570, con nota di F. Randazzo, Alle Sezioni Unite le sorti del fermo fondato sull’accertamento annullato con sentenza non passata in giudicato.


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2. L’iscrizione a ruolo straordinaria e la sua funzione cautelare. – La sentenza concerne la cd. iscrizione a ruolo straordinaria, strumento cautelare a cui gli uffici finanziari possono ricorrere qualora vi sia fondato pericolo per la riscossione. A mente dell’art. 15-bis, D.P.R. n. 602/1973, gli uffici possono iscrivere nei ruoli straordinari le imposte, gli interessi e le sanzioni per l’intero importo risultante dall’avviso di accertamento, anche se quest’ultimo non sia definitivo. Il procedimento “straordinario” deroga quello “ordinario”, in base al quale i tributi sono riscossi secondo un principio di gradualità dei pagamenti dovuti in pendenza del giudizio sull’atto impositivo (4), consentendo all’amministrazione di procedere all’immediata iscrizione a ruolo di tutte le somme dovute, laddove la situazione economico-finanziaria del contribuente non offra garanzie idonee a soddisfare la pretesa fiscale. Ciò non muta la natura del ruolo (il ruolo straordinario non è che una specie qualificata di quello ordinario (5), avente la natura di atto della riscossione (6)), ma conferisce ad esso una funzione “cautelare”, individuata espressa-

(4) L’art. 15, D.P.R. n. 602/1973, in combinato disposto con l’art. 68, D.Lgs. n. 546/1992, disciplina la riscossione “frazionata” degli importi dovuti a titolo di imposta e interessi relativi a provvedimenti impositivi non definitivi, precisando che il tributo, con i relativi interessi, può essere riscosso per un terzo dell’ammontare complessivo, in pendenza del giudizio di primo grado; per i due terzi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale che respinge il ricorso e, per il residuo, a seguito della sentenza di secondo grado. La stessa disciplina, in virtù del richiamo operato dall’art. 24, D.Lgs. n. 472/1997, si applica alle sanzioni amministrative, con la differenza che quest’ultime non possono essere riscosse in pendenza del giudizio di primo grado ma, nella misura dei due terzi (o del diverso ammontare, purché non superiore ai due terzi della sanzione irrogata) a seguito della sentenza di primo grado. Sui rapporti tra l’art. 15, D.P.R. n. 602/1973, in materia di riscossione graduata in fase amministrativa, e l’art. 68, D.Lgs. n. 546/1992 relativo alla riscossione frazionata in pendenza del processo, v. Cass., Sez. trib., 13 maggio 2003, n. 7339, in GT – Riv. giur. trib., 2003, 1136 e ss., con nota di F. Randazzo, Non abrogate le norme sull’iscrizione a ruolo in base ad accertamenti non definitivi. (5) F. Amatucci, Ruolo straordinario e tutela del contribuente, in Corr. trib., 1999, 2922. (6) Cfr. E. De Mita, Principi di diritto tributario, Milano, 2011, 352; Id., Le iscrizioni a ruolo delle imposte sui redditi, Milano, 1979; Id., La funzione e gli atti della riscossione, in F. Amatucci (a cura di), Trattato di diritto tributario, Padova, 2001, 1069 e ss.; G. Falsitta, Il ruolo di riscossione. Natura ed efficacia oggettiva dell’iscrizione a ruolo del debito d’imposta, Padova, 1972; N. Dolfin, Riscossione delle imposte sui redditi, in Nov. Dig., Appendice, VI, 1986, 870 e ss. Sullo strumento del ruolo nella riscossione dei tributi, si rinvia infine a G. Boletto, Il ruolo di riscossione nella dinamica del prelievo delle entrate pubbliche, Milano, 2010.


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mente nel periculum per la riscossione, quale presupposto per la formazione del ruolo straordinario in luogo di quello ordinario. La riscossione avviene dunque in maniera più celere e in relazione all’intero credito, e non ad una parte di esso, giacché all’amministrazione, in presenza di un pericolo per la riscossione, viene concesso di derogare al principio di gradualità dei pagamenti dovuti in assenza di un avviso di accertamento definitivo, che per regola generale garantisce il contribuente. Analoga facoltà di procedere in via cautelare all’immediata riscossione di tutti gli importi oggetto di accertamento è prevista in relazione agli accertamenti esecutivi, emessi, a seguito della concentrazione della riscossione nell’accertamento introdotta dall’art. 29, D.L. n. 78/2010, in materia di imposte sui redditi, IVA e IRAP a far data dal 1° ottobre 2011 (7). Il D.L. n. 78/2010 ha infatti attribuito agli enti impositori, «in presenza di fondato pericolo per il positivo esito della riscossione», la facoltà, decorsi sessanta giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento e del contestuale provvedimento di irrogazione delle sanzioni, di «affidare in carico» agli agenti della riscossione le somme in essi indicate, anche prima dei termini ordinari, ovvero prima di trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento (8). A prescindere dal titolo sottostante sia esso un avviso di accertamento esecutivo o meno, non muta la sostanza e l’ampiezza del potere cautelare (e discrezionale) dell’ente impositore, il quale può “accelerare” la riscossione laddove ravvisi elementi di “pericolo” per la stessa che richiedano la massima cautela nell’azione di prelievo forzoso delle somme di cui è creditore. Proprio la natura cautelare del ruolo (o affidamento in carico) straordina-

(7) Sull’accertamento esecutivo si rinvia a F. Tesauro, L’accertamento tributario con efficacia esecutiva, in Giur. it., 2012, 965 e ss.; E. Marello, L’accertamento esecutivo: ambito di applicazione e profili generali, in Giur. it., 2012, 966 e ss.; S. La Rosa, Riparto delle competenze e concentrazione degli atti nella disciplina della riscossione, in Riv. dir. trib., 2011, I, 577 e ss.; G. Gaffuri, Aspetti critici della motivazione relativa agli atti d’imposizione e l’esecutività degli avvisi di accertamento, in Riv. dir. trib., 2011, I, 597 e ss.; A. Giovannini, Riscossione in base al ruolo e agli atti di accertamento, in Rass. trib., 2011, 22 e ss. (8) In tale ipotesi, ed anche «ove gli agenti della riscossione, successivamente all’affidamento in carico vengano a conoscenza di elementi idonei a dimostrare il fondato pericolo di pregiudicare la riscossione», non opera la sospensione legale di centottanta giorni della riscossione forzata prevista con D.L. n. 70/2011. Per una critica della “sospensione ope legis”, anche avuto riguardo alla tecnica utilizzata dal legislatore, si rinvia a C. Glendi, Nuovi profili della tutela cautelare a fronte degli atti «impoesattivi», in Corr. trib., 2012, 537.


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rio ha alimentato il dibattito che si è sviluppato in dottrina e in giurisprudenza in ordine al tema dei presupposti legittimanti e della correlata questione relativa alla motivazione della cartella di pagamento emessa sulla base di un ruolo ex art. 15-bis D.P.R. n. 602/1973 (9). L’emissione del ruolo straordinario deve trovare riscontro in un’esigenza cautelare del Fisco, che va esternata dall’ente impositore, al fine di giustificare il presupposto fondante il potere di accelerare, in via cautelare, la riscossione. Tuttavia, mentre da una parte si è affermato che l’intenzione del legislatore è quella di attribuire agli uffici finanziari la massima discrezionalità nel valutare l’esistenza o meno di eventuali pericoli per la riscossione dei crediti erariali e che quindi non vi sarebbe alcun obbligo di motivare il periculum in mora (10), dall’altra si ravvisa la necessità di una motivazione compiuta in ordine alle ragioni che hanno determinato il ricorso all’emissione del ruolo straordinario in luogo di quello ordinario (11). Tale posizione, ad oggi prevalente, richiede che l’amministrazione finanziaria espliciti le ragioni della “straordinarietà” dell’iscrizione a ruolo, al fine di consentire al contribuente il diritto alla difesa e il controllo giudiziale sulla fondatezza dell’iscrizione a ruolo.

(9) A. Carinci, Autonomia e indipendenza del procedimento di iscrizione a ruolo rispetto alla formazione della cartella di pagamento, in GT – Riv. giur. trib., 2011, 971 e ss.; A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 173 e ss.; Id., Riscossione straordinaria e misure cautelari, in Giur. it., 2012, 979 e ss.; Id., Riscossione in base al ruolo e atti d’accertamento, cit., 25; Id., Fondato pericolo per la riscossione ed esazione straordinaria nell’accertamento esecutivo, in Riv. trim. dir. trib., 2012, 119 e ss.; A. Fabri, Il ruolo straordinario e l’obbligo di motivazione, in GT – Riv. giur. trib., 2012, 359 e ss.; A. Taglioni, Brevi considerazioni sull’iscrizione a ruolo a titolo straordinario, in Boll. trib., 2013, 378 e ss. (10) Comm. trib. reg. Lombardia, 19 aprile 2011, n. 66/12/11; Id., 17 maggio 2011, n. 76/12/11, in M. Scuffi (diretto da), Massimario delle commissioni tributarie della Lombardia 2010-2011, Milano, 2012, 424-425. Nello stesso senso, cfr. circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 4/E del 15 febbraio 2010 e nota ministeriale n. 2011/141776 del 30 settembre 2011, nelle quali l’amministrazione riconosce la necessità di esplicitare le ragioni di pericolo per l’adozione delle misure cautelari ex art. 22, D.Lgs. n. 472/1997, escludendola, invece, per le ipotesi di formazione del titolo esecutivo straordinario. (11) Comm. trib. prov. Milano, 22 marzo 2013, n. 107/23/13, in Scuffi (diretto da), Massimario delle commissioni tributarie della Lombardia 2012-2013, Milano, 2014, 445, secondo cui presupposto indispensabile per l’iscrizione nel ruolo straordinario è la dimostrazione della effettiva sussistenza di un periculum in mora da accertare in concreto; nello stesso senso, cfr. Comm. trib. reg. Lombardia, 12 aprile 2012, n. 57/1/2012, in Banca dati Fisconline; Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 19 aprile 2010, n. 65/1/10, in Corr. trib., 2010, 1907 e ss., con nota di P. Piciocchi, Illegittimo il ruolo straordinario privo di adeguata motivazione; Comm. trib. prov. Bari, 16 marzo 2009, n. 28/2/09; Comm. trib. prov. Ferrara, 13 aprile 2008, n. 11/1/08; Comm. trib. I grado Lecce, 17 maggio 1984, n. 215/1/85, in Dir. prat. trib., 1985, II, 1108.


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Ed infatti, l’individuazione del periculum in mora va valutata in concreto, alla luce delle circostanze del caso, secondo le medesime categorie previste per le misure cautelari “tipiche” previste dall’art. 22, D.Lgs. n. 472/1997 (12). Il periculum da ruolo straordinario assume dunque la medesima fisionomia di quello che caratterizza le misure cautelari dell’ipoteca e del sequestro conservativo, con ciò avvalorando ulteriormente la natura cautelare dell’iscrizione a ruolo straordinario. Non potrebbe essere diversamente, viste le gravissime conseguenze, patrimoniali e non, che possono derivare a seguito dell’iscrizione a ruolo ante tempus di tutte le somme accertate. 3. Il rapporto tra riscossione straordinaria e atto di accertamento. – Il presupposto per l’emissione del ruolo straordinario è rinvenibile non già nell’esistenza di una mera “ragione di credito” dell’amministrazione finanziaria, bensì di un credito indicato nel suo preciso ammontare in uno specifico provvedimento impositivo (atto di accertamento, di contestazione o di irrogazione delle sanzioni) che sia già stato ritualmente notificato al contribuente (13): è necessario un atto “presupposto”, che costituisce titolo per la riscossione cautelare. L’esistenza di due atti distinti, di accertamento e di riscossione (con funzione cautelare), pone il problema di stabilire se l’annullamento, con sentenza non definitiva, dell’atto “cautelato” (ie, l’avviso di accertamento), sia sufficiente a determinare l’illegittimità del provvedimento di riscossione straordinaria che su tale annullato atto si fonda. La questione è stata affrontata dalle Sezioni Unite, le quali, nella sentenza in commento, hanno chiarito che le sorti giudiziarie dell’atto di accertamento condizionano ineludibilmente quelle dell’atto di riscossione cautelare.

(12) A titolo esemplificativo, la Sezione tributaria della Corte di Cassazione, smentita sul punto dalla sentenza in commento, ritiene che l’esistenza di una procedura concorsuale costituisca circostanza idonea a costituire il presupposto per la formazione del ruolo straordinario: sul concordato preventivo, si rinvia a Cass., Sez. trib., 19 luglio 1999, n. 7654, in Banca dati Fisconline; sul fallimento, cfr., per tutte, Cass., Sez. trib., 27 maggio 2011, n. 11736, in GT – Riv. giur. trib., 2011, 971 e ss., con commento di A. Carinci, Autonomia e indipendenza del procedimento di iscrizione a ruolo rispetto alla formazione della cartella di pagamento. (13) Sulla base di meri atti istruttori, quale il processo verbale di constatazione, possono essere disposte le misure cautelari dell’ipoteca fiscale e del sequestro conservativo di cui all’art. 22, D.Lgs. n. 472/1997.


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Secondo la Suprema Corte, la pronuncia del giudice sull’atto impositivo totalmente o parzialmente favorevole al contribuente, sia pure impugnata ovvero ancora soggetta ad impugnazione, si riflette sulla misura cautelare, incidendo sulla sua efficacia. In particolare, laddove il giudice tributario annulli, totalmente o parzialmente, l’atto impositivo, «quest’ultimo, rispettivamente in toto o nei limiti della parte annullata, non può che perdere efficacia quale titolo idoneo a legittimare, in radice, l’inizio o la prosecuzione di un’azione di riscossione provvisoria, anche avente natura cautelare». La motivazione che sorregge il pronunciamento del Supremo Collegio è imperniata sulla efficacia immediatamente esecutiva delle sentenze tributarie, in ordine alla quale la sentenza si diffonde ampiamente richiamando i principali riferimenti normativi sia con riguardo alla disciplina attuale (14) che a quella vigente ratione temporis (15). Giacché le sentenze tributarie hanno efficacia immediata, comportando obblighi restitutori in capo all’Amministrazione finanziaria, esse sono altresì idonee ad inibire l’applicazione di misure cautelari ovvero a comportarne la caducazione, laddove queste siano già state disposte: «se quanto già eventualmente riscosso in più va (celermente) restituito, a fortiori non può configurarsi la riscossione di un credito la cui esistenza sia stata negata dalla pronuncia del giudice».

(14) Le Sezioni Unite richiamano in particolare le disposizioni di legge introdotte a seguito della riforma del processo tributario di cui al D.Lgs. n. 156/2015, ed in particolare l’art. 67-bis, D.Lgs. n. 546/1992 che prevede la generalizzata esecutività delle sentenze emesse dalle Commissioni tributarie, prima esclusa per le sentenze di condanna in favore del contribuente. In dottrina v. F. Randazzo, Commento all’art. 67-bis, D.Lgs. n. 546/1992, in C. Consolo - C. Glendi (a cura di), Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2017, 908, il quale dubita della portata innovativa della disposizione, quantomeno con riguardo alle sentenze di annullamento, per le quali già il sistema previgente consentiva di affermarne la piena esecutività. (15) Per le sentenze di annullamento l’efficacia esecutiva doveva ritenersi già pacifica prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 156/2015, sia sulla base del generale rinvio all’art. 282 del codice di rito ordinario operato dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, sia sulla specifica base normativa rappresentata dall’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992, il quale prevede l’obbligo dell’Amministrazione di rimborsare entro breve termine al contribuente quanto versato in eccedenza rispetto al decisum della sentenza di accoglimento del ricorso e delinea il sistema di riscossione frazionata sulla base delle statuizioni della sentenza. Viene infine richiamato l’art. 18, D.Lgs. n. 472/1997 in tema di sanzioni amministrative, il quale prevede, al comma 4, che le sentenze delle commissioni tributarie concernenti provvedimenti di irrogazione delle sanzioni sono “immediatamente esecutive”.


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La conclusione appare pienamente condivisibile, finanche scontata, atteso che l’annullamento in sede giudiziale dell’atto di accertamento fa venir il titolo in base al quale l’Amministrazione finanziaria è legittimata alla riscossione, sia essa ordinaria oppure straordinaria, come nel caso affrontato dalle Sezioni Unite. Nel rapporto tra accertamento e riscossione (ancorché straordinaria) è infatti pacifico che le sorti dell’accertamento condizionino quelle della riscossione. Non a caso, la questione affrontata dalle Sezioni Unite non nasce in tema di ruolo straordinario (nel qual caso la funzione dell’accertamento quale fase prodromica della riscossione è da sola idonea a supportare le conclusioni sopra indicate) bensì con riguardo ad altre misure cautelari, in particolare i cd. fermi amministrativi o contabili. È proprio con riguardo a tale categoria di misure cautelari che può essere maggiormente apprezzata la novità del principio di diritto dettato dalla sentenza in esame. 4. L’estensione del principio di diritto con riguardo alle altre misure cautelari. – La conclusione raggiunta dalle Sezioni Unite in tema di ruolo straordinario appare suscettibile di applicazione generalizzata a tutte le misure cautelari, le quali, secondo il principio di diritto che qui si commenta, dovrebbero perdere di efficacia a seguito di sentenza, anche non definitiva, con la quale viene accolto, in tutto o in parte, il ricorso del contribuente nel giudizio relativo all’atto impositivo. Il medesimo iter argomentativo utilizzato dalle Sezioni Unite per il ruolo straordinario non può non essere esteso anche alle altre misure cautelari. Ciò va affermato con certezza quantomeno con riguardo all’ipoteca e al sequestro conservativo, ove l’art. 22, comma 7, D.Lgs. n. 472/1997, stabilisce espressamente che i provvedimenti cautelari perdono efficacia a seguito della sentenza, «anche non passata in giudicato», con la quale viene accolto il ricorso del contribuente nel giudizio relativo alla pretesa tributaria. Ma la stessa soluzione si impone con riguardo alla sospensione dei rimborsi prevista dal successivo art. 23 (16) e al cd. fermo contabile pre-

(16) Sulla sospensione dei rimborsi, in dottrina cfr. C. Buccico, Misure cautelari a tutela del credito erariale, cit., 18 e ss.; G. Ingrao, La tutela della riscossione dei crediti tributari, cit. 164 e ss.; M. Trivellin, Art. 23. Sospensione dei rimborsi e compensazione,


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visto dal R.D. n. 2440/1923 (17), sia pur in assenza di un dato normativo testuale. In effetti, ancorché le disposizioni di legge non indichino alcunché in merito agli effetti su tali strumenti dell’intervenuto annullamento dell’atto impositivo con sentenza non passata in giudicato, appare evidente che l’accertamento giudiziale circa l’inesistenza del diritto di credito dell’erario fa venir meno il fumus boni iuris che giustifica l’adozione del provvedimento cautelare, qualunque esso sia. Il provvedimento cautelare, tra cui rientrano la sospensione dei rimborsi e il fermo contabile, è infatti, per sua stessa natura, “precario e provvisorio”, nel senso che esso può operare solo in attesa di una decisione nel merito da parte dell’autorità giurisdizionale adita. Sicché, laddove intervenga una decisione del Giudice che dichiari insussistente il diritto a cautela del quale viene adottata la misura cautelare, quest’ultima cessa di produrre effetti giuridici. Ciò è del resto chiaramente disposto dall’art. 669-novies, cod. proc. civ., il quale, ponendosi come regola generale in tema di misure cautelari, dispone che «il provvedimento cautelare perde efficacia se con sentenza, anche non passata in giudicato, è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso». Tale disposizione è espressiva di un principio generale dell’ordinamento, che vale sia per le misure cautelari processuali che per quelle disposte in via

in F. Moschetti - L. Tosi (a cura di), Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative, cit., 735 e ss.; Boletto, Commento all’art. 23, D.Lgs. n. 472/1997, in G. Falsitta - A. Fantozzi - G. Marongiu - F. Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo II. Accertamento e sanzioni, a cura di F. Moschetti, Padova, 2011, 796 e ss.; Messina, La compensazione nel diritto tributario, Milano, 2006, 85 e ss.; F. Pistolesi, Necessità di un assetto uniforme tra atti di blocco dei rimborsi e fermo amministrativo, in Corr. trib., 2011, 2686 e ss. (17) Art. 69, comma 6, R.D. 18 novembre 1923, n. 2440. Sul fermo amministrativo cfr. S. Cassese, Il fermo amministrativo, un privilegio della pubblica amministrazione, in Giur. cost., 1972, 330 e ss.; C.A. Molinari, Il fermo amministrativo, in Foro amm., 1969, III, 585 e ss.; R. Roffi, Osservazioni sul c.d. fermo amministrativo, in Giur. it., 1973, IV, 132; F. Garri, voce Fermo amministrativo, in Enc. giur., XIV, Roma, 1989, 1 e ss.; A. Bennati, Manuale di contabilità di Stato, Napoli, 1990, 521 e ss.; O. Sepe, voce Spese dello Stato e degli enti pubblici, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, 385 e ss. Sulle applicazioni in materia tributaria del fermo contabile, cfr. C. Buccico, Misure cautelari a tutela del credito erariale, Torino, 2013, 1 e ss.; G. Ingrao, La tutela della riscossione dei crediti tributari, Bari, 2012, 143 e ss.; M. Basilavecchia, Il fermo amministrativo nei procedimenti tributari, in Rass. trib., 1995, 241 e ss.; A.E. Granelli, Il fermo amministrativo in materia tributaria, in Dir. prat. trib., 1985, I, 897 e ss.


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amministrativa: laddove l’autorità giurisdizionale abbia stabilito, nel merito, che il diritto è insussistente, non può essere concessa alcuna misura cautelare a tutela di tale inesistente diritto, perché manca il fumus boni iuris necessario per l’adozione dello strumento cautelare. Si tratta di una conclusione condivisibile, in parte già raggiunta dalla giurisprudenza di merito (18), che trova ora l’avallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. 5. Il superamento della giurisprudenza in tema di fermo amministrativo o contabile. – Una volta esteso l’ambito di applicazione del principio di diritto alle misure cautelari diverse dall’iscrizione a ruolo straordinario, dovrebbe potersi affermare il superamento del consolidato orientamento in base al quale il cd. fermo contabile potrebbe sopravvivere «fino al sopraggiungere dell’eventuale giudicato negativo circa la concorrente ragione di credito vantata dall’erario» (19). Difatti, tale posizione non pare più giustificabile alla luce del chiaro dictum delle Sezioni Unite: «riconoscere all’istituto in esame una capacità di resistenza all’annullamento, ancorché non ancora irretrattabile, dell’avviso

(18) Secondo Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 21 settembre 2009, n. 170/01/09, in Banca dati Fisconline, «la sospensione può essere effettuata soltanto nei limiti delle somme risultanti dalle sentenze; sentenze che, nel caso specifico hanno azzerato le pretese erariali. Ne consegue che l’Ufficio non può opporre sospensione alcuna. Si è scritto più sopra “sentenze (definitive o meno)”: infatti sulle corde del noto brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, manca qualsiasi previsione in tal senso nella più citata norma, la quale appunto non richiede la definitività della pronuncia giudiziale; disposizione normativa, oltre tutto, coerente con la natura cautelare della sospensione, per cui in presenza di annullamento dell’accertamento, da parte del Giudice di primo grado, vien meno il fumus boni iuris, quale presupposto per i provvedimenti cautelari e cioè, nel caso, della sospensione cautelare ex art. 23, comma 1, D.Lgs. n. 472/1997». Nello stesso senso, Comm. trib. prov. Milano, 30 maggio 2016, n. 4758, in Il Fisco, 2016, 2692, con commento di D. Peruzza, La sentenza non definitiva favorevole al contribuente preclude la misura cautelare della sospensione del rimborso. (19) Cass., Sez. trib., 21 marzo 2012, n. 4505, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2013, II, 1 e ss., secondo cui il fermo contabile «trova piena applicazione anche in materia di IVA, per cui deve ritenersi legittimo il diniego di rimborso di IVA da parte dell’amministrazione finanziaria, in dipendenza dell’adozione di provvedimento di fermo amministrativo delle somme pretese in restituzione, in ragione della pendenza di controversie tra le parti su rettifiche relative ad altre annualità d’imposta (in tal senso, le citate Cass. nn. 4567 del 2004 e 9853 del 2011)». Nello stesso senso, cfr. Cass., Sez. trib., 5 maggio 2011, n. 9853, in Il fisco, 2011, 2112 e ss., con nota di S. Servidio, Rimborso Iva e fermo amministrativo.


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di accertamento che ne costituisce il presupposto di base, cioè, in definitiva, al venir meno anche della mera probabilità di fondatezza della pretesa tributaria in ragione della quale la misura è adottata (e quindi dell’esistenza del diritto di credito il cui soddisfacimento si intende garantire), non ha fondamento normativo e non risponde ad un equo bilanciamento degli interessi contrapposti». Tale pronunciamento è perfettamente applicabile al fermo contabile, di cui è pacifica in giurisprudenza la funzione cautelare (20). Pertanto, in caso di annullamento dell’atto impositivo, anche con sentenza non definitiva, l’Amministrazione finanziaria non può disporre il fermo ed è tenuta a revocarlo se applicato in precedenza. Tale soluzione consente l’equo bilanciamento degli interessi contrapposti e si pone perfettamente in linea con il principio di proporzionalità che caratterizza le misure, quali quelle cautelari, fortemente invasive della sfera privata (21). L’esecutività delle sentenze tributarie non fa che rafforzare tale conclusione. A seguito della riforma del D.Lgs. n. 156/2015, in caso di esito favorevole al contribuente del giudizio, sia pur non definitivo, l’Amministrazione è obbligata al rimborso e il contribuente ha titolo, in caso di mancato rimborso, di chiedere l’ottemperanza. Rispetto a tali effetti, così pregnanti, sarebbe paradossale sostenere che la sentenza favorevole al contribuente (esecutiva), pur costituendo titolo per ottenere il rimborso delle somme in contestazione, non travolga il fermo amministrativo fondato sulla medesima contestazione, ma relativo ad altro rapporto giuridico.

(20) Da ultimo Cass., Sez. trib., 16 marzo 2016, n. 5139, cit., ove è univoco il riferimento al fermo quale espressione di una «pretesa cautelare». (21) Il principio di proporzionalità si atteggia come una derivazione del principio di legalità, costituendo limite dell’attività amministrativa anche in relazione all’attività di natura vincolata, quale quella di riscossione dei tributi e/o di applicazione delle misure cautelari: cfr. A. Sandulli, voce Proporzionalità, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 4643 e ss. Con riguardo alle misure cautelari tributarie, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ritiene fondamentale nel diritto comunitario il rispetto del principio di proporzionalità, declinato come principio di congruità del mezzo rispetto al fine. Da ultimo, si rinvia a Corte di Giustizia UE, 18 ottobre 2012, causa C-525/11, Mednis; cfr., altresì, P. Pistone, Presunzioni assolute, discrezionalità dell’amministrazione finanziaria e principio di proporzionalità in materia tributaria secondo la Corte di Giustizia, in Riv. dir. trib., 1998, III, 91 ss.


La riforma del processo tributario non fa dunque che confermare la possibilità di estendere a tutto il campo delle misure cautelari l’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite: in presenza di una sentenza di annullamento dell’atto impositivo, ancorché non definitiva, l’Amministrazione finanziaria non può disporre misure cautelari ed è tenuta a revocare quelle già emesse. Damiano Peruzza


Cass. civ., Sez. trib., 8 marzo 2017 - 12 maggio 2017, n. 11872; Pres. Bielli; Est. Fuochi Tinarelli Costi deducibili – Contratto di stock lending – Nullità per difetto di causa in concreto – Irrilevanza – Assimilazione all’usufrutto azionario – Sussistenza – Indeducibilità della commissione ex art. 109, comma 8, TUIR – Sussistenza L’operazione di stock lending, ossia di prestito titoli, con cui si attribuisce al mutuatario il diritto all’incasso dei dividendi dietro versamento al mutuante di una commissione, da corrispondere in funzione dell’ammontare dei dividendi percepiti, realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, rendendosi, pertanto, il costo corrispondente al versamento della commissione indeducibile per il mutuatario ai sensi dell’art. 109, comma 8, del TUIR.

[Omissis] Ritenuto in fatto. - L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento nei confronti della F. C. P. Srl e della F. P. Spa, la seconda quale società controllante, con cui disconosceva la deducibilità dell’erogazione di Euro 120.000,00 per l’anno 2005 a favore dell’Associazione “[Omissis]”, per non aver quest’ultima mai svolto l’attività di assistenza prevista dallo Statuto, nonché la deducibilità delle commissioni per il complessivo importo di Euro 1.036.685,49, in reazione a due contratti di Stock Lending stipulati con una società ceca, la DFD Czech s.r.o. La CTP di Napoli, sul ricorso delle contribuenti, annullava l’atto impositivo; la decisione, peraltro, sul ricorso dell’Agenzia delle entrate, era riformata dalla CTR con la sentenza in epigrafe. Propongono ricorso per cassazione le contribuenti con undici motivi. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso e propone ricorso incidentale con due motivi, cui le contribuenti oppongono controricorso. Le contribuenti depositano altresì memoria ex art. 378 c.p.c. Ragioni della decisione. - Va preliminarmente disattesa la richiesta di riunione trattandosi di cause non oggettivamente connesse in quanto relative a periodi di imposta diversi.


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1. Con il primo motivo le società ricorrenti denunciano la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, per aver la CTR omesso di dichiarare inammissibile l’appello dell’Agenzia delle entrate privo dell’oggetto della domanda e di specifici motivi di impugnazione. 2. Con il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, per aver la CTR ritenuto la contestazione sussumibile in tale norma senza dichiarare illegittimo l’avviso di accertamento per la violazione delle garanzie procedurali ivi previste. 3. Con il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. per aver la CTR omesso di pronunciarsi sui motivi preliminari di impugnazione dell’avviso di accertamento di omessa valutazione delle osservazioni al pvc, violazione degli obblighi di contraddittorio preventivo, contraddittorietà dell’avviso di accertamento, fondato su diverse giustificazioni, violazione del principio di imparzialità, di buona fede e collaborazione. 4. Con il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 perché incomprensibile la motivazione ove accerta la natura del contratto di prestito, riferendosi sia alla figura dello Stock Lending che a quella del finanziamento con clausola reverse convertible. 5. Con il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione del Regolamento n. 1553/89/CE del 29 maggio 1989, nonché del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 37 bis, 39 e 42, della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, e degli artt. 1325, 1343, 1344 e 1345 c.c., e dell’art. 12 Preleggi, per aver la CTR ritenuti nulli per difetto di causa i contratti conclusi per scopi esclusivamente fiscali. 6. Con il sesto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1325, 1343, 1344, 1345, 1362, 1414, 1813, 1815 e 1933 c.c., per aver la CTR ritenuto che un contratto di prestito delle azioni con remunerazione variabile per il mutuante in funzione dell’ammontare dei dividendi distribuiti dalle azioni oggetto di prestito configuri un negozio atipico di carattere aleatorio. 7. Con il settimo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 109 TUIR e della L. n. 537 del 1993, art. 14, commi 4 e 4 bis, per aver la CTR escluso che gli oneri sostenuti in dipendenza di contratti civilisticamente nulli non siano deducibili dal reddito imponibile IRES del soggetto che li ha sostenuti. 8. Con l’ottavo motivo denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c. per acritico recepimento della tesi dell’Amministrazione finanziaria. 9. Con il nono e il decimo motivo denuncia insufficiente motivazione e omesso esame di un fatto decisivo in ordine all’accertamento del fatto che DFD Czech potesse predeterminare il risultato economico dell’operazione di prestito delle azioni. 10. Con l’undicesimo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 73 e 100, per aver escluso la deducibilità delle erogazioni operate dalla F. C. P. a favore dell’Associazione [Omissis], per la mancata effettiva destinazione all’attività sociale.


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11. Il primo motivo è inammissibile. Infatti, quando viene dedotto un’invalidità, qual è l’inammissibilità dell’appello, il giudizio di legittimità non ha per oggetto la sola giustificazione della decisione impugnata (come avviene nel caso di denuncia di un vizio della giustificazione in fatto della decisione di merito) ma sempre e direttamente l’invalidità denunciata e la decisione che ne dipenda, sicché, se il giudice del merito ometta di pronunciarsi su un’eccezione di nullità, la sentenza di merito non è impugnabile per l’omessa pronuncia, ma solo per l’invalidità già vanamente eccepita (v. da ultimo Cass. n. 22952 del 2015, rv. 637622; v. anche Cass. n. 321 del 2016, rv. 638383). 12. Il quarto, il quinto, il sesto e il settimo motivo, da esaminarsi congiuntamente perché logicamente connessi, non sono fondati ancorché la motivazione del giudice di merito debba essere corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c. 12.1. La vicenda ha ad oggetto la stipula di un contratto denominato Stock Lending agreement tra la società F. C. P. Srl e la società DFD Czech s.r.o. di [Omissis]. Questa figura contrattuale consiste in un prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) e contestuale costituzione da parte del mutuatario (borrower) di una garanzia (rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito), chiamata Collaterale, a favore del mutuante (lender), a garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti. Alla scadenza il mutuatario restituisce al mutuante altrettanti titoli della stessa specie e quantità dei titoli ricevuti e il mutuante ritrasferisce al mutuatario i beni oggetto della garanzia. Se il collaterale è costituito da cash, il lender ha il dovere di remunerarlo al borrower ad un tasso di mercato. Se invece il collaterale fornito è Non-cash non viene richiesta alcuna remunerazione. Ulteriore caratteristica è costituita dalla necessità che il rapporto esistente tra valore dei titoli mutuati e valore dei beni posti a garanzia rimanga inalterato durante l’operazione: entrambe le parti sono obbligate ad integrare la garanzia originariamente prestata (in caso di apprezzamento dei titoli oggetto del prestito) o a restituire l’eccedenza (in caso di deprezzamento). I vantaggi e l’utilità economica si correlano ad esigenze quali l’esercizio dei diritti non economici derivanti dalle azioni ovvero, nell’ambito delle operazioni di borsa, nel consentire al prestatario di ottenere in prestito valori mobiliari al fine di procedere alla liquidazione dei contratti aventi ad oggetto i valori medesimi, senza, tuttavia, assumere ulteriori rischi di mercato rispetto a quelli già presenti in portafoglio mantenendo inalterata la flessibilità nella gestione dell’investimento. 12.2. Nel caso di specie, per come illustrato dalla CTR, risulta che: a) la F. C. P. prendeva in prestito da DFD Czech s.r.o., con accordo in data 11 luglio 2005, una partecipazione azionaria (pari a 2000 azioni per ciascuna società) che la seconda aveva, rispettivamente, nelle società M. B. e C., società portoghesi aventi sedi a [Omissis], possedute interamente dalla DFD Czech;


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b) l’accordo prevedeva che F. C. P., “prestataria” delle azioni M. B. e C., avesse diritto all’incasso dei dividendi ad esse correlati, conservando invece DFD Czech, titolare e “prestatore” delle azioni, gli altri diritti tra i quali il diritto di voto; c) al prestito non oneroso dei titoli era legata una pattuizione in forza della quale, laddove le società (M. B. e C. ) avessero deliberato nel 2005 la distribuzione di dividendi in misura inferiore a un determinato importo (440.000,00 Euro), la F. C. P. li avrebbe incassati senza nulla dovere a DFD Czech; a fronte di dividendi distribuiti in misura superiore, invece, doveva corrispondere (per dividendi tra 440.000,00 e 600.000,00 Euro) una “commissione” pari al valore degli stessi detratta solo una somma forfettaria (2000 Euro per una società, 2500 per l’altra) ovvero (per dividendi superiori a 600.000,00 Euro) incrementata di una percentuale – 6,25% – su tale importo; d) a garanzia della restituzione dei titoli, inoltre, con contratto collegato stipulato qualche giorno prima di quello di Stock Lending, le stesse azioni oggetto del prestito erano state date in pegno alla medesima società mutuante, sicché, per tale aspetto, le azioni non erano mai state materialmente trasferite tra le parti. In concreto, la F. C. P. maturava e riscuoteva dividendi per Euro 1.041.455,99 (Euro 520.458,99 per l’operazione relativa alla società C.; Euro 519.997,92, per quella relativa alla società M. B.), e corrispondeva, quindi, una commissione di complessivi Euro 1.036.685,49 Euro. Quanto ai dividendi, ai sensi dell’art. 89 TUIR, il 5% veniva imputato alla formazione dell’imponibile IRES, mentre la totalità dell’importo versato alla DFD Czech per le commissioni (pari ad Euro 1.036.685,49) veniva esposto nella dichiarazione relativa al 2005 quali costi, abbattendo così in modo significativo gli utili conseguiti nell’anno. 12.4. Osserva la CTR che la complessa operazione posta in essere dal contribuente è “finalizzata all’ottenimento di indebiti risparmi d’imposta” ed “ha permesso l’abbattimento della base imponibile globale”, individuando a sostegno di tale conclusione: - la “carenza di informazioni sull’attività svolta dalle società veicolo C. e M. B. ai fini della dimostrazione che i proventi fiscali non derivino da partecipazione in società con sede in paradisi fiscali e che la società non sia stata usata come schermo per poter usufruire dei benefici derivanti dall’esclusione della base imponibile dei proventi esteri di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89”; - l’“indeterminatezza della movimentazione finanziaria relativa all’operazione”; - la “mancanza dell’alea che nell’operazione oggetto di controllo è rappresentata dalla carenza dell’elemento essenziale dello stesso”. Rimarca, inoltre, che vengono in rilievo “operazioni effettuate da soggetti societari che espongono variazioni in diminuzione per redditi di partecipazione in società di capitali escluse da tassazione ai sensi dell’art. 89 del TUIR in misura del 95% dell’importo percepito”, ossia per dividendi, “e per la contemporanea deduzione dal reddito fiscalmente imponibile ai fini delle IIDD”, ossia per le commissioni, e da ciò derivano “vantaggi che appaiono la vera causa del contratto di mutuo e che configurano una


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frode fiscale poiché ottenuta mediante la creazione di un contratto nullo per mancanza di causa” e “la formale aleatorietà” è “inficiata dalla reale potestà discrezionale dei contraenti di pilotare e creare le opzioni condizionali contrattualmente assunte”. 12.5. Nell’enfasi di voler ricondurre la vicenda ad una condotta elusiva, la CTR, invero, non coglie l’effettiva ragione della pretesa fiscale e colloca impropriamente nella motivazione (sia pure nella parte dei “chiarimenti preliminari”) anche il riferimento ad un’altra ipotesi di tipo potenzialmente elusivo, il cui rilievo non può che essere solo esemplificativo, ossia al contratto di finanziamento con clausola “reverse convertible”, che nulla attiene alla concreta vicenda; finisce, poi, col negare validità al contratto per mancanza di causa perché diretto solo ad ottenere un indebito vantaggio fiscale. L’operazione posta in essere dal contribuente, invece, incontra, come contestato dall’Agenzia delle entrate, i limiti posti dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, che costituisce l’autentico fondamento del recupero a tassazione. Nella formulazione vigente ratione temporis il cit. D.P.R. n. 917, art. 109, comma 5 prevede: “5. Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi. Se si riferiscono indistintamente ad attività o beni produttivi di proventi computabili e ad attività o beni produttivi di proventi non computabili in quanto esenti nella determinazione del reddito sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto di cui all’art. 96, commi 1, 2, e 3. Le plusvalenze di cui all’art. 87, non rilevano ai fini dell’applicazione del periodo precedente”. Il successivo comma 8, poi, dispone: “8. In deroga al comma 5 non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’art. 89”. L’usufrutto di azioni è una operazione finanziaria con la quale viene concesso il diritto a percepire i dividendi distribuiti da un’altra società a fronte di un corrispettivo comprensivo del valore attuale dei flussi futuri di utili. Il cedente, pertanto, percepisce anticipatamente l’entità del dividendo sotto forma di corrispettivo per la cessione dell’usufrutto e il cessionario inscrive in bilancio, nell’attivo patrimoniale immateriale, il corrispondente onere. L’art. 109, comma 8, cit., dispone l’indeducibilità tributaria del costo così sostenuto quando vengano in rilievo partecipazioni societarie da cui derivino utili esclusi da tassazione: individua, in altri termini, un parallelismo tra la deducibilità del costo dell’usufrutto su azioni e l’imponibilità dei dividendi derivanti dalla sottostante partecipazione. Nel contratto di Stock Lending, corrispondentemente, il prestito dei titoli si associa al diritto di percepire i relativi dividendi da parte del mutuatario, mentre il mutuante ha diritto al pagamento di una commissione in relazione al dividendo incassato.


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Come nell’usufrutto di azioni, infatti, il contratto di Stock Lending trasferisce (temporaneamente) la titolarità del diritto al dividendo e per ottenere la relativa riscossione è previsto un costo. Il fenomeno economico, dunque, è lo stesso, senza che assuma rilievo, ai fini tributari (gli unici che qui rilevano non essendovi la necessità di una declinatoria civilistica sul contratto), la circostanza che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, in un diritto di credito. Ciò che conta, del resto, è solo che ad un’analisi economica e giuridico tributaria oggettiva e sostanziale il contratto si dimostri del tutto eccentrico rispetto alle norme sulla deduzione delle quote di ammortamento e sul credito di imposta sui dividendi. Parimenti, pertanto, i costi sostenuti (i.e. la commissione) per l’operazione di Stock Lending debbono ritenersi indeducibili. Né tale soluzione configura una impropria estensione analogica del dettato della norma, che si riferisce esplicitamente e letteralmente “ad altro diritto analogo”, senza ulteriori connotazioni, sicché non va intesa come meramente confinata ai soli diritti reali (interpretazione che, del resto, avrebbe una valenza abrogatoria), non deponendo in tal senso né la lettera, né lo spirito della disposizione. È poi irrilevante che la condotta, come ravvisato incidentalmente in una fattispecie omologa dalla Terza sezione penale della Corte di cassazione (sentenza n. 40272 del 2016), possa anche essere ricondotta, in relazione al nuovo art. 10 bis dello Statuto del contribuente, all’abuso del diritto, trattandosi, in ogni caso, di disposizione entrata in vigore in epoca successiva ai fatti qui in esame. 12.6. Va, pertanto, affermato il seguente principio di diritto: “In tema di imposte sui redditi, l’operazione di Stock Lending, ossia di prestito di azioni che preveda a favore del mutuatario il diritto all’incasso dei dividendi dietro versamento al mutuante di una commissione (corrispondente o meno all’ammontare dei dividendi riscossi), realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, senza che rilevi, ai fini tributari, che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, su un diritto di credito, sicché è soggetta ai limiti previsti dal TUIR, art. 109, comma 8, restando il versamento della commissione costo indeducibile”. 13. I motivi secondo, terzo, ottavo, nono e decimo restano conseguentemente assorbiti, potendosi peraltro osservare, con riferimento alle prime due doglianze, che l’accertamento è stato adottato ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. b) e c), e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 40, in relazione alla violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8. L’Amministrazione finanziaria, inoltre, ha notificato il verbale di constatazione ed assegnato il termine di giorni 60, di cui alla L. n. 21 del 2000, art. 12, comma 7, per la presentazione di osservazioni – facoltà di cui le contribuenti si sono avvalse – poi espressamente considerate nell’avviso di accertamento.


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14. L’undicesimo motivo è infondato. La deducibilità delle erogazioni liberali effettuate, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 100, comma 2, lett. a), in favore di una persona giudica è condizionata al requisito oggettivo che l’ente persegua “esclusivamente finalità comprese fra quelle indicate nel comma 1 o finalità di ricerca scientifica...”, ossia di “educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto”. Tale previsione si giustifica in relazione al principio di sussidiarietà e costituisce una deroga al principio di inerenza, sicché, perché sia riconoscibile il beneficio fiscale, occorre che la somma erogata sia effettivamente destinata allo svolgimento dell’attività liberale o solidaristica, spettando al contribuente provare che la finalità sia stata effettivamente assolta. Tale esito, del resto, risponde agli usuali criteri di ripartizione dell’onere della prova, dovendo il contribuente provare la ricorrenza dei requisiti per la deducibilità dei costi (v. Cass. n. 9818 del 2016 con riguardo ai criteri di inerenza e competenza; Cass. n. 22403 del 2014 in tema di rapporto di lavoro e prova della subordinazione; Cass. n. 7701 del 2013 in tema di proporzionalità dei costi d’impresa). Il riconoscimento statutario dell’esclusività del fine costituisce, a tal fine, requisito formale necessario ma non sufficiente, dovendo trovare riscontro nell’effettiva attività svolta dall’ente beneficiato atteso il carattere eccezionale delle disposizioni derogatorie e la natura della finalità solidaristica, a cui può essere assegnato rilievo solo se sia concreta e non si traduca in una mera enunciazione. Resta immune da censura, dunque, la decisione della CTR che ha rilevato l’assenza di ogni riscontro sullo svolgimento di attività solidaristica da parte dell’Associazione [Omissis], risultando solo un non ben definito progetto (relativo alla ricerca di un immobile da destinare a struttura per i bisognosi) senza alcuna precisazione di tempi e modalità di realizzazione. 15. Il ricorso, pertanto, va rigettato, restando invece assorbito il ricorso incidentale proposto dall’Agenzia delle entrate. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza; a carico del ricorrente sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida, in favore dell’Agenzia delle entrate, in Euro 11.000,00 per compensi, oltre accessori di legge e spese prenotate a debito. Così deciso in Roma, il 8 marzo 2017. Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2017.


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Le operazioni di stock lending tra evasione, elusione e legittimo risparmio d’imposta. Sommario: 1. Premessa. – 2. Contratto invalido e riflessi fiscali: il non condivisibile impianto argomentativo dell’Amministrazione finanziaria. – 3. Natura e funzione della previsione di indeducibilità posta dall’art. 109, comma 8 del TUIR. – 4. L’inapplicabilità dell’art. 109, comma 8 del TUIR al caso esaminato dalla Suprema Corte. – 5. Il contratto di stock lending nella prospettiva dell’elusione tributaria e dell’abuso del diritto. – 6. Risvolti penali.

La Suprema Corte si pronuncia sul trattamento fiscale della commissione versata in dipendenza di un contratto di stock lending (prestito titoli), riconoscendone l’indeducibilità ai sensi dell’art. 109, comma 8, del TUIR. Tale norma, come noto, dispone l’irrilevanza fiscale dei costi sostenuti per l’acquisto del diritto di usufrutto o di altri diritti analoghi su partecipazioni. La soluzione dei Supremi Giudici non sembra tuttavia tenere conto della vera ratio della disposizione, finalizzata ad evitare la deducibilità della predetta commissione in capo al cessionario a fronte della potenziale irrilevanza fiscale del componente positivo in capo al cedente. The Supreme Court decides on the tax treatment of the stock lending agreement, stating that the commission paid by the borrower to the lender is not deductible under the art. 109, sub. 8, TUIR. This provision states that costs incurred to purchase the right of usufruct (or other similar rights) on shares are not deductible. However, the statement of the Judges doesn’t seem to point out the real scope of the provision, which aims to avoid the deduction of the costs incurred by the borrower only whether the related return is not taxable for the lender.

1. Premessa. – La sentenza in commento vede la Suprema Corte soffermarsi (per la prima volta, almeno, a quanto ci consta, sul piano strettamente tributario) sui riflessi fiscali delle operazioni di stock lending, in passato oggetto di un’aggressiva attività di controllo da parte dell’Agenzia delle Entrate, volta a disconoscerne i connessi vantaggi tributari (1). In sintesi, l’operazione vedeva un soggetto (prestatore o lender), di regola una società con sede in un Paese dell’est Europa, consegnare titoli (corrispondenti ad una partecipazione di una società solitamente residente nella zona

(1) Sul punto cfr. M. Di Siena, Stock lending agreement: profili penali tributari, in Riv. dir. trib., 2011, III, 221, il quale richiama il comunicato stampa dell’Agenzia delle Entrate del 20 agosto 2010, avente ad oggetto “Operazione Ri.Sco, nella roulette dell’evasione. Il Fisco punta sulle scommesse a rischio zero” (consultabile sul sito www.agenziaentrate.it).


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franca di Madeira) (2) ad una società italiana (borrower), la quale ne acquisiva la proprietà ai sensi del’art. 1814 del cod. civ., con l’impegno a restituire alla scadenza titoli equivalenti a quelli ottenuti in prestito. Contestualmente al trasferimento della proprietà dei titoli, il borrower costituiva una garanzia (detta collateral), in favore del prestatore, per assicurare quest’ultimo dal rischio di un eventuale inadempimento dell’obbligo di riconsegna dei titoli. Il contratto prevedeva, inoltre, che laddove i dividendi distribuiti dalla società le cui partecipazioni formavano oggetto del contratto fossero inferiori ad un importo prestabilito, il borrower avesse diritto a trattenerli senza pagare alcuna commissione. Laddove, invece, i dividendi fossero superiori all’importo prestabilito, il borrower avrebbe dovuto corrispondere al lender una somma pari ai dividendi percepiti, maggiorati di una percentuale pattuita nel contratto. Sul piano tributario, l’operazione avrebbe consentito al borrower l’incasso di dividendi esenti nella misura del 95 per cento, ai sensi dell’art. 89 del TUIR (3), e, laddove dovuta, la deduzione dei costi sostenuti per il pagamento della commissione da corrispondere al lender. All’incasso di un componente positivo esente, in buona sostanza, poteva corrispondere (e di norma corrispondeva) la contabilizzazione di un componente negativo deducibile. Ebbene, considerato l’effetto di sostanziale “asimmetria” impositiva risultante dal descritto trattamento fiscale, l’Amministrazione finanziaria ha avviato un’aggressiva campagna di controlli fiscali per sterilizzarne i vantaggi asseritamente conseguiti. Come vedremo, l’Agenzia delle Entrate, nella formulazione delle proprie contestazioni, ha, tuttavia, seguito un percorso concettuale poco lineare, invocando, in molti casi, la nullità, sul piano strettamente civilistico, del contratto, di cui si è asserito il carattere solo formalmente aleatorio,

(2) Il che, in virtù di previsto dall’art. 22, par. 3, della Convenzione contro le doppie imposizioni sottoscritta tra Italia e Portogallo (firmata a Roma il 14 maggio 1980, ratificata con legge 10 luglio 1982, n. 562 ed in vigore dal 15 gennaio 1983), consentiva, tra l’altro, al percettore dei dividendi erogati dalla predetta società di beneficiare in Italia di un credito d’imposta figurativo (cd. matching credit), ancorché gli stessi non avessero scontato alcuna imposizione nello Stato della fonte. Il predetto art. 22, par 3, prevede, infatti, che «le disposizioni del paragrafo 2 (che accordano l’attribuzione di un credito d’imposta nel caso in cui il residente in Italia possieda «elementi di reddito che sono imponibili in Italia», n.d.r.) sono parimenti applicabili nel caso in cui l’imposta portoghese sul reddito sia stata oggetto di esenzione o di riduzione come se la detta esenzione o riduzione non fosse stata accordata». (3) Ai sensi dell’art. 2, comma 3, del D.lgs. n. 461/1997 (come modificato dal D.L. n. 262/2006), l’esenzione risulta applicabile laddove spettante anche al mutuante. Sul punto cfr. G. Corasaniti, Le attività finanziarie nel diritto tributario, Milano, 2012, 400.


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in quanto, in concreto, i risultati, in termini di dividendi erogati, sarebbero stati artatamente accomodati in modo da garantire il migliore effetto fiscale per il borrower italiano (4). Le contestazioni fiscali venivano, peraltro, sostenute invocando altresì la natura simulata dell’accordo e la sua conseguente inefficacia sul piano tributario, concludendosi, non di rado, con richiami all’assenza di valide ragioni economiche dell’operazione diverse dall’aspettativa di un mero vantaggio tributario. Il che rendeva oggettivamente difficile ricostruire con precisione il fondamento giuridico della pretesa fiscale. In un simile quadro, caratterizzato anche dal formarsi di orientamenti incerti nell’ambito della giurisprudenza di merito (5), la sentenza in commento tenta, per la verità, di fare chiarezza sull’inquadramento giuridico della fattispecie. Nell’esaminare i profili fiscali del contratto, infatti, la Suprema Corte sembra aver espunto dal novero delle questioni rilevanti qualsiasi considerazione circa la legittimità civilistica dello schema negoziale, problema evidentemente non pertinente rispetto al tema oggetto di indagine. Da questo punto di vista non può pertanto non apprezzarsi il contributo di chiarezza operato dai Supremi Giudici che sembrano, finalmente, porre la parola fine ad indebite commistioni tra le ipotesi di patologia negoziale rilevabili sul piano del diritto civile e gli effetti fiscali scaturenti da manifestazioni di autonomia contrattuale. La sentenza, tuttavia, invece di esaminare (come ci si sarebbe potuto attendere) gli effetti tributari dell’operazione attraverso la lente dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto, intraprende una strada forse inaspettata e sulla cui correttezza, come si avrà modo di vedere, sembra lecito manifestare qualche perplessità. Più precisamente i Giudici di legittimità giungono a disconoscere la deducibilità dei costi sostenuti per la commissione versata dal borrower al lender invocando l’applicazione dell’art. 109, comma 8, del TUIR, che, a loro dire, rappresenterebbe il reale fondamento della ripresa a tassazione. Tale norma, come noto, stabilisce l’indeducibilità dei costi sostenuti per l’acquisto del

(4) Sul punto M. Sonda, «Stock lending»: l’effettività dei flussi finanziari e la debolezza probatoria dell’Ufficio salvano il contratto dalla nullità, in GT – Riv. giur. trib., 2012, 528 ss. (5) Tra le pronunce favorevoli al contribuente si ricordano: Comm. trib. prov. Verona, Sez. IV, 12 dicembre 2011, n. 240; Comm. trib. prov. Napoli, Sez. X, 27 ottobre 2011, n. 124; Comm. trib. prov. Milano, 4 luglio 2011, n. 154; Comm. trib. Reg. Roma, Sez. XIV, 31 marzo 2016, n. 1658; tra le pronunce sfavorevoli: Comm. trib. prov. Vicenza, Sez. III, 17 ottobre 2011, n. 124; Comm. trib. Reg. Lombardia, Sez. XLV, 4 ottobre 2012, n. 113; Comm. Trib. Reg. Venezia, Sez. I, 12 ottobre 2015, n. 1526; Comm. trib., Reg. Venezia, Sez. XXIX, 21 settembre 2016, n. 1009; Comm. trib. Reg. Milano, Sez. XXIX, 17 gennaio 2017, n. 46; Comm. trib. Reg. Firenze, Sez. III, 8 febbraio 2017, n. 354.


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diritto di usufrutto (o di altro diritto di natura analoga) su partecipazioni da cui derivino utili esclusi da imposizione ai sensi dell’art. 89 del medesimo Testo Unico. Nell’ottica della Corte, infatti, sarebbe proprio l’uso dell’espressione “altro diritto di natura analoga” ad implicare la possibilità di estendere alla fattispecie in esame l’applicazione di tale norma, potendosi, così, prescindere da ogni considerazione in merito all’elusività dell’operazione. E ciò perché il contratto di stock lending, secondo la Corte, realizzerebbe lo stesso fenomeno economico dell’usufrutto su azioni, senza che assuma rilievo ai fini tributari (gli unici qui rilevanti, non essendovi la necessità di una declinatoria civilistica sul contratto), la circostanza che, in un caso, si verta su un diritto reale e, nell’altro, su un diritto obbligatorio. La soluzione cui perviene la Suprema Corte (di cui, peraltro, già sono stati posti in luce i preoccupanti riflessi sul piano penale) (6) sembra, però, suscitare più di una perplessità e merita alcune riflessioni, onde verificarne l’aderenza al dettato normativo e alla logica ispiratrice delle disposizioni invocate (7). 2. Contratto invalido e riflessi fiscali: il non condivisibile impianto argomentativo dell’Amministrazione finanziaria. – L’Amministrazione finanziaria, come detto, nel contestare gli effetti fiscali delle ricorrenti operazioni di stock lending, aveva adottato un impianto argomentativo piuttosto confuso e contradditorio. Anche dalla lettura dei numerosi precedenti della giurisprudenza di merito, emerge, infatti, come a fondamento delle contestazioni si fosse, in generale, dedotta la nullità del contratto sul piano del diritto civile, invocando l’assenza, nello specifico, del requisito dell’aleatorietà. Ciò sul presupposto che, pur versandosi al cospetto di operazioni di carattere teoricamente speculativo, formalmente caratterizzate da un esito incerto, la reale struttura dello schema negoziale adottato avrebbe tradito la prevedibilità del risultato finale, il cui unico reale vantaggio, per il borrower, sarebbe stato ravvisabile nel risparmio d’imposta derivante dalla contestuale deduzione della commissione versata al lender e dall’esenzione sul dividendo incassato (8).

(6) In tal senso si vedano le perplessità sollevate in sede di commento alla sentenza da B. Denora, Le strategie di contrasto allo stock lending agreeement: un grande equivoco, in Riv. dir. trib., supplemento online dell’8 giugno 2017. (7) La sentenza è già stata annotata anche da D. Stevanato, Prestito titoli, indeducibilità del manufactured dividend e “rottura” delle simmetrie fiscali, in Corr. trib, 2017, 2355 ss. (8) Si veda, ad esempio, Comm. trib. Reg. Venezia, Sez. I, 12 ottobre 2015, n. 1526


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L’assenza di alea avrebbe, in particolare, privato l’operazione della sua causa in concreto, il che, nell’ottica amministrativa, avrebbe reso inefficace il contratto anche sul piano tributario. Come abbiamo visto, inoltre, pur essendo, quello appena descritto, il nucleo centrale dell’impianto argomentativo delle rettifiche erariali, vi si aggiungevano confusi richiami ad una presunta natura simulata dell’operazione (della quale veniva contestato il carattere meramente “cartolare”) e, comunque, all’inesistenza di valide ragioni economiche diverse dall’atteso vantaggio tributario (9). Sulla correttezza di un simile impianto argomentativo è tuttavia lecito avanzare, quantomeno al livello teorico, qualche perplessità. Non convince, innanzitutto, il richiamo all’asserita nullità, sul piano civilistico, dell’operazione per difetto di “causa in concreto”, in virtù della presunta carenza dell’elemento dell’aleatorietà. Sembra difficile, infatti, proprio aderendo senza riserve alla teoria della causa quale funzione economico-individuale del contratto (ovvero, come da altri definita, quale causa concreta) (10), non

(in banca dati fisconline commissioni tributarie), ove il Collegio osserva che «la verifica delle operazioni finanziarie compiute nell’anno d’imposta 2007 ha permesso di accertare come l’evento “aleatorio” individuato nell’ammontare dei dividendi distribuiti fosse sostanzialmente reso privo della sua alea, dal momento che i dividendi distribuiti non scendevano mai al di sotto del limite individuato. Conseguentemente, il contratto privo della sia alea (art. 1469 c.c.), introdotta per espressa volontà delle parti, non può che essere nullo, atteggiandosi l’alea ad elemento essenziale e ragione giustificatrice dell’accordo». (9) Cfr. anche Comm. trib. Reg. Roma, 31 marzo 2016, n. 1658 (in banca dati fisconline commissioni tributarie), ove si osserva che «in entrambi gli avvisi di accertamento impugnati dalla appellante, l’Ufficio concludeva che, alla luce di quanto più diffusamente e ampiamente argomentato nel PVC, che, come detto, costituisce parte integrante del presente atto, si recuperavano a tassazione, ai fini IRAP (e IRES nel secondo avviso), gli importi sotto indicati per la sottoscrizione dei “contratti simulati in via assoluta e da ritenersi nulli in quanto conclusi in frode alla legge poiché privi di una ragione diversa dall’illecito e fraudolento risparmio fiscale, ed in ogni caso quale costo sostenuto per l’acquisto di diritto analogo al diritto di usufrutto ed indebitamente dedotto in violazione degli artt. 89 e 109 del D.P.R. n. 917/1986 e dell’art. 1 del D.P.R. n. 600/1973”». (10) Per l’elaborazione della teoria della causa quale funzione economico individuale cfr. sopratutto cfr. G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano 1966, 346 ss. sulla causa come funzione economico-individuale del contratto si vedano anche M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969; F. Carresi, Il contratto, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, I, Milano, 1987, 245 ss.; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2000, 787 ss. Per la successiva rielaborazione della teoria della causa intesa come funzione economico-individuale del contratto nella teoria della cd. causa concreta cfr. C.M. Bianca, Diritto civile, III, in Il contratto, Milano, 2000, 452 ss.


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ravvisare, nella ricerca di un vantaggio fiscale, un’idonea base causale capace, di per sé, di giustificare l’operazione adottata, quantomeno sul piano del diritto civile (11). L’assenza di ragioni economiche diverse dal conseguimento di un vantaggio tributario, in buona sostanza, dovrebbe rilevare esclusivamente nell’ambito di meccanismi antielusivi collocati nel contesto della disciplina fiscale, ma difficilmente dovrebbe poter consentire la formulazione di un giudizio sulla legittimità di una operazione sul piano del diritto civile. In tal senso, del resto milita anche l’art. 10, comma 3, ultimo periodo, dello Statuto dei diritti del contribuente, laddove stabilisce a chiare lettere che «Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto» (12). Anche la giurisprudenza di legittimità, d’altro canto, pur essendosi, in passato, orientata per la nullità dei negozi elusivi (di cui si è predicata, talvolta, la mancanza di causa ex art. 1418, comma 2, del cod. civ, talaltra, l’illiceità della stessa per frode alla legge, ai sensi dell’art. 1344 del cod. civ.) (13), ha oramai da tempo maturato la necessità di tenere distinto il piano del diritto civile dal piano del diritto tributario (sostanzialmente governati da esigenze diverse), elaborando, per la repressione di condotte finalizzate a conseguire indebiti

(11) Si potrebbe, infatti, ammettere che il perfezionamento di un’operazione al solo fine di conseguire un vantaggio tributario possa rappresentare un’ipotesi di negozio in frode alla legge, essendo la causa negoziale preordinata esclusivamente al conseguimento di un risultato disapprovato dall’ordinamento, ma la stessa sussistenza di una base causale, sia pure illecita, non potrebbe essere comunque disconosciuta. In tal senso cfr. G. Perlingieri, Profili civilistici dell’abuso tributario. L’inopponibilità delle condotte elusive, Napoli, 2012, 70. Nello stesso senso, per la dottrina tributaria, si esprime anche D. Stevanato, Le “ragioni economiche” nel dividend washing e l’indagine sulla “causa concreta” del negozio, in Rass. trib., 2006, 322. Gli Autori che, invece, non sembrano aderire alla tesi della causa concreta, hanno rilevato come, nell’economia del contratto, il conseguimento del risparmio fiscale non potrebbe elevarsi al rango di causa, quanto, piuttosto, a quello di semplice motivo, come tale irrilevante. In tal senso cfr. F. Prosperi, L’abuso del diritto nella fiscalità visto da un civilista, in Dir. prat. trib., 2012, I, 736-737. (12) Su cui cfr P. Rossi, Autonomia contrattuale e normativa tributaria: l’inapplicabilità del sistema delle nullità civili alle violazioni di rilievo esclusivamente fiscale, in AA.VV., Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. Fantozzi e A. Fedele, Milano, 2005, 597 ss. (13) Per la prima impostazione cfr. Cass., Sez. trib., 21 ottobre 2005, n. 20398 e Cass., Sez. trib., 14 novembre 2005, n. 22932 (in banca dati Le leggi d’Italia); per la seconda cfr., invece, Così Cass., Sez. trib., 26 ottobre 2005, n. 20816 (sempre in banca dati Le leggi d’Italia). in dottrina tale ultimo rimedio era stato suggerito da F. Gallo, Brevi spunti in tema di elusione e frode alla legge (nel reddito d’impresa), in Rass. trib., 1989, I, 11 ss.; Id., Elusione, risparmio d’imposta e frode alla legge, in Giur. Comm., 1989, I, 337 ss.


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vantaggi fiscali anche attraverso un uso improprio dell’autonomia negoziale, il rimedio del divieto di abuso del diritto, oggi consacrato anche al livello normativo dal nuovo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente (14). Del resto, l’adeguatezza del rimedio della nullità potrebbe suscitare perplessità anche da un altro punto di vista, non essendosi, in verità, ancora pienamente chiarito, al livello teorico, in che forme e con quali modalità l’inefficacia che investe il negozio nullo sul piano del diritto civile possa riflettersi anche sul piano tributario. Da un lato, infatti, vi è chi, richiamando l’esistenza di un rapporto di “presupposizione” tra diritto civile e diritto tributario, sostiene che le patologie negoziali, implicando l’inefficacia del contratto, ne dovrebbero inibire la produzione di effetti anche su piano tributario (15). Dall’altro, tuttavia, non manca chi, enfatizzando la ricorrenza di un fenomeno di “digressione” del rapporto giuridico privatistico a mero fatto nella dimensione sostanziale del prelievo, ne deduce l’irrilevanza dell’invalidità negoziale per l’integrazione del presupposto anche di fattispecie d’imposta che abbiano a fondamento manifestazioni di autonomia negoziale (16). Il problema, di difficile inquadramento teorico,

(14) In tal senso cfr. soprattutto Cass. Sez. Un. 23 dicembre 2008, n. 30055; Cass., Sez. Un. 23 dicembre 2008, n. 30056; Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2008, n. 30057, tutte in banca dati Le leggi d’Italia. Sulla nuova disposizione, introdotta dal D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, si vedano, senza pretese di completezza: A. Contrino, A. Marcheselli, Luci e ombre della struttura dell’abuso fiscale riformato, in Corr. trib., 2015, 3787 ss.; G. Zizzo, La nuova nozione di abuso del diritto e le raccomandazione dell’Unione Europea, in Corr. trib., 2015, 4577 ss.; D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, in Dir. prat. trib., 2015, I, 695 ss.; G. Corasaniti, Il contrasto all’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario, ivi, 2016, I, 465 ss.; M. Beghin, La “tassazione differenziale” e la “non opponibilità” al Fisco delle operazioni elusive, in Riv. dir. trib., 2016, I, 295 ss.; G. Falsitta, Note critiche intorno al concetto di abuso del diritto nella recente codificazione, ivi, 2016, I, 707 ss.; P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione ed abuso del diritto in materia tributaria: spunti critici e ricostruttivi, in Dir. prat. trib., 2016, I, 1. (15) In tal senso si vedano sopratutto S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992, 65; A. Carinci, L’invalidità del contratto nelle imposte sui redditi. Profili sostanziali, Padova, 2003, 25. (16) La tesi è accolta da R. Lupi, L’elusione come strumentalizzazione delle regole fiscali, in Rass. trib., 1994, 226; Id., Elusione: esperienze europee tra l’uso e l’abuso del diritto tributario, in AA.VV., L’elusione fiscale nell’esperienza europea, a cura di A. Di Pietro, Milano, 1999, 264; M. Nussi, Imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, 161; F. Paparella, Possesso dei redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, 255. A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 53. In precedenza tale impostazione era stata sviluppata da A. D. Giannini, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, 159; D. Jarach, Il fatto imponibile, Padova, 1981, 116. In materia di imposta di registro si


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non può certamente essere oggetto di analisi in questa sede, ove è, tuttavia, d’obbligo rilevare come alcuni spunti di carattere squisitamente normativo parrebbero deporre per una rilevanza del tutto peculiare del fenomeno dell’invalidità negoziale nella dimensione sostanziale del rapporto d’imposta (17). Una rilevanza (o irrilevanza) che, con tutta probabilità, finisce per essere condizionata dall’alterità degli interessi posti dal legislatore a fondamento delle ipotesi di patologia negoziale rispetto agli interessi di cui è espressione la legislazione fiscale, e che dovrebbe, in ogni caso, suggerire all’interprete di tenere distinti i due ambiti (18). Ma tornando alle contestazioni in materia di stock lending, dicevamo come, in questo quadro, già di per sé problematico, non fosse infrequente che la motivazione degli accertamenti andasse ad arricchirsi di impropri richiami al concetto di simulazione, invocato per sostenere la natura fittizia e non reale dell’operazione di cui si asseriva il carattere meramente cartolare. Un’impostazione, tuttavia, che si rivelava difficilmente condivisibile, essendo concettualmente incompatibile il richiamo alla simulazione nell’ambito di un impianto argomentativo fondato sulla deduzione della nullità, per difetto di causa, del contratto. Più in generale, sembra, infatti, difficile condividere un’impropria sovrapposizione tra il concetto di simulazione ed il concetto di elusione, qui espressamente non richiamato, ma evidentemente posto alla base di una contestazione in cui l’assenza di causa concreta dell’operazione veniva invocata proprio in ragione della mancanza di valide ragioni economiche diverse dal conseguimento di un risparmio d’imposta. La simulazione, come noto, implica una falsa rappresentazione della realtà e sul piano tributario, si traduce, in una vera e propria forma di evasione d’imposta, mentre l’elusione,

veda invece, F. Batistoni Ferrara, Atti simulati e invalidi nell’imposta di registro, Napoli, 1969, 104 ss. (17) Si veda l’art. 38 del T.U. n. 131/1986 in materia di tassazione dell’atto invalido nell’imposta di registro, ovvero l’14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, in materia di tassazione dei redditi derivanti da attività che costituiscono illecito civile, penale o amministrativo. Sul piano del diritto comparato, si veda invece, quanto previsto dal par. 41, I, dell’Abgabenordnung in base al quale «Ai fini dell’imposizione tributaria è irrilevante che un negozio giuridico sia inefficace o lo diventi, nella misura in cui i partecipanti volgino far entrare in vigore e fa valere il risultato economico di tale negozio». La traduzione del testo tedesco è di V. E. Falsitta, La legge generale tributaria della Repubblica Federale Tedesca (Abgabenordnung), Milano 2011, 25-26. (18) Per una ricostruzione del fenomeno dell’invalidità negoziale che pone l’accento sugli interessi a protezione dei quali è posta la previsione dell’invalidità cfr. A. La Spina, Destrutturazione della nullità ed inefficacia adeguata, Milano, 2012.


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è altrettanto noto, presuppone il conseguimento di un vantaggio fiscale che, pur indebito, si acquisisce mediante una “strumentalizzazione” delle regole fiscali, che, sul piano formale, vengono correttamente applicate senza che vi sia alcun occultamento del fatto imponibile (19). La distinzione non rileva, invero, al livello esclusivamente concettuale, essendo le contestazioni fondate sull’elusione assistite da maggiori garanzie per il contribuente sul piano procedimentale, ma non è stata sempre nitida neanche nella giurisprudenza di legittimità, la quale, anche da ultimo, non ha mancato di ricondurre nel novero degli strumenti finalizzati alla repressione delle condotte elusive, disposizioni in realtà pensate per contrastare fenomeni di tipo simulatorio, quali, ad esempio l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 in materia di interposizione personale, senza con ciò, peraltro, estendere ai secondi le garanzie procedurali previste per i primi (20). In ogni caso, nella vicenda oggetto della pronuncia in commento, non è chiaro se l’Agenzia delle Entrate (come emerge, invece, dalla lettura di altri precedenti della giurisprudenza di merito) avesse invocato sia l’invalidità del contratto per assenza di causa, sia la natura simulata e fittizia dell’operazione. Ad ogni modo, i Supremi Giudici, sembrano, in un primo momento, trascurare tali profili, ritenendo che la Commissione di secondo grado, nel riconoscere la

(19) La distinzione tra elusione ed evasione è tradizionalmente ben chiara alla dottrina tributaria. Cfr. in tal senso G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario, Padova, 2016, 145-146; A. Hensel, Diritto tributario, Milano, 1956, 148 (nota 164); E. Blumenstein, Sistema di diritto delle imposte, Milano, 1954, 27. Sulla distinzione tra simulazione ed elusione si vedano, invece, A. Fedele, Assetti negoziali e “forme d’impresa” tra opponibilità simulazione e riqualificazione, in Riv. dir. trib., 2010, I, 1101; G. Falsitta, Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in Riv. dir trib., 2010, II, 349 ss; G. Fransoni, Abuso del diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, in Corr. trib., 2011, 13; più di recente D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, cit., 720 ss. La definizione del fenomeno elusivo come “strumentalizzazione” delle regole fiscali si deve, invece, a R. Lupi, L’elusione come strumentalizzazione delle regole fiscali, in Rass. trib., 1994, 225. (20) Da ultimo cfr. Cass., Sez. trib., 10 giugno 2016, n. 11937, in banca dati Le leggi d’Italia (la sentenza è stata commentata da B. Denora, Ancora dubbi sulla possibile natura antielusiva dell’interposizione, in Riv. dir. trib., supplemento online del 29 luglio 2016) e Cass., Sez. trib., 30 dicembre 2015, n. 26057, in GT – Riv. giur. trib., 2016, 580, con nota di L. Castaldi, La Corte di Cassazione tra simulazione, elusione e obiettiva condizione di incertezza del dato normativo. In precedenza si vedano Cass., Sez. trib., 10 giugno 2011, n. 12788, in banca dati Le leggi d’Italia; Cass., Sez. trib., 15 novembre 2013, n. 25671, in GT – Riv. giur. trib., 2014, 301 ss., con commento di M. Beghin, La strumentazione contrattuale inadeguata e l’accusa di interposizione fittizia sotto la deformante lente dell’abuso del diritto.


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nullità del contratto per mancanza di alea, non avesse fatto altro che confermare una pretesa fiscale fondata sul presupposto dell’elusività della condotta del contribuente. Il che, in realtà, alla luce delle osservazioni ora svolte, non sembra rivelarsi, quantomeno concettualmente, del tutto corretto, sebbene (come accennato) nel prosieguo della pronuncia, la Corte mostri di essere assolutamente consapevole della necessità di tenere distinto il piano del diritto civile (sul quale opera la patologia negoziale) dal piano del diritto tributario. Come abbiamo visto, tuttavia, la Corte nel confermare la fondatezza della pretesa fiscale, non ha ritenuto di doversi anch’essa soffermare sui potenziali effetti elusivi del contratto, ma di poter risolvere la questione invocando l’applicazione dell’art. 109, comma 8 del TUIR, che, come detto, dispone l’indeducibilità del costo sostenuto per l’acquisto del diritto di usufrutto, e di altro diritto analogo, su partecipazioni da cui derivino utili esclusi da imposizione ai sensi dell’art. 89 del medesimo Testo Unico. I Supremi Giudici, invero, sebbene consapevoli che, nel caso in esame, non si discutesse di un’ipotesi di acquisto del diritto di usufrutto, fanno leva proprio sull’espressione “altri diritti analoghi” per estendere al caso di specie l’applicazione della norma ora richiamata, ritenendo, nello specifico, di dover valorizzare il significato “economico” e non meramente “giuridico” dell’espressione “diritto analogo”. La Suprema Corte, tuttavia, nel pervenire alla soluzione del caso concreto, parrebbe aver omesso un adeguato approfondimento sul significato della norma applicata che, ove condotto, avrebbe, forse, potuto portare ad un diverso esito interpretativo. 3. Natura e funzione della previsione di indeducibilità posta dall’art. 109, comma 8 del TUIR. – Come noto, la deducibilità del componenti negativi nel reddito d’impresa è condizionata alla ricorrenza di uno specifico collegamento tra il costo sostenuto e l’attività economica esercitata definito nesso d’inerenza. Parte della dottrina (e con essa parte della giurisprudenza), ne ha rintracciato nell’art. 109, comma 5, del TUIR, il fondamento normativo, laddove stabilisce che «le spese e gli altri componenti negativi di reddito diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contribuitivi e di utilità sociale sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi» (21). Per altri, tuttavia, la norma in

(21) Tra gli autori che individuano nell’art. 109, comma 5, del TUIR la fonte del principio


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questione non esprimerebbe il principio di inerenza (desumibile, invero, dalla nozione stessa di reddito d’impresa posta nell’art. 55 del TUIR), ma il diverso principio di indeducibilità dei componenti negativi connessi con componenti positivi esenti (22). Le spese menzionate nella norma, infatti, pur astrattamente inerenti, poiché riferibili alla gestione imprenditoriale, non sarebbero ammesse in deduzione, in quanto non correlate alla produzione di componenti positivi tassabili. Ad ogni modo, quale che sia, sul piano teorico, l’impostazione adottata, la regola posta dall’art. 109, comma 5, del TUIR conosce un eccezione nel caso di componenti negativi connessi con componenti positivi che non concorrono alla formazione del reddito in quanto da esso normativamente esclusi. Si tratta, come evidenziato in dottrina, di una precisazione introdotta proprio per garantire la deducibilità dei costi di gestione delle partecipazioni che generano utili esenti (o, più correttamente, parzialmente esenti) da imposizione ai sensi dell’art. 89 del TUIR (23). Nella sistematica dell’attuale Testo Unico, in buona sostanza, i costi di gestione delle partecipazioni che generano utili non imponibili risultano, in via di principio, comunque ammessi in deduzione, essendo stata rimessa all’introduzione di disposizioni specifiche la soluzione delle possibili asimmetrie impositive derivanti da tale assetto.

di inerenza si ricordano, senza pretese di completezza, G. Falsitta, Aspetti e problemi dell’Irap, in Riv. dir. trib., 1997, I, 508; E. De Mita, Principi di diritto tributario, Milano, 2004, 240; D. Stevanato, Davvero insindacabili i compensi agli amministratori?, in Riv. dir. trib., 1993, I, 1145 (nota 11); A. Giovannini, Costo e sanzione nel reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 1991, I, 558. Anche la giurisprudenza di legittimità ha tendenzialmente ravvisato in tale disposizione la fonte del principio di inerenza, così giungendo ad ammettere in deduzione dal reddito d’impresa gli interessi passivi a prescindere dal nesso di inerenza con l’attività esercitata dall’impresa (in tal senso cfr. Cass., Sez. trib., 21 novembre 2001, n. 14702, in Giur. it., 2002, 1097, con nota di C. Attardi, La deducibilità degli interessi passivi dal reddito d’impresa alla luce del principio di inerenza; Cass., Sez. trib., 2 febbraio 2005, n. 2114, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2005, II, 25, con nota adesiva di L. Del Federico, Gli interessi passivi nel reddito d’impresa, la deducibilità pro-rata e l’irrilevanza dell’inerenza; più di recente cfr. Cass., Sez. trib., 21 marzo 2015, n. 6204, in banca dati Le leggi d’Italia. (22) In tal senso si esprime G. Tinelli, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991, 262; Id., Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 2002, I, 449; Id., Commento all’art. 109, in AA.VV., Commentario al testo Unico delle Imposte sui Redditi, a cura di G. Tinelli, Padova, 2010, 995. Tale impostazione è condivisa anche da G. Zizzo, L’imposta sul reddito delle società, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2016, 462; R. Lupi, Redditi illeciti, costi illeciti, inerenza ai ricavi e inerenza all’attività, in Rass. trib., 2004, 1936-1937. (23) In tal senso cfr. G. Zizzo, L’imposta sul reddito delle società, cit., 480 (nota 293).


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Nell’ambito di tali disposizioni specifiche si inserisce anche il predetto art. 109, comma 8, del TUIR, che, come detto, stabilisce l’indeducibilità «in deroga al comma 5» del «costo sostenuto per l’acquisto del diritto di usufrutto o di altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’art. 89». Si tratta, come evidenziato in dottrina (24), di una disposizione di tipo antielusivo, finalizzata ad impedire il conseguimento di vantaggi tributari che risultino disapprovati dalla logica del sistema fiscale. Onde definirne con certezza l’effettivo ambito applicativo si rende, allora, necessario, individuare con precisione il principio a presidio del quale essa si pone. In prima battuta, infatti, si potrebbe essere tentati di opinare, sulla scorta di quanto anche affermato dalla prassi amministrativa, che l’effetto osteggiato dalla norma sia rappresentato dalla deduzione del costo per l’acquisto del diritto di usufrutto su partecipazioni (o di altro diritto analogo) a fronte dell’incasso di dividendi esclusi dal prelievo (25). In realtà, un più attento esame della logica che governa il rapporto tra esenzione sui dividendi e deduzione del costo di acquisto dell’usufrutto su partecipazioni ne potrebbe suggerire una diversa funzione. Si è detto, più nello specifico, che l’indeducibilità del costo sostenuto per l’acquisto del diritto di usufrutto non dovrebbe essere correlata al regime di esenzione di cui fruisce l’usufruttuario all’atto dell’incasso del dividendo, ma piuttosto al regime di detassazione di cui potrebbe beneficiare il cedente al momento della cessione del diritto di usufrutto (26). È noto, infatti, che anche la cessione del diritto di usufrutto può beneficiare del regime di participation exemption previsto per le

(24) Cfr. M. Leo, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, Milano, 2016, 1952; A. TraLa rilevanza fiscale del “manufactured dividend” – brevi riflessioni de iure condito e de iure condendo, in Dialoghi dir. trib., 2007, 1003 ss. (25) In tal senso si veda la posizione espressa dall’Agenzia delle Entrate con la Circolare 16 giugno 2004, n. 26/E, in banca dati fisconline. (26) Così l’Assonime (Circolare n. 13/2006), secondo la quale, «l’indeducibilità del costo di acquisto dell’usufrutto per l’acquirente trova la propria ragione sistematica nella circostanza che il componente positivo di reddito realizzato dal dante causa abbia fruito della “detassazione” prevista dal regime di “participation exemption”» (Sul punto cfr. anche M. Leo, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, cit., 1951). Tali osservazioni sono condivise da A. Trabucchi, La rilevanza fiscale del “manufactured dividend” – brevi riflessioni de iure condito e de iure condendo, cit., 1001 ss.; R. Lupi, Simmetrie fiscali e legittimità sistematica della deduzione di minusvalenze a fronte di dividendi esenti, in Dialoghi dir. trib., 2007, 1015; da ultimo sul punto cfr. D. Stevanato, Prestito titoli, indeducibilità del manufactured dividend e “rottura” delle simmetrie fiscali, cit., 2358-2359. bucchi,


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plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni societarie, ferma restando la necessità di rispettare i requisiti previsti dall’art. 87 del Testo Unico (27). La regola garantirebbe, in tal modo, il rispetto della simmetria intersoggettiva tra imponibilità del componente positivo in capo al cedente e deducibilità del componente negativo in capo all’acquirente, dovendo, invece, reputarsi ininfluente, a tal fine, il regime fiscale dei dividendi incassati, che dovrebbero poter beneficiare dello stesso trattamento sia in capo al cedente che in capo al cessionario del diritto di usufrutto (28). La medesima logica, d’altra parte, ispirerebbe, secondo alcuni, le particolari disposizioni antielusive introdotte all’art. 109, commi 3-bis e 3-ter, per sterilizzare, nel quadro delle regole di tassazione di dividendi e plusvalenze introdotte con la riforma del 2003, i vantaggi fiscali conseguiti attraverso operazioni di dividend washing (29).

(27) In tal senso cfr. sempre l’Assomine (Circolare n. 32/2004), per la quale «al pari della vendita, la costituzione dell’usufrutto – giusta le disposizioni dell’art. 9 del TUIR – dovrebbe rientrare dal lato del soggetto trasferente (del soggetto, cioè, che mantiene la nuda proprietà), fra le operazione realizzative di plusvalenze esenti, ove ricorrano le condizioni dell’art. 87 del TUIR». L’Agenzia delle Entrate, dal canto suo, con la Circolare 4 agosto 2004, n. 36/E (in banca dati fisconline) ha precisato che «qualora il diritto di usufrutto sia ceduto dal titolare del pieno diritto di proprietà, si è in presenza della cessione di una quota parte del valore patrimoniale delle azioni o quote, che, in presenza dei requisiti previsti dall’art. 87 del nuovo TUIR, può qualificarsi per l’esenzione. La stessa conclusione non può affermarsi, invece, nel caso che […] il diritto di usufrutto sia ceduto dall’usufruttuario stesso o da un successivo avente causa; si ritiene, infatti, che l’usufrutto non rappresenti una quota di partecipazioni iscrivibile tra le immobilizzazioni». Tale impostazione è peraltro criticata da A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze su partecipazioni, Torino, 2013, 258, il quale ritiene che «l’eventuale tassazione della plusvalenza realizzata in sede di cessione dell’usufrutto andrebbe sostanzialmente a duplicare l’imposizione sugli utili generati dalla società partecipata», sicché «le esposte ragioni di carattere sistematico potrebbero consentire si superare il dato letterale dell’art. 87 e riconoscere che il requisito dell’iscrizione in bilancio di cui alla lett. b) possa essere soddisfatto anche nel caso di iscrizione tra le immobilizzazioni immateriali, per quei diritti che, secondo le regole contabili, non sarebbero iscrivibili nel comparto delle immobilizzazioni finanziarie, tenendo presente che anche tale diversa classificazione è idonea a soddisfare la funzione – di assicurare che l’investimento sia concepito come stabile – che il legislatore ha riconnesso al requisito in esame». (28) In tal senso si esprime sempre l’Assonime (circolare n. 13/2006) per la quale «il (solo) requisito applicativo della disposizione in parola dovrebbe essere costituito, dal realizzo da parte del dante causa, di un componente positivo di reddito “detassato” e non già dal parziale non assoggettamento ad imposizione dell’utile distribuito, che, peraltro, fruirebbe di tale detassazione in capo tanto al socio trasferente quanto all’acquirente». (29) In tal senso cfr. M. Beghin, Nuovi limiti alla deduzione di minusvalenze su partecipazioni societarie, in Corr. trib., 2006, 1653 ss. Da ultimo si veda anche D. Stevanato, Prestito titoli, indeducibilità del manufactured dividend e “rottura” delle simmetrie fiscali, cit., 2359-2360. Sul punto cfr. anche G. Ingrao, La cessione delle partecipazioni nel regi-


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Come noto, infatti, il regime fiscale degli utili da partecipazione introdotto con la riforma del 2003 aveva, prima dell’intervento correttivo del legislatore, reso nuovamente appetibili operazioni di dividend washing, strutturate attraverso la cessione di una partecipazione in prossimità dello stacco dei dividendi da parte di un soggetto in possesso dei requisiti per beneficiare della participation exemption, l’incasso del dividendo, in regime di esenzione, da parte dell’acquirente e la successiva alienazione della partecipazione (magari allo stesso cedente) ad un corrispettivo inferiore al prezzo di acquisto, con conseguente contabilizzazione di una minusvalenza, deducibile poiché priva dei requisiti di cui all’art. 87 del TUIR (30). Proprio per arginare i potenziali arbitraggi fiscali conseguibili attraverso tali operazioni, il legislatore, con il predetto art. 109, comma 3-bis, del TUIR ha stabilito che «Le minusvalenze realizzate ai sensi dell’arto 101 sulle azioni, quote, o strumenti finanziari similari alle azioni che non possiedono i requisiti di cui all’art. 87 non rilevano fino a concorrenza dell’importo non imponibile dei dividendi, ovvero dei loro acconti, percepiti nei trentasei mesi precedenti il realizzo». Si è detto, al riguardo, che il successivo comma 3-ter, nel limitare la deducibilità della minusvalenza soltanto alle partecipazioni acquisite nei trentasei mesi precedenti al realizzo e sempre che le stesse «soddisfino i requisiti di cui alle lettere c) e d) del comma 1, dell’art. 87», intenderebbe riferire il vantaggio “elusivo” ai soli casi in cui prima dell’incasso dei dividendi (e quindi prima del realizzo della minusvalenza), possa reputarsi probabile l’emersione di una plusvalenza esente in capo al primo cedente (31).

me di participation exemption: spunti per una modifica normativa, in Riv. dir. trib., 2016, I, 760. (30) Prima della riforma del 2003 il dividend washing si realizzava attraverso l’acquisto e la successiva rivendita di partecipazioni a cavallo della distribuzione dei dividendi tra un fondo di investimento ed una società di capitali. In tal modo, il fondo, che, considerato il regime di tassazione di tipo patrimoniale cui era sottoposto (art. 9, comma 1, della legge 23 marzo 1983, n. 77), non poteva beneficiare del credito d’imposta sui dividendi ma fruiva dell’esenzione sui capital gain, realizzava una plusvalenza esente a seguito della cessione delle partecipazioni ad una società che, al momento della distribuzione dei dividendi, aveva, invece, la possibilità di beneficiare del credito d’imposta. Tale operazione si concludeva con il riacquisto della partecipazione da parte del fondo, e con la connessa contabilizzazione di una minusvalenza deducibile per la società di capitali che aveva preso parte all’operazione. Con l’introduzione del comma 6-bis dell’art. 14 del TUIR, ad opera del D.L. n. 372/1992, il legislatore era peraltro già intervenuto per contrastare alcuni degli effetti derivanti da simili operazioni, negando la fruizione del credito di imposta alle società che avessero acquistato azioni da un fondo comune di investimento. (31) Così, testualmente, M. Beghin, Nuovi limiti alla deduzione di minusvalenze su partecipazioni societarie, cit., 1653 ss.


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Non manca, però, chi ha prospettato una diversa ricostruzione sistematica della norma ora richiamata, ritenendo, in particolare, che alla logica dell’attuale Testo Unico sarebbe estranea la considerazione delle asimmetrie intersoggettive, rilevando, soltanto, le asimmetrie intrasoggettive. Aderendo a tale lettura, la giustificazione dell’indeducibilità della minusvalenza (nel caso previsto dall’art. 109, comma 3-bis) o del costo di acquisto di usufrutto (nel caso previsto dall’art. 109, comma 8), andrebbe correlata esclusivamente all’esenzione sui dividendi e non al regime fiscale cui sarebbe soggetta la cessione della partecipazione (o del diritto di usufrutto) da parte del cedente (32). Tale impostazione non sembra, tuttavia, pienamente convincente, in quanto, per un verso, non sembra garantire una piena neutralità nel regime fiscale di tali operazioni, e, per l’altro non sembra tenere conto di altre disposizioni del Testo Unico che, diversamente da quanto si afferma, parrebbero espressamente considerare il problema delle simmetrie fiscali di tipo intersoggettivo. Si pensi, ad esempio, alla clausola di reciprocità introdotta all’art. 44, comma 2, lett. a), secondo periodo, del TUIR, che condiziona l’estensione dell’equiparazione tra azioni e strumenti finanziari partecipativi (disposta nel periodo precedente) anche agli strumenti finanziari emessi da società non residenti, alla circostanza «che la relativa remunerazione sia totalmente indeducibile nella determinazione del reddito nello Stato estero di residenza del soggetto emittente» (33). Il legislatore, in buona sostanza, ha esteso alle remunerazioni

(32) Tale posizione è espressa da E. Iascone, Le principali norme di contrasto alle operazione cd. di “dividend washing”, in AA.VV., La tassazione dei dividendi intersocietari, a cura di G. Maisto, Milano, 2011, 250-251 (nota 12). (33) Tale condizione di “reciprocità” è stata introdotta con l’art. 2, comma 1, lett. a) del D.lgs. 18 novembre 2005, n. 247. Prima dell’intervento del D.lgs. n. 247/2005, peraltro, si segnalava una disparità di trattamento tra titoli emessi da soggetti residenti, per i quali era sufficiente che la remunerazione fosse totalmente legata ai risultati economici della società emittente, e titoli emessi da soggetti non residenti, per i quali era invece necessaria l’ulteriore condizione, consistente nel rappresentare una partecipazione al patrimonio della società. A seguito dell’intervento disposto con il ricordato decreto, che ha abrogato il comma 2, lett. b), dell’art. 44 del TUIR, è stata prevista l’equiparazione degli utili di fonte estera a quelli di fonte domestica, a condizione che la remunerazione risulti indeducibili per l’emittente. Su tali profili cfr. O.D. Piccoli, P. de’ Capitani, Le azioni e i titoli similari, in AA.VV., Gli strumenti finanziari nella fiscalità d’impresa, a cura di G. Corasaniti, Milano, 2013, 37-38; P. Ludovici, L. Conidi, La qualificazione dei dividendi di società emittenti estere e il credito per tributi assolti all’estero, in AA.VV., La tassazione dei dividendi intersocietari, cit., 295. Su tali profili si consenta altresì il rinvio a G. Giusti, Profili tributari dei contratti di associazione in partecipazione e di cointeressenza: riflessioni in vista dell’attuazione della delega fiscale, in Riv. dir. trib., 2014, I, 1140-1141. Nell’ambito della disciplina del reddito d’impresa si veda, invece, l’art. 89, commi, 3, 3-bis e 3-ter del TUIR, questi


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di strumenti finanziari partecipativi emessi da società con sede all’estero la possibilità di fruire del regime di esenzione previsto per gli strumenti partecipativi emessi da società residenti a condizione che detta remunerazione non risulti deducibile nello stato dell’emittente, subordinando, quindi, la fruizione del regime di detassazione al rispetto di una simmetria di tipo intersoggettivo. Ciò premesso, la precisa individuazione del reale interesse a presidio del quale si pongono le disposizioni antielusive di carattere specifico ora esaminate si rivela, di certo, questione di rilevanza tutt’altro che teorica, trattandosi di un passaggio fondamentale onde verificarne l’ambito di potenziale disapplicazione. Le norme antielusive di carattere speciale sono, infatti, suscettibili di disapplicazione attraverso l’istituto dell’interpello disapplicativo, oggi previsto dall’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge n. 212/2000) (34), il che, peraltro, in riferimento alla previsione posta dall’art. 109, comma 3-bis, del TUIR è espressamente precisato anche dal successivo comma 3-sexies introdotto dall’art. 7, comma 1, del D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156. Alle stesse conclusioni, parrebbe, tuttavia, doversi giungere anche rispetto all’art. 109, comma 8, del TUIR (35).

ultimi due inseriti dall’art. 26, comma 1, della legge 7 luglio 2016, n. 122, per effetto dei quali la parziale detassazione riservata ai dividendi è ora sempre applicabile alla quota di remunerazione non deducibile per l’emittente, sia pure limitatamente agli strumenti finanziari nazionali che a quelli “intracomunitari” in presenza dei requisiti individuati dalla Direttiva 2011/96/UE. Si è così superata, quantomeno per tali categorie di strumenti finanziari, la precedente asimmetria derivante dalla necessità che la remunerazione, per beneficiare della parziale esenzione in capo al percettore, fosse “totalmente” indeducibile per l’emittente. (34) La disciplina degli interpelli è stata di recente razionalizzata ad opera del D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156 che, nel riscrivere l’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente, ha introdotto quattro distinte forme di interpello: a) interpello ordinario, che si sostanzia nella facoltà di richiedere un parere in presenza di obiettive condizioni di incertezza sull’interpretazione della normativa tributaria o sulla corretta qualificazione della fattispecie; b) interpello probatorio, che si sostanzia nella richiesta di un parere sulla sussistenza delle condizioni e la valutazione dell’idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge per l’adozione di un determinato regime fiscale; c) interpello antiabuso, finalizzato a chiarire l’applicazione della disciplina sull’abuso del diritto ad una determinata fattispecie; d) interpello disapplicativo, che consente la disapplicazione delle norme che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive, previa dimostrazione che, nella fattispecie concreta, gli effetti elusivi non possono verificarsi. Sulla riforma degli interpelli si veda, in generale, G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario, cit., 133-134. Sul nuovo interpello disapplicativo si veda, invece, più specificamente, P. Tarigo, L’interpello disapplicativo di norme antielusive nella recente riforma, in Rass. trib., 2017, 396 ss.; T. Di Tanno, Il nuovo interpello disapplicativo, in Riv. dir. trib., 2016, I, 147 ss. (35) In tal senso cfr. M. Leo, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, cit., 1952, il quale,


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Ebbene, ove ricostruito il reale significato delle norme antielusive ora in commento nei termini in precedenza esposti, ossia quali previsioni finalizzate a garantire la simmetria intersoggettiva tra tassazione/esenzione del componente positivo registrato in dipendenza della cessione delle partecipazioni (e del mero diritto di usufrutto su di esse) e rilevanza (o irrilevanza) fiscale dell’eventuale corrispondente componente negativo registrato dal cessionario, si renderebbe di certo possibile delimitarne con più chiarezza l’ambito di disapplicazione. Più nel dettaglio, sembrerebbe corretto ritenere che l’indeducibilità del componente negativo, disposta sia dal comma 3-bis che dal comma 8 dell’art. 109, non dovrebbe trovare applicazione in tutti i casi in cui il contribuente sia in grado di dimostrare che alla deduzione del componente negativo sarebbe corrisposta l’imponibilità del componente positivo in capo al cedente. Le disposizioni antielusive di carattere specifico ora esaminate, in buona sostanza, si rivelerebbero espressione di una sorta di “presunzione” (relativa) (36) posta a vantaggio dell’amministrazione in riferimento agli effetti asimmetrici delle operazioni in questione, che dovrebbe, tuttavia, ritenersi suscettibile di essere superata attraverso il ricorso all’interpello disapplicativo. 4. L’inapplicabilità dell’art. 109, comma 8 del TUIR al caso esaminato dalla Suprema Corte. – Così ricostruito il significato della disposizione contenuta all’art. 109, comma 8, del TUIR, anche alla luce del confronto con previsioni ispirate da analoghe finalità, si rende possibile verificarne l’applicabilità alla vicenda in esame. La Suprema Corte, come abbiamo visto, ha, infatti, ritenuto di poter giustificare l’indeducibilità della commissione versata dal borrower al lender invocando l’asserita equivalenza, sul piano economico, del contratto di stock lending al contratto di cessione dell’usufrutto su azioni. Non rileverebbero, secondo i Giudici, ai fini strettamente tributari, le differenze

in riferimento all’art. 109, comma 8, del TUIR, ricorda che «la Commissione Finanze della Camera dei Deputati, nel parere reso sullo schema di D.lgs. n. 344 del 2003, ha rilevato come, trattandosi di una “norma di natura antielusiva”, dovrebbe essere consentita “la disapplicazione qualora il contribuente ottenga il consenso dell’Amministrazione finanziaria tramite interpello preventivo” dimostrando cioè la reale natura dell’operazione». (36) L’assimilazione delle disposizioni antielusive di carattere specifico alle presunzioni (relative) è condivisa dalla giurisprudenza (Cass. Sez. trib., 25 luglio 2014, n. 16813, in banca dati Le leggi d’Italia), ma criticata dalla dottrina (P. Tarigo, L’interpello disapplicativo di norme antielusive nella recente riforma, cit. 403.


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che, sul piano del diritto civile, investono le due figure negoziali, dovendosi avere riguardo esclusivamente alla sostanza economica del fenomeno. Il ragionamento della Suprema Corte non sembra, tuttavia, tenere in adeguata considerazione il fatto che, nella sistematica dell’attuale Testo Unico, il regime fiscale dei componenti positivi e negativi nel reddito d’impresa è tendenzialmente influenzato proprio dal regime giuridico delle figure negoziali dalle quali tali componenti traggono origine (37). Predicare l’equivalenza, sul piano tributario, degli effetti di figure giuridiche diverse può, pertanto, implicare l’incapacità di cogliere la ratio di un determinato trattamento tributario ed avallare assimilazioni che si rivelino non giustificate neppure in una prospettiva antielusiva. Nel caso in esame, l’estensione delle limitazioni alla deducibilità dei costi sostenuti per l’acquisto del diritto di usufrutto su partecipazioni da cui derivino utili esenti, previste dall’art. 109, comma 8 del TUIR, anche alla commissione corrisposta in dipendenza di un contratto di stock lending, non sembra, per la verità, tenere conto, non solo e non tanto, delle profonde differenze che, sul piano del diritto civile, investono le due figure negoziali, ma soprattutto del fatto che, proprio alla luce di tali differenze, la disciplina fiscale ha previsto un diverso regime di rilevanza tributaria del componente positivo in capo al cedente. Come osservato in precedenza, l’indeducibilità dei costi sostenuti per l’acquisto del diritto di usufrutto su partecipazioni discende dal tendenziale regime di esenzione applicabile al provento conseguito dal cedente, assimilabile, sul piano tributario ad una plusvalenza suscettibile di beneficiare

(37) Sulla crescente dipendenza dai contratti e dai relativi effetti o forme di esecuzione nella dinamica impositiva cfr. G. Tremonti, Autonomia contrattuale e normativa tributaria: il problema dell’elusione tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, 369 ss.; P. M. Tabellini, Libertà negoziale ed elusione d’imposta. Il problema della “titolarità ingannevole” di redditi, Padova, 1995, 83. Sui rapporti tra autonomia privata e diritto tributario cfr. anche P. Pacitto, Attività negoziale, evasione ed elusione tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1987, I, 727 ss. Tali considerazioni potrebbero, peraltro, essere oggi oggetto di una rimeditazione, alla luce dell’introduzione, anche per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili nazionali, del principio di derivazione rafforzata dell’imponibile fiscale dal risultato civilistico (cfr. l’art. 13-bis del D.L. n. 244/2016, cd. “Milleproroghe”), tenendo conto che i nuovi principi contabili, elaborati per adeguare la prassi contabile alle disposizioni contenute nel D.lgs. n. 139/2015 (di attuazione della direttiva 2013/34/UE), analogamente ai principi contabili internazionali IAS/ IFRS, prediligono un criterio di rappresentazione delle vicende gestionali d’impresa ispirato al principio di prevalenza della “sostanza” sulla “forma”. Su tali aspetti cfr. L. Del Federico, Forma e sostanza nella tassazione del reddito d’impresa: spunti per qualche chiarimento concettuale, in Riv. dir. trib., 2017, I, 139 ss., il quale, anche nel nuovo contesto, sembra ribadire la centralità della forma giuridica rispetto alla sostanza economica, ritenendo, per la verità, la contrapposizione tra i due termini il frutto di un equivoco concettuale.


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del regime di esenzione previsto dall’art. 87 del TUIR (38). Un ben diverso regime tributario dovrebbe applicarsi, invece, alla commissione versata dal borrower al lender nel contratto di stock lending. Come già ricordato nelle considerazioni introduttive (e come anche evidenziato nella pronuncia in commento), il contratto di stock lending si articola in uno schema in cui il lender consegna, verso un corrispettivo, una certa quantità di titoli al borrower, il quale si obbliga a restituire, alla scadenza del contratto, titoli dello stesso genere e specie, il tutto accompagnato dalla costituzione di una garanzia a favore del lender. La figura contrattuale qui descritta risponde, pertanto, allo schema del mutuo di cose fungibili (art. 1813 del cod. civ.), per effetto del quale la proprietà dei titoli si trasferisce dal mutuatante al mutuatario (art. 1814 del cod. civ.) (39). Ebbene, se, come abbiamo visto, alla cessione del diritto di usufrutto su partecipazioni è stata riconosciuta l’applicabilità dell’esenzione sulla corrispondente plusvalenza, ai sensi dell’art. 87 del TUIR, lo stesso regime non sembra, invece, rendersi applicabile al corrispettivo incassato in dipendenza di un contratto di mutuo garantito su titoli (40). In tal senso si è, invero, espressa anche la dottrina, richiamando, nello specifico, l’attenzione su quanto previsto dall’art. 7, comma 2, del D.L. 8 gennaio 1996, n. 6 (convertito dalla legge 6 marzo 1996, n. 110), a mente del quale alle operazioni di “prestito titoli” (nel dettaglio definite come «contratto di mutuo di valori mobiliari garantito, nonché ogni altro contratto che persegue le medesime finalità economiche») «si applicano le disposizioni contenute negli articoli 56, primo periodo del comma 3-ter (ora art. 89, comma 6, n.d.r.) e 61, comma 1-bis (ora art. 94, comma 2, n.d.r.) del testo unico delle imposte sui redditi» (41). Nello specifico, le due norme ora richiamate individuano il regime fiscale dei contratti di pronti contro termine, stabilendo, la prima, che i proventi derivanti dai titoli oggetto del contratto spettino al cessionario, la seconda che le

(38) Sul punto si rinvia nuovamente alle osservazioni di A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze su partecipazioni, cit., 258. (39) Sulla natura del prestito titoli e sulle sue modalità di rappresentazione contabile cfr. A. Ottavi, F. Gandolfi, Osservazioni su alcuni aspetti del prestito titoli, in Riv. dott. comm., 1997, 1079 ss. (40) Sul regime fiscale del prestito titoli cfr. F. Padovani, Il prestito titoli garantito: profili ricostruttivi della fattispecie negoziale e problematiche fiscali, in Rass. trib., 2007, 407 ss.; V. Petrella, Il regime fiscale delle operazioni di prestito titoli ai fini delle imposte sui redditi (art. 7, D.L. n. 6/1996, convertito con L. n. 110/1996), in Rass. trib., 1996, 1113. (41) Così A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze su partecipazioni, cit., 248.


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cessioni di titoli, derivanti da contratti di riporto o di pronti contro termine che prevedono, per il cessionario, l’obbligo di rivendita a termine dei titoli, non determinino variazioni delle rimanenze finali. Ciò significa che tali operazioni, pur sostanziandosi in un doppio trasferimento della proprietà dei titoli, non comportano la fuoriuscita dal bilancio del cedente dei titoli oggetto dell’operazione, il che ne impedisce, così come evidenziato anche dalla prassi, l’applicabilità del regime di participation exemption di cui all’art. 87 del TUIR (42). Tali conclusioni, d’altro canto risultano coerenti anche con il regime fiscale previsto per tali contratti laddove stipulati al di fuori di un’attività d’impresa, posto che l’art. 44, comma 1, include tra i redditi di capitale sia «i proventi derivanti da riporti e pronti contro termine su titoli e valute» (lett. g-bis), sia «i proventi derivanti dal mutuo di tioli garantito» (lett. g-ter) (43), i quali, non rientrando nella categoria degli utili da partecipazione individuata dall’art. 47 del medesimo Testo Unico, concorrono a formare in misura integrale il reddito del percipiente (44). Alla luce di tali osservazioni, l’equiparazione tra le due figure negoziali, operata dalla Suprema Corte invocando l’espressione “altro diritto di natura analoga” impiegata nell’art. 109, comma 8, del TUIR, non sembra rivelarsi pienamente giustificata. Le differenze che investono le due figure negoziali sul piano civilistico si riflettono, infatti, anche sul piano tributario, e non pare corretto, pertanto, invocare una presunta identità economica dei due fenomeni onde assimilarne il relativo trattamento fiscale. Con la conseguenza che la soluzione del caso concreto avrebbe, forse, dovuto essere ricercata altrove e, con tutta probabilità, all’esito di un esame della vicenda condotto attraverso la lente dell’elusione e dell’abuso del diritto.

(42) In tal senso si è espressa l’Agenzia delle Entrate nella Circolare 4 agosto 2004, n. 36/E (par. 2.2.3.4) e nella più recente Circolare 26 marzo 2013, n. 7/E (in banca dati fisconline). Sul punto cfr. A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze su partecipazioni, cit., 247. (43) Su cui si veda A. Piri, Commento all’art. 44, in AA.VV., Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi, cit., 340-341. (44) L’art. 45, comma 1, del TUIR chiarisce, inoltre, che tra in proventi di cui alla lett. g)-ter del precedente art. 44 si ricomprendono sempre, oltre al compenso per il mutuo, anche l’importo degli interessi ed altri proventi dei titoli maturati nel periodo d’imposta. Sul punto cfr. G. Corasaniti, Le attività finanziarie nel diritto tributario, cit., 399. Sulla quota del corrispettivo versata al lender corrispondente alla retrocessione dell’ammontare dei dividendi incassati dal borrower (cd. manufactured dividend) non sembrano applicarsi, peraltro, regimi di (parziale) esenzione, ancorché tali proventi possano qualificarsi come “sostitutivi” di utili da partecipazione. In tal senso cfr. V. Amendola-Provenzano, I pronti contro termine e il prestito titoli, in AA.VV., Gli strumenti finanziari nella fiscalità d’impresa, cit., 244.


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5. Il contratto di stock lending nella prospettiva dell’elusione tributaria e dell’abuso del diritto. – Una volta esclusa l’applicabilità dell’art. 109, comma 8, del TUIR al caso di specie, rimangono da verificare i potenziali profili di elusività dell’operazione. L’inapplicabilità della disposizione ora richiamata alla vicenda, infatti, pur dovendosene riconoscere la natura di norma antielusiva di tipo specifico, non esclude che, per come costruita, l’operazione potesse comunque implicare il conseguimento di vantaggi tributari disapprovati dall’ordinamento (45). Per cogliere più chiaramente tale aspetto è, però, forse preliminarmente necessario soffermarsi sul rapporto che sembra sussistere tra norme antielusive di tipo particolare e clausole antielusive di tipo generale, onde delimitarne con precisione i reciproci ambiti di applicazione. Sul piano concettuale, l’elusione tributaria e l’abuso del diritto dovrebbero implicare il verificarsi di un vantaggio fiscale e la sua natura indebita, in difetto di apprezzabili ragioni economiche che possano giustificare la condotta del contribuente a prescindere dal conseguimento del risparmio d’imposta (46). I tre elementi sopraindicati (e le loro reciproche interrelazioni) emergevano abbastanza nitidamente nell’economia della clausola antielusiva di carattere (semi)generale posta dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 (47), ma si rintracciano, ancorché forse più confusamente, anche nell’attuale art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, ove il legislatore, nel lodevole intento

(45) Secondo M. Sonda, «Stock lending»: l’effettività dei flussi finanziari e la debolezza probatoria dell’Ufficio salvano il contratto dalla nullità, cit., 528 ss., l’operazione avrebbe potuto essere sindacata, invocando l’applicazione dell’art. 37-bis, comma 3, lett. f), del D.P.R. n. 600/19773, che ricomprendeva, tra le operazioni inopponibili all’Amministrazione finanziaria, le «operazioni da chiunque effettuate, incluse le valutazione e le classificazioni di bilancio, aventi ad oggetto i beni e i rapporti di cui all’articolo 81, comma 1, lettere da c) a c quinquies), del testo unico delle imposte sui redditi approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917». (46) In tal senso M. Beghin, L’elusione fiscale ed il principio del divieto di abuso del diritto, Padova, 2013, 6 ss. (47) Più precisamente, nella vigenza dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, gli elementi costitutivi della fattispecie erano individuati nel conseguimento di «riduzioni d’imposte o rimborsi altrimenti indebiti», attraverso l’aggiramento di «obblighi e divieti previsti dall’ordinamento», in assenza di «valide ragioni economiche» (sul punto cfr. G. Chinellato, Codificazione tributaria e abuso del diritto, Padova, 2005, 407). Sulla mancanza delle valide ragioni economiche quale circostanza “esimente” si veda invece P. Russo, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in Rass. trib., 1999, 75, il quale osserva che «in seno alla fattispecie di cui sopra, non è la mancanza di valide ragioni economiche ad atteggiarsi quale elemento costitutivo di essa; è viceversa la ricorrenza delle medesime nel caso concreto ad assurgere al rango di fatto impeditivo di essa».


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di fornire una definizione più precisa del fenomeno, è forse caduto nell’errore di confondere l’analiticità della definizione con la sua chiarezza (48). La nuova definizione, infatti, affianca all’indebito vantaggio fiscale, quale elemento costitutivo dell’abuso, anche l’«assenza di sostanza economica» ribadendo, tuttavia, al comma 3, la possibilità per il contribuente di opporre all’Amministrazione la ricorrenza di «valide ragioni extrafiscali, non marginali». La definizione, rischia, però, in tal modo, di perdere di chiarezza in quanto, da un lato, non risulta di immediata intelligenza il ruolo riservato all’assenza di “sostanza economica” nell’ambito della fattispecie e, dall’altro, nella prassi operativa, potrebbe risultare sminuita la centralità dell’indebito vantaggio. Sicché, anche nell’economia dell’attuale clausola antielusiva generale, sul piano applicativo, all’Amministrazione dovrebbe soprattutto essere richiesto di dimostrare il conseguimento del vantaggio fiscale e la sua natura indebita (ossia la sua contrarietà alla ratio delle norme eluse ed ai principi che regolano il sistema fiscale, ovvero, come da altri osservato, la sua “asistematicità”) (49), mentre al contribuente, oltre ad essere ovviamente consentita la replica su tali profili, dovrebbe richiedersi l’allegazione di quelle valide e non marginali ragioni economiche, che, giustificando la condotta al di là del vantaggio tributario, ne impediscano la revoca anche laddove, in ipotesi, esso si riveli non coerente con i principi del sistema fiscale (50). In un tale quadro sarebbe poi auspicabile che, dal novero delle questioni fiscalmente rilevanti, fosse espunta ogni considerazione in merito all’asserita “manipolazione” di strumenti giuridici di per sé legittimi (ossia, nello specifico, delle figure negoziali del diritto

(48) Critico con la nuova definizione è anche D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, cit., 713-714 ss., il quale osserva che «la nuova formulazione, rispetto a quella che era prevista dall’art. 37-bis del d.p.r. n. 600 del 1973, non contiene più il riferimento all’«aggiramento» dei divieti ed obblighi (da intendersi, dei principi), previsti dall’ordinamento tributario: la prima impressione che se ne ricava è nel senso di una identificazione dell’operazione elusiva con quella che realizza vantaggi fiscali senza che il percorso negoziale avesse una particolare ragione di essere adottato, rispetto a percorsi alternativi, se non l’obiettivo di ottenere un risparmio d’imposta». (49) Così M. Beghin, L’elusione fiscale ed il principio del divieto di abuso del diritto, cit., 10. (50) Sul punto si veda anche D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, cit., 718. In passato, alla mancanza delle “valide ragioni economiche”, sia la giurisprudenza che la prassi amministrativa avevano invece attribuito eccessivo peso, finendo per identificare con essa l’elemento essenziale della condotta elusiva, a discapito della natura indebita del vantaggio fiscale (così anche G. Vanz, L’elusione fiscale tra forma giuridica e sostanza economica, in Rass. trib., 2002, 1619).


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civile), in quanto tale elemento sembrerebbe connotare il fenomeno esclusivamente sul piano descrittivo, senza tuttavia contribuire ad individuarne la vera essenza (51). Così descritto quello che si ritiene dovrebbe essere il corretto meccanismo applicativo delle clausole antielusive di carattere generale, se ne rende possibile un confronto con il funzionamento delle clausole antielusive di tipo specifico. Al di là dell’osservazione, forse più teorica che pratica (e comunque non universalmente condivisa) che le prime operino nella dimensione attuativa del prelievo, mentre le seconde nella dimensione sostanziale (52), la reale differenza sembrerebbe risiedere nel fatto che, mentre, nel primo caso, l’Amministrazione finanziaria è chiamata ad individuare, nell’esercizio del potere di accertamento, l’indebito vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, nelle seconde è lo stesso legislatore ad introdurre una presunzione (superabile attraverso il ricorso all’interpello disapplicativo) in virtù della quale, sulla base dell’id quod plerumque accidit, ad una determinata condotta viene comunque ricondotto il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito, di cui, pertanto, si procede alla sterilizzazione direttamente in sede normativa (53).

(51) Secondo D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, cit., 796 (nota 1), tale impostazione sarebbe il frutto di un «condizionamento derivante dalla formulazione della norma antielusiva nell’ordinamento tedesco in cui trova spazio «l’abuso delle forme giuridiche», e dalla tendenza a risolvere problematiche di ordine tributario guardando al diritto civile». L’autore critica, pertanto, anche la definizione di abuso proposta dalla legge delega 11 marzo 2014, n. 23, la quale definiva la condotta elusiva come «uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta». Sulla stessa linea si pone anche R. Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2001, 288. (52) Sulla natura di norme sostanziali delle disposizioni antielusive di carattere specifico si veda P. Tarigo, L’interpello disapplicativo di norme antielusive nella recente riforma, cit., 403; Sulla natura “procedimentale” delle clausole antielusive generali cfr., invece, M. Basilavecchia, Presupposti ed effetti della sanzionabilità dell’elusione, in Dir. prat. trib., 2012, I, 800; S.F. Cociani, Spunti ricostruttivi sulle tecniche giuridiche di contrasto all’elusione tributaria. Dal disconoscimento dei vantaggi tributari all’inopponibilità al Fisco degli atti, fatti e negozi considerati elusivi, in Riv. dir. trib., 2001, I, 766 ss. Gran parte della dottrina ritiene, tuttavia, che anche le disposizioni antielusive di carattere generale abbiano natura sostanziale (in tal senso si veda, ad esempio, M. Nussi, Elusione tributaria ed equiparazione al presupposto nelle imposte sui redditi: nuovi e vecchi problemi, in Riv. dir. trib., 1998, I, 503; G. Zizzo, Prime considerazioni sulla nuova disciplina antielusione, in AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria, a cura di M. Miccinesi, Padova, 1999, 462; F. Gallo, Rilevanza penale dell’elusione, in Rass. trib., 2001, 327). Ritiene la questione di scarsa rilevanza pratica A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 132. (53) Come detto la ricostruzioni in termini di presunzioni relative delle norme antielusive di carattere specifico, pur condivisa dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., Sez. trib.,


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Ciò parrebbe dover comportare che, in presenza di una clausola antielusiva di carattere specifico, il contribuente, in sede di interpello, possa invocarne la disapplicazione sia allegando la sussistenza, nel caso concreto, di ragioni economiche capaci di giustificare l’operazione al di là del vantaggio fiscale, sia, soprattutto, che alla luce delle particolari caratteristiche della stessa, il vantaggio fiscale astrattamente ipotizzato dal legislatore non sia, in concreto, configurabile. Peraltro, nel silenzio dell’Amministrazione finanziaria, la disciplina fiscale stabilisce espressamente che debba intendersi accolta la soluzione interpretativa proposta dal contribuente, con conseguente nullità di avvisi di accertamento di contenuto difforme. D’altro canto, anche in caso di parere sfavorevole il contribuente può procedere alla disapplicazione, regredendo, in tal modo, la presentazione dell’istanza di interpello a mera condizione di carattere procedurale per l’inoperatività della presunzione legale posta dalla norma antielusiva di carattere specifico (54). In buona sostanza, le norme antielusive di carattere specifico consentono all’Amministrazione di invocare elusivamente la violazione della norma, la quale esprime essa stessa un giudizio di elusività della condotta del contribuente. In tali casi, infatti, è a questi rimesso l’onere di dimostrare che, nel caso particolare, il vantaggio tributario che secondo l’id quod plerumque accidit stabilito dal legislatore caratterizza l’operazione non può realizzarsi. D’altro canto, le norme antielusive di carattere generale (quali art. 37-bis del D.P.R. 600/1973 e l’art. 10-bis dello Statuto), impongono all’organo accertatore di provare sia la ricorrenza del vantaggio fiscale, sia la sua natura indebita. In altre parole, a voler condividere la ricostruzione qui proposta, le norme antielusive di carattere particolare implicano, essenzialmente, l’inversione dell’onere della prova in merito all’esistenza dell’indebito vantaggio, semplificando l’attività di controllo degli uffici fiscali (55).

15 luglio 2014, n. 16813) non sembra essere condivisa dalla dottrina (P. Tarigo, L’interpello disapplicativo di norme antielusive nella recente riforma, cit., 402; G. Fransoni, R. Suraci, Facoltatività o obbligatorietà dell’interpello disapplicativo, in Corr. trib., 2016, 1645 ss.). (54) Si tratta, peraltro, come osservato dalla dottrina, di una condizione non obbligatoria, in quanto, a dispetto di quanto sostenuto dalla Relazione illustrativa al titolo I del D.lgs. n. 156/2015 e dall’Agenzia delle Entrate (Circolare 1° aprile 2016, n. 9/E, in banca dati fisconline), la presentazione dell’istanza non dovrebbe ritenersi obbligatoria ai fini della disapplicazione. In tal senso P. Tarigo, L’interpello disapplicativo di norme antielusive nella recente riforma, cit., 400 ss. F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1315). (55) Anche P. Tarigo, L’interpello disapplicativo di norme antielusive nella recente ri-


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Ebbene, tornando al caso in esame, va innanzitutto osservato che, una volta esclusa l’applicabilità dell’art. 109, comma 8, del TUIR (disposizione antielusiva di carattere specifico), i Giudici avrebbero dovuto, con tutta probabilità, disporre l’annullamento della pretesa, non potendo, alla luce delle osservazioni prima formulate, condividere l’impianto argomentativo della sentenza di secondo grado (fondato, si ricorda, sul confuso richiamo all’invalidità, sul piano del diritto civile, dell’operazione intrapresa) né invocare, alla luce di quanto ora previsto dall’art. 10-bis dello Statuto, l’applicazione officiosa del divieto di abuso del diritto di elaborazione giurisprudenziale (56). Del che, d’altro canto sembrano essere consapevoli anche i Supremi Giudici

forma, cit., 403, pur non condividendo, sul piano teorico, tale impostazione, osserva che «le norme antielusive non sono strutturate a presunzioni legali, ossia, strutturalmente, non costituiscono norme sulle prove. Tuttavia, sostanzialmente operano, grazie all’istituto della disapplicazione dell’art. 11, comma 2, Statuto, secondo un meccanismo che, in un certo qual modo, avvicina queste norme alle presunzioni, consentendo al contribuente di fornire la dimostrazione che la propria condotta non rispecchia quella che, sulla base di un criterio di normalità, è ritenuta essere normalmente una condotta elusiva». In realtà, la natura sostanziale delle norme antielusive specifiche non sembrerebbe ostare ad una loro ricostruzione in termini di presunzioni, ravvisandosi, nel sistema, anche altre ipotesi di norme che, pur operando sul piano sostanziale, introducono meccanismo di tipo presuntivo che implicano l’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente. Si pensi, ad esempio, all’art. 2, comma 2-bis, del TUIR, in base al quale si presumono residenti in Italia, salvo prova contraria, i cittadini cancellati dall’anagrafe della popolazione residente e trasferiti in un Paese a fiscalità privilegiata. Ma si pensi anche alla presunzione posta dall’art. 12, comma 2, del D.L. n. 78/2009 (convertito con modifiche dalla legge 3 agosto 2009, n. 102), a mente del quale le attività finanziarie detenute in Paesi a fiscalità privilegiata si presumono costituite, salva prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. Anche a tale disposizione, infatti, è stata tendenzialmente riconosciuta natura sostanziale, così negandosene l’applicazione ai periodi d’imposta antecedenti la sua introduzione (sul punto cfr. da ultimo Comm. trib. reg. Emilia Romagna, 23 giugno 2016, n. 2727; la sentenza è stata commentata da M.T. Montemitro, Sulla natura sostanziale dell’art. 12, comma 2, D.L. 78/2009, in Riv. dir. trib., supplemento online del 17 novembre 2016). (56) L’art. 10-bis, comma 9, dello Statuto precisa, infatti, che «L’Amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2. Il contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3». Non è più pertanto ammissibile la tesi della rilevabilità d’ufficio dell’abuso del diritto in passato sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., Sez. trib., 11 maggio 2012, n. 7393, in Corr. trib., 2012, 2368 ss., con nota di F. Tundo, Abuso del diritto rilevabile d’ufficio anche se il comportamento rientra nella specifica norma antielusiva). Sul punto cfr. anche G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, in Rass. trib., 2017, 321, per il quale «la norma recata dal comma 9 cit., ha essenzialmente un valore di monito diretto nei confronti dei giudici, che, nell’applicazione della clausola antiabuso, hanno frequentemente trascurato questo profilo del processo tributario».


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laddove, forse proprio nel tentativo di superare tali profili di criticità, risolvono la questione alla luce del menzionato art. 109, comma 8, del Testo Unico, riconoscendo espressamente, peraltro, l’irrilevanza, ai fini della controversia, dell’art. 10-bis dello Statuto. Ciò nonostante, si ritiene che, in questa sede, valga comunque la pena di chiedersi se fosse possibile sindacare l’elusività dell’operazione, onde valutarne sotto ogni profilo la legittimità fiscale. Un simile tentativo avrebbe, invero, imposto all’Amministrazione di dimostrare innanzitutto il conseguimento di un vantaggio fiscale e la sua natura indebita, ed al contribuente di allegare le valide ragioni extrafiscali dell’operazione. Ebbene, pur essendo innegabile che l’operazione, valutata oggettivamente, abbia comportato per il borrower un risparmio d’imposta, più di una perplessità avrebbe, in realtà, potuto essere sollevata in merito alla natura indebita dello stesso. Tale ulteriore circostanza, infatti, alla luce di quanto prima osservato, avrebbe potuto emergere laddove si fosse accertata l’irrilevanza impositiva del commissione in capo al lender, elemento al quale, tuttavia, non sembra essere stata dedicata la dovuta attenzione nell’ambito della descrizione dell’operazione operata nella sentenza (57). Né, si ritiene che la natura indebita del vantaggio fiscale fosse automaticamente desumibile dalla circostanza che il lender fosse operatore stabilito in altra giurisdizione, potendo, tale elemento, rappresentare al più un indice di sospetto, da integrare, però, con un più approfondito esame in merito ai profili di rilevanza del componente positivo nella legislazione fiscale dello Stato estero, secondo la medesima logica che, come abbiamo visto, ispira quelle disposizioni che, nella sistematica dell’attuale Testo Unico, paiono finalizzate a garantire il rispetto delle simmetrie fiscali di carattere intersoggettivo al livello internazionale (58). È forse, allora, proprio su tale, decisivo, aspetto che avrebbero dovuto incentrarsi le contestazioni erariali sulle operazioni di stock lending, aspetto che, invece, anche alla luce della lettura della copiosa giurisprudenza di merito formatasi sul tema, sembra essere stato trascurato in favore di un impianto argomentativo fondato su suggestivi richiami alla “nullità”

(57) Le stesse considerazioni sono condivise anche da D. Stevanato, Prestito titoli, indeducibilità del manufactured dividend e “rottura” delle simmetrie fiscali, cit., 2359. (58) La medesima logica, d’altra parte, sembra ispirare le misure che l’OCSE ha elaborato per il contrasto ai cd. hybrid mismatch arrangement, oggi contenute nell’Action 2 del progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting). Sul tema si veda anche C. Garbarino, A. Turina, Il progetto BEPS e gli “hybrid mismatch arrangement”: un esame del relativo “Deliverable”, in Fisc. comm. int., 2015, 20 ss.


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ed alla “fittizzietà”, attraverso i quali si tentato di dimostrare la natura indebita del vantaggio conseguito invocando l’artificiosità dell’operazione. Alla luce delle presenti riflessioni, si ritiene, tuttavia, che gli sforzi ricostruttivi dell’Amministrazione, si siano diretti verso profili tutt’altro che essenziali, obliterando quello che, invece, avrebbe dovuto essere l’aspetto centrale della vicenda, con la conseguenza che un approccio garantista da parte della giurisprudenza avrebbe, con tutta probabilità, dovuto condurre all’annullamento delle corrispondenti pretese tributarie. 6. Risvolti penali. – Come evidenziato nelle riflessioni iniziali, e come ben posto in luce anche dai primi commentatori della pronuncia in esame, la soluzione adottata dai Supremi Giudici prospetta, altresì, rilevanti ed inquietanti conseguenze sul piano penale. La precedente giurisprudenza penale, sia di legittimità che di merito, con l’aver inquadrato l’operazione di stock lending nell’alveo delle operazioni elusive, era, infatti, giunta a riconoscerne l’irrilevanza penale anche alla luce della nuova formulazione dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente (59). Laddove si consolidasse la soluzione proposta dalla Suprema Corte nella sentenza annotata, invece, l’irrilevanza penale della condotta potrebbe rivelarsi un dato non più acquisito, discendendo la conferma della fondatezza della pretesa fiscale dal riconoscimento della violazione della regola prescritta dall’art. 109, comma 8 del TUIR (60). Si ritiene, tuttavia, che anche nella non condivisibile prospettiva della Suprema Corte, la nuova formulazione delle fattispecie di illecito penale dichiarativo contenute negli artt. 3 e 4 del D.lgs. 74/2000, adottata a seguito delle modifiche apportate con il D.lgs. n. 158/2015, dovrebbe comunque condurre ad escludere la rilevanza penale delle evasioni d’imposta asseritamente commesse attraverso operazioni di stock lending (61).

(59) In tal senso cfr. Cass. Pen., Sez. III, 7 ottobre 2015, n. 40272, in banca dati Le leggi d’Italia. Per un commento alla sentenza cfr. I. Caraccioli, “Stock lending agreement”: la Cassazione afferma la non punibilità retroattiva, in Riv. dir. trib. supplemento online, del 9 giugno 2016. Per la giurisprudenza di merito si vedano le sentenze citate da M. Sonda, «Stock lending»: l’effettività dei flussi finanziari e la debolezza probatoria dell’Ufficio salvano il contratto dalla nullità, cit., 528 ss (nota 14 e nota 16). Sul punto cfr. anche P. Corso, L’operazione elusiva non è inesistente e non costituisce reato, in Corr. trib., 212, 418 ss. (60) Timori come detto sollevati da B. Denora, Le strategie di contrasto allo stock lending agreeement: un grande equivoco, in Riv. dir. trib., supplemento online dell’8 giugno 2017. (61) Per una valutazione della riforma del sistema penale tributario si veda I Caraccioli, Linee generali della revisione del sistema penale tributario, in il fisco, 2015, 2935.


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Ed, infatti, con l’intento di circoscrivere le ipotesi di rilevanza penale alle condotte che si caratterizzano per un occultamento o, quantomeno, per una falsa rappresentazione della realtà, il legislatore, con l’ultimo intervento normativo è, innanzitutto, intervenuto sul delitto di “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” (art. 3 del D.lgs. n. 74/2000), precisando che l’illecito si realizza attraverso operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento ed ad indurre in errore l’Amministrazione finanziaria, mediante l’indicazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi o crediti e ritenute fittizie, tali comunque da supportare le falsità contabili realizzate e confluite nella dichiarazione. Allo stesso modo, nella riformulazione del delitto di “dichiarazione infedele” il legislatore ha sostituto con l’espressione “inesistenti” il precedente riferimento agli elementi passivi “fittizi” indicati nella dichiarazione dei redditi, precisando, peraltro, che, ai fini dell’applicazione della norma, non si tenga conto, tra le altre cose, della violazione del principio di inerenza e della non deducibilità di elementi passivi reali. Anche il delitto di dichiarazione infedele, in buona sostanza, è stato circoscritto ai casi in cui l’evasione si realizzi mediante un’alterazione della realtà, con esclusione dei casi che, pur rientranti nel concetto di evasione, si fondino su valutazioni giuridiche dell’Amministrazione finanziaria divergenti rispetto a quelle adottate dal contribuente. Ne deriva che, una volta esclusa la pretesa natura simulata dell’operazione, di certo incompatibile anche con la ricostruzione che ne è stata prospettata nella sentenza annotata, la pretesa erariale finisce qui per discendere, per un verso, da una valutazione sull’indeducibilità di un componente negativo comunque oggetto di corretta rappresentazione in sede di dichiarazione, e, per l’altro, dalla ricostruzione del significato da attribuire all’espressione “altro diritto di natura analoga” contenuta nell’art. 109, comma 8, del TUIR, nell’ambito della quale ci si interroga se sia possibile includere anche l’ipotesi di prestito titoli realizzata attraverso il contratto di stock lending. Il che ad oggi sembra, in tutta onestà, quantomeno insufficiente per fondare profili di responsabilità penale del contribuente, sia nella prospettiva dell’art. 2, che nella prospettiva dell’art. 3 del D.lgs. n. 74/2000.

Gabriele Giusti



Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli

Profili penali-tributari della determinazione del reddito agli effetti del calcolo di proporzionalità tra mezzi ed impieghi in materia di confisca di beni sequestrati Sommario: 1. Premessa. – 2. L’art. 24, primo comma secondo periodo, della Legge 17

ottobre 2017, n. 161. Il novum rispetto alla normativa previgente. – 3. Il termine iniziale da cui far decorrere la ricostruzione del patrimonio del proposto. L’assenza di un parametro temporale certo da assumere a fattore oggettivo. – 4. Aspetti di diritto intertemporale. – 5. L’interpretazione sistematica dell’inciso “valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”. – 6. La errata conclusione della Cassazione in materia di redditi da condono ex legge 413/1991. – 7. Breve excursus della posizione della giurisprudenza in materia di tassazione dei redditi da attività illecita. – 8. Osservazioni sulla modifica normativa introduttiva dell’inciso “alla propria attività economica” in rapporto alla (contestuale) legge sulla tassazione dei redditi da attività illecita del dicembre del 1993. – 9. Conclusioni. La recente riforma in materia di misure di prevenzione, introdotta dalla Legge 17 ottobre 2017, n. 161, ha previsto che agli effetti del giudizio di comparazione tra il reddito disponibile ed il patrimonio dei beni della persona nei confronti della quale il sequestro è disposto, non possono essere inclusi i redditi derivanti da evasione fiscale, neanche nel caso di successiva regolarizzazione. L’obiettivo del presente articolo è dimostrare che le nuove disposizioni, in vigore dal 19 Novembre 2017, non sono applicabili ai procedimenti in corso, ai quali rimangono applicabili le disposizioni pregresse. Di conseguenza, nonostante il contrario parere delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione del 2014 che hanno sempre negato la legittimità di tale inclusione, i redditi derivanti dall’evasione fiscale possono essere inclusi nella base di calcolo, al netto delle somme dovute per la regolarizzazione, ove pagate. In tal caso, il reddito disponibile ovviamente aumenta ed il diritto della persona rispetto alla quale è disposta la misura è tutelato secondo norma. Alcune recenti decisioni della Corte di Cassazione del 2017 hanno riconosciuto come, in certi casi e sussistendo determinati presupposti, i redditi derivanti da evasione fiscale, possano essere assunti nella base di determinazione del reddito disponibile. Circostanza, questa, dimostrativa che una nuova linea di tendenza è stata inaugurata dalla Corte di Cassazione. The recent reform concerning prevention measures, introduced by art. 24 of the Law of October 17, 2017, n. 161, stated that for the purpose of making the comparison between income available and investments made by the person subject to the seizure of assets, sums


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arising from the tax evasion cannot be included in the amount of the income, also in the case in which these amounts have been regularized. This article is intended to prove the new provision which, is effective from November 19, 2017, does not apply to the previous proceedings which will be governed by the old rules. As a result, notwithstanding the opinion of the Suprem Court (joint section, decision of 29 May 2014 n. 33451) which has always denied the recognition of such amounts, income from tax evasion can be included in the basis of calculation, net of the amount due for the regularization, if any. In such a case, the amount available becomes, obviously, higher and the right of the person subject to the seizure of assets is better protected. Recent decisions of Supreme Court of 2017 have recognized, in certain circumstances, the use of income arising from tax evasion. This means that a new tendency has been actually opened by Supreme Court.

1. Premessa. – La Legge 17 ottobre 2017, n. 16 (1), in vigore dal 19 novembre 2017 (di seguito “la Legge”), ha introdotto significative modifiche in materia di misure di prevenzione attualmente applicabili anche ai reati tributari, dando seguito ad una ulteriore riforma dopo quella del 2011 nel tentativo, solo parzialmente riuscito, di pervenire ad una regolamentazione organica della materia. La Legge è stata realizzata, come tutti i precedenti di questa materia fin dal 1965 (2), attraverso la modifica e l’integrazione della normativa previgente mantenendo inalterato l’assetto di fondo. Tecnica legislativa, questa, poco appagante dal punto di vista sistematico solo che si consideri come il sistema penale-tributario e quello delle misure di prevenzione hanno subìto processi di riforma estremamente significativi, sia nella parte processuale che quella sostanziale. Il risultato è che, già in sede di approvazione del testo definitivo, sono emerse criticità e problemi di raccordo tali da prevedere a breve un successivo intervento correttivo in subiecta materia (3).

(1) “Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate” (in G.U. Serie Generale n. 258 del 4 novembre 2017). (2) La confisca di prevenzione venne introdotta dall’art. 2 ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 e oggi disciplinata dagli artt. 16 e ss. del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione). (3) Si legge nella comunicazione di Rai News 24 del 17 ottobre 2017 che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando ha promulgato la legge che ha modificato la disciplina del codice antimafia e delle misure di prevenzione, benchè non avesse rilevato evidenti profili di legittimità costituzionale, ha comunque riscontrato alcuni elementi di criticità. Il Presidente Mattarella ha, così, inviato al Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni una lettera nella quale ha segnalato due elementi da correggere. In primo luogo ha segnalato al Governo che l’articolo 31 della nuova legge, nel modificare la disciplina della cosiddetta confisca allargata in caso


Rubrica di diritto penale tributario

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2. L’art. 24, primo comma secondo periodo, della Legge 17 ottobre 2017, n. 161. Il novum rispetto alla normativa previgente. – In questo quadro sistematico si inserisce quello che è lo scopo del presente lavoro: la identificazione del reddito agli effetti del giudizio di proporzionalità, come risulta al Capo II^ dall’art. 5, comma VIII^, lett. a) (Procedimento di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali) che ha integralmente sostituito l’art. 24 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 disponendo che: “Il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. In ogni caso il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale. Se il tribunale non dispone la confisca, può applicare anche d’ufficio le misure di cui agli articoli 34 e 34-bis ove ricorrano i presupposti ivi previsti” (4).

di condanna penale definitiva, non ha riportato nell’articolo 12 sexies alcune ipotesi di gravi reati che erano state inserite nell’ottobre del 2016 dal decreto legislativo n. 202, attuativo di una specifica direttiva dell’Unione europea. Trattandosi di gravi ipotesi di reato come i delitti commessi con finalità di terrorismo internazionale, l’associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati di falso in monete e banconote, la corruzione tra privati e l’indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento ed alcuni reati informatici. Il Capo dello Stato ha segnalato al Governo l’opportunità di rimediare a questa omissione per adeguare l’ordinamento agli obblighi comunitari e per assicurare una piena efficacia dell’azione repressiva in caso di condanna per tali reati. Inoltre, specifica il Presidente Mattarella, l’ampio contenuto del provvedimento e i suoi tanti aspetti di novità rendono opportuno che il Governo proceda ad un attento monitoraggio degli effetti applicativi della nuova disciplina, approvata definitivamente dal Parlamento lo scorso 27 settembre. Nella lettera il presidente della Repubblica chiede al Governo di individuare “in tempi necessariamente brevi, modi e forme di un idoneo intervento normativo”. (4) Lo stesso art. 5, al comma 4, dispone del Sequestro, modificando l’art. 20 della vecchia legge ma, in parte qua, la norma al di là del fatto che non prevede la limitazione relativa ai redditi da evasione fiscale, ripropone esattamente la formula legislativa previgente. Il che significa che i criteri interpretativi relativi ai presupposti, in materia di sequestro, rimangono esattamente gli stessi ante riforma con riferimento a “quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o alla propria attività economica”. Questo vuol dire che, in materia di sequestro, come successivamente meglio precisato, varrà l’interpretazione per cui i redditi da attività illecita (recte: evasione fiscale) potranno sempre assumersi ai fini del calcolo del plafond disponibile, in base al principio tempus regit actum e lo stesso sarà per la confisca dopo. È da ritenere che si tratti di una anomalia derivante dal fatto che se il sequestro è strumentale alla confisca, allora i


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Si precisa che la prima parte del primo comma replica esattamente quella di cui al D. L.gvo 159/2011 e, quindi, non presenta carattere di novità. Occorre che sia dimostrato da parte del soggetto nei cui confronti viene chiesto il provvedimento (al quale compete il c.d. “onere di allegazione”) che il patrimonio oggetto della misura sia proporzionale al reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica (...)”. In altri termini, solo il superamento del test di proporzionalità tra plafond reddituale disponibile e valore del patrimonio dallo stesso posseduto, determinato secondo gli intervalli temporali in cui esso si è formato (5), potrà evitare il sequestro e poi la confisca del patrimonio stesso.

presupposti devono essere gli stessi, altrimenti si dovrebbero ipotizzare due diverse delibazioni interpretative, svolte anche in tempi molto distanti tra loro vista la durata del processo di prevenzione, caratterizzato da consulenze tecniche molto complesse perchè relativi a fatti anche molto risalenti nel tempo: l’una relativa al sequestro e l’altra, successiva ed eventuale, relativa alla confisca. L’art. 20, infatti, nulla dice circa la limitazione presente nell’art. 24 – In ogni caso il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale – e, quindi, trattandosi di norme di stretta interpretazione si deve ritenere, a fortiori, che i redditi da evasione fiscale possano assumersi ai fini del sequestro anche in costanza della nuova norma e che, una volta assunti, facciano stato anche in sede di confisca, a meno che non si ritenga che, in questa seconda sede, si ridetermini il reddito secondo altri criteri. Il che, al di là della mancanza di alcuna disposizione in tal senso, è la conferma di una l’anomalia legislativa che si viene a creare dimostrativa del fatto che il legislatore non abbia chiare le idee sul punto. Ma questa è la ovvia conclusione derivante dal fatto che si è voluto forzare la norma escludendo dall’inclusione del plafond i redditi da evasione fiscale al netto delle imposte dovute, trascurando l’excursus storico più oltre richiamato nel testo che legittimava questa assunzione. La tassazione dei redditi da attività illecita ha avuto effetto scardinante circa le conclusioni in ambito extratributario di cui la Cassazione non ha mai voluto prendere atto. (5) La parcellizzazione della condotta secondo un criterio temporale è canone interpretativo ricorrente nella giurisprudenza della Suprema Corte in materia di misure di prevenzione. Si richiama, in tema di accertamento della sproporzione, Corte di Cassazione SS.UU. che, con la sentenza del 17 dicembre 2003 (dep. il 19 gennaio 2004 n. 920, Montella) ha precisato che “la sproporzione così intesa viene testualmente riferita non al patrimonio come complesso unitario, ma alla somma dei singoli beni, con la conseguenza che i termini di raffronto dello squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori in gioco, non vanno fissati nel reddito dichiarato o nelle attività al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma nel reddito e nelle attività nei momenti dei singoli acquisti, rispetto al valore dei beni volta a volta acquisiti”. Sulla stessa linea interpretativa si pone Cassazione 26 settembre 2006 n. 721, (Nettuno), che fornisce utili parametri per tale verifica “Nell’accertamento della sproporzione un ruolo importante assume il riferimento temporale, non potendo il confronto tra la situazione patrimoniale reale e la capacità economica, desumibile dal reddito dichiarato o dall’attività economica, che risulta essere svolta dall’indagato, prescindere dal dato temporale”.


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Lo ius novum è, invece, costituito dalla seconda parte dell’art. 24 dove viene sancito, per la prima volta a livello normativo, che i proventi da evasione fiscale non possano concorrere alla formazione del reddito disponibile non potendo costituire legittima fonte di copertura degli impieghi. Scopo del presente lavoro è dimostrare che, sulla base della normativa previgente rispetto a quella in vigore dal 19 Novembre 2017, potevano concorrere alla formazione del plafond anche i redditi derivanti da attività illecita e, quindi, anche quelli da evasione fiscale. Ciò in quanto l’inciso normativo di cui alla norma richiamata “alla propria attività economica” (riferito a quella del soggetto nei cui confronti opera la misura) non può che riferirsi, come si vedrà, ai redditi derivanti da attività illecite. Pertanto, se quei redditi ratione temporis, andranno esclusi dal plafond di riferimento per effetto della novella, essi potevano (e potranno) essere assunti legittimamente in tutti i casi in cui, alla data del 19 Novembre 2017, non sia già stata formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione. Il tema non riveste carattere solo scientifico ma presenta significativi risvolti pratici; la ricostruzione dei patrimoni è molto difficoltosa e spesso i fatti sottostanti non possono essere adeguatamente documentati perché le fonti sovente non sono in grado di produrli. È richiesta, infatti, la determinazione dei redditi per ciascun intervallo temporale in cui si effettua il raffronto tra mezzi ed impieghi; il che implica una segmentazione temporale – anche ai fini della legge applicabile su come determinare i redditi stessi – volta a stabilire come si è formato il reddito ed i relativi atti dispositivi. In merito si registra come le SS.UU. penali della Cassazione abbiano confermato la linea interpretativa della giurisprudenza delle Sezioni che hanno sempre negato il riconoscimento dei proventi da evasione fiscale ai fini della formazione del plafond disponibile agli effetti della verifica del giudizio di proporzionalità (6). Infatti, le SS.UU. hanno ritenuto non sovrapponibile la confisca in prevenzione rispetto a quella c.d. “allargata” di cui all’art 12, sexies della L. 356/1992, per difetto dei relativi presupposti applicativi e della ratio sottostante, in difformità da quanto sosteneva la I^ Sezione (remittente) che assimilava, invece, alla confisca in prevenzione lo stesso regime dell’altra. Ciò traeva fondamento più che dalla origine dei provvedimenti, dagli effetti che essi determinavano e dal tenore normativo adottato; circostanze, queste, che

(6) Sent. del 29 Maggio 2014 n. 33451 (dep. 29 Luglio 2014), Pres. Santacroce, est. Zampetti) n. 33451/2014 in Dir. Pen. Cont.


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consentivano di concludere per l’assimilazione della misura di prevenzione a quella c.d. allargata e sulla “sovrapponibilità”, quanto ai redditi da evasione fiscali, qui considerati ai fini del calcolo del plafond. La Cassazione, con una pronuncia che privilegia decisamente l’aspetto ordinatorio rispetto a quello definitorio, quando ha richiamato tutta la giurisprudenza a sostegno della sua tesi non risulta avere preso mai posizione in modo convincente sul significato da assegnare all’inciso (propria attività economica) con riferimento alla fonte alternativa dei redditi, rispetto a quelli risultanti dalla dichiarazione, se non recentemente. Eppure, nella parte in fatto della sentenza la stessa Cassazione aveva richiamato l’assunto difensivo per cui, con riferimento all’attività svolta precisava, correttamente, “previsione, questa, alternativa che impone la considerazione, ai fini anzidetti, anche delle somme fiscalmente evase”, come pure riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità nelle sentenze n. 29926/2011 e 21265712” (7), aggiungendo poi che uno degli imputati era stato assolto dal reato di dichiarazione infedele. Su questo aspetto, la Cassazione ancora una volta glissa, limitandosi soltanto a replicare il contenuto della disposizione contenente l’inciso sopra riportato, rinunciando a quella interpretazione che le SS.UU. avrebbero dovuto assicurare sulla questione controversa. Eppure, la successione delle leggi che fa da sfondo alla complessità della vicenda (la ricostruzione del patrimonio sembra ricondursi al 1984), nella quale si richiama una “evasione colossale”, avrebbero dovuto spingere la Cassazione ad una riscostruzione ermeneutica che tenesse conto anche delle disposizioni penali e tributarie in materia, rispettivamente, di tassazione dei redditi da attività illecita e di misure di prevenzione, secondo la legge applicabile al tempo. Tutto ciò quantomeno per verificare se, effettivamente, quell’inciso avrebbe dovuto riferirsi ad altro e, quindi, giustificare la presa di posizione in modo sistematico e soddisfacente. La sentenza della Cassazione del 2017 (8) che ha espresso una interpretazione sul tema che ci occupa, con riferimento ai redditi rinvenienti dalla “propria attività economica”, ha affermato con riguardo ad un caso molto risalente, come tale inciso (prima parte del primo comma dell’art. 24, introdotto con L. 24/7/1993 e non modificato dalla Legge 161/2017) si realizzi “qualora sia nota una attività economica che comporti redditi non dichiarabili,

(7)

Sentenza 33451/2014, in Dir. Pen. Cont., 7.

(8)

Cassazione I^ sez. Pen. Sentenza 27/11/2017 n. 53625 (c.c. 27/10/2017) in Cassazione.net.


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interamente o parzialmente, [e sussista] la necessità di una valutazione ulteriore anche di questi ai fini del calcolo della sproporzione”. Al di là della poca chiarezza della formula adottata è da ritenere che questa definizione sia certamente compatibile con la tesi qui sostenuta per la quale tale inciso riguardi i redditi da attività illecita. Infatti, l’inciso – qualora sia nota una attività economica che comporti redditi non dichiarabili – evoca certamente una attività illecita caratterizzata da redditi sottratti all’imposizione attraverso una attività ignota; redditi, quindi, che se riscontrati in sede di verifica da parte delle Autorità inquirenti diventano connessi ad una attività “nota” e, quindi, di conseguenza assoggettabili a tassazione e, in ultimo, liberamente disponibili per differenza rispetto alle imposte dovute agli effetti del calcolo di proporzionalità. 3. Il termine iniziale da cui far decorrere la ricostruzione del patrimonio del proposto. La mancanza nella norma di un parametro temporale certo da assumere a fattore oggettivo. – È noto che le modalità di ricostruzione dei redditi e del patrimonio, agli effetti del giudizio di proporzionalità, sono un aspetto particolarmente critico delle misure di prevenzione. Criticità che, per effetto dell’onere di allegazione a carico di colui che ha subìto la misura, impone a questi una prova della liceità dei mezzi e della loro adeguatezza ai fini della formazione del patrimonio, senza che vi sia un ambito temporale oggettivamente definito cui fare riferimento. Il che vuol dire che il patrimonio sequestrato, se molto risalente nel tempo, impone la ricostruzione dei mezzi per lo stesso periodo. Conseguenza vuole che se oggetto della misura è un patrimonio costituito da beni acquistati, ad esempio, dal 1970 è da questa data che bisogna risalire nella ricostruzione analitica dei redditi. La normativa in materia di misure di prevenzione non ha mai previsto, infatti, un termine da cui far decorrere la ricostruzione del patrimonio che realizza un procedimento “a ritroso” nei fatti identificativi degli investimenti del patrimonio stesso e, quindi, dei redditi che lo hanno prodotto. Questo stato di cose compromette fortemente l’esercizio del diritto di difesa perché l’acquisizione dei documenti (sia contabili che extracontabili) da fonti esterne è, sotto il profilo concreto, generalmente molto penalizzata. Di fatto, ne risulta, per causa non imputabile all’interessato, l’impossibilità di acquisire le prove del fatto da dimostrare a livello documentale, da un soggetto terzo (ad esempio, e/c bancario del 1980, libro giornale di una società chiusa nello stesso anno) con grave pregiudizio per il diritto di difesa.


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In mancanza di alcuna indicazione del legislatore e, soprattutto, al fine di assicurare una adeguata tutela in sede di giudizio al soggetto sottoposto a misura, devono valere i principi generali quantomeno al fine di assicurare una equivalenza di posizioni sostanziali al di là di un possibile profilo di legittimità costituzionale. L’art. 22, secondo comma, D.P.R. n. 600/1973, laddove prevede che “le scritture contabili obbligatorie ai sensi del presente decreto, di altre leggi tributarie e del Codice civile o di leggi speciali devono essere conservate fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta, anche oltre il termine stabilito dall’art. 2220 o da altre leggi tributarie salvo il deposto dell’ xxx art. 2457 di detto codice”. Tale disposizione non può essere interpretata nel senso di ritenere sine die obbligato un soggetto alla tenuta di detti documenti in modo da riconoscere, in contropartita a detto obbligo, un diritto soggettivo alla pretesa da parte dell’interessato alla esibizione degli stessi, per poterne acquisire prova da allegare nel giudizio di prevenzione. Infatti, la certezza del diritto esige comunque la fissazione di un termine oltre il quale è legittimamente plausibile l’indisponibilità del documento contabile stesso in modo da escludere ogni obbligo di richiesta all’esibizione stessa da parte dell’onerato. Deve ritenersi, infatti, che in base al combinato disposto di tale articolo con l’art. 8, quinto comma, dello Statuto del Contribuente (9) il termine di conservazione dei documenti sia di 10 anni dalla emanazione o dalla loro formazione e tale termine può essere superato soltanto in caso in cui vi siano accertamenti divenuti non defintivi entro tale termine. Con la conseguenza che se l’accertamento è divenuto definitivo entro i 10 anni, il superamento non opera. In altri termini, l’ultrattività dell’obbligo di conservazione si impone non già in via generale ma solo se l’accertamento che sia iniziato prima del decimo anno non sia stato ancora definito (10). L’onerato, quindi, ha titolo di opporre in sede di giudizio di prevenzione il decorso del termine di dieci anni, in caso di accertamento definitivo. Sulla base di questa premessa, quindi, l’onere di allegazione deve essere osservato in sede giudiziale dall’interessato, in sede difensiva, tenendo

(9) Dispone la norma che “L’obbligo di conservazione di atti e documenti, stabilito a soli effetti tributari, non può eccedere il termine di dieci anni dalla loro emanazione o dalla loro formazione”. (10) Corte di Cassazione, sent. del 13 Maggio 2016 n. 9834 in Cassazione.net. e, in materia di documenti da produrre ai fini della determinazione del valori iniziale ai fini INVIM, Cassazione civile sez. trib. sent. del 18 dicembre 2009 n. 26683 in Cassazione.net.


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conto che il soggetto obbligato ad adempiere alla richiesta dell’onerato (soggetto obbligato ai sensi dell’art. 2220 c.c. e art. 22, secondo comma, D.P.R. n. 600/1973) sia tenuto alla conservazione dei documenti, di regola, entro il decimo anno dalla loro formazione. Il superamento di detto termine presuppone un accertamento non definitivo entro il decennio. Quindi, se all’onerato può essere opposto legittimamente il rifiuto degli atti oltre tale termine, vuol dire che l’Autorità procedente a sua volta non abbia titolo per esigere documenti dimostrativi il fatto contestato e, quindi, il fatto stesso deve ritenersi comunque provato da parte dell’interessato, a meno che venga fornita prova contraria da parte Autorità procedente. In tal caso l’onere della prova graverà, quindi, sull’Autorità procedente stessa. 4. Aspetti di diritto intertemporale. – È da ritenere che la modifica normativa che dispone la esclusione dei redditi da evasione fiscale abbia efficacia per l’avvenire e, cioè, dal 19 Novembre 2017, senza che possa valere come disposizione interpretativa sui procedimenti in corso. Infatti al Capo VII, l’art. 36, III^ comma (Disposizioni transitorie), richiama l’art. 24, nei limiti del II^ comma e, quindi, soltanto nella parte dove la norma precisa gli effetti delle modifiche procedimentali stabilendo che il termine più breve per la pronuncia della confisca ivi indicato (senza che si determini l’inefficacia del sequestro), non si applichi ai procedimenti nei quali, alla data del 19 Novembre 2017, sia già stata formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione. Deve trattarsi, quindi, di un procedimento non ancora definito. La conclusione è, del resto, confermata dal fatto che l’art. 37 della Legge – collocato al Capo VII^ tra le disposizioni di attuazione e transitorie – ha fornito l’interpretazione autentica soltanto con riferimento ad una disposizione che nulla ha a che vedere con quella che ci occupa per la quale valgono gli ordinari criteri interpretativi. Quindi, a fortiori, la seconda parte dell’art. 24 citato non può valere come disposizione interpretativa rispetto al passato per mancanza di una disposizione che disponga espressamente in tal senso. Per la parte non modificata dalla Legge, invece, vige il principio tempus regit actum e, quindi, per il passato vale l’interpretazione della legge vigente al tempo in cui è stata formulata la proposta; criterio che vale sia per il sequestro che per la confisca. La norma transitoria non incide, quindi, sulla prima parte del primo comma dell’art. 24; conseguenza vuole che per tutti i procedimenti in cui la proposta non sia stata formulata tale disposizione non operi e rimanga impregiudicata la disposizione pregressa secondo il principio tempus regit actum. Il che è coerente con il fatto che la confisca in prevenzione si collochi


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tra le misure di sicurezza, agli effetti penali e, quindi, le relative disposizioni sono regolate “… dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione” (art. 200 c.p.). Si badi che, in tal caso, non assume rilievo la natura della misura di prevenzione agli effetti del carattere retroattivo o meno della stessa in sede di sua applicazione; la modifica di cui alla seconda parte del primo comma dell’art. 24 non inficia sulla misura di sicurezza in termini di maggiore contenuto afflittivo, ma interviene soltanto agli effetti del computo del reddito ai fini della determinazione del plafond disponibile nell’ambito della stessa misura di prevenzione, per effetto dello ius novum di cui alla seconda parte del primo comma. In questo senso, quindi, quest’ultima disposizione costituisce certamente norma sanzionatoria a tutti gli effetti per la quale vige il principio della retroattività soltanto se più favorevole. Con la conseguenza che lo ius novum non potrà avere effetto retroattivo e troverà applicazione la disposizione vigente al momento di applicazione della pena (11). Del resto, questo è confermato dal fatto che il primo periodo dell’art. 24 venne introdotto per la prima volta dalla L. 24 luglio 1993, n. 256 (12) e poi confermato nelle leggi di riforma del 24 luglio 2008 n. 125 e della legge 15 luglio 2009 n. 94. In questi termini, quindi, la disposizione richiamata ante modifiche è definitivamente acquisita a sistema.

(11) Le modifiche introdotte nell’art. 2 bis della legge n. 575 del 1965, dalle leggi n. 125 del 2008 e n. 94 del 2009, non hanno modificato la natura preventiva della confisca emessa nell’ambito del procedimento di prevenzione, sicchè rimane tuttora valida l’assimilazione dell’istituto alle misure di sicurezza e, dunque, l’applicabilità, in caso di successioni di leggi nel tempo, della previsione di cui all’art. 200 cod. pen. (Cass. SS. UU, sent. 26 giugno 2014 dep. 2 febbraio 2015), Pres. Santacroce, Rel. Bruno cit). Nello stesso senso si veda anche Cass. SS.UU 33451/2014, citata in nota 7, in Dir. Pen. Cont., 13. (12) Modifica dell’istituto del soggiorno obbligato e dell’articolo 2 ter della legge 31 maggio 1965, n. 575. (G.U. - Serie Generale n.176 del 29-07-1993), entrata in vigore il 30 luglio 1993, il cui testo è esattamente lo stesso indicato sopra (“risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”). Art. 24, primo comma, del D. L.gvo L. 6 settembre 2011, n. 159 (in Suppl. Ord. della. G.U). La versione in vigore dal 24 maggio 2008, a seguito della L. 23 maggio 2008 n. 92, così dispone: Con l’applicazione della misura di prevenzione il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona, nei cui confronti è instaurato il procedimento, non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonchè dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.


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A ciò si aggiunga che anche nel caso in cui si voglia riconoscere natura sanzionatoria alla confisca in prevenzione, prescindendo dalle SS.UU. Penali della Cassazione del 2014, agli effetti del caso di specie, il risultato sarebbe lo stesso in quanto lo ius novum, in quanto norma meno favorevole rispetto alla pregressa disposizione mai potrebbe avere, ai sensi dell’art. 2 c.p., effetto retroattivo. In conclusione, per tutti i casi in cui alla data di entrata in vigore della Legge non sia già stata formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione rimane applicabile la disposizione ante modifica, così come introdotta dal 1993 ad oggi, senza cioè la parte limitativa che esclude i redditi derivanti da evasione fiscale, ai fine della formazione del plafond. 5. L’interpretazione sistematica dell’inciso “valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”. – Se la determinazione dei redditi dichiarati ai fini delle imposte sui redditi non presenta, di per sé, aspetti di novità il problema si pone con riguardo all’altro fatto generatore di reddito, costituito dalla propria attività economica. “Propria” in quanto riferita all’attività dello stesso soggetto (proposto). Attività che si pone, evidentemente, in alternativa – vista la disgiuntiva “o” – rispetto alla fonte dichiarativa. Quindi si tratta di interpretare la norma, in parte qua, quando si riferisce alla persona fisica o giuridica che risulti essere titolare o avere la disponibilità di beni sequestrati a qualsiasi titolo in valore sproporzionato alla propria attività economica. Il primo termine di raffronto è costituito dalla dichiarazione (dei redditi), e attiene naturalmente solo al reddito stante i termini specifici dell’inciso; mentre con il secondo termine di raffronto la sproprorzione deve riguardare i beni sequestrati rispetto alla propria attività economica, senza che per tale attività debba rivestire alcun riferimento la dichiarazione. Il che significa che questo secondo termine si deve riferire ad attività svolta e non dichiarata in quanto tutto ciò che è dichiarato rientra nella prima parte dell’inciso ed è fuori dalla seconda. Questa ricostruzione è coerente con il fatto che, mentre i redditi dichiarati da attività lecita (13) concorrono con certezza alla formazione

(13) Per i redditi non dichiarati da attività lecita il problema non si pone in materia di misure di prevenzione, soccorrendo la normativa ordinaria, trattandosi del caso dell’omessa dichiarazione, punito ex art. 5, D. L.gvo 74/2000. Infatti, il riscontro presuppone necessariamente un accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, costituente un fatto eventuale che, perciò soltanto, non può costituire elemento di raffronto in caso di dichiarazione omessa o di redditi


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del plafond analoga conclusione non può operare per i redditi da attività illecita, non sussistendo mai alcun soggetto che, svolgendo attività illecita, sotto il profilo logico prima che giuridico, si auto-dichiari ai fini fiscali. Trattandosi, quindi, di ipotesi che sono non suscettibili di dichiarazione dei redditi si deve ritenere che il riferimento alla propria attività economica afferisca fattispecie non dichiarative e produttive di redditi che includono anche i redditi che derivano da altre fonti, quali quelli da attività illecita, e quindi, da evasione fiscale (14). Conclusione che assume anche una connotazione logica in quanto un soggetto astrattamente assoggettabile ad una misura di prevenzione patrimoniale potrà possedere, evidentemente, sia redditi da attività lecita che redditi da attività illecita e si limiterà ad adempiere gli obblighi fiscali limitatamente ai primi (disponibili); eventuali altri redditi, ove prodotti e non dichiarati e, quindi, presumibilmente evasi al fisco, rimangono in una posizione di limbo fino a quando sono decorsi i termini di accertamento ai fini fiscali, spirati i quali essi vengono assunti al patrimonio definitivamente (quindi anch’essi disponibili). Non si può, infatti, subordinare ad un evento futuro ed incerto, qual è l’accertamento fiscale – ovvero, a fortiori, alla magistratura di prevenzione che non ha alcun titolo in materia – la funzione di qualificare un reddito come disponibile ovvero ritenerlo illecito in mancanza di alcuna contestazione al riguardo; questo, peraltro, al di là del fatto che mancherebbe la prova che i redditi derivino da attività illecita, per effetto proprio di alcuna contestazione. In presenza di accertamento, sarà invece disponibile la parte dei redditi accertati, al netto delle imposte evase, come di seguito meglio specificato; in mancanza, tutte le somme devono ritenersi definitivamente acquisite. Non è dato comprendere, infatti, quali possano essere, dal punto di vista logico e giuridico, altri tipi di reddito derivanti da altre attività economiche,

non dichiarati. Ma anche in tal caso, se in sede di accertamento venisse riscontato un reddito, questo al netto delle imposte, ben potrebbe avere diritto a concorrere nel plafond, trattandosi sempre di reddito da attività lecita. Il punto verrà ripreso più avanti. (14) L’assunzione o meno a tassazione di un reddito non la si ricava dalle disposizioni in materia di misure di prevenzione ma dalla legge tributaria che prevede quando un reddito non deve essere dichiarato perché esente, soggetto a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o imposta sostitutiva. Con la conseguenza che se un cespite deve o meno concorrere a formare il reddito, lo deve accertare una norma extrapenale. Quindi, quando l’art. 2 ter richiama la dichiarazione dei redditi, la verifica circa i presupposti deve avere già avuto luogo con la conseguenza che il profilo fiscale deve ritenersi già esaurito con il riferimento ai redditi (leciti) dichiarati, non potendo essere competenza del Giudice della prevenzione un sindacato di merito circa un aspetto tributario afferente la formazione del presupposto costituito dal reddito disponibile.


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diverse da quelle che transitano in dichiarazione, se non quelli da attività illecita. Ciò alla luce del fatto che il concetto di attività economica deve pur avere un significato, posto che l’inciso è parte integrante di una disposizione introdotta ante 2008, con l’art. 3 della L. 24 luglio 1993, n. 256 (15), in vigore dal 30 Luglio 1993, che ha modificato, in parte qua, l’art. 2 ter della L. 13 settembre 1982 n. 646 (16), che richiamava i redditi apparenti, ad integrazione di quelli dichiarati; redditi che, evidentemente, erano relativi ad attività illecita. In questo senso, quindi, vi è continuità normativa tra la disposizione previgente con quella del 2008 e, infine, per la parte specifica che interessa, con quella di cui al alla Legge (17). In questi termini, dunque, deve ritenersi che la sentenza di Cassazione del 2017 (vedi nota 8) costituisca un precedente significativo di uno sforzo interpretativo afferente un inciso normativo finora non adeguatamente approfondito, sia a livello letterale che sistematico e confermi inoltre la tesi che in esso siano riconducibili i redditi da attività illecita, salve altre ipotesi interpretative delle quali si fa fatica a fornire una esemplificazione adeguata sulla base dei principi regolatori di diritto tributario. Dal luglio del 1993, quindi, la norma assume i connotati che sono stati poi replicati fino ad oggi confermando il medesimo tenore letterale e, quindi, la conclusione per cui i redditi da attività illecita sono, infatti, l’unica fattispecie che possa realisticamente considerarsi come integrativa dei redditi dichiarati (18). Nel senso che, vista la disgiuntiva “O”, i redditi

(15) Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. L’art. 14, introducendo il comma 2 ter, all’art. 2 di quest’ultima legge, disponeva: Salvo quanto disposto dagli articoli 22, 23 e 24 della legge 22 maggio 1975, n. 152, il tribunale, anche d’ufficio, ordina con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la persona nei confronti della quale è stato iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, e che sulla base di sufficienti indizi, come la notevole sperequazione fra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati, si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Con l’applicazione della misura di prevenzione il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza. (16) In G.U. 14 settembre 1982, n. 253. (17) In questo senso, in relazione al D. L.gvo L. 6 settembre 2011, n. 159 si veda F. Menditto, Codice Antimafia, 93, Ed. Simone Nov. 2011. (18) La dottrina in materia non fornisce un contributo all’interpretazione sistematica dell’inciso in esame. Si veda V. Contraffatto in A. Balsamo, V. Contraffatto, G. Nicastro “Le misure patrimoniali contro la criminalità organizzata”, 24, Giuffrè ed. 2010. L’Autore si limita ad affermare che deve rimanere esclusa dalla confisca “una certa attività economica lecita, ferma


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devono avere origine o da attività lecita ovvero da attività illecita, tertium non datur. Invero, se in via di principio tutte le attività economiche produttive di reddito in Italia sono ivi soggette a tassazione (sia che siano svolte da soggetti residenti che da soggetti non residenti), e se è plausibile che quelle lecite siano quelle ordinariamente svolte nel territorio dello Stato in forma individuale o societaria (tassate in base a dichiarazione, rientranti, perciò nella prima opzione) – allora è da ritenere che le uniche attività che residuano, diverse da queste, che possono rilevare de facto sono quelle aventi natura illecita esercitate sul territorio dello Stato (19). In particolare, il concetto di attività economica evoca comunque un minimum da integrare una combinazione di capitale e lavoro stabilmente radicata nel territorio dello Stato che integrano gli estremi di una attività economica organizzata che, nel caso, sarebbe diretta alla realizzazione di finalità illecite, a prescindere dai relativi obblighi dichiarativi alle quali sono obbligati i contribuenti esercenti tali attività, sia residenti che non residenti. Ciò a maggior ragione allorché si ponga mente al fatto che colui che realizza una attività illecita, come detto, poi non dichiari i propri redditi in quanto ciò, verosimilmente, equivarrebbe ad una autodenuncia. Circostanza, questa, neanche plausibilmente ipotizzabile visto che è principio generale assunto a sistema per cui nessuno è obbligato alla denuncia delle proprie condotte dannose ovvero illecite (nemo tenetur se detegere). La giurisprudenza di Cassazione (20) che aveva ritenuto estensibile a tali redditi il regime ordinario

restando la confisca dei beni acquistati con proventi non dichiarati”, lasciando evidentemente lo spazio ad una attività lecita non suscettibile di essere dichiarata ai fini fiscali. La conclusione da un lato non dice nulla circa l’inciso in esame, ma soprattutto è in contrasto con Cassazione, VI^ Sez. Penale, sent. del 31 maggio 2011 (dep. il 26 luglio 2011) n. 29926 che riconduce, correttamente, i proventi non dichiarati relativi ad attività lecita nell’ambito della L. 74/2000. Anche S. Curione, in Confische penali e tutela dei terzi, 124-125, ed Giuridica Editrice 2011, non fornisce alcun commento l’inciso in esame. (19) Né si può ritenere che il riferimento possa ricondursi ai redditi di cui risulta omessa la dichiarazione in quanto da attività lecita. Infatti, il riscontro degli stessi presuppone necessariamente un accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, costituente un fatto eventuale che, perciò soltanto, non può costituire elemento di raffronto in caso di dichiarazione omessa o di redditi non dichiarati. Se la dichiarazione è omessa e nulla viene accertato non sussiste alcuna prova che vi sia un reddito non dichiarato e, quindi la posizione deve ritenersi definita ai fini fiscali. (20) La Cassazione aveva ritenuto sussistente l’obbligo di dichiarare, ai fini fiscali, i proventi illeciti costituenti reddito tassabile, quindi, somme non sequestrate né confiscate


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per i titolari di reddito da attività lecita deve ritenersi del tutto superata, al di là delle sua concreta credibilità sotto il profilo fattuale. Il comma 141 della legge di stabilità 2016 (21) ha modificato l’art. 14, comma IV^, della legge 537/1993 disponendo che, in caso di violazione che comporti obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per qualsiasi reato da cui possa derivare un provento o vantaggio illecito, anche indiretto, le competenti Autorità inquirenti ne danno immediata notizia all’Agenzia delle Entrate affinché proceda al conseguente accertamento. La norma assume che il titolare di redditi da attività illecita, evidentemente non li dichiari e, quindi, pone rimedio all’inerzia dell’evasore spostando sulle attività di controllo svolte da Pubblici Ufficiali la verifica di eventuali illeciti, con il conseguente obbligo di trasmissione degli atti alle Autorità competenti, al fine di limitare in qualche modo l’impunità fiscale dell’evasore dei redditi da attività illecita. Né si può ritenere, infine, che l’inciso possa ricondursi al caso delle attività economiche lecite nel cui ambito si realizzano eventualmente

alla luce del fatto, evidentemente, che la provenienza illecita del reddito non ne vanifica il valore economico (cfr. Cass. III pen. 24-1-1992, n. 9405 e Cass. I civ. 13-3-1993, n. 3028). L’eventuale illiceità dell’attività produttiva non esclude quindi la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico. Con la conseguenza che tale obbligo deve comportare, per il titolare, tutti gli obblighi connessi quali la tenuta dei libri e delle scritture contabili, la cui omissione costituisce violazione di carattere sostanziale, dato che la mancata annotazione dei proventi può dare luogo ad accertamento di ufficio o a rettifica della dichiarazione del contribuente (si vedano: Cassazione sentenza del 24 febbraio 2016 n. 3580; Cassazione sentenza del 3 marzo 1997 n. 220). Addirittura venne sostenuto che non è possibile escludere l’operatività degli obblighi fiscali, onde non incorrere in una palese ed ingiustificabile disparità di trattamento con i redditi derivanti da attività lecite. Il mancato assolvimento di questi ultimi obblighi, quindi, determina l’applicabilità delle sanzioni in capo al soggetto condannato per omessa presentazione della dichiarazione di redditi illeciti (Sentenza del 7 ottobre 2010 n. 42160, Cassazione sezione V^ civile, Sentenza del 30 settembre 2011 n. 20032). Poco prima dell’intervento normativo del 2016 la stessa Cassazione aveva ridimensionato il proprio orientamento quando ha affermato che non sussiste la violazione dell’articolo 6 della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” la quale, nel riconoscere al soggetto il diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione a conferma e garanzia irrinunciabile dell’equo processo opera esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già attivato, stante la sua “ratio” consistente nella protezione dell’imputato da coercizioni abusive da parte dell’autorità (cfr. Corte di Cassazione, sentenza del 20 novembre 2014 n. 12697). (21) Legge 28 dicembre 2015 n° 208 - Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016). (GU Serie Generale n.302 del 30-12-2015 Suppl. Ordinario n. 70)


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violazioni penali-tributarie, ovvero altri reati. In tal caso, infatti, siamo fuori dall’ambito dell’art. 2 ter citato che, come noto, è norma che sanziona le attività criminose per soggetti qualificati come “pericolosi”, a prescindere dalle vicende che caratterizzano i redditi prodotti da quelle stesse attività. Diversamente, nel caso di contribuente che eserciti attività lecite e poi, ad esempio, non versi le ritenute d’acconto o l’IVA, ovvero presenti una dichiarazione fraudolenta od infedele, la relativa sanzione è data dalla L. 74/2000 non certo quella prevista dalla Legge. In merito una recente sentenza della Cassazione è chiarissima (22). Se, quindi, in caso di omessa/infedele dichiarazione dei redditi leciti tornerebbe applicabile quest’ultima norma allora si può concludere che l’unico caso di attività economica possibile cui si riferisce l’art. 24 citato è quella che deriva da redditi non dichiarati in quanto da attività illecita. Conclusione, questa, che ha fondamento sistematico se si pone mente alla sua evoluzione storica in rapporto al regime dei redditi da attività illecita che non sono oggetto di dichiarazione. 6. La errata conclusione della Cassazione in materia di redditi da condono ex legge 413/1991. – Ulteriore elemento a conforto della tesi qui sostenuta lo si desume da un altro aspetto trattato dalla Cassazione che sembra non avere ben chiari i termini della normativa in materia di condono e delle condizioni di ammissione alla legge che lo dispone. La Cassazione assume corretta l’equazione per cui il reddito condonato corrisponda ad un reddito da evasione fiscale e, quindi, da attività illecita evidentemente non dichiarata. Così, invece, non è poiché l’esercizio di una

(22) Si veda in tal senso Cassazione, VI^ Sez. Penale, sent. del 31 maggio 2011 (dep. il 26 luglio 2011) n. 29926. Il fatto, poi, che la confisca abbia trovato applicazione anche per i reati tributari con effetto dal 2008 (art. 1, comma 143, L. 24 dicembre 2007 n. 244 - legge finanziaria 2008) – senza alcun effetto retroattivo trattandosi di provvedimento che ha natura sanzionatoria (Ord. Corte Costituzionale n. 97 del 2 aprile 2009) – è la riprova che l’esigenza di tutelare l’interesse fiscale sia stata concretamente realizzato anche in relazione ad attività lecite da cui possono derivare condotte penalmente rilevanti, al di fuori dalla legge antimafia. Ecco, quindi, che il legislatore ha ben chiara la differenza tra redditi da attività illecita e redditi leciti, entrambi aventi presupposti diversi agli effetti del provvedimento ablatorio. Pertanto, nel caso in l’inciso propria attività economica lo si volesse ricondurre ad una attività lecita svolta senza successiva presentazione della dichiarazione dei redditi tornerebbe applicabile senz’altro la L. 74/2000 con la conseguente confisca anche per equivalente, e non certo il D. L.gvo L. 6 settembre 2011, n. 159; ciò conferma ulteriormente il fatto che l’inciso in questione deve necessariamente avere riferimento a redditi da attività illecita.


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attività illecita, in quanto poi non dichiarata, esclude l’ammissione alle disposizioni della regolarizzazione, posto che possono essere ammessi al regime del condono i soli redditi dichiarati. Il che conferma come i redditi da evasione fiscale siano redditi da attività lecita (dichiarata) e, come tali, vadano assunti nell’ambito del plafond in quanto manifesti al fisco, nulla avendo a che fare con i redditi da attività illecita. Questi redditi sono quelli derivanti cioè da altre attività economiche e non rientrano nella disposizione di legge e, quindi, ancora una volta la Cassazione perde l’occasione di fare chiarezza sul punto, soprattutto quando afferma che i redditi condonati sono da redditi non dichiarati. Questo, forse, in ragione del fatto che la Cassazione ritiene che chi svolge attività illecita poi dichiari i propri redditi al fisco. Ma così non è perché altrimenti non avrebbe avuto senso la modifica di cui all’art. 4 della L. 537/1993 sopra richiamata che è volta proprio a neutralizzare l’operato di chi non dichiara i redditi da attività illecita. Più nel dettaglio, la Cassazione a SS.UU (23) ribadisce, a proposito del c.d. condono tombale, che “(...) non rileva che a seguito del perfezionamento dell’iter amministrativo previsto dalla citata normativa, le somme di cui all’evasione fiscale entrino legittimamente a far parte del patrimonio del proposto, dal momento che l’illeceità originaria del comportamento con cui quest’ultimo se l’era procurate continua a dispiegare i suoi effetti ai fini della confisca. Le riportate conclusioni sono state poi richiamate e del tutte recepite da Sez. 2, n. 5248 del 23/01/1007, G.C., rv.236129”. La tesi non persuade in quanto l’accesso alla definizione automatica (24) postulava comunque la presentazione della dichiarazione dei redditi per almeno un periodo d’imposta condonabile perché altrimenti non poteva operare. Quindi, ancora una volta il presupposto per aderire alla regolarizzazione era dato dalla presentazione della dichiarazione e, cioè,

(23) Sentenza 33451/2014, in Dir. Pen. Cont. pag. 16. (24) L’art. 38, quinto comma, L. 30 Dicembre 1991, n. 413 disponeva che “Se la dichiarazione dei redditi non è stata preentata in alcuno dei periodi d’imposta indicati nel comma 2, le relative imposte non possono essere definite per definizione automatica”; Precisava, poi, la Circolare del Minfinanze del 9 maggio 1992, n. 12, Dichiarazione integrativa con definizione automatica relativa a periodi d’imposta non accertati (art. 38) che “La definizione agevolata di cui all’articolo 38 opera tanto nel caso di presentazione della dichiarazione dei redditi quanto nel caso in cui tale dichiarazione non sia stata presentata, ad eccezione delle ipotesi in cui la stessa non sia stata presentata in alcuno dei periodi di imposta condonabili”. Quindi bastava che la dichiarazione fosse stata presentata per un periodo d’imposta soltanto tra tutti quelli condonabili che la adesione automatica era efficace.


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con riferimento ad una fattispecie di cui alla prima parte dell’art. 24 citato, senza quindi rilevare agli effetti dell’ipotesi alternativa che invece afferisce, in base alla tesi qui sostenuta, al caso di attività illecita per la quale nessun reddito è dichiarato. A fortiori, naturalmente, ciò vale nel caso di dichiarazione integrativa semplice che presuppone comunque, ex lege, la presentazione di una dichiarazione pregressa ed opera con riferimento ai soli periodi d’imposta prescelti e nei limiti delle integrazione degli imponibili effettuate rispetto alla dichiarazione pregressa. Stessa conclusione, poi, opera nel caso in cui si supponga una società che svolge attività economica lecita (ufficiale) nella quale si innesti anche una possibile attività illecita. In questo caso la presentazione della dichiarazione dei redditi avrebbe effetto assorbente circa la tipologia di attività in quanto dovrebbero rimanere fuori da tassazione, da un punto di vista logico, i redditi da attività illecita a fronte di una dichiarazione comunque presentata nella quale sono indicati e tassati i redditi da attività lecita: con la conseguenza che si ritorna comunque all’ipotesi della prima parte dell’art. 24 che attiene ai redditi dichiarati, per i quali sono ammesse entrambe le ipotesi di condono. Se poi si volesse ritenere, come ipotizza la Cassazione (25), che anche i redditi da attività illecita fossero confluiti nel reddito insieme agli altri e tassati, allora il problema non si pone proprio per via della tassazione occorsa e, quindi, della loro disponibilità ai fini del calcolo, con esclusione di ogni ipotesi di confisca. Quindi si può concludere che il richiamo al condono tombale per escludere la tassazione dei redditi da evasione fiscale è destituito di fondamento. La tesi della Cassazione non è percorribile in quanto trascura chiaramente il dato normativo per cui soltanto in presenza di attività economica dichiarata sia possibile l’adesione al regime del condono, nelle diverse forme di regolarizzazione previste dalla L. 413/1991 e che chi esercita attività illecita, poiché non dichiara alcunché al fisco, non può beneficiare del condono

(25) La Corte Cassazione, sez. V^ tributaria, sent. 8 maggio 2002, n. 15984, ha stabilito che, ove un soggetto esercente attività individuale di impresa di commercio espleti anche, a latere, attività di prestito di denaro ad interesse, i proventi di questa seconda attività sono soggetti a tassazione, insieme a quelli dichiarati in ordine all’attività di impresa ufficiale, sia che essi costituiscano il frutto di un illecito, sia che non sussista alcuna illiceità. Nel caso in esame, per esempio, il fatto che il soggetto utilizzasse il medesimo complesso organizzativo dell’impresa lecita per gestire l’attività usuraia ha impresso al reddito per interessi così conseguito la medesima natura di reddito commerciale, imponendone la tassazione secondo le stesse regole.


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tombale. Ne discende che, poiché il condono troverà applicazione soltanto per le attività dichiarate (e, quindi lecite), le somme regolarizzate al netto delle imposte pagate devono ritenersi disponibili ai fini del calcolo del plafond di proporzionalità ed escludere, così, la confisca. Per effetto di ciò non ha senso sostenere che “l’illeceità originaria del comportamento con cui quest’ultimo se l’era procurate continua a dispiegare i suoi effetti ai fini della confisca” poiché la fattispecie originaria – in quanto postula la presentazione di una dichiarazione dei redditi – deve ritenersi connessa ad una attività lecita e, quindi, essa è tale da dispiegare correttamente i suoi effetti in un ambito di liceità che esclude la confisca. La Cassazione, in conclusione, svolge una opera di contaminazione tra il ricorso a pratiche di evasione fiscale e le diverse forme di sanatoria tra le quali, in particolare, il condono tombale; ma dimostra di non avere chiari i termini del problema attinente i redditi da attivià illecita che sono fuori da questo tema perché non potevano comunque essere tassati e, soprattutto, non considera le vicende in un contesto normativo più ampio. Infatti, se la L. 413/1991 copre sostanzialmente tutti i periodi d’imposta fino al 1990, conseguenza vuole che essa si applica, de facto a tutti i periodi d’imposta precedenti alla data di entrata in vigore della legge 537/1993 (26) che ha effetto soltanto dalla sua entrata in vigore (1 gennaio 1994). Il che sta a significare che per coloro che avessero beneficiato del condono tombale ante 1993 il problema della tassazione dei redditi da attività illecita non si poneva proprio.

(26) L’Amministrazione Finanziaria (C. M. 10-08-1994, n.150/E-III-5-1560) ha erroneamente conferito efficacia retroattiva alla norma introdotta qualificandola come disposizione interpretativa in quanto “il principio della tassabilità dei redditi derivanti da attività illecita era già insito nell’ordinamento tributario” (par. 1.1.). La conclusione deve ritenersi del tutto confliggente con i principi dell’ordinamento in quanto trattasi di una norma che introduce una imposizione con effetti penali associati non può avere efficacia retroattiva. Infatti, l’inciso “devono intendersi ricompresi” ha effetto soltanto di specificare, ma solo per l’avvenire, il regime fiscale cui sono assoggettati i redditi da attività illecita, sempreché non già sottoposti a sequestro o confisca penale. Al di là dell’operatività dell’art. 2 c.c.p, stessa conclusione vale ai fini tributari poiché lo Satuto del Contribuente (L. 212/2000) ha disposto, all’art. 1, comma II^, che l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica. Ciò a supporto del principio per cui le disposizioni tributarie non hanno, come regola, effetto retroattivo. Poiché tali disposizioni, in quanto espressive di principi costituzionali in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, implicano l’abrogazione implicita delle disposizioni in esso contrastanti e l’obbligo di conformità di disposizioni pregresse ne discende che l’art. 14, comma IV^ della Legge 537/1993 non può ritenersi norma interpretativa in quanto mancante della precisazione di disposizione avente tale natura.


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7. Breve excursus della posizione della giurisprudenza in materia di tassazione dei redditi da attività illecita. – L’excursus storico depone nel senso predetto e trova un ulteriore conferma in un dato storico che risulta essere stato trascurato, a quanto risulta, dalla giurisprudenza di Cassazione: e, cioè, che pochi mesi dopo la emanazione della L. 24 Luglio 1993, n. 256 (27), in vigore dal 30 Luglio 1993, introduttiva dell’inciso altra attività economica, venne emanata la L. 24 dicembre 1993, n. 537 che, all’art. 14, IV comma, ha introdotto la tassazione dei redditi da attività illecita. Questo aspetto non può essere sottovalutato, posto che dagli anni ‘60 fino a 1992 la giurisprudenza (sia di merito che di Cassazione) e dottrina prevalente concordemente ritenevano che i proventi da illecito non fossero tassati. La prima decisione meritevole di menzione che ha escluso la tassazione dei redditi da attività illecita è la sentenza della Cassazione del 1984 (28) che interviene con riguardo ad una vicenda del 1966. La seconda è quella della Cassazione a SS.UU (29) che, nel sostenere che la sede naturale della repressione dell’illecito fosse la confisca, sia obbligatoria o la confisca del provento da reato – con la conseguenza che fino in caso di cui il giudice non abbia deciso se avvalersi o meno del potere discrezionale nel disporla ex art. 240, I^ comma, c.p. – finiva per negare la tassazione dei proventi da reato. In particolare, si veniva a creare una situazione di incompatibilità logica e giuridica tra provento di reato e reddito, tra confisca e tassazione; con la conseguente impossibilità di sottoporre a tassazione i beni la cui confisca sia obbligatoria e quelli di cui sia stata disposta la confisca facoltativa (30); il che dal punto di vista

(27) Si veda nota 13. (28) Cassazione 19 marzo 1984 (dep. il 15 ottobre 1984) della I^ Sez. n. 5170 in Rass. trib. 1984, II, pagg. 574 e segg e Boll. Trib. 1985-79. Quanto al thema decidendum, si trattava di stabilire se le entrate ricavate da un Comune dalla gestione di una casa da gioco avessero natura tributaria e fossero per ciò sottratte alla soggezione all’imposta sui redditi. I Giudici precisano: “Non giova, pertanto, osservare che l’attività di gestione, se non fosse autorizzata, sarebbe illecita e non potrebbe essere validamente esercitata, per trarne illazione circa la natura pubblicistica dei proventi, giacché in tal caso non ci sarebbero redditi da tassare, ma frutti di reato da confiscare” (p. 593). Si veda anche Cass. 22 marzo 1991n. 3242 in Boll. Trib. 1991-1787; (29) Sentenza del 12 novembre 1993 dep. il 17 marzo 1994 n. 2798 In Boll. Trib. n. 10/1994 pag. 817; in Cass. Pen., 1994, 1805, n. 1070, con nota di Fumu, Sulla tassabilità dei proventi di reato; I. Caraccioli, SS.UU. penali della Corte di Cassazione contro la contro la tassazione dei proventi da reato, in il Fisco, 1994, 3890. (30) Nello stesso senso si veda Corte di Cassazione, Sez. I civile, sent. 13 marzo 1993 n.


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fiscale è ovvio posto che se la confisca opera una acquisizione irreversibile del reddito viene meno il possesso del reddito che è il presupposto di tassazione. Ne discende che delle due l’una: o i redditi da attività illecita erano confiscati – e, quindi, non assoggettabili a tassazione – ovvero erano assoggettati ad imposizione. L’introduzione della tassazione doveva di conseguenza escludere la confisca, in quanto misura alternativa e per l’effetto sdoganare le relative somme. Altre pronunce militavano nel senso della impossibilità di assoggettare a tassazione i redditi da attività illecita, proponendo tutti valide e condivisibili argomentazioni, sia in sede di legittimità che di merito. In particolare, per parte della giurisprudenza di merito la tassazione veniva negata ritenendo che i proventi illeciti non potessero essere qualificati come redditi, nel significato proprio del termine, ovvero escludendo che nel concetto di reddito potesse rientrare il pretium sceleris (31). Altra fonte, poi, negava la tassazione facendo leva sulla tassatività della norma in materia di presupposto di imposta e di categorie reddituali imponibili che implicava la impossibilità di ricondurre la fattispecie nel sistema imponibile (32).

3028, in Boll. Trib., 1993, 1164 e De iure, Giuffrè. Nella parte in diritto afferma che “Invero, il provento di un reato non può mai essere assoggettato a imposta come reddito del reo. Esso, infatti, costituendo il prodotto o il profitto del reato (e potendosi quindi considerare, sotto questo aspetto, “prezzo del reato”) deve, per espressa disposizione dell’articolo 240 c.p., essere confiscato in ogni caso e per intero allo Stato (sempreché non ne vada disposta la restituzione direttamente alla vittima del reato ai sensi dell’articolo 185 c.p.c.)”. (31) Comm. trib. I grado Treviso, 25 marzo 1982, in Boll. trib., 1982, 992; Comm. trib. I grado Firenze, 4 ottobre 1986, in Boll. trib., 1987, 250; Trib. Padova, 11 maggio 1990, in Riv. dir. trib., 1991, II, 151; Trib. Treviso, 18 ottobre 1991, in Corr. trib., 1992, 291; Trib. Verona, 1° ottobre 1992, in Il Fisco, 1993, 7874. (32) Si veda, sul punto, Comm. trib. I° grado Torino, 23 settembre 1985, in Boll. trib., 1986, 1008, nonché App. Milano, 14 giugno 1989, in Cass. Pen., 1990, 162, con nota di P. Dell’Anno. Nello stesso senso, in dottrina, Croce, In tema di illecita attività, falsa fatturazione e frodi petrolifere. Intassabilità dei relativi proventi, in Boll. trib., 1982, 769, che dà una interpretazione restrittiva degli artt. 1 e 80 dell’ormai abrogato D.P.R. 597/1973, osservando che tutti i redditi diversi di cui al titolo VI di tale D.P.R., «pur costituendo un gruppo eterogeneo e di carattere residuale, presentano tuttavia una caratteristica comune: essi hanno i caratteri soggettivi ed oggettivi dei redditi di capitale, dei redditi fondiari, di lavoro o di impresa, pur differenziandosi da quelli disciplinato sotto i relativi titoli, per carenza, a volta a volta, di taluno dei requisiti tipici previsti da altre disposizioni del decreto» e che, dunque, con l’art. 80 s’è «voluto recuperare a tassazione quegli incrementi di ricchezza che, pur non espressamente contemplati, abbiano pur tuttavia la caratteristica di provenire da capitale o da lavoro: “fuori da questo ambito


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Questo aspetto è stato definitivamente risolto soltanto nel 2006 (33) quando venne stabilito con disposizione interpretativa dalla Legge Bersani-Visco che i redditi da attività illecita andavano qualificati come redditi diversi, nel caso in cui mancasse la categoria specifica reddituale nel quale includere il provento da reato. Il che confermava come la tassazione fino a quella data era pienamente efficace, nel caso in cui fosse qualificata l’attività svolta e, quindi, il reddito. La legge del 2006, quindi, è intervenuta solo sulla qualificazione del reddito da assegnare al provento illecito, non anche agli effetti della tassazione dello stesso. 8. Osservazioni sulla modifica normativa introduttiva dell’inciso “alla propria attività economica” in rapporto alla (contestuale) legge sulla tassazione dei redditi da attività illecita del dicembre del 1993. – È evidente, quindi, come nel 1993 si sia pervenuti ad una scelta di politica legislativa dirimente sul tema che ci occupa con l’introduzione di due disposizioni che, anche agli effetti della sequenza temporale, devono dirsi coerenti dal punto di vista sistematico. Infatti, l’introduzione dell’inciso normativo (“altra attività economica”) nella legge 256 del luglio 1993 e quella del dicembre dello stesso anno, di cui alla L. 537/1993 conducono alla conclusione per cui i proventi derivanti da attività illecita, in quanto soggetti a tassazione, possono rientrare nel plafond agli effetti del calcolo del rapporto di proporzionalità ex art. 24 citato. Sembrerebbe quasi che fosse in atto una sorta di sincronismo legislativo che, al fine di mettere a punto la risoluzione di una problematica assai dibattuta

non c’è reddito e pertanto non ricadono nella previsione dell’art. 80 (non costituendo redditi diversi) i proventi da attività illecita, in quanto questi ultimi non sono riconducibili in alcun modo alle categorie previste dalla legge”. L’opinione è condivisa da Ferraù, Tassabilità dei proventi da reato e nuovo testo unico Irpef, in Corr. trib., 1989, 385, sulla base dell’art. 1 del TUIR 917/1986 il quale stabilisce che «Presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6». (33) Art. 36, comma 34 bis del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla Legge 4 agosto 2006, n. 248. Trattasi di norma di interpretazione autentica, avente carattere eccezionale secondo quanto sancito dai principi generali di cui l’art. 1, II^ comma, della L. 212/2000 (Statuto del contribuente). Circa poi gli effetti temporali di tale disposizione, l’art. 36, comma IV^ bis del D.L.4/7/2006, n. 223 convertito con modifiche nella L. 4/8/2006 n. 248 (c.d. Legge Bersani-Visco), ha espressamente previsto la deroga all’art. 3 della legge 212/2000 (divieto della retroattività delle disposizioni fiscali), allorchè ha stabilito come deve essere interpretata la L. 537/1993 la tassazione dei proventi da attività illecita, sancendone la qualificazione come redditi diversi nel caso in cui non fossero in altro modo qualificabili ai fini fiscali.


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nel tempo, con le disposizioni in materia di determinazione del reddito ai fini della confisca in prevenzione, abbia prima modificato quest’ultima norma dopo circa trent’anni dalla sua prima applicazione e poi abbia introdotto il regime di tassazione dei redditi da attività illecita, chiudendo così il cerchio su una vexata questio. Ne discende, quindi, che volendo verificare su scala temporale il legittimo utilizzo dei redditi da attività illecita e di come debba essere realizzato concretamente il giudizio di proporzionalità, anche secondo quanto indicato dalla Cassazione sotto il profilo metodologico (34), si può concludere che: (i) Periodo che decorre dalla data di entrata in vigore dell’art. 2 ter della L. 13 settembre n. 646 e fino al 30 Luglio 1993, data di entrata in vigore della Legge 24 luglio 1993, n. 256. In presenza di una costante giurisprudenza che riteneva esclusi da tassazione i redditi da attività illecita e di una norma che richiedeva l’accertamento tra notevole sperequazione fra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati, la locuzione apparenti doveva comprendere i redditi derivanti da attività illecita e, quindi, anche da evasione fiscale, indipendentemente dalla loro tassazione; con la conseguenza che anche questi potevano assumersi ai fini del computo del plafond disponibile. In particolare, la normativa al tempo vigente era caratterizzata dal principio “tempus regit actum” (c. d. ultrattività della legge penale finanziaria di cui all’art. 20 della legge 7 gennaio 1929 n. 4) – che è stato abrogato soltanto dall’art. 24, primo comma, del D. L.gvo 30 dicembre 1999, con effetto dal primo gennaio 2000; con la conseguenza che, se agli effetti dell’antigiuridicità della condotta debba applicarsi detto principio, nel caso di codificazione del fatto come illecito agli effetti del giudizio sulla penale responsabilità solo dal luglio 1993, allora a maggior ragione deve ritenersi esente da censure il fatto che all’epoca non costituiva illecito per mancanza di una norma specifica, addirittura conforme alle indicazioni della giurisprudenza di Cassazione. Questo consente di assegnare carattere di legittimità ai redditi da attività illecita da destinare a copertura degli impieghi anche tenuto conto del fatto che proprio negli anni in cui la Cassazione ne sosteneva la intassabilità, la Corte Costituzionale avesse dichiarato incostituzionale l’art. 5 del c.p. con sentenza del 24 marzo 1988 n. 364 affermando il principio per cui la l’ignoranza della legge penale non scusa, tranne che si tratti d’ignoranza inevitabile e che l’art. 8 del d.l. 10 luglio

(34) Si veda nota 5.


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1982, n. 429, conv. con mod., dalla L. 7 agosto 1982, n. 516 avesse previsto, qualche anno prima, come l’errore sulle norme che disciplinano le imposte sui redditi e sul valore aggiunto esclude la punibilità quando ha cagionato un errore sui fatti che costituiscono reato a norma del presente decreto. Tutto questo, naturalmente, a prescindere dal fatto che se il contribuente avesse aderito al condono tombale, sia quello di cui alla legge da ultimo richiamata che quello di cui alla L. 413/1991, il problema non si poneva trattandosi di posizioni definite che devono fare stato anche nel processo di prevenzione. (ii) Periodo che decorre dal 30 Luglio 1993, anno di introduzione della L. 24 dicembre 1993, n. 537 fino al 19 novembre 2017, data di entrata in vigore della Legge. I redditi derivanti da evasione fiscale – ove in qualsiasi modo realizzati e poi regolarizzati sulla base delle diverse norme che si sono succedute nel tempo (condono tributario di cui all’art. 8 della legge n. 289 del 2002, poi esteso anche a questa annualità, scudo fiscale nelle diverse edizioni proposte, ravvedimento operoso, voluntary disclosure accertamento con adesione di cui al D.L.gvo 218/1997 e successive modificazioni, conciliazione giudiziale (35)) – possono concorrere ai fini della determinazione del plafond, al netto della somma pagata a titolo di imposte, per la sanatoria. In tal caso, si potrà invocare il legittimo uso di norma che consentiva, prima dell’applicazione delle misure di prevenzione, la regolarizzazione della posizione fiscale del soggetto rendendo, così, disponibili le somme fiscalmente affrancate dall’imposta pagata; stessa conclusione è applicabile in caso di mancata regolarizzazione per i redditi da attività illecita definiti per decorso dell’ordinario termine di accertamento, non potendosi riconoscere certamente al Giudice della prevenzione il potere di riaprire posizioni fiscali relative a periodi d’imposta chiusi, sulla base di una interpretazione di norma extrapenale che non gli compete. Quanto sopra, semprechè tali condizioni si siano maturate prima che sia stata formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione. Il che trattasi di una condizione plausibile posto che la proposta avviene, di solito, dopo diversi anni in cui i periodi d’imposta da assumere agli effetti della valutazione del patrimonio e del giudizio di

(35) Dal 1° gennaio 2016 le disposizioni relative alla conciliazione sono state riscritte su tre articoli del D.Lgs. n° 546/92: art. 48, art. 48 bis e art. 48 ter [art. 9, comma 1 lett. s), t) del D.Lgs. n° 156/2015], consentendosi la conciliazione, anche in grado di appello, sia in udienza che fuori udienza.


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proporzionalità sono definiti, ovvero si è consolidata la posizione fiscale del soggetto in modo assoluto. In merito all’utilizzo delle somme oggetto di sanatoria agli effetti della formazione del plafond si riscontra una apertura significativa della Cassazione con una pronuncia molto recente (36) che legittima, a certe condizioni, l’utilizzo della somma definita, al netto delle imposte, per renderla così disponibile e svincolata agli effetti del suo utilizzo. In particolare, la Cassazione ha ritenuto che per i reati c.d. dichiarativi (art. 4 D. L.gvo 74/2000) in cui l’illegittimità attiene alla autoliquidazione delle imposte e non alla natura del reddito (che è e rimane di origine lecita), così come quelli che intervengono nella fase di riscossione delle imposte (artt. 5, 10 bis, 10 ter, 11, L.gvo 74/2000) in cui la determinazione delle imposte è già avvenuta e l’autore del reato realizza le condotte illecite soltanto in una fase successiva rispetto a quella della determinazione della base imponibile, si deve ritenere legittimo l’uso di tali somme al netto delle imposte alla luce del fatto che “(...) l’eventuale recupero dell’imposta evasa sottrae per definizione all’evasore la frazione illecita di redditi con cui ha arricchito il suo patrimonio e salva la dimostrazione di un reivestimento della quota parte di imposta evasa, comunque indebitamente trattenuta [ne parla espressamente la citata (sentenza di Cassazione) n. 32032/2013]”. In tal caso “diventa problematico sostenere che anche il residuo reddito ove lecitamente prodotto, finisca per risultare contaminato dalla condotta (certamente ) illecita di sottrazione alla tassazione”. Rimane impregiuticata, naturalmente, la verifica del pagamento delle somme dovute al fine di rendere poi il differenziale disponibile al netto dell’imposta pagata (37). (iii) Per il periodo che decorre dal 19 novembre 2017 in avanti. Come regola generale non possono concorrere alla formazione del plafond i proventi derivanti da evasione fiscale, a meno che essi siano stati regolarizzati prima che sia stata formulata la proposta di applicazione della

(36) Cassazione, Sesta Sez. Penale, sentenza del 21/11/2017 (c.c. del 21/09/2017) n. 53003 in Cassazione.net (37) Prosegue la sentenza affermando che “Il problema consiste, semmai, nel verificare se in occasione del procedimento penale o a seguito della procedura conciliativa, l’imposta evasa o il suo importo equivalente siano stati comunque (sequestro preventivo e confisca, versamento volontario,) effettivamente recuperati, in caso negativo non ricorrendo perciò tale ostacolo concettuale alla possibilità di ritenere l’evasore fiscale seriale socialmente pericoloso, ai sensi dell’art. 1 lett. b) d. lgs. N. 159 del 2011)”.


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misura di prevenzione (38) non potendo, anche in tal caso, una disposizione normativa legittimamente invocata ed applicata in buona fede dal contribuente ex ante ed in bonis, venire vanificata e compromessa ex post al punto da incidere su posizioni definitivamente chiuse ai fini fiscali sia per decorso dei termini di accertamento, che di eventuale definizione raggiunta in via amministrativa ovvero giudiziale. In caso di regolarizzazione e di conseguente pagamento del dovuto, infatti, è illegittima una esclusione dal calcolo del plafond in quanto questa determinerebbe una limitazione del tutto arbitraria e giuridicamente infondata, al legittimo esercizio del diritto del contribuente a regolarizzare la sua posizione fiscale, in presenza di una norma entrata in vigore prima della formulazione della proposta. La recente sentenza di Cassazione del 2017, da ultimo citata, dimostra un deciso passo avanti circa la tesi che in questa sede si è voluto sostenere. Del resto, una conferma ulteriore della legittima adozione dei proventi da evasione fiscale regolarizzati deriva dal fatto che il citato art. 24 prevede, agli effetti del giudizio sulla proporzione, anche il caso dei beni posseduti per interposta persona fisica o giuridica. Detta ultima locuzione, evidentemente, richiama anche il caso – molto diffuso nella pratica – in cui tra il soggetto del cui sequestro si tratta e il patrimonio oggetto dello stesso vi fosse una (o più) società interposte, con la finalità di schermare il più possibile il patrimonio. Le leggi sul condono tributario degli ultimi trent’anni (39) hanno previsto

(38) Deve ritenersi che, ai fini dell’utilizzo legittimo delle somme oggetto di sanatoria, sia sufficiente che sia stato raggiunto l’accordo con l’Agenzia delle Entrate circa il quantum debeatur prima che venga presentata la proposta, a nulla rilevando il fatto che il pagamento, anche rateale, sia effettuato dopo la data della proposta stessa attenendo, il versamento delle imposte, la fase esecutiva di un accordo già perfezionato e, quindi, opponibile in sede di giudizio di prevenzione. (39) Si veda l’art. 4 della Legge 19/12/1973, n. 823 che consentiva alle società tassate in base al bilancio che avessero definito con il condono i redditi degli esercizi ante 1973, di iscrivere al passivo del bilancio una riserva tassata di importo pari alla differenza tra redditi definiti e redditi dichiarati, in contropartita di rettifiche di attività e passività. Si trattava, secondo l’Amministrazione Finanziaria, di una riserva che derivava dall’emersione di riserve occulte costituite in precedenti esercizi con redditi sottratti a tassazione. Analoga disposizione era vigente con l’art. 15 della L. 7/8/1982 n. 516. In tal caso, adirittura, la riserva era differenziata a seconda che la rettifica derivava dalla eliminazione di passività fittizie o inesistenti, ovvero in contropartita delle nuove attività precedentemente omesse ed emerse a seguito della regolarizzazione. Infine, l’art.33 della L. 30/12/1991 n. 413 contiene disposizioni sostanzialmente analoghe a quelle di cui alla L. 516/1982; l’art. 14 legge 27/12/2002 n. 289 (art. 14 regolarizzazione delle scritture contabili), pur non prevedendo la formazione di una riserva, come le previgenti disposizioni, tuttavia disponeva il riconoscimento dei valori iscritti


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epressamente la possibilità di iscrivere riserve tassate e di far emergere in bilancio riserve occulte, denominate con riferimento a ciascuna legge di regolarizzazione ovvero, come è avvenuto più recentemente, di pagare una imposta sostitutiva indeducibile sulle attività ovvero sui maggiori valori emersi, con il conseguente riconoscimento dei loro valori ai fini fiscali. Lo stesso schema di formazione del bilancio include tra le riserve di patrimonio netto disponibili quelle da condono, conferendo con ciò anche valenza civilistica ad una posta di bilancio avente origine in ambito tributario e, per giunta, a seguito di regolarizzazione fiscale nel senso più ampio del termine e, quindi, da norma eccezionale. 9. Conclusioni. – È da chiedersi se, di fronte a questo scenario sia ancora plausibile ritenere che le somme derivanti da evasione fiscale regolarizzata non possano costituire legittime fonti da destinare ad impieghi e, quindi, al calcolo del plafond di proporzionalità ex art. 24 della Legge. Non deve essere persa l’occasione derivante dalla novella del 2017 di operare una rivisitazione completa della vexata questio anche con il supporto della stessa Cassazione che, in presenza di recenti sentenze dimostrative di una apertura interpretativa sui diversi temi fiscali rilevanti in questa materia, sarà necessariamente chiamata a pronunciarsi ulteriormente sul tema con la legittima pretesa, sia dal punto di vista scientifico che concreto, che si esprima sull’inciso più volte dalla stessa soltanto richiamato nella narrativa delle sentenze, ma mai interpretato in modo sistematico se non soltanto recentemente con una formula decisamente criptica, alla luce anche delle norme extrapenali che lo hanno accompagnato almeno dal 1982. Al superamento delle posizioni pregresse,

nel bilancio e nell’inventario ai fini fiscali, per le società di capitali e assimilate che si sono avvalsi delle disposizioni di cui all’articolo 9 (c.d. condono tombale – “definizione automatica per gli anni pregressi”), potevano procedere alla regolarizzazione delle scritture contabili di cui al comma 3 con gli effetti ivi previsti, nonchè, nel rispetto dei principi civilistici di redazione del bilancio, alle iscrizioni nell’inventario, nel rendiconto o nel bilancio chiuso al 31 dicembre 2002, ovvero in quelli del periodo di imposta in corso a tale data, di attività in precedenza omesse; in tal caso, sui valori o maggiori valori dei beni iscritti era dovuta un’imposta sostitutiva del 13 per cento dei predetti valori. Tale imposta era dovuta anche con riferimento alle attività detenute all’estero alla data del 31 dicembre 2001 che fossero oggetto della regolarizzazione contabile, ai sensi della legge stessa. In tale ultima ipotesi si applicavano le modalità dichiarative di cui ai commi 3 e 4 dell’articolo 8. I maggiori valori iscritti si consideravano riconosciuti ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive, a decorrere dal terzo periodo di imposta successivo a quello chiuso o in corso al 31 dicembre 2002. L’imposta sostitutiva era indeducibile, sia ai fini IRPEG che IRAP.


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a tal fine, è auspicabile un contributo della magistratura di prevenzione che, nelle sedi di merito, possa dare origine ad un ripensamento totale dei criteri attraverso cui si procede alla ricostruzione delle vicende patrimoniali dei soggetti ai quali è applicabile il sequestro e poi la confisca e che, una volta per tutte, si tragga motivo dal tenore della novella dell’art. 24 citato di pervenire ad una interpretazione conforme alle disposizioni penali e tributarie succedutasi nel tempo superando decisamente il pensiero della Cassazione in materia che, proprio a seguito della novella del 2017, deve ritenersi in contrasto con l’excursus normativo in subiecta materia. In questo contesto, l’adempimento del debito tributario, nelle diverse forme consentito, dovrà costituire condizione necessaria e sufficiente per poter ritenere giuridicamente disponibile la somma ai fini del calcolo del giudizio di proporzionalità.

Stefano Piccioli


Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte di Giustizia UE, Prima Sezione, 4 maggio 2017, causa C-699/15, Pres. Silva de Lapuerta; Rel. Regan Iva – Operazione “strettamente connessa” ad un’operazione esente di “interesse pubblico” – Esenzione – Sussistenza – Equiparazione con operazioni “accessorie” di un’operazione principale – Sussiste Ai sensi dell’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della Direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006 possono essere considerate prestazioni «strettamente connesse» ad una prestazione principale, e quindi esenti Iva, le prestazioni di servizi a titolo oneroso di ristorazione e di intrattenimento a terzi fornite da parte di studenti di un istituto d’insegnamento superiore, nell’ambito della loro formazione, a patto che dette prestazioni siano indispensabili alla formazione degli studenti medesimi e non siano destinate a generare entrate supplementari all’istituto, mediante la realizzazione di operazioni in concorrenza diretta con imprese commerciali soggette all’IVA.

[Omissis] Fatto e diritto. - 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra i Commissioners for Her Majesty’s Revenue and Customs (amministrazione finanziaria e doganale del Regno Unito; in prosieguo: l’” amministrazione finanziaria” ) e il Brockenhurst College (in prosieguo: il “College” ), in merito all’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto (IVA) dei servizi di ristorazione e di intrattenimento da quest’ultimo prestati. Contesto normativo. Diritto dell’Unione. - 3 Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/112, sono soggette a IVA “le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale” . 4 Il titolo IX della direttiva 2006/112 è intitolato “Esenzioni” . Tale titolo contiene, in particolare, un capo 1, rubricato “Disposizioni generali” , a sua volta contenente l’articolo 131, e un capo 2, rubricato “Esenzioni a favore di alcune attività di interesse pubblico” , che raggruppa gli articoli da 132 a 134.


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5 L’articolo 131 della direttiva così recita: “Le esenzioni previste ai capi da 2 a 9 si applicano, salvo le altre disposizioni comunitarie e alle condizioni che gli Stati membri stabiliscono per assicurare la corretta e semplice applicazione delle medesime esenzioni e per prevenire ogni possibile evasione, elusione e abuso” . 6 Il successivo articolo 132 così dispone: “1. Gli Stati membri esentano le operazioni seguenti: (...) i) l’educazione dell’infanzia o della gioventù, l’insegnamento scolastico o universitario, la formazione o la riqualificazione professionale, nonché le prestazioni di servizi e le cessioni di beni con essi strettamente connesse, effettuate da enti di diritto pubblico aventi lo stesso scopo o da altri organismi riconosciuti dallo Stato membro interessato come aventi finalità simili; (...)” . 7 Il successivo articolo 133 così prevede: “Gli Stati membri possono subordinare, caso per caso, la concessione, ad organismi diversi dagli enti di diritto pubblico, di ciascuna delle esenzioni previste all’articolo 132, paragrafo 1, lettere b), g), h), i), l), m) e n), all’osservanza di una o più delle seguenti condizioni: a) gli organismi in questione non devono avere per fine la ricerca sistematica del profitto, gli eventuali profitti non dovranno mai essere distribuiti ma dovranno essere destinati al mantenimento o al miglioramento delle prestazioni fornite; b) gli organismi in questione devono essere gestiti ed amministrati a titolo essenzialmente gratuito da persone che non hanno di per sé o per interposta persona alcun interesse diretto o indiretto ai risultati della gestione; c) gli organismi in questione devono praticare prezzi approvati dalle autorità pubbliche o che non superino detti prezzi ovvero, per le operazioni i cui prezzi non sono sottoposti ad approvazione, praticare prezzi inferiori a quelli richiesti per operazioni analoghe da imprese commerciali soggette all’IVA; d) le esenzioni non devono essere tali da provocare distorsioni della concorrenza a danno delle imprese commerciali soggette all’IVA. (...)” . 8 Ai sensi del successivo articolo 134: “Le cessioni di beni e le prestazioni di servizi sono escluse dal beneficio dell’esenzione prevista all’articolo 132, paragrafo 1, lettere b), g), h), i), l), m) e n) nei casi seguenti: a) se esse non sono indispensabili all’espletamento delle operazioni esentate; b) se esse sono essenzialmente destinate a procurare all’ente o all’organismo entrate supplementari mediante la realizzazione di operazioni effettuate in concorrenza diretta con quelle di imprese commerciali soggette all’IVA” . Diritto del Regno Unito. - 9 Le esenzioni di cui all’articolo 132 della direttiva 2006/112 sono state recepite nel diritto del Regno Unito nell’articolo 31 del Value Ad-


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ded Tax Act 1994 (legge del 1994 sull’imposta sul valore aggiunto), il quale dispone che una prestazione di servizi è una prestazione esente se corrisponde alla descrizione contenuta nell’allegato 9 di tale legge. 10 L’allegato 9, gruppo 6, punti 1 e 4, della parte II di tale legge prevede l’esenzione nei seguenti casi: “1. La prestazione, da parte di un ente qualificato, di: (a) insegnamento; (...) (c) formazione professionale. (...) 4. Le cessioni di beni e le prestazioni di servizi (diverse dai servizi di esame) strettamente connesse con una prestazione, la cui descrizione rientri nel punto 1 (la prestazione principale), da parte o a favore di un ente qualificato che effettui la prestazione principale, a condizione che: (a) i beni o i servizi siano destinati all’uso diretto da parte dell’allievo, dello studente o del tirocinante (a seconda dei casi) beneficiario della prestazione principale; e (b) qualora la prestazione sia realizzata a favore dell’ente qualificato ad effettuare la prestazione principale, questa sia effettuata da un altro ente qualificato” . 11 La nota 1 di tale gruppo 6 definisce la nozione di “ente qualificato” . Procedimento principale e questioni pregiudiziali 12 Il College è un istituto di insegnamento superiore che offre corsi di formazione nel settore della ristorazione, dell’ospitalità alberghiera e delle arti dello spettacolo. 13 Al fine di consentire agli studenti iscritti ai corsi di acquisire competenze in un contesto pratico, il College, con l’aiuto degli studenti e con la supervisione dei loro tutor, gestisce un ristorante e organizza spettacoli destinati ad un pubblico esterno all’istituto. Tanto il ristorante quanto gli spettacoli sono aperti a un pubblico limitato composto da persone che possono essere interessate dagli eventi organizzati dal College, e che sono recensite in una banca dati al fine di essere informate riguardo tali eventi per mezzo di un notiziario regolare. Tali persone sono informate del fatto che gli eventi suddetti sono offerti nell’ambito della formazione degli studenti, a un prezzo ridotto che, per i pasti, raggiunge circa l’80% del prezzo effettivo della prestazione. Nel caso in cui il numero di prenotazioni al ristorante non raggiunga un minimo di 30 coperti, il pasto è annullato. 14 Dagli atti sottoposti alla Corte risulta che le entrate supplementari per il Collegio derivanti da tali prestazioni di servizi, realizzate in concorrenza diretta con le imprese commerciali, non costituiscono lo scopo principale delle prestazioni suddette. 15 Il giudice del rinvio fa presente che la formazione pratica è stata concepita come parte dei corsi ed era conosciuta dagli studenti al momento dell’iscrizione ai diversi diplomi. 16 Il College ha versato l’IVA, nel corso del periodo in questione, all’aliquota normale sul prezzo fatturato per i pasti e i servizi di intrattenimento forniti.


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17 A suo parere, tuttavia, tali forniture e prestazioni avrebbero dovuto essere esentate dall’imposta in qualità di servizi “strettamente conness[i]” all’insegnamento, ai sensi dell’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva 2006/112. Poiché la sua domanda di rimborso è stata respinta dall’amministrazione finanziaria, il College ha proposto ricorso dinanzi al First-tier Tribunal (Tax Chambers) [Tribunale di primo grado (Sezione fiscale), Regno Unito]. 18 Con decisione del 5 novembre 2012 detto giudice di prime cure ha dichiarato che tali prestazioni di servizi erano esenti dall’IVA, essendo strettamente connesse all’insegnamento. Tale decisione è stata confermata in appello dall’Upper Tribunal (Tax and Chancery Chamber) [Tribunale superiore (Sezione tributaria e della Chancery), Regno Unito] con decisione del 30 giugno 2014. 19 Avverso quest’ultima decisione l’amministrazione finanziaria ha proposto ricorso dinanzi al giudice del rinvio, il quale ritiene che l’esito della controversia dinanzi ad esso pendente dipenda dall’interpretazione della direttiva 2006/112. 20 In tale contesto, la Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) [Corte d’appello (Inghilterra e Galles) (Sezione Civile), Regno Unito] ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: “1) Con riferimento all’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva [2006/112], se le prestazioni di servizi di ristorazione e di intrattenimento effettuate da un istituto d’insegnamento ad un pubblico pagante (che non è destinatario della prestazione principale dell’insegnamento) siano “strettamente connesse” con la prestazione dell’insegnamento in circostanze in cui la prestazione di tali servizi viene effettuata dagli studenti (che sono i destinatari della prestazione principale dell’insegnamento) nel corso della loro formazione e come parte essenziale di essa. 2) Nel determinare se le prestazioni di servizi di ristorazione e di intrattenimento rientrino nell’esenzione di cui all’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva [2006/112], in quanto prestazioni “strettamente connesse” alla prestazione dell’insegnamento: a) se sia rilevante che gli studenti traggano beneficio dal fatto di essere coinvolti nelle prestazioni di cui trattasi piuttosto che dall’oggetto di tali prestazioni; b) se sia rilevante che coloro che ricevono tali prestazioni o che le consumano non siano gli studenti ma il pubblico che paga per esse e che non è destinatario della prestazione principale dell’insegnamento; c) se sia rilevante che, dal punto di vista dei destinatari tipici dei servizi di cui trattasi (vale a dire, il pubblico che paga per essi), le prestazioni non rappresentino un mezzo per fruire nelle migliori condizioni di un’altra prestazione ma costituiscano un fine a sé stante; d) se sia rilevante che, dal punto di vista degli studenti, le prestazioni in questione non costituiscano un fine a sé stante, ma che la partecipazione alle prestazioni rappresenti un mezzo per fruire nelle migliori condizioni della prestazione principale di servizi d’insegnamento; e) in qual misura rilevi il principio di neutralità fiscale” .


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Sulle questioni pregiudiziali. - 21 Con le questioni pregiudiziali, che vanno esaminate congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva 2006/112, debba essere interpretato nel senso che possono essere considerate quali prestazioni “strettamente connesse” ai sensi di tale disposizione, e, di conseguenza essere esentate dall’IVA, attività, esercitate in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, come la prestazione da parte di studenti di un istituto d’insegnamento superiore, nell’ambito della loro formazione e a titolo oneroso, di servizi di ristorazione e di intrattenimento a terzi. 22 L’articolo 132 della direttiva 2006/112 prevede esenzioni le quali, come prevede il titolo del capo in cui tale articolo figura, sono dirette a favorire talune attività di interesse pubblico. Tuttavia, tali esenzioni non riguardano tutte le attività di interesse pubblico, ma solo quelle che vi sono elencate e descritte in modo molto particolareggiato (sentenza del 25 febbraio 2016, Commissione/Paesi Bassi C-22/15, non pubblicata, EU:C:2016:118, punto 19 e giurisprudenza ivi citata). 23 I termini con i quali sono state designate le esenzioni devono essere interpretati restrittivamente, dato che tali esenzioni costituiscono deroghe al principio generale stabilito dall’articolo 2 della direttiva 2006/112, secondo cui l’IVA è riscossa per ogni prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso da un soggetto passivo. Tuttavia, questa regola d’interpretazione restrittiva non significa che i termini utilizzati per specificare le esenzioni di cui al menzionato articolo 132 debbano essere interpretati in modo da privare le esenzioni stesse dei loro effetti (sentenza del 25 febbraio 2016, Commissione/Paesi Bassi, C-22/15, non pubblicata, EU:C:2016:118, punto 20 e giurisprudenza ivi citata). 24 L’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva 2006/112 non contiene alcuna definizione della nozione di operazioni “strettamente connesse” in esso contenuta. Tuttavia, dal tenore stesso di tale disposizione emerge che essa si riferisce alle prestazioni di servizi strettamente connesse con “l’educazione dell’infanzia e della gioventù, l’insegnamento scolastico o universitario, la formazione o la riqualificazione professionale” . Di conseguenza, prestazioni di servizi possono essere considerate come “strettamente connesse” a queste ultime prestazioni, solo ove vengano effettivamente fornite in quanto prestazioni accessorie all’insegnamento, che costituisce la prestazione principale (v., in tal senso, sentenze del 14 giugno 2007, Horizon College, C-434/05, EU:C:2007:343, punti 27 e 28 e giurisprudenza ivi citata, e del 25 marzo 2010, Commissione/Paesi Bassi, C-79/09, non pubblicata, EU:C:2010:171, punto 50) 25 Conformemente alla giurisprudenza della Corte, una prestazione può essere considerata accessoria a una prestazione principale quando non costituisce un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale (sentenza del 25 marzo 2010, Commissione/Paesi Bassi, C-79/09, non pubblicata, EU:C:2010:171, punto 51 e giurisprudenza ivi citata). 26 A tal proposito, l’applicazione dell’esenzione a operazioni “strettamente connesse” all’insegnamento è, in ogni caso, subordinata a tre condizioni, enunciate, in


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parte, agli articoli 132 e 134 della direttiva 2006/112, vale a dire, in sostanza, in primo luogo che tanto questa prestazione principale quanto le prestazioni di servizi ad essa strettamente connesse vengano effettuate dagli organismi indicati all’articolo 132, paragrafo 1, lettera i) di tale direttiva, in secondo luogo, che tali prestazioni di servizi siano indispensabili all’espletamento delle operazioni esentate e, in terzo luogo, che le prestazioni di servizi medesime non siano essenzialmente destinate a procurare all’organismo entrate supplementari mediante la realizzazione di operazioni effettuate in concorrenza diretta con imprese commerciali soggette all’IVA (v. in tal senso, sentenze del 14 giugno 2007, Horizon College, C-434/05, EU:C:2007:343, punti 34, 38 e 42, e del 25 marzo 2010, Commissione/Paesi Bassi, C-79/09, non pubblicata, EU:C:2010:171, punto 61). 27 Per quanto riguarda il procedimento principale, è pacifico che, con riferimento alla prima condizione, il College è un istituto di diritto pubblico avente scopo educativo, idoneo all’esenzione sulla base dell’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva 2006/112. 28 Con riferimento alla seconda condizione, dal punto 39 della sentenza del 14 giugno 2007, Horizon College, (C-434/05, EU:C:2007:343), emerge che, per poter essere qualificate prestazioni di servizi indispensabili all’espletamento di tali operazioni esenti, esse devono avere natura o qualità tali per cui, senza il concorso di una tale prestazione, non potrebbe essere garantito che l’insegnamento impartito dagli organismi di cui all’articolo 132, paragrafo 1, lettera i) della direttiva 2006/112, e, pertanto, quello di cui beneficiano gli studenti di questi ultimi abbiano un valore equivalente. 29 Nella specie, dalla decisione di rinvio risulta che l’insegnamento pratico è concepito come parte integrante del cursus degli studenti e che, se non fosse proposto, gli studenti non beneficerebbero pienamente della loro formazione. 30 Infatti, viene precisato al riguardo che le funzioni di ristorazione sono tutte assunte dagli studenti del College, con la supervisione dei loro tutor, e che l’obiettivo perseguito dalla gestione del ristorante appartenente al College è quello di consentire agli studenti iscritti ai corsi di ristorazione e ospitalità alberghiera di acquisire competenze in un ambito pratico. 31 Lo stesso vale per quanto riguarda i corsi di arti dello spettacolo. Il College organizza concerti e spettacoli per mezzo degli studenti iscritti a tali corsi, affinché essi acquisiscano un’esperienza pratica. 32 Orbene, si deve rilevare che senza tali applicazioni pratiche, l’insegnamento impartito dal College nel settore della ristorazione, dell’ospitalità alberghiera e dello spettacolo non avrebbe valore equivalente. 33 Tale constatazione risulta avvalorata dal fatto che il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord afferma che il ristorante appartenente al College equivale, per gli studenti, a un’aula di corso e che la Commissione Europea sottolinea che gli studenti beneficiano dell’esperienza acquisita mediante la preparazione dei pasti e il servizio ai tavoli in situazione reale, che costituisce una parte rilevante della loro formazione.


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34 In tali condizioni, risulta che le prestazioni di servizi di ristorazione e di intrattenimento di cui al procedimento principale devono essere considerate come indispensabili a garantire la qualità della prestazione principale d’insegnamento impartita dal College. 35 Con riferimento alla terza condizione, va ricordato che essa costituisce un’espressione specifica del principio di neutralità fiscale, che osta, in particolare, a che prestazioni di servizi di uno stesso tipo, che si trovano quindi in concorrenza tra loro, siano trattate in maniera diversa sotto il profilo dell’IVA (v., in tal senso, sentenza del 14 giugno 2007, Horizon College, C-434/05, EU:C:2007:343, punto 43 e giurisprudenza ivi citata). 36 È pacifico nel procedimento principale, anzitutto, che le prestazioni di servizi di ristorazione e di intrattenimento offerte dal College siano accessibili unicamente alle persone previamente iscritte in un elenco di diffusione tenuto da tale istituto. In particolare, il giudice del rinvio precisa che per gli spettacoli, il pubblico è generalmente costituito dagli amici e dalla famiglia degli studenti del College, e dalle persone previamente iscritte nella banca dati di detto istituto. 37 Inoltre, il ristorante appartenente al College è accessibile solo su prenotazione e a condizione che sia pieno, essendo richiesto un minimo di trenta coperti affinché gli studenti possano trarre il massimo beneficio dalle loro prestazioni. Pertanto, contrariamente a un ristorante commerciale nel quale le prenotazioni sono in linea di principio rispettate incondizionatamente, i pasti sono annullati se il minimo richiesto non è raggiunto. 38 Infine, dagli elementi forniti dal giudice del rinvio risulta che i servizi di ristorazione, i concerti e gli spettacoli sono interamente forniti, organizzati e prestati da studenti in formazione, situazione che si distingue essenzialmente da quella di studenti che effettuano un tirocinio presso un ente commerciale, dove integrano un’equipe professionale che fornisce tali servizi alle condizioni di concorrenza esistenti nei rispettivi mercati. 39 Risulta che le prestazioni fornite a un numero limitato di soggetti, da parte del College, nell’ambito dei corsi impartiti ai suoi studenti sono essenzialmente distinte da quelle che sono regolarmente proposte da una sala spettacoli o da un ristorante commerciale e si rivolgono a un pubblico diverso, poiché non soddisfano i medesimi bisogni del consumatore. 40 Inoltre, non è contestato che i prezzi fissati dal College coprano solo l’80% del costo del pasto. Non risulta, quindi, che i servizi di cui al procedimento principale siano destinati a generare entrate supplementari al College, mediante la realizzazione di operazioni in concorrenza diretta con imprese commerciali soggette all’IVA, come ristoranti o sale spettacolo. 41 Di conseguenza, le prestazioni offerte dal College a un numero limitato di soggetti non risultano comparabili a quelle offerte da ristoranti e da sale spettacolo commerciali e l’esenzione dall’IVA delle prestazioni offerte da tale istituto non sfocia in una differenza di trattamento fiscale.


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42 In ultimo, si deve ricordare che spetta al giudice nazionale verificare, muovendo dalle indicazioni fornite dalla Corte, che tali condizioni siano effettivamente soddisfatte, alla luce delle circostanze di fatto proprie della controversia di cui è adito 43 Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, si deve rispondere alle questioni poste dichiarando che l’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva 2006/112 dev’essere interpretato nel senso che possono essere considerate prestazioni “strettamente connesse” alla prestazione principale d’insegnamento e, quindi, esentate dall’IVA, attività, esercitate in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, consistenti nel fornire, da parte degli studenti di un istituto d’insegnamento superiore, nell’ambito della loro formazione e a titolo oneroso, servizi di ristorazione e di intrattenimento a terzi, allorché tali servizi sono indispensabili alla loro formazione e non sono destinati a generare entrate supplementari a tale istituto, mediante la realizzazione di operazioni in concorrenza diretta con imprese commerciali soggette all’IVA, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare. Sulle spese. - 44 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. P.Q.M. Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: L’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, dev’essere interpretato nel senso che possono essere considerate prestazioni “strettamente connesse” alla prestazione principale d’insegnamento e, quindi, esentate dall’imposta sul valore aggiunto (IVA), attività, esercitate in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, consistenti nel fornire, da parte degli studenti di un istituto d’insegnamento superiore, nell’ambito della loro formazione e a titolo oneroso, servizi di ristorazione e di intrattenimento a terzi, allorché tali servizi sono indispensabili alla loro formazione e non sono destinati a generare entrate supplementari a tale istituto, mediante la realizzazione di operazioni in concorrenza diretta con imprese commerciali soggette all’IVA, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare. [Omissis]

Le operazioni “strettamente connesse” a un’operazione esente Iva. Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il pensiero della Corte di Giustizia. – 3. Operazioni

“strettamente connesse” ad un’operazione esente e deroga alla regola generale sulla stretta interpretazione delle norme di esenzione Iva – 4. Operazioni “strettamente connesse” ad un’operazione esente e operazioni “accessorie” ad un’operazione principale. La Corte di Giustizia UE ha operato un’equiparazione tra le operazioni “strettamente connesse” ad un’operazione esente di “interesse pubblico” di cui all’art. 132, par. 1, lett.


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i), della Direttiva Iva e le operazioni “accessorie” ad un’operazione principale. Sebbene le norme di riferimento volte a regolamentare le suddette classi di operazioni rispondano a diverse finalità, esigenze di cautela fiscale inducono a ritenere plausibile definire il concetto di operazioni “strettamente connesse” mutuando i rigidi canoni definitori delle operazioni “accessorie” ai fini Iva. ECJ overlapped the concept of “closely related” transactions to an exempt transaction of “public interest” provided by art. 132, par. 1, lett. i), of the VAT Directive and the concept of “incidental” transaction to a “principal” transaction. Although the relevant rules related to the said classes of transactons presupposed different purposes, tax caution requirements suggest to define the concept of “closely related” transactions borrowing the strict definition of “incidental” transactions for VAT purposes.

1. Introduzione. – La sentenza della Corte di Giustizia UE qui annotata concerne una controversia in materia di Iva – sorta tra un istituto di insegnamento superiore stabilito nel Regno Unito (di seguito “il College”) e l’amministrazione finanziaria britannica – avente ad oggetto l’ambito oggettivo di applicazione della norma esentativa contenuta nell’art. 31 del Value added Tax act del 1994, la quale ha recepito nel diritto domestico le esenzioni di cui all’art. 132 della Direttiva 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE (di seguito “la Direttiva”). La controversia di cui si discorre riguarda, più in particolare, l’interpretazione dell’ambito applicativo dell’art. 132, par. 1, lett. i), della Direttiva, secondo cui gli Stati membri sono tenuti ad esentare le operazioni inerenti “l’educazione dell’infanzia o della gioventù, l’insegnamento scolastico o universitario, la formazione o la riqualificazione professionale, nonché le prestazioni di servizi e le cessioni di beni con essi strettamente connesse, effettuate da enti di diritto pubblico aventi lo stesso scopo o da altri organismi riconosciuti dallo Stato membro interessato come aventi finalità simili”. Venendo ai fatti di causa, si nota come il College, istituto operante nel settore dei corsi di formazione nell’ambito della ristorazione, dell’ospitalità alberghiera e dello spettacolo, abbia prestato, con l’ausilio degli studenti, servizi di ristorazione e di organizzazione di eventi rivolti entrambi ad un pubblico esterno all’istituto medesimo. Il College, pur avendo inizialmente applicato l’Iva sul corrispettivo di tali servizi, ha in seguito chiesto all’amministrazione finanziaria il rimborso del tributo versato ritenendo le prestazioni rese esenti in quanto “strettamente connesse” all’attività di insegnamento ai sensi dell’art. 132, par. 1, lett. i), della Direttiva.


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Parte quarta

L’amministrazione finanziaria, dal canto suo, ha negato il rimborso dell’Iva e, dopo essere stata soccombente nei due giudizi di merito in sede contenziosa, ha proposto ricorso innanzi alla Court of Appeal (England & Wales), la quale ha sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: 1. “Con riferimento all’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva, se le prestazioni di servizi di ristorazione e di intrattenimento effettuate da un istituto d’insegnamento ad un pubblico pagante (che non è destinatario della prestazione principale dell’insegnamento) siano “strettamente connesse” con la prestazione dell’insegnamento in circostanze in cui la prestazione di tali servizi viene effettuata dagli studenti (che sono i destinatari della prestazione principale dell’insegnamento) nel corso della loro formazione e come parte essenziale di essa.” 2. “Nel determinare se le prestazioni di servizi di ristorazione e di intrattenimento rientrino nell’esenzione di cui all’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva, in quanto prestazioni “strettamente connesse” alla prestazione dell’insegnamento; a) se sia rilevante che gli studenti traggano beneficio dal fatto di essere coinvolti nelle prestazioni di cui trattasi piuttosto che dall’oggetto di tali prestazioni; b) se sia rilevante che coloro che ricevono tali prestazioni o che le consumano non siano gli studenti ma il pubblico che paga per esse e che non è destinatario della prestazione principale dell’insegnamento; c) se sia rilevante che, dal punto di vista dei destinatari tipici dei servizi di cui trattasi (vale a dire, il pubblico che paga per essi), le prestazioni non rappresentino un mezzo per fruire nelle migliori condizioni di un’altra prestazione ma costituiscano un fine a sé stante; d) se sia rilevante che, dal punto di vista degli studenti, le prestazioni in questione non costituiscano un fine a sé stante, ma che la partecipazione alle prestazioni rappresenti un mezzo per fruire nelle migliori condizioni della prestazione principale di servizi d’insegnamento; e) in qual misura rilevi il principio di neutralità fiscale”. Premesso quanto sopra, si nota come la sentenza in parola, pur non introducendo principi di carattere particolarmente innovativo nell’ambito tributario di riferimento, è comunque degna di nota perché la medesima, come vedremo, ha ribadito principi di valenza generale attinenti, essenzialmente, le regole di interpretazione delle norme di esenzione in tema di Iva, nonché le regole applicative di queste ultime con specifico riguardo alla (possibile) sovrapposizione tra il concetto di operazione “strettamente connessa” ad un


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operazione esente di “interesse pubblico” e il concetto di operazione “accessoria” ad un’operazione “principale”. 2. Il pensiero della Corte di Giustizia. – La Corte di Giustizia ha, innanzitutto, ribadito come le norme di esenzione ai fini Iva, in quanto derogatorie del principio racchiuso nell’art. 2 della Direttiva, secondo cui l’Iva è riscossa per ogni prestazione di servizi onerosa, debbano essere interpretate restrittivamente. I giudici europei hanno altresì ribadito che detta regola d’interpretazione non possa tuttavia condurre al punto di interpretare “i termini utilizzati per specificare le esenzioni di cui al menzionato articolo 132 (…) in modo da privare le esenzioni stesse dei loro effetti” (par. 23). In seconda battuta la Corte di Giustizia, abbandonando apparentemente il tema dell’interpretazione delle norme di esenzione in generale e affrontando quello della definizione del campo applicativo delle norme di esenzione qui di interesse, ha osservato come, sebbene l’art. 132, par. 1, lett. i), della Direttiva non fornisca una definizione di operazioni “strettamente connesse”, una prestazione di servizi possa ritenersi “strettamente connessa” con “l’educazione dell’infanzia o della gioventù, l’insegnamento scolastico o universitario, la formazione o la riqualificazione professionale” solo nel caso in cui essa costituisca prestazione “accessoria” all’insegnamento in quanto prestazione principale (par. 24). Dopo aver ravvisato una sorta di sovrapposizione tra operazioni “strettamente connesse” di cui all’art. 132, par. 1, lett. i), della Direttiva e operazioni “accessorie” ad un’operazione “principale”, la Corte di Giustizia si è concentrata sull’analisi testuale della norma da ultimo nominata osservando come dalla medesima si evinca la “stretta connessione” tra la prestazione di servizi di ristorazione e quella di insegnamento solo in presenza delle seguenti tre condizioni: (i) entrambe le prestazioni di servizi devono essere effettuate dai soggetti di cui all’art. 132, par. 1, lett. i), della Direttiva (nel caso di specie il College) (ii) la prestazione di servizi di ristorazione deve essere indispensabile all’espletamento di quella di insegnamento (iii) la prestazione di servizi di ristorazione non deve essere essenzialmente destinata a procurare al soggetto prestatore (il College) entrate supplementari mediante la realizzazione di operazioni effettuate in concorrenza diretta con imprese commerciali soggette ad Iva (par. 26). Detto questo, i giudici hanno riconosciuto, con riguardo al caso in oggetto, la sussistenza di tutte le summenzionate condizioni osservando, in particolare, quanto segue.


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In relazione alla prima di esse ci si limita a rilevare come i giudici abbiano constatato la verifica, da parte del College, del requisito soggettivo di applicazione dell’art. 132, par. 1, lett. i), della Direttiva. In ordine alla seconda delle summenzionate condizioni è da notare come la Corte di Giustizia abbia affermato che la prestazione di servizi è da considerarsi “indispensabile” ove, in assenza della medesima, l’equivalenza tra l’insegnamento impartito dai soggetti dell’art. 132, par. 1, lett. i), della Direttiva e il relativo beneficio ritratto dagli studenti non potrebbe essere garantita (par. 28) (1). Siffatta equivalenza è stata nel caso di specie ravvisata da parte dei giudici e ciò in quanto la gestione, da parte degli studenti, del ristorante del College costituisce un aspetto integrante la loro formazione, giacché consente loro di acquisire esperienza anche in ambito pratico come si trovassero in un’aula del corso (passim parr. da 29 a 34). Con riferimento, infine, alla terza delle suddette condizioni (2), si osserva come i giudici europei non abbiano ritenuto la prestazione di ristorazione erogata dal College in concorrenza diretta con operazioni simili effettuate da imprese commerciali e abbiano ritenuto la prestazione stessa inidonea a generare entrate supplementari e questo per le seguenti ragioni: (i) la prestazione di cui si discorre è accessibile solo a determinate persone, previamente iscritte in un apposito elenco di diffusione tenuto dal College, generalmente rappresentate dalle famiglie e dagli amici degli studenti, nonché da altre persone iscritte nella banca dati del College medesimo (par. 36) (ii) a differenza di un ristorante gestito da un’impresa commerciale, nel quale le prenotazioni dei clienti sono incondizionatamente rispettate, nel ristorante gestito dal College i pasti prenotati sono somministrati solo se i coperti sono non inferiori a un certo numero in modo che gli studenti possano trarre il massimo beneficio dalle loro prestazioni (par. 37) (iii) la prestazione di ristorazione è organizzata

(1) La stessa Corte di Giustizia ha affermato che la locuzione “insegnamento scolastico o universitario”, di cui all’art. 132, par. 1, lett. i), della Direttiva, racchiude altre attività in cui l’istruzione è impartita al fine di sviluppare le conoscenze e le attitudini degli studenti, purché tali attività non abbiano carattere meramente ricreativo (cfr. sentenza 14 giugno 2007, causa C-445/05, par. 26). (2) Tale condizione è stata considerata “un’espressione specifica del principio di neutralità fiscale, che osta, in particolare a che prestazioni di servizi di uno stesso tipo, che si trovano quindi in concorrenza tra loro, siano trattate in modo diverso sotto il profilo dell’Iva” (cfr. par. 35 della sentenza in commento).


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e materialmente resa solo dagli studenti in formazione, i quali, pertanto, contrariamente a quanto accade nei ristoranti gestiti da imprese commerciali, non si limitano a svolgere un tirocinio volto ad integrare un’equipe professionale che effettua servizi in condizioni di concorrenza (par. 38) (iv) la prestazione di ristorazione in oggetto, per la quale è previsto un corrispettivo pari all’80% del costo del pasto, è fornita a un numero limitato di soggetti e come tale si distingue da quelle ordinariamente rese da un normale ristorante in quanto non soddisfa i medesimi bisogni del consumatore (par. 39). 3. Operazioni “strettamente connesse” ad un’operazione esente e deroga alla regola generale sulla stretta interpretazione delle norme di esenzione Iva. – Si è visto nel paragrafo precedente come la Corte di Giustizia, pur ribadendo la regola generale in merito alla stretta interpretazione delle norme esentative ai fini Iva, abbia in realtà affermato come la predetta regola interpretativa non possa comportare un’interpretazione delle locuzioni normative in tema di esenzione in modo di privare tali norme dai loro effetti (3). Tra le predette locuzioni normative figura proprio la nozione, contenuta nell’art. 132, par. 1, lett. (i), della Direttiva, di operazione “strettamente connessa” ad un’operazione esente, per la quale i giudici europei hanno fornito un’interpretazione non “particolarmente restrittiva” (4) e ciò al fine di non tradire la ratio sottesa all’esenzione delle prestazioni di servizi di insegnamento volta ad evitare che quest’ultimo “non divenga inaccessibile a causa dell’aumento di costi che si verificherebbe nel caso in cui detto insegnamento – ovvero le prestazioni di servizi e le forniture di beni ad esso strettamente connesse – venisse assoggettato all’Iva” (5). Detto questo, è tuttavia importante osservare che i giudici europei, in ossequio probabilmente al principio cardine racchiuso nell’art. 2 della Direttiva, secondo cui l’Iva è riscossa per ogni prestazione di servizi effettuata da un soggetto passivo, hanno di fatto posto un limite alla predetta interpretazione non “particolarmente restrittiva” della nozione di operazione “strettamente connessa” ad un’operazione esente.

(3) Sul punto è bene notare che, già in passato, la Corte di Giustizia ha avuto modo di affermare come l’oggetto delle prestazioni di servizi rese nel settore dell’educazione e dell’istruzione debba essere inteso in senso ampio con il limite che non si tratti di attività meramente “ricreative” (cfr. Corte UE 14 giugno 2007, causa C-445/07). (4) In tal senso si veda Corte UE 11 gennaio 2001, causa C-76/99. (5) Così Corte UE 20 giugno 2002, causa C-287/00.


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Tale limite è effetto dell’equiparazione, operata dalla Corte di Giustizia, della nozione cui si è fatto cenno poc’anzi a quella di operazione “accessoria” ad un’operazione principale. Dell’equiparazione tra le predette nozioni, nonché delle conseguenze che da essa derivano, ci occuperemo più in dettaglio nel prossimo paragrafo. 4. Operazioni “strettamente connesse” ad un’operazione esente e operazioni “accessorie” ad un’operazione principale. – L’equiparazione cui si è fatto cenno al paragrafo precedente si desume dalla lettura del paragrafo 24 della sentenza in commento laddove è affermato che “prestazioni di servizi possono essere considerate prestazioni “strettamente connesse” a queste ultime prestazioni (quelle esenti di insegnamento n.d.a), solo ove vengano effettivamente fornite in quanto prestazioni “accessorie” all’insegnamento, che costituisce la prestazione principale” (6). Ciò posto i giudici di Lussemburgo non hanno approfondito tale equiparazione concentrandosi essenzialmente sulla nozione di operazioni “strettamente connesse” ad un’operazione esente e, più in particolare, all’enunciazione delle tre condizioni, già in precedenza nominate, affinché tale nozione possa ritenersi integrata, ossia: (i) tanto la prestazione principale (nel caso di specie insegnamento) quanto la prestazione ad essa “strettamente connessa” (nel caso di specie ristorazione) devono essere effettuate dai soggetti di cui all’art. 132, par. 1, lett. i), della Direttiva (nel caso di specie il College) (ii) la prestazione di servizi “strettamente connessa” deve essere indispensabile all’espletamento di quella principale (iii) la prestazione di servizi “strettamente connessa” non deve essere essenzialmente destinata a procurare al soggetto prestatore (nel caso di specie il College) entrate supplementari mediante la realizzazione di operazioni effettuate in concorrenza diretta con imprese commerciali soggette ad Iva. Tornando ora alla relazione tra operazione “strettamente connessa” ad un’operazione esente e operazione “accessoria” ad un’operazione principale vale la pena di effettuare qualche considerazione, deviante dal principale ar-

(6) I giudici di Lussemburgo hanno fornito una generale definizione di operazione “accessoria” ad un’operazione principale affermando che “una prestazione può essere considerata accessoria a una prestazione principale quando non costituisce un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale” (par. 25).


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gomento trattato nella sentenza in esame, volta a comprendere la sovrapponibilità o meno tra le summenzionate classi di operazioni (7). Iniziando dai punti in comune, si osserva come il requisito di “indispensabilità” connotante la prima delle suddette classi sia, in effetti, in linea con quelli enunciati in passato, sia dai giudici europei sia dalla prassi domestica, al fine di definire la seconda. I contorni del sunnominato requisito di “indispensabilità” – in forza del quale, nel caso in oggetto, le prestazioni di ristorazione “devono avere natura o qualità tali per cui, senza il concorso di tale prestazione, non potrebbe essere garantito che l’insegnamento impartito dagli organismi di cui all’articolo 132, paragrafo 1, lettera i), della direttiva 2006/112, e, pertanto, quello di cui beneficiano gli studenti di questi ultimi abbiano un valore equivalente” (par. 28) intendendo in specie raggiunta siffatta “equivalenza” giacché la prestazione di ristorazione costituisce un aspetto “integrante” la prestazione di insegnamento resa agli studenti – parrebbero, infatti, ravvisabili in quelle affermazioni secondo cui l’operazione “accessoria”, per essere considerata tale, deve “avere la funzione di integrare, completare o rendere possibile la prestazione o cessione principale” (8), oppure “formi un tutt’uno con l’operazione principale e non solo che questa sia resa possibile o più agevole in funzione dell’effettuazione della prestazione accessoria” (9). Al di là di questo elemento comune, ciò che più importa sottolineare è come la Corte di Giustizia abbia più volte dimostrato di considerare sovrapponibili le classi di operazioni di cui si discorre e, comunque, di utilizzare le medesime in maniera fungibile. Paradigmatici al riguardo sono i seguenti casi. Il caso in cui la Corte europea ha indirettamente definito le operazioni strettamente “connesse” avvalendosi di canoni definitori propri delle operazioni “accessorie” sostenendo che la nozione di prestazione “strettamente connessa” alle cure mediche non concerne “prestazioni che non presentano alcun nesso immediato e diretto con l’ospedalizzazione dei destinatari di tali prestazioni né con le cure mediche cui questi ultimi sono eventualmente sottoposti e quindi che “solo le prestazioni di servizi che si inseriscono logicamente

(7) In dottrina ravvisa questa esigenza anche F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, Torino, 2013, 145. (8) Cfr. Corte UE 3 luglio 2001, causa C-380/99 e Ris. Ag. Entr. 15 luglio 2002, n. 230/E. (9) Cfr. Ris. Ag. Entr. n. 230/E/2002.


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nell’ambito della fornitura di servizi di ospedalizzazione e di cure mediche e che costituiscono una tappa indispensabile nel processo di prestazione di tali servizi per conseguire gli scopi terapeutici perseguiti da questi ultimi possono costituire operazioni (…) strettamente connesse” (10). Il caso in cui i giudici europei – nel valutare se la prestazione di servizi di trasmissione di analisi ematiche da un laboratorio ad un altro costituisse o meno operazione “strettamente connessa” a quella di analisi biologica posta in essere dal laboratorio di destinazione – hanno avuto modo di affermare che “la trasmissione del prelievo è una prestazione accessoria e strettamente connessa alle analisi di biologia medica effettuate dal laboratorio ricevente sicché essa debba essere considerata come operazione direttamente connessa alle cure mediche” (11). Il summenzionato approccio giurisprudenziale è stato criticato da alcuna dottrina secondo cui la diversità di ratio attribuibile alle norme di riferimento delle suddette classi di operazioni (12) renderebbe inadeguata la sovrapposizione concettuale elaborata in seno a tale approccio e giustificherebbe, al contrario, una metro valutativo del rapporto tra operazioni “strettamente connesse” e operazioni esenti meno rigoroso di quello adottato in relazione al rapporto tra operazioni “principali” e operazioni “accessorie” (13). Ciò detto, se il pensiero dottrinale poc’anzi riportato è condivisibile sul piano squisitamente metodologico, laddove la sunnominata diversità di ratio suggerirebbe l’elaborazione in sede interpretativa di un’autonoma nozione di operazione “strettamente connessa” ad un’operazione esente, come tale totalmente svincolata da quella di operazione “accessoria” ad un’operazione “principale”, esso pensiero non è totalmente condivisibile sul piano del merito, laddove esigenze di cautela fiscale – conseguenza del fatto che la norma

(10) Cfr. Corte UE 10 giugno 2010, causa C-262/08. (11) Cfr. Corte UE 11 gennaio 2001, causa C-76/99. In tal senso anche Corte UE 8 giugno 2006, causa C-106/05. (12) Più in dettaglio, mentre la nozione di operazione “strettamente connessa” è rinvenibile nell’ambito di una norma (esentativa) avente finalità agevolativa di carattere extrafiscale tesa alla tutela di un determinato bene pubblico (nel caso di specie l’istruzione), la nozione di operazione “accessoria” è accolta in una norma avente finalità strutturale tesa alla determinazione della base imponibile Iva (sul rapporto tra operazioni “accessorie” ed altri istituti tipici dell’Iva si veda M. Greggi, Il principio di inerenza nell’imposta sul valore aggiunto: profili nazionali e comunitari, Pisa, 2011, 120). (13) In questo senso sembra esprimersi F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, cit., 149.


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esentativa di cui all’art. 132, comma 1, lett. i), della Direttiva è comunque derogatoria del principio generale in base al quale l’Iva è riscossa per ogni prestazione di servizi a titolo oneroso – inducono a ritenere plausibile l’impostazione dei giudici di Lussemburgo i quali, a motivo della richiamata contiguità tra i rispettivi elementi costitutivi, hanno mutuato i canoni definitori delle operazioni “accessorie” al fine di definire il concetto di operazioni “strettamente connesse”.

Francesco Pedrotti



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