Rivista Diritto Tributario 1/2019

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Vol. XXIX - Febbraio

Rivista di

Diritto Tributario Fondatori: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

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Rivista bimestrale

www.rivistadirittotributario.it

Vol. XXIX - Febbraio 2019

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Direzione scientifica Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin

2019

In evidenza: • “Vincoli di destinazione” e imposte sui trasferimenti della ricchezza; una infelice scelta

legislativa: problemi interpretativi e di legittimità costituzionale Andrea Fedele • Riflessioni in tema di trattamento fiscale dei soggetti non residenti svolgenti attività

d’impresa all’estero e privi di stabile organizzazione in Italia, con particolare riferimento alle sfide poste dall’economia digitale Francesco Padovani • Dogmi e principi: riflessioni alla luce della recente pronuncia della Consulta sulla

responsabilità tributaria in materia di scissione (nota a Corte. Cost., n. 90/2018) Fabrizio Pacchiarotti - Stefano Guarino • L’attuale volto del diritto penale tributario a seguito della “Maxi-Circolare” della Guardia

di Finanza n. 1/2018 Ivo Caraccioli

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

Componenti onorari: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo

Pacini



Indici DOTTRINA

Paolo Arginelli - Giulio Cuzzolaro

Osservazioni (critiche) in merito alla sussistenza di una presunzione assoluta di residenza fiscale degli iscritti nelle anagrafi della popolazione residente (nota a Cass. n. 16634/2018)..................................................................................................

V, 3

Ivo Caraccioli

L’attuale volto del diritto penale tributario a seguito della “Maxi-Circolare” della Guardia di Finanza n. 1/2018..................................................................................... III, 1 Daniela Conte

Il diritto di difesa del contribuente nell’ottica della Corte di Giustizia: il “passo del gambero” e il ritorno agli studi di settore come presunzione relativa? (nota a Corte di giustizia, C-648/2016).................................................................................. IV, 10 Giangiacomo D’Angelo

Profili strutturali e ambito applicativo del regime speciale Iva per i produttori agricoli. Dalla semplificazione amministrativa verso i “nuovi” interessi dell’agricoltura.......................................................................................................................... I, 119 Andrea Fedele

“Vincoli di destinazione” e imposte sui trasferimenti della ricchezza; una infelice scelta legislativa: problemi interpretativi e di legittimità costituzionale..................

I, 1

Fabrizio Pacchiarotti - Stefano Guarino

Dogmi e principi: riflessioni alla luce della recente pronuncia della Consulta sulla responsabilità tributaria in materia di scissione (nota a Corte. Cost., n. 90/2018).. II, 13 Francesco Padovani

Riflessioni in tema di trattamento fiscale dei soggetti non residenti svolgenti attività d’impresa all’estero e privi di stabile organizzazione in Italia, con particolare riferimento alle sfide poste dall’economia digitale...................................................

I, 55

Francesco Pedrotti

Prime osservazioni in merito all’abrogata imposta sulle transazioni digitali e all’imposta sui servizi digitali introdotta dalla L. 30 dicembre 2018, n. 145...........

I, 93

Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Ivo Caraccioli............................................................................................... III, 1


II

indici

Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi..................................................................................................

IV, 1

Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................

V, 1

Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.

INDICE ANALITICO

QUESTIONI GENERALI RESPONSABILITÀ TRIBUTARIA Operazioni straordinarie – Scissione – Responsabilità tributaria – Giudizio di legittimità costituzionale (Corte. Cost., 21 marzo 2018 - 26 aprile 2018, n. 90, con nota di Fabrizio Pacchiarotti e Stefano Guarino)......................................................

II, 1

IMPOSTE SUI REDDITI IRPEF (Imposta sul reddito delle persone fisiche) Residenza fiscale – Art. 2, comma 2, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – Soggetto iscritto all’anagrafe della popolazione residente in Italia – Presunzione assoluta di residenza in Italia – Sussiste (Cass. Civ., Sez. VI, 20 aprile - 25 giugno 2018, n. 16634, con nota di Paolo Arginelli e Giulio Cuzzolaro)............................

V, 1

IVA (Imposta sul valore aggiunto) Rinvio pregiudiziale – Art. 273 Direttiva 2006/112/CE - Accertamento tributario – Metodo di accertamento della base imponibile in via induttiva – Detraibilità dell’Iva – Presunzione – Principi di neutralità e di proporzionalità – Normativa nazionale che fonda la determinazione dell’Iva sul volume d’affari presunto (Corte di giustizia, Sez. IV, 18 gennaio 2018 - 21 novembre 2018, n. C-648/16, con nota di Daniela Conte).......................................................................

IV, 1


indici

III

INDICE CRONOLOGICO Corte di giustizia, Sez. IV, 18 gennaio 2018 - 21 novembre 2018, n. C-648/16.................................................

IV, 1

*** Corte. Cost. 21 marzo 2018 - 26 aprile 2018, n. 90.......................................................................

II, 1

*** Cass. Civ., Sez. VI, 20 aprile - 25 giugno 2018, n. 16634.........................................................................

V, 1

Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro - Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio



indici

V

INDICE DEGLI AGGIORNAMENTI ONLINE 2018 Francesco d’Ayala Valva, È onere del notificante controllare il buon esito della notifica, 21/12/18 Francesco d’Ayala Valva - Licia Fiorentini, Agevolazioni fiscali da prendere al volo per le “zone franche urbane”, 17/05/18 Francesco d’Ayala Valva - Licia Fiorentini, Come etichettare i “campioni gratuiti”, 11/12/18 Francesco d’Ayala Valva - Licia Fiorentini, Può il giudice rimettere in termini il destinatario di una notifica, ritualmente perfetta?, 22/11/18 Paolo Arginelli, Italian Supreme Court rules that income received by fashion models falls outside the scope of article 17 OECD MC, 11/10/18 Paolo Arginelli, Riflessioni “a caldo” sulla nuova disciplina degli utili provenienti da paesi a fiscalità privilegiata, 22/02/18 Paolo Arginelli - Giulio Cuzzolaro, Sull’applicabilità delle convenzioni contro le doppie imposizioni in assenza di un’effettiva duplicazione d’imposta, 06/12/18 Paolo Arginelli - Giulio Cuzzolaro, “Vecchie ruggini” e mancate occasioni nell’ordinanza della Cassazione n. 16634/2018 sulla presunzione di residenza fiscale degli iscritti nelle anagrafi della popolazione residente, 09/08/18 Paolo Arginelli - Paolo Valacca, Brevi note in tema di conferimento d’azienda in società residente da parte di stabile organizzazione di società UE, 01/10/18 Paolo Arginelli - Paolo Valacca, Chiariti i limiti al riporto delle perdite in caso di fusioni transfrontaliere tra società non residenti, 31/01/18 Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti, Il contributo della Cassazione al chiarimento della disciplina del trust nelle imposte indirette, 29/01/18 Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti, Il tentativo di mediazione della Cassazione sul rapporto tra trust e restituita imposta sulle successioni e donazioni (nota a Cass. Civ., n. 13626/2018), 15/11/18 Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti, La perdurante incertezza in ordine agli adempimenti necessari per il perfezionamento delle rivalutazioni di terreni ex art. 7, L. n. 448/2001, 26/06/18 Edoardo Belli Contarini, Parametri da coordinare tra loro nella nuova “transazione fiscale”, 11/04/18 Edoardo Belli Contarini, Ravvedimento operoso e fatture false, 27/11/18 Pietro Boria, L’abuso del diritto in materia fiscale come principio generale di derivazione giurisprudenziale, 17/01/18 Andrea Buccisano, Il ruolo della residenza fiscale delle persone fisiche nell’imposizione sui redditi, e la introduzione di un nuovo discutibile criterio di tassazione per i “neo residenti”, 15/11/18 Cristina Caraccioli, Esercizio abusivo di una professione anche per il non abilitato che svolge atti in modo da creare l’apparenza di un’attività professionale regolamentata, 01/10/18


VI

indici

Ivo Caraccioli, Art. 2 D.lgs. 74/2000 e uso di documentazione medica mendace, 01/10/18 Ivo Caraccioli, Biglietti gratis rilevanti per dichiarazione infedele, 18/01/18 Ivo Caraccioli, Causa di non punibilità della voluntary disclosure applicabile ai soli reati espressamente previsti, 12/03/18 Ivo Caraccioli, Costi realmente sostenuti e fatture soggettivamente inesistenti, 02/08/18 Ivo Caraccioli, Il risparmio di imposta quale discusso presupposto dell’autoriciclaggio: un problema risolto?, 15/11/18 Ivo Caraccioli, Infedele dichiarazione: spetta al giudice di merito l’applicazione dello ius superveniens sulle sanzioni, 23/03/18 Ivo Caraccioli, La dichiarazione dei redditi va presentata anche per quelli di origine illecita, 16/01/18 Ivo Caraccioli, La non punibilità del concorso tra emittente ed utilizzatore di fatture false e la penalizzazione “ricostruttiva” della giurisprudenza, 26/06/18 Ivo Caraccioli, Nelle società di capitali è preventivamente necessario valutare la possibilità di procedere a sequestro diretto del profitto dell’evasione, 16/01/18 Ivo Caraccioli, Omesso versamento IVA per crisi economica dell’impresa solo in presenza della piena dimostrazione dell’impossibilità di adempiere, 01/03/18 Ivo Caraccioli, Per il reato di omesse ritenute rispondono tutti gli amministratori della società, 09/02/18 Ivo Caraccioli, Per i reati fiscali commessi dall’amministratore di fatto risponde anche il “prestanome”, 16/01/18 Ivo Caraccioli, Processo penale e tributario che si svolgono nello stesso “tempo” non comportano il ne bis in idem, 31/05/18 Loredana Carpentieri, La crisi del binomio diritto-territorio e la tassazione delle imprese multinazionali, 09/10/18 Laura Castaldi, Sulla figura del responsabile d’imposta, 13/03/18 Marco Cerrato, La procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata in materia di stabile organizzazione (c.d. web tax transitoria), 17/01/18 Alessia Cerrone, La tassazione del commercio elettronico dopo la sentenza Wayfair: verso una territorialità digitale?, 09/10/18 Simone Francesco Cociani, Il contraddittorio preventivo e la favola di Fedro della volpe e della maschera da tragedia, 13/03/18 Gabriele Colombaioni, Il contrasto ai fenomeni di doppio utilizzo delle perdite fiscali nel contesto del consolidato fiscale nazionale, 13/03/18 Arno Crazzolara, OECD (2018), Additional Guidance on the Attribution of Profits to Permanent Establishments, BEPS Action 7. La determinazione dell’utile della stabile organizzazione personale, 26/06/18 Giulio Cuzzolaro, La futura modifica al preambolo dei Trattati contro le doppie imposizioni per effetto della Convenzione Multilaterale BEPS, 15/01/18 Giangiacomo D’Angelo, Le diverse declinazioni della soggettività passiva iva: il caso clinico delle società pubbliche cc.dd. in house, 09/10/18


indici

VII

Barbara Denora, Competenza fiscale dei fatti intervenuti prima della chiusura di bilancio: nessuna deducibilità “anticipata”, 15/06/18 Barbara Denora, Dichiarazione rettificativa “a favore” solo per le manifestazioni di scienza, 28/02/18 Barbara Denora, Le Sezioni Unite riconoscono la detrazione IVA in caso di spese incrementative su immobili altrui, 28/05/18 Barbara Denora, Lettere di patronage e transfer pricing: una combinazione poco felice, 18/07/18 Barbara Denora, Operazioni erroneamente sottoposte a IVA: quid iuris per la detrazione?, 27/04/18 Barbara Denora, Perdite “non utilizzabili” e opzioni “non ritrattabili”: qual è il fil rouge?, 19/02/18 Barbara Denora, Quando la royalty va in dogana, 12/06/18 Barbara Denora, Simulazione assoluta, decadenza agevolazioni prima casa e “mutuo dissenso”, 19/10/18 Paolo De Quattro, La sospensione amministrativa dell’atto nell’accertamento doganale tra tutela europea del contribuente e contraddittorio endo-procedimentale (nota a Corte di Giustizia, causa C-276/16), 15/11/18 Marco Di Siena, La rinnovata configurazione della nozione di “elemento attivo e passivo” e l’IVA. Suggestioni applicative e rigore interpretativo, 17/01/18 Gaspare Falsitta, Unità e pluralità del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento interno e nel sistema comunitario, 09/10/18 Francesco Farri, Dalla Corte di Giustizia UE nessuna novità sostanziale in tema di esenzione ICI per gli enti non commerciali, 09/11/18 Francesco Farri, Imposta di soggiorno alla Corte dei Conti?, 12/09/18 Francesco Farri, L’indeducibilità parziale dell’imu dal reddito d’impresa contrasta con l’art. 3 cost., 30/07/18 Francesco Farri, Le novità fiscali del Codice del Terzo Settore: 1. il regime fiscale per gli enti benefici non iscritti al registro, 21/02/18 Francesco Farri, Le modifiche strutturali al quadro normativo del “terzo settore”, 16/02/18 Francesco Farri, Le novità fiscali del codice del terzo settore: 2. Il regime fiscale per gli enti benefici iscritti al registro, 02/03/18 Francesco Farri, Liquidazione delle dichiarazioni, obbligatorietà dell’avviso bonario e conseguenze della sua omissione, 16/03/18 Francesco Farri, Nullità degli accertamenti cartacei firmati digitalmente, 19/06/18 Francesco Farri, Statuto dei contribuenti e contraddittorio “europeo”, 31/05/18 Francesco Farri, Termini di decadenza e solidarietà tributaria: dalla Cassazione un passo indietro e uno avanti, 09/04/18 Francesco Farri, Tremonti ambiente e incentivi al fotovoltaico: errori del GSE e aporie fiscali, 27/03/18


VIII

indici

Andrea Fedele, L’alternatività iva-registro ed i suoi limiti, 24/04/18 Andrea Fedele, La Cassazione e l’interpretazione delle norme di agevolazione tributaria: primi segnali di un nuovo orientamento?, 20/11/18 Andrea Fedele, La definizione del tributo nella giurisprudenza costituzionale, 13/03/18 Andrea Fedele, La sentenza della Corte costituzionale come “rimedio” al rifiuto dell’estensione analogica, 09/10/18 Valerio Ficari - Paolo Barabino, L’impresa agricola e la ristrutturazione dei debiti tributari, 26/06/18 Guglielmo Fransoni, Fusione per incorporazione e prosecuzione del consolidato nazionale: considerazioni a margine di una recente risposta a interpello, 12/02/18 Guglielmo Fransoni, I decreti ministeriali di coordinamento della disciplina i.re.s. e i.r.a.p. con i principi contabili internazionali: profili di legittimità, 19/01/18 Guglielmo Fransoni, Il principio della prevalenza della sostanza sulla forma nel nuovo Conceptual Framework for Financial Reporting, 23/04/18 Guglielmo Fransoni, Il ritorno dell’esistenza certa e dell’obiettiva determinabilità per i soggetti IAS adopter, 06/03/18 Guglielmo Fransoni, L’elusione e la qualificazione degli atti negoziali ai sensi dell’art. 20 t.u.r. fra le vane speranze e il van dolore (del contribuente), 26/02/18 Guglielmo Fransoni, La Cassazione e i contratti conclusi mediante scambio di corrispondenza: una soluzione di buon senso che enfatizza le criticità dell’imposta di registro, 01/08/18 Guglielmo Fransoni, La Cassazione e l’art. 20 del Testo Unico dell’Imposta di Registro: fra contorsioni argomentative, moniti e scelte di campo, 01/02/18 Guglielmo Fransoni, La web tax: miti, retorica e realtà, 05/04/18 Guglielmo Fransoni, Una bella sorpresa: la nouvelle vague della Corte di Cassazione in tema di inerenza, 19/03/18 Alberto Fuccio - Raffaele Villa, Spunti critici sul regime fiscale applicabile al conferimento di azienda effettuato da “stabile organizzazione” italiana, 12/11/18 Simone Ghinassi, Il chiamato all’eredità è soggetto passivo dell’imposta sulle successioni?, 20/09/18 Simone Ghinassi, Polizze assicurative ed imposta di successione, 24/05/18 Gabriele Giusti, La fiscalità dei beni culturali nel passaggio generazionale,15/11/18 Gabriele Giusti, Le operazioni di stock lending tra evasione, elusione e legittimo risparmio d’imposta, 13/03/18 Antonio Guidara, L’intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi e la sua riferibilità alle estinzioni delle società, 17/01/18 Antonio Guidara, “Venir meno” della parte e proroghe dei termini nella disciplina del processo tributario, 26/06/18 Roberto Iaia, Atti istruttori erariali e principio europeo di proporzionalità, 15/11/18 Giuseppe Ingrao, L’intervento del Fisco su ordine del giudice tra l’ammissibile collaborazione con le Commissioni tributarie e l’illegittima riassegnazione della potestà impositiva, 24/04/18


indici

IX

Salvatore La Rosa, In tema di non impugnabilità dei dinieghi di autotutela e di responsabilità civile del fisco, 09/10/18 Maurizio Logozzo, Le accise: inquadramento sistematico e questioni aperte, 24/04/18 Daniele Majorana, Ritenute sui dividendi distribuiti ai fondi esteri: dalla sentenza della Corte di Giustizia dubbi di compatibilità europea, 25/07/18 Giuseppe Marino, Note brevi sull’evoluzione del divieto di aiuti di Stato e sostenibilità dei sistemi fiscali, 09/10/18 Carmine Marrazzo, La tassazione del commercio elettronico dopo la sentenza Wayfair: verso una territorialità digitale?, 09/10/18 Vitaliano Mercurio, Sulla legittimazione del consumatore-utente finale al rimborso dell’accisa sull’energia elettrica indebitamente versata dal proprio fornitore, 06/08/19 Rossella Miceli, La funzione della disciplina fiscale delle società di comodo, 24/04/18 Francesco Montanari, La responsabilità tributaria nelle operazioni di scissione parziale: la deriva della Suprema Corte verso la salvaguardia della ragion fiscale, 13/03/18 Francesco Montanari, Le criticità dell’Iva per le attività di interesse generale nel nuovo Codice del Terzo settore, 15/11/18 Francesco Morra - Mirko Severi, I rapporti tra contenzioso interno e procedura arbitrale con riferimento alle rettifiche dei prezzi di trasferimento, 18/04/18 Francesco Nicolosi, Brevi osservazioni sulla nuova disciplina CFC recata dallo schema di decreto ATAD, 17/09/18 Francesco Odoardi, Il “bonus pubblicità” e il parere del Consiglio di Stato sulla bozza di decreto interministeriale: quando una “svista matematica” rischia di far emergere un aiuto di Stato, 28/06/18 Maurizio Orlandi, Quando l’accettazione di un concordato comportante una transazione fiscale può costituire un aiuto di Stato: l’applicazione del criterio del creditore privato, 17/01/18 Franco Paparella, Abuso del diritto: oneri procedimentali e requisiti essenziali dell’atto impositivo, 26/06/18 Francesco Pedrotti, Le operazioni “strettamente connesse” a un’operazione esente Iva, 13/03/18 Francesco Pedrotti, Riflessioni intorno al concetto di «soggiorno» nello Stato estero nel contesto dell’art. 51 comma 8-bis del Tuir, 17/01/18 Damiano Peruzza, Ruolo straordinario e misure cautelari preclusi se l’accertamento è annullato, 13/03/18 Stefano Piccioli, Profili penali-tributari della determinazione del reddito agli effetti del calcolo di proporzionalità tra mezzi ed impieghi in materia di confisca di beni sequestrati, 13/03/18 Andrea Quattrochi, La tassazione dei redditi finanziari tra imposizione alla fonte e (crisi della) progressività, 09/10/18 Franco Randazzo, In tema di applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, Legge n. 241 del 1990, agli atti impositivi, 26/06/18


X

indici

Federico Rasi, L’Imposta sul Reddito di Impresa (IRI): vecchie “delusioni” e nuove “aspettative” o vecchie “aspettative” e nuove “delusioni”, 17/01/18 Mario Ravaccia, L’Iva addebitata in rivalsa a seguito di accertamento e la decorrenza del termine per la detrazione, 26/06/18 Redazione, La giustizia tributaria nel terzo millennio. Roma, 21 marzo 2018, 13/03/18 Redazione, La tassazione delle imprese alla prova dell’economia digitale, 22/02/2019, 26/11/18 Redazione, I tributi tra accertamento e processo tributario. Messina, 8 marzo 2018, 06/03/18 Redazione, Spring in Naples. Il progetto BEPS e la pianificazione fiscale delle imprese. Napoli, 25 maggio 2018, 16/04/18 Fabio Romano, Uguale validità per le firme digitali PAdES e CAdES, 07/06/18 Stefano Maria Ronco, Limiti alla riferibilità della sanzione alla persona giuridica, principio del beneficio e rilievo dell’autore materiale: considerazioni e prospettive di riforma, 15/11/18 Pasquale Russo - Fabio Coli, La responsabilità di liquidatori, amministratori e soci per le imposte dovute dai soggetti dell’IRES, 26/06/18 Guido Salanitro, Profili sistematici dell’imposta sostitutiva per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia (cd. flat tax per neo-residenti), 13/03/18


Dottrina

“Vincoli di destinazione” e imposte sui trasferimenti della ricchezza; una infelice scelta legislativa: problemi interpretativi e di legittimità costituzionale Sommario: 1. Il significato dell’espressione se inserita nel contesto delle disposizioni

relative ai presupposti dei tributi qui considerati. – 1.1. Natura della fonte, struttura dell’atto costitutivo, relazioni fra gli effetti, profili funzionali del “destinare” come criteri identificativi del “vincolo”. – 1.2. Le diverse modalità giuridiche della “destinazione”. – 1.3. Inerenza al bene ed opponibilità ai terzi come caratteri necessari del “vincolo”: l’esclusione dei vincoli “obbligatori”. – 1. 4. Il regime fiscale della costituzione di vincoli interamente risolti in diritti reali. – 1.5. La destinazione che si risolve in trasferimento. – 1.6. Costituzione di vincoli di destinazione e separazione patrimoniale. – 1.7. Le ipotesi di costituzione di vincoli di destinazione cui potrebbe essere riferita la formula in esame. – 2. La “costituzione di vincoli di destinazione” tra definizione di un “autonomo” presupposto d’imposta e adeguamento al concetto di attribuzione liberale. – 2.1. Vincoli di destinazione ed imposta sulle successioni e donazioni come istituto giuridico. – 2.2. L’ ipotizzata istituzione di un “autonomo” e distinto tributo sulla ”costituzione dei vincoli di destinazione” sarebbe in contrasto con i principi costituzionali. – 2.3. Non si tratta di “interpretatio abrogans”. – 3. De jure condendo: una specifica forma di imposizione sulla costituzione di vincoli di destinazione non sarebbe, in sé, incostituzionale, ma andrebbe adeguatamente disciplinata.

Con l’ art. 2, comma 47 e seguenti, D. L. n. 262/2006, come modificato con la lege di conversione 24.11.2006, n. 286, si è introdotta, nella definizione dei presupposti dell’imposta sulle successioni e donazioni, la formula “costituzione di vincoli di destinazione”. Lo scritto tenta di individuare il significato ed il portato normativo della formula nel contesto in cui essa è inserita, avendo riguardo alla natura e struttura dei possibili atti costitutivi, alla natura e rilevanza dei loro effetti. Esclusa, per ragioni sistematiche, la riferibilità dell’espressione ad assetti effettuali onerosi ed alle ipotesi in cui il “vincolo” si risolve esclusivamente nella costituzione o nel trasferimento di diritti (in quanto tali già assoggettati alle imposte sui trasferimenti), si limita l’area delle vicende potenzialmente rientranti nella categoria a quelle che determinano la nascita di effetti, non legali, di separazione patrimoniale inerenti a beni, diritti o complessi patrimoniali ed opponibili ai terzi, ivi inclusi i trasferimenti meramente “strumentali” alla costituzione dei vincoli. La regola dell’interpretazione conforme ai principi costituzionali esclude però ogni possibilità di identificare nella mera costituzione del vincolo un autonomo presupposto dell’imposta sulle successio-


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Parte prima

ni e donazioni o, tanto meno, di un nuovo, innominato e distinto, tributo. La rilevanza normativa dell’inciso in questione si riduce quindi alla sicura attribuzione delle costituzioni di vincoli strumentali ad attribuzioni liberali all’ambito di operatività dell’imposta sulle successioni e donazioni, che si commisura però alle sole attribuzioni “finali”. L’“autonoma” imposizione degli atti costitutivi di vincoli di destinazione in quanto tali non sarebbe, in sé, necessariamente viziata di illegittimità costituzionale, ma richiederebbe opzioni di fondo ed un ben più complesso ed elaborato intervento legislativo. Article 2, paragraphs 47 and following, of decree n. 2626/2006 (as amended by law 286/2006) has introduced, in the definition of the cases of application of the estate and donations tax, the expression “creation of liens to destine assets to a specific purpose” (“costituzione di vincoli di destinazione”). This essay seeks to identify the meaning and the scope of such wording in the context where it is used, taking into account the kind and structure of the possible deeds which may create such liens, their nature and the materiality of their effects. On the basis of an interpretation based on the consistency of the tax system, the concept of “vincoli di destinazione” cannot be referred to transactions with a consideration nor to cases of creation or transfer of rights (as such cases are already subject to transfer or value added taxes). Therefore the cases potentially falling within the scope of the “vincoli di destinazione” are limited to those transactions (including transfers whose sole purpose is the creation of the lien) which cause the segregation (not in the cases where such segregation arises from the application of a statutory rule) of assets, pools of assets, or rights, to the extent that such segregations are enforceable vis à vis third parties. An interpretation compliant with the principles of the Constitution does not however allow the application of the tax on estates and donations (nor of a new and unnamed and separate tax) on the basis of the mere creation of the lien. The effects of the new statutory wording are therefore limited to ensuring the application of the tax on estates and donations to liens created for the purpose of gratuitous transfers, application which can however occur only at the time of the transfer to the final beneficiary. De jure condendo, the taxation of the deeds which create “vincoli di destinazione” would not per se conflict with the Constitution, but would require a specific decision in the statutory text and a more complex and elaborated statutory wording.

1. Il significato dell’espressione se inserita nel contesto delle disposizioni relative ai presupposti dei tributi qui considerati. 1.1. Natura della fonte, struttura dell’atto costitutivo, relazioni fra gli effetti, profili funzionali del “destinare” come criteri identificativi del “vincolo”. – Con l’entrata in vigore dell’art. dell’art. 2, comma 47 e seguenti, D. L. n. 262/2006, come risulta a seguito dell’entrata in vigore della legge di conversione (L. 24.11.2006, n. 286, che ha stravolto completamente, il testo origi-


Dottrina

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nario del decreto legge) (1) si è posto a tutti gli operatori giuridici il problema dell’interpretazione, in quel contesto, della formula “costituzione di vincoli di destinazione” per la prima volta introdotta fra le disposizioni che disciplinano le imposte sui trasferimenti della ricchezza. Il punto di partenza per ogni operazione interpretativa in materia mi sembra necessariamente costituito dal significato generalmente riconosciuto all’espressione “vincoli di destinazione”, che la dottrina contrappone al mero dato fattuale della “destinazione” (2). Il vincolo si risolve, infatti, in doveri, obbli-

(1) Della vicenda si è già ampiamente discusso (cfr., ad es., D. Stevanato, Successioni e donazioni tra D. L. n. 262/2006 e legge di conversione, in Negozio di destinazione, percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, Quaderni della Fondazione italiana per il notariato, 2007, 235 ss.; A. Fedele, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da Pietro Rescigno, II ed., vol. 2, Padova, 2010, 590 ss.). Mi limiterò qui a ricordare che nel decreto legge in questione la reintroduzione di un prelievo fiscale sulle successioni e l’ampliamento dell’imposizione delle donazioni erano attuati mediante inserimenti di nuove disposizioni relative al tributo di registro, quindi con modifiche al D.P.R. n. 131/1986; in questo contesto appare originariamente la previsione della costituzione dei vincoli di destinazione come fattispecie imponibile; probabilmente per una miglior considerazione delle difficoltà insite nell’estensione della disciplina del registro alle successioni mortis causa, in sede di legge di conversione si optò per la “reviviscenza” dell’imposta sulle successioni come tributo autonomo, mantenendo però, in una sintesi definitoria dei presupposti del tributo almeno nelle intenzioni innovativa, la previsione della “costituzione di vincoli di destinazione”. (2) Impropriamente, a mio avviso, qualificata “economica” (cfr. M. Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato, Padova, 2010, 12 ss. e passim; per una corretta qualificazione in termini di “effetto” giuridico, con distinzione dalle destinazioni “di fatto”, cfr. invece U. Stefini, Destinazione patrimoniale ed autonomia negoziale, Padova, 2010, 8 ss.: gli “effetti” in cui si risolve la destinazione sono esaminati nel cap. II, 121 ss., in part. 141 ss.; sulla natura meramente fattuale, produttiva, con gli altri elementi della fattispecie complessa, di effetti giuridici, della “destinazione del padre di famiglia” cfr., ad es., B. Biondi, Le servitù, Milano, 1967, 357 ss.); l’aggettivo, appropriato nell’utilizzazione codicistica (art. 981 e 986 c.c.), non copre tutte le possibili ipotesi di “destinazione” (che può anche indirizzarsi a scopi e finalità “antieconomiche”) e parrebbe invece utilizzato nel senso di “non giuridica”. Ma queste forme di “destinazione” (che hanno origine meramente fattuale: cfr. F. Gazzoni, La trascrizione degli atti e delle sentenze, in Trattato della trascrizione, diretto da E. Gabrielli e F. Gazzoni, Mirafiori-Assago, 2012, I, 2, 184) rilevano sicuramente come fattispecie di rilevanti effetti giuridici (cfr., ad es., A. Fedele, Destinazione patrimoniale: criteri interpretativi e prospettive di evoluzione del sistema tributario, in Destinazione di beni allo scopo, Strumenti attuali e tecniche innovative, Milano, 2003, 309 ss., ed ivi riferimenti) e si distinguono dai “vincoli di destinazione” perché elementi costitutivi di questi ultimi (e non delle prime) sono essenzialmente dati effettuali (doveri ed obblighi di comportamento, limiti ai poteri dispositivi, separazioni patrimoniali, ecc.) che integrano le fattispecie degli ulteriori effetti del “vincolo” (responsabilità dei gestori, invalidità-inefficacia degli atti non conformi ai limiti, inassoggettabilità di beni o diritti a procedure esecutive da parte di creditori estranei


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ghi, poteri e facoltà funzionalizzati, “limitazione” o conformazione di diritti, modificazioni del regime generale della responsabilità patrimoniale, e così via. Trattandosi, essenzialmente, di complessi di effetti giuridici, ci si deve innanzi tutto domandare se la formula in questione sia riferibile ad ogni ipotesi in cui tali effetti vengono in essere o se invece si debbano distinguere le diverse vicende costitutive a seconda che gli effetti stessi derivino dalla legge, da provvedimenti amministrativi o giurisprudenziali oppure da atti (forse solo negozi) giuridici, manifestazioni di autonomia privata. Prendendo dapprima in considerazione la fonte legale (3), va premesso che, nel nostro sistema dell’imposizione indiretta, il porsi in essere di effetti legali è tendenzialmente escluso dall’ambito delle fattispecie imponibili, fatta eccezione per la successione mortis causa dei cui effetti attributivi (e potenzialmente incrementativi del patrimonio del beneficiario) non può non tenersi conto nella disciplina dell’imposta sulle successioni. Nel registro, l’irrilevan-

all’attuazione dello scopo, ecc.). A titolo esemplificativo, si potrebbe ricordare che: la mera destinazione pertinenziale produce gli effetti di cui all’art. 818 c.c.; la fattispecie di cui all’art. 41 sexies L. 17.8.1942, n. 1150 (introdotto con l’art. 18 L. n. 765/1967 ed oggi abrogato dalla L. 28.11.2006, n. 246, ma, secondo la Cassazione, con effetti non retroattivi) determinava la nascita del diritto di uso da parte dei proprietari delle abitazioni sui box o posti auto contestualmente realizzati; il verificarsi dei presupposti di cui all’art. 9 L. 24.3.1989, n. 122, (c.d. legge Tognoli), da ultimo modificato dall’art. 10 D.L. 9.10.2012, n.5, limita le possibilità di modifiche della destinazione dei parcheggi e di alienazione separata dell’abitazione e del parcheggio destinato al suo servizio (si tratta, probabilmente, di un vincolo di destinazione, di fonte legale nelle ipotesi di cui al c. 1, di fonte convenzionale nelle ipotesi di cui al c. 4); la destinazione ex art. 2645 ter c.c. dell’abitazione e del parcheggio (o dell’una o dell’altro) determina un vincolo di destinazione caratterizzato da effetti di separazione patrimoniale e di indirizzo della gestione. (3) Intesa come inclusiva dei casi in cui la nascita del vincolo derivi direttamente, senza l’intervento di manifestazioni di autonomia privata, da norme regolamentari o comunque da atti amministrativi (o anche espressivi di pubblici poteri diversi dall’esecutivo) a carattere generale. Non sembra infatti si possano escludere ipotesi di “vincoli di destinazione” costituiti per legge o regolamento. Trascurando le servitù legali, visto che, a mio avviso, tutte le servitù andrebbero escluse dalla valenza normativa della disposizione in esame (cfr. oltre n. 1.4), si può far riferimento ai vincoli “di uso pubblico” o simili “costituiti per legge o regolamento”, cui non si applica l’art. 2645 quater c.c.. Per il progressivo affermarsi, con riferimento alla destinazione patrimoniale, della fonte negoziale, cfr. M. Bianca, Atto negoziale di destinazione e separazione, in Riv. dir. civ., 2007, 197 ss., in part. 210 ss.


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za degli effetti legali è principio tradizionalmente riconosciuto (4), pertanto nell’originario contesto in cui fu inserito con il D.L. n. 262/2006, volto ad includere nell’ambito del tributo di registro l’imposizione di successioni e donazioni, il termine “costituzione”, riferito ai vincoli, poteva facilmente intendersi come volto a designare l’atto del costituire, espressione di un potere di produrre effetti specifici per il caso concreto. Nel diverso contesto in cui fu successivamente riprodotto con la legge di conversione n. 286/2006, volta a “reistituire” l’autonoma imposta sulle successioni e donazioni, il medesimo termine avrebbe anche potuto essere interpretato con riguardo al mero prodursi degli effetti di cui si sostanziano i vincoli, pur se direttamente derivanti dalla legge, visto che la natura del tributo non esclude la rilevanza di effetti meramente legali (basti pensare, appunto, alle successioni legittime). Tuttavia, un ulteriore elemento testuale depone per l’esclusione dei vincoli “legali” dal significato dell’espressione “costituzione di vincoli di destinazione”: il comma 53 dell’art. 2 del citato D. L. (in appresso “D.L. n. 262/2006, come modificato in sede di conversione”), nel disciplinare la decorrenza degli effetti della nuova disciplina derivante dai precedenti commi, ivi compresa la menzione suddetta, individua un’ampia gamma di atti giuridici (atti pubblici, atti a titolo gratuito, scritture private autenticate e non), ma una sola categoria di fatti giuridici, le successioni, con ciò escludendo la rilevanza, ai fini fiscali di eventuali altri fatti dai quali la legge faccia eventualmente derivare effetti giuridici riconducibili alla nozione di vincolo di destinazione (5).

(4) Cfr., per tutti, A. Uckmar, La legge del registro, vol. 1, V ed., Padova, 1958, 174. (5) Si configura, ad es., come vincolo legale di destinazione il regime previsto dall’art. 831, c. 2, c.c., per gli edifici di proprietà di privati destinati all’esercizio pubblico del culto cattolico; qui è la mera destinazione in fatto (con assimilazione, quindi, alle ipotesi di destinazione “economica” di cui alla precedente nt. 2) a rendere operante un regime giuridico che si risolve in limitazione della proprietà, opponibile anche ad eventuali aventi diritto (cfr. A.C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, Milano, 1959, 310 ss., che afferma la permanenza del vincolo anche in caso di esecuzione forzata). Per un’ampia trattazione delle diverse ipotesi di “destinazione” di beni, soprattutto riguardo alla produzione agricola, cfr. G. De Nova, Il principio di unità della successione e la destinazione di beni della produzione agricola, in Riv. dir. agr., 1979, 550 ss. Ove si ritenga che la comunione legale fra coniugi dia luogo ad un patrimonio destinato (cfr. M. Ceolin, Destinazione, cit., 103 ss.), si dovrebbe comunque escludere la rilevanza, ai nostri fini, della “costituzione” del “vincolo” in quanto effetto legale; diverso è il caso dell’assoggettamento al regime legale per effetto di apposita convenzione od altro negozio (ad es., testamento), per il quale varranno le considerazioni di cui oltre circa le categorie di atti ed effetti giuridici ai quali fare riferimento. Anche per il patrimonio fallimentare (cfr. L. Bigliazzi Geri, voce Patrimonio autonomo e separato, in Enciclopedia del diritto, XXXII, Milano, 1982, in tema di qualificazione


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Si può quindi concludere che la potenzialità normativa dell’espressione qui considerata non si estende al porsi in essere di “vincoli” previsti dalla legge (6) come effetto immediato di situazioni di fatto, a prescindere da qualsiasi manifestazione di autonomia privata (7). Il dato testuale non sembra però fornire ulteriori indicazioni per escludere dalla categoria dei “vincoli di destinazione” determinati istituti od articolazioni disciplinari esclusivamente in ragione della “fonte” degli effetti giuridici in cui il vincolo si risolve. In altri termini, non si può escludere che la dispo-

come patrimonio separato) si potrebbe sostenere la diretta derivazione dalla legge. Analoghe implicazioni potrebbero trarsi dalla disciplina dei fondi di cui all’art. 2117 c.c. (cfr. U. La Porta, Destinazione di beni allo scopo e causa negoziale, Napoli, 1994, 32 ss.). Di vincoli costituiti per legge potrebbe altresì parlarsi riguardo a vincoli condominiali (cfr. M. Ceolin, Destinazione cit., 108 ss. e la successiva nt. 19), ma si veda oltre circa la possibilità di ricondurre i vincoli condominiali nell’ambito della possibile efficacia normativa della disposizione qui considerata. (6) L’argomento testuale addietro addotto non consente, invece, di escludere dalla potenziale riferibilità della disposizione in esame la costituzione di vincoli che si pongano in essere in conseguenza di atti giuridici che i privati sono liberi di porre o meno in essere ma senza possibilità di incidere sul contenuto disciplinare del vincolo stesso, interamente predeterminato dalla legge (si è addotto l’esempio delle convenzioni che assoggettano determinati beni al regime del fondo patrimoniale, la cui disciplina è prettamente legislativa, senza – o con minimi – spazi per l’esercizio dell’autonomia patrimoniale – cfr. M. Ceolin, Destinazione, cit., 56 ss. – ma si potrebbe anche richiamare l’accettazione beneficiata dell’eredità, sulla quale cfr. la successiva nt. 7, ferma restando la necessità di accertare se l’eredità beneficiata costituisca effettivamente un patrimonio destinato ai sensi della disposizione stessa). (7) Dubbi potrebbero sorgere circa la riconduzione alla categoria degli effetti meramente legali dell’assetto complessivo dell’eredità beneficiata (sulla cui qualificazione come patrimonio separato, cfr. oltre, nt. 91). Infatti parte della dottrina (cfr., ad es., P. Lorefice, L’accettazione con beneficio d’inventario, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da Pietro Rescigno, 2° ed., I, Padova, 2010, 333 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2002, I, 175 ss.) qualifica l’intera serie di atti e formalità necessari al prodursi del beneficio come procedimento; per altre ricostruzioni, incentrate soprattutto sulla qualificazione della redazione dell’inventario come onere per evitare la decadenza (cfr., ad es., L. Ferri, Successioni in generale, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1964, sub art. 484, 270 ss.; A. Ravazzoni, voce Beneficio d’inventario, in Enciclopedia giuridica, Roma, 1988, 1 ss.), l’effetto proprio del beneficio consegue al verificarsi di una fattispecie complessa, costituita dall’atto (cui si riconosce natura negoziale – per taluni negozio complesso, perché inclusivo dell’intento di acquisire l’eredità e di quello di ottenere il beneficio – cfr. L.V. Moscarini, voce Beneficio d’inventario, in Enciclopedia del diritto, V, Milano, 1999, 124 ss.) e dall’inventario (operazione materiale che può seguire o precedere l’accettazione con beneficio – cfr. C. Vocino, voce Inventario, diritto civile, in Nov. Dig. It., IX, Torino, 1963, 20).


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sizione qui esaminata riguardi determinati vincoli solo perché costituiti con provvedimento amministrativo (8), sentenza od altro atto del giudice (9). Ugualmente irrilevante, a questi fini, parrebbe la struttura dell’atto che costituisce il vincolo: si tratti di atto unilaterale (10), contratto o convenzione bi- plurilaterale, non si può escludere, in linea di principio, la sussistenza della “costituzione” di un vincolo di destinazione. Maggior rilievo potrebbe invece assumere la relazione sussistente fra i diversi effetti dell’atto. Ove si individuino, nell’ambito degli effetti stessi,

(8) In realtà la dottrina (cfr. A. Fusaro, voce Destinazione (vincoli di), in Digesto delle discipline privatistiche, Sez. civile, Torino, 1989, 322 ss.; A. Buonfrate, voce Patrimonio destinato e separato, in Digesto delle discipline privatistiche, Sez. civile, Torino, 2007, 879) sembra considerare vincoli legali (indiretti) anche quelli la cui costituzione è mediata da un atto amministrativo (questi autori fanno riferimento al saggio di A.M. Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione di vincoli paesaggistici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, ora in Scritti giuridici, VI, Napoli, 1990, 441 ss., in part. 449 ss., che tuttavia, pur trattandone congiuntamente, distingue i vincoli imposti direttamente da disposizioni normative, e perciò in via generale ed astratta, da quelli imposti mediante provvedimenti particolari o mediante atti di diritto privato). Mi parrebbe più congruo distinguere i casi in cui l’atto amministrativo (ma anche il provvedimento del giudice) ha la sola funzione di accertare la sussistenza di elementi fattuali previsti dalla legge (ed allora parrebbe preferibile parlare di vincolo legale) da quelli in cui il provvedimento esprime poteri di valutazione ed apprezzamento (ed il vincolo non può dirsi propriamente “legale”, ma, al più, “non convenzionale”), ferma restando la necessità di accertarne comunque la rilevanza ai nostri fini sotto gli altri profili più oltre presi in esame. (9) Il tenore letterale del citato comma 53 non include esplicitamente né i provvedimenti amministrativi né quelli dei giudici; stante l’ampia potenzialità espansiva dei possibili significati delle espressioni “atti pubblici” e “atti a titolo gratuito” ivi riportate, sembra che l’elemento testuale risulti qui meno conclusivo. La sussistenza di una “costituzione di vincolo di destinazione” ai sensi della disposizione in esame potrà naturalmente essere esclusa per le ulteriori ragioni in appresso considerate. (10) È discussa (cfr. A. Fusaro, Le posizioni dell’accademia nei primi commenti dell’art. 2645 ter c. c., in Negozio di destinazione, verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, Quaderni della Fondazione italiana per il notariato, 2007, 35) la possibilità di assoggettare beni al vincolo di destinazione di cui all’art. 2645 ter con atto unilaterale (cfr., a favore di tale possibilità, M. Bianca, D’Errico, De Donato, Priore, L’atto notarile di destinazione, Milano, 2006, 11 ss.; G. Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione e pubblicità nei registri immobiliari, in Riv. dir. civ., 2002, I, 335 ss.; contra F. Gazzoni, La trascrizione cit., I, t. 2, 196 ss.; M. Ceolin, Destinazione, cit., 158 ss.; distingue gli atti destinatori con effetto di separazione nel patrimonio del disponente, che ritiene possano essere unilaterali in ragione della causa sottostante, da quelli con trasferimento ad un gestore, necessariamente contrattuali, U. Stefini, Destinazione, cit., 87 ss.); parrebbe invece possibile includere beni nel patrimonio destinato di un trust mediante atto unilaterale.


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le correlazioni tipiche degli assetti onerosi (11), l’inserimento della formula “costituzione di vincoli di destinazione” in un testo normativo specificamente rivolto alla “reintroduzione” di una autonoma imposta sulle successioni e donazioni, dovrebbe, a mio avviso, implicare l’esclusione, dall’ambito delle fattispecie cui la formula stessa può essere riferita, di assetti negoziali onerosi (12), stante la relazione di reciproca esclusione fra le aree di operatività delle imposte di registro e sulle successioni e donazioni determinatasi con la riforma degli anni ’70 del secolo passato, quando le liberalità furono sottratte all’applicazione della prima ed assoggettate alla seconda (13). A questa con-

(11) Intendendo per tali non solo le relazioni di scambio, in senso proprio, ma anche il semplice collegamento fra vantaggi e svantaggi per ciascuno dei soggetti interessati; la nozione di onerosità assume un notevole rilievo in ambito fiscale ed è espressamente richiamata in disposizioni di particolare significato sistematico (ad es., nell’art. 9, c. 5, T.U.I.R.); in dottrina è ancora aperto il dibattito fra chi identifica l’onerosità rilevante ai fini fiscali con il solo sinallagma contrattuale e chi, come me, ritiene doversi fare riferimento alla più ampia nozione sopra richiamata (per un approfondimento a più ampio raggio della tematica cfr. le ricerche raccolte in Corrispettività, gratuità ed onerosità, a cura di V. Ficari e V. Mastroiacovo, Torino, 2014, e, per qualche ulteriore considerazione, A. Fedele, in Riv. dir. trib., 2015, I, 195 ss., a proposito della datio in solutum. Per il riferimento alle categorie dell’onerosità e della liberalità ai fini della riconduzione delle singole vicende negoziali ed effettuali all’ambito di operatività del registro o dell’imposta sulle successioni e donazioni cfr. A. Fedele, Le innovazioni nella legge n. 342 del 2000, la ratio del tributo: I rapporti con l’imposta di registro, in L’ imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, 61 ss.; Id., Il regime, cit., 594 ss.. Sull’onerosità o gratuità dei diversi trusts (ma in funzione della disciplina dell’azione revocatoria) cfr., da ultimo, Cass. Sez. III, sentenza 29.5.2018, n. 13388/2018 e ord. 19.4.2018, n. 9637, in Foro it., 2018, I, !, 3136 ss., con nota di M. Lupoi. (12) Cfr., ad es., F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 2, 195 e 200 ss., che esclude l’operatività dell’art. 2645 ter in relazione ad assetti negoziali onerosi; sembra però che non si possano escludere effetti destinatori in contesti onerosi, se non altro con riferimento alle figure del trust solutorio o del trust di garanzia: in simili ipotesi (e sempre che non si contesti la sussistenza, nei trusts, di sufficienti livelli di separazione patrimoniale, in termini di opponibilità ai terzi; per una, polemica, ricostruzione delle posizioni della dottrina cfr. ancora F. Gazzoni, La trascrizione cit., I, 2, 467 ss., in part. 488 ss.) potrebbe dunque porsi il problema della riconducibilità di vicende latamente onerose alla previsione, nel contesto in cui è inserita, delle “costituzioni di vincoli di destinazione”. Sulle possibili giustificazioni causali delle destinazioni patrimoniali cfr. U. La Porta, Destinazione cit., passim; U. Stefini, Destinazione, cit., 53 ss., in part. 70 ss. (13) Il riferimento, nel comma 47 dell’art. 2 L. n. 286/2006, ai “trasferimenti di beni e diritti” “per donazione o a titolo gratuito”, se raffrontato con l’espressione “per donazione o altra liberalità tra vivi” contenuta nel primo comma dell’art. 1 D.lgs. n. 346/1990, non esclude la sussistenza del “confine” fra gli ambiti di applicazione dei due tributi, spostandolo, secondo la dottrina dominante, al limite, appunto, della gratuità che lascia comunque nell’area del registro gli atti “onerosi”. Sulla distinzione fra atti a titolo gratuito e liberalità cfr. A. Torrente, La


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clusione potrebbe obiettarsi, secondo un indirizzo interpretativo che sembra emergere in talune recenti pronunzie della Cassazione (14), che l’espressione “costituzione di vincoli di destinazione” non si pone, nel testo succitato, come specificazione della disciplina dei “trasferimenti”, ma definisce un nuovo ed autonomo presupposto d’imposta, non condizionato, nella sua delimitazione, dall’”ambiente” testuale in cui è inserita. Come preciserò più oltre (15), l’argomento è difficilmente sostenibile, visto che l’unica possibile disciplina cui fare riferimento per l’imposizione delle pretese nuove ed autonome fattispecie imponibili è proprio quella del tributo sulle successioni e donazioni, ma, se accolto, costituirebbe un’implicita ammissione dell’estrema “vaghezza” (al limite della totale indeterminazione (16)) della formula in esame, se non integrata nel contesto sistematico. Ritengo quindi che si debbano escludere dal novero dei fenomeni cui può riferirsi l’espressione in esame, tutti gli assetti “onerosi” (17), o meglio, e più precisamente, tutti gli assetti non liberali (18). Infine, ci si potrebbe chiedere se l’idea stessa della “costituzione” di un vincolo di destinazione non implichi una qualche delimitazione dell’ambito

donazione, Milano, 1956, 39 ss. e 205 ss.; U. Carnevali, voce Liberalità, in Enciclopedia del diritto, XXIV, Milano, 1974, 216 ss.. Per il rilievo che “trasferimenti” “a titolo gratuito” non possono che essere “liberali” (e pertanto la diversa terminologia impiegata non muta il significato dell’espressione) cfr. A. Fedele, Il regime cit., 592 ss. Insomma, sembra ancora permanere la relazione, di incompatibilità e reciproca esclusione, fra i presupposti del tributo di registro (a mio avviso riconducibili all’unitaria ratio che assume ad indici di capacità contributiva le modificazioni patrimoniali “qualitative”) e del tributo sulle donazioni e successioni (la cui ratio ispiratrice individua piuttosto gli incrementi patrimoniali liberali, dunque modificazioni “quantitative”). (14) Cfr., per i riferimenti, la successiva nt. 59. (15) Cfr. il successivo n.1.7, in cui si porrà meglio in luce che la considerazione “isolata” della formula in esame, aumentandone la “vaghezza”, porta ad ampliare sensibilmente la sua potenziale valenza normativa, ma accresce correlativamente la difficoltà di individuare un razionale criterio di riparto (un indice di capacità contributiva) che giustifichi la più ampia e variegata gamma di fatti imponibili che si potrebbero individuare. (16) E quanto mai problematica, vista l’attitudine del preteso autonomo tributo sulla costituzione dei vincoli a concorrere con le imposte sui trasferimenti della ricchezza (in generale con tutte le imposte indirette) evitando, in virtù dell’intrinseca diversità, ogni limite derivante dal divieto di doppia imposizione, che presuppone l’identità del tributo più volte applicato. (17) Includendo in essi, come meglio specificato al successivo n. 1.7., non solo gli atti in sé onerosi, ma anche i complessi di più atti fra loro collegati per la produzione di effetti correlati che si risolvono in incremento e decremento dei patrimoni delle parti. (18) In tema di atti “neutri” (rispetto ad un’alternativa onerosità-gratuità) cfr. la successiva nt. 120.


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di riferimento con riguardo ai profili funzionali e “promozionali” del destinare ad uno scopo, in quanto rivolto ad un intervento “innovativo” sulla realtà (sulla situazione) preesistente (19). Resterebbero, ad es., in certo qual modo estranee a questi aspetti del destinare le funzioni, tipicamente “conservative”, di taluni istituti cui si fa talvolta riferimento, anche sottolineandone le differenze con le più tipiche destinazioni patrimoniali (20). Si deve ora passare all’esame delle diverse tipologie di effetti giuridici di cui consistono i “vincoli di destinazione”. 1.2. Le diverse modalità giuridiche della “destinazione”. – Il “vincolo di destinazione” si identifica con un assetto giuridico (21) per cui determinati beni o diritti, ovvero anche un complesso patrimoniale (inclusivo eventualmente di componenti attive e passive), devono essere esclusivamente dedicati al conseguimento di uno specifico scopo (22), alla soddisfazione di un dato

(19) Sul “destinare” come categoria del “disporre”, alternativa all’“attribuire” (ma forse anche al “dismettere”), cfr. P. Spada, Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta, in Negozio di destinazione, percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, Quaderni della Fondazione per il notariato, 2007, 121 ss. Per una sintesi sul modello della destinazione di beni allo scopo (quindi anche sull’atto o sugli atti di destinazione) presente nel nostro ordinamento sin dall’impianto codicistico e via via arricchito da interventi legislativi cfr. M. Bianca, L’emersione del modello della destinazione dei beni allo scopo, in Dal trust all’atto di destinazione patrimoniale. Il lungo cammino di un’idea, Quaderni della fondazione italiana per il notariato, 2013, 74 ss. In tema di destinazione come scelta delle possibili utilizzazioni di un bene in relazione ad una particolare finalità cfr. A. Fusaro, Destinazione, cit., 323 e la dottrina ivi citata. Non mi parrebbe, invece, decisiva la distinzione fra vincoli attinenti il modo (di uso dei beni) e vincoli attinenti lo scopo (cfr. R. Dicillo, voce Atti e vincoli di destinazione, in Digesto discipline privatistiche, Sez. civile, Aggiornamento, Torino, 2007, 153), giacché la disciplina delle modalità d’uso può ben essere funzionale ad uno scopo. Sulla problematicità delle classificazioni dei vincoli cfr. ancora A. Fusaro, Destinazione, cit., 323 ss. (20) Si pensi all’eredità giacente (artt. 528 ss. c.c.), che, in quanto effetto puramente legale, non è, ai nostri fini, rilevante, ai beni o patrimoni oggetto di vocazione ereditaria sospensivamente condizionata (art. 641 c.c.) o a favore di nascituri, concepiti o meno (art. 643 c.c.), ovvero oggetto di donazione a favore dei medesimi (art. 784 c.c.); di tutte queste discipline si sottolinea, a livello sistematico, la funzione “conservativa” (cfr., ad es., F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Milano, 1962, 473, che qualifica però l’eredità giacente patrimonio autonomo; A. Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 1977, 543 ss.). (21) Sulla plurima valenza del termine “vincolo” (impegno, legame-ostacolo ed impedimento) cfr. A. M. Sandulli, Natura cit., 442 ss.; A. Fusaro, Destinazione cit.,322 ss.; A. Buonfrate, Patrimonio, cit., 878 ss. (22) Sul rapporto fra separazione (articolazione) patrimoniale e funzione cfr., ad es., P. Spada, Persona giuridica ed articolazione del patrimonio, in Riv. dir. civ., 2002, 847 ss..


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interesse. Come è evidente, l’assetto giuridico in questione può essere realizzato con diverse modalità (23). In primo luogo, l’intera disciplina della destinazione può essere inclusa nel contenuto di un unico rapporto giuridico, nel quale si compendiano facoltà, divieti, doveri ed oneri ordinati alla realizzazione dello scopo, alla soddisfazione dell’interesse, che il vincolo tutela. Tuttavia, la sola articolazione di regole di comportamento, per loro natura riferibili esclusivamente a determinati soggetti, non esclude che i beni e diritti siano sottratti alla realizzazione dello scopo o alla soddisfazione degli interessi cui sono destinati per effetto di un trasferimento, volontario o coattivo, ad altri soggetti (24). La soluzione

Lo “scopo” prefigura normalmente un’attività (che strutturalmente è organizzazione); tuttavia un’attività può talvolta mancare (come nelle servitù) od assumere un diverso rilievo; sui rapporti fra destinazione ed attività cfr. A. Di Maio, Responsabilità e patrimonio, Torino, 2005, 74. (23) I riferimenti a diversi istituti e discipline qui effettuati non implicano necessariamente la loro inclusione nella categoria riconducibile all’espressione in esame (come vedremo, gran parte delle discipline e dei caratteri richiamati dovrebbero, a mio avviso, risultare estranei al potenziale significato giuridico dell’espressione, nel contesto in cui è inserita), ma servono ad individuare tratti disciplinari e caratteristiche strutturali dei quali si discute la necessità per l’inclusione nella categoria o la compatibilità con l’inclusione stessa. (24) È quanto accade per i c. d. “vincoli obbligatori” (cfr. M. Ceolin, Destinazione, cit., 131 ss.; U. Stefini, Destinazione cit., 10 ss.; circa il rapporto tra patto di non alienare e vincoli di destinazione cfr. A. Fusaro, Patto di non alienare, in Digesto delle discipline privatistiche, Sez. civ., XIII, Torino, 1995, 319); cfr. però, in materia di vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c., F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 2, 184 ss., che afferma la natura sostanzialmente obbligatoria del vincolo; come preciserò più oltre, ai fini della rilevanza fiscale degli effetti destinatori sembra sufficiente l’inerenza al bene destinato conseguente alla separazione ed alla sua opponibilità; tali effetti, oltre ad escludere azioni esecutive per l’adempimento di obbligazioni non funzionali allo scopo destinatorio, includono una disciplina della gestione ed uso del bene in coerenza con lo “scopo” che, ove non segua il bene in eventuali trasferimenti, è integrata (nelle gestioni “dinamiche”, in quanto prevedono la sostituzione dei singoli beni e diritti se necessaria od utile al perseguimento dello scopo stesso) da regole “opponibili” (in termini di invalidità-inefficacia degli atti) anche ai terzi, che garantiscono una corretta valutazione delle ragioni che impongono l’uscita del bene dal vincolo. Sulla possibilità di includere fra i “vincoli di destinazione” di cui all’art. 2, c. 47 e 48, L. n. 286/2006, i vincoli meramente “obbligatori” (perché non corredati da separazione patrimoniale) cfr. oltre, n. 1.3. In questa sede si può solo rilevare che la nozione di vincolo di destinazione assume una specifica connotazione se riferita oggettivamente a beni e diritti, ma, in questa accezione, esclude la possibilità che l’eventuale assoggettamento ad azione esecutiva sottragga l’oggetto del vincolo alla destinazione prevista (si noti che, per i vincoli “meramente obbligatori”, è per lo meno discutibile una responsabilità da inadempimento del soggetto obbligato alla destinazione se assoggettato ad esecuzione forzata). Insomma, il vincolo di destinazione “meramente obbligatorio” resta assoggettato alla generale disciplina fiscale delle vicende degli effetti obbligatori.


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più semplice del problema consiste pertanto nell’assicurare l’inerenza di quel complesso di regole al bene destinato, includendole nel contenuto di un diritto reale tipico, come la servitù (25), ovvero mediante la previsione di oneri reali

Analoghe considerazioni possono riferirsi alle ipotesi di modus disposti con l’intento di assicurare determinate destinazioni di beni o patrimoni a specifici scopi; infatti la disciplina dell’onere (artt. 647 ss. e 793 c.c.) prevede esclusivamente effetti obbligatori per l’onerato e non si manifestano fenomeni di inerenza ai beni o di separazione patrimoniale. (25) Sulla qualificazione delle servitù come vincoli di destinazione del fondo servente al servizio del fondo dominante cfr. M. Ceolin, Destinazione, cit., 88 ss.; U. Stefini, Destinazione, cit., 17; per un cenno ai rapporti fra destinazione e servitù cfr. anche F. Gazzoni, La trascrizione, cit, I, 1, 185 ss.; per il riferimento alla sostituzione fedecommissaria cfr. U. La Porta, Destinazione, cit., 8 e 35; in questa prospettiva, si potrebbero anche rilevare eventuali profili destinatori nell’enfiteusi, se il miglioramento del fondo potesse essere assunto a “scopo” perseguito (ma va notato che l’atto costitutivo dell’enfiteusi è necessariamente oneroso, stante l’essenziale corrispettività delle prestazioni), e forse all’abitazione ed all’uso, se si ritenesse rilevante la destinazione all’utilizzazione diretta da parte del titolare (e, per l’uso, dei familiari); per la riconduzione alla categoria dei “limiti” al diritto cfr. L. Bigliazzi Geri, Oneri reali ed obbligazioni propter rem, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1984, 39 ss. e 85 ss.; si è poi affermata la possibilità di individuare vincoli di destinazione opponibili ai terzi (e forse non risolti in mera limitazione e conformazione della proprietà) ma non corrispondenti a diritti reali (è il caso della destinazione della casa familiare ad abitazione del coniuge e dei figli: cfr. F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 1, 359 ss.; M. Bianca, Atto negoziale, cit., 223).


Dottrina

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od obligationes propter rem (26) (27).

(26) Per l’identificazione e le caratteristiche di tali situazioni giuridiche soggettive cfr. L. Bigliazzi Geri, Oneri, cit., 2 ss., ove ampi riferimenti; A. Fusaro, voce Obbligazioni propter rem ed onere reale, in Digesto delle discipline privatistiche, Sez. civ., XII, Torino, 1993, 390 ss.; qualifica, ad es., come oneri reali i vincoli paesistici che comportano doveri di comportamento positivi A.M. Sandulli, Natura cit., 447 ss.. Alla figura dell’onere reale – e, alternativamente, dell’obligatio propter rem – fa spesso riferimento la giurisprudenza per inquadrare i c. d. vincoli di destinazione in ambito condominiale (cfr., ad es., F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 2, 184, 187; U. Stefini, Destinazione, cit., 17, nt. 41). In effetti nel condominio degli edifici va innanzi tutto distinta la categoria delle “parti comuni”, per loro natura destinate al servizio dell’edificio stesso (artt. 1117 ss. c.c.), per la quale può parlarsi di vincolo di destinazione (cfr. M. Ceolin, Destinazione, cit., 108 ss.), ma riconoscendone l’origine “legale”, mentre all’autonomia privata (titolo) può essere riconosciuta la possibilità di includere fra le parti comuni un bene o di “distrarlo” dal vincolo, vincendo la presunzione di cui all’art. 1117 c.c. (ma, parrebbe, nel presupposto dell’obiettiva idoneità o inidoneità del bene stesso al “servizio” rispetto all’edificio). Quanto ai beni di proprietà esclusiva di uno dei condomini (o anche di un terzo), la destinazione al servizio dell’edificio può risolversi in servitù (di fonte convenzionale), ma, non consentendo la disciplina di questo istituto l’imposizione al proprietario del fondo servente di doveri positivi di comportamento (obblighi di facere), la giurisprudenza è spesso indotta a ricorrere alla figura dell’onere reale o dell’obligatio propoter rem per assicurare l’inerenza al bene di doveri siffatti; la soluzione appare tuttavia pregiudicata dal principio di tipicità dei diritti reali, che la giurisprudenza stessa non sembra disposta a superare totalmente (cfr. M. Ceolin, Destinazione, cit., 111 ss., che propende per una netta distinzione tra servitù e rapporti meramente obbligatori, ma, parrebbe, ammettendo la possibilità di individuare il soggetto passivo di questi ultimi nei proprietari del bene “vincolato”, con il che si tornerebbe allo schema dell’obligatio propter rem; cfr. anche L. Bigliazzi Geri, Oneri, cit., 59 ss., favorevole al riconoscimento di obligationes propter rem, non di oneri reali, atipiche; per un’esemplificazione circa ipotesi in cui sussisterebbe la necessaria previsione legislativa cfr. ancora F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 1, 517 ss., che richiama gli artt. 1030 e 1069 c.c., ammettendo però la difficoltà di distinguere le pretese autonome obbligazioni dalla disciplina del contenuto della servitù). In tema di multiproprietà cfr. U. Morello, Multiproprietà ed autonomia privata, Milano, 1984, 75 ss., ove un approccio sistematico al tema della tipicità e del numero chiuso dei diritti reali. (27) Si potrebbe forse discutere (cfr., ad es., U. Stefini, Destinazione, cit., 17 e 19 ss.) la possibilità di riferire la nozione stessa di “vincolo” come inerenza al bene di uno specifico regime anche ai diritti reali di garanzia (cfr., ad es., gli artt. 2808, c. 1, e 2809, c. 2, c.c.), che parrebbero però risolversi soprattutto in soggezione a facoltà ed azioni del creditore garantito, piuttosto che in destinazione ad attività funzionalizzate ad uno scopo (ma si veda, ad es., l’art. 2791 c.c.). Comunque la costituzione di diritti reali di garanzia è espressamente disciplinata ai fini dell’applicazione delle imposte sui trasferimenti (cfr. art. 6 Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, 1 e 3 D.Lgs. n. 147/1990 e 6 e ss. Tariffa allo stesso allegata), quindi è da escludere una sua autonoma rilevanza come “costituzione di vincolo”. Sull’iscrizione in separazione cfr. oltre nt. 91.


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Altrimenti, l’inerenza della destinazione al bene può essere realizzata configurando le regole in cui essa si esprime alla stregua di limitazioni al diritto di proprietà (28), opponibili ai terzi, come avviene per i “vincoli” (29) di cui all’art. 2645 quater c.c. (30). Queste modalità di realizzazione del vincolo di destinazione possono però operare solo per determinate categorie di beni (in pratica solo gli immobili) e per la soddisfazione di interessi di regola predeterminati dalla legge (31). Laddove si intendano vincolare altri beni, od interi complessi patrimoniali, per il conseguimento di scopi e la soddisfazione di interessi non necessariamente previsti per legge, anche se meritevoli e non in contrasto con essa, la soluzione tradizionalmente fornita dagli ordinamenti di civil law consiste nell’istituzionalizzazione di una struttura organizzativa ordinata alle funzioni suddette, imputando agli organi gestionali dell’organizzazione stessa doveri, obblighi, limiti alle facoltà di indirizzo dell’attività e di disposizione patrimoniale funzionali e necessari al conseguimento dello scopo prescelto. La destinazione patrimoniale si realizza, in tal caso, con l’attribuzione all’organizzazione, cui l’ordinamento riconosce personalità giuridica (come, ad es., per le fondazioni o le associazioni riconosciute) o comunque autonomia patrimoniale (come,

(28) Cfr. L. Bigliazzi Geri, Oneri, cit., 26 ss.; L. Bullo, Separazioni, cit., 31 ss.; per parte della dottrina (cfr., ad es. R. Quadri, La destinazione patrimoniale, Napoli, 2004, 295 ss.) il vincolo di destinazione si risolve sempre in conformazione della proprietà che mi sembra, invece, riscontrabile solo nelle limitate ipotesi di cui al testo. Sull’inclusione nella proprietà, in quanto diritto soggettivo complesso, di limiti ed obblighi cfr., ad es., M. Comporti, Contributo allo studio del diritto reale, Milano, 1977, 65 ss. (29) “A favore dello Stato, delle Regioni, di enti territoriali ovvero di enti svolgenti un servizio di interesse pubblico” (cfr. F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 1, 223 ss.; per l’avvicinamento alle figure dell’onere reale o dell’obligatio propter rem cfr. anche L. Bigliazzi Geri, Oneri, cit., 77 ss.). (30) Si potrebbe configurare come vincolo consistente in limitazioni alle facoltà del proprietario opponibili ad aventi causa e terzi anche l’assetto conseguente alla cessione di cubatura ex art. 2643, c. 1, n. 2 bis, c.c. (cfr. F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 1, 205 ss.; per qualche considerazione circa il regime fiscale dei negozi dispositivi di “cubatura” cfr. C. Simone, La prassi negoziale della cessione di cubatura, in Corrispettività, onerosità e gratuità, profili tributari, Torino, 2014, 307 ss.), ma in tal caso è identificabile una situazione giuridica di vantaggio per il “cessionario”. Si spiega quindi la discussione sull’assoggettabilità ad imposta proporzionale di registro, che implica la rilevanza dell’effetto derivativo-costitutivo del nuovo diritto, e l’irrilevanza fiscale delle limitazioni alla proprietà secondo lo schema di cui al successivo punto 1.4. (31) Sia pure rimettendo ai privati margini rilevanti di autonomia, come nel caso delle servitù.


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ad es., per le associazioni non riconosciute od i comitati), la proprietà dei beni o la titolarità dei diritti che si intendono, appunto, dedicare allo scopo prefissato all’organizzazione (32). Il vincolo si risolve qui nella funzionalizzazione dell’attività, che assicura l’utilizzazione di beni e diritti per lo scopo previsto, orienta l’eventuale loro alienazione alle sole ipotesi in cui essa risulti funzionale allo scopo stesso, fa si che a quest’ultimo siano sempre inerenti le obbligazioni assunte (33). Rispetto alla già accennata soluzione che risolve il vincolo in un diritto reale sul bene, questa seconda modalità di attuazione fa si che la destinazione non operi solo per i beni di cui originariamente si dota l’organizzazione, ma permanga costantemente per l’intero suo patrimonio, estendendosi ai nuovi acquisti e cessando automaticamente con eventuali alienazioni, se poste in essere con l’osservanza di regole e limiti istituzionali che assicurano la coerenza dell’atto con lo scopo prefissato. Infine, il “vincolo di destinazione” può essere imposto combinando l’assunzione, da parte di un soggetto gestore (34), di doveri, obblighi e limitazioni

(32) L’elaborazione teorica sui rapporti fra destinazione patrimoniale e soggettivazione della struttura organizzativa di un’attività istituzionalizzata, cui imputare un patrimonio, è praticamente infinita: per sintetici cenni cfr. M. Ceolin, Destinazione, cit., 293 ss.; sui rapporti fra destinazione dei beni allo scopo e fondazione cfr. A. Fusaro, voce Fondazione, in Digesto delle discipline privatistiche, Sez. civ., VIII, Torino, 1992, 363 ss. Per la riconduzione alla categoria della “destinazione” delle attribuzioni di beni a soggetto dotato di personalità giuridica od autonomia patrimoniale cfr. U. Stefini, Destinazione, cit., 12 ss., che la classifica come “prima” tipologia di destinazione. In questa sede sembra utile rilevare che la tecnica della soggettivazione, concentrando il profilo della destinazione nella disciplina dell’attività istituzionalizzata, attenua la rilevanza del rapporto fra singolo bene o diritto e scopo perseguito; beni e diritti sono “destinati” in quanto e sin tanto che la loro titolarità spetti al soggetto, personificato od autonomo; vengono meno i profili di necessaria inerenza della disciplina destinatoria al bene, che risulta destinato per effetto del mero “trasferimento” all’ente e cessa di esserlo con l’alienazione. (33) Sembra frequente in dottrina l’individuazione in questi casi di fenomeni di limitazione o conformazione del diritto di proprietà sui beni vincolati (cfr. R. Quadri, La destinazione, cit., 295 ss.), che non parrebbero tuttavia necessari, stante l’accennata funzionalizzazione dei poteri degli organi cui è affidata la gestione del patrimonio (cfr. G. Gabrielli, Vincoli, cit., 330 ss.). (34) Cui potrà anche riferirsi, in ragione della complessità degli scopi o dell’entità del patrimonio, un’organizzazione, ma resterà pur sempre titolare delle situazioni giuridiche che realizzano la destinazione. Questo schema effettuale si riscontra, innanzi tutto, nelle molteplici configurazioni dei trusts, cui ha riguardo la L. 16.10.1989, n. 364, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Aja 1.7.1985 (cfr. M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trusts e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008), ma appare anche in molteplici altri istituti e discipline tipiche dell’ordinamento italiano (in parte richiamati nella L. n. 112/2016), al cui regime fiscale è dedicato il successivo punto 1.6.


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ai poteri dispositivi (così che il suo agire risulti funzionalizzato al conseguimento dello scopo od alla soddisfazione dell’interesse prescelti) con la “separazione” di determinati beni o diritti, oppure di un certo complesso patrimoniale, dal residuo patrimonio del soggetto che ne era originariamente titolare o che tale divenga per effetto di un trasferimento “strumentale” alla destinazione; per effetto della separazione i beni, i diritti od il patrimonio destinati, in deroga all’art. 2740 c.c., forniscono garanzia patrimoniale alle obbligazioni assunte per il conseguimento dello scopo o la soddisfazione dell’interesse designati e non possono subire esecuzione forzata per l’adempimento di altre obbligazioni, che comporterebbe una non prevista sottrazione al vincolo. Il patrimonio, o le sue componenti separate, risultano altresì insensibili a vicende circolatorie “necessarie”, come la successione per causa di morte del titolare, che potrebbero anch’esse determinare analoghe ipotesi di rimozione del vincolo (35). 1.3. Inerenza al bene ed opponibilità ai terzi come caratteri necessari del “vincolo”: l’esclusione dei vincoli “obbligatori”. – A questo punto è possibile tornare all’esame del possibile significato della formula “costituzione di vincoli di destinazione” nel contesto normativo in cui è stato inserito. Una prima considerazione potrebbe riferirsi all’impiego del termine “costituzione”, che, nella disciplina delle imposte sui trasferimenti (36), indica,

(35) Sui rapporti fra destinazione e separazione cfr. M. Bianca, Atto negoziale, cit., 210 ss. Sembra evidente, in questi casi, un più stretto collegamento di tutta la disciplina destinatoria ai singoli beni o diritti destinati, un più evidente profilo di inerenza, che richiede specifici atti costitutivi del vincolo ed adeguate forme di pubblicità dell’avvenuta sua costituzione o cessazione (cfr. U. Stefini, Destinazione, cit., 13 ss., che configura questa come “seconda” tipologia di destinazione; prende in considerazione solo le tecniche della soggettivazione e della separazione patrimoniale P. Laroma Jezzi, Separazione patrimoniale e fattispecie impositiva: il rilievo del vincolo di destinazione nella fiscalità diretta, in Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, Quaderni della Fondazione per il notariato, 2007, 194 ss.). Quando la separazione attiene non a singoli beni o diritti ma ad un complesso di essi, l’inerenza si manifesta rispetto a ciascuna delle componenti, che resta assoggettata al vincolo destinatorio anche in caso di alienazione non coerente con lo scopo perseguito. Solo nei casi in cui la destinazione richiede od ammette l’alienazione i beni e diritti alienati secondo le regole gestionali del patrimonio separato sono liberati dal vincolo, cui eventualmente soggiacciono i beni e diritti acquistati in corrispettivo o con il reimpiego del prezzo ricavato. (36) Si vedano, ad es., gli artt.: 2, c. 1, lett. d), 29, 43, c. 1, lett. a) del D.P.R. n. 131/1986, 1 (richiamato dall’art.2) e 8, c.1, lett.a), Parte prima, Tariffa allegata al D.P.R. stesso (minor interesse presentano i riferimenti – artt. 4, 11 bis e 11 ter della stessa Parte prima, 11 quater Tabella – alla “costituzione” di società ed enti, che pure è effetto “reale”); 1, c. 2, D.Lgs. n.


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di regola (37), la nascita (la costituzione, appunto) di effetti “reali”, dei quali parrebbe ai nostri fini rilevare, più dell’immediata attitudine alla soddisfazione dell’interesse tutelato, a prescindere dalla, pur doverosa, collaborazione da parte di soggetti diversi dai portatori degli interessi stessi (in qualche modo riferibile anche ai diritti personali di godimento), l’inerenza al bene e l’opponibilità (38). D’altronde, nel sistema dell’imposizione dei trasferimenti, la produzione, anche a titolo gratuito, di effetti non reali ma obbligatori e non attributivi di un incremento patrimoniale certo (39), rileva ai fini dell’appli-

346/1990; 10 D.Lgs. n. 347/1990, 1, 1 bis e 4 Tariffa allegata. Si può anche richiamare l’art. 2, c.1, D.P.R. n. 633/1972. (37) Il termine “costituzione” è in effetti riferito anche agli atti che dispongono pensioni e rendite, che, se non garantite da ipoteca o pegno, presentano ormai scarsi o nulli profili di inerenza e/o facoltà di diretta soddisfazione da parte del titolare. Si tratta probabilmente di un residuo dell’antica concezione della rendita come diritto “reale”, gravante su di un bene, che ne garantiva la prestazione, dovuta comunque dal proprietario. Questa concezione è definitivamente superata nel nostro codice civile, che risolve la garanzia della rendita perpetua in ipoteca immobiliare, legale (ex art. 2817,c. 1, n.1 c.c.) nella rendita fondiaria, volontaria (art. 1864 c.c.) nella rendita semplice, e nega anche nella rendita fondiaria l’inerenza all’immobile dell’obbligazione alla prestazione perpetua, cfr. L. Bigliazzi Geri, Oneri, cit., 15 (ultimo residuo dell’antica inerenza sarebbe la previsione dell’art. 668 c.c., sicuramente eccezionale e che non esclude la concorrente responsabilità dell’erede, secondo le regole ordinarie della circolazione delle obbligazioni). (38) Per una concezione della realità che prescinda dai profili dell’assolutezza, ma si colleghi all’inerenza alla cosa in termini di opponibilità e di diritto di seguito cfr. M. Comporti, Contributo, cit., 137 ss. Ed in effetti è proprio all’opponibilità ed al diritto di seguito che si deve aver riguardo ai fini di un’adeguata tutela giuridica alla “destinazione” di beni e diritti. Poiché il vincolo destinatorio può sicuramente essere esteso oltre l’ambito delle cose materiali, cui, secondo il Comporti, dovrebbe limitarsi la possibilità di costituire diritti reali, il profilo della realità come inerenza andrebbe però, ai nostri fini, esteso anche all’area dei beni immateriali e, tramite la tipica opponibilità delle separazioni patrimoniali, a tutti i diritti a contenuto patrimoniale. (39) Incremento, invece, sicuramente prodotto dalle donazioni “obbligatorie” di denaro o di rendite periodiche in denaro o beni, soggette all’imposta sulle donazioni. La tesi prevalente in dottrina, per cui gli effetti obbligatori sono idonei a realizzare liberalità solo se si tratta di obbligazioni “di dare” (cfr. U. Carnevali, Liberalità, cit., 216 ss.) potrebbe spiegare le ragioni sostanziali del riparto fra gli ambiti di operatività del registro e dell’imposta sulle successioni e donazioni. Per una più aggiornata sintesi circa la rilevanza di arricchimento del beneficiario e depauperamento del disponente nell’identificazione delle liberalità cfr. R. Perchiunno, Il contratto di donazione, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da Pietro Rescigno, II ed., 2, Padova, 2010, 386 ss.


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cazione dell’imposta di registro (40), non dell’imposta sulle successioni e donazioni (41). Si può allora concludere che la disposizione in esame non riguarda, innanzi tutto, i “vincoli di destinazione meramente obbligatori” di cui si è fatto cenno nel precedente punto 1.2. Eventuali negozi produttivi degli effetti obbligatori in questione potrebbero rilevare esclusivamente in ordine all’applicazione dell’imposta di registro, secondo la disciplina già in essere prima dell’entrata in vigore dei citati comma 47 e 48 dell’art. 2 D.L. n. 262/2006, come modificato in sede di conversione. 1.4. Il regime fiscale della costituzione di vincoli interamente risolti in diritti reali. – Quando la “costituzione del vincolo di destinazione” si risolve, integralmente ed esclusivamente, nella nascita di un diritto reale, come la servitù, il vincolo ha sicuramente natura reale; tuttavia la costituzione di diritti reali di godimento, sia essa a titolo oneroso o gratuito, è già tradizionalmente inclusa fra i presupposti delle imposte di registro, sulle successioni e donazioni, ipotecarie e catastali, nella cui disciplina le vicende derivativo-costitutive di tali diritti sono state da sempre equiparate a “trasferimenti”. Essendovi perfetta coincidenza fra gli effetti giuridici assunti a caratterizzare gli indici di capacità contributiva originari e propri delle imposte sui trasferimenti e quelli propri dei vincoli di destinazione in questa particolare accezione, appare evidente che la formula “costituzione di vincoli di destinazione” inserita nell’art.

(40) Come è dimostrato dalla permanenza, nell’art. 5 Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986, dell’espressa menzione del comodato di immobili, che è negozio essenzialmente gratuito, produttivo di effetti obbligatori, ma non di un attuale, certo e determinato incremento patrimoniale del comodatario. Si tratta della riproduzione di disposizione già esistente nei precedenti testi normativi relativi al tributo di registro, non soppressa quando le donazioni furono trasferite nell’ambito di operatività dell’imposta sulle successioni e che, in quanto lex specialis, non può dirsi tacitamente abrogata con la reintroduzione dell’imposta sulle successioni. Non interessa, in questa sede, affrontare il tema della misura dell’imposta di registro dovuta sugli atti gratuiti ad effetti obbligatori non agevolmente quantificabili in moneta, nell’alternativa fra l’applicazione dell’imposta fissa (in analogia con il citato art. 5 e comunque ai sensi dell’art. 11 tariffa) e dell’art. 9 della tariffa (con il conseguente problema della determinazione del valore dell’atto). (41) Come già accennato, l’espressione “o a titolo gratuito” è riferita, nell’art. 2, c. 47, L. n. 286/2006, ai “trasferimenti di beni e diritti”, cosicché ad integrare il presupposto del tributo non sono tutti gli atti a titolo gratuito, ma solo i “trasferimenti a titolo gratuito”, che sono liberalità. Per la dimostrazione che la nuova formulazione non altera sostanzialmente l’ambito di operatività del tributo già in precedenza definito con il D.Lgs. n. 246/1990 cfr. A. Fedele, Il regime, cit., 592 ss.


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2, c. 47 e 49 L. n. 286/2006 non può essere interpretata come previsione di una ulteriore ed autonoma (42) imposizione sugli atti costitutivi di servitù, già assoggettati alle imposte sui trasferimenti della ricchezza (43), e pertanto all’imposta di registro, se la nascita della servitù è effetto di atto (o contesto negoziale) oneroso, all’imposta sulle donazioni, in quanto “trasferimento gratuito”, quando la costituzione della servitù sia effetto di atti (o contesti negoziali) liberali (44). Le considerazioni addietro esposte con riferimento alle servitù non sono però integralmente riferibili ai casi in cui l’intera gamma di effetti costituenti il vincolo si riassume in una situazione giuridica che si pretende dotata dei caratteri della realità, come l’onere reale (45), che non è tuttavia considerato nella disciplina delle imposte sui trasferimenti (46). Come è noto, il vero proble-

(42) Dunque, stante la perfetta identità delle fattispecie, in evidente duplicazione. (43) È questo uno dei molteplici profili per i quali risulta erronea la tesi (cfr., per tutti, Cass., Sez. VI, 7.3.2016, n. 4482) che da quella formula deriva necessariamente l’introduzione di un nuovo ed autonomo presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni, rispetto al quale sarebbe irrilevante la disciplina delle altre fattispecie imponibili: appare invece evidente che quell’espressione va interpretata in funzione del contesto in cui è inserita, alla stregua dei principi di ragionevolezza, intrinseca coerenza e capacità contributiva (qui, in particolare, sub specie del divieto di doppia imposizione). (44) Cfr. il precedente n. 1.1. Si devono dunque considerare onerosi gli assetti, frequenti soprattutto con riferimento alle aree fabbricabili, alle lottizzazioni ed ai rapporti condominiali, in cui vengono in essere servitù c. d. “reciproche”, escluse pertanto dall’ambito di operatività del tributo sulle donazioni. Per l’esclusione anche degli atti “neutri” (in quanto non “liberali”) dall’ambito di operatività dell’imposta sulle successioni e donazioni cfr. oltre nt. 121. (45) Per un sintetico richiamo alla vicenda storica che, negli ordinamenti direttamente influenzati dalla codificazione francese, ed in particolare nel nostro, ha portato alla soppressione degli istituti, originati nell’età intermedia, cui si riconduce la nozione stessa di onere reale, riducendo l’eventuale residua rilevanza della categoria ad un problema di possibile “sopravvivenza” di singole figure al venir meno di assetti sistematici generali nei quali originariamente si inquadravano cfr., ad es., G. Gandolfi, voce Onere reale, in Enciclopedia del diritto, Vol. XXX, Milano, 1980, 127 ss.; cfr. anche U. Stefini, Destinazione, cit., 43 ss. Va rilevato che, comportando l’onere reale anche (o solo) doveri di comportamento positivi (obblighi di facere), la soddisfazione dell’interesse del titolare è, in ragione di tali doveri, mediata dal comportamento del soggetto tenuto ai comportamenti stessi; parrebbe qui prevalere il profilo dell’inerenza al bene, come si è visto particolarmente rilevante in tema di vincoli di destinazione. (46) Anche i meno recenti commenti alla legge di registro, che non escludono la sussistenza di oneri reali (riportandone però esemplificazioni tradizionali, di regola con riferimento a previsioni legislative ormai non più vigenti), affrontano il tema solo per i riflessi sulla determinazione dell’imponibile in caso di trasferimento del bene gravato dall’onere, non ipotizzando neppure l’applicazione dell’imposta proporzionale ad atti “costitutivi” dell’onere


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ma posto dal ricorso alla figura dell’onere reale come vincolo di destinazione attiene alla permanenza ed efficacia del principio di tipicità dei diritti reali, che richiederebbe espresse previsioni legislative, difficilmente reperibili proprio con riferimento ai casi in cui la giurisprudenza, afferma la sussistenza, appunto, di oneri reali. D’altra parte, è proprio la carenza di tipizzazione legislativa che spiega la mancata previsione degli atti costitutivi di oneri reali nella disciplina delle imposte sui trasferimenti e la difficoltà di ipotizzare “clausole di chiusura” nella disciplina dei relativi presupposti, idonea ad includere “diritti reali atipici”. Si potrebbe pertanto sostenere che anche l’espressione “costituzione di vincoli di destinazione”, in quanto inserita nella disciplina generale dei presupposti dell’imposta sulle successioni e donazioni, debba essere interpretata nel senso di ritenerne esclusi eventuali atti costitutivi di oneri reali, diritti di cui sarebbe peraltro assai difficile determinare un valore imponibile, in mancanza di qualsiasi previsione normativa (47). Agli atti costitutivi di oneri reali potrebbero essere equiparati, ai fini che qui interessano, gli atti che si ritengano costituire vincoli di destinazione mediante la nascita di obligationes propter rem, stante la già rilevata (48) prevalenza della inerenza al bene rispetto alla natura propriamente obbligatoria del rapporto. Il riferimento ad oneri reali ed obligationes propter rem come modalità di realizzazione di vincoli di destinazione di beni ha essenzialmente riguardo a

stesso (cfr. ad es., A. Uckmar, La legge, cit., II, Padova, 1958, 21 ss.; E. Jammarino, Commento alla legge sulle imposte di registro, I, Torino, 1959, 314 ss.). Come si è detto, alla figura dell’onere reale si è fatto spesso riferimento, soprattutto in giurisprudenza, per inquadrare fra i vincoli di destinazione convenzioni relative ad immobili o loro parti, in particolare nell’ambito dei rapporti condominiali, quando il vincolo importa doveri positivi di comportamento, non compatibili con la disciplina della servitù. (47) Comunque, anche se si ritenesse di superare, in virtù dell’espresso riferimento ai “vincoli di destinazione”, le difficoltà di una sicura identificazione degli oneri reali, l’applicazione dell’imposta sui trasferimenti riguarderebbe la costituzione di un diritto reale, equiparata al trasferimento, non la costituzione del vincolo, che nella prima totalmente si risolve. Eventuali costituzioni di oneri reali in assetti onerosi assumerebbero in ogni caso rilievo solo ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro. Ad es., in materia di rapporti condominiali o nelle pattuizioni relative a lottizzazioni è assai probabile che si realizzino situazioni di “reciprocità” tra oneri, obblighi e limitazioni alla proprietà contestualmente costituiti (soprattutto mediante convenzioni od accettazioni dei regolamenti di condominio); in queste ipotesi si sarebbe comunque nell’area di applicazione dell’imposta di registro (a prescindere dall’individuazione dell’aliquota, ed in genere della disciplina applicabili) e non dell’imposta sulle successioni e donazioni (o, tanto meno, di un’autonoma imposta sulla costituzione dei vincoli di destinazione). (48) Cfr. retro, n. 1.3.


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rapporti relativi a beni immobili, in particolare in assetti condominiali (49), ma anche a specifiche discipline che “conformano” la proprietà di determinate categorie di beni (50) rispetto ai quali risulta problematica l’individuazione, e soprattutto la quantificazione, di rilevanti indici di capacità contributiva. Si deve comunque tener conto che, nelle ipotesi addietro considerate, l’assetto destinatorio può risolversi in una situazione giuridica di cui è titolare il soggetto interessato, tale, se configurata come diritto reale, da comprimere il diritto del proprietario (51) o comunque da rendere opponibili i limiti imposti (52), oppure, soprattutto se rispondente ad interessi generali, comportare solo una limitazione o conformazione della proprietà (53). Possibile oggetto di imposizione alla stregua di costituzione o trasferimento di diritti è solo la situazione giuridica eventualmente attribuita all’interessato, parrebbe in quanto configurabile come diritto reale (54) non la “compressione” o menomazione delle facoltà del proprietario del bene “vincolato”.

(49) La vicenda, soprattutto giurisprudenziale, del “recupero” della categoria dell’onere reale e della obligatio propter rem sembra essersi conclusa, una volta ammessa la possibilità di “servitù reciproche”, con la riaffermazione della tipicità di tutte le ipotesi di inerenza “reale”. Per un’esauriente esposizione del tema cfr. M. Ceolin, Destinazione, cit.,107 ss.; F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 1, 517 ss. (50) Come si è detto, vengono ascritti alla categoria degli oneri reali i “vincoli” previsti, a tutela di interessi generali, da specifiche discipline legislative (vincoli culturali, paesaggistici, ecc.; cfr. A. M. Sandulli, Natura, cit., 447 ss.) (51) Si pensi, appunto, alle servitù, od anche alla “cubatura” (cfr. retro nt. 30), se se ne afferma la natura di diritto reale (dovendo però precisare il rapporto di tale “diritto” con i procedimenti e provvedimenti amministrativi che concretamente attribuiscono il “bene” costituito dalla maggiore edificabilità). (52) Parrebbe il caso della limitazione derivante dalla “cessione di cubatura”, se di quest’ultima si negasse la natura di diritto reale (cfr. F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 1, 205 ss.), ovvero dell’assegnazione della casa familiare, di cui parte almeno della dottrina nega la realità (cfr. ancora F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 1, 359 ss.). (53) Si pensi ai vincoli ex art. 2645 quater c.c. Sui rapporti fra vincoli di destinazione e limitazioni (funzionalizzazioni) della proprietà cfr. U. Stefini, Destinazione, cit., 30 ss.; L. Bullo, Separazioni, cit., 31 ss. (54) È invero discussa la natura reale di diritti ed assetti costituiti mediante atti di diversa natura, i cui effetti non sono riconducibili alle figure, necessariamente tipiche, degli effetti reali (cfr., ad es., F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 2, 206 ss., riguardo ai vincoli di cui all’art. 2645 quater c.c.); il criterio discretivo potrebbe però essere rinvenuto nell’opponibilità ai subacquirenti ed ai terzi. L’impossibilità di individuare un diritto reale od una prestazione patrimoniale di contenuto certo e determinato come oggetto dell’attribuzione ne comporterebbe l’irrilevanza fiscale negli assetti “liberali” e la già rilevata difficoltà di individuare imponibile ed aliquote applicabili per l’imposta di registro negli assetti onerosi.


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L’espressione “costituzione di vincoli di destinazione” va infatti interpretata nel quadro dei principi, in particolare dei principi costituzionali. Quindi, se gli effetti in cui il vincolo si manifesta risultano esclusivamente ordinati alla tutela di interessi generali, non dando luogo ad alcuna situazione di vantaggio, economicamente valutabile, né per altri soggetti né per il titolare dei beni o diritti vincolati, che subisce piuttosto un pregiudizio patrimoniale (55), assumere la costituzione del vincolo stesso a criterio di riparto dei carichi pubblici, ad elemento qualificante di fattispecie imponibili, risulterebbe in evidente contrasto con il disposto dell’art. 53, c. 1, cost. Il criterio dell’interpretazione adeguatrice e conforme alla costituzione impone pertanto di escludere questo tipo di vincoli di destinazione dall’ambito dei possibili significati dell’espressione in esame (56). 1.5. La destinazione che si risolve in trasferimento. – Se la “destinazione del bene o diritto si realizza mediante la sua inclusione nel patrimonio di strutture organizzative dotate di personalità giuridica ovvero comunque di autonomia patrimoniale, l’intera vicenda destinatoria si risolve nella dimensione effettuale del “trasferimento” come modificazione soggettiva di rapporti giuridici. Il “vincolo” si manifesta qui come funzionalizzazione e limitazione dei poteri gestori degli organi cui spetta l’indirizzo dell’attività dell’ente od organizzazione autonoma, non si identificano ulteriori effetti giuridici, segna-

(55) È il caso, ad es., dei vincoli di interesse storico ed artistico (oggi vincoli culturali) di cui agli artt. 10 e ss. D.Lgs. n.42/2004, la cui costituzione, con la conseguente imposizione ai proprietari di rilevanti obblighi ed oneri, anche economici (cfr. da ultimo Corte cost. n. 111/2016), non potrebbe razionalmente rilevare come indice di capacità contributiva ai fini di alcun tributo; ma analoghe considerazioni possono farsi per gran parte dei vincoli di interesse pubblico (paesaggistici, forestali, idrogeologici, urbanistici, ecc.). Naturalmente, laddove la limitazione della proprietà sia disposta in assetti sostanzialmente onerosi (cfr. sul tema della indennizzabilità delle limitazioni derivanti da taluni vincoli, A.M. Sandulli, Natura, cit., 455 ss.), il discorso si fa più complesso, ma, come si dirà, in tali ipotesi si è, a mio avviso, oltre l’area di possibile operatività della disposizione in esame. (56) Si potrebbe obiettare che la costituzione di vincoli in sé limitativi delle facoltà dei proprietari può talvolta soddisfare specifici interessi, anche economici, dei proprietari stessi, come di regola avviene, ad es., per i vincoli di cui all’art. 2645 quater c.c.. Va però notato che, ove non si ritenga la costituzione di tali vincoli già avvenuta come effetto immediato delle norme statali e regionali o degli strumenti urbanistici e di pianificazione territoriale dei Comuni (nel qual caso si rientrerebbe nelle ipotesi di cui al n. 1.1), gli atti contratti e convenzioni di cui la costituzione del vincolo è effetto si inseriscono in assetti onerosi e sono tradizionalmente assoggettati all’imposta di registro (in misura fissa, giacché, come già rilevato a proposito di oneri reali ed obbligazioni propter rem, non evidenziandosi attribuzioni patrimoniali certe e definite, mancano criteri normativi per la determinazione di un valore imponibile).


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tamente la nascita di diritti reali o la conformazione di quelli già in essere, diversi dalle vicende riconducibili alla nozione di “trasferimento” (57). Dunque i fenomeni qui considerati si identificano, in via esclusiva, con i “trasferimenti” che costituiscono, tradizionalmente, presupposti per l’applicazione dei tributi indiretti (58); non residua alcuno spazio per l’identificazione di “costituzioni di vincoli di destinazione” in quanto fattispecie autonome e distinte dai “trasferimenti di beni e diritti”. Questa conclusione va sottoposta però ad un ulteriore riscontro con riguardo alle ipotesi in cui la modificazione soggettiva dei diritti e rapporti oggetto della destinazione è caratterizzata da una più accentuata “strumentalità” rispetto alla costituzione stessa del vincolo. Come è noto, alcuni degli istituti cui maggiormente la prassi fa ricorso per effettuare destinazioni patrimoniali prevedono, come modalità originaria e prevalente (59) o normalmente pra-

(57) Non sembra rispondere alla disciplina positiva la tesi della “conformazione” dei diritti di proprietà compresi in tali patrimoni (cfr., ad es., R. Quadri, La destinazione, cit., 295 ss.); qui la conformazione allo scopo attiene piuttosto alla struttura organizzativa. Anche la “opponibilità” ai terzi di regole e limitazioni attinenti la gestione dei beni e diritti, in particolare degli atti dispositivi, si risolve in invalidità od inefficacia (assolute o relative) degli atti stessi, non mi sembra identificabile con un particolare regime giuridico afferente il bene o diritto ovvero con una specifica conformazione dei diritti sullo stesso. Per altro verso il regime della responsabilità patrimoniale cui è soggetto l’ente è sicuramente quello ordinario. (58) E sono soggetti alla disciplina per i trasferimenti stessi prevista, ivi comprese le norme di favore in ragione della particolare rilevanza sociale degli scopi perseguiti e della meritevolezza degli enti stessi (cfr., per i “trasferimenti gratuiti”, l’art. 3 D.Lgs. n. 346/1990). (59) È il caso dei trusts, che storicamente si originano da trasferimenti fiduciari e dalla tutela giuridica via via accordata, in equità, agli interessi dei beneficiari; ancor oggi la struttura negoziale e prevalente dei trusts prevede il trasferimento dal disponente al trustee come momento iniziale e costitutivo del vincolo; solo in via derogatoria (ed ove non sia ritenuto invalido o inefficace) si ammette il trust “autocostituito”, in cui il disponente assume egli stesso le funzioni del trustee restando titolare dei diritti oggetto della destinazione. Caratteristiche analoghe a quelle del trust con attribuzione a soggetto diverso dal disponente sembrano individuabili nel “contratto di affidamento fiduciario” di cui alla L. n. 116/2016. Sulla rilevanza fiscale di vicende costitutive ed attuative dei trusts, oltre all’ampia, ma non omogenea, elaborazione teorica, di cui si darà conto, vanno tenuti presenti gli orientamenti interpretativi, sia pur contraddittori, dell’Amministrazione finanziaria (in particolare quelle espresse nelle circolari nn. 48/E/2007 e 3/E/2008) e, soprattutto della giurisprudenza (per la Cassazione, ordinanze nn. 3735/2015, 3737/2015, 3886/2015, 5322/2015 e sentenza n. 4482/2016 della Sezione VI; sentenze e ordinanze nn. 25478/2015, 25479/2015, 25480/2015, 21614/2016, 975/2018, 13626/2018, 15469/2018, 31445/2018, 31446/2018, 734/2019 e 1131/2019, tutte della Sezione V; per la giurisprudenza dei giudici di merito si può fare riferimento a quella citata da E. M. Bartolazzi Menghetti, Qualificazioni dell’atto di affidamento al trustee nelle imposte sui trasferimenti, in Corrispettività, onerosità e gratuità, profili tributari, Torino, 2014,


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ticata (60) il trasferimento del bene ad altro soggetto. Si può quindi ritenere che, sia pur con diverso rilievo funzionale nelle diverse ipotesi (61), il trasferimento di beni e diritti risulta in questi casi condizione necessaria ed elemento costitutivo del complesso di effetti giuridici di cui consiste il vincolo di destinazione. Buona parte della dottrina e della giurisprudenza ha addotto proprio la funzione “strumentale” e finalizzata ad ulteriori e più complesse vicende di questi trasferimenti a sostegno di tesi contrarie al loro assoggettamento al normale regime fiscale dei trasferimenti nel sistema dell’imposizione indiretta (62). Queste prospettazioni “svalutative” della rilevanza fiscale di trasferimenti “strumentali” a destinazioni patrimoniali potrebbero indurre a negare la riferibilità ad istituti di grande rilevanza pratica, come i trusts o i contratti di affidamento fiduciario di cui all’art. 1, c. 3, L. 112/2016 (63), delle conclusioni addietro raggiunte per le destinazioni realizzate mediante trasferimenti ad enti ed altri organismi dotati di personalità giuridica od autonomia patrimoniale; in tal caso, l’assoggettamento di beni, diritti o complessi patrimoniali ai “vincoli” di cui agli istituti stessi potrebbe assumere autonoma rilevanza come “costituzione di vincolo di destinazione”. La questione richiede però alcune precisazioni. Innanzi tutto, occorrerebbe considerare separatamente le, sia pur non frequenti, ipotesi in cui il trasferimento a soggetto diverso dall’originario titolare, anche se condizione necessaria per la nascita del vincolo, non può dirsi meramente strumentale, ma realizza direttamente uno specifico risultato (nell’ipotesi un’attribuzione liberale),

108 ss., per un aggiornamento, a quelle più recenti pubblicate in Trusts, 2018, 336 ss. e 426 ss.). (60) Anche nella destinazione ex art. 2645 ter c.c. il trasferimento dell’immobile ad altro soggetto è considerato modalità possibile e frequente seppur non essenziale e necessaria. (61) Nella sua genesi storica, la disciplina dei trusts si manifesta come riconoscimento e tutela degli interessi attinenti l’affidamento fiduciario a soggetto terzo, diverso sia dal disponente che dal o dai beneficiari; la disciplina della destinazione ex art. 2645 ter c.c. regola direttamente la vicenda destinatoria, nella quale il trasferimento ad altro soggetto è elemento eventuale; circa il trasferimento ai coniugi, o ad uno di essi, con assoggettamento dei beni al regime del fondo patrimoniale si veda più oltre nel testo. (62) Cfr., per una sintesi delle posizioni della dottrina sull’argomento, T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, Pisa, 2012, 31 ss.; A. Salvati, Profili fiscali del trust, Milano, 2004, 95 ss. e 223 ss.; C. Buccico (a cura di), Gli aspetti civilistici e fiscali del trust, Torino 2015; A. Giusti, Il regime fiscale del contratto di affidamento fiduciario: riflessi impositivi di un nuovo modello negoziale, in Riv. Dir. Trib., 2016, I, 402 ss. (63) Cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, Milano, 2014, 311 ss.; A. Giusti, Il regime, cit., 371 ss.; espone criticamente i diversi orientamenti giurisprudenziali Cass., Sez. V, ord. n. 31445/2018.


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cui si aggiungono gli effetti propriamente destinatori nel quadro di un negozio unitario tipico (64). In questi casi sembra pacifica l’assoggettabilità dell’atto (65) all’imposta sui “trasferimenti a titolo gratuito”. Resta da stabilire se la previsione della “costituzione di vincoli di destinazione” nei comma 47 e 48 dell’art. 2 L. n. 286/2006 giustifichi, in quanto tale, l’applicazione di un’altra imposta (calcolata, presumibilmente, sullo stesso valore imponibile) (66). Con riferimento alle restanti ipotesi di trasferimenti concorrenti con la costituzione del vincolo si deve risolvere il problema della possibile qualificazione del patrimonio destinato alla stregua di un autonomo soggetto. Come è noto, mentre la dottrina civilistica appare prevalentemente orientata a mantener ferma, per i beni destinati, la natura di patrimonio separato (o “segregato”) (67), i cultori del diritto tributario sembrano in maggioranza propendere per il riconoscimento al patrimonio destinato (68) di una rilevanza soggettiva, almeno agli effetti dell’applicazione delle imposte sui redditi (69); con l’art. 1, comma 74, L. 27,12.2006, n. 296, il legislatore ha riconosciuto ai trusts, inserendoli nell’elenco di cui all’art. 73 T.U.I.R., la soggettività ai fini dell’applicazione dell’I.R.E.S., se i beneficiari non sono individuati. Parte della dottrina, muoven-

(64) È il caso dell’assoggettamento al regime del fondo patrimoniale di immobili, beni mobili registrati o titoli di credito da parte del terzo titolare che, nel testamento o nella convenzione matrimoniale con i coniugi, trasferisce loro la proprietà dei beni, contestualmente destinati a far fronte ai bisogni della famiglia (art. 167 c.c.); analogo risultato si ha quando, essendo il bene di proprietà esclusiva di uno dei coniugi, questi lo destini al fondo senza riservarsene espressamente la proprietà, così trasferendo all’altro coniuge la comproprietà del bene stesso (art. 168 c.c.); per la residua quota il vincolo si costituisce senza che si verifichi alcun trasferimento; cfr. in proposito A. Fedele, Destinazione, cit., 297 ss., 314 ss. (65) Cioè della convenzione; nel caso di disposizione testamentaria il trasferimento è comunque soggetto ad imposta sulle successioni. (66) Cfr. in proposito, il successivo n. 1.7. (67) Cfr. A. Fusaro, Destinazione, cit., 321 ss.; A. Buonfrate, Patrimonio, cit., 878 ss. Con riferimento anche agli orientamenti della giurisprudenza tributaria cfr. L. Sabbi, L’imposta sui vincoli di destinazione non ha più seguaci, in Trusts, 2018, 495. (68) Il problema si è posto essenzialmente per i trusts (cfr. G. Puoti, La tassazione dei redditi del trust, in I trusts in Italia oggi, Milano, 1996, 322 ss.; M. Miccinesi, Il reddito del trust nelle varie tipologie, in Trusts, 2000, 310 ss.; T. Tassani, I trusts cit., 31 ss. e, per le imposte sui trasferimenti della ricchezza, 137 ss.; A. Salvati, Profili, cit., 232 ss.); per i fondi speciali istituiti con contratto di affidamento fiduciario cfr. A. Giusti, Il regime, cit., 392 ss.. (69) Cfr. P. Laroma Jezzi, I profili soggettivi dell’imposizione nella cartolarizzazione dei crediti fra separazione patrimoniale e trust, in Riv. dir. trib., 2003, I, 259 ss., in part. 301; Id., Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, Milano, 2006, passim; Id., La fiscalità dei trust aspettando il “trust di diritto italiano”, in Riv. dir. trib., 2012, I, 635 ss.; T. Tassani, I trusts, cit., 31 ss.


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do da una nozione di capacità contributiva che ne sottolinea i profili di contatto con la responsabilità patrimoniale, ha quindi teorizzato l’equiparazione, ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi, di tutti i patrimoni separati ai patrimoni autonomi (70). Altri autori ritengono infine di estendere l’equiparazione anche agli effetti dell’applicazione delle imposte indirette, ed in particolare delle imposte sui trasferimenti della ricchezza (71). Questi orientamenti teorici (e forse anche gli interventi legislativi) appaiono ancora bisognosi di aggiustamenti e per certi aspetti contestabili (72). Tuttavia non si può escludere la possibilità che, in determinate ipotesi, atti di destinazione non produttivi di attribuzioni patrimoniali a centri tipizzati di imputazione di rapporti giuridici giustifichino comunque, ai fini dell’applicazione delle imposte sui trasferimenti, il trattamento del patrimonio destinato alla stregua di un distinto soggetto passivo. Ove si raggiunga (con riferimento a categorie generali, come la separazione patrimoniale, ovvero a caratteristiche specifiche, da riscontrare caso per caso) la conclusione che il vincolo di destinazione si risolve totalmente in attribuzione patrimoniale ad entità qualificabile come soggetto passivo delle imposte sui trasferimenti, si deve anche ammettere, per le ragioni addietro

(70) Cfr., per tutti, P. Laroma Jezzi, Separazione, cit., passim, in part. 138 ss.; Id., Separazione patrimoniale, cit., 206 ss., in part., 216 ss.; Id., La fiscalità cit., passim; per spunti critici, cfr. F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 2, 214, nt. 115. L’amministrazione finanziaria sembra seguire questa opinione, ma limitatamente alla destinazione in trust, che ritiene soggetta ad imposta sui trasferimenti anche in caso di trust autocostituito, senza attribuzione ad un trustee (cfr. circ. n. 3/E/2008 e 28/E/2008), non per altre ipotesi di destinazione, che considera soggette ad imposta (sul trasferimento) solo se un trasferimento sia effettivamente disposto. La questione assume rilievo in giurisprudenza anche in ordine alla validità di atti notificati al trust; cfr. da ultimo Comm. trib. prov. Milano, 27.3.2018, n. 1365, in Trusts, 2018, 546 ss., ove anche riferimenti alla precedente giurisprudenza (in particolare a Cass. 27.1.2017, n. 2043). (71) Cfr. T. Tassani, I trust, cit., 54 ss., 127 ss.; G. Giusti, Il regime, cit., 392 e 402 ss., quest’ultimo con riferimento, in particolare, ai fondi affidati con contrarti di affidamento fiduciario. (72) Personalmente non ritengo condivisibile l’accostamento fra responsabilità patrimoniale e capacità contributiva, quindi l’equiparazione tout court, ai fini fiscali, fra separazione patrimoniale e soggettività (fra l’altro, vi sono come dirò in seguito, diversi livelli e modi di separazione e si deve precisare a quale fra essi si intenda agganciare il riconoscimento della soggettività). Piuttosto, mi sembra si debba riconoscere che, in determinate ipotesi (si pensi, ad es., a certi trusts di scopo), la struttura gestionale deputata all’attività promossa e le sue modalità attuative giustifichino, anche secondo diverse concezioni della capacità contributiva, il riconoscimento della soggettività tributaria (cfr. A. Fedele, Il trasferimento al trustee nelle imposte indirette, in Teoria e pratica della fiscalità dei trusts, a cura di N.L. De Renzis Sonnino - G. Franzoni, Milano, 2008).


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esposte, che l’atto costitutivo del vincolo è soggetto ad imposta in quanto “trasferimento” e solo in quanto tale, con esclusione di ogni possibilità di includerlo nella autonoma e distinta categoria delle “costituzioni di vincoli di destinazione”. Il significato possibile di questa espressione si riduce dunque alle ipotesi in cui la separazione patrimoniale resta tale anche ai fini dell’applicazione delle imposte sui trasferimenti. Ciò si può verificare (73) sia quando la separazione opera nel patrimonio dello stesso disponente (74), sia quando la separazione si verifica nel patrimonio di altro soggetto, cui beni e diritti vengono trasferiti solo in funzione strumentale (75) alla costituzione del

(73) L’articolata gamma delle possibili combinazioni fra vincoli di destinazione e ”trasferimenti” (in quanto mere modificazioni soggettive di rapporti giuridici) può essere colta nella recente L. 22.6.2016, n. 122 (cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, Varese, 2014), volta a promuovere l’assistenza a persone con disabilità grave prive del sostegno familiare, che disciplina congiuntamente “costituzioni di trust, di vincoli di destinazione di cui all’art. 2645 ter c.c., di fondi speciali, composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario” (art. 1, c. 2), distinguendo, anche terminologicamente, e proprio ai fini della fissazione del regime fiscale dei diversi istituti considerati (art. 6): a) l’assoggettamento ai “vincoli”, definito come “conferimento” in trust, “aggravio” del vincolo ex art. 2645 ter c.c., “destinazione” ai fondi speciali disciplinati con di affidamento fiduciario (art. 6, c. 1); b) i “trasferimenti” strumentali alla costituzione dei vincoli (dei quali, a mio avviso impropriamente, si afferma la destinazione “a favore” dei trust, ovvero dei fondi speciali, ovvero dei vincoli ex art. 2645 ter c.c., la cui soggettivazione resta impregiudicata) (art. 6, c. 6); c) i “trasferimenti” (anch’essi funzionali all’operatività del vincolo, quindi “strumentali”) a favore dei soggetti che hanno costituito i vincoli, quando previsti in caso di premorienza del beneficiario (art. 6, c. 4); d) i “trasferimenti” del “patrimonio residuo” in caso di morte del beneficiario, quando non si verifichi l’ipotesi di cui alla precedente lettera c), e pertanto il patrimonio stesso si devolva secondo le previsioni degli atti istitutivi dei vincoli (art. 6, c. 3 lett. h, e c. 5). (74) Si può fare riferimento: - alla costituzione dei patrimoni destinati ad un singolo affare ex art. 2247 bis e seguenti c.c., la cui disciplina, anche fiscale, esclude sicuramente la soggettivazione; - alle convenzioni con le quali i coniugi assoggettano al regime del fondo patrimoniale beni di proprietà comune; - alle costituzioni di vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c. senza trasferimento ad altro soggetto; - alle “destinazioni” a fondi speciali ai sensi degli artt. 1, c. 3 e 6, c. 1, L. n. 112/2016 che avvengano senza “trasferimento” della proprietà, quindi con separazione nel patrimonio dello stesso disponente. (75) Cfr., ad es., anche per i riferimenti, L. Bullo, Separazione, cit., 20 ss., 43 ss. Sulla funzione “strumentale” del trasferimento e sui suoi riflessi in ambito tributario cfr. A. Fedele, Visione d’insieme della problematica interna, in I trusts in Italia oggi, Milano, 1996,


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vincolo (76). La “strumentalità” del trasferimento può essere rilevata anche con riferimento ad ulteriori risultati (di regola un trasferimento finale) (77).

283 ss.; Id., Destinazione, cit., 294 ss.; L. Salvini, Il trasferimento degli interessi beneficiari, in I trusts in Italia oggi, Milano, 1996, 340 ss.; contra, per l’immediata imponibilità del trasferimento al trust “liberale” (sia pure equiparando l’attribuzione nel trust “discrezionale” a liberalità sospensivamente condizionata) G. Gaffuri, Disciplina fiscale del trust; costituzione e trasferimento dei beni, in Boll. Trib., 1995, 1704 ss.; Id., L’imposta, cit., 470 ss. Per un accurato riesame dei profili della “strumentalità” come alternativa ed incompatibile rispetto all’incremento patrimoniale che giustifica l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni cfr., da ultimo, E.M. Bartolazzi Menchetti, Il tentativo di mediazione della cassazione sul rapporto tra Trust e reistituita imposta sulle successioni e donazioni, in Riv. dir. Trib., 2018, II, 206 ss., cit., 220 ss.; con riferimento ai trust onerosi T. Tassani, Trust onerosi e imposte sui trasferimenti: il nuovo approccio teorico della Suprema Corte, in Trust, 2019, 190 ss. In effetti la “strumentalità” del trasferimento e la sua rilevanza ai fini dell’applicazione delle imposte sui trasferimenti sono state prese in considerazione soprattutto nell’ottica del registro e quindi di assetti onerosi, anche complessi; non mancano però spunti ed argomenti rivolti alla “neutralizzazione” dei trasferimenti “strumentali” anche nell’applicazione di tali imposte nel contesto di assetti “liberali”, sia con riferimento agli artt. 56, c. 1 e 58, c.1, D.Lgs. n. 346/1990 (assumendo che la vicenda comporti un trasferimento condizionato – cfr. i succitati scritti del Gaffuri con riguardo all’attribuzione a trust “discrezionale”), sia nell’ottica della necessaria unitarietà dell’attribuzione patrimoniale (cfr. A. Fedele, Destinazione, cit., 297 ss.). La “strumentalità” del trasferimento non rileverebbe, invece, laddove si accettasse la tesi (cfr. G. Gaffuri, L’imposta, cit., 163 ss. e 479 ss., e, forse, Cass. Sez. V, ord. n. 734/2019 nonché la “dottrina del fisco” – circ. nn. 3/E/2008 e 28/E/2008) per cui è la mera “destinazione” liberale a giustificare l’applicazione del tributo successorio (salvo poi qualificare tale applicazione come “anticipazione” e far riferimento all’art. 42 D.Lgs. n. 346/1990 – cfr. G. Gaffuri, L’imposta, cit., 482). Per talune considerazioni sulle sentenze della Cassazione nn. 13626/2018 e 15469/2018 nell’ottica della strumentalità dei trasferimenti in trust cfr. S. Cannizzaro, Addio all’imposta proporzionale per la costituzione di trust?, in Riv. dir. trib online, 21.11.2016; Id., Sulla tassazione del trust un passo avanti ed uno indietro, in CNN Notizie n. 115, 22.6.2018; sulle sentenze nn. 975/2018 e 15469/2018 si veda la nota di L. Sabbi, in Riv. dir. trib., 2019, II, 241 ss. (76) Ad es., se, nella costituzione del vincolo ex art. 2645 ter c.c. si dispone che il bene sia trasferito solo per la durata del vincolo, al termine della quale ritornerà nel patrimonio del disponente o dei suoi eredi (cfr. U. Stefini, Destinazione, cit., 160). D’altronde l’ipotesi di un trasferimento “strumentale” limitato al solo periodo della destinazione è espressamente prevista dall’art. 6, c. 4, L. n. 122/2016. (77) Come avviene nella maggior parte dei trusts di famiglia, che prevedono un’attribuzione finale al beneficiario o ai beneficiari dopo un primo trasferimento “strumentale” al trustee; l’attribuzione finale a soggetti diversi dal disponente può tuttavia essere disposta anche negli atti di cui all’art. 2645 ter c.c.; d’altronde, il trasferimento al gestore può essere strumentale ad un’alienazione a sua volta necessaria per la realizzazione dello scopo stabilito, come nei trusts solutori, e così via. Sui rapporti fra “trasferimento” e “destinazione” nelle cartolarizzazioni cfr. A. Fedele, Profili fiscali della cartolarizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, in Riv. dir. trib., 2003, I, 395 ss.


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In queste ultime ipotesi, il risultato finale mantiene la sua rilevanza fiscale, con tre possibili esiti interpretativi: assoggettamento all’imposta del solo trasferimento finale, mentre la costituzione del vincolo sarebbe soggetta solo ad imposta fissa di registro (78); applicazione anticipata dell’imposta sui trasferimenti sin dalla costituzione del vincolo (79); applicazione dell’imposta proporzionale sia sulla costituzione del vincolo che sul trasferimento finale, che conseguirebbe all’accettazione del già menzionato orientamento giurisprudenziale circa l’”autonomia” della “costituzione di vincoli di destinazione” come fattispecie imponibile. In questo specifico ambito dei vincoli che non si risolvono in mero trasferimento è quindi necessario individuare la tipologia di effetti che corrisponde alla nozione di “vincolo di destinazione” in quanto inserita nel contesto dei comma 47 e 48 dell’art. 2 L. n. 286/2006; gli atti inidonei a produrre tali effetti risulteranno infatti esclusi dal possibile significato dell’espressione in esame. 1.6. Costituzione di vincoli di destinazione e separazione patrimoniale. – I fenomeni cui risulta riferibile l’espressione “costituzione di vincoli di destinazione” nel contesto in cui è inserita rientrano quindi fra i vincoli costituiti “a prescindere” da trasferimenti di beni o diritti. In primo luogo, sembra evidente che il vincolo prescinda totalmente da qualsiasi trasferimento quando la vicenda non determina trasferimento alcuno e la destinazione è realizzata tramite la mera

(78) Le ragioni, fondate essenzialmente sulle implicazioni del principio di capacità contributiva, che supportano questo orientamento risultano chiaramente esposte da T. Tassani, I trust, cit., 142 ss., ove ampi riferimenti alla dottrina. Per l’orientamento della Cassazione che esclude la rilevanza dei trasferimenti “strumentali” come indici di capacità contributiva ai fini dell’applicazione delle imposte proporzionali sui trasferimenti cfr. le sentenze nn. 25478/2015, 975/2018 e 31445/2018 nonché l’ord. n. 1131/2018. (79) Questa è la tesi sostenuta dall’Agenzia delle entrate (circolari nn. 3/E e 28/E del 2008) e considerata, da parte della dottrina eccessivamente gravosa ed infondata perché non tiene conto della natura eventuale, e comunque differita nel tempo, del trasferimento “finale”. Non potrebbe essere assimilata alla soluzione accolta dall’amministrazione la tesi che deriva dalla previsione delle costituzioni dei vincoli l’imponibilità immediata dei soli atti dai quali derivino immediatamente diritti certi ed azionabili dei beneficiari (cfr. ad es., l’ord. n. 734/2019 della Sez. V della Cassazione); è evidente, infatti, che qui si resta nell’ambito delle tesi che collegano l’imposizione al trasferimento, includendo però fra i possibili oggetti del trasferimento stesso anche pretese, attuali e giuridicamente tutelate, ad ottenere il trasferimento di beni determinati; non si può negare che questa soluzione ponga ulteriori problemi circa il regime fiscale dei successivi atti ad effetti traslativi reali (non mancano, in materia, tracce della tesi che equipara, ai fini della determinazione dell’imponibile, i diritti ad rem habendam alla cosa stessa).


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separazione, nel patrimonio dell’originario titolare, dei beni o diritti ovvero del complesso patrimoniale dedicati al conseguimento dello scopo o alla soddisfazione dell’interesse prescelti. Come si è visto, però, il trasferimento dei beni e diritti destinati può assumere rilevanza solo strumentale alla destinazione, che si realizza tramite effetti della stessa natura di quelli già indicati per le ipotesi di destinazione senza trasferimento alcuno, cioè mediante separazione, nel patrimonio del destinatario del trasferimento “strumentale”, dei beni e diritti medesimi. Nell’uno e nell’altro caso le regole gestionali della destinazione risultano integrate da una corrispondente limitazione della garanzia patrimoniale fornita dal patrimonio separato, al quale (ed alle sue singole componenti) la destinazione risulta oggettivamente collegata e la separazione patrimoniale, se trascritta, è opponibile ai creditori (art. 2915 c.c.) ed ai terzi (cfr., ad es., art.2645 ter c. c.). L’elemento caratterizzante il vincolo, quando esso non si risolva totalmente in un diritto reale, consiste dunque nella “separazione” patrimoniale, che ne garantisce l’inerenza ai beni e diritti vincolati (80). La separazione, in sé, non è altro che alterazione della disciplina generale della responsabilità patrimoniale e dell’eventuale concorso dei creditori (81), resta quindi da stabilire (e il dato testuale non fornisce alcun elemento al riguardo) quale sia, per la sussistenza del vincolo, il livello di alterazione necessario. Vi sono infatti diverse modalità di collegamento fra la responsabilità patrimoniale corrispondente ai beni e diritti destinati e le obbligazioni contratte per il “fine di destinazione”, che possono assumere diversi significati e gradazioni (82).

(80) Cfr. L. Bigliazzi Geri, voce Patrimonio autonomo e separato, in Enciclopedia del diritto, XXXII, Milano, 1982, 284 ss. (81) Sui riflessi della separazione patrimoniale in ordine all’assoggettamento dei beni compresi nel patrimonio destinato all’azione esecutiva da parte dei titolari di crediti diversamente collegati con lo scopo destinatorio (ivi compresi i crediti per imposte e tributi in genere) cfr. A. Fedele, Destinazione, cit., 315 ss. La mancanza di qualsiasi espressa previsione di alterazioni delle regole proprie del concorso dei creditori fa dubitare della possibilità di ricondurre alla categoria dei vincoli di destinazione il regime dei beni donati o lasciati all’ente con destinazione a scopo diverso da quello specificamente perseguito dall’ente stesso (art. 32 c.c.; per l’inserimento fra i patrimoni destinati cfr. U. La Porta, Destinazione, cit., 14 ss.). Sui diversi profili della separazione “unilaterale” o “bilaterale” cfr. U. Stefini, Destinazione, cit., 39 ss.; L. Bullo, Separazioni, cit., 78 ss. Per l’esatta considerazione che il ricorso alla tecnica dell’“articolazione” patrimoniale, piuttosto che a quella della soggettivazione, implica un più probabile orientamento per effetti di separazione “imperfetta” cfr. P. Spada, Persona, cit., 845 ss. (82) Ad es., i patrimoni destinati, in via esclusiva, ad uno specifico affare ai sensi dell’art. 2447 bis, c. 1, lett. a), c.c., salva diversa disposizione nella delibera costitutiva, rispondono in


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Poiché sembra evidente l’insufficienza, ai fini della “destinazione” di beni, diritti o complessi patrimoniali, della mera alterazione della par condicio creditorum (83), tipica dei privilegi, anche speciali (84), ovvero delle regole che impongono la prioritaria (o concorrente) escussione di certi beni (85), si deve aver riguardo ad istituti che “selezionano” le obbligazioni cui il bene o patrimonio “separato” offre garanzia patrimoniale. Tale selezione può essere disposta sia in termini negativi, come divieto a talune categorie di creditori di “far valere le loro ragioni” su determinati beni (86), sia in termini “positivi”, come limitazione a taluni beni della responsabilità patrimoniale per determinate obbligazioni con esclusione di azioni esecutive su altri beni o diritti (87), ovvero come prescrizione, per taluni beni o diritti, della soggezione all’azione

via esclusiva (non ne risponde infatti il patrimonio residuo della società) delle obbligazioni derivanti da atti compiuti per la realizzazione dello specifico affare, purché in essi vi sia espressa menzione del “vincolo di destinazione” (mancando tale menzione, risponde la società con il suo patrimonio residuo – art. 2447 quinquies, u. c., c.c.); sono però escluse le obbligazioni da fatto illecito, delle quali la società risponde “illimitatamente” (art. 2447 quinquies, c. 3, c.c.). I beni destinati ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. sono soggetti ad esecuzione solo per debiti contratti per lo scopo di destinazione (senza limitazioni, parrebbe, per le obbligazioni da fatto illecito), ma la separazione è qui “unilaterale”, non essendo esclusa, per i titolari dei corrispondenti crediti, la possibilità di azioni esecutive sul residuo patrimonio del debitore. Analogamente, può dirsi “unilaterale” anche la separazione patrimoniale derivante dalla costituzione del fondo patrimoniale (e limitata ai beni la cui proprietà sia stata oggetto della costituzione stessa, non riservata dal coniuge o dal terzo costituente, giacché, in tal caso, spetterà ai coniugi, al più, uno “speciale diritto di godimento” inalienabile ed inespropriabile). Infatti sui beni costituenti il fondo non è possibile l’esecuzione per “debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia” (art. 170 c.c.), ma i coniugi (o il coniuge che li ha contratti da solo) rispondono con l’intero loro patrimonio anche dei debiti connessi al soddisfacimento dei bisogni familiari. Sulla tendenziale “imperfezione” delle separazioni patrimoniali e la loro diversa incidenza sulla responsabilità patrimoniale cfr. M. Ceolin, Destinazione, cit., 303 ss. e nt. 46 ivi; sulla distinzione fra separazione patrimoniale “imperfetta” e separazione patrimoniale “perfetta” (o “segregazione”) cfr. A. Buonfrate, Patrimoni, cit., 880 ss., ove ulteriori riferimenti. (83) Cfr. L. Bigliazzi Geri, Patrimonio, cit., 285. (84) Quindi caratterizzati dall’inerenza ai singoli beni; la disciplina dei privilegi speciali molto si avvicina a quella delle garanzie reali, quindi non esclude l’esecuzione forzata a soddisfazione di crediti diversi da quelli privilegiati, se questi ultimi sono comunque soddisfatti. (85) Cfr., ad es., gli artt. 2911, 1980, c. 3, c.c. (ove è imposta la previa liquidazione da parte dei cessionari – cfr. L. Bigliazzi Geri, Patrimonio, cit., 288). (86) Cfr., ad es., gli artt. 170 (ma vedi la successiva nt. 91), 1707, 2447 quinquies, c. 1, 2645 ter, c.c.; ma anche l’art. 490, c. 2, n. 2), c.c. implica, sicuramente, una limitazione della facoltà dei creditori ereditari di aggredire il patrimonio personale dell’erede, mentre, quanto all’azione dei creditori dell’erede, si contrappongono le tesi di cui alla successiva nt. 91. (87) Cfr., ad es., gli artt. 186 e 2447 quinquies c.c..


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esecutiva solo per l’adempimento di determinate obbligazioni, per le quali resta però possibile, per il creditore, assoggettare ad esecuzione altri beni del debitore (88). Forme più “forti” di separazione (o di “segregazione”), limitando a taluni beni, diritti o complessi patrimoniali la responsabilità per determinate obbligazioni, escludono totalmente, per i relativi creditori, la possibilità di soddisfarsi su altri, pur riferibili ad un medesimo soggetto, e contemporaneamente la possibilità, per altri creditori, di soddisfarsi sui beni “destinati” (89). Già si è rilevato che la “separazione” patrimoniale è condizione essenziale per la sussistenza del vincolo quando costituisce l’unico assetto disciplinare idoneo, nel caso specifico, ad escludere la sottrazione dei beni, diritti o complessi patrimoniali alla destinazione loro attribuita a seguito di esecuzione coattiva promossa da creditori totalmente estranei all’attuazione degli scopi e alla soddisfazione degli interessi cui la destinazione stessa è ordinata. Quindi, laddove il vincolo non si risolva in diritti reali né in trasferimento a soggetti la cui attività è strutturalmente limitata all’attuazione dello scopo destinatorio (90), la separazione patrimoniale necessaria è solo quella che esclude, sul patrimonio separato, la possibilità di azioni esecutive per la soddisfazione di debiti diversi da quelli legittimamente contratti per l’attuazione dello scopo stesso (91).

(88) Cfr., ad es., l’art. 2645 ter c.c.. (89) Per il riferimento ad ipotesi in cui la legge esclude qualsiasi azione esecutiva (artt. 326, 695, 2117 c.c.) e per tutta la tematica delle deroghe all’art. 2470 c.c. in relazione ai fenomeni di separazione patrimoniale cfr. L. Bigliazzi Geri, Patrimonio cit., 285 ss. (90) Cosicché risulterebbero invalidamente assunte obbligazioni non afferenti all’attuazione dello scopo stesso. (91) Sono pertanto idonei ad integrare il “vincolo di destinazione” i regimi di separazione previsti: – per i beni e diritti destinati in trust, se la “segregazione” è totale, non consentendo, sui beni stessi, alcuna azione esecutiva da parte di creditori “estranei” alla funzione destinatoria (cfr. per tutti M. Lupoi, da ultimo, Le ragioni della proposta dottrinale del contratto di affidamento fiduciario, in Contratto e impresa, 2017, n. 5); – per i beni e diritti conferiti nei fondi speciali di cui all’art. 1, c. 3, L. 22.6 2016, n. 122. – per i beni oggetto di atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., stante il disposto dell’ultimo periodo dell’articolo stesso, che ammette l’esecuzione solo per debiti contratti per il “fine di destinazione” (cfr. F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 2, 214 ss.); si è rilevato (cfr. L. Bullo, Separazioni, cit., 43 ss.) che la separazione patrimoniale prevista dall’art. 2645 ter c.c. risulta “incompleta” per non esser prevista l’insensibilità dei beni e diritti destinati alle vicende successorie del patrimonio dell’eventuale titolare “strumentale”, cui gli stessi siano stati attribuiti esclusivamente per l’attuazione del fine destinatario; tuttavia, l’eventuale subentro di eredi e successori, pur pregiudicando il passaggio delle obbligazioni gestorie, non dovrebbe


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1.7. Le ipotesi di costituzione di vincoli di destinazione cui potrebbe essere riferita la formula in esame. – Volendo ora tirare le fila del discorso, si può innanzi tutto affermare che l’inserimento, nel contesto delle disposizioni relative all’imposta sulle successioni e donazioni, della formula “costituzione di vincoli di destinazione”, manifesta una certa inadeguatezza proprio sul piano dei possibili significati, sul piano tecnico giuridico, della formula stessa. L’amplissima gamma e la variegata struttura di assetti giuridici e tipologie disciplinari riconducibili all’espressione “vincoli di destinazione” evidenzia un’eccessiva indeterminatezza della disposizione, che, in materia coperta da riserva di legge (92), dovrebbe, invece, fornire chiare indicazioni e precisi limiti circa i fatti e le situazioni assunti ad indici di capacità contributiva. L’interprete è quindi costretto ad un continuo ricorso a criteri sistematici per delimitare l’eccessiva ampiezza dei significati attribuibili alle parole prescelte utilizzando, in funzione “adeguatrice”, il riferimento ai principi costituzionali ed a quelli ispiratori dei tributi interessati.

pregiudicare gli effetti di separazione patrimoniale; è invece sicuramente escluso dalla nozione di vincolo di destinazione qui considerata: – il regime dei beni compresi nella comunione legale dei coniugi, giacché gli artt. 186 e ss. c.c. non escludono azioni esecutive per obbligazioni non “contratte nell’interesse della famiglia”, se assunte congiuntamente dai coniugi (art. 186, lett. d), c.c.), ovvero, se “personali” di uno dei coniugi, in via sussidiaria, fino concorrenza della quota dell’obbligato (art. 189, c. 2, c.c.), che risponde altresì delle obbligazioni assunte dal suo titolare in violazione delle norme sulla gestione (senza il necessario consenso dell’altro coniuge – art. 189, c. 1, c.c.). Più complesso appare invece il problema per il regime dell’eredità accettata con il beneficio dell’inventario, giacché, secondo una prima prospettazione, la relativa disciplina escluderebbe solo l’azione esecutiva dei creditori dell’eredità sul patrimonio personale dell’erede (che non è destinato) mentre sul patrimonio ereditario è disposta solo la “preferenza” per i creditori ereditari, che, testualmente intesa, gradua, ma non esclude, una responsabilità per i debiti personali dell’erede (art. 490 c.c. – cfr. F. Messineo, Manuale cit., 1962, 406 ss.); secondo altra, autorevole, dottrina, la “preferenza” andrebbe letta nel senso dell’impossibilità dell’azione dei creditori dell’erede sui beni dell’eredità, quindi della sua separazione, sino a che permane il beneficio (cfr. U. Natoli, L’amministrazione dei beni ereditari, II, Milano, 1949, 99 ss. (ed. 1969, 137); G. Capozzi, Successioni, cit., I, 174 ss.; F. Gazzoni, La trascrizione, cit., I, 2, 214; riproduce ambedue le posizioni, ma, parrebbe, senza prendere posizione, L. Cavalaglio, Effetti del beneficio d’inventario, in Commentario del Codice civile, diretto da Enrico Gabrielli, Milanofiori Assago, 2009, sub art. 490, 490 ss.); per ambedue le tesi, l’iscrizione in separazione serve a mantenere la “preferenza” qualora il beneficio venga meno; anche l’ipoteca (non giudiziale – art. 2830 c.c.) attribuirebbe preferenza, oltre al diritto di seguito (in argomento cfr. D. Rubino, L’ipoteca immobiliare e mobiliare, Milano, 1956, 131 ss.). Per analoghe considerazioni in tema di criteri identificativi dei patrimoni separati cfr. L. Bigliazzi Geri, Patrimonio, cit., 286 ss., che tuttavia include fra essi anche l’eredità beneficiata. (92) Comunque più rigorosa quando si tratti della definizione del presupposto del tributo.


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I profili di legittimità costituzionale relativi a questo aspetto della “reintroduzione” dell’imposta sulle successioni e donazioni saranno esaminati più oltre; è evidente, però, che la necessità di continui riferimenti ai principi ispiratori dei tributi (pre)esistenti e dell’intero sistema dell’imposizione indiretta, derivante dall’eccessiva “vaghezza” del dato testuale riduce le potenzialità innovative del dato stesso; risultano, pertanto, pregiudicate ed in certo qual modo confutate le opinioni di chi pretende di individuare nella “costituzione di vincoli di destinazione” una categoria di presupposti impositivi del tutto avulsa dalla sistematica del tributo ed, in genere, del complesso delle imposte indirette (93). Venendo ai risultati possibili di un’interpretazione coerente con i principi, può dirsi che l’amplissima gamma di istituti riconducibili alla nozione di vincolo di destinazione, deve, ai nostri fini, essere drasticamente ridotta, escludendone la maggior parte, come segue. In primo luogo vanno escluse tutte le ipotesi in cui il vincolo è direttamente imposto da leggi o da atti normativi della pubblica amministrazione (94), poiché, come già si è detto, ragioni storiche e sistematiche escludono la rilevanza di effetti legali (diversi da quelli propri della successione mortis causa) ai fini dell’applicazione delle imposte sui trasferimenti della ricchezza (95). Non può assumere rilevanza come indice di capacità contributiva, quindi va espunta dai possibili significati dell’espressione “costituzione di vincoli di destinazione”, l’intera categoria dei vincoli che comportano solo limitazioni alla proprietà dei beni, senza implicare alcuna situazione giuridica soggettiva attiva od altro effetto per soggetti diversi dal proprietario (96). In sostanza,

(93) Anzi, come si dirà, quanto più i risultati dell’interpretazione divergono dai principi dell’imposizione dei trasferimenti liberali o gratuiti, tanto più si rafforzano i dubbi circa la legittimità costituzionale di una scelta legislativa poco meditata. (94) Cfr. retro n. 1.1. Agli atti propriamente normativi vanno equiparati i provvedimenti amministrativi generali. Manterrei la qualificazione come effetti negoziali per le separazioni patrimoniali alla cui produzione concorrono, con atti giuridici dei privati, meri comportamenti (cfr. la precedente nt. 7 sull’eredità beneficiata, sulla quale vedi comunque anche la successiva nt. 121) ovvero atti espressivi, innanzi tutto, di un potere pubblico (si pensi alla trascrizione che si ritiene integrare l’effetto di separazione patrimoniale di cui all’art. 2645 ter c.c.). (95) L’assimilazione delle sentenze che accertano l’usucapione a quelle costitutive con efficacia traslativa (art. 8, nota II bis, Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986) è norma antielusiva che equipara l’effetto (dichiarativo) a quello costitutivo, non ha riguardo all’effetto legale della già avvenuta usucapione. (96) Si tratta, di regola, di assetti disciplinari rispondenti ad interessi generali, come, ad es., i vincoli culturali, paesaggistici, ambientali e quelli previsti dall’art. 2645 quater c.c..


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non rilevano, ai fini che qui interessano, le ipotesi di costituzione di vincolo (in forza di provvedimento amministrativo o giurisprudenziale ovvero di atto che esprima autonomia privata) che non costituiscano diritti, o comunque situazioni giuridiche soggettive attive, ma si risolvano in mero “limite” alla proprietà o ad altro diritto reale. Comportano invece la nascita di situazioni giuridiche attive a favore di soggetti determinati i c. d. “vincoli obbligatori” (97), che, non producendo effetti inerenti ai beni vincolati in termini di opponibilità e diritto di seguito, non possono essere inclusi tra i “vincoli” di cui alla disposizione in esame e rilevano esclusivamente per gli effetti obbligatori nell’ambito dell’imposta di registro (98). Ragioni sistematiche, riconducibili ai principi costituzionali inerenti la materia tributaria, impongono poi una riduzione del possibile significato della disposizione con riguardo ai “vincoli di destinazione” che si realizzano interamente nella costituzione di diritti reali su cosa altrui (come tale già soggetta alle imposte sui trasferimenti), includendo nella categoria anche la costituzione di eventuali “nuovi” diritti (99), oneri reali ed obligationes propter rem, nei casi in cui la legge espressamente li prevede (100). Sembra infatti evidente che la tesi dell’autonoma considerazione della costituzione di vincoli di destinazione come specifico indice di capacità contributiva proprio di un nuovo e distinto tributo, rispetto al quale non potrebbe porsi il dubbio della doppia imposizione, può essere sostenuta solo con riferimento a fattispecie diverse da quelle già assoggettate (101) ai tradizionali tributi sui trasferimenti della ricchezza: la piena identità, sotto il profilo della potenzialità effettuale, delle fattispecie in esame con la costituzione ad efficacia derivativo-costitutiva di diritti reali implica la piena operatività degli artt. 3 e 53 Cost. anche quali criteri interpretativi ed esclude ogni ipotesi di plurima imposizione.

(97) Cui già si è fatto riferimento nella precedente nt. 24 ed al punto 1.3. (98) Cfr. retro, nn. 1.2 e 1.5. (99) Cfr. quanto si è detto a proposito della cessione di “cubatura”. La costituzione di rapporti obbligatori non aventi ad oggetto prestazioni patrimoniali certe e determinate, pur se opponibili ai terzi, rileverebbe infatti solo ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, stante l’insussistenza dei requisiti dell’attribuzione liberale, soggetta all’imposta sulle donazioni. (100) L’assoggettamento dei relativi atti costitutivi alla sola imposta fissa di registro implica una valutazione dell’irrilevanza patrimoniale di tali effetti, non sempre scontata (si pensi al dibattito sul regime fiscale della cessione di cubatura). (101) Con applicazione di imposta proporzionale od anche di imposta fissa.


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Una ulteriore delimitazione della possibile efficacia normativa della disposizione in esame riguarda poi le ipotesi in cui la destinazione allo scopo è ottenuta mediante trasferimento (che in questi casi assume caratteristiche di trasferimento “finale”) a struttura organizzativa avente personalità giuridica od autonomia patrimoniale che persegua, appunto, lo scopo prescelto (102). In questi casi il vincolo di destinazione dei beni o diritti (o del complesso patrimoniale) trasferiti consegue direttamente all’atto ad efficacia traslativa e non richiede la nascita di ulteriori effetti giuridici in quanto la destinazione è assicurata dalla funzionalizzazione dei poteri degli organi cui sono affidati l’indirizzo e la gestione dell’attività programmata. Agli atti che realizzano questo tipo di destinazione le imposte sui trasferimenti della ricchezza (103) (ma anche, in alternativa o concorrenza, l’IVA) saranno applicate esclusivamente in ragione degli effetti traslativi, secondo la disciplina propria di ciascuna di tali imposte (104). Dati testuali sembrano poi confortare un’interpretazione dei comma 47, 48 e 49 dell’art. 2 D. L. n. 262/2006, come modificato in sede di conversione, che escluda la rilevanza, come autonome fattispecie imponibili, di “costituzioni di vincoli di destinazione” disposte per testamento (105). Infatti l’espressione surriportata compare nel comma 47 del citato art. 2, che fornisce una sintetica identificazione del tributo tramite il riferimento al suo oggetto, non è inserita nel comma 48, che contiene una sommaria indicazione dei “nuovi” criteri di determinazione quantitativa del tributo per le successioni mortis causa, e riappare solo nel successivo comma 49, che riguarda le donazioni ed i trasferimenti a titolo gratuito per atto tra vivi (106). D’altronde appare ragionevole che la complessiva vicenda della successione per morte della persona fisica, determinando l’applicazione dell’imposta sull’intero patrimonio, non comporti ulteriori prelievi commisurati al valore dei beni specificamente

(102) Cfr. retro, nn. 1.2 e 1.5. (103) Registro o successioni e donazioni, a seconda che il “trasferimento” avvenga in assetti onerosi o liberali, e comunque, ove siano trasferiti immobili, ipotecaria e catastale. (104) E quindi applicando anche le specifiche discipline agevolatrici previste in funzione della natura e delle finalità degli enti destinatari del trasferimento (cfr., ad es., l’art. 3, comma da 1 a 4 bis, D.Lgs. n. 346/1990). (105) Ad es., mediante destinazione di beni ad un trust costituito in precedenza o con il testamento stesso. (106) Peraltro la stessa scelta era effettuata nel D.L. n. 262/2006, nel testo ante conversione, ove le costituzioni di vincoli di destinazione erano considerate solo nelle disposizioni relative agli atti tra vivi, non in quelle sui trasferimenti per causa di morte.


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destinati. Ciò non implica una totale irrilevanza degli effetti destinatori, che possono, ad es., incidere sull’individuazione dei beneficiari delle attribuzioni successorie (107); ciò che si esclude è solo la possibilità di individuare, nella costituzione testamentaria del vincolo, un autonomo presupposto d’imposta. Con riguardo alle ipotesi di costituzione di vincoli di destinazione che si risolvono esclusivamente in trasferimento (anche sub specie di effetti derivativo-costitutivi) di beni e diritti, come si è detto soggetti all’ordinaria imposizione indiretta, trovano sicuramente applicazione i generali criteri distintivi che li riconducono all’area di operatività dei diversi tributi. In particolare rileveranno i caratteri dell’inerenza ad attività economiche (nella declinazione legislativa italiana, all’impresa), che implica l’assoggettamento ad IVA (108), e della sussistenza o meno (109) di un’attribuzione liberale, con il conseguente assoggettamento all’imposta sulle successioni e donazioni o, in alternativa, all’imposta di registro. L’applicazione dei medesimi criteri anche ai vincoli di destinazione in appresso considerati, “costituiti”, in combinazione con “trasferimenti” (110) o a prescindere da essi, mediante la produzione di effetti di separazione patrimoniale inerenti i beni e diritti (o i complessi patrimoniali) destinati ed opponibili ai terzi (111), richiede qualche ulteriore argomentazione. La nascita di patrimoni separati eccede infatti la gamma dei possibili effetti giuridici riconducibili alla categoria dei “trasferimenti” e proprio dalla specificità e diversità di questa categoria di effetti parte della giurisprudenza trae argomenti a sostegno dell’autonomia delle “costituzioni di vincoli di destinazione” in quanto autonomi e distinti presupposti d’imposta, irriducibili alla categoria dei “trasferi-

(107) Se il trust, testamentario o meno, risulta “trasparente”, ovvero dopo la definitiva attribuzione. (108) Come è noto, alternativa, salvo deroghe, all’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale (art. 40 D.P.R. n. 131/1986), ma non dell’imposta sulle donazioni (art. 56, c. 5, ultimo periodo, D.Lgs. n. 346/1990). (109) L’attribuzione liberale è, ovviamente, esclusa se l’atto posto in essere è strutturalmente oneroso, sia per l’intrinseca correlazione degli effetti (costituzione di servitù reciproche), sia per l’espressa pattuizione di prestazioni corrispettive (costituzione di servitù dietro corrispettivo in denaro od altri beni; “vincolo” conseguente all’acquisto a titolo oneroso di un bene da parte di fondazione od altra organizzazione dotata di autonomia patrimoniale). Ma potrebbe rilevare anche l’onerosità o la liberalità per connessione, giuridicamente rilevante, con altri atti (come nel caso delle c. d. donazioni indirette). (110) Siano essi “strumentali” o “finali”. (111) Si pensi a: vincoli derivanti da destinazione in trust, atti di cui all’art. 2645 ter c.c., contratti di affidamento fiduciario disciplinati dalla L. n. 112/2016.


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menti di beni e diritti” (112). Cercherò più oltre di dimostrare l’impossibilità logico giuridica di una “autonomia” (intesa come rispondenza ad una propria e diversa ratio impositrice) di tale fattispecie nel contesto normativo in cui essa è inserita (113). Qui preme intanto dimostrare l’insostenibilità di una ricostruzione interpretativa che configuri l’imposizione delle “costituzioni di vincoli di destinazione” alla stregua di un “nuovo” tributo, diverso da tutti quelli già presenti nel sistema dell’imposizione indiretta e pertanto non soggetto ai criteri di coordinamento che tale sistema attualmente caratterizzano. Già si è accennato che il dato testuale, estremamente limitato, fornito dalla scarna espressione surriportata, se non sostenuto da argomenti tratti dal contesto in cui è stato incluso (114), implica un criterio ampio e piuttosto vago per l’identificazione dei diversi e distinti indici di capacità contributiva cui si rivolgerebbe il nuovo tributo (115), con concreti rischi di eccessiva indeter-

(112) Per una chiara esposizione di questa tesi cfr. Cass., Sez. VI, n. 4482/2016. Per le reazioni critiche della dottrina nei confronti di questo indirizzo giurisprudenziale cfr. D. Stevanato, La “nuova” imposta su trust e vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, in GT-Riv. giur. trib., 2015, 400 ss.; T. Tassani, La “nuova” imposizione fiscale sui vincoli di destinazione, in Giur. Comm., 2015, 1026 ss.; A. Contrino, Sulla nuova (ma in realtà inesistente) imposta sui vincoli di destinazione “creata” dalla Suprema Corte: osservazioni critiche, in Rass. trib., 2016 ss.; L. Salvini, L’imposta sui vincoli di destinazione, in Rass. Trib., 2016, 925 ss.; sulla successiva evoluzione della giurisprudenza della Cassazione cfr. D. Stevanato, Trust liberali e imposizione indiretta, uno sguardo al passato rivolto al futuro?, in Corr. trib., 2016, 676 ss.; id., Il new deal della Suprema Corte sull’imposizione indiretta del trust: giù il sipario sull’imposta sui vincoli di destinazione, in GT- Riv. giur. trib., 2017, 31 ss.; T. Tassani, Trust e imposte sui trasferimenti, il “nuovo corso” della Corte di Cassazione, in Trusts, 2017, 283 ss.; Id., La cassazione conferma il suo orientamento?, in Trusts, 2018, 276 ss.; id., La “terza via” interpretativa della Cassazione su trust e vincoli di destinazione, in Trusts, 2018, 624 ss.; G. Corasaniti, Profili tributari del contratto di affidamento fiduciario, in Dir. prat. trib., 2018, 541 ss.; E.M. Bartolazzi Menchetti, Il tentativo cit., 206 ss., in part. 212 ss. Per gli orientamenti giurisprudenziali contrari a questa tesi cfr. Cass., Sez. V, nn. 25478/2015, 975/2018, 31445/2018. (113) Sul tema dell’inserimento di tributi “nuovi” nel contesto normativo di preesistenti istituti tributari e sui possibili profili di illegittimità costituzionale di tale tecnica normativa cfr., da ultimo, L. Salvini, Nomen dei tributi e capacità contributiva, in L’evoluzione del sistema fiscale e il principio di capacità contributiva, a cura di L. Salvini e G. Melis, Collana di studi del Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss, S. Giuliano Milanese, 2014, 67 ss. (114) Argomenti che perderebbero però la loro efficacia se si accettasse l’ipotesi del “nuovo” ed autonomo tributo. (115) Praticamente tutti i criteri adottati per delimitare la portata normativa dell’espressione ed addietro esposti trovano fondamento in una considerazione sistematica dell’intero contesto della fiscalità indiretta, che un’accentuata “autonomia” della nuova imposizione pregiudicherebbe totalmente, estendendo l’oggetto dell’imposizione stessa a qualsiasi vincolo di


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minatezza del vincolo testuale, non ammissibili in materia soggetta a riserva di legge che, seppur relativa, risulta piuttosto stringente per quanto attiene all’identificazione delle fattispecie imponibili. Ulteriori perplessità e dubbi suscita poi la configurazione del preteso “nuovo” tributo come entità autonoma, non solo distinta dagli altri tributi indiretti, ma non soggetta ai principi e criteri di coordinamento in cui si manifesta l’unitarietà e l’intrinseca razionalità di questo settore del sistema tributario. Come è noto, i rapporti fra IVA, imposte di registro, sulle successioni e donazioni, ipotecarie e catastali sono sostanzialmente regolati da due principi di coordinamento: il criterio dell’alternatività tra IVA e tributi di registro, ipotecari e catastali determinati in misura proporzionale (116) ed il criterio dell’applicazione concorrente di IVA ed imposta sulle donazioni (con deduzione della prima dall’imponibile della seconda) (117). La concezione del “nuovo” regime fiscale delle “costituzioni di vincoli di destinazione” come tributo autonomo e diverso rispetto a quelli esistenti comporterebbe l’inoperatività di quei criteri di coordinamento e la concorrente applicazione, senza alcun contemperamento, sia del nuovo tributo che dell’IVA, dell’imposta di registro, dell’imposta sulle successioni e donazioni e dei tributi ipotecari e catastali ogniqualvolta si riscontrasse la sussistenza degli elementi fattuali che integrano presupposti anche di questi ultimi tributi (118). La conseguenza risulterebbe eccessiva ed irrazionale (119).

destinazione, comunque costituito (per legge, provvedimento amministrativo o giurisdizionale, con effetti meramente obbligatori o solo conformativi della proprietà, mediante trasferimenti, costituzione di nuovi diritti, deroghe di ogni tipo al principio di cui all’art. 2740 c.c., e così via). (116) Artt. 40 D.P.R. n. 131/1986, 10, c. 2, D.Lgs. n. 347/1990, e 1, nota, Tariffa allegata al medesimo (riguardo all’imposta di bollo l’alternatività è limitata alle fatture ed altri documenti di cui all’art. 4 Tabella allegata al D.P.R. n. 642/1972); il principio ha subito rilevanti deroghe (artt. 5, c. 1, Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n.131/1986, 10, c. 1, D.Lgs. n 347/1990, 1 bis Tariffa allegata al medesimo), ma si pone comunque come regola generale per la definizione dei rapporti fra questi tributi. (117) Art. 56, c. 5, ultimo periodo, D.Lgs. n. 346/1990. (118) Quanto all’IVA, sembra pacifico che la destinazione di beni relativi all’impresa possa dar luogo a cessioni ex art. 2, c. 2, n. 4) D.P.R. n. 633/1972, se realizzata mediante trasferimento, e comunque ex art. 2, c. 2, n. 5), dello stesso decreto; quanto alle imposte sui trasferimenti della ricchezza, ogni effetto traslativo potrebbe dar luogo alla loro applicazione, fermi restando i criteri di coordinamento surrichiamati. (119) In realtà, la costruzione dell’autonomo tributo sulla costituzione dei vincoli di destinazione, dovendo necessariamente tener conto del materiale normativo proprio dell’imposta sulle successioni e donazioni, presenta gli ulteriori, e decisivi, profili di irrazionalità rispetto all’ipotesi interpretativa di un distinto presupposto dell’imposta stessa, non riconducibile alla


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Si deve quindi concludere che dalla formula inserita nei comma 47 e 49 dell’art. 2 L. n. 286/2006 non si può dedurre l’istituzione di un autonomo e distinto tributo e che i potenziali effetti normativi della formula stessa devono essere circoscritti nell’ambito dell’istituto in cui il legislatore stesso ha scelto, in definitiva, di inserirla. Pertanto, anche l’imposizione delle costituzioni di vincoli di destinazione è soggetta ai principi ordinatori del tributo sulle attribuzioni liberali, in particolare ai criteri di coordinamento con le altre imposte indirette addietro accennati. La portata normativa della formula in questione non può dunque essere estesa oltre l’ambito delle vicende patrimoniali che si risolvono in attribuzione liberale (120). Anche fra le costituzioni di vincoli di destinazione che non comportino esclusivamente trasferimento o costituzione di diritti reali non assumono rilievo gli assetti negoziali onerosi (121), nei

categoria dei trasferimenti “gratuiti”. Il tema sarà affrontato al successivo punto 2. In questa sede è comunque sufficiente una prima indicazione degli inconvenienti di ordine sistematico che tale costruzione comporterebbe. (120) Non assume quindi rilievo la maggior parte delle destinazioni patrimoniali funzionali all’esercizio di attività economiche (che di regola implicano assetti onerosi), in particolare, la costituzione di patrimoni destinati ad uno specifico affare ai sensi degli artt. 2447 bis e ss. c.c. Con riferimento all’accettazione beneficiata cfr. la successiva nt. 121. (121) La Cassazione (cfr., ad es., Sez. V, nn. 975/2018 e 31445/2018) ha, da ultimo, adottato il parametro dell’onerosità (intesa però come corrispettività) per definire l’ambito di operatività dell’imposta di registro (ma con riferimento al solo art. 9 Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986 ed in considerazione dell’art. 43, c. 1, lett. h, del D.P.R. medesimo). A mio avviso, si devono però escludere dall’ambito di operatività dell’imposta sulle successioni e donazioni tutti gli assetti negoziali non liberali, quindi anche quelli meramente gratuiti (cfr. retro, nt. 13) e gli atti classificabili come “neutri” (nella prospettazione che ne da G. Oppo, Adempimento e liberalità, Milano, 1947.), qualificazione che non può essere attribuita, come fa parte della dottrina (cfr., ad es., R. Quadri, La destinazione, cit., 286 ss.), a tutti gli atti produttivi di effetti di destinazione, di per sé idonei ad integrare assetti negoziali sia onerosi che gratuiti ed eventualmente anche “neutri”. Invero, sembra che un’interpretazione sistematica del c. 2 dell’art. 1 D.Lgs. n. 346/1990 ne limiti l’applicazione alle sole rinunzie integranti “liberalità non donative”; sul tema cfr. V. Mastroiacovo, La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, Torino, 2012, 132 ss., anche per gli spunti sulla “naturale” assoggettabilità ad imposta di registro della rinunzia, se considerata per la funzione negoziale tipica, e la dottrina ivi citata. A questa opinione è tuttavia contraria la “dottrina del fisco”, che muove da una nozione di gratuità come non corrispettività e la assegna interamente all’ambito di operatività dell’imposta sulle successioni e donazioni, ed anche gli autori che si sono occupati dell’argomento non sembrano fornire soluzioni univoche (cfr. per tutti G. Gaffuri, L’imposta, cit., 20 ss., 167 ss.; S. Ghinassi, La fattispecie, cit., 41 ss.). La vicenda costitutiva degli effetti di cui si sostanzia l’eredità beneficiata (rispetto alla quale si riconosce comunque una minor “intensità” degli effetti di separazione patrimoniale – cfr., ad


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quali agli effetti che determinano l’incremento patrimoniale si collegano, per connessione giuridicamente rilevante, altri effetti che incidono negativamente sul medesimo patrimonio (122). Ciò non significa, naturalmente, una sorta di franchigia fiscale per tali assetti onerosi (123), che, in relazione ai tratti funzionali ed agli effetti prodotti, possono essere assoggettati agli altri tributi indiretti (124). L’area delle situazioni di fatto potenzialmente riconducibili alla formula “costituzione di vincoli di destinazione” considerata nel contesto in cui è stata

es., U. La Porta, Destinazione, cit., 30 ss., in part. 31), pur inserendosi nella modulazione degli effetti dell’attribuzione successoria, soddisfa un interesse del chiamato analogo, seppur meno incisivo, a quello che potrebbe indurlo alla mera rinunzia (rifiuto). L’accettazione beneficiata va dunque esclusa dall’ambito di operatività della “nuova” formula relativa alle “costituzioni di vincoli di destinazione” perché non funzionale all’attribuzione liberale, ma volta a condizionarne gli effetti alla stregua di altri atti “neutri” in quanto estranei all’alternativa onerosità-gratuità. (122) Cfr. retro n. 1.1, nt. 11. In questa prospettiva rientrano fra gli assetti onerosi sia gli atti in sé strutturalmente onerosi (secondo i modelli della corrispettività, della dazionedestinazione per il conseguimento dello scopo comune, della prestazione solutoria e così via), sia le sequenze di atti o comportamenti, unificate da connessione degli effetti o dalla predeterminazione di un risultato unitario cui conseguano effetti di almeno parziale riequilibrio dei patrimoni interessati. (123) Fra i quali rientrano sicuramente i trusts liquidatori e di garanzia ed anche quelli costituiti solo per consentire la gestione unitaria di più beni o diritti (ad es., partecipazioni sociali), evitando eventuali scelte contraddittorie dei titolari, che ridurrebbero i risultati economici e la rilevanza strategica dell’indirizzo unitario della gestione stessa. (124) In particolare, ad IVA o ad imposta di registro secondo la già menzionata regola dell’alternatività. Si ripropongono quindi, nell’ambito di operatività di questi tributi, ma limitatamente ad atti o vicende negoziali caratterizzati da correlazioni onerose tra gli effetti, i problemi già affrontati da dottrina e giurisprudenza soprattutto con riferimento ai trusts (cfr. per tutti T. Tassani, I trusts, cit., 164 ss.). Assume l’onerosità della “prestazione” a requisito essenziale per l’assoggettamento ad imposta proporzionale di registro la recente giurisprudenza della Cassazione (Sez. V, nn. 25478/2015, 975/2018 e 31445/2018, che riguardano esclusivamente l’applicazione dell’art. 9 tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, dunque lasciano impregiudicata la possibilità di fare riferimento ad altre voci di tariffa, si vedano, ad es., le lettere e) ed f) dello stesso art. 43 e l’art. 11 tariffa parte I). Pur utilizzando una nozione di onerosità non condivisibile (perché identificata con la corrispettività) relativamente anche a fattispecie verificatesi prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 262/2006, come modificato in sede di conversione, queste sentenze costituiscono una chiara dimostrazione della rilevanza dei criteri di coordinamento sistematico delle imposte indirette (e fra di essi, in particolare, dell’alternativa onerosità/ gratuità, a mio avviso, più esattamente, liberalità/non liberalità) ai fini dell’individuazione del regime fiscale dei singoli atti costitutivi di “vincoli di destinazione”.


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inserita si riduce quindi agli atti ed ai complessi di atti che realizzano attribuzioni liberali tramite effetti diversi dal (o comunque più complessi del) mero trasferimento “finale”. Si tratta delle già menzionate ipotesi in cui la destinazione, funzionale ad una “finale” attribuzione liberale, si incentra su effetti di separazione patrimoniale, ai quali possono, a loro volta, risultare strumentali effetti traslativi necessari affinché la separazione si verifichi nel patrimonio di soggetto diverso dall’originario proprietario o titolare di beni, diritti o complessi patrimoniali oggetto della destinazione (125). Come già detto in precedenza, nell’ottica di una corretta attuazione del principio di capacità contributiva, gli effetti traslativi solo strumentali alla costituzione (126) del vincolo di destinazione non possono, in sé (127), giustificare un maggior concorso alle pubbliche spese, quindi l’applicazione im-

(125) In sostanza, se la separazione avviene nel patrimonio del disponente la destinazione non richiede trasferimento, che è invece necessario se la “segregazione” deve attuarsi nel patrimonio di altro soggetto, designato come gestore di quanto destinato. (126) In senso lato. Se non si accoglie la tesi della rilevanza soggettiva, anche ai fini della disciplina di diritto comune, di tutti i patrimoni destinati (tesi che, per ora, non sembra pacificamente accolta né in dottrina né in giurisprudenza – cfr., ad es., la stessa Cass. Sez. V, n. 2614/2016 e, risolvendo questione estranea alla materia fiscale, Sez. III, n. 2043/2017), si devono considerare fra le ipotesi di trasferimento “strumentale” anche tutti gli effetti conseguenti alla sostituzione (sia pur prevista e disciplinata negli atti istitutivi dei singoli “veicoli” della destinazione) dei gestori di ciascun fondo o patrimonio destinato. L’ipotesi di maggior rilevanza pratica parrebbe quella del trasferimento, ad es., della gestione di un fondo comune (peraltro di regola coinvolto in assetti negoziali onerosi) dall’una all’altra società di gestione, ma analoghi problemi sembrano prospettarsi per ogni ipotesi di sostituzione di trustee, di gestore del fondo affidato con contratto di affidamento fiduciario, e così via. (127) Cfr., ad es., le sentenze nn. 25478/2015, 21614/2016, 975/2018, 13626/2018 e l’ord. n. 31445/2018 della Sezione Tributaria della Cassazione. Come concordemente rilevato da dottrina e giurisprudenza, i trasferimenti “strumentali” non comportano alcun incremento patrimoniale per il soggetto cui è attribuita la gestione dei beni e diritti destinati, mentre, per il disponente, il trasferimento potrebbe essere assunto ad indice di capacità contributiva solo nell’ottica della tassazione “in uscita”, abbandonata, nel nostro sistema tributario, da molti decenni e che non potrebbe essere nuovamente inserita nel contesto dell’imposizione delle attribuzioni liberali senza rilevanti innovazioni normative, oggi del tutto insussistenti.


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mediata (128) di un prelievo commisurato al valore dei beni e diritti trasferiti (129).

(128) Risulta quindi insostenibile, sul piano del necessario adeguamento ai principi costituzionali, la tesi dell’Amministrazione finanziaria, che sembra assumere a fattore determinante dell’applicazione del tributo sulle attribuzioni liberali proprio la sussistenza degli effetti traslativi strumentali all’attuazione del vincolo (che ritiene comunque presenti in ogni ipotesi di destinazione in trust, presumibilmente sul presupposto di un generale riconoscimento, per lo meno ai fini fiscali, della soggettività di tutti i trusts). Meno lesiva del principio di capacità contributiva sarebbe, a mio avviso, l’affermazione della natura di mera “anticipazione” del prelievo effettuato al solo attuarsi della destinazione (cui risulterebbe congruente l’affermata rilevanza del rapporto tra disponente e destinatari “certi” ai fini dell’applicazione di franchigie ed aliquote, ma incompatibile la tesi dell’irrilevanza fiscale delle successive vicende di beni, diritti o patrimoni vincolati conseguenti alla destinazione loro impressa); come è noto, la prospettazione in termini di anticipazione dell’immediata applicazione dell’imposta all’atto della destinazione, altra volta prospettata (cfr. A. Fedele, Il regime, cit., 611 ss.), non è stata favorevolmente accolta dalla dottrina (cfr. per tutti T. Tassani, I trusts, cit., 143 ss.; S. Ghinassi, La fattispecie, cit., 95 ss.), soprattutto per la contestata difficoltà di estensione (analogica?) dell’art. 42, c. 1, lett. e), D.Lgs. n. 346/1990, che dovrebbe neutralizzare eventuali divergenze tra la misura dell’imposta “anticipata” e l’esito finale della vicenda destinatoria in termini di attribuzione liberale, che resta pur sempre l’effettivo indice di capacità contributiva cui fare riferimento. D’altronde non risultano aperture della stessa Amministrazione finanziaria a possibilità di adeguamento del prelievo iniziale all’effettivo porsi in essere ed alle caratteristiche delle attribuzioni “finali”. Sembra dunque che alla dottrina del fisco non possa che opporsi l’illegittimità del prelievo se giustificato dal solo trasferimento “strumentale”. (129) L’osservazione, condivisa da tutta la dottrina e da parte almeno della giurisprudenza (cfr. Cass., Sez. V, n. 21614/2016, in Riv. dir. trib., 2017, II, 43 ss., con note di A. Fedele e C. Scalinci), risulta di più immediata evidenza se riferita al tributo “principale”, cioè all’imposta sulle successioni e donazioni, ma può ben essere apprezzata, quando oggetto della destinazione siano beni immobili o diritti reali immobiliari, anche con riguardo ai tributi “dipendenti”, (imposte ipotecarie e catastali). Malgrado l’infelice formulazione del D.Lgs. n. 347/1990 (che assume ad oggetto di tali tributi le “formalità” ipotecarie e catastali e, se assunta ad unico criterio definitorio dei presupposti dei medesimi, comporterebbe la necessaria illegittimità costituzionale dell’intera loro disciplina per violazione dell’art. 53 cost.) si deve infatti individuare l’indice di capacità contributiva che giustifica l’applicazione di questi tributi tenendo conto dei presupposti delle imposte dalle quali essi “dipendono”, con la conseguenza che, ove non sussistano le condizioni per l’applicazione del tributo “principale”, quello “dipendente” non possa eccedere la misura fissa (cfr. ancora Cass., Sez. V, nn. 21614/2016 e 31445/2018, nonché, con riferimento a fattispecie verificatasi anteriormente all’efficacia della reintroduzione dell’imposta sulle successioni, Cass., Sez. V, n. 25478/2015 e n. 975/2018). Per alcuni rilievi critici nei confronti di quanto affermato nella succitata Cass. n. 21614/2016 cfr. A. Vicari, Il trust, imposte ipotecarie e catastali (e le improprie analogie con l’imposta sulle donazioni e successioni), in Vita not., 2017, 699 ss; sembra però che nella motivazione di tale sentenza la qualificazione del trust come liberalità indiretta sia effettuata in ragione del collegamento tra i più atti compresi nel programma negoziale; nel quadro dei rapporti sistematici tra i diversi tributi sui trasferimenti


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Il tratto caratteristico e distintivo delle “costituzioni di vincoli di destinazione” rilevanti secondo la “nuova” definizione dei presupposti dell’imposta sulle successioni e donazioni (quindi attinenti alla sola area delle attribuzioni liberali) può pertanto essere identificato in effetti giuridici non meramente legali (130), opponibili ai terzi ed inerenti oggettivamente ai beni e diritti destinati (131), che comportano, oltre ad indirizzi vincolanti per l’attività del gestore, la separazione dei beni e diritti medesimi dal residuo patrimonio del loro proprietario o titolare, necessaria per evitare ogni possibilità di distrazione, anche solo parziale, del “fondo” dallo scopo (132) stabilito. Infatti l’espe-

in essere prima dell’entrata in vigore della novella del 2006 non si escludeva però l’autonomo assoggettamento ad imposta dei più atti collegati, con applicazione al primo (la destinazione in trust) della sola imposta fissa (data la funzione meramente strumentale del “trasferimento”) ed ai successivi (le attribuzioni “finali” ai beneficiari) dell’imposta proporzionale; solo a seguito dell’introduzione dell’ espressa previsione delle “costituzioni di vincoli di destinazione” si può argomentare (cfr. oltre, n. 2.3) la loro inclusione nell’ambito di operatività del tributo sulle successioni e donazioni, ma con il limitato effetto di escludere l’applicazione dell’imposta (fissa) di registro, non dell’imposta ipotecaria di trascrizione (comunque in misura fissa); le accennate considerazioni circa l’ancor attuale rilevanza del rapporto fra tributi “principali” e “dipendenti” sui trasferimenti della ricchezza fanno anche dubitare della qualificazione come obiter dictum per la parte della sentenza specificamente riferita all’imposta sulle successioni e donazioni. Naturalmente, ove si ritenga il trasferimento immobiliare soggetto ad IVA (ex art. 2, c. 2, nn. 4) o 5), D.P.R. n. 633/1972, trattandosi di immobili prodotti dalla o, rispettivamente, relativi alla, impresa), soccorrerebbe il disposto dell’art. 1, nota, tariffa e dell’art. 10, c. 2, D.Lgs. n. 347/1990, che prevede l’applicazione della sola imposta fissa, salva la deroga per l’ipotesi di cui all’art. 1 bis Tariffa ed all’art. 10, c. 2 D.Lgs. cit., disposizioni, queste ultime, che, nell’intreccio di regole di coordinamento e rinvii determinato da una forse insufficiente considerazione dei rapporti fra i diversi tributi, parrebbero assumere una rilevanza prevalente. (130) Circa l’inidoneità degli effetti legali ad integrare la fattispecie della “costituzione di vincoli di destinazione” cfr., anche per le esemplificazioni, il precedente n. 1.1.; con particolare riferimento all’accettazione beneficiata dell’eredità, sia per la totale predeterminazione degli effetti del beneficio che per la loro subordinazione al perfezionamento dell’inventario, che è mera operazione, cfr. le precedenti note 6 e 7. (131) Come già accennato (cfr. retro n. 1.3) ciò esclude dall’ambito delle vicende rilevanti ai nostri fini tutti i “vincoli obbligatori”, ricostruiti sul modello del divieto di alienazione (art. 1379 c.c.). (132) Sulle implicazioni del “destinare ad uno scopo” come fissazione di un programma di azione e di un suo risultato, definito in termini di intervento sui preesistenti assetti giuridici e sociali cfr. retro nt. 17 e 18. Questo particolare profilo della destinazione non è necessariamente connesso alla separazione patrimoniale: ad es., si potrebbe dubitare della sua sussistenza nell’eredità beneficiata; infatti la disciplina di quest’ultimo istituto è essenzialmente rivolta ad escludere che i creditori dell’eredità possano soddisfare i loro crediti mediante azioni esecutive sul patrimonio personale dell’erede beneficiato, unico titolare dell’interesse tutelato che forse


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rimento di azioni esecutive da parte di creditori del titolare dei beni e diritti destinati, ma ad estinzione di obbligazioni non inerenti lo scopo destinatorio, può portare alla sottrazione, totale o parziale, del fondo al vincolo cui è soggetto anche a prescindere dalla violazione di obblighi, oneri e limitazioni imposti al gestore e comunque a prescindere dai risultati della sua gestione. Gli effetti di separazione patrimoniale che escludano la possibilità stessa di azioni esecutive sui beni vincolati a soddisfazione di obbligazioni non contratte per l’attuazione dello scopo prefisso risultano quindi necessari ed essenziali per la sussistenza del “vincolo di destinazione” (133). I risultati di un primo approccio interpretativo all’inserimento, nella definizione del presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni, di un’espressa previsione della “costituzione di vincoli di destinazione” porterebbero dunque a delimitare l’area delle “nuove” fattispecie potenzialmente interessate in ragione della natura liberale degli assetti negoziali e della presenza di effetti di separazione patrimoniale (134) idonei ad evitare che i beni o diritti vincolati siano sottratti alla destinazione loro impressa in virtù del principio della generale responsabilità patrimoniale altrimenti operante anche per il loro proprietario o titolare (135). D’altronde è a questa tipologia di assetti nego-

non corrisponde pienamente alla suaccennata nozione di “scopo”; pur ammettendo (secondo la ricostruzione più convincente e meglio argomentata cfr. U. Natoli, L’amministrazione, cit., 99 ss.) una separazione piena (o bilaterale) fra l’eredità beneficiata ed il residuo patrimonio dell’erede, non sembra quindi certo che l’eredità beneficiata possa definirsi patrimonio destinato. L’irriducibilità degli effetti del beneficio alla previsione inserita nel D. L. n. 262/2006, come modificato in sede di conversione, può comunque essere più sicuramente fondata sul decisivo argomento di cui alla precedente nt. 121. (133) Per alcune esemplificazioni sul tema cfr. la precedente nt. 90. Per l’insussistenza di un limite inderogabile all’esperimento di azioni esecutive a soddisfazione di obbligazioni diverse da quelle attinenti lo scopo della destinazione non rientrano, ad es., tra gli istituti rilevanti ai nostri fini: – la cessio bonorum, visto che i creditori anteriori alla cessione e ad essa non partecipanti possono agire esecutivamente sui beni ceduti (art. 1980, c. 2, c.c.); – la costituzione del fondo patrimoniale, visto che l’esecuzione sui beni che lo costituiscono è ammessa anche per obbligazioni contratte per scopi estranei ai bisogni della famiglia se il creditore non conosceva tale circostanza (art. 170 c.c.); la formula è identica a quella relativa all’usufrutto legale dei genitori (art. 326, c. 2, c.c.), che qui non interessa in quanto, appunto, effetto legale; con riferimento al fondo patrimoniale va anche ricordata la recente disposizione che consente ai creditori, nel primo anno successivo alla costituzione, l’azione esecutiva sui beni del fondo, senza necessità di esperire previamente l’azione revocatoria (cfr. l’art. 12 D. L. n.83/2015, convertito con L. n. 132/2015, che ha inserito nel codice civile l’art. 2929 bis). (134) Combinati o meno con trasferimenti “strumentali”. (135) Per un’esemplificazione circa gli istituti cui si riconoscono tali caratteristiche si può


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ziali e di istituti giuridici (136) che si rivolgono interpretazioni dottrinali od amministrative ed interventi della giurisprudenza (137), sia pure giungendo a conclusioni diverse e fra loro incompatibili (138). La sostenibilità del possibile esito interpretativo qui esposto va ora soggetta ad un più stringente vaglio di compatibilità, da un lato con la complessiva configurazione sistematica dei presupposti dell’imposta sulle successioni e donazioni, dall’altro con l’intera disciplina sostanziale (soggetti, base imponibile, aliquote) dell’imposta stessa che, in mancanza di ulteriori specifici dati testuali, dovrebbe integrare la scarna previsione inserita nei comma 47 e 49 dell’art. 2 L. n. 286/2006, come modificato in sede di conversione. 2. La “costituzione di vincoli di destinazione” tra definizione di un “autonomo” presupposto d’imposta e adeguamento al concetto di attribuzione liberale. 2.1. Vincoli di destinazione ed imposta sulle successioni e donazioni come istituto giuridico. – Le conclusioni cui si è giunti nel precedente punto 1 identificano come tratto specifico delle vicende destinatarie riconducibili alla

fare riferimento ai trusts con segregazione totale, ai fondi speciali ex art. 1 L n.112/2016 (il cui regime fiscale, previsto dall’art. 6 della legge stessa, dovrebbe essere, a mio avviso, apprezzato in termini di esclusione, non di esenzione), ai beni destinati con atti di cui all’art. 2645 ter c.c., tutti già menzionati alla precedente nt. 90, e relativamente ai quali va, di caso in caso, accertata la sussistenza dell’effettiva natura liberale della vicenda negoziale in cui sono inseriti. (136) Si deve però tener presente che taluni approcci interpretativi sembrano implicitamente negare ogni rilevanza alla qualificazione delle singole operazioni in termini di onerosità, gratuità o liberalità (si pensi alla tesi fatta propria dalla già citata sentenza n. 4482/2016 della Sezione VI della Cassazione che parrebbe configurare un “autonomo tributo gravante qualsiasi ipotesi di costituzione dei vincoli”), ovvero muovere da discutibili definizioni delle categorie in questione (l’Amministrazione finanziaria, ad es., sostiene una nozione di gratuità, in quanto non corrispettività, riferita esclusivamente ai singoli atti ed ai loro effetti; a questa impostazione sembra aderire, da ultimo, anche Cass., Sez. V, nn. 975/2018 e 31445/2018). Altre volte si fa invece, correttamente, riferimento all’area delle liberalità (cfr. ad es., Cass., Sez. V, n. 21614/2016, che richiama la nozione di donazione indiretta). (137) Naturalmente la casistica di riferimento è essenzialmente costituita da ipotesi di destinazione in trust (per lo più aventi ad oggetto immobili), anche se circolari dell’Amministrazione finanziaria ed elaborazioni dottrinali hanno preso altresì in considerazione ulteriori modalità di costituzione di vincoli, dalla destinazione al fondo patrimoniale (che, a mio avviso, per le ragioni già esposte – cfr. retro, nt. 131 – non rientra fra le costituzioni di vincoli di cui alla disposizione in esame), ai fondi speciali di cui alla L. 112/2016 (cfr. A. Giusti, Il regime, cit., 402 ss.). (138) Basti pensare alle soluzioni cui pervengono l’Amministrazione finanziaria, la Cassazione (con decisioni contrastanti) e la dottrina.


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“nuova” formula della “costituzione di vincoli di destinazione” la produzione di effetti di separazione patrimoniale funzionali ad evitare la sottrazione dei “fondi” destinati agli scopi prefissi. Parrebbe quindi potersi identificare negli atti produttivi di tali effetti la “ulteriore” fattispecie imponibile “aggiunta”, con la reistituzione dell’imposta, a quelle già previste: accanto ai “trasferimenti per causa di morte” o per liberalità tra vivi si collocherebbero gli atti produttivi dei suaccennati effetti di separazione patrimoniale, purché inseriti in vicende ordinate ad attribuzioni patrimoniali liberali e pertanto prodromici e funzionali alle attribuzioni stesse. Ne conseguirebbe un primo assoggettamento al tributo al momento della “costituzione del vincolo”, ferma restando la possibilità di un’ulteriore applicazione dell’imposta all’eventuale verificarsi di una attribuzione liberale “finale” (139). La mera possibilità di legittimare una plurima applicazione del medesimo tributo in relazione ad “operazioni” apprezzate come sostanzialmente unitarie impone però un più attento esame critico di questa opzione interpretativa. Presupposto inespresso della tesi è l’affermazione che, nella disciplina dell’imposta sulle successioni e donazioni, già caratterizzata dalla pluralità dei fatti imponibili (successioni mortis causa, donazioni, liberalità non donative), ben possa inserirsi la previsione di un’ulteriore fattispecie: la costituzione di vincoli di destinazione, appunto. Ma la pluralità dei presupposti nell’ambito di un unico tributo, cioè di un singolo istituto giuridico, presuppone la possibilità di ricondurli tutti ad una ratio unitaria, quindi ad un unico indice di capacità contributiva, ad uno specifico criterio di riparto dei carichi pubblici. La mera destinazione tramite separazione patrimoniale, seppure funzionale e strumentale ad attribuzioni liberali, non è però compatibile con la ratio cui si ispira l’imposta sulle successioni e donazioni, che ha riguardo solo all’arricchimento finale del beneficiario (140). Invero, laddove effettivamente vi sia pluralità

(139) È questo, in sostanza, il risultato pratico cui mira l’orientamento interpretativo accolto nelle ordinanze e nella sentenza della Sezione VI della Cassazione addietro citate, nelle quali risulta solo accennato, e comunque non chiarito, il tema di una possibile attenuazione dell’incidenza complessiva del prelievo sulla costituzione del vincolo e di quello sull’eventuale trasferimento finale attuativo dello scopo della destinazione. (140) Se anche emergono, talvolta, nella giurisprudenza della Cassazione, indirizzi interpretativi più o meno consapevolmente ispirati ad una considerazione “separata” delle attribuzioni liberali per atto tra vivi rispetto alle successioni per causa di morte (cfr., ad es., con riferimento alla spettanza della franchigia, Cass., Sez. V, n. 24940/2016 e ord. nn. 12779/2018 e 758/2019), resta indiscussa l’unitarietà della ratio del tributo, ordinato al concorso alle


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di fatti imponibili nella disciplina di un unico tributo, le più fattispecie non possono essere fra loro sovrapponibili, altrimenti si evidenzierebbero ipotesi di doppia imposizione, che è la più immediata manifestazione dell’incostituzionalità, per totale irrazionalità, della disciplina impositiva. Ma se si ammette l’applicazione dell’imposta alla mera costituzione del vincolo di destinazione, la possibilità del doppio d’imposta è evidente (141). D’altra parte, all’assunzione dell’atto costitutivo di vincoli ad autonomo presupposto del tributo successorio fa ostacolo la mancata previsione di una specifica disciplina della determinazione dell’imponibile e delle aliquote, che rende necessaria l’applicazione delle relative norme dettate per l’imposta sulle successioni e donazioni. Un’elementare esigenza di razionalità e coerenza della disciplina di ogni tributo impone però che sia riducibile alla ratio ispiratrice, all’individuazione dello specifico criterio di riparto, l’intera disciplina sostanziale (142) del concorso alle pubbliche spese in funzione del criterio stesso. Sotto questo profilo, la disciplina della determinazione dell’imponibile (143) e soprattutto quella che individua soggetti passivi (144), misura delle

pubbliche spese “in ragione” dell’incremento patrimoniale derivante da attribuzione liberale. Il cennato orientamento della Cassazione potrebbe, al più, incidere sulla prospettazione delle liberalità tra vivi come “anticipazione” della successione mortis causa, non incide comunque sull’unicità del tributo. (141) Come risulta dalle decisioni, più volte citate, della Sezione VI della Cassazione, nelle quali peraltro solo con difficoltà possono essere rilevati riferimenti ad una (forse parziale) neutralizzazione del doppio (cfr. L. Salvini, Il nomen, cit., 67 ss.); ma l’unica effettiva neutralizzazione si risolve nella tecnica dell’”anticipazione” (rispetto alla cui adozione in questo caso sussistono, come si è visto, serie obiezioni), che tuttavia implicherebbe, per la costituzione dei vincoli, la negazione, non l’affermazione, della qualità di presupposto “autonomo”. La neutralizzazione per detrazione di imponibile da imponibile (o anche di imposta da imponibile, che ha effetto solo parziale) è tecnica propria del coordinamento tra tributi diversi e non esclude comunque la definitività del prelievo sulla destinazione anche quando l’attribuzione finale non si realizza. (142) Mentre per quanto riguarda la disciplina procedimentale o dell’attuazione il rinvio alle norme dettate per altro tributo può risultare ragionevole e congruo, basti pensare all’applicazione dell’imposta sulle donazioni, regolata mediante rinvio alle norme dettate per l’imposta di registro (artt. 6, c. 2 e 60 D.Lgs. n. 346/1990). (143) Che, ad es., per le liberalità inter vivos non ammette deduzione di passività (ma, al più, del modus), mentre talune ipotesi di costituzione di vincoli di destinazione finalizzate ad attribuzioni liberali possono avere ad oggetto complessi patrimoniali, costituiti anche da componenti passive, ma non identificabili esclusivamente con aziende o complessi aziendali. (144) Designando esclusivamente beneficiari di attribuzioni liberali, mentre la costituzione di vincoli di destinazione può non consentire affatto l’identificazione di beneficiari, i quali, se anche risultano, sono poi, di regola, solo eventualmente, e comunque successivamente,


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franchigie ed aliquote (145) nell’imposta sulle successioni e donazioni, risulta sostanzialmente incongrua e difficilmente coordinabile con l’assunzione a fatto imponibile della mera costituzione dei vincoli (146). L’insanabile irriducibilità ad una ratio unitaria (in altri termini, l’incongruenza) di parte della disciplina di un unico tributo si configura come evidente ipotesi di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 53 cost. (147). Il principio dell’interpretazione conforme alle norme costituzionali impone pertanto l’abbandono di qualsiasi interpretazione dei comma 47 e 49 del D.L. n. 262/2006, come modificato in sede di conversione, che assuma la “costituzione di vincoli di destinazione” a presupposto “autonomo” (cioè a distinta fattispecie imponibile, diversa dalle altre ed a loro contrapposta) del tributo sulle successioni e donazioni perché incompatibile con il sistema normativo in cui verrebbe ad inserirsi il risultato dell’interpretazione stessa. 2.2. L’ipotizzata istituzione di un “autonomo” e distinto tributo sulla “costituzione dei vincoli di destinazione” sarebbe in contrasto con i principi costituzionali. – Gli argomenti esposti nel precedente punto 2.1 potrebbero ritenersi in parte superati se la tesi dell’“autonoma considerazione” delle costituzioni di vincoli di destinazione fosse spinta a conseguenze più drastiche, assumendo tali costituzioni a presupposto, non dell’imposta sulle successioni e donazioni, ma di un nuovo e diverso tributo. In tal caso non si porrebbe, infatti, il problema della compatibilità e congruenza del “nuovo” presupposto con la “ratio” dell’imposta sulle successioni e donazioni, dovendosi, invece,

destinatari dell’attribuzione (cfr. la succitata giurisprudenza della Sez. VI della Cassazione, che chiaramente indica, ma senza supporto testuale alcuno, come soggetto passivo il disponente e al più potrebbe indicare il gestore, ma non sempre uno o più beneficiari); come già si è detto, l’individuazione del soggetto passivo nello stesso trust o comunque del patrimonio separato, alla bisogna soggettivato, riconduce la fattispecie imponibile alla vicenda traslativa, escludendo l’autonoma rilevanza della “costituzione di vincoli di destinazione”. (145) Comunque rapportate a relazioni di coniugio, parentela od affinità fra disponenti e beneficiari, oppure anche a condizioni personali di questi ultimi, non sempre identificabili alla costituzione del vincolo, come si è accennato nella nota che precede. (146) L’incongruenza è concordemente rilevata dalla dottrina, soprattutto con riguardo all’individuazione dei soggetti passivi. (147) Cfr., con particolare riferimento alla disciplina dell’imponibile, A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 149; con riferimento ad una casistica recente cfr. L. Salvini, Il nomen, cit., 67 ss. La giurisprudenza della Corte costituzionale, originariamente episodica sul tema, sembra negli ultimi tempi più attenta all’intrinseca razionalità ed alla congruità dell’intera disciplina del tributo (cfr. le sentenze nn.223/2012, 116/2013, 83/2015, 78/2016, 177/2017, 242/2017, 269/2017, 27/2018).


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individuare uno specifico e diverso principio ispiratore, deducibile, fondamentalmente, dal presupposto stesso. Si sono già indicati (148) i gravi inconvenienti che deriverebbero dall’assoluta carenza di qualsiasi criterio di coordinamento del preteso nuovo ed autonomo tributo con gli altri istituti che attualmente integrano il sistema dell’imposizione indiretta, in particolare con IVA ed imposte di registro, successioni e donazioni, ipotecarie e catastali. Inoltre, e come si è già accennato, il dato testuale dal quale si vorrebbe desumere l’istituzione del nuovo tributo è estremamente limitato e ridotto, in sostanza, all’indicazione di una categoria di atti giuridici e dei loro effetti mediante termini usualmente utilizzati da studiosi ed operatori giuridici con una tale ampiezza di significati da pregiudicare la determinazione legislativa dei fatti imponibili che è invece richiesta dall’art. 23 cost. Assumendo quest’unico dato testuale per la ricostruzione di un intero tributo come istituto giuridico caratterizzato da una propria ratio, irriducibile a quella di altri, risultano infatti, impossibili gran parte dei riferimenti alla collocazione sistematica, ai caratteri ed alla struttura dell’imposta sulle successioni e donazioni addietro effettuati, nella diversa prospettiva di un inserimento del nuovo fatto imponibile nella struttura dell’imposta stessa, per supplire all’evidente carenza di “base” legislativa. Emerge quindi un primo profilo di illegittimità costituzionale, per violazione della riserva di legge, che impone anche una sufficiente determinatezza del testo dell’ atto di fonte primaria. Infine, anche scegliendo l’opzione interpretativa dell’autonomo tributo, la disciplina dei soggetti passivi, dell’imponibile, delle eventuali franchigie e delle aliquote dovrebbe pur sempre essere desunta dal rinvio al Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni e, in questa prospettiva, la incongruenza della definizione dell’indice di capacità contributiva risultante dalla formula “costituzione di vincoli di destinazione” con la disciplina risultante dal rinvio appare ancora più evidente, vista la preliminare esclusione di ogni rapporto di continenza con l’istituto per la cui disciplina la disposizioni richiamate furono originariamente poste. Appare dunque chiaro l’ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 53 cost., che si oppone a tale indirizzo interpretativo. L’ipotesi che la “nuova” disciplina posta dai comma 47 e 49 dell’art. 2 D.L. n. 262/2006, come modificato in sede di conversione, istituisca, tra l’al-

(148) Cfr. il precedente punto 1.7.


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tro, un autonomo e distinto tributo sulla costituzione dei vincoli di destinazione risulta quindi insostenibile, almeno sulla base testuale fornita dagli atti normativi in vigore. 2.3. Non si tratta di “interpretatio abrogans”. – A questo punto va preso in considerazione un ulteriore argomento che potrebbe (149) essere addotto contro le conclusioni sin qui raggiunte: poiché nei comma 47 e 49 dell’art. 2 D.L. n.262/2006, come modificato in sede di conversione, sono inserite, rispettivamente, le espressioni “e sulla costituzione di vincoli di destinazione” e “e la costituzione di vincoli di destinazione”, il risultato dell’interpretazione di quelle disposizioni non può mai risolversi nella negazione di qualsiasi significato alle espressioni stesse, che darebbe luogo ad interpretatio abrogans, non consentita neppure a titolo di interpretazione conforme al dettato costituzionale, spettando solo al giudice delle leggi, non all’interprete, la facoltà di superare il vincolo testuale. Poiché non mi sembra qui possibile affrontare il tema del vincolo imposto all’interprete dal contenuto testuale degli atti normativi (150), mi limiterei qui ad osservare che gli esiti del tentativo di interpretazione delle espressioni summenzionate sinora svolto non implicano necessariamente la negazione di un qualsiasi significato e quindi di una qualsiasi loro incidenza sull’efficacia normativa dell’atto nel cui testo sono state inserite. Anche se si nega, proprio in virtù del contesto (151), la possibilità di desumere da tali espressioni l’identificazione legislativa di un “nuovo” e distinto fatto imponibile (cioè del diverso indice di capacità contributiva manifestato dagli effetti tipici della destinazione patrimoniale), la scelta di menzionare

(149) Ed in realtà è già stato addotto, sia nella citata giurisprudenza della Sez. VI della Cassazione, sia in dottrina (cfr., ad es., C. Scalinci, Dalla pigra macchina, cit., in Riv. dir. trib., 2017, II, 69 ss.). (150) Pur in presenza di orientamenti assai diversi circa i limiti posti dal dato testuale ai possibili risultati dell’interpretazione (solo a mò di esempio potrebbero citarsi da un lato F. Modugno, In difesa dell’interpretazione conforme a costituzione, in Riv. AIC, 2010, dall’altro V. Velluzzi, Interpretazione e tributi, 2015, passim, in part. 9 ss., non sembra possibile negare, per una qualsiasi parte del testo di un atto normativo, l’attitudine ad incidere sugli effetti dell’atto stesso, salva, naturalmente, la concorrente efficacia di atti normativi equiordinati (o, talvolta, sovraordinati), secondo i modelli dell’abrogazione, della disapplicazione o della dichiarazione di incostituzionalità. (151) E della totale mancanza di, sia pur sintetiche, previsioni legislative che integrino una disciplina di soggetti passivi, imponibili ed aliquote congrua e coerente con la previsione di un autonomo e distinto presupposto d’imposta.


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esplicitamente, nella sintetica definizione dei presupposti del tributo sulle attribuzioni liberali, la costituzione di vincoli di destinazione non risulta priva di una specifica valenza normativa: il riconoscimento che, se ordinato alla liberalità, l’atto costitutivo del vincolo concorre ad attuarla in un rapporto di connessione funzionale (152) con l’atto o gli atti che produrranno l’attribuzione o le attribuzioni “finali”, quindi viene attratto all’ambito di operatività dell’imposta sulle successioni e donazioni. Naturalmente, mancando ancora l’arricchimento del beneficiario o dei beneficiari, la mera costituzione del vincolo non può dar luogo all’applicazione dell’imposta, che sarà commisurata all’arricchimento stesso (153). In tal modo si risolve un problema proprio di tutte le ipotesi in cui si riconosce la rilevanza, ai fini fiscali, di un collegamento fra diversi atti: il problema del coordinamento fra i diversi tributi in astratto applicabili ai diversi atti in ragione del tipo e dell’efficacia di ciascuno, coordinamento che lo stesso riconoscimento dell’unicità dell’operazione posta in essere rende per lo meno auspicabile (154). Insomma, all’opzione legislativa, forse all’epoca scarsamente meditata, che a quel dato testuale ha dato origine può essere riconosciuto una specifico effetto normativo coerente e congruo con l’intero quadro sistematico sul quale è venuta ad incidere.

(152) Chiaramente evidenziato dagli obblighi e limiti imposti al gestore e garantito dagli effetti di separazione patrimoniale. (153) Ove si accetti l’opinione che nella disciplina dell’imposta sulle successioni e donazioni manca una previsione generale dell’applicazione in misura fissa (che è eccezionale: art. 59 D.Lgs. n. 346/1990), si può concludere che gli atti di destinazione ordinati a liberalità, se soggetti a registrazione, non scontano neppure l’imposta fissa. Non ritengo che a questa conclusione si possa opporre il rinvio alla disciplina dell’imposta di registro di cui all’art. 60 D.Lgs. n. 346/1990. Infatti il rinvio in questione è riferibile alle sole norme procedurali, non a quelle sostanziali, come l’art. 27, c. 1, D.P.R. n. 131/1986 o l’art. 11 Tariffa, parte prima, del D.P.R. medesimo (154) Ed è sicuramente avvertito dallo stesso legislatore che interviene talvolta con rimedi empirici (quando si esplicitò l’applicazione alle liberalità indirette dell’imposta sulle donazioni fu introdotto il comma 4 bis dell’art. 1 D.Lgs: n 346/1990, che elimina il concorso dei tributi, almeno per i casi in cui esso assumerebbe maggiore incidenza), talvolta con più esaustive e razionali soluzioni (si vedano i comma 1 e 11 dell’art. 10 bis L. n. 212/2000, con riferimento ai casi in cui l’abuso risulti da collegamento fra più atti o fatti autonomamente soggetti ad imposta).


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3. De jure condendo: una specifica forma di imposizione della costituzione di vincoli di destinazione non sarebbe, in sé, incostituzionale, ma andrebbe adeguatamente disciplinata. – Quanto sin qui si è detto, nel tentativo di interpretare disposizioni forse non adeguatamente meditate, non implica comunque inidoneità degli effetti riconducibili alla formula del “vincolo di destinazione” ad integrare un indice di capacità contributiva conforme ai principi costituzionali e razionalmente compatibile con la struttura del nostro sistema tributario. Per ottenere questo risultato si dovrebbe però effettuare, innanzi tutto, una scelta sistematica di fondo. Come già si è accennato, all’atto costitutivo del vincolo di destinazione potrebbe darsi rilevanza, per gli effetti suoi propri, fra gli atti soggetti ad imposta di registro, integrandone però, adeguatamente, la disciplina, attualmente priva di qualsiasi specifica previsione idonea a risolvere i dubbi da tempo segnalati dalla dottrina. Altrimenti, si potrebbe istituire un nuovo tributo, di cui dovrebbe essere totalmente e compiutamente articolata la disciplina sostanziale ed attuativa. Ambedue le soluzioni richiederebbero, in primo luogo, una ponderata valutazione delle opzioni attinenti ai rapporti tra i vari istituti che integrano il sistema dell’imposizione indiretta. Infatti il riconoscimento di una specifica rilevanza, a determinate condizioni, alle destinazioni patrimoniali come indici di capacità contributiva implicherebbe la riconduzione di tutte le “costituzioni di vincoli”, a prescindere dalla loro connessione strumentale con attribuzioni liberali od onerose, all’ambito di operatività di un unico tributo. Data la funzione “strumentale” ad ulteriori vicende patrimoniali propria di molti vincoli di destinazione, si dovrebbero però porre precisi criteri di coordinamento che evitino ingiustificati aggravi fiscali conseguenti a plurime applicazioni di uno o più tributi per l’operazione complessivamente realizzata (155). La soluzione più semplice ed efficace parrebbe consistere nell’espressa previsione dell’integrale deducibilità dall’imposta dovuta per l’attribuzione “finale” delle somme corrisposte, in applicazione dello stesso o di al-

(155) Nell’ipotesi della scelta per l’applicazione dell’imposta di registro, quest’ultima troverebbe applicazione anche agli eventuali atti dispositivi onerosi a contenuto patrimoniale attuativi della destinazione impressa ai beni o diritti, ovvero al complesso patrimoniale, vincolati, ma non è escluso che tali atti siano soggetti ad IVA, oppure che alla costituzione di vincoli ordinati ad attribuzioni liberali facciano seguito donazioni od altre liberalità soggette alla relativa imposta.


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tro tributo, alla costituzione del vincolo (che si rivelerebbe definitivamente strumentale) (156). Per quanto attiene alla definizione della nuova fattispecie imponibile, sarà necessario specificare i caratteri distintivi dei “vincoli di destinazione” cui si ha riguardo, eliminando gli inconvenienti che derivano dalla molteplicità di assetti giuridici cui l’espressione può essere riferita e quindi evitando l’eccessiva “vaghezza” della formula utilizzata nel 2006; si dovranno anche individuare i soggetti obbligati a corrispondere il tributo, tenendo conto che per alcune almeno delle tipologie di vincoli, i beneficiari (e forse anche i gestori) possono non essere parti dell’atto costitutivo; dovranno infine essere precisate le regole per la determinazione dell’imponibile, affrontando il tema delle eventuali componenti passive dei fondi vincolati, e stabilite le aliquote, differenziate o meno secondo la diversa natura dei beni vincolati (che, soprattutto in caso di gestione “dinamica”, potrebbero non coincidere con quelli oggetto di attribuzione finale). Si prospetta quindi la necessità di elaborare un articolato complesso di disposizioni che, nel caso si opti per l’inserimento nel tributo di registro, integreranno la Tariffa per la definizione oggettiva delle costituzioni di vincoli di destinazione e la determinazione delle aliquote, il corpo del Testo unico per la residua disciplina, mentre, nell’ipotesi si scelga di istituire un nuovo tributo, costituiranno la parte sostanziale della sua disciplina, cui si aggiungeranno le norme destinate a regolarne l’attuazione (157).

Andrea Fedele

(156) La soluzione non potrebbe però operare laddove l’attribuzione finale sia soggetta ad IVA: in tal caso si dovrebbero prevedere altre soluzioni (ad es., crediti d’imposta d’importo corrispondente alle somme già versate all’atto della destinazione iniziale). (157) Peraltro anche l’introduzione delle “costituzioni di vincoli di destinazione” fra gli atti soggetti ad imposta di registro richiederebbe, probabilmente, alcune integrazioni della disciplina “formale” del tributo.


Riflessioni in tema di trattamento fiscale dei soggetti non residenti svolgenti attività d’impresa all’estero e privi di stabile organizzazione in Italia, con particolare riferimento alle sfide poste dall’economia digitale Sommario: 1. Premessa. – 2. La funzione (qualificatoria o di mera localizzazione

dei redditi) della stabile organizzazione nel meccanismo di attrazione ad imposizione dei redditi delle imprese non residenti. – 3. Trattamento isolato e trattamento unitario: le soluzioni “trasversali” adottate dal legislatore tributario. – 4. La tesi del “trattamento isolato limitato”. – 5. La qualificazione del reddito come necessario elemento di partenza nell’ipotesi ricostruttiva che s’intende seguire. – 6. Segue: la necessità di dare rilievo all’attività svolta dall’ente all’estero ai fini della qualificazione in senso imprenditoriale di quella svolta in Italia. – 7. Il quadro normativo di riferimento non sembra deporre in favore dell’applicazione del trattamento isolato tout court. – 8. La delimitazione del problema a quelle attività che, in assenza dell’elemento unificante dell’impresa, darebbero luogo ad autonomi redditi di altre categorie: in particolare, il problema dei redditi di capitale. – 9. Il ruolo delle ritenute alla fonte a titolo d’imposta nel sistema di tassazione dei soggetti non residenti: in particolare la natura sostitutiva di questo tipo d’imposizione rispetto al modello ordinario. – 10. Segue: in particolare, il sistema delle ritenute alla fonte sui redditi di capitale facenti capo a soggetti non residenti quale sistema “autonomo” di tassazione rispetto a quello ordinario. – 11. Regime ordinario e regime sostitutivo quali modalità alternative di definizione del perimetro di tassazione dei soggetti non residenti: le soluzioni ipotizzate nel breve termine per la tassazione della digital economy ed i problemi che pone la previsione di una ritenuta alla fonte sui corrispettivi.

Lo studio affronta le problematiche connesse alla tassazione dei soggetti non residenti privi di stabile organizzazione in Italia. Dopo una ricostruzione delle tesi più significative che si sono sviluppate sull’argomento, viene proposta una visione a “doppio binario” del sistema di tassazione del reddito d’impresa e, in particolare, di quelle attività le quali, in assenza dell’elemento unificante, darebbero luogo ad autonomi redditi di altre categorie: da un lato, il sistema dichiarativo ordinario e, dall’altro, il sistema delle ritenute alla fonte a titolo d’imposta, due sistemi alternativi di tassazione che possono essere utilizzati per definire e modificare il perimetro di tassazione dei soggetti non residenti.


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The present study deals with the problems linked to taxation of non resident companies lacking permanent establishment in Italy. After a reconstruction of the most significant theses developed on the matter, here is proposed a “double track” vision of the taxation business income system and, in particular, of those activities which, in absence of the unifying element, would produce autonomous incomes of other categories: on one hand, the ordinary declarative system and, on the other hand, the withholding tax system; two alternative systems of taxation that can be used to define and modify the perimeter of taxation of non resident companies.

1. Premessa. – Il perimetro domestico di tassazione del reddito prodotto dai soggetti non residenti che svolgono attività d’impresa all’estero è un tema sul quale merita di tornare perché esso appare oggi di grande attualità, anche alla luce del dibattito in corso sulla tassazione della c.d. digital economy. In estrema sintesi, il problema concerne il corretto ambito di applicazione del principio del c.d. “trattamento isolato” delle diverse componenti reddituali delle imprese estere, prive di una stabile organizzazione in Italia, oggi contenuto nell’art. 152 del t.u.i.r., tema sul quale la dottrina ha assunto nel tempo posizioni diverse e che oggi torna nuovamente al centro del dibattito a motivo sia dell’esistenza di arresti giurisprudenziali che ne propongono una lettura meno rigorosa, sia del dibattito sorto intorno alla tassazione delle imprese della digital economy. In questo complessivo scenario, occorrerà, poi, prendere in considerazione il ruolo che oggi assolvono le varie forme di ritenuta alla fonte a titolo d’imposta previste nel nostro ordinamento nei confronti delle manifestazioni reddituali facenti capo a soggetti non residenti e la natura di questo sistema di tassazione, che si pone certamente in termini di alternatività rispetto al modello ordinario. 2. La funzione (qualificatoria o di mera localizzazione dei redditi) della stabile organizzazione nel meccanismo di attrazione ad imposizione dei redditi delle imprese non residenti. – Conviene quindi muovere da una, seppur veloce, ricostruzione delle due contrapposte tesi che, in epoche non recenti, hanno individuato il ruolo della stabile organizzazione nell’ambito del sistema di tassazione delle imprese non residenti. Secondo un prima teoria ricostruttiva, nota come “trattamento unitario” del reddito, la stabile organizzazione assolverebbe nel nostro ordinamento ad una funzione di semplice “localizzazione” del reddito medesimo, e ciò in quanto la qualificazione del reddito come d’impresa, e conseguentemente la qualificazione dell’attività svolta dal soggetto estero, costituirebbe un pri-


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us logico rispetto all’individuazione del criterio di collegamento del reddito con il territorio dello Stato che andrebbe previamente verificato, sulla base di disposizioni diverse da quelle disciplinanti i criteri di localizzazione, ed involgerebbe i caratteri dell’attività complessivamente svolta dal contribuente anche al di fuori del territorio italiano. Per una seconda tesi, conosciuta come “trattamento isolato” del reddito, la stabile organizzazione assolverebbe al contrario ad una funzione di “qualificazione” del reddito prodotto in Italia dal soggetto estero, non essendo rilevanti a questi fini le attività svolte all’estero e non potendosi considerare la qualificazione del reddito come d’impresa un prius logico rispetto alla verifica dell’esistenza nel territorio italiano di quel minimo organizzativo richiesto dall’ordinamento interno affinché una determinata attività ivi svolta sia considerata produttiva di un reddito d’impresa. L’adesione all’una o all’altra teoria comporta conseguenze assai rilevanti in punto di tassazione dei redditi prodotti in Italia dai soggetti non residenti che svolgono all’estero attività d’impresa. Optando per la tesi del trattamento unitario, in assenza di una stabile organizzazione in Italia, tali soggetti sarebbero sempre considerati come esercenti attività commerciale e, pertanto, i redditi che questi producono e che sono riconducibili a detta attività commerciale sfuggirebbero a tassazione in Italia per assenza del requisito della territorialità in base a quanto previsto dall’art. 23, primo comma, lett. e) del t.u.i.r. (1) essendo appunto attratti nell’orbita dell’attività d’impresa svolta all’estero. Per converso, sulla base della tesi del trattamento isolato, l’assenza della stabile organizzazione farebbe venire meno il centro organizzativo costituente l’elemento in grado di unificare le attività svolte in Italia secondo criteri imprenditoriali e, di conseguenza, le attività esercitate dal soggetto estero sarebbero comunque considerate atomisticamente, alla stregua di quanto accade per le persone fisiche non imprenditori e per gli enti non commerciali, secondo i canoni propri delle altre categorie reddituali e sarebbero attratte a tassazione in Italia quante volte siano integrati i criteri di collegamento che l’art. 23 t.u.i.r. prevede con riferimento a dette altre categorie. Con la conseguenza che il soggetto non residente, ancorché svolga attività d’impresa all’estero e sia privo

(1) Salvo il ricorrere delle particolari fattispecie previste dall’art. 23, secondo comma del t.u.i.r.


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di stabile organizzazione in Italia, potrebbe comunque ivi produrre redditi di capitale, fondiari, diversi ecc. (2). Gli argomenti posti a fondamento della tesi del trattamento unitario erano essenzialmente legati alla funzione assolta dalla previsione normativa recante la regola della rilevanza territoriale dei redditi prodotti dai soggetti non residenti (3). Con specifico riferimento all’attività d’impresa, la norma indicava le condizioni al verificarsi delle quali detta attività era considerata svolta sul territorio dello Stato, ma (si diceva) la medesima previsione nulla poteva dire in merito alla natura di questa attività e, in specie, in merito ai requisiti richiesti perché essa potesse assurgere al rango di attività d’impresa, tale verifica dovendo essere condotta sulla base di altre disposizioni e, in specie, di quelle riguardanti le condizioni ed i requisiti necessari per l’esercizio dell’attività d’impresa (4). Quindi l’esercizio in concreto dell’attività d’impresa era da verificare prioritariamente rispetto all’esistenza del criterio di collegamento e sulla base

(2) Cfr. L. Perrone, Problemi vecchi e nuovi in materia di imposizione del reddito delle società e degli enti non residenti, in Rass. trib., 2001, 1236; R. Baggio, Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009, 460. (3) All’epoca in cui tale dibattito si era sviluppato, detta regola era contenuta nell’art. 19 del d.P.R. n. 597/1973. Oggi, la predetta regola è invece recata dall’art. 23 del d.P.R. n. 917/1986. (4) In tal senso appaiono illuminanti le riflessioni di G. Falsitta, La tassazione delle plusvalenze e minusvalenze nei confronti dei non residenti, in Rass. trib., 1985, I, 434. Secondo l’Autore l’art. 19 del d.P.R. n. 597/1973 (cioè la norma che, all’epoca, recava i criteri di collegamento in presenza dei quali le varie categorie di reddito si consideravano prodotte nel territorio dello Stato da parte di soggetti non residenti, deve essere considerata “norma sostanziale sui requisiti che aggregano al territorio italiano certi tipi di reddito imputabili ai non residenti, di tal ché sarebbe impresa vana ricercare in codesto articolo qualsivoglia indicazione in ordine ai requisiti e presupposti di tassabilità dei redditi da esso richiamati: l’art. 19 ci chiarisce quando i redditi si considerano prodotti nel territorio dello Stato, ma non si perita affatto (perché non è questo il suo ufficio) di chiarire quali requisiti una novella ricchezza debba possedere per assurgere al rango di reddito tassabile e con quali criteri si determini la base imponibile di ciascun reddito”. E ciò in quanto tali requisiti debbono formare oggetto di una previa verifica sulla base delle regole contenute nelle disposizioni cui l’art. 19 “esplicitamente o tacitamente rinvia: così, ad esempio, per i redditi d’impresa, il rinvio (tacito) è alle norme del titolo V del d.P.R. n. 597, per i “redditi diversi”, il rinvio (espresso) è al titolo V del citato decreto (…)”. Si veda anche F. Tundo, I redditi d’impresa nel modello di convenzione OECD (art. 7), in Aa.Vv., Diritto tributario internazionale, coordinato da V. Uckmar, Padova, 2005, 404, ove l’Autore propende per l’ipotesi di “trattamento isolato limitato” propugnata in epoca successiva da altra parte della dottrina (e del quale tratteremo nel prosieguo), ma che parimenti muove dalla rilevazione della funzione della stabile organizzazione quale mero criterio di localizzazione del reddito.


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delle norme disciplinanti la nozione di imprenditore e di attività imprenditoriale, anche con riferimento alle realtà estere costituite in forma societaria, posto che la presunzione di imprenditorialità dell’attività sociale non valeva e non vale per le società non residenti (5); ciò anche in considerazione del fatto che la regola della stabile organizzazione vale per tutti i soggetti titolari di redditi d’impresa, compresi quelli organizzati in forma non societaria o in forma di società di persone. V’è da dire che la tesi del trattamento unitario ha trovato terreno assai fertile in alcuni arresti giurisprudenziali (peraltro relativi al periodo di vigenza del d.P.R. n. 598/1973) in materia di royalties percepite da imprese straniere sprovviste di stabile organizzazione in Italia. Il tema, all’epoca, formò oggetto di numerose sentenze sia di merito che di legittimità (6), e venne definito dalle sezioni unite della Corte di cassazione nel senso della non imponibilità delle somme erogate a tale titolo da soggetti residenti in favore di una società estera in quanto, proprio in considerazione del fatto che esse venivano incamerate nell’ambito dell’attività d’impresa svolta dalla società non residente, le medesime non potevano che avere natura di compensi relativi all’attività d’impresa e, mancando il collegamento territoriale costituito dalla stabile organizzazione, non potevano essere sottoposte a prelievo nel nostro Paese (7).

(5) Tale principio, oggi consacrato nell’art. 81, primo comma del t.u.i.r. che limita l’operatività di tale presunzione alle società ed enti residenti e, secondo alcuni, trova indiretta conferma anche nell’art. 152, secondo comma del t.u.i.r., in base al quale il reddito delle società ed enti commerciali privi di una stabile organizzazione in Italia è determinato secondo le regole recate dal titolo I del t.u.i.r. Cfr. R. Baggio, op. cit., 461, secondo il quale da tale regola discenderebbe che il reddito degli enti commerciali non residenti, perdendo il fattore unificante della commercialità, deve comunque essere sempre determinato atomisticamente e “collocato negli ambiti di competenza in rapporto alle norme qualificatorie”, nel senso che, pur accedendo alla tesi del trattamento unitario, rimarrebbe comunque la necessità di stabilire se il reddito deriva dall’esercizio di un’attività d’impresa. (6) Per una puntuale ricostruzione delle posizioni espresse dalla giurisprudenza in argomento vedasi, da ultimo, R. Baggio, op. loc. cit., 466 ss. Sul medesimo tema vedasi anche M. Caratozzolo, Natura giuridica e tassabilità delle royalties corrisposte a soggetti non residenti, in Giur. comm., 1980, I, 472 ss.; G. Marongiu, Royalties ed imprese estere, in Dir. prat. trib., 1980, II, 179 ss.; A.E. Granelli, Intassabilità delle redevances corrisposte a società estere senza stabile organizzazione in Italia, in Boll. trib. Inf., 1978, 619 ss.; M. Galli, Il regime fiscale delle redevances corrisposte da soggetti non residenti, in Boll. trib. Inf., 1977, 1056 ss.; L. Cocco, Regime fiscale delle royalties corrisposte a società estere, in Dir. prat. trib., 1974, I, 838 ss. (7) Si veda Cass., SS. UU., 30 novembre 1983, n. 7184, ripresa anche da C. Cost. 28 maggio 1987, n. 211. È bene precisare che il caso risolto dalla Corte è anteriore all’entrata in


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La soluzione interpretativa fornita dalla Cassazione è stata ritenuta poco significativa rispetto al dibattito sul trattamento unitario o isolato delle imprese estere prive di stabile organizzazione in Italia, a motivo del fatto che essa sembra intervenuta a sanare un conflitto giurisprudenziale molto ampio e risalente nel tempo, nonché per essere stata preceduta da un intervento del legislatore volto a calmierare questo fenomeno (8). I fautori dell’opposta tesi del trattamento isolato hanno viceversa valorizzato il tenore letterale dell’allora art. 112, secondo comma del t.u.i.r. (oggi trasfuso nell’art. 151 del medesimo testo unico), in base al quale il reddito delle società e degli enti commerciali non residenti è costituito soltanto dai redditi prodotti nel territorio dello Stato con esclusione dei redditi esenti e di quelli assoggettati a un regime impositivo di carattere sostitutivo. In particolare, è stato sostenuto che solo per il tramite della stabile organizzazione possono ritenersi valutabili i requisiti della professionalità e dell’abitualità dell’attività commerciale previsti dal legislatore tributario al fine di concretizzare un’attività imprenditoriale, alla stregua di un quid pluris previsto dal legislatore nazionale e dalle convenzioni internazionali al fine di rendere più visibili ed accertabili detti requisiti (9). Con la conseguenza che,

vigore dell’art. 31 del d.P.R. n. 897/1980, che oggi è riproposto all’art. 23, secondo comma lett. c) in base al quale i compensi per l’utilizzazione di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e marchi d’impresa nonché di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico si considerano comunque prodotti nel territorio dello Stato, se corrisposti dallo Stato, da soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili organizzazioni nel territorio stesso di soggetti non residenti. Tale norma viene addirittura invocata dalla Corte per rilevare come, a seguito della sua promulgazione, si sarebbe venuta a creare una scissione della nozione unitaria del reddito d’impresa, con attrazione delle royalties nella sfera impositiva statale per effetto della previsione di un diverso criterio di collegamento rappresentato dalla residenza del soggetto erogante. (8) Cfr. L. Perrone, Problemi vecchi e nuovi in materia di imposizione del reddito delle società e degli enti non residenti, cit., 1239 ss. (9) Cfr. L. Perrone, op. ult cit., 1237 ove l’Autore non manca di rilevare come la funzione qualificatoria del reddito d’impresa assolta dalla stabile organizzazione sarebbe ricavabile anche dalla relazione governativa all’art. 113 del t.u.i.r., in base alla quale “qualora, invece, manchi la stabile organizzazione dei predetti soggetti (le società e gli enti commerciali non residenti) non possono evidentemente considerarsi imprenditori commerciali essendo privi di un reddito d’impresa imponibile. In tal caso essi vengono a trovarsi nella stessa situazione reddituale degli enti non commerciali residenti, e come per questi, il loro reddito complessivo è formato dai singoli redditi (con esclusione ovviamente del reddito d’impresa e limitatamente a quelli che in base alle regole dell’art. 20 si considerano prodotti nel territorio dello Stato) determinati secondo le disposizioni del titolo primo relative alle singole categorie nelle quali rientrano”. Considera la stabile organizzazione come un elemento qualificatorio del reddito


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ai fini dell’individuazione in Italia di un reddito d’impresa attribuibile ad un soggetto non residente, ciò che conta non è la natura dell’attività svolta dal soggetto medesimo, bensì il tipo di attività oggettivamente ed isolatamente esercitata nel territorio dello Stato (10). In questa prospettiva, il trattamento isolato dei redditi non si limiterebbe a far venir meno il principio dell’assorbimento delle diverse categorie reddituali in seno al reddito d’impresa, ma travolgerebbe addirittura la possibilità di qualificare il reddito come avente natura imprenditoriale partendo dalla natura dell’attività ovunque svolta (11). 3. Trattamento isolato e trattamento unitario: le soluzioni “trasversali” adottate dal legislatore tributario. – Anche la tesi del trattamento isolato, peraltro, non può dirsi del tutto immune da critiche, in particolare sotto due profili. Il primo di essi è rappresentato dall’intervento normativo che è stato realizzato in tema di royalties. Ed infatti, in esito al lungo contenzioso di cui si è dato brevemente conto poco sopra, il legislatore tributario è intervenuto inserendo, nel corpo della norma disponente i criteri di collegamento (oggi inserita all’art. 23 del t.u.i.r.), una specifica disposizione in base alla quale, indipendentemente dalla ricorrenza dei criteri di collegamento previsti per ciascuna categoria di reddito, si considerano comunque prodotti nel territorio

d’impresa anche C. Garbarino, La tassazione del reddito transnazionale, Padova, 1990, 437. (10) Cfr. R. Lupi, voce Territorialità, in Enc. giur. Treccani, XXXI, 1997, 5 ss., ove l’Autore sottolinea come, per effetto dell’introduzione del nuovo art. 113, secondo comma del t.u.i.r. si è superato il problema della mera funzione di localizzazione del reddito della stabile organizzazione avendo tale norma stabilito che, in mancanza di una stabile organizzazione in Italia, i proventi percepiti dalle imprese non residenti continuano ad essere imponibili secondo i criteri propri della categoria di reddito alla quale essi appartengono atomisticamente considerati. “Pertanto un provento immobiliare o un interesse attivo spettanti a una società non residente senza stabile organizzazione in Italia continueranno a costituire redditi fondiari o redditi di capitale, senza diventare redditi d’impresa”. (11) Cfr. C. Garbarino, Forza di attrazione della stabile organizzazione e trattamento isolato dei redditi, in Rass. trib., 1990, I, 434 ss., secondo il quale affinché un soggetto non residente possa avere un reddito d’impresa in Italia è necessario in primo luogo che esista una stabile organizzazione in Italia; “se essa non esiste, i redditi non sono d’impresa. Inoltre, se detta stabile organizzazione esiste, i redditi non sono d’impresa se non derivano da attività esercitate nel territorio dello Stato mediante la stabile organizzazione stessa”. Nello stesso senso vedasi anche L. Perrone, L’imposizione del reddito delle società e degli enti non residenti, in Rass. trib., 1989, I, 503.


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dello Stato (se corrisposti dallo Stato, da soggetti ivi residenti o da stabili organizzazioni di soggetti non residenti), fra l’altro, i compensi per l’utilizzazione di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di marchi d’impresa, nonché di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico. Orbene, ove il criterio del trattamento isolato dei redditi d’impresa fosse pacificamente operante, non vi sarebbe stato bisogno di questa disposizione o, quanto meno, dell’espressa deroga ai criteri di collegamento previsti per la categoria dei redditi d’impresa. Ed infatti, in assenza di una stabile organizzazione, le somme a tale titolo erogate ad un’impresa estera sarebbero considerate alla stregua di un reddito diverso ed attratte ad imposizione in Italia qualora il relativo criterio di collegamento fosse integrato. Pertanto, e a tutto concedere, la norma avrebbe potuto prevedere una deroga al criterio di collegamento previsto per la categoria dei redditi diversi (che, in generale, è rappresentato dallo svolgimento di attività nel territorio dello Stato e dal locus rei sitae), ma non certamente a quello del reddito d’impresa. L’avere invece rimarcato che questa disposizione rappresenta una deroga anche per quanto riguarda il reddito d’impresa e il relativo criterio di collegamento, rappresentato dalla stabile organizzazione, costituisce quanto meno il segnale di un’incertezza interpretativa a fronte della quale il legislatore è intervenuto (forse in modo un po’ grossolano) per evitare ogni tipo di problemi e ricondurre senz’altro ad imposizione nel nostro Paese questa tipologia di remunerazioni. Ma analoghe considerazioni possono essere svolte anche con riferimento alla successiva disposizione che riguarda i compensi conseguiti da imprese, società o enti non residenti per prestazioni artistiche o professionali effettuate per loro conto nel territorio dello Stato. Si tratta di una previsione normativa che ha posto fine all’annosa questione riguardante i compensi per prestazioni artistiche effettuate da persone fisiche su mandato di società estere, le quali incameravano i relativi compensi e, non avendo una stabile organizzazione in Italia, sfuggivano a tassazione nel nostro Paese. Non è questa la sede per entrare in un tema che è stato ampiamente e diffusamente trattato dalla dottrina, dalla giurisprudenza e dalla prassi, se non per segnalare la distonia di questa disposizione con quella recata dall’art. 25 del d.P.R. n. 600/1973, secondo comma là dove è stata prevista l’applicazione della ritenuta alla fonte a titolo d’imposta sulle remunerazioni delle prestazioni di lavoro autonomo rese da soggetti non residenti “anche [se] effettuate nell’esercizio di imprese”.


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Le due norme si caratterizzano per un’evidente finalità antielusiva, consistente nel tentativo di recuperare a tassazione in Italia anche quei compensi che, in linea di principio e sotto un profilo sostanzialistico, trovano sempre contropartita in attività artistiche, come tali sussumibili nella categoria del reddito autonomo, ma che, per effetto di possibili operazioni elusive, risultano talvolta imputati a società non residenti. Nonostante vi sia una certa contraddizione tra l’art. 23, secondo comma, lett. d) del t.u.i.r. e l’art. 25, secondo comma del d.P.R. n. 600/1973 (giacché il primo attrae a tassazione in Italia nell’alveo del reddito d’impresa i compensi erogati per tali titoli a soggetti esteri che, quindi, costituiscono a tutti gli effetti redditi d’impresa quivi tassabili; il secondo, invece, impone sui medesimi compensi la ritenuta alla fonte cui sono soggetti i redditi di lavoro autonomo), appare comunque intelligibile la finalità che il legislatore si è prefisso con questo complesso di norme. Ciò che pare rilevante ai nostri fini è un certo grado di artificiosità della norma antielusiva recata dall’art. 23 t.u.i.r. (12), la quale poteva essere redatta diversamente, in specie privilegiando un approccio sostanzialistico e recuperando tali compensi nell’alveo della corretta categoria reddituale di appartenenza, cioè quella dei redditi di lavoro autonomo, così come è stato fatto con riferimento alla relativa ritenuta alla fonte applicabile (13). Il legi-

(12) Si tratta di una disposizione sostanzialmente replicativa di quella contenuta nell’art. 22 del d.P.R. n. 598 del 1973 in relazione al quale la Circolare 12 aprile 1975, n. 21/rt/400 del Ministero delle finanze aveva rilevato come la ratio dell’intervento legislativo fosse proprio quella di porre un argine ai tentativi dei non residenti (ma anche dei residenti) di non pagare le imposte italiane degradando i redditi di lavoro autonomo a fittizi redditi d’impresa esteri. Sull’argomento vedasi amplius F. Nanetti, La “scissione” del reddito d’impresa: spunti sistematici in tema di tassazione delle società commerciali non residenti, in Riv. dir. trib., 2004, I, 731 ss. (13) Tale impostazione, oltretutto, avrebbe provocato l’effetto di meglio definire il perimetro di applicazione della norma di cui all’art. 25 del d.P.R. n. 600/1973, consentendo l’applicazione della ritenuta solo in relazione ai redditi prodotti in Italia e derivanti da attività che, nell’ordinamento giuridico italiano, non sono organizzabili in forma d’impresa, giusta il disposto dell’art. 51 del d.P.R. n. 597/1973 (oggi art. 55 t.u.i.r.), ma lo sono nell’ambito dell’ordinamento giuridico estero di residenza del soggetto prestatore delle medesime attività. Con ciò escludendo dal perimetro della ritenuta i compensi erogati a fronte di attività artistiche o professionali esercitate in Italia da soggetti non residenti le cui prestazioni, ove organizzate in forma d’impresa, sarebbero considerate produttive di reddito d’impresa anche per i prestatori residenti, come peraltro invocato dalla dottrina (cfr. C. Garbarino, Sulla tassazione dei redditi di lavoro autonomo percepiti da soggetti non residenti e sull’obbligo della ritenuta, in Dir. prat. trib., 1988, II, 1236 ss.; S. Mayr, Lavoro autonomo esercitato in Italia da non


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slatore, viceversa, ha inteso preservare la prospettazione formale dei redditi d’impresa proprio al fine di scongiurare gli effetti scaturenti dall’approccio del trattamento unitario, il cui rilievo in seno al nostro ordinamento non può considerarsi escluso (14), al punto che lo stesso legislatore ne appare del tutto consapevole. In linea generale, possiamo quindi concludere nel senso che le due soluzioni radicali (quella del trattamento unitario e quella del trattamento isolato) presentano entrambe profili di criticità che non consentono di ritenerle del tutto armoniche con il nostro ordinamento; criticità che lo stesso legislatore ha avvertito, al punto che è intervenuto per definire la qualificazione di alcune situazioni ritenute problematiche per il tramite di norme “trasversali” le quali, lungi dall’essere espressione dell’uno o dell’altro criterio, rappresentano piuttosto il tentativo di incidere su determinate fattispecie senza entrare nel merito di scelte qualificatorie che avrebbero presentato il limite di esporsi alle problematiche applicative delle quale ci stiamo occupando. 4. La tesi del “trattamento isolato limitato”. – Alcuni autori hanno quindi sostenuto la tesi del “trattamento isolato limitato” dei redditi d’impresa, in base alla quale non tutti i redditi prodotti in Italia da imprese estere subiscono una tassazione di carattere atomistico ma solo le utilità ritratte da operazioni non rientranti nell’attività principale dell’impresa o dell’ente;

residenti mediante una base fissa, in Corr. trib., 1991, 2891 ss.; Id., Quando il reddito di lavoro autonomo dei non residenti va dichiarato in Italia?, in Corr. trib., 1997, 1238 ss.; F. Nanetti, La “scissione” del reddito d’impresa, cit., 733). (14) Tanto ciò è vero che la giurisprudenza in materia è intervenuta con pronunce tese a limitare il perimetro applicativo del predetto art. 23 t.u.i.r. Si veda, in particolare, Cass. 16 marzo 1996, n. 2229, in Corr. trib., 1996, 1711 ss., secondo la quale l’art. 51, nella parte in cui attrae nell’orbita del reddito d’impresa le attività di cui all’art. 2195 anche se non organizzate in forma d’impresa, deve essere coordinato, per i soggetti non residenti, con l’art. 19, primo comma, n. 5) che condiziona la tassabilità del reddito d’impresa alla sua inerenza ad attività esercitate in Italia mediante stabile organizzazione. Con la conseguenza che, secondo la Corte “l’area della tassabilità del reddito d’impresa rispetto ai non residenti è più circoscritta, perché non è l’effetto automatico della natura del reddito stesso, ma abbisogna di quell’ulteriore requisito, non occorrente per i residenti”. Nel caso di specie, si trattava di inquadrare l’attività di mediatore svolto da un soggetto estero e la Corte, al riguardo, precisa che “l’attività del mediatore può restare nell’ambito del lavoro autonomo, professionale o meno, oppure può integrare esercizio d’impresa ex art. 2195. Ove si tratti di attività imprenditoriale, l’esonero a fronte della mancanza di una stabile organizzazione in territorio italiano, trova spiegazione nell’integrale rifluire di quei ricavi in un’impresa estera, con la connessa esigenza di evitare una doppia imposizione”.


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con la conseguenza per cui, quante volte tali attività siano conformi all’oggetto principale dell’entità estera, esse saranno considerate alla stregua dell’ordinaria attività d’impresa, come tali sfuggenti a tassazione nel nostro Paese (15). In particolare, al fine di valutare l’imponibilità in Italia dei proventi conseguiti da un’impresa non residente in assenza di una stabile organizzazione, questa ipotesi ricostruttiva muove dalla necessità della previa qualificazione del reddito prodotto, attribuendo un ruolo rilevante al requisito dell’abitualità dell’esercizio dell’impresa, e tale abitualità deve essere verificata avendo riguardo non solo all’attività svolta in Italia dall’entità non residente, ma anche a quella svolta all’estero. Cosicché, ove tale ente eserciti nel proprio paese di residenza, in via abituale e con professionalità, un’attività tra quelle indicate nell’art. 2195 c.c., esso non potrà non essere considerato un soggetto produttivo di reddito d’impresa anche nel nostro ordinamento (16). Tuttavia, non tutte le attività di un’impresa estera priva di stabile organizzazione in Italia risulterebbero confluire nell’ambito del reddito d’impresa; e ciò specialmente in virtù della non operatività della presunzione di commercialità recata (oggi) dall’art. 81 del t.u.i.r., poiché essa è limitata alle società ed agli enti commerciali residenti. Di qui la necessità di verificare se l’attività svolta in Italia risulti conforme a quella svolta all’estero: solo in questo caso detta attività sarebbe qualificabile fiscalmente come d’impresa e, in quanto tale, non sarebbe tassata in Italia per carenza del requisito della territorialità (17).

(15) Cfr. A. Manganelli, voce Territorialità dell’imposta, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., XV, Torino, 1998, 366 ss.; A. Fantozzi - A. Manganelli, Qualificazione e determinazione dei redditi prodotti da imprese estere in Italia: applicabilità della normativa sui prezzi di trasferimento nei rapporti tra stabile organizzazione e casa madre, in Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, 1997, I, 401 ss. (16) In tal senso deporrebbe anche il testo della legge delega per la riforma tributaria n. 825/1972 (art. 2, punto 21, 3, punto 9 e 4, punto 2). Ivi, nell’affermare che l’applicazione dell’imposta nei confronti dei soggetti non residenti, per i redditi derivanti dall’esercizio di imprese commerciali “si tiene conto soltanto di quelli prodotti mediante una stabile organizzazione nel territorio dello Stato”, sembrerebbe voler attrarre ad imposizione in Italia solo dei redditi d’impresa prodotti per il tramite di una stabile organizzazione, ma nell’ambito di un più ampio perimetro di reddito d’impresa che l’ordinamento tributario italiano riconosce in capo al soggetto non residente (cfr. A. Manganelli, Territorialità, cit., 376). (17) Cfr. A. Manganelli, Territorialità, cit., 377 ss. L’autore propone alcuni esempi assai significativi. Il primo di essi è rappresentato da una società di costruzione estera che sottoscriva obbligazioni emesse da un soggetto residente e che questa attività, pur contemplata


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5. La qualificazione del reddito come necessario elemento di partenza nell’ipotesi ricostruttiva che s’intende seguire. – Pur nella complessità del fenomeno e in presenza di un quadro normativo non univoco, la tesi del trattamento isolato limitato sembra quella che, non solo rispetta il dato formale delle previsioni normative presenti nel nostro ordinamento, ma appare sostanzialmente conforme alla struttura del procedimento logico che deve essere attuato quante volte occorra verificare l’imponibilità di una determinata componente. Infatti, se stessimo ponendo l’attenzione su una fattispecie caratterizzata da elementi tutti domestici, non vi sarebbe alcun dubbio circa il fatto che il primo passaggio logico da eseguire sarebbe rappresentato dalla qualificazione del reddito alla luce, non solo degli elementi fattuali attraverso i quali si dipana l’attività, ma anche (in alcuni casi) delle caratteristiche soggettive di colui nella cui sfera giuridica esso si manifesta. Si tratta di un dato del tutto pacifico poiché siffatto procedimento qualificatorio è essenziale per verificare l’effettiva concretizzazione della fattispecie imponibile astratta, cui consegue l’insorgenza del rapporto obbligatorio d’imposta nei termini e con le prescrizioni che tale qualificazione determina. Solo attraverso la qualificazione del fatto-indice di capacità contributiva, in altre parole, è dato pervenire alla valutazione in ordine all’an debeatur inquadrando il fatto (o i fatti) generativo(i) di utilità in seno alle singole categorie reddituali nelle quali si scompone la rilevazione del reddito, ed alla conseguente applicazione delle specifiche regole di rilevazione e determinazione del reddito medesimo. Nello sviluppo dell’iter logico sopra brevemente tratteggiato il problema della verifica della localizzazione del reddito è senza dubbio assai ridotto,

dal proprio statuto, non sia svolta abitualmente e professionalmente, trattandosi piuttosto di una forma di investimento. In questo caso, la remunerazione ritratta, cioè gli interessi, non sarebbe qualificabile come d’impresa ma come reddito di capitale, tassabile i Italia in base a quanto disposto dall’art. 23, primo comma lett. b) del t.u.i.r. Se viceversa si trattasse di un provento conseguito da un’impresa residente, esso sarebbe considerato d’impresa in forza del principio di attrazione qualificante. Ma se la medesima società di costruzioni si trovi ad aprire in Italia un cantiere per un periodo di tempo non sufficiente ad integrare una stabile organizzazione, i proventi ritratti da detta attività non potrebbero non essere considerati d’impresa, proprio perché l’attività di costruzione è svolta professionalmente ed abitualmente dall’entità estera, onde gli stessi non saranno soggetti ad imposizione in Italia. Vedasi anche A. Fantozzi A. Manganelli, Qualificazione e determinazione dei redditi prodotti da imprese estere in Italia…, cit., 420 ss.


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poiché nei confronti dei soggetti residenti vige il principio dell’utile mondiale in forza del quale sono attratti ad imposizione in Italia i redditi ovunque prodotti. Tuttavia, si tratta di un passaggio logico che, per quanto solitamente implicito, deve comunque essere svolto e, in alcuni casi, esplicitato e verificato poiché, in ragione della localizzazione della fonte di scaturigine del reddito, può variare la classificazione dello stesso. Si pensi, ad esempio, ai redditi ritratti da immobili e fabbricati che, usualmente, generano redditi di natura fondiaria ma, per il caso in cui i cespiti siano situati all’estero, danno luogo a redditi diversi. Si tratta, certamente, di una verifica meno rilevante e ricorrente rispetto a quella che deve obbligatoriamente essere condotta nei confronti dei soggetti non residenti, ma non del tutto esclusa al punto che non è dato affermare che l’accertamento in ordine alla localizzazione del reddito sia un passaggio logico sempre e comunque obliterato nei confronti dei soggetti residenti. La localizzazione del reddito prodotto da un soggetto residente rileva, inoltre, anche sotto altri profili. Si pensi al credito d’imposta che viene riconosciuto per le imposte pagate in altri Paesi, in relazione al quale l’art. 165, secondo comma del t.u.i.r. prevede che “i redditi si considerano prodotti all’estero sulla base di criteri reciproci a quelli previsti dall’art. 23 per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato”. Il nostro ordinamento, quindi, accoglie il cosiddetto criterio della lettura a specchio, secondo cui i redditi si considerano prodotti all’estero sulla base dei medesimi criteri di collegamento enunciati dall’art. 23 del t.u.i.r. per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato. Ed è evidente che, con riferimento ai redditi prodotti all’estero da soggetti residenti, occorrerà prima procedere alla qualificazione degli stessi e, poi, alla verifica in ordine alla loro localizzazione. Ciò detto, non pare che in relazione ai soggetti non residenti la fase qualificatoria del reddito debba essere effettuata solo una volta verificata la ricorrenza dei criteri di collegamento e, prima ancora, che possa svolgersi solo in caso di sussistenza dei predetti criteri. Anzi, lo stesso art. 23 t.u.i.r. sembra avvalorare la tesi della previa qualificazione del reddito poiché ivi sono delineati diversi criteri di collegamento del reddito prodotto dai soggetti non residenti in ragione della categoria di appartenenza; pertanto la selezione del criterio di collegamento applicabile presuppone la previa qualificazione del reddito. Non solo. Scendendo nel dettaglio del criterio di collegamento previsto con riferimento ai redditi di capitale, il legislatore ha individuato un ulteriore momento qualificatorio che (anche questa volta) precede l’applicazione del criterio di collegamento. Quest’ultimo è rappresentato dalla residenza in Italia


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del soggetto erogante, ma la norma esclude espressamente da imposizione gli interessi e altri proventi derivanti da depositi e conti correnti bancari e postali (art. 23, primo comma, lett. b). Ciò significa che, per verificare se una determinata somma percepita da un soggetto non residente ricada nel campo di applicazione di questa regola, occorrerà previamente: a) qualificare gli importi alla stregua di redditi di capitale; b) escludere che si tratti di interessi percepiti a fronte di depositi e conti correnti bancari e postali. Solo una volta qualificata in tal senso la fattispecie, si potrà verificare se essa presenta il profilo di collegamento richiesto dalla norma e rappresentato appunto dalla residenza dell’erogante. 6. Segue: la necessità di dare rilievo all’attività svolta dall’ente all’estero ai fini della qualificazione in senso imprenditoriale di quella svolta in Italia. – La stessa regola non può non valere per i redditi d’impresa. Questa conclusione appare invero necessitata, in primo luogo, perché le categorie reddituali sono tra loro complementari, e quindi non è possibile utilizzare criteri qualificatori tra loro contrastanti (con il rischio di avere plurime qualificazioni del reddito). Invero, dal momento che l’art. 23 del t.u.i.r. presuppone in via generale la previa qualificazione del reddito al fine di individuare il criterio di collegamento applicabile, non pare consentito utilizzare un diverso approccio con riferimento al reddito d’impresa, poiché tale conclusione, per un verso, provocherebbe un’irrazionale incoerenza sistemica nell’applicazione della regola recata dall’art. 23 del t.u.i.r., la quale presuppone necessariamente che, in via generale, si proceda alla previa qualificazione delle utilità ritratte onde verificare se ed in quale categoria reddituale esse debbono essere collocate; per altro verso e conseguentemente, essa (conclusione) presterebbe il fianco al rischio di avere plurime qualificazioni del medesimo reddito. Ed infatti, per effetto della previa qualificazione richiesta per le altre categorie, sarebbe possibile che talune manifestazioni reddituali ivi ritenute fiscalmente rilevanti lo siano anche con riferimento alla categoria del reddito d’impresa, ove fosse previamente accertato il criterio di collegamento. Insomma, si verrebbe a creare un corto circuito nell’applicazione dell’art. 23 destinato a generare solo confusione in un ambito del diritto tributario già connotato da forti elementi di complicazione. Pertanto, anche con riferimento al reddito d’impresa non potrà che procedersi alla previa qualificazione dello stesso. Ma per stabilire se un soggetto esercita un’attività d’impresa non è possibile circoscrivere l’esame alla sola attività svolta in Italia, dovendosi necessa-


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riamente prendere in considerazione quella esercitata nel Paese di residenza. Infatti, in presenza di una modificazione patrimoniale, la verifica in ordine alla sua rilevanza fiscale passa necessariamente per l’esame del relativo titolo (o, se si vuole, della relativa causa), cioè dell’atto o del complesso di atti dei quali essa (modificazione) costituisce il risultato; con la conseguenza che occorre altresì verificare se tale atto (o complesso di atti) risulta inserito in un programma d’impresa o in un diverso contesto. In questa prospettiva, dunque, non pare possibile esimersi dal prendere in considerazione, ai fini della sussistenza dei requisiti in presenza dei quali il legislatore italiano riconduce l’atto nell’area dell’imprenditorialità, l’attività esercitata dal soggetto non residente sia in Italia sia all’estero, non sussistendo alcuna ragione per limitare il campo di siffatta verifica al solo territorio italiano. Del resto, è ormai del tutto pacifico che nel nostro ordinamento rilevino anche ai fini fiscali fattispecie con elementi di estraneità, cioè casi nei quali la fattispecie impositiva presenta elementi di contatto con più ordinamenti, sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo (18). Ed in tutti questi casi l’elemento transnazionale che assurge a coelemento di fattispecie è valutato come del tutto fisiologico e, addirittura, talvolta anche qualificato secondo la normativa del Paese nel quale esso si manifesta. Con specifico riferimento all’attività d’impresa, l’esempio più evidente è dato dalle previsioni in materia di CFC contenute nell’art. 167 del t.u.i.r., dove tra le fattispecie di esclusione della relativa disciplina è prevista la dimostrazione che la società estera svolga un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello Stato o territorio d’insediamento (comma 5, lett. a), e che tale fattispecie di esclusione non opera allorquando i proventi della società non residente provengono per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni crediti o altre attività finanziarie, nonché dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica, nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari (comma 5-bis).

(18) Per un approfondimento dell’argomento della fattispecie con elementi di estraneità vedasi R. Cordeiro Guerra, Diritto tributario internazionale – Istituzioni, Padova, 2012, 27 ss.; C. Garbarino, La tassazione del reddito transnazionale: nozioni e principi generali, in Corr. trib., 2002, 1275 ss.; Id., Nuove dimensioni della transnazionalità dell’imposizione, in Rass. trib., 2000, 864 ss.


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In questo caso, appare davvero manifesta la rilevanza per l’ordinamento interno di fatti e situazioni ascrivibili alla sola attività svolta all’estero del soggetto (società) residente. Ma anche nella disciplina della participation exemption troviamo esempi similari. In particolare, fra le condizioni richieste per beneficiare del predetto regime di neutralità vi è l’accertamento dell’effettivo esercizio da parte della partecipata di un’attività d’impresa. Onde, nel caso in cui la partecipata abbia sede all’estero, tale precetto impone una verifica in concreto dell’attività da questa svolta (non in Italia, ma) all’estero (o comune negli Stati o territori nei quali essa svolge effettivamente la propria attività) (19). Vi sono poi casi nei quali l’indagine si spinge addirittura oltre i meri fatti che si producono fuori dal territorio italiano, dovendosi verificare addirittura il regime impositivo al quale è sottoposto l’ente all’estero poiché da esso dipendono effetti sul regime tributario domestico. È questo il caso delle partecipazioni detenute da un soggetto residente in una società non residente cui si applica, nel Paese di residenza, il regime della trasparenza fiscale; in queste ipotesi, la verifica dell’applicazione del regime di imputazione per trasparenza del reddito all’entità non residente costituisce il presupposto per la determinazione del credito d’imposta secondo criteri particolari (20). Come si vede, sono moltissimi i casi nei quali il legislatore tributario fa uso di elementi fattuali rilevati (o addirittura di regimi giuridici applicati) all’estero al fine di qualificarli (i fatti) ovvero di ricavarne effetti (dai regimi) senza che la verificazione dei medesimi oltre il confine territoriale rappresenti un ostacolo.

(19) Si veda la Circolare dell’Agenzia delle Entrate 4 agosto 2004, n. 36/E, nonché la Circolare 29 marzo 2013, n. 7/E. (20) Si veda, in proposito, la Circolare n. 9/E del 5 marzo 2015, in base alla quale, posto che l’art. 73, primo comma, lett. d) del t.u.i.r., ai fini del trattamento fiscale interno, pone una “finzione di “opacità” per le entità estere trasparenti, gli utili che queste ultime distribuiscono ai soci residenti debbono essere quantificati con modalità analoghe a quelle dei dividendi distribuiti da una società estera “realmente” opaca. Conseguentemente, per effetto della predetta funzione di opacità, le imposte estere pagate dal socio residente sulla quota di utili a lui spettanti sono considerate come imposte pagate dalla società e sono scomputate, ai fini della tassazione in Italia, dall’ammontare lordo al medesimo distribuito. Tale scomputo comporta che il dividendo tassato in Italia in capo al socio di un’entità estera trasparente sia costituito, al pari dei dividendi derivanti da partecipazioni in entità opache, da una grandezza netta, che tiene conto delle imposte pagate all’estero sugli utili oggetto di distribuzione.


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Ne consegue che non paiono sussistere preclusioni di sorta affinché la qualificazione dell’attività esercitata da un ente non residente avvenga sulla base di elementi fattuali ricavati oltre confine. 7. Il quadro normativo di riferimento non sembra deporre in favore dell’applicazione del trattamento isolato tout court. – Si è comunque obiettato che l’odierno quadro normativo di riferimento non consentirebbe alle imprese estere prive di stabile organizzazione in Italia altra modalità di assoggettamento ad imposizione se non quella del trattamento isolato dei redditi (21). Le norme di riferimento sono costituite, per un verso, dall’art. 23, primo comma, lett. e) del t.u.i.r. in base al quale si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi d’impresa derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni; per altro verso, dall’art. 151 del t.u.i.r., secondo cui il reddito degli enti commerciali non residenti è formato soltanto dai redditi prodotti nel territorio dello Stato ad esclusione di quelli esenti da imposta e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva; si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi indicati nell’art. 23; tali redditi, ad eccezione dei redditi d’impresa prodotti per il tramite di una stabile organizzazione, concorrono a formare il reddito complessivo e sono determinati secondo le disposizioni del titolo I, relative alle categorie nelle quali rientrano. Dal quadro normativo appena tracciato non pare però che il legislatore abbia inteso escludere la previa qualificazione del reddito prodotto dai non residenti. Più precisamente, l’art. 151 del t.u.i.r. si limita ad affermare che nei confronti dei soggetti commerciali non residenti privi di una stabile organizzazio-

(21) Cfr. L. Perrone, Problemi vecchi e nuovi in materia di imposizione sul reddito delle società e degli enti non residenti, cit., 1243; C. Garbarino, La tassazione del reddito transnazionale, cit., 112; Id., Forza di attrazione della stabile organizzazione e trattamento isolato dei redditi, in Rass. trib., 1990, 433 ss. Nella prassi amministrativa la tesi del trattamento isolato è stata sostenuta, da ultimo, nella Circolare 9/E del 5 marzo 2015 (si veda, in particolare, il paragrafo 2). Infatti, mentre per le imprese residenti vige il c.d. “fattore unificante della commercialità”, nel caso di imprese, società ed enti non residenti privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato, trova applicazione il principio del trattamento isolato dei redditi sancito dall’art. 151 del t.u.i.r., talché il reddito complessivo delle società ed enti di ogni tipo non residenti, privi di stabile organizzazione, si determina atomisticamente e non si trasforma in reddito d’impresa, venendo, al contrario, assoggettato a imposizione in base alla loro qualificazione oggettiva.


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ne in Italia vige il principio del trattamento isolato dei redditi (22), nel senso che essi sono soggetti ad imposizione per i redditi che quivi producono (secondo i criteri di collegamento previsti dall’art. 23). Ciò peraltro avviene una volta che si sia, ex ante, qualificato l’ente come commerciale (infatti il capo IV del titolo II del t.u.i.r. è appunto rubricato “società ed enti commerciali non residenti”), cioè nel momento logico successivo a quello nel quale avviene la qualificazione dell’ente; e questa, a sua volta, non può certamente avvenire sulla base dell’attività che l’ente svolge in Italia, dal momento che trattasi di attività atomisticamente rilevate, ma deve necessariamente avvenire alla luce dell’attività che l’ente medesimo svolge nel Paese o territorio di residenza. Questa è essenzialmente la ragione per la quale non può assegnarsi all’art. 23, primo comma, lett. e) una funzione qualificatoria ma di mera localizzazione, in quanto la qualificazione dell’attività esercitata dal soggetto, essendo funzionale anche a qualificare l’ente (oltretutto, in assenza della presunzione di commercialità di cui all’art. 81 che, come abbiamo visto, opera solo con riferimento alle società residenti), deve necessariamente avvenire in un momento logico precedente all’applicazione del quadro normativo di riferimento sopra indicato. E ciò anche in considerazione del fatto che, mentre l’art. 151 è destinato a operare solo nei confronti delle società e degli enti non residenti, il perimetro di applicazione dell’art. 23 comprende anche i redditi d’impresa prodotti da persone fisiche e enti non commerciali non residenti. Ed è coerente con il sistema nel suo complesso che detta qualificazione avvenga, avendo sì presente l’attività svolta all’estero dall’ente, ma sulla base dei principi di riferimento interni contenuti nell’art. 55 del t.u.i.r., cioè secondo i canoni in base ai quali il legislatore tributario assegna il crisma dell’imprenditorialità a certune attività. D’altra parte, che la qualificazione del reddito sia un prius logico rispetto all’applicazione delle regole di localizzazione appare confermato anche dalla circostanza per cui la c.d. “forza di attrazione” della stabile organizzazione (fin quando ha operato) non era considerata “piena” bensì “limitata” (23), cioè non tutte le modificazioni patrimoniali che l’impresa non residente re-

(22) In altre parole, il legislatore sembra accordare agli enti commerciali non residenti privi di stabile organizzazione in Italia il medesimo trattamento fiscale previsto dal successivo art. 153 del t.u.i.r. per gli enti non commerciali non residenti. (23) Il principio dell’attrazione limitata della stabile organizzazione è stato recepito dal modello di convenzione OCSE sin dal 1963; cfr. S. Mayr, La forza attrattiva e la riserva della stabile organizzazione, in Corr. trib., 1990, 8 ss.


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alizzava nel nostro Paese erano attratte alla stabile organizzazione, ma solo quelle espressive di un reddito che risultasse direttamente ed effettivamente connesso con l’attività dell’unità produttiva localizzata in Italia, potendo quindi residuare un’area di imputazione diretta dell’utilità ritratta in capo al soggetto non residente, situantesi quindi al di fuori del perimetro della stabile organizzazione. Questa conclusione, che nel tempo ha formato oggetto di un certo dibattito sia a livello legislativo (24) sia da parte della dottrina (25),

(24) Per una ricostruzione delle vicende collegate all’emanazione dei decreti delegati nell’ambito della riforma tributaria degli anni ’70, vedasi, da ultimo, T. Gasparri, Stabili organizzazioni di soggetti non residenti, unicità soggettiva e autonomia del reddito, in Il fisco, 2015, 2333 ss. (25) Cfr. S. Giorgi, Il principio del trattamento isolato dei redditi e la c.d. “forza di attrazione” della stabile organizzazione: problemi e proposte di soluzione, in Aa.Vv., Aspetti fiscali delle operazioni internazionali, a cura di V. Uckmar e C. Garbarino, Milano, 1995, 31 ss. Ivi l’Autore definisce il principio della forza di attrazione come la “modificazione dei criteri autonomi per la qualificazione e la localizzazione delle isolate categorie reddituali non costituenti reddito d’impresa, e la riconducibilità delle stesse a quella unitaria del reddito d’impresa”. Sulla medesima tematica si veda anche C. Garbarino, Forza di attrazione della stabile organizzazione e trattamento isolato dei redditi, in Rass. trib., 1990, 434. Ivi l’Autore, nel definire i concetti di forza di attrazione “piena” e “limitata” afferma che, nel primo caso, si “riconduce ad imposizione tutti i redditi aventi la propria fonte entro il territorio dello Stato nel quale è situata la stabile organizzazione e tali redditi sono qualificati come d’impresa”. Nel secondo caso, “si distingue, invece, tra quei redditi che deriva ‘effettivamente’ e ‘direttamente’ dall’esercizio delle attività considerata produttive di reddito d’impresa e che, conseguentemente, sono oggetto delle norme in materia di reddito d’impresa, e quei redditi che, invece, non derivano effettivamente o direttamente dall’esercizio delle attività considerate produttive di reddito d’impresa ed il cui trattamento è autonomo o isolato”. Entrambi gli autori sembrano ricondurre i redditi che non confluiscono nella stabile organizzazione, in ragione della forza di attrazione limitata, al principio del trattamento isolato e, quindi, li considerano comunque imponibili nel territorio dello Stato. In sostanza, non sembra per costoro potersi configurare un’attività d’impresa svolta direttamente dall’entità non residente in “parallelo” rispetto a quella esercitata per il tramite della stabile organizzazione. Di contrario avviso F. Tundo, I redditi d’impresa nel modello di convenzione OECD (art. 7), cit., 402 ss. L’Autore, pur segnalando i rischi che questo sistema inevitabilmente può comportare in punto di necessario monitoraggio da parte dell’Amministrazione finanziaria volto ad evitare condotte miranti a dirottare sull’impresa estera utili viceversa riconducibili alla stabile organizzazione, al solo fine di sfuggire alla tassazione italiana, nondimeno riafferma la correttezza del principio vuoi al fine di evitare duplicazioni d’imposta che sarebbero risolvibili (ed a volte neppure completamente) solo per il tramite dei complicati meccanismi di riequilibrio previsti dalle legislazioni dei singoli Stati, vuoi per non frapporre ostacoli ed oneri aggiuntivi all’attività dell’impresa non residente, anche in considerazione delle difficoltà alle quali darebbe luogo la determinazione del reddito complessivamente prodotto dall’impresa nello Stato della fonte. La forza di attrazione limitata della stabile organizzazione è incontrovertibilmente affermata dal modello di convenzione OCSE e dal relativo commentario, ove all’art. 7 è previsto che “la


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appare oggi normativamente superata alla luce dell’attuale testo dell’art. 152 del t.u.i.r., così come introdotto dal d.lgs. n. 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. “decreto internazionalizzazione”) che ha definitivamente eliminato la forza attrattiva (anche limitata) della stabile organizzazione (26); ed infatti, il primo comma di tale articolo dispone che per le società ed enti commerciali con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, il reddito della stabile organizzazione è determinato in base agli utili ed alle perdite ad essa riferibili secondo le regole i.re.s.. Alcuni autori hanno rilevato come, con riferimento agli enti non residenti con stabile organizzazione in Italia, il nuovo testo dell’art. 152 non preveda più il riferimento al “reddito complessivo” dell’ente non residente, con ciò volendo mettere in relazione l’eliminazione della forza attrattiva (limitata) della stabile organizzazione con la necessità che gli ulteriori redditi non facenti capo al predetto centro di imputazione trovino sempre sicuro presidio nel principio del trattamento isolato consacrato nel precedente art. 151 del t.u.i.r. (27). E tuttavia pare lecito dubitare della completezza di siffatta conclusione. Certamente l’odierno quadro normativo di riferimento muove dal principio che la stabile organizzazione, pur essendo un centro unitario di localizzazione del reddito, non è l’unico strumento attraverso il quale il soggetto estero può produrre un reddito nel nostro Paese, onde appare senz’altro corretta, per un verso, l’elisione del riferimento al “reddito complessivo” del soggetto non residente con riferimento alla stabile organizzazione e, per altro verso, la possibilità che, in parallelo con quello riferibile alla stabile organizzazione, l’entità estera possa avere altre manifestazioni reddituali in Italia che, in base all’art. 151, vengono rilevate atomisticamente e determinate secondo le regole proprie dell’i.r.pe.f. (28). Anzi, la novella appare correttamente strutturata là dove

potestà impositiva non si estende agli utili che impresa può produrre in detto Stato al di fuori dell’ambito della stabile organizzazione”. (26) Infatti, con l’espressione “forza attrattiva” della stabile organizzazione ci si riferiva al principio in base al quale i redditi prodotti nel territorio dello Stato da soggetti non residenti con stabile organizzazione in Italia erano considerati riconducibili alla predetta entità, anche se ad essa non riferibili. Ma dal momento che oggi il reddito della stabile organizzazione è solo quello riferibile all’attività esercitata tramite la stessa, non rimane più alcunché da attrarre. (27) Cfr. T. Gasparri, Stabili organizzazioni di soggetti non residenti, unicità soggettiva e autonomia del reddito, in Il fisco, 2015, 2333 ss.; Id., Determinazione del reddito delle società non residenti senza stabile organizzazione, in Il fisco, 2017, 3259 ss. (28) Ed infatti, un altro intervento modificativo del decreto internazionalizzazione è stato quello di aver precisato che i redditi del soggetto non residente, ad eccezione dei redditi


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il riferimento al “reddito complessivo” è oggi contenuto solo nell’art. 151, che si occupa, in generale, del reddito dei soggetti non residenti, rinviando al successivo art. 152 quanto alle regole di determinazione di quella parte di esso riferibile alla stabile organizzazione. Ma queste conclusioni non elidono affatto il problema nei termini oggetto del presente studio. Anzi, una volta chiarito anche a livello legislativo che l’imputazione dei redditi alla stabile organizzazione è oggi limitato solo a quelli che ad essa risultano riferibili (onde appare lecito sostenere che sia venuta meno la forza attrattiva della stabile organizzazione), l’attuale assetto normativo rafforza il convincimento che vi debba comunque essere una previa qualificazione dell’ente non residente ed una verifica in merito alla sussumibilità dell’attività esercitata nel territorio dello Stato in seno a quella professionalmente e abitualmente esercitata all’estero. Né deve attribuirsi particolare importanza, ai fini dello studio che stiamo svolgendo, alla circostanza che le convenzioni contro le doppie imposizioni, così come il relativo Modello OCSE, prevedano, in generale, il trattamento isolato dei dividendi, dei redditi di capitale e delle Royalties. E ciò per un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, tali norme assumono rilievo nella soluzione del caso concreto solo se, e nella misura in cui, lo Stato della fonte preveda, a sua volta, il trattamento isolato di tali manifestazioni reddituali ove percepite da soggetti non residenti nell’ambito di attività d’impresa, essendo evidente che, qualora al contrario lo Stato della fonte preveda forme di trattamento unitario o isolato limitato, non troverebbe applicazione la norma convenzionale per assenza di una doppia tassazione del reddito sull’attività d’impresa, la quale sarebbe quindi integralmente tassata solo nello Stato di residenza. Di qui l’esigenza di verificare, in primo luogo, le scelte operate dalla normativa interna in punto di trattamento dei redditi prodotti dai soggetti non residenti nell’ambito dell’attività d’impresa, in assenza di stabile organizzazione. In secondo luogo, occorre considerare che il trattamento isolato previsto a livello convenzionale per le tipologie di reddito sopra richiamate risponde a esigenze di carattere politico collegate alla ripartizione della potestà impositiva tra gli Stati con riferimento ad alcuni aspetti dell’attività. Si tratta, in altri termini, di una eccezione al principio della stabile organizzazione introdot-

d’impresa determinati sulla base di una stabile organizzazione, sono determinati secondo le disposizioni del titolo I del t.u.i.r., relative alle categorie nelle quali rientrano.


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to per consentire anche allo Stato della fonte di esercitare la propria potestà impositiva su determinati segmenti dell’attività d’impresa, pur in assenza di una stabile organizzazione sul proprio territorio. La qual circostanza, semmai, rafforza il convincimento per cui il trattamento isolato dei redditi non può considerarsi un principio generale del nostro ordinamento. Alla luce delle considerazioni che precedono, quindi, pare potersi affermare il principio per cui, qualora sulla base dell’attività svolta all’estero, l’attività di un soggetto non residente, privo di una stabile organizzazione in Italia, è qualificata come d’impresa e questi è considerato, secondo la normativa interna, un soggetto commerciale non residente, dovrà verificarsi se l’attività svolta in Italia rientri o meno nell’ambito di quella esercitata abitualmente e professionalmente all’estero. A questo punto, per successivi passaggi, ci stiamo avvicinando a comprendere il vero nodo della problematica oggetto di approfondimento. Ed al riguardo, appare importante tenere presente un punto assolutamente pacifico: nessuno dubita del fatto che se un’impresa estera, priva ovviamente di stabile organizzazione, cede beni ad un soggetto residente o presta taluni servizi in favore di soggetti residenti essa si muova nell’ambito della sua attività istituzionale e le utilità che ne ritrae rientrino nell’ambito del proprio reddito d’impresa e, come tali, siano sicuramente escluse da tassazione in Italia. Ed è paradigmatico di questo convincimento come, persino i fautori della rigida applicazione del principio del trattamento isolato, diano per assolutamente pacifica la non ricorrenza in queste ipotesi financo di un reddito diverso prodotto per il tramite dell’esercizio occasionale di attività d’impresa, e giustifichino tale scelta con la necessità di attribuire solo alla stabile organizzazione il ruolo di criterio di collegamento tra l’entità estera e la tassazione in Italia del relativo reddito imprenditoriale (29). Senonché siffatta eccezione, ed anche la giustificazione che viene offerta a proposito della non applicabilità

(29) Cfr. R. Baggio, Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009, 463, nota n 433. Quivi l’Autore introduce un’eccezione alla regola, cui in precedenza è pervenuto, secondo cui la qualificazione soggettiva dell’impresa commerciale estera (assunta in base alla normativa interna) non ha alcuna valenza; in specie specificando che, al contrario, tale qualificazione rileva per escludere l’applicabilità proprio dell’art. 67, lett. i) del t.u.i.r. e cioè per escludere che un’impresa estera, priva di stabile organizzazione in Italia, possa essere quivi tassata siccome produttiva di reddito d’impresa occasionale. La giustificazione di quest’eccezione è che, in sua assenza, “verrebbe vanificata la previsione del collegamento territoriale costituito dalla stabile organizzazione”.


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dell’art. 67, lett. i) del t.u.i.r., confermano in verità che l’obiettivo che si vuole raggiungere è proprio quello di non tassare in Italia le attività che l’impresa non residente svolge quivi, e che non possono non avere carattere di imprenditorialità, in assenza del criterio di collegamento rappresentato dalla stabile organizzazione. 8. La delimitazione del problema a quelle attività che, in assenza dell’elemento unificante dell’impresa, darebbero luogo ad autonomi redditi di altre categorie: in particolare, il problema dei redditi di capitale. – Ci si avvede, in definitiva, che il vero nodo della questione è rappresentato in effetti dalle attività che, ove non realizzate in seno ad un contesto imprenditoriale, sarebbero comunque rilevanti ai fini di altre categorie reddituali, cioè da quelle modificazioni patrimoniali la cui fattispecie può essere ricondotta tanto a quella dell’attività d’impresa tanto a quella di altri redditi a seconda delle modalità attraverso le quali esse sono realizzate. Si tratta, in sostanza, di quelle attività generative di redditi fondiari, di capitale e diversi (ad esclusione di quelli derivanti da isolati atti di esercizio dell’impresa), attività che non necessariamente devono essere realizzate per il tramite di un’organizzazione d’impresa, essendo possibile il compimento dei relativi atti generativi di reddito anche da parte di persone fisiche non imprenditori o enti non commerciali. Tra queste, molto indicativa è la categoria dei redditi di capitale ed, in particolare, dei redditi derivanti dall’offerta di servizi finanziari ad opera di soggetti non residenti. In effetti, i servizi finanziari possono essere oggi offerti non solamente da istituzioni residenti (o aventi in Italia una stabile organizzazione), ma anche da soggetti non residenti. Si ipotizzi allora il caso in cui una banca non residente conceda un finanziamento ad un soggetto residente, ritraendo da tale operazione un’utilità sotto forma di interessi corrisposti dal soggetto finanziato. Orbene, se si volesse seguire pedissequamente la teoria del trattamento isolato, quest’operazione configurerebbe un reddito di capitale in capo al soggetto non residente che, in forza del criterio di collegamento previsto dall’art. 23, primo comma, lett. b) del t.u.i.r., sarebbe tassato in Italia siccome gli interessi risultano corrisposti da un soggetto residente. Questa conclusione appare inappagante, già prima facie, configurandosi alla stregua di un trattamento differenziato delle imprese estere non residenti in ragione dell’oggetto dell’attività svolta: infatti l’impresa estera che ha ad oggetto la produzione e la vendita o la locazione di qualunque tipologia di


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beni, se realizza alcune transazioni con soggetti residenti, senza ovviamente una stabile organizzazione, non è tassata in Italia. Se viceversa l’oggetto dell’impresa è l’offerta di servizi finanziari, l’effettuazione di operazioni con soggetti residenti diventa ipso iure redditualmente rilevante. La qual circostanza appare, già sul piano della logica e del buon senso, una conclusione ingiustificata e del tutto discriminatoria. Al contrario, tale discriminazione non si verificherebbe ove, avuto riguardo all’attività svolta all’estero in via professionale e continuativa, il prestito di denaro rappresentasse una manifestazione dell’attività propria dell’impresa estera, configurandosi quindi alla stregua del normale esercizio dell’attività istituzionale. Vi sono state, al riguardo, alcune pronunce della Corte di cassazione di particolare interesse. Ed invero, con la sentenza 21 aprile 2011, n. 9197, la Corte analizza il caso (peraltro verificatosi sotto la vigenza del D.P.R. n. 507/1973) di una banca estera che aveva aperto conti correnti presso istituzioni creditizie residenti dai quali ritraeva interessi attivi. Quivi la Corte ha accolto il principio secondo il quale “la qualificazione del reddito quale reddito d’impresa dipende dal requisito soggettivo dell’esercizio di impresa commerciale da parte del percipiente, a prescindere da qualsiasi altro diverso requisito (essendo la ricorrenza della stabile organizzazione semplice condizione di localizzazione del reddito medesimo e di sua imponibilità in Italia)” (30). La Corte è poi tornata sull’argomento con la sentenza 3 marzo 2017, n. 5392 (31) ove, fra l’altro, ha affrontato il tema dell’applicabilità della ritenuta prevista dall’art. 26 del d.P.R. n. 600/1973 con riferimento agli interessi erogati da un’impresa residente in favore di una non residente, priva di una stabile organizzazione in Italia, a fronte di un finanziamento a breve termine da quest’ultima erogato in favore della prima. In questo caso, la Corte sembra aderire alla tesi secondo la quale la stabile organizzazione avrebbe una funzione di mera localizzazione del reddito; e ciò lo si desume dal fatto che

(30) In Banca dati Fisconline. Si segnala che, nel vigente testo dell’art. 23 del t.u.i.r. sono espressamente esclusi dal novero dei redditi di capitale per i quali risulta integrato il requisito della territorialità gli interessi erogati da un soggetto residente a fronte di conti correnti e depositi bancari. (31) Per una prima analisi del testo della sentenza vedasi F. Padovani, La Corte di Cassazione interviene sui principi di tassazione dei redditi di capitale conseguiti da imprese domestiche e non residenti, in Riv. dir. trib., Supplemento online, 14 marzo 2017.


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la riconduzione nel novero degli importi sottoposti a ritenuta dei redditi di capitale percepiti un’impresa non residente avviene in forza di una precisa previsione normativa o, per adoperare la terminologia utilizzata nella sentenza, per effetto di un’estensione del perimetro applicativo della ritenuta contemplata dall’art. 26 in forza di una “dizione specifica” contenuta nel quinto comma del citato art. 26 che impone l’applicazione della ritenuta alla fonte a titolo d’imposta “anche” sui proventi che concorrono a formare il reddito dei soggetti non residenti (32). 9. Il ruolo delle ritenute alla fonte a titolo d’imposta nel sistema di tassazione dei soggetti non residenti: in particolare la natura sostitutiva di questo tipo d’imposizione rispetto al modello ordinario. – Quest’ultima pronuncia della Corte appare rilevante, non solo perché sembra ribadire il ruolo di mera localizzazione del reddito delle regole di cui all’art. 23 del t.u.i.r., ma anche perché coglie un aspetto assai significativo nel complessivo meccanismo di tassazione dei soggetti non residenti: il ruolo delle ritenute alla fonte a titolo d’imposta previste nei loro confronti. Per comprendere appieno il senso e la portata di questa riflessione, occorre ricordare, in termini generali, che questo tipo di ritenuta sostituisce all’ordinario prelievo di carattere personale (che per le persone fisiche si connota del carattere della progressività) una forma di imposizione fortemente reale e sempre di carattere proporzionale, poiché il provento che sia sottoposto a codesta forma di ritenuta non concorre più a formare il reddito complessivo del soggetto che lo manifesta secondo le ordinarie regole di rilevazione e determinazione proprie della categoria reddituale di appartenenza; detto provento, invece, viene sottoposto ad un prelievo autonomo e definitivo che incide

(32) Secondo la Corte, la previsione recata dall’art. 26, quinto comma del d.P.R. n. 600/1973 (nel testo vigente ratione temporis) prescrive “in generale l’applicazione delle ritenute ‘sui redditi di capitale’, tra cui come detto non rientra il pagamento di interessi tra società commerciali residenti ed enti assimilati, che è reddito d’impresa; dall’altro, estende, con disposizione specifica, l’obbligo di effettuare la ritenuta anche sugli interessi e proventi assimilati, ma ciò solo se corrisposti a favore di soggetti specifici, in particolare non residenti”. Una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 26 del d.P.R. n. 600/1973 è rinvenibile nell’art. 25 del medesimo decreto, ove, a proposito dell’assunzione degli obblighi di fare, non fare o premettere, è previsto che la ritenuta non sia operata per le prestazioni effettuate nell’esercizio delle imprese, ma se i compensi sono corrisposti a soggetti non residenti, deve comunque essere operata una ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.


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direttamente sulla fonte generativa dello stesso e, per l’effetto, quest’ultima non partecipa alla formazione del coacervo reddituale (33). Questa caratteristica ha condotto la dottrina maggioritaria a ritenere che sussista una concreta alternatività tra regime ordinario e ritenuta a titolo d’imposta, quest’ultima rientrando, dal punto di vista sostanziale, nel più ampio novero dei sistemi sostitutivi, quindi rappresentando un vero e proprio tributo autonomo rispetto al tributo sostituito (34); e ciò in quanto, al pari degli altri regimi sostitutivi, la ritenuta a titolo d’imposta rappresenta una deroga rispetto al tributo originario e si applica al posto di quest’ultimo. Altra parte della dottrina ha sostenuto che le ritenute a titolo d’imposta non sono propriamente riconducibili nel novero dei regimi fiscali sostitutivi in quanto “la disciplina normativa non consiste nella sostituzione di fattispecie originarie –che rimangono, invece, le stesse- bensì nella loro frammentazione e considerazione isolata per ragioni di praticità tecnica sostanzialmente immanenti alla ratio del tributo” (35).

(33) Da ciò consegue che, nelle forme di sostituzione alla fonte a titolo d’imposta, l’elemento oggettivo del presupposto non è più il “possesso del reddito complessivo del soggetto passivo, bensì [una] situazione non definita espressamente dal legislatore, ma che indirettamente, sulla base del dato normativo, è facile identificare nella percezione di un reddito non più globale ma distinto, corrispondente all’importo complessivo della somma percepita a titolo, ad es., di interessi, frutti, premi o utili” (cfr. F. Gallo, L’influenza della disciplina formale nella ricostruzione della natura giuridica di un tributo surrogatorio, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1977, I, 239). (34) Sul punto vedasi, ex multis, G. Tabet, Reviviscenza dell’ilor su royalties non assoggettate a ritenute?, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, II, 7 ss.; F. Gallo, L’imposta sulle assicurazioni, Milano, 1970, 10 ss.; Idem, L’influenza della disciplina formale..., cit., 238; E. De Mita, La ritenuta sugli interessi per conti interbancari, in Dir. prat. trib., 1976, I, 650 ss.; R. Rinaldi, Contributo allo studio dei redditi di capitale, Milano, 1989, 103 ss.; M. Ingrosso, voce Imposte sostitutive, in Enc. giur., XVI, Roma, 1989, 1 ss. In particolare, quest’ultimo Autore sottolinea come l’imposta sostitutiva deroga all’imposta sostituita in quanto adotta una disciplina impositiva nuova rispetto al normale regime attraverso una norma avente carattere speciale (in passato si discuteva se la disciplina dell’imposta sostitutiva dovesse considerarsi speciale o eccezionale rispetto alla disciplina sostituita. Sull’argomento vedasi E. Antonini, I regimi sostitutivi, Milano, 1969, passim; M. Polano, Spunti teorici e prospettive in tema di regimi tributari sostitutivi, in Dir. prat. trib., 1972, I, 267 ss.). Si segnala la posizione di quella parte della dottrina che ricostruisce il rapporto tra imposta sostitutiva e imposta sostituita in termini di esclusione di particolari fattispecie all’operatività del tributo ordinario (cfr. F. Gallo, L’imposta sulle assicurazioni, cit., 76; Id., L’influenza della disciplina formale…, cit. 250 ss.). Per un’ampia e dettagliata analisi di tutte le teorie vedasi G.M. Cipolla, voce Ritenuta alla fonte, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., XIII, 1996, 16 ss. (35) Cfr. A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 192 ss. Secondo l’Autore tutte le ritenute a titolo d’imposta, diversamente dalle imposte sostitutive in senso proprio, mantengono


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Merita sottolineare come questo dibattito non comporti sostanziali alterazioni rispetto alla (e non incida sulla) ricostruzione dello schema di sostituzione d’imposta che la dottrina ha individuato, alternativamente, in una situazione di carattere sostanziale nella quale il sostituto viene ad essere annoverato quale soggetto passivo del tributo, ovvero meramente attuativa del rapporto d’imposta (36), ove il sostituto si qualifica (più propriamente e, a nostro avviso, preferibilmente) quale incaricato ope legis dell’adempimento parziale o totale (a seconda che la ritenuta sia a titolo d’acconto o d’imposta) della prestazione impositiva facente carico al sostituito. Invero, affermare la natura sostitutiva del prelievo attuato per il tramite della ritenuta alla fonte a titolo d’imposta vuol dire guardare al profilo sostanziale o, se si vuole, alla “sostanza dell’imposizione” (37), elevando a fattispecie autonomamente imponibili fatti e situazioni altrimenti ricadenti nel presupposto di una diversa imposta. Val quanto dire che la sostituzione d’imposta si caratterizza come imposizione

fermi i presupposti d’imposta originari cui si sovrappongono particolari modalità di riscossione del tributo; secondo tale ricostruzione, “resta ferma l’inclusione della fattispecie nell’ambito della disciplina ordinaria, condizionando solo l’individuazione dell’aliquota marginale del contribuente a causa dell’ingresso di un prelievo sostitutivo autonomo che assume la natura di ritenuta alla fonte a titolo d’imposta ovvero quella di vera e propria imposta sostitutiva”. L’Autore sottolinea, altresì, come l’imposizione sostitutiva gravante sui redditi di capitale persegua l’obiettivo di una tassazione semplificata e spesso agevolativa rispetto al paradigma ordinario. (36) Sia pure con sfumature diverse, si orientano a ritenere il sostituto quale soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, in luogo di colui al quale è riferibile la manifestazione di capacità contributiva colpita dal tributo A.D. Giannini, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1961, 135 ss.; A. Berliri, Principi di diritto tributario, Milano, 1967, II, 121 ss.; A. Fantozzi, La solidarietà nel diritto tributario, Torino, 1968, 27 ss.; Allorio E., Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 134 ss.; E. De Mita, voce Sostituzione tributaria, in Noviss. Dig. It., Torino, 1970, XVII, 998; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2017, I, 115 ss. Per l’opposta tesi che vede il sostituto quale figura che si situa nella fase di attuazione del rapporto obbligatorio d’imposta vedasi, in particolare, P. Russo, Il nuovo processo tributario, Milano, 1974, 250 ss.; P. Russo - G. Fransoni - L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2016, 167 ss.; in termini più sfumati vedasi anche R. Lupi, Omessa effettuazione di ritenute d’acconto e successive fasi di applicazione delle imposte dirette, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1985, II, 16 ss. In termini generali sulla nozione di sostituto d’imposta e sui problemi ad essa collegati vedasi, inoltre, A. Parlato, Il sostituto d’imposta, Milano, 1969, passim; Id., Il responsabile ed il sostituto d’imposta, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, II, 393 ss.; F. Bosello, Il prelievo alla fonte nel sistema della imposizione diretta, Padova, 1972, passim. In particolare, sul rapporto tra sostituzione e possesso del reddito vedasi M. Nussi, L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, 255 ss. (37) Cfr. A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 192; G. Corasaniti, Diritto tributario delle attività finanziarie, cit., 56.


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di carattere sostitutivo sotto il profilo del modo di essere del rapporto d’imposta, ma tale caratteristica non toglie che essa involga anche le modalità attuative del rapporto medesimo caratterizzandole per la presenza di un soggetto ulteriore rispetto al soggetto passivo (il sostituto), il quale interviene nello schema attuativo attraverso meccanismi peculiari e situazioni soggettive autonome, dando vita (secondo la tesi che quivi s’intende seguire) ad una modalità particolare di adiectus solutionis causa, secondo i noti istituti della ritenuta e della rivalsa e con le peculiari responsabilità che l’ordinamento prevede per questa modalità di riscossione del tributo. Tanto chiarito, occorre altresì sottolineare che il nostro ordinamento prevede forme di ritenute alla fonte a titolo d’imposta diversificate ed eterogenee (38) ma, con riferimento ai soggetti non residenti, pare abbastanza evidente che le finalità di questa modalità di prelievo vadano ricercate sia nel non gravare tali soggetti degli obblighi formali e strumentali connessi all’attuazione dell’ordinario rapporto obbligatorio d’imposta (39), sia nell’evitare che il sistema dichiarativo ordinario, in uno con le modalità autoliquidatorie del tributo, possa tradursi in una forma di prelievo agevolmente (ancorché illecitamente) eludibile da parte dei soggetti non residenti, con le conseguenti ed intuibili difficoltà alle quali andrebbe incontro l’Amministrazione finanziaria nel tentativo di recuperare il tributo evaso con azioni da intraprendersi all’estero (40).

(38) Per una puntuale ricostruzione delle diverse rationes che si trovano alla base della scelta di contemplare ritenute alla fonte a titolo d’imposta in presenza di talune fattispecie redditualmente rilevanti vedasi, in particolare, G.M. Cipolla, voce Ritenute alla fonte, cit., 17 ss. (39) Cfr. P. Russo - G. Fransoni - L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2016, 168. (40) V’è da rilevare come questa forma alternativa di adempimento dell’obbligo tributario possa configurarsi anche alla stregua di un regime agevolativo in considerazione del più mite prelievo che, suo tramite, il legislatore pone a carico di alcune manifestazioni reddituali. Tale circostanza ha introdotto nel dibattito riflessioni in punto di giustificazione costituzionale della ritenuta d’imposta, e la dottrina ha al riguardo fornito risposte articolate in termini di uguaglianza e capacità contributiva (si vedano, al riguardo, le riflessioni di E. De Mita, La ritenuta, cit., 903; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2000, I, 81 ss.; E. Antonini, I regimi, cit., 18 ss.; M. Polano, Spunti …, cit., 280; M. Ingrosso, Imposte sostitutive, cit., 5), quantomeno per coloro i quali ritengono che anche le fattispecie agevolative debbano soggiacere al rispetto del precetto costituzionale di cui all’art. 53. Nei confronti dei soggetti non residenti, tuttavia, la funzione agevolativa non è sempre evidente, soprattutto con riferimento ai redditi di capitale che, per effetto delle modifiche introdotte dagli artt. 3 e 4 del d.l. 24 aprile 2014, n. 66 scontano oggi un’aliquota del 26%, cioè maggiore di quella prevista per i soggetti i.re.s., salva l’applicazione della più mite aliquota prevista a livello convenzionale.


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Queste, nella sostanza, appaiono le ragioni per le quali il legislatore tributario ha inteso predisporre un sistema “autonomo” di tassazione del reddito dei non residenti, in relazione al quale si pone quindi in modo evidente il problema di verificare la natura del prelievo attuato per il tramite della ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. Ed invero, qualora si sposi la tesi della natura sostitutiva di tale forma di prelievo, in presenza di previsioni legali espresse di non applicazione della ritenuta, saremo di fronte ad un regime di intassabilità del reddito nel nostro Paese; ove viceversa non si condivida detta tesi, la non applicabilità di siffatta forma alternativa di prelievo produce la reviviscenza delle forme attuative ordinarie anche nei confronti dei soggetti non residenti, con conseguente sussistenza degli obblighi formali e strumentali in capo a costoro e la necessità di determinare il reddito secondo i criteri usuali. Il tema, tornato di attualità a seguito di un’importante presa di posizione dell’Agenzia delle Entrate, è invero già stato affrontato nel passato a proposito dell’applicabilità dell’i.l.o.r. sulle royalties corrisposte a società non residenti, privi di stabile organizzazione in Italia, e non sottoposte a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta per effetto di esenzioni contenute in convenzioni o trattati internazionali. Il problema era sorto poiché l’art. 115, secondo comma, lett. e) del t.u.i.r. (anteriormente alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 344/2003) prevedeva l’esclusione da tale tributo per i redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. Il perimetro di operatività di tale esclusione, tuttavia, dipendeva dall’accezione che s’intendeva dare al participio “soggetti”: infatti, ove esso si fosse inteso come l’assoggettamento effettivo al prelievo realizzato per il tramite di ritenute alla fonte, allora l’esenzione prevista in materia di royalties avrebbe comportato la sottoposizione di tale posta al prelievo i.l.o.r.; ove viceversa l’esclusione da i.l.o.r. fosse dipesa dal semplice fatto di essere la componente reddituale sottoposta ad un regime sostitutivo, allora l’esclusione da tale tributo sarebbe avvenuta a prescindere dall’effettiva corresponsione del tributo. La tesi prevalente, accentuando l’autonomia della ritenuta alla fonte a titolo d’imposta rispetto al tributo originario, ha osservato che l’effetto sostitutivo “si realizza in via preventiva [rispetto alla verificazione del presupposto] mediante la delimitazione del presupposto del tributo” sostituito; il che avviene attraverso la previsione della “estraneità di una data categoria di fattispecie


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rispetto alla sfera di applicazione della norma” (41). Con la conseguenza che, costituendo la ritenuta alla fonte un prelievo avente carattere sostitutivo, l’i.l.o.r. sulle royalties non avrebbe dovuto applicarsi in ogni caso, a prescindere quindi dall’effettiva sottoposizione del reddito alla predetta ritenuta ovvero all’operare di un qualsiasi regime di esenzione, anche convenzionale. 10. Segue: in particolare, il sistema delle ritenute alla fonte sui redditi di capitale facenti capo a soggetti non residenti quale sistema “autonomo” di tassazione rispetto a quello ordinario. – Il tema, come si diceva, è tornato di attualità con la Risoluzione 29 settembre 2016, n. 84/E attraverso la quale l’Agenzia delle Entrate ha risposto ad un interpello presentato in materia di ritenuta alla fonte a titolo d’imposta prevista sugli interessi percepiti da banche estere in relazione a contratti di finanziamento a medio e lungo termine erogati in favore di imprese residenti di cui all’art. 26, comma 5-bis del d.P.R. n. 600/1973. Come noto, gli interessi corrisposti a fronte di un finanziamento costituiscono, in generale, redditi di capitale ai sensi dell’art. 44, primo comma, lett. a) del t.u.i.r. Tali interessi, ove corrisposti a soggetti non residenti privi di stabile organizzazione in Italia, scontano in generale un’imposizione sostitutiva attraverso un sistema di ritenute alla fonte a titolo d’imposta dall’art. 26 (42) del d.P.R. n. 600/1973, ma la medesima norma accorda talune esenzioni, in specie: - gli interessi e gli altri proventi corrisposti da banche italiane, o filiali italiane di banche estere, in favore di banche estere, o filiali estere di banche italiane (cfr. comma 2, lett. a);

(41) Cfr. G. Tabet, Reviviscenza dell’Ilor su royalties non assoggettate a ritenute?, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, II, 7 ss.; L. Carpentieri, Appunti in tema di rapporti tra imposta sostitutiva e imposta sostituita, in Dir. prat. trib., 1993, II, 900 ss. (42) In generale, fin dalla riforma degli anni settanta, il sistema di tassazione dei redditi di capitale è stato delineato attraverso un ampio ricorso allo strumento delle ritenute per soddisfare gli obiettivi di celerità e certezza della riscossione in presenza di una fonte di scaturigine del reddito permeata da evidenti caratteri di volatilità (cfr. P. Boria, Il sistema tributario, Torino, 2008, 235), addossando gli obblighi sostitutivi in capo al debitore del reddito o a colui che interviene nella sua erogazione (cfr. G. Corasaniti, Diritto tributario delle attività finanziarie, Milano, 2012, 54 ss.; G.M. Cipolla, voce Ritenuta alla fonte, cit., 5). Ad eccezione dei soggetti imprenditori residenti, nei confronti dei quali la ritenuta è usualmente prevista solo a titolo d’acconto, si è così andato configurando un sistema di tassazione con evidenti caratteri di realità imperniato sulla rilevazione della fonte del reddito.


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- gli interessi e gli altri proventi corrisposti da imprese residenti in favore di enti creditizi, imprese di assicurazione stabiliti in territorio UE, investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria in relazione a finanziamenti a medio e lungo termine (comma 5-bis) (43). Il caso analizzato nella predetta risoluzione riguardava proprio un’ipotesi ricadente nell’esenzione contemplata dal comma 5-bis dell’art. 26 e la banca estera istante chiedeva se, per il caso in cui ricorressero gli estremi della suddetta esenzione, riprendesse vita il prelievo ordinario ed essa fosse tenuta al rispetto degli obblighi formali e strumentali ricadenti sui produttori di reddito in Italia, nonché alla determinazione del reddito ed al pagamento delle imposte secondo le predette regole ordinarie. L’agenzia delle Entrate ha ritenuto che, ricorrenti i presupposti per l’esenzione dalla ritenuta alla fonte a titolo d’imposta ex art. 26 del d.P.R. n. 600/1973, non possa rivivere il regime ordinario di imposizione sui redditi in quanto “la tassazione su base dichiarativa non solo imporrebbe al creditore estero considerevoli oneri amministrativi e di compliance (…), ma sarebbe altresì del tutto inutile a eliminare la doppia imposizione giuridica degli interessi in questione”. Per addivenire a tale risultato ermeneutico l’Agenzia delle Entrate ha valorizzato l’inciso recato dall’art. 151 (del tutto analogo a quello a suo tempo contenuto nell’art. 115 del t.u.i.r. in tema di i.l.o.r.) secondo cui il reddito complessivo delle società non residenti è formato dai redditi prodotti nel territorio dello Stato, ad eccezione dei redditi esenti e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva (44). In altri termini, l’Agenzia delle Entrate sembra propendere per la natura sostitutiva della ritenuta alla fonte a titolo d’imposta prevista dall’art. 26 del d.P.R. n. 600/1973; con la conseguenza che l’espressa previsione della non applicazione di siffatta ritenuta a certune ipotesi non produce la reviviscenza

(43) Per una dettagliata analisi dei presupposti della fattispecie di esenzione prevista dall’art. 26, comma 5-bis del d.P.R. n. 600/1973, vedasi A. Fazio, Brevi considerazioni a margine di una recente risoluzione in tema di esenzione da ritenuta sugli interessi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine, in Strumenti finanziari e fiscalità, 2017, 117 ss. (44) Tale conclusione, peraltro, era stata sostenuta anche dall’ABI con la Circolare n. 36 del 1981 con riferimento all’ipotesi di esenzione del finanziamento interbancario da parte di banche estere; in tale occasione era stato chiarito che “l’espressa statuizione di esonero anche dalle imposte sul reddito appare pleonastica, dal momento che le ritenute alla fonte sugli interessi corrisposti a soggetti non residenti, per il loro carattere di prelievo definitivo, hanno funzione sostitutiva di tutte le imposte sul reddito, di guisa che sarebbe stata sufficiente la semplice esclusione da ritenuta”.


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del regime ordinario, ma un regime di intassabilità in Italia della relativa fonte di scaturigine, secondo quando detto in precedenza. Questa conclusione, del resto, appare coerente con la più generale linea di tendenza adottata dal legislatore di non sottoporre a tassazione i redditi di natura finanziaria dei soggetti non residenti (45), la quale ha trovato la sua compiuta espressione con l’adozione del d.lgs. n. 239/1996 in materia di titoli pubblici e obbligazionari emessi dai c.d. “grandi emittenti”. Ivi è stato accordato, in via generale, il regime di non tassazione dei redditi di natura finanziaria per quei soggetti residenti in Stati o territori che consentono un adeguato scambio di informazioni, purché risultino essere i beneficiari effettivi del reddito medesimo (46). Si tratta di una linea di tendenza generalmente giustificata con l’obiettivo di eliminare ogni possibilità di una doppia imposizione su tali tipologie di redditi, al fine di favorire gli investimenti esteri in Italia e l’attrazione di nuovi capitali, e dove il controllo sulla ricorrenza dei presupposti (oggettivi e soggettivi) dell’esenzione è essenzialmente rimesso all’intermediario residente, presso il quale devono essere depositati i titoli. Non v’è dubbio, però, che la previsione di un regime ad hoc di esenzione sugli interessi in relazione ai titoli emessi dai c.d. “grandi emittenti”, in uno con la predisposizione di un sistema di ritenute d’imposta per gli altri casi, rafforza il convincimento che nei confronti dei non residenti il legislatore ab-

(45) In generale, il d.lgs. n. 239/1996 ha apportato rilevanti e sostanziali modifiche al complessivo sistema di ritenute alla fonte sugli interessi, premi ed altri frutti delle obbligazioni e dei titoli similari; il tratto più caratteristico dell’intervento legislativo è stato proprio il passaggio dal generalizzato sistema di applicazione della ritenuta alla fonte a titolo d’imposta sugli interessi scaturenti dalle obbligazioni (e titoli similari) emesse dai c.d. “grandi emittenti” (cioè lo Stato e gli enti territoriali, le banche, le società con azioni negoziate in mercati regolamentati) a un sistema di imposta sostitutiva delle imposte sui redditi, la cui applicazione è posta a carico degli intermediari finanziari che intervengono nella riscossione di tali redditi. Questo passaggio ha di fatto liberato gli emittenti dagli obblighi connessi all’effettuazione delle ritenute, che sono stati addossati sugli intermediari presso i quali il sottoscrittore ha depositato i titoli generativi del reddito di capitale, con la conseguenza che le negoziazioni avvengono oggi “al lordo” (cfr. Min. fin. – Dip. Entrate aff. Giuridici, circ. 23 dicembre 1996, n. 306; G. Corasaniti, Diritto tributario delle attività finanziarie, cit., 57). (46) Si veda, al proposito, l’art. 6 del d.lgs. n. 239/1996 in base al quale non sono soggetti ad imposizione gli interessi, i premi e gli altri frutti delle obbligazioni e dei titoli similari di cui all’art. 2, primo comma del medesimo decreto, percepiti da soggetti residenti in Stati o territori inclusi nella lista di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’art. 168-bis del t.u.i.r. (c.d. “white list”). Per una dettagliata analisi dei presupposti oggettivi e soggettivi del regime di esenzione cfr. G. Corasaniti, Diritto tributario delle attività finanziarie, cit., 349 ss.


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bia inteso approntare un sistema autonomo di tassazione dei redditi di capitale caratterizzato da regole altrettanto autonome e, in buona parte, derogatorie rispetto al regime ordinario. Ed in questo sistema autonomo sembra ragionevole ritenere che possano trovare cittadinanza anche regole di localizzazione del reddito non sempre allineate con quelle generalmente previste dall’art. 23 del t.u.i.r. per il regime ordinario. Ciò proprio perché questo sistema alternativo, la cui applicazione insorge al semplice verificarsi del presupposto d’imposta, è connotato da regole autonome non solo in punto di rilevazione del reddito e di determinazione dell’imposta, ma anche di perimetrazione dei confini di territorialità. Quest’ultimo requisito non è invero esplicitato dal testo legislativo, ma deve ritenersi implicito quante volte (come vedremo tra breve) il sistema delle ritenute alla fonte a titolo d’imposta s’impone nell’ordinamento patentemente in senso derogatorio rispetto agli ordinari canoni di territorialità consacrati nel citato art. 23. La conclusione alla quale si è appena pervenuti non cambia sia che si assuma a base del regime ordinario di imposizione dei soggetti non residenti privi di stabile organizzazione in Italia il c.d. “trattamento isolato limitato” (come a noi sembra preferibile) ovvero il “trattamento isolato” tout court (come preferiscono altri autori). In entrambi i casi, infatti, il risultato al quale si previene in punto di attrazione ad imposizione in Italia della materia imponibile del soggetto estero resta, in alcuni casi, derogato dal sistema di ritenute d’imposta predisposto nei confronti dei non residenti. E così, adottando la prospettiva del trattamento isolato limitato, tutti gli interessi percepiti da un istituto di credito estero (privo di stabile organizzazione in Italia) per qualunque forma di finanziamento effettuata verso un soggetto residente non dovrebbero scontare alcuna forma di imposizione secondo il regime ordinario, tali utilità ricadendo nell’attività d’impresa professionalmente e continuativamente esercitata all’estero dal mutuante; tuttavia, il sistema delle ritenute d’imposta prevede, al contrario, che le remunerazioni di tali finanziamenti siano sottoposte a tassazione ad eccezione dei prestiti interbancari e dei finanziamenti a medio e lungo termine erogati in favore di imprese residenti (47). Onde, in questa prospettiva, il sistema delle ritenute amplia il

(47) Più precisamente, la ritenuta sembra operare, ai sensi del comma quinto dell’art. 26 del d.P.R. n. 600/1973, in tutti i casi in cui la banca estera effettui un finanziamento ad un’impresa (o ad un ente impresa) residente non avente le caratteristiche del finanziamento a medio e lungo termine. La medesima ritenuta sembra doversi operare per i finanziamenti, di qualunque genere, erogati nei confronti degli altri soggetti considerati sostituti d’imposta ex


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perimetro di tassazione dei redditi di capitale percepiti da un soggetto non residente rispetto al regime ordinario. Nella diversa prospettiva del trattamento isolato tout court, tutti gli interessi percepiti dal suddetto istituto di credito dovrebbero essere sottoposti a tassazione, ma, come abbiamo visto, il sistema delle ritenute d’imposta prevede fattispecie di esclusione da tassazione. Quindi, in questa diversa prospettiva, il sistema delle ritenute riduce il perimetro di tassazione dei non residenti rispetto al regime ordinario. 11. Regime ordinario e regime sostitutivo quali modalità alternative di definizione del perimetro di tassazione dei soggetti non residenti: le soluzioni ipotizzate nel breve termine per la tassazione della digital economy ed i problemi che pone la previsione di una ritenuta alla fonte sui corrispettivi. – Questa considerazione induce a ritenere che, in effetti, il legislatore tributario possa muoversi nei confronti dei soggetti non residenti con due distinti strumenti di carattere impositivo. Proprio queste tematiche sono in questi anni allo studio delle istituzioni europee nel tentativo di predisporre regole in grado di attrarre a tassazione nei Paesi UE le imprese che si muovono nel settore della digital economy. Il problema, come noto, è quello di cercare nuove strategie di politica fiscale volte ad assicurare la giusta tassazione nello Stato in cui la ricchezza è generata ad opera delle imprese che operano nel mercato digitale al fine di evitare che sistemi di negoziazione via web producano l’effetto di allocare il reddito in Stati diversi rispetto a quelli dove si trova la fonte del reddito medesimo (48). In questa prospettiva, una delle proposte sul tavolo è quella di

art. 23 del medesimo decreto: enti non commerciali residenti, società di persone commerciali, associazioni ed altri enti di cui all’art. 5 del t.u.i.r., esercenti arti e professioni. Per i finanziamenti effettuati nei confronti di soggetti privati (diversi da quelli prima menzionati), invece, non è ovviamente prevista alcuna forma di ritenuta, poiché il soggetto finanziato non è considerato sostituto d’imposta, cosicché in relazione a questa tipologia di finanziamenti non può che operare il regime ordinario; con la conseguenza che, seguendo l’impostazione del principio isolato limitato, queste utilità non sono imponibili in Italia (ove il finanziamento rappresenti l’attività professionalmente e continuativamente esercitata dall’impresa estera) mentre, seguendo l’impostazione del principio del trattamento isolato tout court, le medesime utilità sono considerate reddito di capitale. (48) Si veda, al proposito, la Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio del 21 settembre 2017 (disponibile sul sito www.ec.europa.eu) ove la Commissione UE rileva come “Le norme fiscali attuali non sono più adeguate al contesto moderno in cui le imprese dipendono in larga misura da beni immateriali il cui valore è difficile da quantificare,


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disciplinare a livello legislativo il concetto di “stabile organizzazione virtuale”, attraverso il quale attrarre nell’alveo della territorialità dello Stato ove la ricchezza è generata la relativa imposizione (49). Senonché, il mercato della digital economy è assai vario ed il problema non è limitato esclusivamente alle transazioni che avvengono via web. Uno dei principali problemi che si pongono nel sistema digitale, infatti, è quello collegato ai big data e, più precisamente, alla raccolta di informazioni sugli utenti che avviene da parte di imprese che gestiscono piattaforme o reti sociali nel corso della navigazione degli stessi. Ora, non v’è dubbio che tali dati rappresentino un bene economicamente rilevante a motivo sia della loro utilizzabilità in seno all’attività dell’impresa, sia della loro cedibilità sul mercato e che tale raccolta possa configurarsi alla stregua di un’attività redditualmente rilevante nel territorio dello Stato nel quale risiedono i soggetti nei confronti dei quali essa avviene (50); di qui la possibilità (di recente proposta dall’Estonia) di assumere come “stabile

dai dati e dall’automazione, che facilitano il commercio online transfrontaliero senza che vi sia una presenza fisica (…). Di conseguenza alcune imprese operano in determinati paesi in cui offrono servizi ai consumatori e concludono contratti con questi paesi, sfruttando pienamente le infrastrutture e le istituzioni dello Stato di diritto disponibili, senza essere considerati come presenti ai fini fiscali”. “Di conseguenza, manca ancora una soluzione adeguata al problema crescente di garantire una tassazione equa dell’economia digitale, soprattutto a causa della mancanza di un consenso internazionale e della natura pluridimensionale di questa sfida”. (49) Par un’analisi critica di questa opzione vedasi G. Fransoni, Prime considerazione sulla webtax ovvero l’iniziativa congiunta di Francia, Germania, Italia e Spagna di tassare le società attive nel settore della digital economy, in Riv. dir. trib., supplemento online del 19 settembre 2017; Id., La proposta estone di una webtax basata sul numero dei clienti: stabile organizzazione virtuale o reale?, ivi, 21 settembre 2017. Nel primo degli articoli menzionati, l’Autore rileva come la semplice modifica del concetto di stabile organizzazione non possa ritenersi sufficiente a fronteggiare l’articolato problema, occorrendo piuttosto un profondo ripensamento del sistema. Infatti, se resta ferma l’attuale regola in base alla quale lo Stato di residenza dell’impresa ha “competenza fiscale generale”, mentre nello Stato della fonte sono allocabili i soli redditi che hanno ivi la loro fonte ma “solo in proporzione alle funzioni e ai rischi imputabili a quella fonte”, allora intervenendo sul concetto di stabile organizzazione per di attrarre a tassazione allo Stato della fonte redditi sulla base di una presenza più “debole”, si produrrà solo l’effetto di “una altrettanto debole allocazione dei redditi”. La necessità di una riforma radicale del quadro fiscale internazionale è avvertita anche dalla Commissione Europea nella predetta Comunicazione del 21 settembre 2017 (cfr. pag. 7). (50) Se non, addirittura, configurarsi alla stregua di uno scambio (con il servizio reso agli utenti) e quindi caratterizzarsi in senso oneroso, con tutte le conseguenze del caso, anche ai fini della rilevanza i.v.a. di tali operazioni (cfr. G. Fransoni, op. ult. cit., 2).


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organizzazione virtuale” l’esistenza e il numero dei cittadini di ciascuno Stato che scambiano i loro dati con i cc.dd. Over The Top (51). Come abbiamo rilevato sopra, occorre però considerare che una riforma limitata alla modifica del concetto di stabile organizzazione non appare di per sé sufficiente a coprire tutti i fenomeni connessi al sempre maggiore avvento delle varie forme di economia digitale, ed è questa la ragione per la quale la Commissione europea ha ravvisato in una profonda riforma del quadro fiscale internazionale l’unica strada attraverso la quale garantire “la compatibilità e la coerenza delle regole fiscali a livello mondiale e una relativa stabilità e sicurezza per le imprese” (52). Per giungere a un risultato sistematico, occorre però tempo, cosicché la Commissione ha altresì individuato alcune misure che, parallelamente al lavoro di riforma strutturale, potrebbero essere prese in considerazione nel breve termine per proteggere la fiscalità degli Stati membri. Tra queste misure è presente anche la previsione di una “ritenuta alla fonte sulle transazioni digitali”, cioè di una ritenuta “liberatoria su base lorda su determinati pagamenti a favore di fornitori non residenti di beni e servizi ordinati online” (53). In linea generale e in base a quanto detto in precedenza, l’intervento sul sistema delle ritenute d’imposta è certamente quello più semplice poiché produce

(51) Per un’analisi più dettagliata di questa proposta, si rinvia a G. Fransoni, op. ult. cit., 2 ss. (52) Cfr. Comunicazione del 21 settembre 2017, 9, ove la Commissione individua quali istituti sui quali occorre intervenire: a) il concetto di stabile organizzazione, prevedendo indicatori alternativi della presenza economica significativa per stabilire e proteggere i diritti di imposizione in relazione ai nuovi modelli d’impresa digitali; b) le regole relative ai prezzi di trasferimento, prevedendo metodi alternativi per imputare i profitti che captino meglio la creazione di valore nei nuovi modelli d’impresa fondati, come nel caso dell’economia digitale, su attivi immateriali; c) a livello UE, la predisposizione di una base imponibile comune per l’imposta sulle società (CCCTB) che, in uno con le linee precedenti, fornisca un quadro chiaro per la tassazione dei grandi gruppi multinazionali mediante la tassazione unitaria basata su attività, lavoro e fatturato, rendendo di fatto neutrale l’allocazione del reddito tra gli Stati membri. (53) Le altre soluzioni a breve termine prospettate dalla Commissione nella predetta Comunicazione del 21 settembre 2017 sono: a) un’imposta di compensazione sul fatturato delle aziende digitali, cioè parametrata sull’insieme delle entrate non tassate o tassate in maniera insufficiente, generate da tutte le attività commerciali basate su internet, ivi compreso BTB e BTC, strutturabile come sovrimposta sul reddito o come imposta distinta; b) un prelievo sulle entrate generate dalla fornitura di servizi digitali o da attività pubblicitarie, cioè un’imposta distinta applicabile a tutte le transazioni concluse a distanza con clienti di un Paese in cui un’entità non residente ha una presenza economica significativa.


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l’effetto di provocare modificazioni “chirurgiche” rispetto all’assetto ordinario, semplicemente prevedendo l’introduzione di ritenute su determinate poste che, nel regime ordinario, risulterebbero redditualmente irrilevanti per difetto di territorialità; con lo stesso sistema, del resto, è possibile anche restringere il perimetro di tassazione ordinariamente previsto attraverso, da un lato, la previsione generale di una ritenuta alla fonte a titolo d’imposta su determinate utilità già ordinariamente considerate redditualmente rilevanti e, dall’altro, l’introduzione di fattispecie espresse di esenzione dalla ritenuta medesima. Si tratta, evidentemente, di un sistema molto duttile e snello che, superando anche le incertezze collegate all’applicazione dei principi del trattamento isolato tout court o del trattamento isolato limitato, in ragione della sua sostanziale alternatività rispetto al sistema ordinario, può certamente essere utilizzato anche nel campo della digital economy anche solo per calmierare nel breve termine gli effetti distorsivi derivanti dall’applicazione delle attuali regole di fiscalità ordinaria nei confronti delle imprese ad alto grado di digitalizzazione che risultano insufficienti e, per certi versi, anacronistiche. Naturalmente, ogni modifica dell’imposizione sui soggetti non residenti (sia che riguardi il sistema ordinario sia che concerna le ritenute) non potrà non tenere conto dei principi adottati a livello convenzionale, essendo quindi necessario coerenziare le novelle scelte di politica fiscale interna con le regole previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. Ed è sotto questo profilo che sembrano emergere le maggiori riserve rispetto alla soluzione prospettata dalla Commissione quale intervento nel breve termine sulla digital economy. In effetti l’introduzione di una ritenuta da parte dello Stato della fonte su determinati pagamenti effettuati in favore di fornitori di servizi non residenti si traduce, in definitiva, in una forma di trattamento isolato del reddito d’impresa confliggente con il principio espresso nell’art. 7 del modello di convenzione OCSE in base al quale il risultato dell’attività è tassato solo nello stato di residenza dell’impresa, salva l’applicazione del trattamento isolato previsto da altre norme del modello (si tratta, come abbiamo visto in precedenza dei dividendi, degli interessi e delle royalties). Cosicché, in assenza di modifiche a livello convenzionale, l’introduzione di una simile ritenuta sembra destinata ad essere del tutto inapplicata quante volte l’impresa erogante i servizi di digital economy risieda in un Paese con il quale l’Italia abbia stipulato una convenzione contro le doppie imposizioni. Del resto, la previsione di una ritenuta quale quella ipotizzata dalla Commissione europea realizza, in definitiva, una forma di trattamento isolato sui redditi d’impresa prodotti da imprese non residenti operanti nel settore della


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digital economy, in quanto attratti a tassazione nel Paese della fonte anche sulla base di un’operazione di selezione rispetto ad altre attività eventualmente esercitate dal soggetto non residente. Senonché, come abbiamo visto in precedenza, il principio del trattamento isolato, pur potendo dare luogo a fenomeni di irrazionale disparità di trattamento tra attività, possiede comunque una sua intrinseca razionalità (ed è stato sempre applicato) solo limitatamente a quelle attività che, ove non realizzate in seno ad un contesto imprenditoriale, sarebbero comunque rilevanti ai fini di altre categorie reddituali poiché, in applicazione di tale principio, dette attività vengono considerate atomisticamente ai fini reddituali, a prescindere dal contesto nel quale vengono realizzate. Senonché, il caso preso in considerazione dalla Commissione non appartiene a questa tipologia di attività poiché la ritenuta opererebbe con riferimento a modificazioni patrimoniali espressive solo di attività d’impresa le quali, se realizzate in altro contesto, non sarebbero redditualmente rilevanti secondo le altre categorie reddituali. La qual circostanza costituisce, invero, un elemento di dubbia razionalità del complessivo sistema impositivo che verrebbe così a delinearsi, prefigurando in tal modo la concreta eventualità di contestazioni e lunghi contenziosi ad opera di quelle imprese che da tale ritenuta verrebbero colpite.

Francesco Padovani


Prime osservazioni in merito all’abrogata imposta sulle transazioni digitali e all’imposta sui servizi digitali introdotta dalla L. 30 dicembre 2018, n. 145 sommario:

1. Introduzione. – 2. La struttura dell’imposta sulle transazioni digitali e dell’imposta sui servizi digitali. – 2.1. I presupposti oggettivo e territoriale. – 2.2. Il presupposto soggettivo. – 2.3. Base imponibile e aliquota impositiva. – 3. Le caratteristiche dell’imposta sui servizi digitali. – 3.1. Classificazioni e natura. – 3.2. Compatibilità con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. – 3.3. Il ruolo svolto dall’imposta sui servizi digitali all’interno del sistema tributario. – 4. La riconoscibilità dell’imposta sui servizi digitali nei trattati bilaterali contro la doppia imposizione sul reddito e sul patrimonio. La prima parte dell’articolo in questione effettua un confronto tra la struttura dell’abrogata imposta sulle transazioni digitali e quella dell’imposta sui servizi digitali recentemente introdotta. La seconda parte dell’articolo mira, invece, a descrivere la natura dell’imposta sui servizi digitale, nonché a verificare il suo riconoscimento nei trattati bilaterali contro le doppie imposizioni. The first part of this article makes a comparaison between the structure of the repealed Digital Transaction Tax and t<he Digital Service Tax recently enforced. The second part of the article aims, on the other hand, to describe the nature of the Digital Service Tax and to verify its recognition for Double tax Treaties purposes.

1. Introduzione. – Gli artt. da 1 a 6 del DDL n. 2526 del 2016, comunicato alla Presidenza del Senato il 14 settembre 2016, contenevano “Misure in materia fiscale per la concorrenza nell’economia digitale” (1).

(1)

Limitandoci a quanto di maggiore interesse ai fini del presente lavoro, si nota


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Dalla Relazione svolta dal Sen. Mucchetti si evince come tali misure fossero volte a contrastare le pratiche di ottimizzazione fiscale, poste in essere da soggetti multinazionali c.d. Over the Top (OTT), operanti, in specie, nel settore dei servizi informatici e digitali. Siffatte pratiche consistono essenzialmente nella localizzazione della residenza fiscale delle OTT in Paesi a bassa fiscalità di impresa, il che, oltre a provocare evidenti contrazioni del gettito fiscale dei Paesi in cui tali soggetti producono il loro reddito, crea situazioni distorsive della concorrenza: (i) tra le OTT e le imprese, di minori dimensioni, operanti nel medesimo settore dei servizi informatici e digitali (ii) tra le OTT e le imprese operanti in settori economici diversi da quello dei servizi informatici e digitali. Nella stessa Relazione è poi affermato che i fenomeni di localizzazione della residenza fiscale delle OTT in Paesi con fiscalità di vantaggio, sebbene “lesivi dell’interesse nazionale della maggioranza degli Stati nei quali i redditi vanno a formarsi”, non sono necessariamente ascrivibili a comportamenti elusivi o evasivi dei contribuenti interessati, bensì rispondono “ad una (…) evoluzione della modalità di realizzazione di redditi in contesti internazionali dove le norme risultano oramai obsolete e, dunque consentono (…) arbitraggi fiscali” (2).

quanto segue. L’art. 2 del DDL n. 2526 del 2016, ad iniziativa del Sen. Mucchetti (di seguito “DDL Mucchetti”), prevedeva una presunzione di esistenza di “stabile organizzazione” nel territorio dello Stato relativamente a soggetti non residenti, svolgenti attività digitali pienamente dematerializzate da individuarsi mediante apposito Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, ove i medesimi: (a) manifestassero la loro “presenza sul circuito digitale ponendo in essere un numero di transazioni superiore, in un singolo semestre, a cinquecento unità” (b) percepissero “nel medesimo periodo un ammontare complessivo non inferiore a un milione di euro”. L’art. 6, comma 1, del DDL Mucchetti prevedeva che, una volta accertata l’esistenza della predetta “stabile organizzazione”, l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto informare, tramite un intermediario finanziario all’uopo incaricato, il soggetto non residente, invitando il medesimo a procedere, entro trenta giorni, alla regolarizzazione della branch, anche avvalendosi delle procedure di cui all’art. 11, comma 2, della L. 27 luglio 2000, n. 212 (recante la disciplina del c.d. interpello disapplicativo) e dell’art. 31-ter del DPR 29 settembre 1973, n. 600 (recante la disciplina attinente gli “Accordi preventivi per le imprese con attività multinazionale). Il successivo comma 2 dell’articolo 6 disponeva poi che, in mancanza di regolarizzazione, ovvero in mancanza della richiesta di avvalersi delle summenzionate procedure, l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto comunicare agli intermediari finanziari l’obbligo di effettuare, in quanto soggetti incaricati di eseguire pagamenti nei confronti del soggetto non residente interessato, la ritenuta a titolo di imposta del 26% prevista dall’art. 25-bis, comma 9, del DPR n. 600/1973 appositamente introdotto dall’art. 5 del DDL Mucchetti. (2) Anche in sede UE è stata riconosciuta la difficoltà delle vigenti normative in


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Le “norme obsolete” cui fa menzione la Relazione sono essenzialmente quelle, di fonte convenzionale e di fonte domestica, contenenti la nozione di “stabile organizzazione” ai fini dell’imposizione sul reddito, le quali, seppure tendenzialmente idonee a garantire al Paese della “fonte” reddituale potere impositivo sui redditi derivanti da attività economiche esercitate mediante una presenza continuativa sul territorio di tipo “materiale” (ossia quelle attività caratterizzate dalla presenza sul territorio di un’organizzazione “fissa” di mezzi e/o di persone), non sono, in tutto o in parte, in grado di assicurare al Paese della “fonte” potere impositivo su quei redditi derivanti dall’esercizio di attività economiche relative ai servizi informatici e digitali, le quali, proprio a motivo del loro svolgimento senza la necessaria presenza di un’”organizzazione” stabile del soggetto estero sul territorio dello Stato della “fonte” reddituale, non comportano il sorgere del presupposto territoriale ai fini dell’imposizione sul reddito. In quest’ottica, le norme fiscali volte a colpire la ricchezza realizzata dalle OTT nei Paesi della “fonte” sembrerebbero dunque svolgere, in assenza di una nozione di “stabile organizzazione” maggiormente adeguata alle caratteristiche dell’economia digitale, una funzione di tipo strutturale tesa ad un parziale riequilibrio nell’allocazione del potere impositivo tra Stato di residenza fiscale delle OTT e Stati esteri in cui esse realizzano i propri redditi senza la presenza, in tali Stati, di una “stabile organizzazione”. Ciò posto, le notazioni contenute nei capoversi precedenti si sono rese opportune, ai fini che qui occupano, in quanto il DDL Mucchetti, sebbene mai divenuto legge, ha tuttavia costituito la base per l’elaborazione dell’emendamento 88.0.1 (testo 3) con il quale è stata disciplinata, nell’ambito dell’art. 88 bis del DDL Bilancio 2018 (si veda A.S. 2960), l’imposta sulle transazioni digitali (di seguito “ITD”) (3). La disciplina del tributo in questione, modificata dall’art. 1, commi 586 e ss., della successiva versione del DDL Bilancio 2018

materia di imposizione sul reddito ad intercettare i rapidi mutamenti del business imposti dall’economia digitale (si veda l’Explanatory Memorandum contenuto nella proposta di Direttiva del Consiglio UE del 21 marzo 2018, COM (2018) 148 final, 1) (di seguito “Proposta di Direttiva”). Per un commento alla Proposta di Direttiva, nell’ambito di un più ampio lavoro concernente il fenomeno della globalizzazione e la tassazione delle imprese multinazionali, si veda, da ultimo, L. Carpentieri, La crisi del binomio diritto-territorio e la tassazione delle imprese multinazionali, Riv. Dir. trib, 2018, 351 ss. (3) Al riguardo si veda pagina 263, nota 71, della Relazione all’A.S. 2960 DDL Bilancio 2018 del novembre 2017.


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(si veda A.S. 2960-B), ha trovato la propria versione definitiva nei commi da 1011 a 1017 della L. 27 dicembre 2017, n. 205. L’ITD è stata, a sua volta, abrogata dall’art. 1, comma 50, della L. 30 dicembre 2018, n. 145. L’art. 1, commi da 35 a 52, del provvedimento legislativo da ultimo nominato ha introdotto nel nostro ordinamento l’“imposta sui servizi digitali” (di seguito “ISD”) (4). L’abrogazione dell’ITD e la conseguente introduzione dell’ISD si sono rese necessarie al fine di adeguare il più possibile la struttura del tributo sulle operazioni digitali a quella della Digital Service Tax prevista dalla predetta Proposta di Direttiva. Nei prossimi paragrafi sarà effettuata una comparazione tra la struttura dell’abrogata ITD e quella propria dell’ISD. Prima di fare ciò si vuole comunque anticipare come il ruolo assegnabile ai due tributi da ultimo nominati si discosti in parte dalla sunnominata ragione ispiratrice del DDL Mucchetti e ciò in quanto l’inclusione nell’ambito soggettivo di applicazione dei due tributi medesimi, come vedremo, anche dei soggetti residenti nel territorio dello Stato elimina la possibilità di attribuire agli stessi esclusivo ruolo di correttivo volto al parziale riequilibrio nell’allocazione del potere impositivo tra Stato di residenza fiscale delle OTT e Stati esteri in cui esse realizzano i propri redditi. 2. La struttura dell’ITD e dell’ISD. 2.1. I presupposti oggettivo e territoriale. – Il presupposto oggettivo dell’ITD era complessivamente ricavabile dall’art. 1, commi 1011, 1012 e 1014, della L. n. 205/2017. Il comma 1011 disponeva quanto segue: “È istituita l’imposta sulle transazioni digitali, relative a prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici rese nei confronti di soggetti residenti nel territorio dello Stato indicati nell’articolo 23, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, diversi dai soggetti che hanno aderito al regime di cui all’articolo 1, commi da 54 a 89, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (5)

(4) L’art. 1, comma 47, della L. n. 145/2018 prevede che le disposizioni relative all’imposta sui servizi digitali si applichino a decorrere dal sessantesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Decreto attuativo di cui al comma 45 della legge da ultimo nominata. (5) Trattasi del regime forfetario stabilito, ai fini Iva, delle imposte sui redditi e relative addizionali e Irap, a favore dei soggetti esercenti attività di impresa, arti o professioni.


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e dai soggetti di cui all’articolo 27 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 (6) (…), nonché delle stabili organizzazioni di soggetti non residenti situate nel territorio medesimo”. Nel successivo comma 1012 il legislatore, seppur demandando ad un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da emanarsi entro il 30 aprile 2018, la specifica individuazione delle predette prestazioni di servizi (di seguito il “Decreto attuativo”) (7), aveva predeterminato la natura dei servizi in questione stabilendo che “Si considerano servizi prestati tramite mezzi elettronici quelli forniti attraverso internet o una rete elettronica e la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata, corredata di un intervento umano minimo e impossibile da garantire in assenza della tecnologia dell’informazione” (8) (comma 1012). Infine, il comma 1014, primo periodo, prevedeva che “L’imposta è prelevata, all’atto del pagamento del corrispettivo, dai soggetti committenti dei servizi di cui al comma 1012, con obbligo di rivalsa sui soggetti prestatori (…)”. Il secondo periodo del medesimo comma prevede che “I medesimi committenti versano l’imposta entro il giorno 16 del mese successivo a quello del pagamento del corrispettivo”. Dalla lettura delle norme testé citate emergeva una prima rilevante questione interpretativa attinente il momento in cui il presupposto oggettivo di applicazione del tributo, cui ricollegare la nascita dell’obbligazione tributaria a carico del soggetto passivo, fosse da ritenersi integrato. Più in particolare, non era agevole comprendere se tale momento coincidesse con l’effettuazione della prestazione di servizi digitali, ovvero con

(6) Trattasi del regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e per i lavoratori in mobilità. (7) A mente dell’art. 1, comma 1015, della L. n. 205/2017 con il Decreto attuativo avrebbero dovuto altresì essere stabilite “le modalità applicative dell’imposta di cui al comma 1011 (l’ITD n.d.a.), ivi compresi gli obblighi dichiarativi e di versamento, nonché eventuali casi di esonero”. (8) Vale la pena notare come una simile tecnica legislativa, volta a rinviare ad un provvedimento di rango secondario l’integrazione della definizione del presupposto oggettivo del tributo, sia stata adottata, dal nostro legislatore, anche in altre occasioni. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, all’art. 1, comma 495, della L. 24 dicembre 2012, n. 228, laddove, nel definire il presupposto oggettivo dell’imposta sulle negoziazioni ad alta frequenza relativa a strumenti finanziari, è stata predeterminata la natura dell’”attività di negoziazione ad alta frequenza”, mentre è stata demandata al legislatore di rango secondario la specificazione delle predette negoziazioni (si veda in proposito il Titolo IV del D.M. 21 febbraio 2013).


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l’incasso del corrispettivo, da parte del fornitore del servizio, relativo a dette prestazioni. L’esame delle norme sopra riportate forniva, in assenza del decreto ministeriale previsto dal predetto comma 1015, elementi a supporto di entrambe le tesi. A favore della prima di esse deponeva il comma 1013, ultimo periodo, secondo il quale l’imposta si applicava nei confronti del soggetto prestatore del servizio, il quale, diceva la norma, “effettua”, nel corso dell’anno solare, un certo numero di transazioni. In tale eventualità il momento di effettuazione della prestazione di servizi avrebbe comportato sia l’integrazione del presupposto oggettivo del tributo sia la nascita dell’obbligazione tributaria a carico del soggetto prestatore e quella prevista dal primo periodo del comma 1014 avrebbe costituito solo una mera modalità di effettuazione del prelievo. A sostegno della seconda tesi militava, invece, il disposto del successivo primo periodo del comma 1014, il quale pareva subordinare l’obbligo di pagamento nei confronti dell’Erario all’incasso del corrispettivo da parte del prestatore del servizio. Ciò premesso, pare possibile sostenere che la soluzione della questione interpretativa di cui si discorre passasse attraverso la lettura della medesima alla luce di alcuni spunti offerti dalla teoria generale. Un primo spunto su cui riflettere era quello ricavabile dalla differenza tra “presupposto oggettivo del tributo” e “fattispecie” da cui nasce l’obbligazione, nei confronti del soggetto attivo, di pagamento del tributo medesimo (9). È appena il caso di notare che, nel caso di specie, il momento di effettuazione della prestazione di servizi, ad opera del fornitore del servizio digitale, avrebbe integrato il presupposto oggettivo dell’ITD, mentre il momento di incasso del corrispettivo di detta prestazione avrebbe costituito la fattispecie cui ricollegare la nascita dell’obbligazione di pagamento della predetta imposta. Un secondo interessante spunto era fornito dalla categoria delle “fattispecie a formazione progressiva” e, in particolare, da quella della “fattispecie a completamento differito”, nella quale “la completa operatività della fattispecie (cioè la sua idoneità a produrre l’effetto) è rinviata al verificarsi di un evento futuro” (10). In questa ottica era ragionevole credere come, nel caso

(9) In questo senso si veda G. Fransoni, Tipologia e struttura della norma tributaria, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, IV ed., Torino, 2012, passim., 272-277. (10) Così P. Russo - G. Fransoni - L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario,


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di specie, il “completamento” della fattispecie si sarebbe prodotto solo al momento dell’incasso del corrispettivo della prestazione ad opera del fornitore del servizio digitale (11). Leggendo la questione interpretativa de qua alla luce dei summenzionati spunti teoretici pare, dunque, di poter affermare che se l’effettuazione della prestazione di servizi digitali avrebbe integrato il presupposto oggettivo dell’ITD, solo il successivo incasso, da parte del fornitore di detti servizi, del relativo corrispettivo avrebbe comportato il sorgere dell’obbligazione tributaria nei confronti dell’Erario. Venendo, invece, all’ISD, si nota come, al fine di individuare il presupposto oggettivo del tributo in questione, sia necessario prendere in esame l’art. 1, commi 41, 37 e 39 della L. n. 145/2018 (12). Dalla lettura delle norme testé richiamate non si evince, in maniera chiara, se il presupposto oggettivo di applicazione del tributo, cui ricollegare la nascita dell’obbligazione tributaria, sia da ritenersi integrato al momento del conseguimento del ricavo derivante dalla fornitura dei servizi digitali, oppure al momento dell’incasso, da parte del soggetto prestatore, del corrispettivo pagato dal committente i servizi medesimi. A favore della prima tesi, da ritenersi preferibile giacché più aderente al testo normativo, depone il contenuto del comma 41, secondo il quale l’ISD si applica all’ammontare dei ricavi “tassabili”, “realizzati” dal soggetto passivo

Seconda edizione rivista ed ampliata, Milano, 2016, 83. (11) In dottrina è stato portato ad esempio, quale “presupposto complesso” a “formazione progressiva”, il caso, parzialmente diverso da quello dell’ITD, delle accise. Con riguardo all’ambito oggettivo di applicazione dei tributi in parola l’art. 2, commi 1 e 2, del D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, identifica chiaramente due momenti diversi necessariamente combinati tra loro, ossia la fabbricazione o importazione dei prodotti (cui è collegato il sorgere del presupposto) e la loro successiva immissione in consumo (cui è collegata l’esigibilità dell’imposta) (cfr. G. Falsitta - R. Schiavolin, Le accise (imposte di fabbricazione e di consumo), in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2014, 982). (12) L’art. 1, comma 41, della L. n. 145/2018 prevede che “L’imposta dovuta si ottiene applicando l’aliquota del 3 per cento all’ammontare dei ricavi tassabili realizzati dal soggetto passivo in ciascun trimestre”, il comma 37 prevede che “L’imposta si applica ai ricavi derivanti dalla fornitura dei seguenti servizi: a) veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia; b) messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi; c) trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale”, e, infine, il comma 39 dispone che “I ricavi tassabili sono assunti al lordo dei costi e al netto dell’imposta sul valore aggiunto e di altre imposte indirette”.


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in ciascun trimestre. Posto che i ricavi “tassabili” ai fini dell’ISD sono quelli derivanti dalla fornitura dei servizi indicati nel comma 37, si tratta stabilire cosa abbia voluto intendere il legislatore con la locuzione ricavi “realizzati”. A noi pare che il concetto di “realizzo” di un ricavo di impresa, derivante da una prestazione di servizi resa, possa ragionevolmente identificarsi con il momento in cui sorge il credito nei confronti del committente del servizio e, quindi, con il momento in cui detta prestazione è ultimata (13). È, infatti, in tale momento che, generalmente, il vantaggio economico spettante al soggetto prestatore deve considerarsi definitivamente acquisito alla sfera giuridica soggettiva di quest’ultimo. Tale interpretazione pare, inoltre, in linea con l’art. 6 della Proposta di Direttiva nel quale il legislatore europeo, nel menzionare i ricavi assoggettabili alla Digital Service Tax, utilizza una locuzione – rectius: revenues “obtained” – assimilabile più a quella di ricavi “conseguiti” che non a quella di corrispettivi “incassati” (14). A sostegno, invece, della seconda tesi milita il contenuto del comma 39, in base al quale il ricavo tassabile ai fini ISD deve considerarsi al lordo dei costi “e al netto dell’imposta sul valore aggiunto …”. Invero, la precisazione secondo cui i ricavi soggetti a ISD sono assunti al netto dell’Iva potrebbe essere indirettamente riconducibile alla volontà del legislatore di applicare il tributo in questione al corrispettivo – rectius: ricavo – risultante dalla fattura emessa, ai fini Iva, dal prestatore del servizio digitale al proprio committente. Se così fosse, atteso il disposto dell’art. 6, comma 3, del DPR 26 ottobre 1972, n. 633, in forza del quale le prestazioni di servizi si considerano generalmente effettuate al momento del pagamento del corrispettivo, e in conseguenza del quale la fattura è emessa solo in corrispondenza di detto momento, l’ISD sarebbe quindi applicata non prima del pagamento del corrispettivo della fornitura dei servizi digitali. Pare indubbio che siffatta interpretazione semplificherebbe gli adempimenti del soggetto prestatore dei servizi digitali, il quale, nella fattura emessa nei confronti del proprio committente, assolverebbe gli obblighi di legge pre-

(13) Indicazioni in tal senso provengono, sul piano sistematico, anche dalle regole di determinazione del reddito di impresa e, in particolare, dall’art. 109, comma 2, lett. b), primo periodo, del Tuir. (14) In tal senso depone il 35° Considerando della Proposta di Direttiva laddove è chiarito che “Taxable revenues should be recognised as obtained by a taxable person at the time when they become due, regardless of whether they have actually been paid by then”.


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visti sia dalla normativa Iva sia dalla normativa ISD. Al contrario, il soggetto prestatore potrebbe essere obbligato ad emettere, al momento di ultimazione della prestazione del servizio, un documento nel quale applicare l’ISD e successivamente ad emettere, al momento del pagamento del corrispettivo relativo al predetto servizio, la fattura ai fini Iva. In relazione al presupposto oggettivo dell’ISD vale, infine, la pena di sottolineare come il medesimo risulti integrato anche nel caso in cui la fornitura di servizi digitali sia resa nei confronti di soggetti privati. Per espressa previsione dell’art. 1, comma 38, della L. n. 145/2018 non sono, invece, tassabili i servizi digitali di cui al precedente comma 37 prestati, dal soggetto passivo ISD, nei confronti di soggetti i quali, ai sensi dell’art. 2359 del codice civile, si considerano controllati, controllanti, ovvero controllati dallo stesso soggetto controllante (15). Venendo ora al presupposto territoriale dell’ITD, si nota come il legislatore non avesse fissato, al riguardo, alcun tipo di criterio di collegamento prevedendo, infatti, all’art. 1, comma 1013, secondo periodo, della L. n. 205/2017 che l’imposta si applicasse “indipendentemente dal luogo di conclusione della transazione”. Rimaneva solo il dubbio, di scarso rilievo sul piano applicativo, di cosa avesse voluto intendere il legislatore con la locuzione “conclusione della transazione”. Non era chiaro, in altri termini, se con la stessa avesse voluto intendere il luogo di conclusione del contratto tra il prestatore del servizio digitale e il relativo committente, ovvero il luogo di ultimazione della prestazione di servizi digitali (16). Muovendo sul versante sistematico occorre osservare che quando il legislatore tributario, nell’art. 1, comma 491, della L. 24 dicembre 2012, n. 228, in materia di imposta sulle transazioni finanziarie, ha utilizzato la predetta locuzione, ha inteso riferirsi, come si evince dall’art. 5 del D.M. 21 febbraio 2013 (attuativo della disciplina in parola), al “luogo di conclusione del contratto”.

(15) È superfluo rammentare che l’esplicito richiamo operato dalla norma all’art. 2359 del codice civile fa sì che il concetto di “controllo” cui fare riferimento includa sia il controllo “di diritto” (art. 2359, comma 1, n. 1), sia il controllo “di fatto” (art. 2359, comma 2, n. 2) sia il controllo “contrattuale” (art. 2359, comma 1, n. 3). Quanto alle prime due forme di “controllo”, quest’ultimo deve poi intendersi sia di tipo “diretto” sia di tipo “indiretto” (art. 2359, comma 2). (16) In dottrina è stato sostenuto che la territorialità del tributo in questione dovesse essere stabilita in base al luogo di ubicazione dell’utente al momento della fruizione del servizio (cfr. A. Uricchio–W. Spinapolice, La corsa ad ostacoli della web taxation, in Rass. Trib., 2018, 472, nota 76).


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Una siffatta soluzione interpretativa non sembrava, tuttavia, attagliarsi perfettamente all’ITD e ciò in quanto, mentre nell’imposta sulle transazioni finanziarie, il cui presupposto applicativo è rappresentato dal trasferimento della proprietà di azioni e strumenti finanziari partecipativi, il perfezionamento dell’accordo tra i contraenti costituisce un aspetto rilevante nel meccanismo di applicazione del tributo, nell’ITD, il cui presupposto applicativo era costituito dall’effettuazione di una prestazione di servizi (digitali), l’eventuale stipula del contratto, tra il prestatore dei servizi digitali e il relativo committente, pareva assumere rilevanza minore rispetto alla materiale esecuzione della prestazione. A favore della tesi secondo cui il legislatore dell’ITD, con la locuzione “luogo di conclusione della transazione”, avesse inteso riferirsi alla prestazione di servizi digitali resa dal soggetto fornitore e non al contratto tra quest’ultimo e il proprio committente, pareva, inoltre, deporre la circostanza che, nella disciplina ITD, il termine “transazione” era sempre riferito all’operazione in sé e mai al contratto dal quale essa trae origine. Diversamente da quanto avvenuto in riferimento all’ITD, il comma 40 dell’art. 1 della L. n. 145/2018 ha ancorato il presupposto territoriale dell’ISD alla localizzazione nel territorio dello Stato, in un dato periodo di imposta coincidente con l’anno solare, dell’utente del servizio digitale tassabile (17).

(17) La norma citata nel testo prevede, in particolare, quanto segue: “Un ricavo si considera tassabile in un determinato periodo di imposta se l’utente di un servizio tassabile è localizzato nel territorio dello Stato in detto periodo. Un utente si considera localizzato nel territorio dello Stato se: a) nel caso di un servizio di cui al comma 37, lettera a), la pubblicità figura sul dispositivo dell’utente nel momento in cui il dispositivo è utilizzato nel territorio dello Stato in detto periodo di imposta per accedere a un’interfaccia digitale; b) nel caso di un servizio di cui al comma 37, lettera b), se: 1) il servizio comporta un’interfaccia digitale multilaterale che facilita le corrispondenti cessioni di beni o prestazioni di servizi direttamente tra gli utenti, l’utente utilizza un dispositivo nel territorio dello Stato in detto periodo d’imposta per accedere all’interfaccia digitale e conclude un’operazione corrispondente su tale interfaccia in detto periodo d’imposta; 2) il servizio comporta un’interfaccia digitale multilaterale di un tipo che non rientra tra quelli di cui al numero 1), l’utente dispone di un conto per la totalità o una parte di tale periodo di imposta che gli consente di accedere all’interfaccia digitale e tale conto è stato aperto utilizzando un dispositivo nel territorio dello Stato; c) nel caso di un servizio di cui al comma 37, lettera c), i dati generati dall’utente che ha utilizzato un dispositivo nel territorio dello Stato per accedere a un’interfaccia digitale, nel corso di tale periodo di imposta o di un periodo di imposta precedente, sono trasmessi in detto


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2.2. Il presupposto soggettivo. – Il soggetto passivo dell’ITD era individuato dall’art. 1, comma 1013, ultimo periodo, della L. n. 205/2017, il quale disponeva che “L’imposta si applica nei confronti del soggetto prestatore, residente o non residente, che effettua nel corso di un anno solare un numero complessivo di transazioni di cui al comma 1011 superiore a 3.000 unità”. Il successivo comma 1014 prevedeva, tuttavia, come anticipato, che “L’imposta è prelevata, all’atto del pagamento del corrispettivo, dai soggetti committenti dei servizi di cui al comma 1012, con obbligo di rivalsa sui soggetti prestatori, salvo il caso in cui i soggetti che effettuano la prestazione indichino nella fattura relativa alla prestazione, o in altro documento idoneo da inviare contestualmente alla fattura, eventualmente individuato con il provvedimento di cui al comma 1015, di non superare i limiti di transazioni indicati nel comma 1013. I medesimi committenti versano l’imposta entro il giorno 16 del mese successivo a quello del pagamento del corrispettivo”. Il contenuto del comma 1014, contemplando, in capo al soggetto committente, l’obbligo di rivalsa del tributo nei confronti del soggetto prestatore, non faceva altro che confermare la soggettività passiva ITD di quest’ultimo in quanto titolare della capacità contributiva soggetta a prelievo ex art. 53 Cost. È bene evidenziare come, nella disciplina ITD, la rivalsa operata dal soggetto committente rivestiva la funzione tributaria tipica dell’istituto de quo volta, in primo luogo, a trasferire definitivamente l’onere del tributo al soggetto titolare della capacità contributiva e, in secondo luogo, ad ampliare, in ossequio ad esigenze di semplificazione della riscossione e soprattutto di rafforzamento della garanzia di riscossione del tributo, la platea dei soggetti coinvolti nel prelievo (18). In questa prospettiva il soggetto committente pareva ragionevolmente assumere il ruolo di sostituto di imposta in linea con il principio racchiuso nell’art. 64, comma 1, del DPR 29 settembre 1973, n. 600 (19) e questo perché il comma 1014 della L. n. 205/2017, da un lato, attribuiva l’obbligazione di

periodo d’imposta. (18) Sulle funzioni svolte, in diritto tributario, dall’istituto della rivalsa si veda, inter alia, P. Puri, I soggetti, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, IV ed., cit., 444445. Rimarca il ruolo pubblicistico della rivalsa e la relativa qualificazione in termini di istituto di diritto tributario F. Randazzo, Le rivalse tributarie, Milano, 2012, 21 e 107. (19) La norma in parola dispone che “Chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, per fatti o situazioni a questi riferibili ed anche a titolo di acconto, deve esercitare la rivalsa se non è diversamente stabilito in modo espresso”.


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pagamento del tributo al committente medesimo “in luogo” del soggetto prestatore e, dall’altro, prevedeva la rivalsa obbligatoria, del primo nei confronti del secondo, tesa a far ricadere nei confronti di quest’ultimo, nella veste di soggetto titolare della capacità contributiva, l’onere del tributo (20). Appurato che il soggetto committente rivestiva la figura di sostituto di imposta, occorreva stabilire se quella in parola fosse una sostituzione “propria” a titolo di imposta, ovvero “impropria” a titolo di acconto (21). In conformità agli elementi distintivi della sostituzione “propria” il prelievo effettuato dal soggetto committente (sostituto) avrebbe dovuto esaurire l’attuazione del tributo con la conseguente liberazione del soggetto prestatore (sostituito) da qualunque rapporto con l’amministrazione finanziaria, ivi compreso l’obbligo di dichiarare a quest’ultima i corrispettivi percepiti a fronte delle prestazioni di servizi digitali effettuate. Solo nell’eventualità in cui il soggetto committente non operasse la ritenuta (22) il soggetto prestatore dovrebbe essere coinvolto nell’attuazione del prelievo, in qualità di coobbligato solidale, in ossequio a quanto previsto dall’art. 35 del DPR 29 settembre 1973, n. 602. Tuttavia, la lettura delle disposizioni contenute nella disciplina ITD sembrava allontanare quella ivi contemplata dalla figura della sostituzione “propria”. In primo luogo perché, mentre il sostituito, nel caso di sostituzione a titolo di imposta, non deve generalmente dichiarare all’amministrazione finanziaria, come anticipato, il presupposto realizzato, il comma 1015 della L. n. 205/2017 demandava al Decreto attuativo, la previsione, tra l’altro, di obblighi dichiarativi e di versamento del tributo. Era ragionevole credere che entrambi gli

(20) I tratti essenziali della figura del sostituto di imposta sono così definiti, in termini generali, da P. Puri, I soggetti, cit., 460. Sul punto si veda anche, nella manualistica tributaria, senza pretesa di esaustività, M. Beghin, Princìpi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, Seconda edizione, Torino, 2016, 37; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Quinta edizione, Padova, 2005, 245, ss.); A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 239, ss.; La Rosa, Principi di diritto tributario, Seconda edizione, Torino, 2006, 237, ss.; P. Russo - G. Fransoni - L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, Seconda edizione rivista ed ampliata, Milano, 2016, 101 ss.; F. Tesauro, Compendio di diritto tributario, Torino, 2004, 69 ss. (21) Hanno optato per la prima soluzione A. Uricchio - W. Spinapolice, La corsa ad ostacoli della web taxation, cit., 475. (22) Fa espresso riferimento, con riguardo al prelievo da effettuare ad opera del soggetto committente, al concetto di “ritenuta” la Nota di lettura relativa all’A.S. 2960-B DDL Bilancio 2018, Ed. provvisoria, del dicembre 2017, n. 198.


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obblighi testé menzionati potessero essere riferiti, ad opera del Decreto attuativo, al soggetto prestatore e ciò in quanto sia l’obbligo di dichiarare il presupposto del tributo sia il relativo versamento annuale non potevano che essere posti a carico del soggetto passivo del tributo medesimo. In secondo luogo perché non pareva configurarsi l’applicabilità, nel caso di specie, dell’art. 35 del DPR n. 602/1973 giacché, mentre la norma de qua opera solo con riferimento alla riscossione delle imposte sui redditi (23), il comma 1016 della L. n. 205/2017 prevedeva che ai fini della riscossione dell’ITD (nonché ai fini dell’accertamento, delle sanzioni e del contenzioso relativi al tributo medesimo) si applicassero, in quanto compatibili, le disposizioni previste in materia di Iva. Escludendo dalla fase di riscossione del tributo il soggetto prestatore (il sostituito), in qualità di coobbligato solidale, sarebbe stata tradita una delle rationes dell’istituto del sostituto di imposta volto, come si è visto, ad allargare, allo scopo di garantire il pagamento del tributo, la platea dei soggetti coinvolti nel prelievo. Le ragioni suesposte inducevano pertanto ad assimilare quella contemplata dall’art. 1, comma 1014, della L. n. 205/2017 ad una sostituzione “impropria” a titolo di acconto in forza della quale il soggetto prestatore sarebbe stato legittimato a detrarre dall’imposta dovuta in relazione ad un dato periodo di imposta le ritenute operate dal soggetto committente riferite al periodo di imposta stesso. In virtù di tale assimilazione il soggetto prestatore non sarebbe stato escluso dall’attuazione del prelievo dell’ITD, al contrario egli sarebbe stato partecipe in qualità di soggetto passivo del tributo, con il soggetto committente (in qualità di sostituto “improprio” di imposta) e con l’amministrazione finanziaria (in qualità di soggetto attivo del tributo), al rapporto tributario (24) (25).

(23) In tal senso dispone l’art. 19 del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46. (24) In questo senso si veda, con riguardo all’imposizione sul reddito, P. Puri, I soggetti, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, IV ed., cit., 463. (25) Le peculiari caratteristiche della sostituzione “impropria” hanno indotto autorevole dottrina a negare si tratti di vera e propria “sostituzione” e ciò in quanto l’attuazione del prelievo sarebbe riconducibile a fattispecie diverse comportanti per il sostituto e per il sostituito diversi obblighi nei confronti del fisco (cfr. A. fantozzi, La solidarietà nel diritto tributario, Torino, 1968, 163). Secondo altra, altrettanto autorevole, dottrina, secondo cui l’effettuazione della ritenuta di acconto non configurerebbe nemmeno una forma di sostituzione, il sostituto e il sostituito sono titolari di due distinte situazioni giuridiche soggettive passive: il sostituto è soggetto all’obbligo di ritenuta, mentre il sostituito è soggetto all’obbligazione tributaria (cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 249).


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Questa tesi trovava supporto nel richiamato art. 1, comma 1015, della L. n. 205/2017, il quale poneva, verosimilmente, in capo al soggetto prestatore gli obblighi dichiarativi e di versamento annuale del tributo. Seguendo tale impostazione il soggetto medesimo sarebbe stato tenuto, con riguardo ad ogni periodo di imposta tendenzialmente coincidente con l’anno solare (26), a dichiarare i corrispettivi percepiti relativi alle prestazioni di servizi digitali, l’imposta dovuta su tali corrispettivi e le ritenute effettuate dal soggetto committente; dalla differenza tra l’imposta liquidata in dichiarazione e le ritenute subite sarebbe poi scaturita un’imposta a debito da versare, ovvero un’eccedenza a credito. Assumendo dunque che l’art. 1, comma 1014, della L. n. 205/2017 contemplasse una fattispecie di sostituzione di tipo “improprio”, occorre comprendere quali fossero le conseguenze derivanti da un non corretto adempimento del soggetto committente, in qualità di sostituto di imposta, degli obblighi posti a suo carico. Anche in questo caso pare possano valere principi e regole dettati, con riferimento alla fattispecie della sostituzione di imposta, nel campo dell’imposizione sul reddito. Pertanto, ove il committente del servizio non avesse effettuato, in tutto o in parte, la ritenuta al momento del pagamento del corrispettivo della prestazione di servizi digitali e, conseguentemente, non avesse effettuato il versamento della ritenuta stessa, il soggetto prestatore sarebbe stato liberato da ogni obbligo nei confronti dell’amministrazione finanziaria indicando il suddetto corrispettivo nella dichiarazione ai fini ITD, liquidando la relativa imposta ed effettuando il relativo versamento (senza ovviamente detrarre dall’imposta dovuta la ritenuta in quanto non subita). In tale ipotesi – ferma restando l’applicazione, nei confronti del soggetto committente, di una probabile sanzione amministrativa per mancata esecuzione, in tutto o in parte, della ritenuta (27),

(26) Si rammenta, in questo senso, che l’art. 1, comma 1013, ultimo periodo, della L. n. 205/2017 prevedeva che “L’imposta si applica nei confronti del soggetto prestatore, residente o non residente, che effettua nel corso di un anno solare un numero complessivo di transazioni di cui al comma 1011 superiore a 3.000 unità” (sottolineatura nostra). (27) La norma di riferimento avrebbe potuto essere, anche in relazione all’ITD, l’art. 14 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, giacché il medesimo è collocato nel Titolo II del provvedimento da ultimo citato, rubricato “Sanzioni in materia di riscossione”, applicabile anche alle violazioni commesse in ambito Iva alla cui disciplina attuativa rinviava, come già evidenziato, l’art. 1, comma 1016, della L. n. 205/2017.


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nonché degli interessi moratori sull’ammontare della ritenuta non effettuata – ove l’amministrazione finanziaria avesse emesso, nei confronti del soggetto committente, un atto impositivo volto al recupero della ritenuta non effettuata e non versata si sarebbe potuta determinare una duplicazione di imposta (28). Ove, invece, il committente del servizio, pur operando correttamente la ritenuta al momento del pagamento del corrispettivo della prestazione di servizi digitali, non avesse effettuato il relativo versamento, egli sarebbe stato probabilmente soggetto all’azione dell’amministrazione finanziaria volta al recupero della ritenuta non versata, nonché all’irrogazione di sanzioni amministrative e di interessi, mentre il prestatore del servizio pareva legittimato a detrarre la ritenuta, ove debitamente documentata, dall’imposta liquidata in dichiarazione (29). A differenza di quanto previsto in relazione all’abrogata ITD, la disciplina ISD limita la soggettività passiva del tributo alle imprese di grandi dimensioni. L’art. 1, comma 36, della L. n. 145/2018, dispone, infatti, che: “Sono soggetti passivi dell’imposta sui servizi digitali i soggetti esercenti attività di impresa che, singolarmente o a livello di gruppo, nel corso di un anno solare, realizzano congiuntamente: a) un ammontare complessivo di ricavi ovunque

(28) In proposito si veda, in relazione alle imposte sul reddito, P. Puri, I soggetti, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, IV ed., cit., 463-464. L’Autore testé citato fa, tuttavia, menzione di alcuna giurisprudenza, la quale, nel caso in cui il sostituito ha indicato nella propria dichiarazione dei redditi il reddito percepito, ha escluso l’obbligo del sostituto di corrispondere le ritenute non effettuate e non versate, fermo restando l’irrogazione delle sanzioni amministrative (cfr. Comm. trib. centr. 27 ottobre 1983, n. 3328 e Comm. trib. centr. 17 gennaio 1990, n. 304). (29) La Suprema Corte ha, tuttavia, avuto modo di applicare, anche in caso di sostituzione a titolo di acconto nell’ambito dell’imposizione sul reddito, i principi racchiusi nell’art. 35 del DPR n. 602/1973, sostenendo che, nel caso in cui il sostituto effettui la ritenuta e non la versi all’Erario, il sostituito, il quale abbia scomputato la ritenuta subita in dichiarazione dei redditi, è soggetto, così come il sostituto, al potere di accertamento per la ritenuta non versata e questo perché il sostituito stesso, salva la facoltà di regresso nei confronti del sostituto, è obbligato solidale al pagamento dell’imposta sin dall’origine (cfr., inter alia, Cass. 12 giugno 2017, n. 14598). In senso contrario si veda però la Cass. 2 ottobre 1996, n. 8606 e, in particolare, la Comm. trib. reg. Lombardia del dicembre 2016, n. 6550 laddove è affermato che nell’ipotesi in cui l’azione di regresso, del sostituito nei confronti del sostituto, non andasse a buon fine il sostituito subirebbe una doppia imposizione giuridica contraria all’art. 163 del Tuir. Sul fatto poi che l’art. 35 del DPR n. 602/1973 sia letteralmente applicabile ai soli casi di sostituzione a titolo di imposta, si veda, inter alia, G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 250.


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realizzati non inferiore a euro 750.000.000; b) un ammontare di ricavi derivanti da servizi digitali, di cui al comma 37, realizzati nel territorio dello Stato non inferiore a Euro 5.500.000”. Dalla lettura della disposizione da ultimo richiamata si evince, inoltre, che soggetto passivo dell’ISD può essere solo un titolare di reddito di impresa, residente o non nel territorio dello Stato (30), identificabile, si ritiene, in base alle norme contenute nell’art. 55 del Tuir. La soggettività passiva ai fini ISD è integrata se i due summenzionati requisiti quantitativi di fatturato sono congiuntamente verificati o dal soggetto fornitore dei servizi digitali, oppure, se detto soggetto è incluso nel perimetro di consolidamento di un gruppo societario, da tutti i soggetti inclusi in detto perimetro. L’equiparazione concettuale, effettuata nel periodo precedente, tra appartenenza di un soggetto ad un gruppo societario e inclusione del medesimo soggetto in un perimetro di consolidamento è stata effettuata in virtù di un’interpretazione sistematica della norma in parola alla luce del combinato disposto degli artt. 4, parr. 1 e 6 e 2, par. 2, della Proposta di Direttiva (31).

(30) L’art. 1, comma 43, della L. n. 145/2018 prevede che: “I soggetti non residenti, privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato e di un numero identificativo ai fini dell’imposta sul valore aggiunto che nel corso di un anno solare realizzano i presupposti indicati al comma 36 devono fare richiesta all’Agenzia delle Entrate di un numero identificativo ai fini dell’imposta sui servizi digitali (…). I soggetti residenti nel territorio dello Stato che appartengono allo stesso gruppo dei soggetti di cui al primo periodo sono solidalmente responsabili con questi ultimi per le obbligazioni derivanti dalle disposizioni relative all’imposta sulle transazioni digitali”. Si è del parere che le norme tributarie di riferimento, analogicamente applicabili per stabilire se un soggetto passivo ISD sia residente o meno nel territorio dello Stato, siano rappresentate, in caso di soggetto passivo costituito da una persona fisica, dall’art. 2 del Tuir, e, in caso di soggetto passivo costituito da una società o ente, dall’art. 73 del Tuir. Non si ritengono, in altri termini, applicabili, nel caso di specie, le norme contenute nell’art. 7, comma 1, lett. d), del DPR n. 633/1972, in tema di Iva, valevoli al fine di determinare se un soggetto sia o meno “stabilito”, e non quindi “residente”, nel territorio dello Stato. (31) L’art. 4, par. 1, della Proposta di Direttiva prevede che: “‘Taxable person’”, with respect to a tax period, shall mean an entity meeting both of the following conditions: (a) the total amount of worlwide revenues reported by the entity for the relevant financial year exceeds EUR 750 000 000; (b) the total amount of taxable revenues obtained by the entity within the Union during the relevant financial year exceeds EUR 50 000 000”, il successivo par. 6 prevede che “If the entity referred to in paragraph 1 belongs to a consolidated group for financial accounting purposes, that paragraph shall be applied instead to the worldwide revenues reported by, and taxable revenues obtained within the Union by, the group as a whole” e, infine, l’art. 2 della Proposta medesima dispone che “For the purposes of this Directive, the following definitions shall apply: (…) (2) ‘consolidated group for financial accounting purposes’ means


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In proposito, pare, infine, ragionevole ritenere che, nell’ipotesi in cui il soggetto fornitore dei servizi digitali partecipi ad un consolidato civilistico nazionale, il concetto di “gruppo” cui fa riferimento l’art. 1, comma 36, della L. n. 145/2018 debba essere ricavato dagli artt. 25 e seguenti del D.Lgs. 9 aprile 1991, n. 127, mentre nell’eventualità in cui il soggetto fornitore dei servizi digitali partecipi ad un consolidato civilistico estero, il concetto di “gruppo” cui fa riferimento l’art. 1, comma 36, della L. n. 145/2018 debba essere desunto dalle regole contemplate dagli International Financial Reporting Standards (32). 2.3. Base imponibile e aliquota impositiva. – La determinazione della base imponibile, ai fini dell’ITD, era effettuata ad opera dell’art. 1, comma 1013, della L. n. 205/2017 nel quale si leggeva che “L’imposta di cui al comma 1011 si applica con l’aliquota del 3 per cento sul valore della singola transazione. Per valore della transazione si intende il corrispettivo dovuto per le prestazioni di cui al comma 1012, al netto dell’imposta sul valore aggiunto (…)”. Vale la pena di notare come la terminologia adottata dal legislatore, secondo cui l’imposta in questione avrebbe dovuto essere essenzialmente applicata sul “corrispettivo dovuto” per le prestazioni di servizi digitali, sembrava essere mutuata da quella contenuta nell’art. 13 del DPR n. 633/1972, laddove è previsto che la base imponibile Iva delle prestazioni di servizi è costituita dai “corrispettivi dovuti (…) al prestatore (…)”. Un siffatto comportamento non pareva casuale e sembrava essere attribuibile al fatto che, poiché l’ITD, così come l’Iva, avrebbe dovuto essere applicata su ogni singola prestazione di servizi, esigenze di logicità abbiano indotto il legislatore a quantificare la base imponibile ITD seguendo la stessa impostazione adottata ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. Da ciò consegue che ragioni di coerenza e di semplificazione avrebbero reso plausibile la commisurazione dei due summenzionati tributi su una base imponibile comune. A differenza dell’ITD, l’ISD non è commisurata sul valore di ogni singola transazione, bensì è applicata, a mente dell’art. 1, comma 41, della L. n. 145/2018, nella misura del 3%, sull’ammontare “dei ricavi tassabili realizzati

all entities that are fully included in consolidated financial statements drawn up in accordance with the International Financial Reporting Standard or a national financial reporting system”. (32) Al riguardo si veda il summenzionato art. 2 (2) della Proposta di Direttiva.


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dal soggetto passivo in ciascun trimestre” (33). Detto ammontare, già si è detto, deve essere logicamente considerato al lordo dei costi sostenuti e al netto dell’Iva e di altre imposte indirette (ad esempio l’imposta di bollo). È da ritenere che eventuali accertamenti effettuati dall’amministrazione finanziaria italiana nei confronti di soggetti passivi ISD, aventi ad oggetto la rettifica di corrispettivi determinati ai fini Iva e/o la rettifica dei ricavi concorrenti a formare il reddito di impresa ai fini delle imposte sui redditi italiane, esplicheranno ragionevolmente i loro effetti sul tributo in questione. 3. Le caratteristiche dell’imposta sui servizi digitali. 3.1. Classificazioni e natura. – Una prima e una seconda classificazione dell’ISD in base alla caratteristica strutturale del presupposto di imposta e in base alla durata del presupposto medesimo nel corso del tempo consentono di qualificare la medesima, rispettivamente, alla stregua di un’imposta “reale” e “periodica”. L’imposta in questione presenta caratteri di realità giacché il relativo presupposto oggettivo di imposizione, racchiuso nell’art. 1, commi 41, 37 e 39 della L. n. 145/2018, non si riferisce alle condizioni personali del soggetto passivo (il soggetto fornitore dei servizi digitali), al quale è solo indirettamente collegato, bensì alla fornitura dei servizi digitali in quanto tale (34). L’ISD è, inoltre, un’imposta “periodica” giacché il relativo presupposto di imposta – realizzato, a mente dell’art. 1, comma 40, della L. n. 145/2018, nel corso di un anno solare – mostra carattere continuativo e non istantaneo (35). Volendo poi operare una terza classificazione in base alla funzione fiscale svolta dall’ISD, quindi dell’indice di capacità contributiva da essa colpito, occorre osservare come il tributo in questione sia, ragionevolmente, da anno-

(33) Quanto al concetto di “realizzo” dei ricavi tassabili ai fini ISD si rimanda alle considerazioni effettuate al precedente paragrafo 2. Il comma 42 dell’art. 1 della L. n. 145/2018 prevede poi che “I soggetti passivi sono tenuti al versamento dell’imposta entro il mese successivo a ciascun trimestre e alla presentazione della dichiarazione annuale dell’ammontare dei servizi tassabili prestati entro quattro mesi dalla chiusura del periodo di imposta”. (34) Per una distinzione, di carattere approfondito, tra imposte reali e imposte personali si veda A. fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 88 ss. (35) Si veda, in riferimento ai tributi in generale, P. Russo - G. Fransoni - L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, cit., 83.


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verare tra le imposte c.d. dirette (36). Questo perché, dall’analisi del presupposto di fatto del tributo, contenuto nell’art. 1, commi 41 e 37, della L. n. 145/2018, emerge come il medesimo, essenzialmente rappresentato dalla fornitura di servizi digitali, costituisce pur sempre una manifestazione diretta di capacità contributiva – quantitativamente riconducibile al ricavo realizzato – del soggetto che tale fornitura ha posto in essere (37). Più in particolare, l’ISD, similmente ad altri tributi quali, ad esempio, l’imposta sulla fabbricazione (o “accisa”) sui prodotti energetici di cui agli artt. 21 ss. del D. Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, parrebbe rientrare nel genus delle imposte c.d. sulle vendite (38) (39) come tale tesa a colpire l’indice di capacità contributiva rappresentato da una prestazione di servizi digitali atta ad essere “commercializzata” presso i relativi committenti ed idonea, pertanto, a generare un arricchimento in capo al soggetto prestatore (40).

(36) Sottolineano la distinzione tra imposte “dirette” e “indirette” fondata sulla nozione di capacità contributiva contenuta nel presupposto oggettivo del tributo, tra gli altri, A. Fedele, Prime osservazioni tema di Irap, in Riv. Dir. Trib., 1998, 466, ID, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 168, ss.; P. Russo - G. Fransoni - L. Castaldi, Istituzioni di diritto tributario, cit., 87. (37) Non pare, pertanto, sostenibile la tesi secondo cui sarebbero da catalogare tra le imposte c.d. dirette solo quelle volte a colpire il reddito o il patrimonio, mentre sarebbero da ascrivere alla categoria delle imposte c.d. indirette tutte le altre. A dimostrazione di ciò è bene riportare il pensiero di quella dottrina secondo cui l’Irap – avente quale presupposto di fatto, non già il possesso di un reddito o di un patrimonio, bensì l’esercizio di “attività autonomamente organizzate” – è da annoverare tra le imposte “dirette” (cfr. La Rosa, Principi di diritto tributario, cit., 140). (38) In dottrina includono l’imposta sulla fabbricazione sui prodotti energetici tra le imposte sulle vendite G. Falsitta - R. Schiavolin, Le accise (imposte di fabbricazione e di consumo), cit., 993. Gli stessi Autori includono, tuttavia, l’imposta di fabbricazione sul gas naturale tra le imposte sul consumo a motivo del diritto di rivalsa previsto, dall’art. 26, comma 7, del D.Lgs. n. 504/1995, nei confronti dei consumatori finali. (39) Sembrerebbe sussistere, inoltre, una parziale analogia tra l’ISD e l’abrogata imposta sugli scambi, introdotta con il R.D. 30 dicembre 1923, n. 3273, a motivo dell’impossibilità di addebitare l’imposta in questione al consumatore finale (per una descrizione del tributo da ultimo nominato si veda L. Einaudi, Il sistema tributario italiano, Torino, 1939, 243-244). (40) Il parallelismo concettuale tra ISD e imposta di fabbricazione sui prodotti energetici, non oggetto di rivalsa sui consumatori, può essere apprezzata avendo essenzialmente riguardo alla funzione dei due tributi. In proposito è bene notare che, se la prima è volta a colpire un indice di capacità contributiva rappresentato da una fornitura di servizi digitali atta ad essere “commercializzata” presso i relativi committenti, la seconda è, parallelamente, tesa ad incidere su un indice di capacità contributiva costituito “dalla produzione di merci idonee ad essere messe in vendita, ed idonee,


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Quest’ultima affermazione non pare inficiata da possibili traslazioni economiche del tributo, mediante inclusione di questo nel corrispettivo di fornitura del servizio, da parte del soggetto prestatore su quello committente e ciò in quanto un tale fenomeno sarebbe giuridicamente irrilevante a motivo del fatto che la legge non contempla un obbligo o (semplice) diritto di rivalsa in capo al primo dei due soggetti (41). 3.2. Compatibilità con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. – La natura di imposta sulle vendite dell’ISD, giustificata dall’adozione, quale indice di capacità contributiva, del ricavo realizzato dal soggetto prestatore a seguito della fornitura di servizi digitali resa, consentirebbe, inoltre, a nostro avviso, di escludere una declaratoria di incostituzionalità per violazione dell’art. 53 Cost. Il dubbio di costituzionalità potrebbe, invero, sorgere in ragione del fatto che l’ISD è commisurata su una grandezza economica lorda, diversa quindi dal reddito di impresa, quale è, appunto, il ricavo derivante dalla fornitura di servizi digitali. L’affermazione in merito alla ritenuta costituzionalità, ai fini dell’art. 53 Cost., del tributo in esame pare sostenibile in base alle seguenti considerazioni (42).

in quanto tali, a generare un arricchimento in capo al fabbricante (in quest’ultimo senso si veda M. Cerrato, Spunti intorno alla struttura e ai soggetti passivi delle accise, in Riv. Dir. Trib., 1996, 229-230). (41) La mancanza di un qualsivoglia obbligo o diritto di rivalsa “a valle” dell’ISD esclude in radice la sovrapponibilità tra l’imposta di cui si discorre e quelle indirette sui consumi come l’Iva o come l’abrogata imposta generale sull’entrata (I.G.E.). In proposito si rammenta come la Corte di Giustizia UE, con la sentenza 3 ottobre 2006, causa C-475/03, abbia escluso la sovrapponibilità tra l’Iva e un’imposta come l’Irap a ragione, tra l’altro, della mancanza di una previsione volta a traslare quest’ultimo tributo, a differenza a quanto accade per l’Iva, mediante l’istituto della rivalsa giuridica, al consumatore finale. La differenza, in punto di funzione fiscale, tra ISD e Iva non spiega, quindi, per inciso, la ragione per cui l’art. 1, comma 44, della L. n. 145/2018 mutui, ai fini della disciplina attuativa del primo dei due tributi, le norme previste per il secondo. Parimenti l’ISD non può essere considerata sovrapponibile all’abrogata I.G.E. a motivo della facoltà del soggetto passivo di quest’ultimo tributo (cedente del bene o prestatore del servizio conseguenti l’”entrata”), contemplata dalla relativa disciplina, di operarne la rivalsa “a valle” (sul tema della facoltà di rivalsa nell’I.G.E. si veda A.D. Giannini, Istituzioni di diritto tributario, VIII Ed., Milano, 1960). (42) Si rammenta che la dottrina del secolo scorso ebbe a giustificare costituzionalmente un’imposta sulle vendite o sugli “introiti lordi” mediante la teoria della c.d. capacità contributiva relativa fondata sulla fusione in uno dei due criteri del beneficio-controprestazioni e della


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La prima di esse muove, oltre che dalla constatazione secondo cui il predetto indice di capacità contributiva, concretandosi in ricchezza realizzata dal contribuente, racchiude l’”elemento patrimoniale” necessario all’adempimento del tributo (43), anche dall’assenza, ad oggi, di declaratorie di incostituzionalità di tributi – ad esempio l’imposta di fabbricazione sui prodotti energetici di cui al D.Lgs. n. 504/1995 – concettualmente simili a quello in oggetto. Il secondo ordine di considerazioni muove dai principi statuiti da alcune sentenze della Corte Costituzionale ritenute pertinenti al tema qui trattato. Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza del 21 maggio 2001, n. 156, laddove i Giudici – ai quali è stata sottoposta la questione di legittimità costituzionale dell’Irap in quanto tributo la cui base imponibile, ossia il “valore della produzione netta”, è una grandezza economica lorda diversa e maggiore del reddito – hanno dichiarato infondata la predetta questione di costituzionalità sostenendo, tra l’altro, che compete al legislatore desumere i fatti espressivi di capacità contributiva “da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale” (44) (45).

capacità contributiva. In base a tale teoria, anche se i produttori di beni o i prestatori di servizi non fossero stati in grado di ritrarre utili netti dalla loro attività, tali soggetti beneficiavano comunque della creazione, finanziata con spesa pubblica da parte deli enti pubblici competenti, dell’“ambiente” o del “mercato” atti a consentire ed agevolare la circolazione di beni e servizi il cui corrispettivo di vendita era oggetto di tassazione. In altri termini, i produttori di beni o i prestatori di servizi avrebbero dovuto essere tassati sugli “introiti lordi” ritratti dalle vendite in quanto “agenti del mercato” al quale affluivano gli acquirenti-consumatori (cfr. E. D’albergo, Il fondamento logico dell’imposta sugli introiti lordi, in AA.VV., Studi sull’imposta sulle vendite. Collana “Studi di finanza pubblica” diretti da C. Cosciani, Milano, 1968, 76). (43) In dottrina è stato affermato, in termini generali, quanto segue“ Ritengo che, affinché il soggetto chiamato al pagamento dell’imposta possa dirsi “nella condizione” di poter versare all’Amministrazione finanziaria la somma dovuta, sia necessario che tale soggetto, attraverso la realizzazione del fatto economico che costituisce il presupposto del tributo, disponga di liquidità oppure sia titolare di situazioni giuridiche che siano suscettibili di tramutarsi, con una certa facilità, in denaro” (cfr. M. Beghin, Princìpi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, cit., 37). (44) In senso analogo si sono espressi i Giudici delle leggi in un’altra occasione sostenendo che “per capacità contributiva, ai sensi dell’art. 53 della Costituzione, deve intendersi l’idoneità del soggetto all’obbligazione d’imposta, desumibile dal presupposto economico al quale l’imposizione è collegata, presupposto che consiste in qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di costituzionalità sotto il profilo dell’arbitrarietà o irrazionalità” (cfr. C. Cost. 5 febbraio 1992, n. 42. In senso conforme C. Cost. 4 maggio 1995, n. 143). (45) È noto come la compatibilità o meno dell’Irap con l’art. 53 Cost. sia stato oggetto, in passato, di un vivace dibattito dottrinale da cui sono scaturite due linee di pensiero tra loro


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Ora, sembra ragionevole sostenere che il ricavo realizzato dal soggetto prestatore, a fronte della fornitura di servizi digitali, su cui è commisurata l’ISD possa rappresentare un ragionevole indice rivelatore di ricchezza giacché parametro espressivo di una “posizione” ascrivibile al soggetto passivo suscettibile di essere scambiata in denaro sul mercato (46). 3.3. Il ruolo svolto dall’imposta sui servizi digitali all’interno del sistema tributario. – Al tributo in questione pare possibile attribuire un primo ruolo, di carattere strutturale, di “equalizzatore” finalizzato al parziale riequilibrio nell’allocazione del potere impositivo tra Stato di residenza fiscale dei soggetti operanti nel settore dell’economia digitale e Stati esteri in cui essi realizzano i propri redditi. Il ruolo svolto dall’ISD è, infatti, sovrapponibile a quello riservato alla Digital Service Tax (DST) contenuta nella Proposta di Direttiva dello scorso 21 marzo 2018.

tendenzialmente dicotomiche. Non essendo certo questa la sede per approfondire la tematica in questione, ci si limita nel seguito a riportare, molto sinteticamente, i tratti essenziali del predetto dibattito. I fautori dell’incompatibilità dell’Irap con l’art. 53 Cost. sostengono che il presupposto oggettivo del tributo, ossia il mero esercizio di un’attività autonomamente organizzata, non contenga specifici elementi di patrimonialità, vale a dire elementi di ricchezza liberamente disponibile, i quali consentano di far fronte all’obbligazione tributaria (su questa linea si veda, tra gli altri, F. Moschetti, “Interesse fiscale” e “ragioni del fisco” nel prisma della capacità contributiva, in AA.VV., Atti della giornata di studi in onore di Gaspare Falsitta, Padova, 2012, 198 e G. Falsitta, Aspetti e problemi dell’Irap, in Riv. dir. trib., 1997, 497). I fautori della compatibilità dell’Irap con l’art. 53 Cost. sostengono, invece, che gli atti e fatti assunti a presupposto oggettivo del tributo non debbano necessariamente dimostrare una forza economica a contenuto patrimoniale, ma è sufficiente che essi ugualmente rilevino “in termini di vantaggio nei rapporti soggettivi e abbia(no) una evidenza economica” (cfr. F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica giustizia nella tassazione, Bologna, 2007, 93). Con specifico riguardo all’Irap è stato poi aggiunto che “il valore aggiunto del soggetto passivo dell’Irap, e cioè il produttore, sta nella sua capacità produttiva derivante dal potere autonomo di coordinamento e di organizzazione e, per l’impresa, di dominio dei fattori della produzione” (cfr. F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica giustizia nella tassazione, cit., 93, nota 13. In una posizione non distante dalla dottrina da ultimo citata si colloca A. Fedele, Prime osservazioni in tema di Irap, cit., 473). (46) In dottrina è stato osservato come il riparto dei carichi pubblici richieda l’individuazione di “posizioni” differenziate dei singoli contribuenti cui riferire, nell’an e nel quantum, il concorso alle pubbliche spese e che nell’attuale assetto sociale e istituzionale siano generalmente utilizzati parametri “economici” per misurare le diverse “posizioni” dei singoli nell’ambito della collettività organizzata (in tal senso A. fedele, Prime osservazioni in tema di Irap, cit., 472).


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Ai nostri fini è bene notare come la predetta proposta abbia fatto seguito al documento, sottoposto alla Presidenza del Consiglio UE dai Ministri delle Finanze tedesco, francese, italiano e spagnolo, rubricato “Joint initiative on the taxation of companies operating in the digital economy”, con il quale è stata evidenziata la necessità di introdurre un’“equalization tax” commisurata sul fatturato europeo delle società operanti nel settore digitale (47). Il dichiarato scopo di un’imposizione siffatta sarebbe quello di ricomporre il disallineamento venutosi a creare tra il luogo in cui i profitti delle predette società sono tassati e quello in cui i medesimi sono realizzati (48). Disallineamento essenzialmente attribuibile all’attuale normativa internazionale sull’imposizione societaria, la quale, concedendo potere impositivo ai Paesi della fonte reddituale solo laddove i soggetti non residenti ivi svolgano la loro attività mediante una stabile organizzazione, non è in grado di intercettare il “valore” creato in tali Paesi dai soggetti in questione in relazione a prestazioni di servizi digitali svolte, senza un’organizzazione di mezzi e/o persone, nei confronti di committenti la partecipazione dei quali costituisce elemento fondamentale per la realizzazione dei servizi medesimi consentendo, in ultima istanza, la produzione del predetto “valore” (49). Posto quanto sopra, l’inclusione tra i soggetti passivi dell’ISD anche di quelli residenti nel territorio dello Stato impedisce, come già accennato nel paragrafo introduttivo, di attribuire al tributo in questione il solo ruolo ascrivibile alla ragione di diritto tributario internazionale illustrata nella prima parte

(47) Si reputa opportuno segnalare che nel tempo intercorrente tra l’emanazione del documento cui si è fatto cenno nel testo, avvenuta nel settembre 2017, e la Proposta di Direttiva (marzo 2018) il Consiglio Europeo ha presentato sul tema proprie conclusioni (doc. EUCO 14/17 del 19 ottobre 2017), in merito alla necessità di una tassazione adatta all’economia digitale, confermate poi dall’ECOFIN, il quale ha posto in risalto l’interesse dei singoli Stati membri ad una misura fiscale temporanea basata sull’imposizione dei ricavi derivanti dalla prestazione di servizi digitali (documento FISC 346 ECOFIN 1092 del 5 dicembre 2017). (48) Si veda al riguardo pag. 2 dell’Explanatory Memorandum alla Proposta di Direttiva, nonché il secondo Considerando della Proposta di Direttiva. (49) Cfr. pag. 2 e pag. 7 dell’Explanatory Memorandum alla Proposta di Direttiva laddove è, in proposito, affermato che “DST is a tax with a targeted scope, levied on the revenues resulting from the supply of certain digital services characterised by user value creation. The services falling within the scope of DST (quelli di cui all’art. 3 della Proposta di Direttiva n.d.a.) are those where the participation of a user in a digital activity constitutes an essential input for the business carrying out that activity and which enable that business to obtain revenues therefrom. In other words, the business models captured by this Directive are those which would not be able to exist in thei current form without user involvment (…)”.


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di questo paragrafo. Pare quindi possibile assegnare all’ISD un ulteriore ruolo, basato su ragioni di politica fiscale prettamente domestica, teso ad intercettare una forma di ricchezza scaturente dall’effettuazione di prestazione di servizi, di largo e frequente impiego presso gli operatori economici, quali quelli digitali. Tale ulteriore ruolo rivestito dal tributo che qui occupa, se da un lato mostra un adeguamento del nostro legislatore tributario ai mutamenti in atto nell’economia, caratterizzati dal passaggio dallo scambio fisico di beni e servizi allo scambio di beni e servizi in forma digitale, dall’altro lato evidenzia la ripresa, da parte del legislatore medesimo, di uno schema già attuato in passato, al momento dell’avvento dell’economia industriale tradizionale, laddove si era inteso colpire, mediante le imposte fabbricazione non oggetto di rivalsa “a valle”, la produzione di beni di ricorrente impiego (50) e ciò a riconferma della similarità, sul piano concettuale, tra l’ISD e le imposte di fabbricazione stesse. Va, infine, notato come il ruolo svolto dall’ISD non sembri del tutto sovrapponibile a quello ricoperto dalla Diverted profit tax (di seguito “DPT”) introdotta nel Regno Unito, a partire dal 1° aprile 2015, dal Finance Act 2015 e ciò per l’assorbente ragione secondo cui, mentre il primo dei due tributi assume un ruolo, di diritto tributario internazionale e di diritto domestico, eminentemente strutturale e pensato per le sole transazioni digitali, il secondo di essi riveste, come vedremo, un ruolo dichiaratamente volto a scoraggiare pratiche fiscali dannose poste in essere dalle imprese multinazionali operanti anche in settori diversi da quello dell’economia digitale (51). Ciò premesso, non essendo questa la sede per effettuare un’analisi di diritto comparato avente ad oggetto la struttura e le caratteristiche dei due tributi da ultimo menzionati, ci si limita qui ad osservare come la DPT non contempli quale presupposto oggettivo di applicazione le prestazioni di servizi digitali, ma abbia ad oggetto, più in generale, i redditi distratti dal Regno Unito, de-

(50) Con riferimento alla funzione delle accise si veda F. Pistolesi, Le imposte di fabbricazione e di consumo, in P. Russo, Manuale di diritto tributario, Terza edizione, Milano, 1999, 804. (51) In realtà la dottrina ha attribuito alla DPT, oltre al summenzionato ruolo antielusivo, anche l’ulteriore ruolo, di carattere strutturale, volto a realizzare il principio di territorialità in base al quale il reddito deve scontare imposizione nel luogo in cui è stato prodotto; al riguardo è stato affermato che “In the DPT case, the two most obvious justifications to combine would be combating tax avoidance and the principle of territoriality: this is the principle that profits arising in a territory may be taxable there” (cfr. P. Baker, Diverted profit tax: a partial response, BTR, 2015, 169).


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rivanti da attività economiche ivi svolte da parte di imprese multinazionali, mediante pratiche fiscali aggressive (52). 4. La riconoscibilità dell’imposta sui servizi digitali nei trattati bilaterali contro la doppia imposizione sul reddito e sul patrimonio. – Vale la pena cercare di comprendere se l’ISD – la quale, pur non rientrando nel novero delle imposte “sul reddito”, rappresenta, in base alla tesi qui sostenuta, un’imposta “diretta” – rientri o meno tra le imposte di cui all’art. 2 del Modello OCSE per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio (di seguito “il Modello OCSE”). Al riguardo merita, innanzitutto, rammentare che, in passato, al fine di includere l’Irap – imposta che, al pari dell’ISD, appartiene al genus delle imposte “dirette”, ma non alla species delle imposte reddituali – tra le imposte di cui all’art. 2 del Modello OCSE si è resa necessaria una disposizione ad hoc, ossia l’art. 44 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, volta espressamente ad equiparare, ai meri fini convenzionali, l’imposta in questione ai tributi erariali abrogati con l’art. 36 del decreto da ultimo nominato. Detta equiparazione aveva ad oggetto, in specie, l’abrogata ILOR contemplata dalla maggior parte dei Trattati bilaterali contro le doppie imposizioni, stipulati dall’Italia, tra le imposte cui si applicavano i Trattati medesimi (53). Detto questo, non pare che, allo stato attuale, l’ISD possa essere annoverata tra le imposte di cui all’art. 2 del Modello OCSE e ciò non solo in quanto

(52) Cfr. HM Revenue & Customs (HMRC), Diverted profit tax Guidance Note (di seguito “Guidance Note), 30 settembre 2015, 3. Le pratiche fiscali aggressive sono essenzialmente quelle: (i) tese ad evitare la creazione di stabili organizzazioni di soggetti esteri nel Regno Unito e quindi il pagamento dell’imposta britannica sulle società (ii) finalizzate all’utilizzo di entità o di accordi, privi di sostanza economica, al fine di sfruttare discrepanze nella legislazione fiscale. In tali casi i redditi distratti dal Regno Unito, essenzialmente determinati con le regole previste in tema di transfer pricing, sono tassati con un’aliquota del 25%, maggiore dell’ordinaria aliquota prevista per l’imposta sulle società e ciò allo scopo di scoraggiare dette pratiche fiscali dannose (cfr. Guidance Note, 4 e 5). La DPT non è oggetto di autoliquidazione, ma essa è liquidata dall’HMRC previa comunicazione, dopo la chiusura di ogni periodo di imposta, da parte di quei contribuenti rientranti nell’ambito di applicazione del tributo e non soggetti a forme di esenzione. Naturalmente i contribuenti sono legittimati, prima dell’emissione da parte dell’HMRC dell’avviso di liquidazione del tributo, a dimostrare che le operazioni effettuate e/o le strutture implementate non ricadono nell’ambito di applicazione della DPT (cfr. Guidance Note, 5 e 6). (53) Cfr. Circ. Min. Fin. 4 giugno 1998, n. 141/E, par. 1.10.


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la legge istitutiva del tributo che qui occupa non prevede una norma simile a quella contenuta nell’art. 44 del D.Lgs. n. 446/1997, ma anche per la ragione che segue. L’art. 2, par. 2, del Modello OCSE dispone che: “Sono considerate imposte sul reddito (…) le imposte prelevate sul reddito complessivo (…) o su elementi del reddito (…) comprese le imposte sugli utili derivanti dall’alienazione di beni mobili o immobili (…) nonché le imposte sui plusvalori” (sottolineatura nostra). Orbene, se da un lato è possibile affermare che l’ISD colpisce effettivamente “elementi del reddito”, ossia i ricavi, dall’altro lato sembra, tuttavia, ragionevole sostenere che il legislatore convenzionale abbia inteso riferirsi, come del resto pare evincersi dalle esemplificazioni racchiuse nel medesimo par. 2 dell’art. 2 del Modello OCSE, non già ad ogni tributo applicato su “elementi” concorrenti a formare il reddito del contribuente, bensì solo a quelli “sostitutivi” delle imposte sul reddito, a differenza, invece, dell’ISD, la quale non ha la natura di imposta “sostituiva” delle imposte reddituali, ma si cumula a queste. Premesso ciò, quand’anche il legislatore italiano prevedesse in futuro una norma specifica tesa ad equiparare ex lege, a meri fini convenzionali, l’ISD alle imposte sul reddito, l’imposta di cui si discorre potrà ritenersi inclusa nel regime convenzionale solo previo raggiungimento di appositi accordi tra lo Stato italiano e gli Stati firmatari dei singoli Trattati con l’Italia (54).

Francesco Pedrotti

(54)

In questi termini, in relazione all’Irap, si veda la Circ. Min. Fin. n. 141/E, par. 1.10.


Profili strutturali e ambito applicativo del regime speciale iva per i produttori agricoli. Dalla semplificazione amministrativa verso i “nuovi” interessi dell’agricoltura* Sommario: 1. Premessa – 2. Il fondamento del regime speciale iva per i produttori agricoli. L’esigenza di semplificazione e la tensione con la neutralità dell’imposta. – 3. L’evoluzione normativa europea: dalla laconica previsione di un regime particolare alla Sesta Direttiva (passando per la proposta di terza direttiva). – 4. L’implementazione italiana del regime speciale: la riforma del 1997 e il (supposto) venire meno della “rendita iva”. L’assetto attuale. – 5. La centralità delle percentuali di compensazione. – 6. L’ambito di applicazione del regime. Le nozioni di base: produttore agricolo, prodotti e servizi agricoli. – 7. Le operazioni derivanti dalle attività connesse ex art. 34 bis DPR 633/72. – 8. Segue… i servizi nell’ambito di attività di ricezione e di ospitalità e le attività di valorizzazione del patrimonio e del territorio rurale. – 9. Il regime speciale delle società cooperative agricole ex art. 1, c.2 D.Lgs. 228/01 e degli altri “enti associativi” tra produttori agricoli. – 10. Il regime di esonero (quasi) totale iva del produttore agricolo minimo. – 11. Considerazioni di sintesi sul sistema italiano rispetto al modello europeo e ai “nuovi” interessi dell’agricoltura. Il regime speciale iva per i produttori agricoli è stato da sempre presente nel sistema iva europeo e nazionale. Apertamente nasce come regime volto a soddisfare un’esigenza di semplificazione del settore agricolo, particolarmente avvertita negli anni in cui l’iva è stata introdotta e da contemperare - per quanto possibile - con l’esigenza di neutralità dell’iva. Sul piano europeo le disposizioni sono rimaste sostanzialmente immutate dalla Sesta Direttiva, prevedendosi un regime di non applicazione dell’imposta per le cessioni da parte dei produttori agricoli e di determinazione forfetaria dell’iva in detrazione. Al contrario, nella normativa interna vi è stata una notevole stratificazione, frutto anche di una non corretta comprensione delle logiche sottostanti al regime speciale in chiave europea. Allo stato attuale la normativa interna, anche in forza delle evoluzioni che hanno interessato la nozione civilistica di

* Il lavoro è parte della ricerca “Diritto dell’agricoltura e ‘nuovi’ interessi: Attività e proprietà agricole in prospettiva europea e comparata”, coordinata da Matteo Nicolini e Werner Wallnöfer e finanziata dal Südtiroler Bauernbund. L’Autore desidera ringraziare i coordinatori della ricerca per il supporto alla pubblicazione del presente lavoro, nonché un anonimo referee di diritto agrario per le osservazioni formulate.


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impresa agricola, presenta dei profili di potenziale incoerenza con il dato europeo, sia in relazione al profilo strutturale, sia in relazione al campo di applicazione del regime speciale. Tuttavia, nel regolare alcuni casi particolari del regime speciale (cooperative agricole e produttore agricolo minimo), il legislatore interno sembra aver consapevolezza della corretta implementazione del regime secondo le coordinate europee e in chiave di valorizzazione dei “nuovi” interessi dell’agricoltura che emergono nell’attuale scenario. The special flat-rate VAT scheme for agriculture has been always present in the European and national VAT regime. It appears to have been introduced as a special scheme to meet the need for simplification in the agricultural sector, that was especially strong when VAT was introduced, with need for simplification balanced as far as possible with the neutrality of VAT. At the European level, the rules have remained largely unchanged since the Sixth Directive, setting forth a scheme based on exemption from VAT for the sale of goods by farmers and a flat-rate deduction. However, in the internal legislation there has been a remarkable layering and reformulation of rules, reflecting a limited awareness of the European rationale behind the special scheme for agriculture. At present, also due to innovations in the civil notion of agricultural undertakings, the national rules are potentially inconsistent with the European ones, both with reference to the structure of the special scheme, and to the field of application of the flat-rate scheme for agriculture that appears to be too extensive. However, in adopting specific provisions for agricultural cooperatives and small farmers, the national tax legislator seems to be aware of the proper implementation of the special scheme, according to European rules while seeking to enhance the emerging interests of agriculture in the present economic scenario.

1. Premessa. – Nella manualistica più accreditata di diritto agrario, tra i dati differenziati per la disciplina giuridica dell’attività economica agricola – rispetto a quella delle attività economiche non agricole – oltre a quelli che costituiscono il c.d. statuto civilistico dell’impresa agricola (1),

(1) Anche se, nella letteratura commercialistica si è evidenziato che forse non si potrebbe parlare di un vero e proprio statuto dell’impresa agricola dal momento che la disciplina è scarna, sostanzialmente ritagliata in negativo rispetto allo statuto dell’impresa commerciale. In realtà, rispetto all’impostazione codicistica originaria, l’evoluzione normativa è stata nel senso di ridurre le differenze regolative tra imprese agricole e commerciali. Così, attualmente, per le imprese agricole che adottano la forma societaria (ad eccezione delle società semplici) vi è un obbligo di tenuta delle scritture contabili, e vi è per l’imprenditore agricolo un obbligo di iscrizione nel registro delle imprese nell’apposita sezione speciale. La recentissima approvazione del codice delle crisi di impresa, Decreto legislativo, 12/01/2019 n° 14, G.U. 14/02/2019 ha previsto che alcune procedure preventive e risolutive ad una crisi di impresa (procedure di allerta e di accertamento dello stato di crisi, nonché la procedura di esdebitazione), abbiano applicazione anche in relazione all’impresa agricola.


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il primo a essere identificato è quello relativo alla posizione fiscale dell’agricoltore (2). In effetti, è constatazione agevole che il legislatore fiscale abbia sovente avvertito l’esigenza di riservare, quantomeno per i principali tributi (3), un trattamento “particolare” all’agricoltura, distinguendo – quanto a regime fiscale – l’attività agricola dalle altre attività economiche. E ciò è avvenuto anche per quelle imposte, quali l’iva, in cui era obiettivamente difficile distinguere la specificità dell’attività agricola (4), vuoi per la forte aspirazione alla generalità che caratterizza il tributo, vuoi per la sua matrice europea che, teoricamente, rende difficile l’adattamento del regime fiscale a ragioni legate all’assetto che l’agricoltura ha in ciascun Paese. Tuttavia, proprio la matrice europea può essere individuata come fondamento della particolarità del trattamento riservato all’agricoltura nell’iva. Infatti, in tutti gli ordinamenti degli Stati membri dell’UE l’agricoltura è tradizionalmente percepita come meritevole di una disciplina fiscale speciale (5),

(2) A. Germanò, Manuale di diritto agrario, Ottava edizione, Torino, 2016, 3. (3) Per un’esposizione dei principali elementi differenziali della fattispecie “impresa agricola” in relazione ai principali tributi nell’esperienza italiana – Imposte sui redditi, IRAP, Imposte sul patrimonio immobiliare, IVA – recentemente C. Fontana, La fiscalità delle imprese agricole, Torino, 2017, passim, e in prospettiva evolutiva, G. Selicato, Evolution of agricultural taxation in Italy, in Aa.Vv., Essential problems with taxation of agriculture, Lublin, 2017, 219 ss. Sul piano dell’analisi quantitativa del prelievo sull’impresa agricola, anch’esso fortemente differenziato rispetto al prelievo sulle attività commerciali e industriali, A. Cristofaro, Il prelievo tributario in agricoltura: da Vanoni a Calderoli, in QA – Riv. Ass. Rossi-Doria, 2012, 107 ss., nonché A. di Maio, Il prelievo tributario sui redditi delle imprese agricole italiane, ivi, 2012, 135 ss. Queste analisi quantitative, tuttavia, dovrebbero esser aggiornate alla luce della notevole riduzione, fino ad un sostanziale azzeramento, dell’imposizione diretta sulle imprese agricole cui si è assistito nell’ultimo quinquennio. Per ulteriori dettagli, si veda nota 8. (4) Tant’è che, nel definire l’ambito generale di applicazione dell’imposta, sia il legislatore europeo sia quello interno hanno ricompreso espressamente anche l’attività agricola tra le attività economiche rilevanti, senza alcuna distinzione. Quanto alle disposizioni europee, è l’attuale art. 9 della Direttiva 112/06 che include nella nozione di attività economica ogni “attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività…, agricole…”; mentre per la normativa interna è l’art. 4 del DPR 633/72 che definisce come esercizio di impresa rilevante nell’iva “l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del codice civile”. Secondo la letteratura tributaristica questa impostazione del legislatore iva interno è ispirata dall’esigenza di ricomprendere nel campo di applicazione dell’imposta tutte quelle attività che si inseriscono nella catena produttivo-distributiva. A. Fantozzi, voce, Imprenditore Agricolo (Dir. Trib.), in Enc. Giur. It., XVI, 1989, 5-6 e, in senso conforme, D. Stevanato, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994, 81. (5) Si vedano i saggi contenuti nella seconda parte dell’opera Essential problems, cit.


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ed è noto che la peculiarità e l’importanza del settore agricolo sono state avvertite sin dagli albori dell’esperienza europea, che ha concentrato per molti anni i più ingenti sforzi in termini di risorse sulla politica agricola (6). Non ci si può dunque meravigliare del fatto che la specialità dell’agricoltura, in relazione all’imposta sul valore aggiunto, trovi espresso fondamento nelle disposizioni europee relative al tributo. Si tratta però di una specialità che ha una sua precisa conformazione, in quanto ispirata a esigenze del tutto peculiari. Perciò, prima di esaminare il dato normativo più da vicino, è opportuno soffermarsi sugli interessi del settore agricolo che il legislatore europeo dell’iva ha inteso apprezzare, anche al fine di comprendere se vi è continuità e/o bisogno di rinnovamento rispetto ai “nuovi” interessi che emergono nella dimensione giuridica attuale dell’agricoltura. 2. Il fondamento del regime speciale iva per i produttori agricoli. L’esigenza di semplificazione e la tensione con la neutralità dell’imposta. – Nella letteratura interna di diritto tributario, per giustificare il regime speciale iva dei produttori agricoli è frequente il riferimento alla strutturale debolezza del settore agricolo, tradizionalmente ritenuto meno remunerativo rispetto a quelli del commercio e dell’industria (7). Il riferimento a una generica esigenza di protezione del settore agricolo, benché tradizionale e contenente una indubbia dose di verità, non appare però integralmente soddisfacente, soprattutto se

alla nota 3 relativi alla tassazione dell’agricoltura in diversi Paesi e, più specificamente per l’iva, il recente lavoro di S. Cnossen, VAT and agriculture, lessons from Europe, in Int. Tax Pub. Fin., 2018, 519 ss., dove è presente una panoramica dei singoli Paesi europei e non europei che hanno introdotto un regime speciale per i produttori agricoli. (6) Si fa, ovviamente, riferimento alla Politica Agricola Comunitaria i cui obiettivi (attualmente contenuti nell’art. 39 TFUE) sono stati inseriti nel Trattato fin dalla sua prima versione. La letteratura sulla PAC è molto ampia, ma per una prospettiva diacronica si veda, autorevolmente, L. Costato, Per una storia della PAC (a sessant’anni dall’inserimento dell’agricoltura nel progetto di Trattato CEE), in Riv. Dir. Agr., 2017, 64 ss. (7) Tra i tanti, P. Boria, La disciplina tributaria dell’agricoltura, in Riv. Dir. Trib., 2003, 313, e più risalenti S. Sammartino, Considerazioni sul trattamento fiscale dell’impresa agricola, in Riv. Dir. Agr., 1978, I, 593 ss.; R. Perrone Capano, L’imposta sul valore aggiunto, Napoli, 1977, 659 ss.


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riferito allo speciale trattamento dell’agricoltura ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. Il bisogno di protezione rispetto all’applicazione di un tributo richiama subito alla mente la convinzione che il miglior trattamento “protettivo” consista nella sottrazione del soggetto (o della categoria di soggetti) che si intende proteggere dall’applicazione del tributo (8). Ma questa prospettiva non può essere accolta tal quale nel sistema di applicazione dell’iva. Sottrarre dalla generale applicazione dell’iva un operatore economico che stabilmente svolge la propria attività in un mercato dove tutti gli altri sono tenuti all’applicazione di questo tributo si può facilmente rivelare un’opzione che non va in favore dello stesso operatore che “beneficia” dell’esclusione/ esenzione. È ben noto che il tratto caratterizzante dell’imposta sul valore aggiunto è la neutralità, intesa anche nel significato di non incidenza economica sui singoli operatori economici che divengono soggetti passivi dell’imposta. Tale neutralità si realizza attraverso l’obbligo per il soggetto passivo di addebito dell’imposta al cessionario/committente al momento delle cessioni/prestazioni e, soprattutto, mediante la detrazione dell’imposta di cui il soggetto passivo subisce l’addebito in corrispondenza dell’acquisto di beni e servizi. L’esclusione di un operatore economico dall’ambito di applicazione dell’iva, privando lo stesso del diritto di detrazione, lo priva della neutralità e rischia di farlo assimilare a un consumatore finale, il quale è colui che sopporta il peso definitivo del tributo. In realtà dalle indicazioni provenienti dalla sfera europea emerge che il regime speciale per l’agricoltura non è stato pensato per ridurre il peso economico o, all’opposto, garantire vantaggi sostanziali – in termini di minor carico

(8) È questa l’idea che di recente ha ispirato il legislatore fiscale in materia di imposizione diretta sulle imprese agricole. Ai fini IRAP l’impresa agricola è stata quasi del tutto esclusa da imposizione poiché rientrano nel perimetro di imposizione solo le attività di allevamento che superano i limiti previsti dall’art. 32 del TUIR, le attività connesse ex art. 56 bis TUIR e le attività agrituristiche, che comunque determinano la base imponibile secondo il regime forfetario previsto per esse e applicano l’aliquota ridotta del 1,9%. Ai fini IRPEF è stata introdotta (L. n. 232/2016, articolo 1, comma 44) un’esenzione triennale (2017-20182019) del reddito agrario e dominicale per gli imprenditori agricoli professionali iscritti alla previdenza agricola. Più che l’esclusione IRAP, è l’esenzione IRPEF che può generare dubbi di costituzionalità in relazione alla discriminazione relativa alla forma giuridica del soggetto produttore di reddito agrario e dominicale; dubbi solo parzialmente attenuati dal carattere transitorio dell’esenzione.


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tributario o di sussidio fiscale – ai produttori agricoli (9). Piuttosto esso è volto a soddisfare esigenze di semplificazione nell’applicazione del tributo. È noto che nel sistema di applicazione generale dell’iva, all’acquisizione della soggettività passiva si ricollega anche la nascita di obblighi amministrativi in capo al soggetto passivo; obblighi che vanno dalla tenuta di una corretta contabilità iva alla emissione, registrazione e conservazione delle fatture (10), alla predisposizione e invio di comunicazioni periodiche, di una dichiarazione di imposta, ecc. Il convincimento che sta alla base del regime speciale iva per l’agricoltura è che questi obblighi amministrativi siano troppo gravosi per alcuni produttori agricoli e che, in ogni caso, sia la stessa attività agricola a essere poco confacente all’adempimento di obblighi amministrativi complessi. È probabile che sulla scelta di politica legislativa di riservare ai produttori agricoli un regime speciale volto alla semplificazione degli adempimenti abbia inciso la percezione, molto diffusa e probabilmente corretta (se rapportata alla situazione dell’economia europea degli anni ’60 e ’70), di un’attività agricola praticata in maniera rudimentale e con l’impiego prevalente del fattore umano, particolarmente del lavoro personale dell’agricoltore. Una realtà in cui la produzione agricola era molto frammentata, fatta di agricoltori che gestivano realtà produttive di dimensioni contenute, avevano un basso grado di alfabetizzazione e, in generale, si dimostravano poco propensi a soddisfare gli obblighi amministrativi (11). Nell’intenzione del legislatore europeo il regime speciale era, dunque, volto alla soddisfazione di esigenze di semplificazione – in primo luogo am-

(9) La letteratura tributaristica ha colto da tempo questo aspetto ritenendo che il regime speciale iva per i produttori agricoli sia solo “vagamente agevolativo” (R. Lupi, Acquisti senza applicazione dell’IVA da parte di produttori agricoli esportatori: da una risoluzione maldestra a una norma irrazionale, in Riv. Dir. Trib., 1991, III, 632) o che non possa esser definito “a pieno titolo un incentivo fiscale” (A.F. Uricchio, Riflessi fiscali della nuova disciplina del settore agricolo, in Rass. Trib., 2002, 47 ss.). (10) M.D. Corrado, La fatturazione e la contabilità, in L’Imposta sul Valore Aggiunto – Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da F. Tesauro, Torino, 2001, 413 ss. Più di recente, sulla fatturazione, M. Logozzo, L’obbligo di fatturazione nell’iva, Milano, 2005. (11) In questi termini, per le motivazioni che indussero la Commissione ad avanzare la proposta di ex terza direttiva in materia di iva, A. Reis, L’application de la taxe sur la valer ajoutée a l’agricolture de la C.E.E., in Revue du Marche Commun, 1968, 560 ss., ma particolarmente 563-564.


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ministrativa – che il ceto dei produttori agricoli richiedeva al momento della introduzione dell’iva. Del resto, oltre alla particolare “contingenza” storico-sociologica degli anni in cui è stata introdotta l’iva, è indubbio che l’esigenza di semplificazione amministrativa abbia rappresentato una sorta di costante nella disciplina dell’attività agricola, anche negli ambiti di minore “europeizzazione” della normativa. In sede interna essa è chiaramente percepibile in relazione allo statuto civilistico dell’impresa agricola dove, anche dopo la riforma del 2001, persiste l’assenza di un vero e proprio obbligo generalizzato di tenuta delle scritture contabili (12). Sul versante fiscale, poi, la semplificazione per l’attività agricola è diventata sempre più evidente e necessaria con l’affermarsi di tributi basati sul modello dell’autotassazione con presupposti di imposta complessi; tributi la cui attuazione implica una certa attività “amministrativa” a carico del contribuente (13). Se quindi è stata l’esigenza di semplificazione che ha ispirato la costruzione del regime speciale per i produttori agricoli, bisogna rilevare che essa non si è poi affermata in maniera lineare, dovendo confrontarsi con le logiche di fondo dell’iva e, in particolare, con l’aspirazione alla generale neutralità per gli operatori economici (14). Come già in parte anticipato, la piena semplificazione si sostanzierebbe nell’esclusione della soggettività passiva per l’operatore economico e ciò significherebbe, per un verso, esonerarlo dagli obblighi amministrativi connessi all’addebito del tributo e al conseguente versamento dell’imposta, ma al con-

(12) Pur se, per diverse finalità, la tenuta di una contabilità è sovente prevista in forma di “onere” ed è inoltre prevista come “obbligo” quando l’impresa agricola è esercitata in forma societaria (ad eccezione delle società semplici). (13) Emblematico è il caso dell’imposizione sui redditi in cui, pur se intenti latamente agevolativi sono rintracciabili nell’evoluzione della normativa fiscale in materia di reddito agrario, la giustificazione principale del regime catastale è individuata nell’esigenza di semplificazione del settore agricolo. A. Di Pietro, Incongruità del sistema fiscale attuale, in I Georgofili – Quaderni, 2002, II, 156 ss., nonché amplius S. Muleo, Impresa agraria e imposizione reddituale, 2005, passim; F. Piacciaredda, La nozione di reddito agrario, Milano, 2004, passim. (14) È assunto del tutto pacifico che la neutralità rappresenti la cifra essenziale dell’iva, pur se la letteratura di diritto tributario ha messo in luce da tempo come vi sia stata una certa “mitizzazione” di tale principio. A. Berliri, L’iva nella realtà e i suoi miti, in L’imposta sul valore aggiunto. Studi e scritti vari, Milano, 1971, 183 ss. e più di recente A. Mondini, Il principio di neutralità dell’iva tra mito e (perfettibile) realtà, in Principi europei del diritto tributario, a cura di A. Di Pietro e T. Tassani, Padova, 2013, 306 ss.


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tempo negargli la possibilità di detrazione dell’iva assolta sui propri acquisti, facendo venire meno la neutralità. Su questa tensione tra esigenze di semplificazione e garanzia della neutralità è dunque nato e si è sviluppato il regime speciale per i produttori agricoli. La sfida del legislatore è stata quella di contemperare questi due interessi – si noti, entrambi riferibili agli stessi produttori agricoli – per non sacrificare eccessivamente l’uno a scapito dell’altro (15). 3. L’evoluzione normativa europea: dalla laconica previsione di un regime particolare alla Sesta Direttiva (passando per la proposta di terza direttiva). – La previsione di un regime speciale iva per i produttori agricoli è presente nelle disposizioni europee sin dalle prime disposizioni relative a tale imposta (16). Già nella Seconda Direttiva (17), risalente al 1967, si formalizzava (18) la necessità di riservare un trattamento differenziato ai produttori agricoli: all’art. 15, par. 2 si prevedeva la possibilità che gli Stati membri applicassero ai produttori agricoli un regime particolare che “meglio si adatti alle esigenze e alle possibilità nazionali”. Al di là di questa laconica indicazione, è con la successiva proposta di direttiva iva avanzata dalla Commissione Europea, vale a dire la proposta di (ex) terza direttiva (19), che in sede europea si formalizzava il modello di regime speciale iva da applicarsi per i produttori agricoli. Due sono gli obiettivi di fondo nella costruzione del regime speciale da riservare ai produttori agricoli contenuti nella proposta di terza direttiva: (i)

(15) Come la stessa Corte di giustizia ha chiaramente posto in evidenza, il regime speciale “consente… di assicurare la migliore neutralità possibile in considerazione della necessità di conciliare quest’ultima e l’obiettivo di compensazione con l’obiettivo di semplificazione delle regole cui gli agricoltori forfetari sono soggetti, il quale parimenti costituisce uno degli obiettivi del regime forfetario agricolo”. C-524/10 Commissione C. Portogallo, par. 53. (16) Per una più ampia descrizione dell’evoluzione della normativa europea in relazione al trattamento iva dei produttori agricoli, anche oltre il regime speciale, sia consentito il rinvio a G. D’Angelo, Il regime speciale IVA per i produttori agricoli: genesi, evoluzione e ragioni politico-sistematiche, in Dir. Agric., 3, 2018. (17) Direttiva 67/228/CE dell’11 aprile del 1967. (18) Il settimo considerando della Seconda Direttiva affermava che, pur nella istituzione di un sistema generale di imposta sul valore aggiunto, “si è reso necessario prevedere regimi speciali per l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto al settore agricolo ed incaricare la Commissione di sottoporre al Consiglio, non appena possibile, delle proposte a tale scopo”. (19) Pubblicato in G.U.C.E. Del 16 maggio 1968, n. C 48. Si può consultare il testo della proposta di terza direttiva sul sito internet www.eur-lex.europa.eu.


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previsione di una compensazione forfetaria per l’iva corrisposta sugli acquisti (in luogo di una detrazione analitica); (ii) riduzione, fino all’azzeramento, degli adempimenti amministrativi a carico degli stessi. Al posto del modello generale in cui gli operatori economici potevano esercitare la detrazione analitica, immediata e integrale dell’iva assolta sugli acquisti (che implicherebbe la tenuta di una certa contabilità dalla quale risalire analiticamente all’imposta assolta, una liquidazione periodica dell’imposta, un obbligo di dichiarazione, ecc.), si prevedeva (rectius, si proponeva) espressamente la possibilità di optare per un regime speciale basato su un meccanismo di determinazione forfetaria della detrazione. Si proponeva, poi, un meccanismo di applicazione dell’iva in cui le cessioni da parte del produttore agricolo forfetario ad altri soggetti passivi dovevano essere regolarmente gravate di iva (seppure secondo un’aliquota ridotta), con eliminazione delle formalità di fatturazione e/o spostamento delle stesse in capo al cessionario, qualora questi fosse un soggetto passivo (in deroga alla regola generale per cui è il cedente a occuparsi della fatturazione e della applicazione dell’imposta). Il cessionario di prodotti agricoli (o il committente di servizi agricoli) avrebbe dovuto adempiere l’imposta in autofatturazione, versare una quota di imposta al cedente (corrispondente alla percentuale di detrazione) e la restante quota di imposta all’Erario (20). Il produttore agricolo cedente poteva incamerare e trattenere la quota corrisposta dal cessionario. Infine, quanto all’ambito di applicazione, nella proposta di direttiva si intendeva espressamente limitare l’applicazione del regime speciale a quei produttori agricoli per i quali l’applicazione del regime ordinario iva avrebbe potuto dar luogo a difficoltà amministrative, mentre per l’individuazione delle attività agricole, dei prodotti e dei servizi agricoli si faceva riferimento ad elenchi stilati all’uopo e allegati alla proposta stessa. La proposta di ex terza direttiva non venne mai approvata dal Consiglio e, di conseguenza, non è mai entrata in vigore. Tuttavia, il contenuto essenziale di essa venne condensato nell’art. 27 della proposta iniziale di Sesta Direttiva (che divenne poi art. 25 in sede di approvazione finale). È con l’approvazione della Sesta Direttiva che il regime speciale per i produttori agricoli assume in

(20) Sul modello di applicazione dell’iva contenuto nella proposta di terza direttiva, seppure in una prospettiva di tipo finanziario, S. Torcasio, L’imposta sul valore aggiunto in agricoltura, Roma, 1970, 54 ss.


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sede europea una regolamentazione sufficientemente definita, tale da poter consentire l’individuazione di un modello di applicazione dell’imposta alternativo al regime ordinario. Rispetto alla proposta di terza direttiva, il modello di applicazione del regime speciale per i produttori agricoli resta sostanzialmente lo stesso. Viene cioè confermato il meccanismo di base per cui, nell’ambito del regime speciale: - il produttore agricolo può essere esonerato dalla generalità degli obblighi amministrativi relativi all’applicazione dell’iva (fatturazione, liquidazione, tenuta registri, dichiarazione di imposta, ecc.); - il produttore agricolo, alla cessione ad altri soggetti passivi di beni provenienti dalla propria attività agricola, non deve emettere alcuna fattura, né addebitare l’imposta; - gli obblighi di fatturazione per tali cessioni sono posti a carico del cessionario soggetto passivo, che deve inoltre corrispondere al produttore agricolo cedente una somma determinata in percentuale del corrispettivo dell’operazione; - il produttore agricolo non ha diritto di detrazione per l’iva assolta sugli acquisti, ma può trattenere la somma corrispostagli dal cessionario soggetto passivo a titolo di detrazione forfettaria. Nel caso di cessioni a consumatori finali, o ad altri produttori forfetari, non si applica il regime speciale; in questi casi il produttore agricolo tenderà a incorporare nel corrispettivo praticato l’imposta che grava sui relativi acquisti. Quanto all’ambito applicativo, si confermava la limitazione ai produttori agricoli per i quali l’assoggettamento al regime ordinario iva potesse dar luogo a difficoltà amministrative e veniva ripreso integralmente l’elenco delle attività e dei servizi agricoli. Viceversa, non veniva riproposto l’elenco dei prodotti agricoli, i quali erano individuati attraverso il rinvio all’attività agraria. È questo l’assetto del regime speciale per l’agricoltura tuttora vigente in sede europea poiché, dall’approvazione della Sesta Direttiva (21) ad oggi, le disposizioni europee di riferimento sono rimaste immutate. L’art. 25 della Sesta Direttiva è, infatti, confluito negli artt. da 295 a 305 della Direttiva 116/2006 attualmente in vigore.

(21) Si tratta, com’è noto, della Direttiva 77/388/CEE del 17 maggio 1977 non più in vigore in quanto trasfusa nella Direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006 che ne ha però ripreso pressoché integralmente il contenuto.


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4. L’implementazione italiana del regime speciale: la vicenda tormentata dell’art. 34 DPR 633/72 e il (supposto) venire meno della “rendita iva”. L’assetto attuale. – Pur se dalle disposizioni europee è sempre stato chiaro che l’implementazione del regime speciale per i produttori agricoli è una scelta opzionale per i singoli Stati membri, il regime speciale iva è sempre stato presente nella normativa italiana, tanto da essersi ormai radicata l’idea in sede nazionale che si tratti del regime “naturale” dei produttori agricoli. Va anche detto che il regime, in realtà, è sempre stato – anche in conformità al dato normativo europeo – opzionale e, quindi, “rinunciabile”. Il produttore agricolo ha sempre avuto la possibilità di aderire al regime iva ordinario o, avendone i requisiti, ad altro regime speciale (22). In sede interna, il regime speciale per i produttori agricoli ha subito notevoli riscritture e l’attuale versione dell’art. 34 DPR 633/72 è il risultato di plurimi aggiustamenti e stratificazioni normative. Però, tralasciando le varie modifiche che hanno interessato l’ambito applicativo, e volendosi concentrare sul profilo strutturale di questo regime, occorre considerare come spartiacque nell’impianto complessivo del regime la riforma avvenuta nel 1997. Secondo l’impostazione prevalente, il regime speciale per l’agricoltura, per come organizzato fino al 1997 dalla normativa nazionale, era volto a garantire ai produttori agricoli un vero e proprio sussidio, parametrato al loro volume d’affari. Per il tramite del regime speciale si assicurava ai produttori agricoli quella che era comunemente chiamata “rendita iva” (23). In questo sistema il produttore agricolo doveva addebitare ai propri cessionari una somma proporzionale al corrispettivo di vendita, determinata dall’applicazione delle percentuali di compensazione ministeriali fissate in relazione ai prodotti agricoli ceduti. La somma addebitata era formalmente considerata iva (seppure determinata con una percentuale diversa dalle aliquote di imposta) e poteva essere trattenuta integralmente dal produttore agricolo

(22) Anzi, va segnalato che la prassi dell’amministrazione finanziaria e la giurisprudenza nazionale di legittimità, proprio in relazione alla modalità di manifestazione dell’opzione per il regime iva ordinario da parte di un produttore agricolo, hanno abbandonato un atteggiamento formalistico e “documentale” riconoscendo la possibilità di optare attraverso un comportamento concludente dello stesso produttore agricolo. Per la prassi, C.M. n.209/E/98 e per la giurisprudenza di legittimità, Corte di Cassazione n. 20421/2014. (23) R. Perrone Capano, L’imposta sul valore aggiunto, cit., 665, dove l’Autore sostiene che “in realtà l’IVA nei confronti dei produttori agricoli, dei pescatori e delle cooperative costituite tra tali soggetti, funziona nella maggior parte dei casi più come un’imposta negativa che come vero e proprio tributo” (corsivo aggiunto).


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“a titolo di compensazione della mancata detrazione analitica effettuata”. Per converso, il produttore agricolo non aveva un diritto di detrazione analitica dell’iva subita in rivalsa, giacché la somma addebitata e trattenuta sostituiva la detrazione analitica. Il meccanismo applicativo era sostanzialmente analogo alla rivalsa dell’iva: in entrambi i casi il cedente, in occasione delle cessioni di beni, addebitava una somma proporzionale al prezzo. Si può però dubitare che l’applicazione delle percentuali di compensazione fosse da considerare correttamente come un addebito di iva; l’addebito sul cessionario/committente, infatti, non avveniva quale rivalsa di un debito di imposta che gravava l’operazione, e di cui il produttore agricolo era tenuto al pagamento nei confronti dell’Erario, ma rappresentava la compensazione forfetaria della detrazione per l’iva subita in rivalsa dal produttore agricolo al momento degli acquisti. Nell’applicazione di questo sistema nessuna liquidazione e nessun versamento dell’iva erano dovuti da parte del produttore agricolo il quale, apparentemente, incamerava una somma aggiuntiva rispetto al prezzo di cessione, che poteva essere considerata una sorta di pseudo-iva. Limitandosi a un approccio superficiale, effettivamente, la previsione in favore del produttore agricolo dell’obbligo di addebito al cessionario di una somma aggiuntiva rispetto al prezzo – e della possibilità di trattenere tale somma senza mai maturare un debito d’imposta nei confronti dell’erario – induceva a credere che il regime intendesse garantire un “sussidio” in favore del produttore agricolo. È possibile allora che l’espressione “rendita iva” sia nata nella pubblicistica interna da constatazioni “di fatto”, rilevandosi che nella grande maggioranza dei casi il produttore agricolo incamerava somme superiori a quelle di cui avrebbe potuto ottenere la detrazione. Contribuiva inoltre ad alimentare l’idea della natura “assistenziale” dell’iva una non piena considerazione del legame che sussiste tra venir meno del diritto alla detrazione analitica e addebito al cessionario delle percentuali di compensazione. Se tuttavia si ricollega, come è corretto fare, l’addebito delle percentuali di compensazione all’assenza di un diritto di detrazione analitica, ci si rende conto che l’espressione “rendita iva” era frutto di un fraintendimento. Si poteva correttamente parlare – e in certi casi lo si può ancora fare – di rendita iva solo quando l’ammontare delle “compensazioni” risulta superiore all’iva assolta dal produttore agricolo sugli acquisti: circostanza questa che però non dipende dalla presenza o meno di un obbligo di versamento dell’iva in capo al produttore agricolo, ma dalla misura delle percentuali di compensazione e


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dal concreto atteggiarsi dell’attività svolta (24). Si ha correttamente una “rendita iva” se dall’applicazione delle percentuali di compensazione deriva, per il produttore agricolo, una “sovracompensazione” dell’iva assolta a monte e potenzialmente detraibile (25). Il legislatore della riforma è stato possibilmente influenzato da una visione “esteriore” del regime speciale per l’agricoltura e perciò, nell’intento di eliminare gli aspetti legati alla supposta “rendita iva”, ha considerato questa come legata al mancato versamento dell’imposta da parte dei produttori stessi. Così nel 1997 il regime speciale per i produttori agricoli è stato modificato sul versante dell’addebito dell’imposta, prevedendo per i produttori agricoli l’obbligo di addebito dell’iva non più secondo le percentuali di compensazione ministeriali, ma secondo il normale regime di applicazione delle aliquote iva. Con la riforma l’aspetto per il quale il regime per i produttori agricoli si differenzia dal regime ordinario di applicazione dell’iva è così confinato al solo momento della detrazione, per la quale è previsto – e continua a operare – un meccanismo di determinazione “forfetaria” (26). Per la determinazione della detrazione forfetaria si applicano, ad oggi, le percentuali di compensazione determinate dai DD.MM. in relazione ai beni ceduti. In applicazione del regime speciale, il produttore agricolo continua a non esercitare più la detrazione analiticamente determinata, ma secondo per-

(24) Tanto più saranno alte le percentuali di detrazione forfetaria, tanto maggiore sarà la possibilità che si verifichi una “sovracompensazione” dell’imposta di cui l’imprenditore agricolo ha subito la rivalsa dai propri cedenti e prestatori. (25) Aspetto lucidamente colto, già in tempi risalenti, da L. Carpentieri, Spetta la detrazione iva sugli acquisti da produttori agricoli esonerati ?, in Riv. Dir. Trib., 1991, II, 487 ss. L’Autrice afferma: “Il regime IVA tratteggiato dal legislatore per i produttori agricoli e ittici non sembra quindi molto complesso: questi soggetti, indipendentemente dal volume d’affari realizzato, non diventano mai debitori d’imposta, per via dell’equiparazione normativa tra imposta sulle vendite e imposta sugli acquisti. Il risultato pratico di questo meccanismo è che produttori agricoli (o i pescatori) incamerano la differenza tra IVA addebitata ai clienti e IVA effettivamente assolta sugli acquisti” precisando poi in nota che “Evidentemente, l’agevolazione per i produttori agricoli in regime speciale aumenta man mano che aumenta la differenza positiva tra IVA incamerata sulle cessioni e IVA assolta sugli acquisiti, mentre diminuisce nell’ipotesi di rilevanti acquisti di beni strumentali effettuati nel corso dell’anno, quando l’imposta risultante dalle fatture di acquisto superi quella sugli acquisti detraibile”. (26) Sulla riforma del 1997 del regime speciale, amplius G. Porcaro, I regimi speciali IVA – A) L’agricoltura, in Commento agli interventi di riforma tributaria, a cura di M. Miccinesi, Padova, 1999, 202. Sul regime speciale prima del 2001, A. Benazzi, L’agricoltura, in L’imposta sul valore aggiunto – Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da F. Tesauro, Torino, 2001, 359 ss.


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centuali applicate sulla base imponibile delle singole operazioni attive di cessione e/o prestazione di servizi. Per ogni operazione di cessione o prestazione di servizi posta in essere, il produttore agricolo matura un diritto di detrazione calcolata in ragione dell’applicazione delle percentuali di compensazione alla base imponibile dell’operazione realizzata (27). Pertanto, egli è debitore nei confronti dell’erario solo della differenza derivante tra l’imposta addebitata (in occasione delle cessioni) e la detrazione forfetariamente determinata (28). Va però precisato che, pur dopo la riforma del 1997, l’applicazione delle (sole) percentuali di compensazione (al posto delle aliquote di imposta) alle operazioni compiute continua a permanere in due casi. Continuano ad applicarsi le sole percentuali di compensazione: (i) ai conferimenti di prodotti agricoli dai soci alle cooperative agricole, o a un ente associativo tra produttori

(27) È ciò anche nel caso in cui l’operazione, pur rilevante ai fini dell’iva, non preveda l’addebito dell’imposta, come nel caso delle cessioni all’esportazione o nel caso delle cessioni intracomunitarie, come noto considerate operazioni “non imponibili”. In questi casi, la pubblicistica interna e la prassi dell’Amministrazione sono solite parlare di “iva teorica”, dal momento che la disposizione rilevante (c.9 dell’art. 34 del DPR 633/72), stabilisce che per queste operazioni “compete la detrazione o il rimborso di un importo calcolato mediate l’applicazione delle percentuali di compensazione che sarebbero applicabili per analoghe operazioni effettuate nel territorio dello Stato”. Si veda, C. Fontana, La fiscalità, cit., 402 ss. e per la prassi dell’Amministrazione, Circolare del 24/12/1997 n. 328 – Min. Finanze – Dip. Entrate Aff. Giuridici Serv. III. L’espressione “iva teorica” è probabilmente frutto anch’essa del retaggio che vuole la detrazione dell’iva a monte collegata all’addebito dell’iva a valle: siccome nel caso delle operazioni “non imponibili” non c’è imposta addebitata a valle, si deve assumere per il calcolo della detrazione l’iva che “teoricamente” graverebbe sull’operazione se questa fosse svolta nel territorio dello Stato. Ma si tratta di un espediente linguistico, dal momento che la detrazione forfetaria è giuridicamente sganciata dalla applicazione dell’iva a valle e, nel caso del regime speciale, si determina attraverso l’applicazione (non delle aliquote di iva, ma) delle percentuali di compensazione ai corrispettivi delle cessioni non imponibili. Non è dunque l’“iva teorica” ad essere oggetto di detrazione, ma si può solo dire che in presenza di cessioni “non imponibili” la detrazione si determina con un calcolo basato sulla applicazione delle percentuali di compensazione ai corrispettivi delle cessioni. Ciò che effettivamente caratterizza le operazioni di cessione di beni “non imponibili” nel regime speciale dei produttori agricoli è che la compensazione per la detrazione forfetaria non viene “addebitata” al cessionario, ma direttamente computata in detrazione e, eventualmente, a rimborso. (28) È ovvio che, nel caso in cui vi fosse coincidenza tra l’aliquota di imposta e percentuale di compensazione, nulla sarebbe dovuto all’Erario dal produttore agricolo. Ad esempio, attualmente ciò avviene per le cessioni di latte, e dei suoi derivati, non confezionati per la vendita al minuto, per le quali la percentuale di compensazione è fissata al 10% come l’aliquota di applicazione dell’imposta.


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agricoli; (ii) alle operazioni svolte da produttori agricoli minimi nei confronti di soggetti passivi iva. 5. La centralità delle percentuali di compensazione. – Prima di passare ai requisiti soggettivi e oggettivi per la fruizione del regime speciale è opportuno soffermarsi sulle percentuali di forfettizzazione per ribadire il ruolo centrale che esse rivestono nell’applicazione del regime forfetario per i produttori agricoli. Si è visto che proprio attraverso la fissazione di queste, in passato, il regime ha avuto il ruolo di mezzo tecnico per garantire un “sussidio iva” al comparto agricolo. Ciò si verificava quando le percentuali di compensazione (cioè di detrazione forfetaria) venivano fissate “al rialzo”, in maniera da garantire ai produttori agricoli forfetari una sistematica sovracompensazione (iperdetrazione) dell’imposta assolta a monte. Certamente, anche nell’attuale assetto, non può esser esclusa la presenza di produttori svantaggiati (in termini di minore compensazione rispetto all’imposta in detrazione) dall’applicazione del regime speciale a fronte di produttori che, invece, dall’applicazione del regime speciale traggono vantaggi (in termini di sovracompensazione dell’imposta). Ciò è insito nella logica di tutti i sistemi di determinazione forfetaria dell’imposta dove prevalgono le esigenze di semplificazione: nel caso del regime speciale iva per i produttori agricoli il bisogno di semplificazione prevale sulla analiticità della detrazione e quindi, in ultima analisi, sulla neutralità del tributo, pur non sacrificandola in maniera significativa. Se si guarda al sistema nel suo complesso sembra allora che il “punto centrale” a garanzia dell’equilibrio tra semplificazione e neutralità (29) sia proprio il momento di determinazione delle percentuali di compensazione. È, infatti, la determinazione di queste percentuali che garantisce una detrazione che, con riferimento all’insieme dei produttori agricoli, deve esser quanto più possibile corrispondente al totale dell’imposta che i produttori agricoli forfetari hanno assolto sui loro acquisti.

(29) Non è casuale che la prima procedura di infrazione iniziata dalla Commissione europea in relazione alla errata implementazione del regime per i produttori agricoli, sia stata fondata proprio sul mancato rispetto da parte dell’Italia delle regole europee di fissazione delle percentuali di compensazione, e sia sfociata nella sentenza C-3/86 Commissione c. Italia.


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Nell’esperienza interna, forse per una sorta di confusione concettuale, si tende ad assimilare la fissazione delle percentuali di compensazione alla fissazione delle aliquote iva, considerando entrambe scelte politiche e legate a valutazioni di finanza pubblica (30). Infatti, le percentuali di compensazione forfetaria sono fissate con atto normativo del parlamento il quale “autorizza” gli organi esecutivi – il Ministero dell’Economia e Finanze – ad apportare le relative modifiche al Decreto Ministeriale di fissazione delle percentuali, determinando la soglia massima cui possono esser fissate le percentuali stesse (31). Tuttavia, da un punto di vista del funzionamento del regime speciale, si possono esprimere dubbi sulla correttezza di questa impostazione. La determinazione delle percentuali di compensazione per il settore agricolo – una volta che lo Stato membro abbia deciso di implementare il regime forfetario – è connotata da aspetti tecnici e le percentuali discendono automaticamente dalla elaborazione di dati macroeconomici (32). Ciò non è in contrasto con il carattere opzionale dell’implementazione del regime fiscale:

(30) Quest’ultimo aspetto è apparso in tutta la sua evidenza negli ultimi anni dove appunto le aliquote dell’imposta sul valore aggiunto (assieme alle accise) sono diventate lo strumento cardine per la predisposizione delle cc.dd. “clausole di salvaguardia”. Su questi temi, F. Gallo, Nuovi profili dell’imposta sul valore aggiunto: verso una disciplina definitiva, in Dir. Prat. Trib., 2018, 1873 ss. (31) Tra gli ultimi “ritocchi” alle percentuali di compensazione vi è quello autorizzato dalla L. 27 dicembre 2017, n. 2015, (Legge Bilancio 2018), art. 1 c. 506 per cui “con decreto ... da adottare entro il 31 gennaio di ciascuna delle annualità 2018, 2019 e 2020 ... le percentuali di compensazione applicabili agli animali vivi delle specie bovina e suina sono innalzate, per ciascuna delle annualità 2018, 2019 e 2020, rispettivamente in misura non superiore al 7,7 per cento e all’8 per cento”. Con il Decreto 2.2.2018, pubblicato sulla G.U. 17.3.2018, n. 64, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha provveduto a eseguire questa disposizione, mantenendo gli innalzamenti al 7,65% e al 7,95% per le cessioni di animali vivi della specie bovina e suina. Peraltro, la recentissima Legge di Bilancio 2019 Legge di Bilancio per il 2019 ha utilizzato una tecnica nuova di autorizzazione alla revisione delle percentuali di compensazione. Infatti, il comma 662 dell’articolo unico della Legge 30 dicembre 2018 n. 145 autorizza l’innalzamento delle percentuale di compensazione applicabili alle cessioni di legno e alla legna da ardere, “nel limite massimo di spesa di 1 milione di euro annui a decorrere dall’anno 2019”, rendendo oltremodo evidente l’idea che la fissazione delle percentuali di compensazione, nella prospettiva del legislatore italiano, è un momento legato a scelte politicofinanziarie e non discende automaticamente da valutazioni tecniche. (32) Come ha ricordato la Corte di giustizia nel caso C-3/86, Commissione c. Italia, “I dati macroeconomici relativi ai soli agricoltori forfetari, cui si riferisce la disposizione summenzionata, comprendono le entrate (consumo intermedio e formazione lorda di capitale fisso) e le uscite (produzione finale ivi compreso l’autoconsumo), nonché l’importo totale delle imposte relative alle entrate. Le percentuali forfetarie di compensazione sono ottenute dividendo questo importo per le uscite”.


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se, in generale, la scelta in ordine all’introduzione del regime speciale per l’attività agricola resta nella disponibilità dei singoli Stati membri, non si possono però ammettere normative interne che, nell’implementazione di questo, ne travisino struttura e finalità. La procedura scelta dallo Stato italiano appare inutilmente connotata da aspetti politico-discrezionali, mentre più semplicemente la fissazione di percentuali di detrazione forfetaria potrebbe avvenire regolarmente, sulla base dell’analisi dei dati macroeconomici, da parte di organi tecnici. 6. L’ambito di applicazione del regime. Le nozioni di base: produttore agricolo, prodotti e servizi agricoli. – Venendo all’ambito di applicazione del regime speciale per l’agricoltura, l’approccio prevalente che si ritrova nella letteratura e nella prassi amministrativa si articola seguendo la distinzione tradizionale tra presupposto soggettivo e presupposto oggettivo. Il primo attiene alla corretta comprensione della nozione di produttore agricolo che può beneficiare del regime forfetario, mentre il secondo attiene alla identificazione delle operazioni (cessioni di beni e prestazioni di servizi) che rientrano nel regime speciale. Questa impostazione tralatizia non è forse esente da critiche, poiché la moderna letteratura sull’iva ha messo in chiaro che anche il presupposto soggettivo nell’imposta sul valore aggiunto deve essere declinato in relazione all’attività economica svolta, prescindendo dalla caratterizzazione soggettiva del centro di imputazione (33). Essa, tuttavia, vale a dare il senso della complessità e del carattere cumulativo dei presup-

(33) Sulla soggettività iva si veda l’ampio saggio di A. Contrino, Incertezze e punti fermi sul presupposto soggettivo dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. Prat. Trib., 2011, 535 ss., più di recente A. Comelli, Nuovi profili della soggettività passiva ai fini dell’iva, in Per un nuovo ordinamento tributario, Atti preparatori del convegno di Genova, 14-15 ottobre 2016, Vol. I, 256 ss. Nell’impostazione per cui l’iva si ricollega più che al soggetto, all’attività che esso svolge, tale per cui la forma giuridica del centro di imputazione dell’attività non reagisce, se non attraverso meccanismi presuntivi, sull’applicazione dell’imposta, già A. Fedele, Struttura dell’impresa e vicende dell’azienda nell’iva e nell’imposta di registro, in Aa.Vv., La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale, Atti del convegno di Sanremo (21-23 marzo 1980), Padova, 1981, 145 ss., nonché L. Cecamore, L’imprenditore come soggetto passivo, relazione al convegno tenutosi a Roma il 9 febbr. 1975, in Gli aspetti giuridici ed economici dell’IVA, Milano, 1973, 48 ss. In generale, per una visione moderna della soggettività tributaria, spostata su criteri oggettivi, A. Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, passim, nonché S. Fiorentino, Contributo allo studio della soggettività tributaria, Napoli, 2000, particolarmente 134 ss. sui principali problemi posti dalla soggettività iva.


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posti per la fruizione del regime speciale, che hanno avuto conferme nella giurisprudenza europea (34). Quanto al requisito “soggettivo”, l’art. 34 del DPR 633/72 individua il produttore agricolo come beneficiario del regime, trasponendo nel diritto interno la stessa espressione presente nella Direttiva europea. Precisa poi che sono produttori agricoli i soggetti che esercitano le attività indicate nell’art. 2135 c.c. e coloro che esercitano attività ittiche (35). La disposizione fiscale opera quindi un rinvio pieno alle attività che il codice civile indica come proprie dell’imprenditore agricolo e, in considerazione di ciò, la letteratura, la prassi amministrativa e la giurisprudenza interne, in maniera pressoché unanime (36), ritengono che vi sia una sostanziale coincidenza tra la nozione di produttore agricolo individuata dall’art. 34

(34) C-312/02 Harbs, par. 31 dove è stato chiarito che il legislatore europeo “non ha inteso basare l’applicazione del detto regime su un unico criterio attinente alla qualità formale di produttore agricolo, bensì ha riservato la detta applicazione ai produttori agricoli la cui situazione è definita dall’insieme delle disposizioni dell’art. 25 della sesta direttiva. La mera circostanza di essere un produttore agricolo non permette, perciò, di pretendere l’applicazione di tale regime in ogni caso, qualunque sia la natura delle operazioni economiche realizzate”. (35) In particolare, rientrano nella nozione di produttore agricolo ai sensi dell’art. 34 DPR 633/72 coloro che “esercitano attività di pesca in acque dolci, di piscicoltura, di mitilicoltura, di ostricoltura e di coltura di altri molluschi e crostacei, nonché di allevamento di rane” Questa elencazione delle attività rappresenta una riproposizione pedissequa di quanto, in relazione alle attività ittiche, è contenuto nell’allegato VII alla Direttiva. Si noti però che la definizione di imprenditore ittico attualmente presente nell’ordinamento interno copre un ambito più ampio, inclusivo non solo dell’attività di pesca in acque dolci, ma anche dell’attività di pesca professionale in acque salmastre e marine, e delle relative attività connesse ai sensi dell’art. 4 d.lgs. 4/2012 (che ha sostituito l’art. 2 del d.lgs 226/2001), figura equiparata all’imprenditore agricolo, ai sensi dello stesso articolo: “Fatte salve le più favorevoli disposizioni di legge di settore, all’imprenditore ittico si applicano le disposizioni previste per l’imprenditore agricolo”. Ai fini che qui interessano, il problema si pone per la pesca marittima che non rientra tra le attività previste dall’art. 34 DPR/633/72 e perciò deve considerarsi esclusa dalla applicazione del regime speciale. In questo senso milita anche il precedente normativo di cui all’art. 5, comma 1-sexies del d.l. 2/06, convertito in Legge 81/06, con il quale si estendeva in via sperimentale alle attività di pesca marittima il regime speciale iva. Tuttavia, questa previsione non ha mai trovato concreta applicazione poiché i decreti ministeriali relativi alla determinazione delle percentuali di compensazione non sono stati mai emanati. (36) Particolarmente chiaro nel distinguere l’approccio alla nozione di attività agricola nell’iva dalla nozione di attività agricola nelle imposte sui redditi, G. Porcaro, Le “attività connesse” nel nuovo regime speciale per l’agricoltura, in Corr. Trib., 1998, 809 ss., ma si tratta di un’idea piuttosto comune. Per ulteriori riferimenti bibliografici, C. Ricci, sub Art. 34, DPR 633/1972, in Commentario breve alle leggi tributarie – Tomo IV – Iva e imposte sui trasferimenti, a cura di G. Marongiu, Padova, 2011.


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DPR 633/72 e quella civilistica di imprenditore agricolo ex art. 2135 c.c. (37). Come conseguenza di ciò è anche generalmente accettata l’idea che la riforma dell’impresa agricola avvenuta nel 2001, con la nota adesione del legislatore civilistico al criterio della cura del ciclo biologico, abbia comportato un allargamento della nozione di produttore agricolo beneficiario del regime speciale iva, considerandosi il rinvio effettuato dall’art. 34 del DPR 633/72 all’art. 2135 c.c. come rinvio mobile (38). Dunque, l’individuazione delle attività rientranti nel regime speciale iva avviene seguendo le indicazioni civilistiche che sono state elaborate prevalentemente dalla moderna agraristica. Si ritengono attività del produttore agricolo in primo luogo le attività agricole essenziali, vale a dire le attività di coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento (39), da intendersi come attività di cura di un ciclo biologico e a condizione che l’attività (i) possa essere svolta

(37) Il riferimento alle attività indicate nell’art. 2135 c.c. non è sempre stato presente nel testo dell’art. 34 dpr 633/72, ed anzi è stato introdotto in tale articolo solo a seguito del recepimento della Sesta Direttiva. Secondo Circolare Assonime 5 giugno 1973, n. 101 – Principi e criteri d’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, l’espresso riferimento, nella prima versione dell’art. 34 del DPR 633/72, al “produttore agricolo” invece che all’ “impresa agricola” era da considerarsi frutto di una scelta deliberata dal momento che il legislatore delegato non seguì l’indicazione contenuta in un primo tempo nell’elaborato trasmesso alla commissione parlamentare competente, in cui si faceva riferimento all’impresa agricola. Questa scelta, peraltro, non sarebbe stata priva di significato. Con essa il legislatore delegato avrebbe inteso introdurre una nozione obiettiva e più facilmente determinabile di attività rientrante nel regime speciale, evitando il ricorso all’art. 2135 c.c. che avrebbe comportato valutazioni circa la “normalità” dell’attività agricola e della tecnica che la governa. (38) A.F. Uricchio, Riflessi fiscali, cit., 47 e nello stesso ordine di idee, S. Muleo, I vivaisti: imprenditori agrari o imprenditori commerciali?, in Agr., 2009, 15 ss., nota in parte adesiva e in parte critica a Cass. Cassazione Civile Sez. V 18-12-2008 (24-10-2008) n. 29636. (39) Per lo svolgimento di attività “connesse”, pur attratte all’ambito dell’agrarietà, si veda il paragrafo successivo.


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anche sul fondo (40), e che (ii) attenga quantomeno allo sviluppo di una fase necessaria del ciclo biologico stesso (41). La soluzione interpretativa della coincidenza tra le nozioni di “produttore agricolo” e “imprenditore agricolo civilistico” trova i suoi principali argomenti nel dato testuale e, soprattutto, si nutre del confronto con la nozione di attività agricola per la determinazione del reddito agrario, sancita nell’art. 32 del TUIR (42). Effettivamente, anche nel sistema dell’imposizione sui redditi agrari la norma fiscale ha operato un rinvio alla nozione codicistica di impresa agricola, ma ha poi posto diverse condizioni e limiti alla possibilità che l’attività agricola si consideri produttiva di reddito agrario (43). Nella normativa

(40) Sono quindi considerate agricole anche le colture idroponiche, purché attengano a vegetali coltivabili anche sul fondo. Anche l’attività ortoflorovivasistica è ormai ricompresa nel novero delle attività agricole, a condizione che per le piante e i fiori recisi si realizzi almeno una fase del ciclo biologico. Così come pure l’attività di acquisto e la rivendita di animali rientra nell’attività agricola a condizione che la permanenza presso l’azienda non sia funzionale esclusivamente alla commercializzazione. Per una elencazione più diffusa delle attività rientranti nel regime speciale C. Fontana, La fiscalità, cit., 354 ss. dove riferimenti anche alla pubblicistica applicativa e alle pronunce giurisprudenziali in cui sono stati affrontati i casi dubbi. Bisogna comunque prestare attenzione a non confondere il profilo dell’attività agricola con quello “merceologico” dei prodotti che possono beneficiare del regime; ad es. l’attività di allevamento e vendita di animali è di per sé inclusa nelle attività agricole, solo che seguendo la Tabella A – prima parte – allegata al DPR 633/72, in alcuni casi le cessioni rientrano nel regime speciale sia che si cedano animali vivi, sia che si cedano le carni macellate (animali da cortile), mentre in altri casi rientrano solo se oggetto della cessione sono gli animali vivi (bovini, suini…). (41) La letteratura agrarista insiste nel valorizzare queste due condizioni quali limiti invalicabili dell’agrarietà, pena una dilatazione incontrollata e incontrollabile della nozione di impresa agricola che, prevedibilmente, porterebbe al venir meno della stessa ragion d’essere dell’intera materia agraria. Per altro verso, l’allargamento abnorme della platea dei soggetti beneficiari di protezione renderebbe impossibile garantire questa a tutti. Per un’esposizione critica e ragionata degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in relazione alla nozione di impresa agricola, a 10 anni dalla riforma del 2001, I. Canfora, L’impresa agricola nell’interpretazione della giurisprudenza di cassazione dopo la riforma del 2001, in Riv. Dir. Agr., 2011, 217 ss. (42) È ormai dato per scontato che vi sia una disomogeneità nella nozione di impresa agricola anche all’interno della materia fiscale e che la nozione di impresa agricola ai fini della qualificazione del reddito agrario sia più ristretta rispetto a quella di attività agricola ai fini dell’applicazione generale dell’iva. A. Fantozzi, Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e nell’iva, Milano, 1982, D. Stevanato, Inizio e cessazione, cit., 80, si veda poi la nota successiva per ulteriori approfondimenti. (43) In particolare, il legislatore fiscale ha voluto mantenere per la produzione di reddito agrario un certo legame con il fattore terra, ponendo dei limiti a quelle attività che pure potrebbero svolgersi senza l’ausilio del suolo. In particolare, l’art. 32 TUIR prevede che le


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in materia di iva, invece, il rinvio operato alle attività previste dall’art. 2135 c.c. è un rinvio “puro”, scevro da “precisazioni” fiscali. Ciò ha spinto a pensare che il legislatore fiscale abbia voluto, nel settore dell’iva e in riferimento al campo di applicazione del regime speciale, rinunciare a una declinazione fiscale dell’attività agricola, adoperando il concetto di imprenditore agricolo tal quale esso è definito nel campo civilistico. Peraltro, anche se si muove da una valorizzazione della tecnica di rinvio utilizzata nell’art. 34 DPR 633/72, non si può che concludere nel medesimo senso. Il riferimento compiuto nella disposizione fiscale è, infatti, alle “attività indicate nell’art. 2135 c.c.”, ed è facile concludere che con tale rinvio il legislatore abbia inteso realizzare un’economia di scrittura e che, quindi, la nozione di produttore agricolo cui fa riferimento l’art. 34 DPR 633/72 coincida con quella di imprenditore agricolo ex art. 2135 c.c. Tuttavia, la derivazione della disciplina interna iva da quella europea potrebbe condurre l’interprete ad alcune precisazioni in ordine a tale soluzione largamente prevalente. Sul piano storico-normativo la volontà del legislatore italiano di conformare la nozione di produttore agricolo iva alle indicazioni contenute nella Direttiva è evidente. Oltre alle espresse indicazioni che si ricavano dai lavori preparatori dell’intero DPR 633/72 (44), è inequivoco l’inserimento, nell’art.

attività di allevamento di animali sono considerate produttive di reddito agrario se il mangime utilizzato è ottenibile almeno per un quarto dal terreno, mentre per le coltivazioni in serra (attività dirette alla produzione di vegetali tramite strutture fisse o mobili), la superficie adibita alla produzione non deve eccedere il doppio di quella su cui la produzione stessa insiste. Su questi temi amplius S. Muleo, Impresa agraria, cit., 49 ss. e particolarmente 53-54. In generale, tutta la trattazione dell’Autore muove dalla constatazione di una divaricazione tra nozione civilistica e fiscale (rectius, ai fini della produzione del reddito agrario) di impresa agricola, ed è volta a valutare l’opportunità, e forse si potrebbe dire la proporzionalità, di tale divaricazione che, con la novella del 2001 dell’art. 2135 cc. e le modifiche al TUIR, è senz’altro aumentata. Aderisce a questa impostazione anche M. Interdonato, L’impresa agricola e il sostegno comunitario all’agricoltura. Trattamento tributario, Padova, 2006, 1 ss., ma particolarmente 12, per il quale sarebbe il criterio di determinazione del reddito agrario su base catastale ad impedire una nozione fiscale di impresa agraria sganciata da un certo collegamento con il fattore “terra”, collegamento che invece è divenuto molto “tenue”, se non del tutto eventuale, nella nozione civilistica di impresa agricola a seguito della riforma del 2001 dell’art. 2135 c.c. Con toni più sfumati, F. Picciaredda, La nozione di reddito agrario, cit., 310, secondo cui, pur a seguito della rivisitazione operata sull’art. 32 TUIR, resta comunque una qual certa disomogeneità tra la disciplina tributaria e quella recata dall’art. 2135 c.c. (44) Nella relazione di accompagnamento alla prima introduzione del D.P.R. 633/72, in relazione all’art. 34, si fa presente la necessità di dare con tale articolo implementazione all’art.


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34, anche delle attività della pesca fin dalla prima versione del DPR 633/72: ciò proprio al fine di replicare l’elencazione delle attività agricole contenuta dalla Direttiva e nonostante le attività ittiche, al momento della prima introduzione dell’iva, fossero pacificamente considerate estranee alla nozione civilistica di imprenditore agricolo (45). Anche la Direttiva definisce la nozione di produttore agricolo attraverso il riferimento alle attività agricole, inserite in un elenco (contenuto nell’allegato VI) che, con l’aggiunta delle attività ittiche, tende a ricalcare le attività agricole essenziali elencate nell’art. 2135 c.c. Stando così le cose, il principale problema che deve porsi l’interprete è comprendere se l’elencazione interna delle attività agricole sia coerente con l’analoga elencazione contenuta nell’allegato alla Direttiva. In questa direzione di indagine si deve segnalare che, a seguito della riforma del 2001, sono sempre più probabili “disallinemanti” tra l’elencazione europea e quella interna delle attività agricole man mano che il legislatore interno allarga l’area dell’agrarietà attraverso l’aggiunta di ipotesi di “connessione” ex lege, o di agrarietà “extracodicistica” (46). Tali previsioni riconducono all’agrarietà alcune attività che tradizionalmente e sociologicamente sono considerate non agrarie e che, in alcuni casi, appaiono molto distanti dal criterio del ciclo biologico assunto nel nostro ordinamento a fondamento dell’attività agricola (47).

15 della Seconda Direttiva, tenendo inoltre presente le indicazioni provenienti dalla proposta di terza direttiva che era stata formalmente avanzata dalla Commissione europea, ma che poi non venne mai approvata. Cfr. Camera dei Deputati, Segretariato generale, L’Imposta sul Valore Aggiunto. Lavori preparatori e norme di attuazione, in Quaderni di studi e legislazione, Roma, 1973, 381 ss. (45) Cioè, per l’imprenditore ittico è sempre stato possibile accedere al regime speciale iva “per i produttori agricoli” mentre è noto che, da un punto di vista dello statuto civilistico, l’attività ittica è stata inclusa nel perimetro delle attività agricole solo con la riforma del 2001. Tra i più recenti contributi, e con ampi riferimenti all’evoluzione giuridica della figura e della regolamentazione dell’imprenditore ittico, F. Bruno, L’imprenditore ittico tra agrarietà e specialità dello statuto (La riforma del 2012), in Riv. Dir. Agr., 2013. (46) Tra le ultime, in ordine temporale, si può segnalare la riconduzione delle attività di “enoturismo” nell’ambito del regime speciale previsto per le attività agrituristiche, ad opera della L. Legge n. 205 del 27 dicembre 2017, comma 503. Per una catalogazione, commentata e ragionata, delle attività che negli ultimi decenni sono state ricondotte dal legislatore all’impresa agricola, G. Scaglia - P. Spolaore, …Mi ritrovai per una selva oscura: l’impresa agricola?, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2014, 221 ss. (47) Si pensi alle attività di produzione di energia che la Legge n. 266 del 2005, articolo 1, comma 423 ha espressamente fatto rientrare tra le attività connesse, ma che sono attività


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La necessità di leggere le disposizioni interne alla luce delle definizioni europee interessa, ovviamente, non solo la nozione di produttore agricolo, ma anche le altre nozioni di base che disegnano il campo di applicazione del regime speciale. In particolare, interessa l’identificazione delle operazioni di cessione di beni e delle prestazioni di servizi che possono venire ricomprese nell’ambito del regime. Quanto alle prime, la normativa interna limita l’applicazione del regime speciale alla cessione dei beni espressamente elencati nella Tabella A, Parte I allegata al DPR 633/72 e suddivisi per categorie merceologiche. Questa limitazione è oggetto di un’interpretazione piuttosto rigorosa da parte dell’Amministrazione interna, la quale è attestata su posizioni che escludono la possibilità che operazioni di cessioni di beni non previsti dalla Tabella A, Parte I possano rientrare nel regime speciale, seppure provenienti da un’attività indiscutibilmente agricola. A tal proposito sembra che, pur prescindendo dalle incoerenze contenute nella elencazione dei prodotti e dalle esclusioni apparentemente ingiustificate (48), il confronto con le disposizioni europee potrebbe portare ad ammorbidire la posizione rigida assunta dall’Amministrazione. L’art. 295 della Direttiva, infatti, per l’individuazione della nozione di prodotto agricolo, non rinvia a un’elencazione degli stessi, ma fa riferimento allo svolgimento delle attività agricole contenute nell’allegato VII alla Direttiva: sono da considerarsi prodotti agricoli quelli che rappresentano l’esito produttivo di un’attività considerata agricola. Riprendendo quanto si è detto sopra in riferimento alla genesi storica delle disposizioni europee si può pensare che l’elencazione dei prodotti contenuta nella proposta di terza direttiva sia stato il frutto dell’aspirazione del legislatore europeo ad una “razionalizzazione/precisazione” di quelli che, all’epoca (anni Sessanta), erano i prodotti generalmente ottenuti dal “normale” esercizio dell’attività agricola. Ma lo stesso legislatore europeo, in sede di approvazione della Sesta Direttiva, si è poi reso conto della rigidità di questo approccio “per elencazione merceologica” e ha quindi optato per una nozione aperta di prodotto agricolo.

lontane dalla nozione tradizionale di agrarietà per come sociologicamente percepita. (48) A titolo di esempio, non si comprende perché le cessioni di carni di animali di piccola taglia (es. volatili da cortile, conigli ecc.) rientrino nel regime speciale, mentre la cessione di carni di animali di grossa taglia (es. bovini, suini, caprini ecc.) ne sia esclusa. Ciò è ancor più incomprensibile se si considera che la cessione di tutti questi animali vivi rientra nel regime, siano essi di piccola che di grossa taglia.


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La lungimiranza del legislatore europeo è apparsa evidente dal momento che l’ambito dell’attività agricola si è nel tempo notevolmente allargato; a fronte di questo allargamento, l’approccio statico alla elencazione dei prodotti appare anacronistico e finisce per essere un ingiustificato ingessamento della specialità iva della produzione agricola. Rispetto all’elencazione merceologica presente nella normativa interna la stessa tecnica normativa adottata poi in sede europea è più elastica perché, agganciando la definizione di prodotti agricoli alle attività agricole, impone di intendere questi alla luce della evoluzione di tale nozione. La considerazione delle disposizioni europee potrebbe dunque indurre l’interprete interno ad abbandonare la lettura rigida, statica e merceologica dei prodotti agricoli (per la fruizione del regime speciale iva) (49) elencati nella Tabella A, Parte I, quantomeno alla luce di quelle attività che oggi sono considerate agricole ma che all’epoca della redazione della tabella erano pacificamente escluse dall’ambito dell’agrarietà. All’opposto, per le prestazioni di servizi agricoli suscettibili di esser apprese al regime speciale, è la Direttiva europea a utilizzare la tecnica della elencazione (50), identificando puntualmente le prestazioni di servizi che, qualora rese dal produttore agricolo con l’utilizzo prevalente delle attrezzature facenti parte della sua azienda agricola, rientrano nel campo di applicazione del regime speciale. La normativa iva interna, invece, non si occupa direttamente della definizione dei servizi agricoli; ciò, probabilmente, in ragione del fatto che fino al 2001 si tendeva a considerare l’impresa agricola come volta prevalentemente alla produzione e alla cessione di prodotti agricoli (51).

(49) Sembra dunque paradossale la posizione dell’Amministrazione finanziaria (cfr. Circ. Agenzia delle Entrate, n. 6 del 16 febbraio 2005) condivisa da una certa pubblicistica di diritto interno (P. Centore, sub art. 34 bis, in Codice IVA Nazionale e Comunitaria Commentato, a cura di P. Centore, Milano, 2015, 1224), che ha invocato l’argomento dell’interpretazione conforme al diritto europeo per escludere che il regime speciale trovi applicazione anche a cessioni di beni diversi da quelli espressamente indicati nella Tabella A, Parte I. (50) Elenco che è contenuto nell’allegato VII dell’attuale Direttiva 112/2006. (51) Va comunque precisato che, pur nel vigore dell’art. 2135 c.c. nella sua formulazione orginaria si consideravano rientranti tra le attività connesse cc.dd. “atipiche” alcune attività di servizi, come forme di contoterzismo, quali ad esempio quelle volte alla fornitura di servizi di monta taurina. Si veda R. Alessi - G. Pisciotta, L’impresa agricola, Art. 2135 c.c., in Il Codice Civile – Commentario diretto da D. Busnelli, seconda edizione, Milano, 2010, 184 ss. dove peraltro si individuano, in alcune risalenti pronunce giurisprudenziali relative al contoterzismo, i prodromi giurisprudenziali per la successiva affermazione normativa della identificazione delle attività connesse secondo la funzione di integrazione dell’attività agricola essenziale. Va poi precisato che la L. 730/1985 aveva già da tempo esteso la qualificazione


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Solo con la riscrittura nel 2001 dell’art. 2135 c.c. si è espressamente previsto che l’attività propria dell’impresa agricola potesse esser volta anche alla fornitura di servizi, con la precisione che tali servizi non possono essere però l’esito dello svolgimento di un’attività agricola principale (coltivazione del fondo, allevamento, silvicoltura). Essi, infatti, vengono inclusi nel campo dell’agrarietà solo quali esito di un’attività connessa (all’attività agricola essenziale), con i relativi limiti di prevalenza, temperata dalla normalità. Ciò ha un’indubbia rilevanza ai fini del regime speciale, perché il legislatore interno ha introdotto per le attività agricole connesse un regime speciale ulteriormente differenziato rispetto al regime speciale previsto dall’art. 34 DPR 633/72. 7. Le operazioni derivanti dalle attività connesse ex art. 34 bis DPR 633/72. – Se si escludono disposizioni normative ad hoc, quali quelle in materia di agriturismo (52), la normativa interna ha espressamente disciplinato l’applicazione del regime speciale alla generalità delle attività agricole connesse solo dal 2004, attraverso l’introduzione dell’art. 34 bis del DPR 633/72 (53). Il regime iva delle attività agricole connesse può considerarsi un caso particolare del regime speciale iva dei produttori agricoli: la differenza strutturale attiene all’applicazione di una percentuale di compensazione fissa (in luogo dell’applicazione delle percentuali di compensazione differenziate per tipologia di prodotto agricolo ceduto) pari alla metà dell’imposta addebitata sulle operazioni compiute nell’ambito delle attività agricole connesse. Tuttavia, da un punto di vista applicativo, notevoli sono le complicazioni derivanti dallo svolgimento di attività agricole connesse, rilevanti verso l’esterno, al fianco delle operazioni rientranti nell’attività agricola essenziale (54). Anche nel caso delle attività agricole connesse il legislatore interno iva ha fatto riferimento alle disposizioni del codice civile attraverso un rinvio

agricola all’agriturismo, attività chiaramente volta alla fornitura di servizi e, dal canto suo, la letteratura agraristica aveva messo in evidenza le incongruenze cui portava la concezione tradizionale – e che per lungo tempo è stata mantenuta – per cui si doveva escludere la presenza di un’impresa agricola di servizi. L. Francario, L’impresa agricola di servizi, Napoli, 1988, passim, ma particolarmente 61 ss. (52) Quali ad esempio il regime fiscale dell’attività di agriturismo, articolo 5, comma 2, della Legge n. 413/1991, sul quale si veda infra nel testo. (53) L’articolo 34 bis è stato aggiunto nel testo del DPR 633/72 con l’art. 2 L. 24 dicembre 2003, n. 350. (54) Benché lo svolgimento di attività connesse (volte alla prestazione di servizi a terzi)


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“secco” al 3° comma dell’art. 2135 del c.c. e, quindi, individuando un campo di applicazione potenzialmente molto esteso. È noto, infatti, che la categoria delle attività agricole connesse comprende quelle attività che, di per sé, non sono agricole e che tuttavia sono attratte nell’orbita dell’agrarietà in ragione di un nesso funzionale con l’attività agricola essenziale svolta dal medesimo soggetto (unisoggettività) e attraverso la medesima azienda (uniaziendalità). Vi è ormai un certo consenso nella letteratura agraristica nel considerare l’elencazione delle attività connesse contenuta nel terzo comma dell’art. 2135 c.c. come meramente esemplificativa, potendosi considerare connessa qualsiasi attività che – una volta che siano rispettati i requisiti della unisoggettività e della uniaziendalità – rappresenti un completamento funzionale rispetto alle attività agricole essenziali (55). Tuttavia, pur a fronte della natura esemplificativa delle attività connesse previste dal codice civile, dalla formulazione del c. 3 dell’art. 2135 c.c. emerge una bipartizione tra le attività connesse che hanno a oggetto prodotti agricoli (trasformazione, conservazione, manipolazione, valorizzazione e commercializzazione) e quelle volte invece alla prestazione di servizi: questa bipartizione sembra ispirata proprio dalla medesima sistematica dell’imposta sul valore aggiunto, dove le operazioni rilevanti si dividono appunto in cessioni di beni e prestazioni di servizi.

e attività agricole essenziali non sia previsto dall’art. 36 DPR 633/72, l’ipotesi è da ritenersi comunque rientrante nei casi di separazione contabile obbligatoria dal momento che i regimi di applicazione dell’imposta sono diversi. Peraltro, si ammette ormai pacificamente da parte della giurisprudenza di legittimità che all’interno di una medesima impresa agricola si possa operare una differenziazione di regimi tra attività agricola essenziale e attività connesse, potendo il produttore agricolo adottare il regime forfetario in riferimento all’attività agricola essenziale e optare al contempo per il regime ordinario per l’attività agricola connessa (es. agriturismo), cfr. Cass. 12729/2018, Cass. 11395/2015, Cass. 21965/2015. In generale sulla separazione contabile “per attività” si rinvia all’accurato lavoro di G. Melis, L’esercizio di più attività nell’Iva, in Rass. Trib., 2003, 69 ss. in cui l’Autore individua proprio nell’impresa agricola una delle ipotesi in cui, più frequentemente, si pone il problema della separazione delle attività per la pluralità di regimi che caratterizza l’attività agricola e le possibilità di opzioni a disposizione del produttore agricolo. (55) È questa la posizione generalmente accolta dalla letteratura agrarista, che intende la connessione come criterio di collegamento economico – funzionale tra un’attività essenzialmente agricola (coltura dei fondi, allevamento, silvicolutra) e un’attività che, di per sé, sarebbe commerciale, ma che ponendosi come funzionale ad una agricola è attratta nel perimetro dell’agrarietà, tra tutti A. Jannarelli - A. Vecchione, L’impresa agricola, in Trattato di Diritto Commerciale diretto da V. Buonocore, 2009, 275 ss.; R. Alessi - G. Pisciotta, L’impresa agricola, cit., 167 ss.


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Sulla piena applicazione dell’art. 34 bis DPR 633/72 a tutte le operazioni che derivano da attività connesse pesa però l’orientamento della prassi amministrativa che ha confinato l’applicazione di questa previsione alle sole attività connesse che hanno come esito la prestazione di servizi agricoli (56). Tale interpretazione si fonda anch’essa sulla posizione per cui l’elencazione dei beni allegati nella prima parte della Tabella A costituisce il limite di applicabilità del regime speciale alle cessioni di beni. Pertanto, non sarebbe possibile ammettere la fruizione del regime speciale per cessioni di beni non espressamente indicati nella Tabella A, Parte I; con il che, il regime dell’art. 34 bis non può che applicarsi alle sole prestazioni di servizi agricoli. Questa impostazione, sostanzialmente abrogatrice del testo dell’art. 34 bis DPR 633/72 nella parte in cui fa riferimento alle cessioni di beni derivanti da attività connesse, si presta però a critiche sia sul piano della coerenza con le relative disposizioni europee, sia sul piano di squisita tecnica ermeneutica interna. Sul piano interno sembra quasi banale rilevare che l’interpretazione patrocinata dall’Agenzia delle entrate conduce sostanzialmente all’abrogazione (seppure parziale) di una norma di legge successiva e speciale (l’art. 34 bis) in favore della norma di legge precedente e generale (art. 34): con ciò tradendo sia il criterio della lex posterior, sia quello della lex specialis. Certo, la soluzione “abrogatrice” patrocinata dall’amministrazione sarebbe da preferirsi qualora risultasse imposta dalla normativa europea, ed è infatti questo l’argomento che si trova espresso nei documenti di prassi. Ma si tratta di un argomento che si basa su una premessa falsa dal momento che l’attuale Direttiva non contiene un’elencazione di prodotti agricoli ma, come si è già detto, adotta un criterio elastico – e basato sulla considerazione dell’attività agricola – per la definizione dei prodotti agricoli. È invece da segnalare meritoriamente lo sforzo compiuto dall’Amministrazione finanziaria per la definizione del requisito della prevalenza, individuato dal codice civile quale criterio di perimetrazione dell’attrazione nell’agrarietà delle attività connesse. È noto che, con la riforma del 2001, il legislatore civilistico ha abbandonato il risalente criterio dell’“esercizio normale dell’agricoltura” per definire le attività “connesse” rientranti nella nozione di agrarietà con il criterio della prevalenza. Secondo l’attuale formulazione dell’art. 2135 c.c. si considerano connesse quelle attività che “abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente” dallo svolgimento dell’attività agri-

(56) Circ. Agenzia delle Entrate, n. 6 del 16 febbraio 2005.


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cola essenziale (coltivazione di fondo, allevamento, silvicoltura) da parte del medesimo imprenditore agricolo (57). Il criterio della prevalenza, soprattutto per il suo riferimento ai prodotti derivanti dall’esercizio dell’attività agricola principale del produttore, è meno generico di quello della normalità (58), ma anch’esso manifesta una certa vaghezza dal momento che la disposizione non precisa come debba esser determinata la prevalenza. In teoria essa è determinabile tanto nella prospettiva qualitativa, quanto in quella quantitativa e può assumere come riferimento le masse (volumi, peso), oppure i valori dei prodotti, ecc. (59). L’Amministrazione ha considerato che – almeno ai fini dell’applicazione del regime speciale iva – la prevalenza dei prodotti “interni” all’impresa agricola debba essere considerata in relazione al valore di essi e questa soluzione, pur nella sua opinabilità, ha l’evidente pregio della maggior chiarezza, tanto da essere sovente richiamata dalla letteratura agraristica (60) e ha finito per rappresentare il criterio generalmente accettato per la definizione della prevalenza in relazione alle attività agricole connesse, anche in ambiti diversi da quello eminentemente fiscale. Spostandosi sull’individuazione dei “servizi agricoli”, anche in questo caso, secondo l’orientamento prevalente bisogna far riferimento alle disposizioni civilistiche. L’art. 2135 c.c., terzo comma, prevede che possano essere

(57) Il problema applicativo riguarda quindi quelle imprese agricole che, nel proprio processo produttivo, utilizzano anche prodotti acquistati da terzi per accrescere dal punto di vista qualitativo/quantitativo la propria produzione complessiva. Resta inteso che la semplice commercializzazione dei prodotti acquistati da terzi, pur affini merceologicamente a quelli di produzione propria, non costituisce attività connessa dal momento che non vi è nessuna connessione con l’attività agricola principale. (58) Come noto, il criterio della “normalità” risale ad intuizioni dottrinali precodicistiche e, in particolare, alle elaborazioni di Arcangeli, A. Arcangeli, Istituzioni di diritto agrario, 1926. Questo criterio, tuttavia, comportava complicazioni perché costringeva l’interprete ad indagare la normalità in relazione ai diversi luoghi e alle diverse tradizioni sull’esercizio dell’attività agricole presenti al momento dell’applicazione della disposizione. (59) La pubblicistica di ispirazione applicativa è piuttosto copiosa sull’argomento anche perché analogo problema di corretta individuazione della prevalenza si pone anche ai fini dell’imposizione sui redditi. Tra gli ultimi lavori, S. Capolupo, Attività connesse in agricoltura, in Il Fisco, 2018, 3220 ss.; A. Rocchi - L. Scappini, La misurazione della prevalenza nelle attività connesse “di produzione” in agricoltura, ibidem, 2017, 852, ss.; A. Giolo, “Attività connesse” e “prevalenza” nel reddito agrario, in Dir. Prat. Trib., 3/2018, 1226, ss., nota a Cass., sez. trib., ord. 28 luglio 2017, n. 18828 e Cass. sez. trib., ord. 21 luglio 2017, n. 18071; F. Preziosi, Il regime fiscale delle attività agricole connesse, in Corr. Trib., 2004, 3654. (60) A. Germanò, Manuale, cit. 108, ma anche R. Alessi - G. Pisciotta, L’impresa agricola, cit., 206.


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considerati servizi agricoli quelli prestati mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata. In sintesi, nella normativa interna, l’individuazione dei servizi agricoli si basa sull’applicazione del criterio generale della connessione con un’attività agricola essenziale, delimitato dal giudizio di prevalenza (i servizi devono esser prestati prevalentemente attraverso l’utilizzo di beni o risorse inserite nell’azienda agricola del produttore) e temperato dalla normalità (le risorse aziendali utilizzate devono apparire proporzionate allo svolgimento dell’attività agricola essenziale). In altri termini, per essere attratti all’agrarietà, e quindi al regime speciale iva, i servizi devono essere resi dal produttore agricolo come prolungamento dell’attività agricola essenziale (61), e devono essere prestati attraverso l’impiego dei beni che lo stesso produttore agricolo normalmente utilizza per lo svolgimento della propria attività agricola principale. Qui il richiamo alla normalità deve esser inteso in maniera diversa da come lo si intendeva nel vigore del vecchio art. 2135 c.c.: non come normalità che interessa il generale svolgimento dell’attività agricola in un determinato luogo e in un determinato momento, bensì normalità che attiene all’organizzazione della specifica azienda agricola interessata (62). Sembra dunque necessaria anche una certa proporzionalità tra beni aziendali e svolgimento di un’attività agricola (essenziale) di modo che non risulterebbe connessa un’attività volta alla prestazione di servizi a terzi (si pensi al caso della locazione di mezzi, o dello svolgimento di attività di preparazione del terreno a beneficio di altri produttori agricoli) resa attraverso lo sfruttamento di un parco macchine agricole di notevoli dimensioni, sproporzionato rispetto al terreno oggetto di coltivazione (63).

(61) Così, secondo l’impostazione amministrativa, ma anche quella prevalente dell’agraristica, l’attività c.d. agromeccanica non rientrerebbe per sé nel novero delle attività connesse perché mancherebbe, in capo all’imprenditore agromeccanico, l’esercizio di un’attività agricola essenziale o, se presente, questo sarebbe il più delle volte largamente minoritario rispetto all’impiego delle macchine agricole per lavorazioni in conto terzi. Cfr. in chiave critica verso questo approccio del legislatore, e cercando di argomentare la possibilità di ricondurre l’impresa agromeccanica nel perimetro dell’agrarietà, F. Albissinni, Attività aeromeccanica ed impresa agricola, in Dir. giur. agr. e amb., 2004, 303-311. (62) In questi termini, A. Germanò, Manuale, cit., 120. (63) Di questa impostazione generale si può poi trovare conferma nella giurisprudenza europea. Si vedano conclusioni dell’AG Léger al Caso C-312/02, Harbs, par. 40 dove si afferma che “per quanto riguarda le prestazioni di servizi, la sfera di applicazione del regime comune forfetario è stata definita restrittivamente, in modo da escludere tutte le prestazioni effettuate regolarmente, ovvero mediante un’attrezzatura che possa essere considerata come eccedente i


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Anche per l’individuazione dei servizi agricoli rientranti nel regime speciale si assiste a una diversa tecnica normativa utilizzata dal legislatore interno rispetto alla normativa europea, dal momento che nella Direttiva i servizi agricoli sono individuati puntualmente, facendo riferimento ad un’elencazione dettagliata allegata (allegato VII alla attuale Direttiva 112/2006). Per di più, la giurisprudenza europea ha considerato questa elencazione come tassativa e ne ha anche patrocinato un’interpretazione piuttosto restrittiva (64). È quindi anche sotto questo aspetto che si profilano distonie tra disposizione europea e disposizione interna, in riferimento all’estensione dei servizi agricoli suscettibili di essere appresi al regime speciale. 8. Segue… i servizi nell’ambito di attività di ricezione e di ospitalità e le attività di valorizzazione del patrimonio e del territorio rurale. – Nello specifico si potrebbero porre dubbi di coerenza europea, non tanto in relazione al c.d. contoterzismo del produttore agricolo, ossia la possibilità che egli parallelamente a un’attività agricola principale svolga servizi che si inseriscono nell’attività agricola di altri produttori, quanto sulla possibilità di ricomprendere nel regime speciale quelle attività volte alla prestazione di servizi che il 3° comma dell’art. 2135 esemplificativamente identifica come attività connesse volte alla prestazione di servizi; vale a dire le attività di ricezione e ospitalità e le attività di valorizzazione del patrimonio e del territorio rurale. Quanto alla ricezione e ospitalità è chiaro il riferimento del legislatore codicistico all’agriturismo che rappresenta storicamente il primo esempio di attività volta alla prestazione di servizi e considerata agricola per connessione (65). Anche sul versante fiscale, e segnatamente in relazione all’imposta sul valore aggiunto, è stato introdotto da tempo uno specifico regime fiscale

bisogni, le dimensioni e le caratteristiche dell’azienda agricola de qua”. Si veda comunque infra nel testo per considerazione sulla diversa tecnica di individuazione dei servizi europei utilizzata dalla normativa interna rispetto alla normativa europea. (64) Arrivando ad esempio a sostenere (C-312/02 Harbs) che nella nozione di “locazione, a fini agricoli, di mezzi normalmente usati nelle aziende agricole” non rientri l’operazione di affitto di un ramo di azienda agricola. Così pure ha escluso (C-43/04 Stadt Sunders) che il rilascio di licenze venatorie in relazione ad un’area destinata ad azienda silvicola potesse rientrare tra i servizi agricoli. (65) La prima legge quadro per la disciplina dell’agriturismo è stata emanata nella metà degli anni ’80 Legge 5 dicembre 1985 n. 730, ma attualmente è la Legge 20 febbraio 2006, n.96 a regolare la materia. In generale su tale normativa, si consultino i commenti ai vari articoli in Le Nuove Legge Civili Commentate, 2007, 127 ss.


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per le prestazioni di servizi agrituristici che, sostanzialmente, ricalca l’attuale regime generale per tutte le attività connesse (66). Si può dire che il modello attuale di applicazione dell’iva a tutte le attività connesse rappresenti una sorta di generalizzazione di quanto già sperimentato in materia di iva con riferimento alle sole attività agrituristiche (67). Non vi è dubbio che l’attività agrituristica sia volta alla fornitura di servizi, ma scorrendo l’elenco dei servizi agricoli allegato alla Direttiva non si ritrovano attività di alloggio e ospitalità, e si è costretti a notevoli contorsioni ermeneutiche per far rientrare questi servizi in una delle categorie previste (68). Di qui il dubbio che l’intero regime speciale per l’agriturismo non risulti coerente con le indicazioni europee, ma rappresenti una sorta di “corsa in avanti” del legislatore interno. Considerazioni specifiche sono invece necessarie per le attività di valorizzazione del patrimonio e del territorio rurale e forestale. L’intento nobile del legislatore civilistico è stato quello di inglobare nella nozione di agrarietà

(66) Ci si riferisce al comma 2, art. 5 della Legge 30 dicembre 1991, n. 413 il quale prevede, per i servizi agrituristici, l’applicazione dell’imposta secondo le aliquote ordinarie e una detrazione forfetaria pari alla metà dell’imposta applicata, di modo che resta a debito per l’impresa agricola che esercita attività agrituristica unicamente metà dell’imposta incamerata. Tale regime è stato confermato anche nel vigore della “novellata” normativa in materia di agriturismo (art. 7, c.2 della Legge 20 febbraio 2006, n.96) e trova oggi applicazione anche per l’attività di “enoturismo”, così come definita dalla Legge n. 205 del 27 dicembre 2017, comma 503. Non è prevista l’applicazione del regime dell’agriturismo per le attività di ittioturismo e di pescaturismo pur essendo anch’esse rientranti tra i servizi di turistici forniti da un imprenditore equiparato a quello agricolo: per queste ultime, dovrebbe applicarsi il regime delle attività connesse ex art. 34 bis DPR 633/72. (67) Proprio in quanto l’agriturismo è la più risalente tra le attività connesse volte alla prestazione di servizi, e forse anche per la notevole diffusione del fenomeno, è in relazione al regime fiscale dell’agriturismo che si rinviene un discreto numero di pronunce relative ai “profili fiscali” di tale attività. Particolarmente, proprio in relazione all’attività di agriturismo, si sono affrontate le tematiche relative all’ingresso e all’uscita di beni dal regime speciale, nonché quello della contabilità separata ai fini dell’iva e la possibilità di diversificare il regime iva dell’attività agricola essenziale rispetto a quello dell’attività di agriturismo. Su questi profili applicativi, P. Maspes, Spese di recupero e ristrutturazione dei fabbricati rurali destinati all’attività di agriturismo, Corr. Trib., 2011, 3990; G. Cattelan, Rimborso dell’iva sugli acquisti per l’attività di agriturismo effettuati dall’imprenditore in regime di esonero, nota a Comm. Reg. Lazio, sez. XIV 15 maggio 2012, n. 333, in GT – Riv. giur. trib., 2012, 803-807. (68) L’unico tentativo potrebbe passare attraverso la riconduzione dei servizi di agriturismo nei servizi di “locazione, a fini agricoli, di mezzi normalmente usati nelle aziende agricole, silvicole o ittiche” espressamente previsto al n. 5 dell’attuale elenco; ma sembra un’operazione ermeneutica piuttosto ardita e comunque del tutto improbabile se si considera l’approccio restrittivo della Corte di giustizia.


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quelle attività che si rivelano utili per l’intero ecosistema e per il patrimonio ambientale. Si può certo ritenere queste attività funzionali a produrre il bene “ambiente” (69) e condividere, in una prospettiva assiologica, l’intento di protezione ambientale “indiretta” sotteso alla scelta di ricomprendere nell’agrarietà le attività volte alla tutela e valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale (70). Ma non si può ignorare che si tratta di attività che – pur se definibili “agricole” in senso lato – si pongono al di fuori di una nozione di agricoltura “produttiva”, cui è legata la tradizione giuridica interna (71). Se poi ci si concentra sulla rilevanza di quest’attività nell’iva, lo snodo maggiormente problematico attiene alla difficoltà di rinvenire un destinatario diretto e individuabile dei benefici recati, così come appare difficile individuare un corrispettivo che rappresenti la base imponibile delle operazioni. Nella prospettiva dell’imposta sul valore aggiunto, infatti, è sempre necessario individuare un’operazione imponibile attraverso la rilevazione di un corrispettivo collegato giuridicamente alla prestazione o alla cessione del bene; in assenza di questo l’operazione deve considerasi, tendenzialmente, fuori dal campo di applicazione del tributo (72). Forse queste attività potrebbero considerarsi rientranti nel campo di applicazione dell’imposta qualora fossero svolte dietro pagamento di una “misura agro-

(69) Ricostruito anche dalla giurisprudenza costituzionale (C. Cost. sentt. nn. 641/ 1987 e 67/1992) come “bene giuridico”, sebbene non suscettibile di costituire oggetto di una situazione giuridica di tipo appropriativo. (70) Il collegamento tra agricoltura e ambiente rappresenta dato acquisito della moderna agraristica. M. D’Addezio, Agricoltura e ambiente, in Gli attuali confini del diritto agrario, Atti del convegno IDAIC “Enrico Bassanelli” (Firenze, 28-30 aprile 1994), a cura di E. Casadei, A. Germanò, E. Rook Basile, Milano, 1996, 45 ss., e più di recente, L. Costato, I nuovi confini del diritto agrario, in Agr. Ist. Merc., 2012, 25-30. Così come, anche in materia tributaria si assiste negli ultimi anni ad una riflessione piuttosto ampia sull’ambiente come nuova forma di capacità economica da considerare ai fini fiscali. Si vedano i recenti volumi collettanei, Aa.Vv., I nuovi elementi di capacità contributiva. L’ambiente, a cura di V. Ficari, Roma, 2019; Aa.Vv., La fiscalità ambientale in Europa e per l’Europa, a cura di A. Di Pietro, Bari, 2016; nonché, Aa.Vv., La dimensione promozionale del fisco, Bari, 2015, a cura di A.F. Uricchio, M. Aulenta, G. Selicato, (particolarmente i saggi di A.F. Uricchio, Emergenze ambientali e imposizione, 321 ss. e di G. Selicato, Prospettive della fiscalità ambientale in ambito europeo, 331 ss.). (71) Come messo in evidenza da G. Sgarbanti, Definizione di attività agricola nel diritto comunitario e obblighi di coltivare nel diritto interno, in Aestimum, 2008, 93. (72) Autorevolmente, P. Filippi, I profili oggettivi del presupposto dell’iva, in Dir. Prat. Trib., 2009, 1199 ss., e per la letteratura internazionale, D. Butler, The usefulness of the ‘direct link’ test in determining consideration for VAT purposes, in EC Tax Review, 2004, 92 ss.


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ambientale”, rientrante in piani di interventi pubblici (sovente finanziati a livello europeo), e qualora il pagamento di queste “misure” fosse il frutto di specifici impegni assunti dal produttore agricolo che vanno oltre il rispetto di specifiche norme obbligatorie (73). Ma al di là di questo caso, e in assenza di un corrispettivo collegato allo svolgimento delle prestazioni, le attività di valorizzazione del patrimonio e del territorio rurale e forestale non potrebbero che porsi al di fuori del campo di applicazione dell’imposta in quanto prestazioni di servizi che non sono “proiettate” sul mercato in favore di specifici acquirenti. 9. Il regime speciale delle società cooperative agricole ex art. 1, c. 2 D.Lgs. 228/01 e degli altri “enti associativi” tra produttori agricoli. – Uno dei tratti che caratterizzano l’attuale assetto del regime speciale per l’agricoltura attiene alla assenza di limiti dimensionali e/o legati alla forma giuridica del produttore agricolo (74). Nel tempo, infatti, i limiti dimensionali sono progressivamente venuti meno e lo svolgimento dell’attività agricola in forma societaria è stato riconosciuto e regolamentato dal legislatore a seguito della stagione riformatrice dell’impresa agricola e del diritto societario. In sostanza il regime speciale previsto dall’art. 34 DPR 633/72 è attualmente da considerarsi il regime naturale di tutti i produttori agricoli a prescindere dagli aspetti dimensionali e/o dalla forma giuridica (individuale, collettiva, cooperativa) che assume l’impresa. Tra le imprese agricole gestite in forma societaria devono però esser particolarmente considerate, nella prospettiva del regime speciale iva, le cooperative agricole ex art. 2, c. 1, L. 228/01, le quali sono state espressamente qualificate “imprenditore agricolo” dal legislatore civilistico, qualora svolgano attività di cui all’art. 2135 c.c. (comprese le attività connesse) utilizzando “prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico”. Il legislatore fiscale,

(73) Sulle diverse misure d’aiuto e sul loro trattamento tributario, ai fini dell’imposizione reddituale, M. Interdonato, L’impresa agricola, cit., 62 ss. e, particolarmente per le misure agroambientali, 92 ss. (74) Fino ad un passato relativamente recente erano comunque previsti dei limiti di fatturato per l’adesione al regime e, in relazione allo svolgimento dell’attività agricola in forma societaria, questa si considerava generalmente preclusa, ad eccezione del caso delle società semplici e delle società cooperative. In particolare, a seguito della riforma del 1997 del regime speciale, era stata introdotta una soglia di fatturato di 21.000,00 Lire, soglia che però è stata in seguito eliminata.


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simmetricamente a quello civilistico, ha esteso ad esse la qualificazione di “produttore agricolo” ammettendole alla fruizione del regime speciale iva (75). La disposizione fiscale rappresenta l’estensione al settore dell’imposta sul valore aggiunto del principio di “trasparenza” da tempo elaborato dalla giurisprudenza civilistica per le cooperative agricole che, secondo l’impostazione prevalente nell’agraristica, è stato “recepito” dal legislatore (civilistico) nell’apposita disposizione di cui al c. 2, art. 1 del D.Lgs. 228/01. In forza di tale principio le cooperative agricole, seppure dotate di una propria personalità giuridica, non sono da considerare – nella prospettiva della qualificazione quali imprese agricole – come un soggetto rigidamente separato e distinto dai loro soci, bensì organo comune di essi istituito per facilitare e rendere più agevole lo svolgimento collettivo di alcune fasi dell’attività agricola, normalmente attraverso l’esercizio di un’attività connessa. In tal modo, dal punto di vista della civilistica, si è inteso ricomprendere anche tali enti nell’ambito dell’agrarietà superando l’obiezione legata alla carenza di “unisoggettività” per cui le cooperative, svolgendo solo un’attività “connessa”, non potevano venire considerate alla stregua di imprenditori agricoli in difetto dello svolgimento di un’attività agricola essenziale (coltivazione, silvicoltura o allevamento) (76). Il legislatore fiscale estende poi l’“agrarietà per trasparenza” anche alle “associazioni e loro unioni costituite e riconosciute che effettuano cessioni di beni prodotti prevalentemente dai soci, associati o partecipanti, nello stato originario o previa manipolazione o trasformazione”. Seppure le ipotesi delle cooperative agricole e delle associazioni appaiano strutturalmente separate, la loro equiparazione, nella prospettiva del regime speciale iva, risponde chiaramente alla medesima ragione già sopra evidenziata: considerare cioè le entità associative tra produttori agricoli, sebbene dotate di personalità giuridica distinta da quella dei loro soci, quali organi comuni dei produttori agricoli soci. Esse, infatti, mutuano dai soci la qualificazione di produttore agricolo, in ragione della specificità della loro attività che si

(75) In generale la letteratura sui profili fiscali delle cooperative è molto vasta. Per il particolare approfondimento che dedica alle cooperative agricole, nella prospettiva fiscale, si segnala M. Ingrosso, Le cooperative e le nuove agevolazioni fiscali: profili civilistici, contabili, comunitari, Torino, 2011, passim, ma particolarmente, 185 ss. (76) Per una recente ed efficace sintesi di questo orientamento giurisprudenziale ante e post riforma del 2001, A. Jannarelli, Cass. 10 novembre 2106, n. 22978: un infelice responso a proposito di una società cooperativa, costituita da imprenditori agricoli, di macellazione, lavorazione e commercializzazione di prodotti zootecnici, in Dir. Agroalimentare, 2017, 153 ss.


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“connette” (e in tal senso è considerata attività agricola per connessione) e completa l’attività agricola essenziale dei soci-produttori agricoli. In generale si può dire che questa previsione estende il regime speciale dei produttori agricoli a quelle formazioni intermedie che svolgono la funzione di centri di aggregazione per i produttori agricoli e di collettori per agevolare le attività connesse alla loro produzione. L’attrazione di queste formazioni al regime speciale per l’agricoltura risponde al favor che il legislatore, nell’ultimo ventennio, ha riconosciuto all’agricoltura di gruppo e che ormai costituisce una tendenza ben delineata del moderno diritto agrario. Se si considera come ius receptum il principio di trasparenza elaborato per le cooperative agricole, l’espressa riconduzione di tali cooperative nel campo dei produttori agricoli potrebbe sembrare, dunque, una conferma fiscale della tendenza del nostro ordinamento alla configurazione di “imprese agricole collettive per connessione”. Tuttavia, il favor fiscale per le unioni di agricoltori va oltre il mero riconoscimento della “agrarietà” agli enti collettivi che si occupano di attività connesse: il legislatore iva non si limita ad assegnare a tali enti la qualifica di produttori agricoli, ma detta anche una disciplina ad hoc dei rapporti patrimoniali tra enti e soci, associati o partecipanti ad esso. Infatti, il comma 7 dell’art. 34 DPR 633/72 prevede che per i passaggi di beni tra socio e società (essenzialmente i conferimenti di prodotti agricoli) continui ad applicarsi, anche attualmente, il regime speciale iva nel suo meccanismo precedente alla riforma del 1997, vale a dire applicazione dell’iva ai conferimenti non secondo le aliquote di imposta previste per le cessioni degli specifici beni, ma in base alle percentuali di compensazione ministeriale e spostamento degli obblighi di (auto)fatturazione in capo al cessionario (cooperativa o ente associativo). L’operazione di conferimento deve dunque essere fatturata dalla cooperativa (o dall’ente associativo) e la stessa cooperativa deve corrispondere la percentuale di compensazione al socio conferente – produttore agricolo forfetario, il quale la trattiene a titolo di compensazione della mancata detrazione analitica dell’iva assolta a valle in rivalsa (77).

(77) Non solo, ma per le operazioni di conferimento da soci a cooperative è prevista un’ulteriore deroga rispetto al regime generale iva delle cessioni di beni, in relazione al momento di effettuazione dell’operazione. Il comma 7 dell’art. 34 DPR 633/72, non solo prevede che la fatturazione debba esser posta a carico dell’ente conferitario, ma in relazione al momento di esecuzione dell’operazione prevede, in deroga alla regola generale per cui le cessioni dei beni si considerano realizzate al momento della consegna o spedizione del bene, che le operazioni di conferimento si considerino realizzate al momento in cui la l’ente conferitario


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I conferimenti di beni agricoli fatti dal socio alla cooperativa (o in generale all’ente associativo incaricato della trasformazione/manipolazione/vendita), pur potendo essere considerati – stante la alterità soggettiva tra socio e cooperativa – spostamenti patrimoniali e quindi “cessioni di beni” nella prospettiva dell’imposta sul valore aggiunto, non realizzano la fuoriuscita del bene dalla sfera dell’attività agricola svolta dal produttore-socio poiché come detto l’attività della cooperativa è assunta come prolungamento di quella agricola essenziale svolta dal singolo socio (78). 10. Il regime di esonero (quasi) totale del produttore agricolo minimo. – A fianco del regime “normale” del produttore agricolo e a quello delle cooperative e degli enti associativi, la normativa interna prevede poi un particolare regime per i produttori agricoli con un volume d’affari inferiore ai settemila euro annui. È questo un regime di esonero globale dalle incombenze iva; gli unici obblighi che permangono sono quelli di identificazione e conservazione delle fatture ricevute nello svolgimento dell’attività agricola. Anche per gli obblighi contabili è prevista una sostanziale dispensa, incluso l’obbligo di emissione e registrazione delle fatture; è espressamente previsto che nessun documento debba venire emesso per le cessioni a consumatori finali, mentre per le cessioni di beni (e ipoteticamente anche per le prestazioni di servizi) in favore di soggetti passivi è l’acquirente (committente del servizio) a dover emettere il documento inerente alla cessione che poi deve esser conservato dal cessionario (79). Si tratta del regime che realizza il più alto livello di semplificazione amministrativa, esonerando pressoché integralmente il produttore agricolo dagli

effettua il pagamento in favore del socio conferente. È anche questa una previsione che soddisfa un’esigenza concreta di evitare scollamenti temporali e consentire al produttore agricolo di ricevere corrispettivo del conferimento e percentuale di compensazione in un’unica soluzione. (78) In questi termini, anche la prassi amministrativa ha riconosciuto che la cooperativa rappresenta una sorta di prolungamento dell’attività agricola svolta dal socio, Risoluzione Agenzia delle Entrate, n. 65/E del 12 giugno 2012. Emblematica di questa tendenza normativa è la sottrazione dei contratti di cessioni di prodotti agricoli tra agricoltori, o da agricoltori a cooperative agricole, alla disciplina di cui all’art. 62 D.L. 1/2012 la quale, come noto, prevede un regime “protettivo” in favore dei produttori agricoli che cedono i loro prodotti ad imprese non agricole. (79) Recentemente è stato anche abolito, per i produttori agricoli minimi, l’obbligo di comunicazione annuale dell’ammontare delle operazioni imponibili realizzandosi così una totale abolizione degli obblighi di comunicazione regolari nei confronti del fisco. L’abolizione generale dell’obbligo di comunicazione delle fatture per i produttori agricoli minimi, che si


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adempimenti formali: da questo punto di vista rappresenta l’idealtipo della semplificazione e centra pienamente uno degli obiettivi cui è volta l’introduzione del regime speciale per gli agricoltori. Allo stesso tempo, il regime di esonero non tralascia di assicurare una certa neutralità del tributo per i produttori agricoli minimi. Le disposizioni prevedono l’addebito delle percentuali di compensazione che devono essere applicate e corrisposte – oltre al prezzo – dal cessionario che sia anche soggetto passivo iva, in relazione alla tipologia di beni. Pertanto, il produttore agricolo forfetario, per le cessioni di beni in favore di consumatori finali (non soggetti passivi), non addebita alcuna somma aggiuntiva oltre al prezzo (80) (che quindi tende a incorporare la mancata detrazione dell’iva a monte sull’attività svolta), mentre per le cessioni di prodotti agricoli a soggetti passivi ottiene una somma a titolo di compensazione forfetaria della mancata detrazione (81).

doveva intendere riferito alle sole “autofatture” ricevute, è avvenuta ad opera dell’art. 11, c.2 quater del D.L. 12 luglio 2018 (c.d. decreto dignità), così come modificato e convertito dalla L. 9 agosto 2018, n. 96. In precedenza, erano già stati esclusi da tale obbligo i produttori agricoli minimi ubicati in zone montane. (80) Essendo dispensato anche dalla emissione di qualsiasi documento di certificazione per le cessioni di beni che rientrano nel regime speciale svolte in favore di consumatori finali. Cfr. Art. 2, lett. c) D.P.R. 696/96. (81) Va anche segnalato che la recentissima Legge di Bilancio per il 2019 (Legge, 30/12/2018 n. 145) ha introdotto l’art. 34 ter al DPR 633/72 con il quale è stato introdotto un regime di esonero integrale per coloro che si dedicano alla raccolta dei frutti spontanei della terra non legnosi e delle erbe officinali, e che nell’anno precedente non hanno realizzato un volume d’affari inferiore ai 7 000,00 euro. In realtà, da un punto di vista del diritto agrario, l’attività di raccolta di frutti spontanei del suolo può esser riportata alla attività agricola solo qualora sia organizzata da un imprenditore agricolo sul proprio terreno boscato o quando l’imprenditore agricolo appositamente predisponga o controlli una struttura atta a produrre i frutti spontanei (es. una tartufaia o un terreno coltivato a funghi), ma non è attività agricola la raccolta dei frutti spontanei su terrei altrui, pur se seguita dalla vendita e cioè dall’immissione sul mercato, così A. Germanò, Manuale, cit., 92 ss.. Questa prospettiva è stata accolta anche da autorevole letteratura tributaria, R. Rinaldi, Coltivazione e raccolta di tartufi ai fini dell’imposizione sui redditi, in Giur. Comm., 1987, 682 ss. che, seppur nella prospettiva dell’imposizione reddituale, distingueva tra coloro che raccolgono e vendono tartufi provenienti da una tartufaia o da un proprio terreno coltivato, da un lato, e coloro che invece saltuariamente o abitualmente si dedicano alla raccolta di tartufi su fondo altrui, dall’altro, concludendo che questi ultimi non possono esser attratti alle speciali regole fiscali dell’agricoltura (i.e. tassazione secondo reddito agrario). Quindi, o i raccoglitori di frutti spontanei su terreno altrui non sono da considerare imprenditori (rectius, non svolgono un’attività economica, ai fini dell’iva) oppure essi esercitano un’impresa di tipo commerciale. Posta l’impossibilità di ricondurre l’attività del raccoglitore di frutti spontanei su fondi altrui a quella del produttore agricolo, la recente previsione normativa di un regime di esonero totale


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11. Considerazioni di sintesi sul sistema italiano rispetto al modello europeo e ai “nuovi” interessi dell’agricoltura. – Come è possibile intuire da quanto detto sopra, il regime speciale per i produttori agricoli, per come è stato pensato in sede europea, non era eccessivamente complesso. L’ispirazione di base, guardando alle disposizioni europee, è rivolta a soddisfare le particolari esigenze di semplificazione che il settore agricolo manifestava negli anni Sessanta e Settanta, rispetto all’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto nel suo modello ordinario. Al tempo stesso, per il ruolo particolare degli agricoltori nella struttura economica e sociale europea, non è apparso consigliabile al legislatore europeo costruire per i produttori agricoli una esclusione o una esenzione ad hoc. L’esclusione o l’esenzione avrebbero negato ai produttori agricoli il beneficio della neutralità e, forse, avrebbero comportato un isolamento della produzione agricola rendendone più difficile l’integrazione con il resto del mercato. La soluzione migliore è apparsa, quindi, quella di un regime forfetario in cui l’equilibrio tra semplificazione e neutralità è spostato, rispetto all’ordinaria applicazione dell’imposta, maggiormente in favore della prima, senza sacrificare definitivamente la seconda. È perciò sempre presente la necessità di garantire un regime che, pur forfetario, tenda a evitare eccessive sovra- sottocompensazioni dell’imposta e non risulti né un sussidio, né una penalizzazione per i produttori agricoli. In questo senso è emblematica l’attenzione che necessariamente deve essere posta alle procedure di determinazione delle percentuali di compensazione che, come si è detto, rappresentano il momento essenziale a garanzia del raggiungimento degli obiettivi del sistema.

sarebbe quindi destinata a suscitare dubbi se letta quale estensione dell’ambito (soggettivo) di applicazione del regime speciale iva per i produttori agricoli. Ma in realtà, con l’art. 34 ter DPR 633/72 è stato introdotto un nuovo regime di esonero generale che non prevede alcun obbligo amministrativo, né alcun obbligo di addebito e di rivalsa dell’iva o di percentuali di compensazione, e nessun diritto di detrazione. Dunque, sia per l’impossibilità di ricomprendere i raccoglitori di frutti spontanei nella nozione di imprenditore agricolo, sia per le caratteristiche strutturali del regime neointrodotto, sembra difficile considerare la nuova previsione quale ulteriore “estensione” del regime speciale iva per i produttori agricoli. In una visione sistematica sembra preferibile ritenere che si tratti di un’esclusione espressa dall’ambito di applicazione dell’iva per le attività proprie del piccolo raccoglitore di (alcuni) frutti spontanei. Esclusione cui peraltro, anche sulla base di un’impostazione generale, era possibile giungere se si considera che, come si evince anche dalla rubrica dell’art. 34 ter DPR 633/72, i soggetti interessati sono i raccoglitori “occasionali” e che, generalmente, le attività prive di stabilità sono considerate fuori dalla nozione di attività economica rilevante per l’iva.


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Il sistema interno, invece, sconta una stratificazione normativa notevole, frutto probabilmente del diverso atteggiamento che il legislatore ha avuto nel tempo nei confronti dell’agricoltura. Sotto il profilo strutturale l’attuale regime speciale iva, per come è presente nella normativa interna, è incoerente con le indicazioni e le ispirazioni europee. Il regime speciale iva, nel suo assetto attuale, è senz’altro carente in termini di semplificazione degli adempimenti amministrativi, perché costringe il produttore agricolo a porre in essere pressoché tutti gli adempimenti previsti dal regime generale iva. Soprattutto dopo la riforma del 1997, nella maggior parte dei casi, continua a gravare sul produttore agricolo l’obbligo di addebito dell’imposta secondo le aliquote previste e i connessi obblighi di fatturazione, liquidazione, versamento, dichiarazione dell’iva dovuta (82). Anzi, si potrebbe forse dire che il sistema interno prevede ulteriori complicazioni amministrative in capo al produttore agricolo rispetto all’ordinaria applicazione dell’imposta. Non possono infatti essere considerate trascurabili le complicazioni che derivano dalla presenza di percentuali di compensazione particolarmente analitiche e differenziate in ragione delle categorie merceologiche dei beni (83). Tali percentuali, per di più, sono oggetto di aggiornamento e ritocchi con una certa frequenza e costringono i produttori agricoli a continui aggiustamenti (84). Sotto questo punto di vista il regime italiano va in direzione opposta alla semplificazione, che richiederebbe una riduzione del numero delle percentuali e una certa stabilità normativa. Con riferimento all’ambito di applicazione in realtà non è chiaramente definibile in sede interna una tendenza unitaria: se con riferimento al presupposto soggettivo si è assistito, nella normativa interna, a una dilatazione della nozione di produttore agricolo in virtù dell’aggancio alla nozione civilistica di cui all’art. 2135 c.c., in riferimento ai prodotti agricoli il sistema interno resta agganciato all’elencazione merceologica contenuta nella Tabella A, Parte I,

(82) Forse, l’unica effettiva semplificazione attiene al meccanismo di liquidazione dell’iva dovuta, non più da determinarsi con il consueto metodo di imposta da imposta, ma forfettizzata in relazione a percentuali applicabili al volume d’affari. (83) La letteratura internazionale ha espresso critiche severe proprio in relazione a questo aspetto, ritenendo incoerente con l’obiettivo di semplificazione l’applicazione di percentuali così analitiche e diversificate, cfr. S. Cnossen, VAT and agriculture, cit., 537 ss., dove l’Autore, forse ingenerosamente, definisce “grottesca” la analiticità delle percentuali di compensazione presente nei sistemi italiano e francese. (84) Si veda nota 31 per gli ultimi aggiornamenti alle percentuali di compensazione.


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che non trova il suo omologo nelle disposizioni europee. Viceversa, per la nozione di servizi agricoli, a fronte dell’allargamento in sede interna, nella Direttiva è presente una loro elencazione tassativa, oggetto di un’interpretazione piuttosto restrittiva da parte del giudice europeo. Non solo, ma, come si è visto, nella normativa interna non vi è nessuna esclusione in ragione della dimensione e/o della forma giuridica con cui l’attività agricola è esercitata (85). Anche sotto questo aspetto è chiara la distonia con gli orientamenti europei volti a circoscrivere l’applicazione del regime speciale a quei produttori agricoli che avrebbero difficoltà ad assolvere tutti gli adempimenti connessi con l’applicazione del regime ordinario iva (86). Quest’ultimo aspetto andrebbe invece rivalutato non solo alla luce dell’impostazione europea, ma anche delle riflessioni della letteratura agrarista sulle attuali esigenze giuridiche del mondo agrario. Per vero, come è stato ormai da tempo posto in luce (87), la nuova specialità del settore agricolo si fonda sulla capacità del legislatore, nonché dell’interprete, di differenziare – all’interno del comparto agricolo – gli operatori nella loro proiezione al mercato. In questo senso l’aspetto dimensionale e organizzativo – o comunque il posiziona-

(85) Ad esclusione dei regimi dei produttori agricoli minimi e degli enti agricoli associativi, che però possono esser considerati appunto “casi particolari” del regime speciale per l’agricoltura. (86) Emblematiche le parole dell’Avv. Generale Léger che, nelle conclusioni al già più volte citato caso C-312/02 Harbs, a fronte alla pretesa da parte di un allevatore tedesco di applicare il regime speciale iva alle operazioni di affitto di un ramo della sua azienda agricola, afferma “non si può sostenere seriamente che un agricoltore che, come nella specie, conceda in affitto 31,2 ha di terreno, una stalla per le mucche, 65 mucche ed una quota latte di oltre 300 000 kg, e che continui a sfruttare in proprio il resto del suo fondo comprendente 61,4 ha di terreno, edifici, un allevamento taurino di circa 60 capi per l’ingrasso ed un allevamento di 120 bovini, sia incapace di applicare parallelamente il regime generale dell’IVA per i proventi dell’affitto e il regime comune forfetario per l’attività in proprio, tenuto conto delle formalità contabili e amministrative che attualmente lo sfruttamento di una tale proprietà agricola implica in uno Stato membro”. Va anche evidenziata la recentissima evoluzione della procedura di infrazione iniziata dalla Commissione contro la Germania (Infringment number n. 20174121, reperibile sul sito http:// ec.europa.eu/atwork/applying-eu-law/infringements-proceedings/infringement_decisions/) in relazione alla applicabilità del regime speciale iva all’intero settore dell’agricoltura senza la previsione di un criterio per limitarne l’applicabilità ai soli produttori agricoli che effettivamente manifestano difficoltà nella gestione degli obblighi formali iva imposti dal regime iva ordinario. In data 24 gennaio 2019 è stato diffuso dalla Commissione il comunicato stampa in cui si annuncia l’invio di una reasoned opinion sul punto alla Germania dopo la richiesta di chiarimenti del 18 marzo 2018. (87) A. Jannarelli, Il diritto dell’agricoltura nell’era della globalizzazione, Bari, 2003, passim, ma particolarmente 25 ss.


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mento all’interno del mercato – delle singole produzioni agricole dovrebbero essere assunti come parametri centrali per la fruizione e il confezionamento di un regime speciale per i produttori agricoli. Sembra paradossale, ma i regimi iva che paiono maggiormente coerenti con questa impostazione – e altresì coerenti con le indicazioni europee – sono quelli che si possono considerare come “casi particolari” di applicazione del regime speciale per i produttori agricoli, cioè il regime del produttore agricolo minimo e il regime dei conferimenti alle cooperative. Nel regime del produttore agricolo minimo il legislatore interno ha previsto una soglia dimensionale di fatturato (settemila euro) e una semplificazione concreta dell’aspetto amministrativo (dispensa da pressoché tutti gli adempimenti amministrativi, inclusa la dichiarazione di imposta). Non solo, sul versante della neutralità è previsto che per le cessioni di prodotti agricoli in favore di soggetti passivi siano questi ultimi obbligati alla fatturazione e al versamento al produttore agricolo minimo della percentuale di compensazione. In questo modo anche per il produttore agricolo minimo si realizza – seppure in modo forfetario – una certa neutralità nell’applicazione dell’imposta, dal momento che egli può ottenere una compensazione forfetaria della detrazione che gli viene negata. Una semplificazione simile, come si è visto, è prevista per il regime dei conferimenti di prodotti agricoli alle cooperative, e agli altri enti associativi tra produttori agricoli: qui è l’ente collettivo che assume, all’atto del conferimento di prodotti agricoli, la responsabilità degli obblighi di fatturazione e deve corrispondere al socio conferente (produttore agricolo) la percentuale di compensazione. Certo, è possibile che alcuni soci conferenti di una cooperativa agricola abbiano dimensioni e strutture tali da non manifestare alcuna “difficoltà” nell’adempimento degli obblighi iva imposti dal regime ordinario, e per questi parrebbe fuori luogo riconoscere la possibilità di accesso al regime speciale. Ma si può considerare che, anche nella dinamica di mercato attuale, le cooperative agricole rappresentano centri di aggregazione di produttori agricoli i quali non sarebbero in grado di affrontare, singolarmente, tutte le difficoltà poste dalla partecipazione al mercato. Anche oggi l’attività di produzione agricola trova nell’aggregazione cooperativa un mezzo per superare o attenuare gli ostacoli normativi ed economici che altrimenti comporterebbero la rapida scomparsa di una larga fetta di produttori agricoli. Dunque un regime iva per i produttori agricoli che si aggregano in cooperative garantisce, ai produttori, una sostanziale semplificazione degli adempimenti e, al contempo, un certo livello di neutralità nell’applicazione del tributo. Tutto ciò si pone – in linea generale – per un verso in una logica di coerenza con le indicazioni


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europee, per un altro valorizza il moderno atteggiarsi del comparto agricolo e può essere considerato positivamente nella logica dei “nuovi” interessi che si manifestano nell’agricoltura. È infatti sul piano delle aggregazioni tra produttori agricoli che, come autorevolmente posto in luce (88), si gioca una parte importante della nuova specialità del settore agricolo. Ed è questa, in definitiva, la strada che ci sembra preferibile percorrere, anche sul versante fiscale, per valorizzare la “specialità” dell’attività agricola nell’attuale contesto storico-economico (89) onde evitare così l’assorbimento, altrimenti inesorabile, dell’attività agricola all’interno del regime generale di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto (90).

Giangiacomo D’Angelo

(88) Sempre, A. Jannarelli, Il diritto dell’agricoltura, cit., 25 ss. In generale, gran parte della più recente produzione scientifica jannarelliana è tesa alla valorizzazione dello strumento associativo nel comparto agricolo quale modalità per soddisfare le esigenze della nuova specialità della produzione agricola, rispetto alle altre attività economiche. (89) Che il diritto agrario, e in generale i profili giuridici dell’agrarietà, siano fortemente agganciati al concreto atteggiarsi dei fatti e delle esigenze concrete che si manifestano in questo settore, è insegnamento autorevolmente impartito da P. Grossi, Fattualità del diritto postmoderno: l’emersione di un diritto “agrario” in Italia, in Dir. Agroalimentare, 2016, 7 ss. (90) Segnali positivi, in questo senso, sembravano provenire dalla introduzione del contratto di rete, anche per il settore agricolo (articolo 1 bis, comma 3, D.L. 91/2014) e dalla possibilità che nel contratto di rete non vi sia, in taluni casi, applicazione dell’imposta al momento della assegnazione del bene dal produttore agricolo alla rete, e che la stessa rete possa avere, per i prodotti propri, lo status di produttore agricolo e fruire del regime speciale di cui all’art. 34 del DPR 633/72. Tuttavia, anche in relazione a tale nuova forma di aggregazione tra produttori agricoli l’Agenzia delle Entrate ha assunto una posizione piuttosto restrittiva prevedendo per l’applicazione del regime di favore dei requisiti ulteriori che non risultano chiaramente posti dalla norma, si veda Ris. Agenzia delle Entrate n. 75 del 21 giugno 2017 e le notazioni critiche espresse da L. Russo, Il contratto di rete tra imprenditore agricoli: un passo avanti e due passi indietro? Prime osservazioni sul parere dell’Agenzia delle Entrate sulla divisione in natura dei prodotti tra imprese agricole aderenti ad un contratto di rete, in Dir. Agroalimentre, 2007, 527 ss., ma particolarmente 542 ss.


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Corte. Cost., 21 marzo 2018 - 26 aprile 2018, n. 90; Pres. Lattanzi - Rel. Amoroso Operazioni straordinarie – Scissione – Responsabilità tributaria – Giudizio di legittimità costituzionale È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 173 del TUIR, che, nel caso della scissione totale così come in quella parziale, prevede, per le società beneficiarie della scissione, una responsabilità solidale illimitata per i debiti fiscali della scissa. Diverse norme, infatti, sono strumentali a garantire l’esatta riscossione del credito tributario (come ad esempio l’art. 14 del DLgs. 472/97 in tema di cessione di azienda), e ciò è attuativo dell’art. 53 della Costituzione. (1)

(Omissis) Ritenuto in fatto. 1. – Con ordinanza del 10 settembre 2015, pervenuta alla cancelleria di questa Corte il 9 giugno 2017 (reg. ord. n. 99 del 2017), la Commissione tributaria provinciale di Pisa ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 173, comma 13, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (di seguito anche: TUIR), e dell’art. 15, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione. Secondo la rimettente le disposizioni censurate − nella parte in cui prevedono, per i debiti tributari, la responsabilità solidale illimitata delle società beneficiarie di scissione parziale, in luogo di quella, limitata alla quota di patrimonio netto attribuito, prevista dalla disciplina generale per i debiti civilistici − si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cost., per violazione dei principii di uguaglianza e di ragionevolezza, nonché con l’art. 53 Cost., perché l’obbligazione tributaria non sarebbe determinata in ragione della capacità contributiva dell’obbligato. Riferisce la commissione tributaria di doversi pronunciare sui ricorsi riuniti con cui la S. srl, società beneficiaria all’esito della scissione parziale della «SCEAT», ha impugnato quattordici cartelle di pagamento, notificatele in qualità di coobbligata solidale, emesse ai sensi dell’art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Dispo-


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sizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), per imposte varie e tasse automobilistiche, relative agli anni 2007, 2008, 2009, 2010 e 2011. Il rimettente premette che la società ricorrente ha domandato l’annullamento delle cartelle, previa sospensione dell’esecuzione, proponendo innanzi tutto alcune eccezioni preliminari (erronea indicazione, nelle cartelle, dell’art. 14 del d.lgs. n. 472 del 1997, relativo alla cessione d’azienda e non già alla scissione societaria; difetto di motivazione degli atti impugnati; omessa indicazione del responsabile del procedimento). Nel merito, la S. srl ha contestato la responsabilità solidale illimitata per i debiti tributari, che in particolare si porrebbe in contrasto con l’art. 53 Cost. per violazione del principio di capacità contributiva. La società ha inoltre evidenziato che la disciplina civilistica in materia di scissione societaria prevista dagli artt. 2506-quater, terzo comma, e 2506-bis, terzo comma, del codice civile prevede che per i debiti imputabili alla società scissa la società beneficiaria della scissione risponde in solido, ma nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato e a seguito di preventiva escussione. Comunque – ha sostenuto la S. srl − la solidarietà illimitata è semmai riferibile solo ai casi di scissione totale. Si sono costituiti nel giudizio a quo l’Equitalia Centro spa, l’Agenzia delle entrate e la Regione Toscana, le quali hanno contestato le ragioni della ricorrente osservando che il debito tributario, stante la sua natura pubblica, è indisponibile; ciò giustifica la diversa disciplina rispetto al debito civilistico. 2. – Nel sollevare le questioni di legittimità costituzionale, la commissione tributaria provinciale esamina innanzi tutto le suddette eccezioni preliminari, ritenendole non fondate. Rileva che il richiamo contenuto nelle cartelle di pagamento all’art. 14 del d.lgs. n. 472 del 1997, riguardante la cessione d’azienda, piuttosto che all’art. 15, il quale disciplina la scissione societaria, è frutto di un «mero errore materiale». Quanto al difetto di motivazione, osserva che «nelle cartelle sono indicati gli estremi delle iscrizioni a ruolo, con la menzione dei tributi, l’annualità di riferimento e le targhe dei veicoli, in relazione alle tasse automobilistiche, in modo che il contribuente è stato messo in grado di comprendere a cosa si riferisca la pretesa». Infine, circa la mancata indicazione del responsabile del procedimento, il rimettente pone in luce che «nelle cartelle sono, invece, indicati i nominativi dei responsabili delle iscrizioni a ruolo nella parte relativa al dettaglio degli addebiti e, nella parte relativa alle comunicazioni dell’Agente della riscossione, è indicato il nominativo e la qualifica del responsabile del procedimento di emissione e notifica delle cartelle». 3. − Passando all’esame del merito, la commissione tributaria pone a confronto il regime della responsabilità solidale della società beneficiaria della scissione parziale delineato dal codice civile e il regime previsto dall’art. 173, commi 12 e 13, TUIR. Osserva che il riferimento, in queste ultime disposizioni, alla responsabilità solidale senza ulteriori specificazioni rimanda alla nozione generale di solidarietà conte-


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nuta nell’art. 1292 cod. civ., in forza della quale ogni condebitore può essere tenuto all’adempimento per la totalità. Tale solidarietà illimitata trova poi conferma, quanto alle sanzioni, nell’art. 15, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997. La commissione tributaria, quindi, conclude assumendo «che, nonostante ogni sforzo interpretativo che sia conforme ai principii costituzionali di ragionevolezza e uguaglianza e di imposizione adeguata all’effettiva capacità contributiva, il dettato normativo di cui agli articoli 173, comma 13, TUIR e 15, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997 non possa che essere interpretato nella sua formulazione letterale nel senso che, nel caso che ne occupa, ovvero di scissione parziale, la società beneficiaria risponde solidalmente, senza limitazioni, dei debiti pregressi della società scissa, come sostenuto dalla difesa delle parti resistenti». 4. – Quanto alla non manifesta infondatezza della questione e all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., la rimettente rileva che la previsione di una solidarietà illimitata, «creando indebiti vantaggi al creditore e altrettanti indubbi svantaggi per situazioni debitorie pregresse rispetto al nuovo assetto organizzativo societario», risulta incompatibile con il principio di neutralità fiscale sancito dai primi tre commi dell’art. 173 TUIR che caratterizza l’operazione di scissione, quale mero strumento di organizzazione societaria. Difetterebbe, quindi, «l’intrinseca razionalità che sta alla base di ciascuna norma, con l’effetto che detta irrazionalità e le conseguenze che ne derivano violano di per sé l’uguaglianza di trattamento normativo in capo ai destinatari della norma stessa». In tal senso, secondo il giudice a quo, orientano anche le scelte compiute dal legislatore con riferimento alla cessione d’azienda, regolata dall’art. 14 del d.lgs. n. 472 del 1997, e alla trasformazione e alla fusione, regolate dagli artt. 170, 171 e 172 TUIR, fattispecie in cui «la disciplina fiscale si conforma agli elementi strutturali e alle finalità delle relative operazioni che connotano gli istituti». Infatti, in caso di cessione di azienda, il cessionario è responsabile in solido dei debiti fiscali del cedente, fatto salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente ed entro i limiti del valore dell’azienda ceduta, mentre in caso di trasformazione e fusione, evidentemente non esistendo più il soggetto originario, rispondono gli enti che ne sono derivati. Analoghe considerazioni svolge la rimettente con riferimento alla responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato. In particolare, osserva che «l’art. 33 e lo stesso art. 30, comma 2, del decreto legislativo n. 231/2001, dettano una disciplina, che, nel doveroso rispetto dei profili di natura sanzionatoria, è conforme alla struttura civilistica, sia per il caso di cessione di azienda, sia per il caso di scissione parziale». Circa la disciplina delle sanzioni prevista dall’art. 15 del d.lgs. n. 472 del 1997, la commissione tributaria ritiene contrastante con l’art. 3 Cost. l’equiparazione del trattamento sanzionatorio della società scissa, che è pur sempre l’autrice della violazione, con quello della società beneficiaria, estranea alla commissione dell’illecito. Quanto, poi, all’asserita violazione dell’art. 53 Cost., la rimettente sostiene che


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la solidarietà illimitata determina l’insorgenza di un’obbligazione tributaria sganciata dalla verifica circa l’effettiva capacità contributiva del soggetto obbligato. 5. – Nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale non si sono costituite le parti private. 6. − Con atto del 5 settembre 2017, depositato in pari data, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate. L’interveniente osserva che la responsabilità penale di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300) «risponde ad esigenze e finalità totalmente diverse dalla garanzia del recupero delle imposte». Rileva poi che il regime della cessione d’azienda risente della peculiarità di tale vicenda, caratterizzata dal trasferimento di un complesso di beni per l’esercizio di un’impresa da un soggetto ad un altro, là dove la scissione parziale si configura come una riorganizzazione societaria interna al medesimo soggetto. Pone in evidenza che il regime dei crediti civilistici risponde ad esigenze diverse rispetto al credito tributario che ha copertura costituzionale (art. 53 Cost.) e persegue un interesse pubblico. Non a caso nell’ordinamento si rinvengono altri casi in cui la natura tributaria del credito comporta un’estensione del regime di solidarietà. Ciò accade, ad esempio, per la responsabilità degli eredi per i debiti tributari del de cuius, prevista dall’art. 65, primo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 o, per la riscossione dell’imposta di registro, secondo quanto stabilito dall’art. 57 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro). Né vi è violazione del principio di capacità contributiva: l’art. 173, comma 12, del TUIR, infatti, pone gli obblighi tributari a carico della società scissa, che ha realizzato il presupposto dell’imposta, mentre la beneficiaria viene individuata solo come obbligato dipendente, per avere acquistato una parte del patrimonio della società scissa. L’Avvocatura generale deduce quindi che la disciplina censurata non è irragionevole poiché l’esistenza del credito fiscale, a differenza di quanto si verifica per il credito civilistico, può emergere a notevole distanza di tempo, tenuto conto dei termini di decadenza dell’azione di accertamento da parte del fisco previsti dall’art. 43, primo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973. Tale intervallo temporale rende, rispetto agli altri creditori, assai meno utile per l’amministrazione l’eventuale ricorso all’opposizione alla scissione, ai sensi dell’art. 2503 cod. civ. (applicabile per via del richiamo operato dall’ultimo comma dell’art. 2506-ter cod. civ.). Considerato in diritto. 1. – La Commissione tributaria provinciale di Pisa, con ordinanza del 15 giugno 2015, pervenuta il 9 giugno 2017, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, questioni incidentali di legittimità costituzionale dell’art. 173, comma 13, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione


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del testo unico delle imposte sui redditi» (di seguito anche: TUIR), nella parte in cui prevede, in caso di scissione parziale di una società, la responsabilità solidale e illimitata della società beneficiaria per i debiti tributari riferibili a periodi di imposta anteriori alla data dalla quale l’operazione ha effetto, e dell’art. 15, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), nella parte in cui prevede, in caso di scissione parziale, che ciascuna società beneficiaria è obbligata in solido al pagamento delle somme dovute a titolo di sanzione per le violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione produce effetto. Ritiene la commissione tributaria rimettente che sia violato l’art. 3 Cost., con riferimento ai principi di uguaglianza e di ragionevolezza, in quanto le disposizioni censurate disciplinano, in caso di scissione societaria, i debiti tributari in modo diverso rispetto ai debiti civilistici per i quali gli artt. 2506-bis, terzo comma, e 2506-quater, terzo comma, del codice civile prevedono una responsabilità limitata alla quota di patrimonio netto attribuita alla società beneficiaria. Inoltre sarebbe violato anche l’art. 53 Cost., in quanto le disposizioni censurate prevedono una solidarietà per i debiti tributari che prescinde dalla valutazione della capacità contributiva del soggetto obbligato. 2. – Le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono ammissibili avendo la commissione tributaria rimettente superato, con motivazione plausibile, le eccezioni preliminari della società ricorrente riguardanti l’esatta identificazione della disposizione alla quale hanno fatto riferimento le impugnate cartelle esattoriali, la motivazione delle stesse e l’indicazione del responsabile del procedimento di emissione e notifica delle cartelle. Le questioni sono altresì rilevanti perché nel giudizio a quo deve certamente farsi applicazione delle disposizioni censurate. 3. – Nel merito le questioni non sono fondate. 4. – I crediti tributari – quali quelli oggetto della controversia che la rimettente è chiamata a decidere − hanno una marcata connotazione di specialità in ragione dello stretto rapporto di derivazione dal precetto dell’art. 53, primo comma, Cost., secondo cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in proporzione alla loro capacità contributiva. Tali crediti vanno ad alimentare la finanza pubblica perché sia assicurato il prescritto equilibrio di bilancio tra entrate e spese, elevato a vincolo costituzionale dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale). La sostenibilità della finanza pubblica e la stabilità finanziaria costituiscono altresì vincoli europei a seguito del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria, fatto a Bruxelles il 2 marzo 2012. Da tale vincolo deriva un’esigenza superiore di regolare l’adempimento delle obbligazioni tributarie, sul quale deve poter fare affidamento l’amministrazione finan-


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ziaria al fine di conseguire l’equilibrio di bilancio e rispettare i parametri europei del debito pubblico. Tale connotazione peculiare dei crediti tributari emerge in modo evidente sotto vari profili, quali − oltre in generale alla specialità del giudice che ha giurisdizione sulle controversie per il loro accertamento nel processo tributario −, tra gli altri, il sistema della riscossione fiscale che si discosta dal regime ordinario dell’espropriazione forzata regolata dal codice di rito proprio al fine di meglio assicurare l’adempimento delle obbligazioni tributarie. Come più volte affermato da questa Corte, «la disciplina speciale della riscossione coattiva delle imposte non pagate risponde all’esigenza della pronta realizzazione del credito fiscale a garanzia del regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato» (ex plurimis, sentenza n. 281 del 2011). Ove poi si tratti di tributi armonizzati secondo il diritto europeo, maggiore è l’esigenza di effettività del sistema di riscossione fiscale (sentenza n. 225 del 2014). Il corretto adempimento degli obblighi tributari è altresì presidiato da una garanzia reale di ampia portata − il privilegio generale sui mobili del debitore in favore dei crediti per tributi diretti dello Stato, per imposta sul valore aggiunto e per tributi degli enti locali (art. 2752 cod. civ.) − e da più specifiche tutele cautelari, quali l’ipoteca e il sequestro conservativo, previste a favore del fisco dall’art. 22 del d.lgs. n. 472 del 1997. Inoltre, si ha che le operazioni negoziali che costituiscano atti dolosamente preordinati a pregiudicare la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni tributarie hanno un rilievo finanche penale ex art. 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), quale tutela ulteriore per l’amministrazione finanziaria rispetto al generale rimedio civilistico dell’azione revocatoria ex art. 2901 cod. civ. In generale, questa Corte, ponendo in comparazione le obbligazioni civili e quelle tributarie, ha precisato che «non è possibile una piena equiparazione tra l’inadempimento delle stesse e quello delle obbligazioni tributarie, oggetto, per la particolarità dei presupposti e dei fini, di disciplina diversa da quella civilistica» (sentenza n. 291 del 1997; nello stesso senso, sentenza n. 157 del 1996). 5. – Anche con riguardo al diritto societario – nel cui contesto normativo vanno inquadrate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla commissione tributaria rimettente − si registrano parimenti elementi di specialità a tutela dei crediti tributari. Affinché l’amministrazione finanziaria possa contare sulla responsabilità patrimoniale (ex art. 2740 cod. civ.) della società debitrice, sono previste varie disposizioni orientate a preservare la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni tributarie; disposizioni che segnano lo scostamento dalla disciplina ordinaria quale condizione di maggior favore per l’amministrazione finanziaria. Tale è in generale la disciplina della cancellazione delle società dal registro del-


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le imprese, i cui effetti, ai fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi, sono differiti di cinque anni, come previsto dall’art. 28, comma 4, del decreto legislativo 21 novembre 2014, n. 175 (Semplificazione fiscale e dichiarazione dei redditi precompilata), rispetto all’ordinario regime dei crediti sociali di cui all’art. 2495, secondo comma, cod. civ., proprio al fine di favorire l’adempimento dell’obbligazione tributaria e la riscossione fiscale su quello che era il patrimonio della società cancellata. Misure antielusive speciali a tutela dei crediti tributari sono altresì previste dal citato d.lgs. n. 472 del 1997. In particolare gli artt. 14 e 15, in materia di cessione d’azienda e di trasformazione, fusione e scissione di società, contengono una disciplina di settore che costituisce normativa speciale rispetto a quella codicistica quanto alla sorte dei debiti relativi all’azienda ceduta (art. 2560 cod. civ.) e delle sanzioni relative alle violazioni tributarie della società dopo la trasformazione, fusione o scissione (art. 6 del decreto legislativo del 17 gennaio 2003, n. 6, recante «Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366», che ha aggiunto il Capo X al Titolo V del Libro V del codice civile). Il legislatore ha inteso evitare che, attraverso la cessione dell’azienda o la trasformazione, fusione o scissione societaria, sia pregiudicata la garanzia patrimoniale della società, originaria debitrice, in danno dell’interesse pubblico dell’amministrazione finanziaria. Si è così previsto, da una parte, la responsabilità, solidale e sussidiaria, del cessionario per i debiti tributari gravanti sul cedente (art. 14); nonché, d’altra parte, il subentro della società risultante dalla trasformazione o dalla fusione negli obblighi della società trasformata o fusa relativi al pagamento delle sanzioni (art. 15, comma 1); e infine, la responsabilità solidale di ciascuna società risultante dalla (o interessata alla) scissione, quanto alle somme dovute per violazioni tributarie (art. 15, comma 2). 6. – Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente si focalizzano sul particolare regime della solidarietà delle obbligazioni tributarie in caso di scissione societaria. In generale la scissione – istituto non previsto dall’originaria disciplina codicistica delle società, ma introdotto come fattispecie tipica di nuovo conio in sede di trasposizione della relativa disciplina comunitaria con il decreto legislativo 16 gennaio 1991, n. 22 (Attuazione delle direttive n. 78/855/CEE e n. 82/891/CEE in materia di fusioni e scissioni societarie, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge 26 marzo 1990, n. 69), poi riformulata in occasione della riforma del diritto delle società con il citato d.lgs. n. 6 del 2003 − può essere totale o parziale (art. 2506 cod. civ.), secondo che la società scissa assegni l’intero suo patrimonio a più società (cosiddette beneficiarie), preesistenti o di nuova costituzione, ovvero solo parte del suo patrimonio in favore di più società o, in tal caso, anche di una sola società. Le relative azioni o quote, corrispondenti all’intero patrimonio assegnato della società scissa o a parte di esso, sono, di norma, attribuite ai soci della società beneficiaria e, in ipotesi di scissione totale, la


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società scissa può contestualmente attuare il proprio scioglimento senza liquidazione, essendo stato il suo patrimonio interamente assegnato, ma può anche continuare la propria attività eventualmente a seguito di ricapitalizzazione. Si tratta essenzialmente di un’operazione riorganizzativa dell’attività d’impresa in forma societaria e di riassetto della partecipazione (azionaria o per quote) dei soci, pur con effetti traslativi del patrimonio sociale (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 novembre 2016, n. 23225). In particolare, quanto ai debiti tributari, il regime della solidarietà tra tutte le società beneficiarie unitamente alla società scissa – vuoi che la scissione sia totale, vuoi che sia parziale – è illimitato e senza beneficium excussionis. Ciò è espressamente previsto dall’art. 15, comma 2, sopra citato: per il pagamento delle somme dovute dalla società originaria per violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione produce effetto, sono tenute in solido tutte le società, quella originaria e quelle beneficiarie risultanti dalla scissione se di nuova costituzione o coinvolte dalla scissione, se preesistenti ed assegnatarie, in tutto o in parte, del patrimonio della società scissa. Analoga portata ha la solidarietà prevista dall’art. 173 TUIR che – dopo aver posto al comma 1 il principio di neutralità, per cui la scissione totale o parziale di una società in altre preesistenti o di nuova costituzione non dà luogo a realizzo, né a distribuzione di plusvalenze e minusvalenze dei beni della società scissa – ha dettato, ai successivi commi 12 e 13, la regola della responsabilità per i debiti tributari, quelli riferibili a periodi di imposta anteriori alla data dalla quale l’operazione di scissione ha effetto. In caso di scissione parziale gli obblighi tributari della società sono adempiuti dalla società stessa e i controlli, gli accertamenti e ogni altro procedimento relativo ai suddetti obblighi sono svolti nei suoi confronti. Nel caso di scissione totale gli obblighi tributari della società scissa gravano sulla società beneficiaria appositamente designata nell’atto di scissione. Se la designazione è omessa, si considera designata la beneficiaria nominata per prima nell’atto di scissione. Quanto all’estensione della responsabilità patrimoniale, prevede il citato art. 173, comma 13, che «le altre società beneficiarie sono responsabili in solido per le imposte, le sanzioni pecuniarie, gli interessi e ogni altro debito». Benché il dato testuale della disposizione presenti una qualche ambiguità, perché sembrerebbe riferirsi alle società beneficiarie diverse da quella tenuta agli obblighi tributari nella scissione totale, la commissione tributaria rimettente, in sintonia con la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenze 24 giugno 2015, n. 13059, e 3 novembre 2016, n. 22225), ritiene argomentatamente che la prevista responsabilità solidale riguardi qualsivoglia società “beneficiaria”, tale perché assegnataria di quote del patrimonio sociale, sia in ipotesi di scissione totale (con assegnazione di tutto il patrimonio sociale, necessariamente a più società), sia di scissione parziale (con assegnazione solo di parte del patrimonio sociale, in tal caso anche ad una sola società). Quindi, per i debiti tributari, in mancanza di specificazioni negli artt. 15 e 173 citati,


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opera il criterio generale posto dall’art. 1292 cod. civ.: i debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo che ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità. Tale presupposto interpretativo delle sollevate questioni di legittimità costituzionale non solo risponde al criterio di plausibilità al fine della loro rilevanza, tanto più perché conforme al diritto vivente, ma appare anche corretto perché orientato da ragioni di sistematicità. Sarebbe infatti priva di giustificazione una differenziazione tra società beneficiarie secondo che la scissione sia totale o parziale ai fini del citato art. 173, comma 13, quanto ai debiti tributari, mentre alcuna distinzione chiaramente non fa né l’art. 15, citato, quanto alle sanzioni per inadempimento dei debiti tributari, né più in generale la disciplina codicistica (artt. 2506-bis, terzo comma, e 2596-quater, terzo comma, cod. civ.). 7. – Ciò posto, deduce la commissione tributaria rimettente che la regola della responsabilità patrimoniale solidale per le società beneficiarie quanto ai debiti tributari è diversa – e maggiormente gravosa per queste ultime − da quella prevista per i debiti sociali in genere; e da ciò la censura di disparità di trattamento ed irragionevolezza intrinseca. In effetti, per i debiti tributari – come già rilevato − i debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione e quindi sono tenuti all’adempimento per la totalità. Invece per i debiti non tributari della società scissa, la cui destinazione non sia desumibile dal progetto di scissione, la solidarietà è limitata al valore effettivo del patrimonio netto attribuito a ciascuna società beneficiaria (art. 2506-bis, terzo comma, cod. civ.) e, più in generale, al valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico (art. 2506-quater, terzo comma, cod. civ.). Quindi alla stregua della disciplina codicistica sussiste sì la solidarietà, ma con un’estensione limitata al patrimonio assegnato e, secondo la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 7 marzo 2016, n. 4455), nel rispetto del cosiddetto beneficium ordinis, ossia della previa costituzione in mora del debitore originario. Comparando la disciplina speciale tributaria con quella generale civilistica, si ha pertanto che l’amministrazione finanziaria, che vanti un credito tributario nei confronti della società scissa, versa in una situazione differenziata, e più favorevole, rispetto a quella dei creditori sociali della medesima società. Essa infatti conserva la garanzia patrimoniale su tutto quello che era il patrimonio della società originaria debitrice, alla quale si affianca la garanzia costituita dall’intero patrimonio delle società risultanti a seguito della scissione o interessate alla stessa (ossia le società beneficiarie), giacché per l’adempimento dell’obbligazione tributaria potrà contare sulla responsabilità solidale illimitata di tutte tali società. Invece i creditori sociali, diversi dall’amministrazione finanziaria, vedono frazionato il patrimonio della società scissa e, con esso, la responsabilità patrimoniale ex art. 2740 cod. civ., in parziale deroga al principio generale che governa la responsabilità


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contrattuale, secondo cui il debitore non può sostituire a sé un terzo senza il consenso del creditore (art. 1406 cod. civ.). I creditori sociali, però, ove pregiudicati dal frazionamento del patrimonio sociale, possono proporre opposizione alla scissione (ex art. 2506-ter, quinto comma, cod. civ.) nello stesso termine (di sessanta giorni) e con la stessa disciplina previsti per l’opposizione dei creditori alla fusione societaria (art. 2503, secondo comma, cod. civ.). Si richiede quindi ai creditori sociali una particolare vigilanza, tanto più che si ritiene da parte della giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 20 novembre 2013, n. 26043) che, una volta divenuta definitiva la scissione sociale per mancanza di tempestiva opposizione, non sia più possibile domandare l’accertamento dell’invalidità della scissione ed è controversa nella giurisprudenza di merito l’ammissibilità, o no, dell’azione revocatoria ordinaria o fallimentare dell’atto di scissione per la conservazione della garanzia patrimoniale (l’irreversibilità dell’operazione di scissione societaria in caso di concordato fallimentare è ora prevista come criterio di delega dall’art. 6, comma 2, lettera c, della legge 19 ottobre 2017, n. 155, recante «Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza»). 8. – Orbene, viene qui in considerazione la rimarcata specialità dei crediti tributari, sopra evidenziata, tanto più rilevante in riferimento ad un’operazione societaria, quale la scissione, che può incidere sensibilmente sulla posizione dei creditori della società e, nella fattispecie, dell’amministrazione finanziaria. Si ha in particolare che, nel caso dei debiti tributari della società originaria, poi scissa, il termine per l’accertamento e la rettifica fiscale − ex art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), come da ultimo sostituito dall’art. 1, comma 131, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», secondo cui gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione − è ben più ampio del termine (di sessanta giorni) per l’opposizione alla scissione societaria ex artt. 2506-ter e 2503 cod. civ.; sicché il credito dell’amministrazione finanziaria nei confronti della società scissa potrebbe emergere dopo anni, seppur nel previsto termine di decadenza di esercizio del potere di accertamento fiscale, e potrebbe essere fortemente pregiudizievole per l’amministrazione ritrovare frazionato, tra le società beneficiarie, l’originario patrimonio della società debitrice a seguito dell’operazione di scissione. È quindi ragionevole la disciplina differenziata che esclude la possibilità per le società beneficiarie, obbligate in solido, di opporsi all’amministrazione finanziaria, estranea all’operazione di scissione societaria, il limite del patrimonio assegnato con l’atto di scissione, in ipotesi non tempestivamente opposto da quest’ultima. È proprio la rilevata connotazione di specialità dei crediti tributari, sopra evidenziata, che giustifica, sul piano costituzionale del rispetto del principio di eguaglianza e


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di ragionevolezza, che in caso di scissione societaria vi sia una disciplina differenziata quanto al regime della solidarietà per i debiti sociali, più favorevole per l’amministrazione finanziaria, secondo un canone di adeguatezza e proporzionalità di tale più estesa tutela. La necessità che sia assicurato il regolare adempimento delle obbligazioni tributarie si traduce infatti nell’esigenza di conservazione della piena garanzia ex art. 2740 cod. civ. sul patrimonio della società originaria che permane con la stessa non limitata ampiezza sul patrimonio delle società risultanti dalla (o interessate alla) scissione, sicché sotto questo profilo l’operazione di scissione societaria non può essere pregiudizievole per l’amministrazione finanziaria. Del resto, la neutralità dell’operazione sotto l’aspetto passivo della responsabilità patrimoniale, a favore dell’amministrazione finanziaria, è anche coerente, in chiave sistematica, con la neutralità sul versante attivo stante la non configurabilità di plusvalenze tassabili dei beni della società scissa secondo l’espresso disposto del comma 1 del censurato art. 173. Sicché sotto il profilo fiscale la scissione societaria si rivela essere – come già osservato − un’operazione sostanzialmente organizzativa di riassetto della partecipazione societaria che non pregiudica l’amministrazione finanziaria, perché quest’ultima conserva la garanzia patrimoniale potendo contare sulla (non limitata) responsabilità solidale delle società risultanti dalla scissione, né produce ex se plusvalenze tassabili dei beni della società scissa. Né tale particolare solidarietà per i debiti tributari costituisce una sopravvenienza imprevedibile, lesiva dell’affidamento delle società beneficiarie. La scissione societaria trova infatti origine in un atto negoziale non solo volontario, ma anche consapevole dei debiti tributari della società scissa nella misura in cui questi ultimi risultino – secondo un principio di precauzione – dal progetto di scissione recante anche la situazione patrimoniale con l’allegata relazione illustrativa ex artt. 2506-bis e 2506ter cod. civ. 9. – Pertanto, la mancata limitazione di tale responsabilità solidale può ritenersi giustificata dalla specialità dei crediti tributari e risponde ad un criterio di adeguatezza e proporzionalità, diversamente da altre norme considerate di eccessivo favore per l’amministrazione finanziaria, quale quella del fallimento cosiddetto fiscale, che vedeva invece uno sproporzionato ed ingiustificato rafforzamento della garanzia dell’adempimento dell’obbligazione tributaria, sul diverso piano delle conseguenze dell’inadempimento, ritenuto costituzionalmente illegittimo da questa Corte (sentenza n. 89 del 1992). Né la conclusione raggiunta può essere revocata in dubbio dalla considerazione che limitata è invece la solidarietà, in caso di scissione societaria, nel regime della responsabilità amministrativa degli enti di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, anche a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300). Si tratta di una fattispecie diversa, non comparabile con quella in esame, perché riguardante gli illeciti amministrativi


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dipendenti da reati commessi nell’interesse o a vantaggio di enti forniti di personalità giuridica e di società e associazioni anche prive di personalità giuridica. La derivazione da un reato connota di particolare specialità la responsabilità della società originaria in termini maggiormente individualizzati, quanto alla riferibilità dell’illecito a quest’ultima, secondo il generale principio di legalità ex art. 2 del d.lgs. n. 231 del 2001, sicché la solidarietà per il pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dalla società scissa, di cui sono gravate le società beneficiarie della scissione, ma che sono estranee all’illecito, è non già piena, ma limitata al valore effettivo del patrimonio netto ad essa trasferito. 10. – Al rispetto, sotto gli esaminati profili, del principio di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.) si accompagna anche l’inesistenza di un vulnus della capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.), la quale sussiste in capo alla società originaria debitrice (ciò di cui non dubita la commissione tributaria rimettente) e non va parametrata al patrimonio netto delle società beneficiarie, sorte unilateralmente a seguito di un’operazione negoziale – la scissione societaria − alla quale l’amministrazione finanziaria è estranea e che è invece nella disponibilità del debitore, ossia della società stessa. Può quindi ritenersi, in conclusione, che la censurata disciplina più favorevole all’amministrazione finanziaria non violi, per quanto finora argomentato, i parametri indicati dalla commissione tributaria rimettente e rispetti il criterio di adeguatezza e proporzionalità della maggiore tutela riconosciuta all’amministrazione finanziaria per l’adempimento delle obbligazioni tributarie. 11. – Mette conto infine di rilevare che il vincolo di solidarietà piena che grava sulle società beneficiarie a seguito della scissione societaria è comunque bilanciato dall’ordinaria azione di regresso tra coobbligati ex art. 1299 cod. civ. Il carattere non limitato, nei confronti dell’amministrazione finanziaria, della responsabilità patrimoniale solidale delle società beneficiarie a seguito della scissione non esclude che nei rapporti interni tra debitori solidali l’esposizione debitoria di ciascuna società beneficiaria sia contenuta nel limite del patrimonio assegnato in sede di scissione, pur nel rispetto della presunzione di cui all’art. 1298, secondo comma, cod. civ., secondo cui, se non risulta diversamente, l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori in parti eguali. C’è quindi, a favore della società beneficiaria cui l’amministrazione finanziaria abbia chiesto l’intero, un’azione di regresso, nei limiti dell’eccedenza, nei confronti delle altre società coobbligate. Per queste ultime la stessa disposizione censurata (al comma 13 dell’art. 173 TUIR) prevede la possibilità della loro partecipazione al procedimento avente ad oggetto il debito tributario dell’originaria società scissa. Ciò comporta che l’eventuale controversia tributaria, in cui l’amministrazione finanziaria faccia valere la piena responsabilità patrimoniale di una sola società beneficiaria (così com’è nel giudizio a quo), è comune a tutte le società coobbligate, le quali possono intervenire nel giudizio ed altresì – pur non essendoci un’ipotesi di litisconsorzio necessario − pos-


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sono essere chiamate in quello stesso giudizio dalla società beneficiaria, richiesta dell’adempimento integrale, e non già pro quota, dell’obbligazione tributaria, perché comunque tutte le altre società, oltre alla stessa società scissa, sono parti del rapporto sostanziale controverso (art. 14 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, recante «Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413»). In questo contesto processuale con pluralità di parti trova tutela l’interesse della società beneficiaria, esposta per l’intero nei confronti dell’amministrazione finanziaria, a far sì che il giudicato si formi anche nei confronti delle altre società obbligate in solido (le eventuali altre società beneficiarie, nonché la stessa società scissa) nei cui confronti poter far valere il regresso per la parte eccedente il patrimonio assegnato o la quota di obbligazione solidale. P.Q.M. La corte costituzionale dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 173, comma 13, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), e dell’art. 15, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Pisa, con l’ordinanza indicata in epigrafe. (Omissis)

(1) Dogmi e principi: riflessioni alla luce della recente pronuncia della consulta sulla responsabilità tributaria in materia di scissione. Sommario: 1. Quadro normativo e questione giuridica. – 2. Sentenza della Corte Co-

stituzionale n. 80 del 26-4-2018: l’“esigenza superiore” del credito erariale è un argomento efficace? – 3. L’obbligazione tributaria, fenomeni successori e responsabilità intra vires. – 4. Evoluzione e genesi della normativa fiscale e civilistica in tema di scissione: viene prima la responsabilità (civilistica) limitata o quella tributaria (asseritamente) illimitata? – 5. Conclusioni.

Il tema dei limiti della responsabilità tributaria nella scissione costituisce un argomento a lungo dibattuto, sul quale le annose argomentazioni degli interpreti parrebbero aver trovato risposta nella recente sentenza della Corte Costituzionale n. 80 del 26-04-2018. La sentenza ha avuto l’indubbio merito di aver posto un punto fermo ai dubbi di legittimità che la differente estensione della responsabilità tributaria e civilistica aveva creato negli operatori; in ciò è senza dubbio da accogliere con favore, essendo la certezza del diritto un valore giuridico fondante di ogni stato di diritto. Cionondimeno, la pronuncia presterebbe il fianco ad alcune osservazioni, di seguito esaminate.


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The extent of the tax liability arising from demerger has been a long standing issue. Pursuant to the Italian Civil Code (Article 2506-bis, paragraph 3 and Article 2506-quater, paragraph 3), as a result of a demerger, beneficiary companies are liable up to the net assets value received from the merging company, as a result of the demerger. The underlying reason must be found in the principles underpinning the succession of individuals and legal entities, whereby the extent of the liability is usually narrowed down to the value of the assets received (i.e., intra vires), hence ensuring a fair relationship between assets received and liabilities to be incurred. However, when it comes to deal with tax liabilities arising from a demerger, tax rules (Articles 173, paragraph 12 and 13, Presidential Decree 22 October 1986, No. 917) do not identify any threshold for the exposure of beneficiary companies. Those considerations have given rise to a debate on whether or not the limitation provided by the Code Civil also applyies to tax liabilities arising from a demerger; it has also been also noted that, in the absence of sounding justifications, the existence of different set of rules for tax liabilities and other kind of liabilities could breach the principle of equality, hence triggering constitutional issues. A recent judgment, handed down by the Constitutional Court (judgment No. 80 of 26 April 2018), has deeply dealt with those issues, expecially the constitutional ones. While appreciating the judgement – since it is a remarkable attempt to increase the certainty of law – we identify some room for criticism, as shown in the following analysis.

1. Quadro normativo e questione giuridica. – In materia di scissione, il Codice Civile (artt. 2506-bis, co. 3 (1) e 2506-quater, co. 3 (2)) prevede una limitazione alla responsabilità delle società beneficiarie, circoscritta al valore effettivo del patrimonio netto ricevuto in esito alla scissione (3) (4). Alcune plausibili giustificazioni di tale scelta possono risiedere nei principi generali che disciplinano i fenomeni successori, di regola caratterizzati da una limita-

(1) Art. 2506-bis, co. 3: “Degli elementi del passivo, la cui destinazione non è desumibile dal progetto, rispondono in solido, nel primo caso, le società beneficiarie, nel secondo la società scissa e le società beneficiarie. La responsabilità solidale è limitata al valore effettivo del patrimonio netto attribuito a ciascuna società beneficiaria”. (2) Art. 2506-quater, co. 3: “Ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico”. (3) Il Codice Civile distingue tra l’ipotesi in cui l’elemento passivo sia stato “specificamente” trasferito ad una delle società partecipanti all’operazione, da quella in cui, tale attribuzione sia assente. In quest’ultimo caso è prevista una responsabilità solidale di tutte le società partecipanti all’operazione, mentre nel primo caso, risponde la singola società “assegnataria”, prevedendo comunque una responsabilità solidale per tutte le società risultanti dalla scissione, qualora questo non risulti soddisfatto da quella alla quale faceva carico. (4) F. Montanari, “La responsabilità tributaria nelle operazioni di scissione parziale: la deriva della Suprema Corte verso la salvaguardia della ragion fiscale”, in Riv. Dir. Trib, 1/2018.


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zione della responsabilità intra vires (come di seguito ampiamente illustrato), nonché nella volontà di ripartire la responsabilità in linea con le sorti del patrimonio a seguito della scissione. La successione intra vires bilancerebbe l’interesse dei creditori della scissa e della beneficiaria; evitando in tal modo che nel concorso tra creditori non privilegiati, i primi vedano “intaccata” la garanzia patrimoniale sulla quale potevano contare nella fase ante scissione, a causa del concorso dei creditori della beneficiaria, e viceversa (5). In ambito tributario (art. 173, co. 12 e 13, D.p.r. 22 ottobre 1986, n. 917 (6), di seguito “TUIR”) la normativa applicabile non indica un limite massimo alla responsabilità che assumono le società beneficiarie per i debiti fiscali della scissa (7). Il Legislatore serba lo stesso “silenzio” nel disciplinare il trattamento sanzionatorio prevedendo che “Nei casi di scissione anche parziale di società od enti, ciascuna società od ente è obbligato in solido al pagamento delle somme dovute per violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione produce effetto (8).

(5) Ai creditori preesistenti – non soddisfatti o sufficientemente garantiti – è data “a monte” la possibilità di tutelare i propri interessi opponendosi alla realizzazione dell’operazione (art. 2503 c.c., previsto per la fusione, ma applicabile anche con riferimento alla scissione, ex art. 2506-ter comma 5 c.c.). (6) Art. 173, co. 12 e 13, TUIR: “Gli obblighi tributari della società scissa riferibili a periodi di imposta anteriori alla data dalla quale l’operazione ha effetto sono adempiuti in caso di scissione parziale dalla stessa società scissa o trasferiti, in caso di scissione totale, alla società beneficiaria appositamente designata nell’atto di scissione. I controlli, gli accertamenti e ogni altro procedimento relativo ai suddetti obblighi sono svolti nei confronti della società scissa o, nel caso di scissione totale, di quella appositamente designata, ferma restando la competenza dell’ufficio dell’Agenzia delle entrate della società scissa. Se la designazione è omessa, si considera designata la beneficiaria nominata per prima nell’atto di scissione. Le altre società beneficiarie sono responsabili in solido per le imposte, le sanzioni pecuniarie, gli interessi e ogni altro debito e anche nei loro confronti possono essere adottati i provvedimenti cautelari previsti dalla legge. Le società coobbligate hanno facoltà di partecipare ai suddetti procedimenti e di prendere cognizione dei relativi atti, senza oneri di avvisi o di altri adempimenti per l’Amministrazione”. (7) La norma si limita a prevede i destinatari degli obblighi tributari derivanti dalla scissione, stabilendo che in caso di scissione totale siano trasferiti “alla società beneficiaria appositamente designata nell’atto di scissione”, mentre in caso di scissione parziale siano adempiuti “dalla stessa società scissa” imponendo alle “altre società beneficiarie” una responsabilità solidale (sussidiaria) per le imposte, le sanzioni pecuniarie, gli interessi ed ogni altro debito e anche nei loro confronti possono essere adottati i provvedimenti cautelari previsti dalla legge. La sussidiarietà comporta che l’Amministrazione finanziaria in primis debba agire verso la società scissa e solamente in caso di inadempimento di quest’ultima nei confronti delle “altre beneficiarie”. (8) Art. 15, 2 co., D.lgs. n. 472/1997.


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Nella diversità di formulazione tra la disposizione tributaria e civilistica, è stata colta l’intenzione del Legislatore di eliminare, in ambito fiscale, ogni limitazione di responsabilità per la beneficiaria nei confronti dell’Erario, che si troverebbe dunque a rispondere per i debiti tributari della scissa con tutto il proprio patrimonio (e non nei limiti del patrimonio netto attribuitole), fatto salvo il diritto di regresso nei confronti della società scissa. Di tale avviso è l’opinione giurisprudenziale (9) e la prassi ministeriale (10). In tal ottica il Legislatore, tramite il silenzio serbato nel co. 13 dell’art. 173 avrebbe voluto introdurre una disposizione “speciale” rispetto alle previsioni del Codice Civile e tale “specialità” sembra trovare giustificazione nell’interesse alla soddisfazione dei crediti fiscali. Questa è la conclusione raggiunta dalla recente sentenza della Corte Costituzionale – n. 80 del 26-4-2018 – che presta il fianco alle seguenti considerazioni. 2. Sentenza della Corte Costituzionale n. 80 del 26-4-2018: l’“esigenza superiore” del credito erariale è un argomento efficace? – La pronuncia in esame nasce dalla questione incidentale di legittimità posta dalla Commissione Tributaria Provinciale con riferimento alla conformità dell’art. 173, comma 13, D.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 e dell’art. 15, comma 2, D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (11) agli artt. 3 e 53 della Costituzione (12). Dall’individuazione di una responsabilità tributaria illimitata (operante in ambito fiscale ma non civilistico) il giudice rimettente riteneva violato l’art. 3 Cost., reputando irragionevole la distinzione tra responsabilità civilistica e fiscale

(9) Cass., Sez. V, 20 ottobre 2016 - 3 novembre 2016, n. 22225; C.T. Reg. Roma 31 gennaio 2014, n. 549/1/14. (10) Circ. 10 luglio 1998, n. 180, dove è stato chiarito che, tanto nell’ipotesi di scissione totale, quanto parziale, sorge una responsabilità solidale delle società scissa e beneficiarie per le violazioni commesse prima della scissione, in conformità del resto a quanto già stabilito dalla disciplina civilistica, ma “senza i limiti ivi previsti”. (11) La questione di legittimità costituzionale riguarda la previsione normativa citata “nella parte in cui prevede, in caso di scissione parziale, che ciascuna società beneficiaria è obbligata in solido al pagamento delle somme dovute a titolo di sanzione per le violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione produce effetto”. (12) Nel caso di specie la commissione tributaria doveva pronunciare sui ricorsi riuniti proposti da una società beneficiaria di scissione parziale aveva impugnato quattordici cartelle di pagamento, notificatele in qualità di coobbligata solidale, emesse ai sensi dell’art. 36-bis del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), per imposte varie e tasse automobilistiche, relative agli anni 2007, 2008, 2009, 2010 e 2011.


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se confrontata con il principio di neutralità che caratterizza la scissione, nonché l’approccio adottato dal Legislatore in altre operazioni straordinarie. Con riguardo al primo aspetto, il principio di neutralità sarebbe violato in quanto la previsione di una responsabilità illimitata crea indebiti vantaggi al creditore (Erario) rispetto ai correlativi svantaggi a carico del beneficiario della scissione, per situazioni debitorie pregresse rispetto al nuovo assetto organizzativo societario. Con riguardo al secondo aspetto (disomogeneità rispetto ad altre operazioni straordinarie) la Corte rileva che, allorquando il Legislatore è intervenuto espressamente a disciplinare la responsabilità nell’ambito di operazioni straordinarie – i.e., la cessione d’azienda – la responsabilità solidale del cessionario per i debiti fiscali del cedente è stata circoscritta nei limiti del valore dell’azienda ceduta (13). A livello sanzionatorio, l’equiparazione del trattamento sanzionatorio tra scissa e beneficiaria risulterebbe irragionevole in quanto la scissa è pur sempre l’autrice della violazione mentre la beneficiaria è estranea alla commissione dell’illecito (14). Ciò, inoltre, contrasterebbe con scelte sistematiche operate dal Legislatore in altri ambiti sanzionatori, come ad es., in materia di responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, dove la responsabilità è limitata al patrimonio oggetto dell’operazione, sia per il caso di cessione di azienda, sia per il caso di scissione parziale (15).

(13) Art. 14, co. 1 e 2, D.lgs. 18/12/1997 n. 472: “1. Il cessionario è responsabile in solido, fatto salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente ed entro i limiti del valore dell’azienda o del ramo d’azienda, per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore. 2. L’obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e degli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza”. (14) La disciplina delle sanzioni prevista dall’art. 15, co. 2, D.lgs. 18/12/1997, n. 472: “Nei casi di scissione anche parziale di società od enti, ciascuna società od ente è obbligato in solido al pagamento delle somme dovute per violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione produce effetto”. (15) Art. 30, comma 2, D.lgs. 08/06/2001, n. 231: “Gli enti beneficiari della scissione, sia totale che parziale, sono solidalmente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall’ente scisso per i reati commessi anteriormente alla data dalla quale la scissione ha avuto effetto. L’obbligo è limitato al valore effettivo del patrimonio netto trasferito al singolo ente, salvo che si tratti di ente al quale è stato trasferito, anche in parte il ramo di attività nell’ambito del quale è stato commesso il reato”. Art. 33, co.1: “Nel caso di cessione dell’azienda nella cui


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La previsione di una responsabilità illimitata della beneficiaria contrasterebbe, inoltre, con l’art. 53 della Cost.; l’obbligazione tributaria non sarebbe determinata in ragione della effettiva capacità contributiva del contribuente (la beneficiaria) ma resterebbe parametrato alla capacità contributiva della scissa. Le censure formulate dal giudice rimettente vengono – ad una ad una – confutate dalla Corte Costituzionale. L’argomento principe su cui ruota la pronuncia è la “specialità” dell’obbligazione tributaria rispetto a quella civilistica in ragione della necessità di alimentare la finanza pubblica e dei vincoli assunti in ambito europeo. Questa “esigenza superiore” giustifica, sul piano costituzionale una normazione più favorevole per l’Amministrazione finanziaria, che in materia di scissione trova espressione nell’imputazione alla beneficiaria di una responsabilità più estesa rispetto a quella civilistica. La tesi della “specialità”, viene corroborata da una serie di indici normativi, quali la “specialità del giudice” che ha giurisdizione sulle controversie tributarie, lo speciale sistema di riscossione fiscale rispetto a quello dell’espropriazione forzata, il privilegi previsti a garanzia della soddisfazione dei crediti erariali per tributi diretti dello Stato, degli enti locali, IVA, la tutela cautelare – ipoteca e sequestro conservativo – a favore del fisco (art. 22 del D.lgs. n. 472 del 1997), l’azione revocatoria per l’Amministrazione finanziaria rispetto al generale rimedio civilistico ex art. 2901 c.c. (16), oltre che ai peculiari poteri che l’Amministrazione conserva nei confronti delle società estinte (17).

attività è stato commesso il reato, il cessionario è solidalmente obbligato, salvo il beneficio della preventiva escussione dell’ente cedente e nei limiti del valore dell’azienda, al pagamento della sanzione pecuniaria”. (16) Inoltre, si ha che le operazioni negoziali che costituiscano atti dolosamente preordinati a pregiudicare la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni tributarie hanno un rilievo finanche penale ex art. 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), quale tutela ulteriore. (17) Come previsto dall’art. 28, comma 4, D.lgs. 21.11.2014, n. 175 (Semplificazione fiscale e dichiarazione dei redditi precompilata), secondo cui “Ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese”. Ciò in deroga all’art. 2495, co. 2, c.c. che fissa l’ordinario regime previsto per i crediti sociali, secondo cui “Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme


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Venendo alla scissione, la ragionevolezza della differente estensione della responsabilità per i debiti tributari troverebbe ulteriore giustificazione – ad avviso della Consulta – in quanto il credito erariale nei confronti della società scissa potrebbe emergere dopo anni, col rischio per l’Erario di ritrovare frazionato, tra le società beneficiarie, l’originario patrimonio della società debitrice a seguito dell’operazione di scissione (18). Tutto ciò in piena coerenza con il principio di neutralità della scissione, che opera tanto sul lato attivo che su quello passivo; ed è proprio la neutralità “passiva” che, secondo la Corte, giustificherebbe la solidarietà illimitata, assicurandone la neutralità verso l’Erario (potendo quest’ultima contare sulla stessa garanzia patrimoniale offerta dalla debitrice, ora nelle vesti di scissa). Né è fondato l’argomento sanzionatorio, stante l’incomparabilità tra il sistema sanzionatorio previsto per le violazioni tributarie e quello introdotto dal D.lgs. 231 del 2001, essendo quest’ultimo connotato in termini “maggiormente individualizzati, quanto alla riferibilità dell’illecito […]” il che giustifica la limitazione della solidarietà delle società beneficiarie della scissione “che sono estranee all’illecito” (19). Infine, nessun vulnus della capacità contributiva può essere individuato – secondo la Corte – in quanto la capacità contributiva deve essere misurata “in capo alla società originaria debitrice […] e non va parametrata al patrimonio netto delle società beneficiarie, sorte unilateralmente a seguito di un’operazione negoziale – la scissione societaria − alla quale l’amministrazione

da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società”. (18) Art. 43 del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, secondo cui gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione. (19) Art. 30, D.lgs. 8/6/2001, n. 231: “1. Nel caso di scissione parziale, resta ferma la responsabilità dell’ente scisso per i reati commessi anteriormente alla data in cui la scissione ha avuto effetto, salvo quanto previsto dal comma 3. 2. Gli enti beneficiari della scissione, sia totale che parziale, sono solidalmente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall’ente scisso per i reati commessi anteriormente alla data dalla quale la scissione ha avuto effetto. L’obbligo è limitato al valore effettivo del patrimonio netto trasferito al singolo ente, salvo che si tratti di ente al quale è stato trasferito, anche in parte il ramo di attività nell’ambito del quale è stato commesso il reato. 3. Le sanzioni interdittive relative ai reati indicati nel comma 2, si applicano agli enti cui è rimasto o è stato trasferito, anche in parte, il ramo di attività nell’ambito del quale il reato è stato commesso”.


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finanziaria è estranea e che è invece nella disponibilità del debitore, ossia della società stessa”. Può quindi ritenersi, in conclusione, che la censurata disciplina più favorevole all’Amministrazione finanziaria non violi, per quanto finora argomentato, i parametri indicati dalla commissione tributaria rimettente e rispetti il criterio di adeguatezza e proporzionalità della maggiore tutela riconosciuta all’amministrazione finanziaria per l’adempimento delle obbligazioni tributarie. La pronuncia della Corte Costituzionale, seppur autorevole, non prende in esame due aspetti che, a nostro parere, avrebbero corroborato la censura di legittimità costituzionale: il rapporto tra normativa civilistica e tributaria e l’origine dell’art. 173 del TUIR. 3. L’obbligazione tributaria, fenomeni successori e responsabilità intra vires. – L’impostazione tradizionale vede le disposizioni che disciplinano l’obbligazione tributaria quali norme speciali rispetto a quelle del Codice Civile. In questo rapporto di specialità, le norme civilistiche dettano una disciplina generale che trova applicazione fin tanto non sia derogata da una previsione di carattere fiscale (20). Dunque, salvo deroghe, la normativa tributaria segue quella civilistica. Così accade in ambito successorio, dove l’estensione della responsabilità dei successori (sia persone fisiche che giuridiche) segue le norme civilistiche, senza essere derogata da norme fiscali ad hoc. Né l’art. 65 (21) del D.p.r.

(20) G. Melis, Disciplina dell’obbligazione tributaria in raffronto con la disciplina delle obbligazioni di diritto privato. Testo della relazione tenuta al Seminario di studio “Le relazioni pericolose tra diritto civile e diritto tributario”, Corte di Cassazione, 18 aprile 2018. (21) Art. 65, D.p.r. 600/1973: “1. Gli eredi rispondono in solido delle obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte del dante causa. 2. Gli eredi del contribuente devono comunicare all’ufficio delle imposte del domicilio fiscale del dante causa le proprie generalità e il proprio domicilio fiscale. La comunicazione può essere presentata direttamente all’ufficio o trasmessa mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, nel qual caso si intende fatta nel giorno di spedizione. 3. Tutti i termini pendenti alla data della morte del contribuente o scadenti entro quattro mesi da essa, compresi il termine per la presentazione della dichiarazione e il termine per ricorrere contro l’accertamento, sono prorogati di sei mesi in favore degli eredi. I soggetti incaricati dagli eredi, ai sensi del comma 2 dell’articolo 12, devono trasmettere in via telematica la dichiarazione entro il mese di gennaio dell’anno successivo a quello in cui è scaduto il termine prorogato. 4. La notifica degli atti intestati al dante causa può essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima, non


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600/1973 (22) né l’art. 35-bis del D.p.r. 633/1972 (23) disciplinano l’estensione della responsabilità tributaria, limitandosi a prevedere una “responsabilità solidale tra erede e dante causa”. Valgono, pertanto, le regole generali dei fenomeni successori, e vale, nello specifico, la normale limitazione intra vires delle responsabilità dei successori: viene in rilievo l’interesse del successore a non essere danneggiato da una successione a lui sfavorevole. Per tale ragione è previsto che il successore (persona fisica o giuridica (24)) possa accettare l’eredità con beneficio d’inventario (25). Questa regola non è immune da eccezioni e talvolta è lo stesso legislatore a specificare i casi ed i requisiti un fenomeno successorio generi in capo al successore una responsabilità illimitata, ad esempio in caso di accettazione dell’eredità pura e semplice o di perdita del beneficio d’inventario. Nei confronti di taluni soggetti, però, l’accettazione dell’eredità non può che essere beneficiata: per i minori e gli interdetti, per i minori emancipati e gli inabilitati (inoltre i rispettivi tutori e curatori devono essere autorizzati dal giudice tutelare); per le persone giuridiche, per le associazioni, le fondazioni e gli enti non riconosciuti (26). Ancora intra vires sono: le successioni nei confronti delle società di capitali, in caso di cancellazione della società, in quanto i soci

abbiano effettuato la comunicazione di cui al secondo comma”. (22) Art. 35-bis D.p.r. 633/1972: “1. Gli obblighi derivanti, a norma del presente decreto, dalle operazioni effettuate dal contribuente deceduto possono essere adempiuti dagli eredi, ancorché i relativi termini siano scaduti non oltre quattro mesi prima della data della morte del contribuente, entro i sei mesi da tale data. 2. Resta ferma la disciplina stabilita dal presente decreto per le operazioni effettuate, anche ai fini della liquidazione dell’azienda, dagli eredi dell’imprenditore”. (23) Non rileva, in quanto non è di tipo successorio, la responsabilità dei soci ex art. 36, comma 3, DPR 602/1973. Mentre l’unica previsione speciale tributaria è quella recata dall’art. 28, comma 4, D.lgs. 156/2014, che, però, pur con le difficoltà esegetiche che presenta, è da leggere nel senso, già esposto, che l’amministrazione può notificare gli atti di accertamento, di riscossione e sanzionatori alla società estinta181: sicché essa non impatta sull’entità delle responsabilità dei successori. Ne consegue che anche per i debiti tributari i soci delle società di capitali rispondono ex art. 2495, comma 2, cod. civ. «fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione»; mentre essi non rispondono delle sanzioni irrogate alla società. (24) Art. 473, c.c.: “L’accettazione delle eredità devolute alle persone giuridiche [c.c. 600, 782] o ad associazioni, fondazioni ed enti non riconosciuti non può farsi che col beneficio d’inventario. Il presente articolo non si applica alle società”. (25) Art. 470, c.c.: “L’eredità può essere accettata puramente e semplicemente o col beneficio d’inventario. L’accettazione col beneficio d’inventario può farsi nonostante qualunque divieto del testatore”. (26) A. Guidara, La successione nelle situazioni soggettive tributarie, Cedam, 2018


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rispondono “fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione”; come anche quelle nei confronti degli enti (ex art.31, comma 3, cod. civ.), estendendo la responsabilità a coloro ai quali i beni sono stati devoluti “entro l’anno dalla chiusura della liquidazione, in proporzione e nei limiti di ciò che hanno ricevuto”. La responsabilità intra vires prevista nella scissione è dunque espressione di un principio del diritto successorio applicabile sia in ambito civilistico che tributario; difficilmente si potrebbe interpretare il silenzio serbato dal legislatore come espressivo di una volontà derogatoria: ubi lex taquit, noluit. Anche perché – come ad esempio nella disciplina sull’estinzione delle società – laddove il Legislatore abbia voluto derogare alla disciplina civilistica di un istituto, l’ha fatto in modo esplicito. Questa conclusione sembra doverosa anche in ragione del rapporto cronologico: l’art. 173 del TUIR (27) è successivo rispetto alla disciplina civilistica che prevede il limite del patrimonio netto nelle operazioni di scissione (28); se il legislatore avesse voluto introdurre una disciplina speciale derogatoria a quella di diritto comune, è ragionevole ritenere che l’avrebbe fatto expressis verbis. Al silenzio del Legislatore pare dunque non potersi attribuire la volontà di derogare alla normativa tributaria, anche in ragione del fatto che una simile conclusione condurrebbe ad un “eccesso di delega da parte del legislatore”. 4. Evoluzione e genesi della normativa fiscale e civilistica in tema di scissione: viene prima la responsabilità (civilistica) limitata o quella tri-

(27) Con l’art. 34, co. 2, della L. 19.2.1992 n. 142 il Governo veniva delegato ad emanare uno o più decreti legislativi recanti le norme occorrenti a disciplinare il regime fiscale da applicare alle scissioni di società nazionali. (28) Infatti, l’art. 173 è stato introdotto con l’art. 34, co. 2, della L. 19.2.1992 n. 142, epoca in cui era già previsto in ambito civilistico il limite del patrimonio netto quale estensione della responsabilità nella scissione, ex art. 18, della D.lgs. 16.1.1991, n. 22. L’articolo 18 citato, dando attuazione delle direttive n. 78/855/CEE e n. 82/891/CEE in materia di fusioni e scissioni societarie, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge 26 marzo 1990, n. 69. introduceva, inter alia, l’art. 2504-decies che recitava: “Art. 2504-decies (Effetti della scissione). – La scissione ha effetti dall’ultima delle iscrizioni dell’atto di scissione nell’ufficio del registro delle imprese in cui sono iscritte le società beneficiarie; può essere tuttavia stabilita una data successiva, tranne che nel caso di scissione mediante costituzione di società nuove. Per gli effetti a cui si riferisce l’art. 2501-bis, numeri 5) e 6), si possono stabilire date anche anteriori. Ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa trasferito o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società a cui essi fanno carico”.


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butaria (asseritamente) illimitata? – L’art. 173 del TUIR trae origine dalla legge delega 19/02/1992 n. 142, il cui articolo 34 delegava il Governo ad attuare la direttiva del Consiglio 90/434/CEE, che riguardava la disciplina del principio di “neutralità fiscale” in materia di operazioni straordinarie nel rispetto dei criteri direttivi (29): si tratta di criteri che circoscrivono l’ambito di intervento in modo specifico e non conferiscono al Governo poteri per intervenire sulla responsabilità tributaria e sanzionatori delle società beneficiarie. Del resto la direttiva 90/434/CEE, aveva lo scopo di evitare che “restrizioni, svantaggi e distorsioni particolari derivanti dalle disposizioni fiscali degli Stati membri un pregiudizio alla realizzazione di operazioni straordinarie nel mercato europeo” potessero arrecare uno svantaggio alla realizzazione di riorganizzazioni societarie in ambito europeo; il favor verso l’europeizzazione delle imprese non costitutiva, di certo, il contesto più idoneo per introdurre una norma pro Fisco sulla responsabilità tributaria per imposte e sanzioni. Il giudizio di conformità (ex art. 76 Cost.) della norma delegata alla norma delegante si esplica attraverso il confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno, relativo alle norme che determinano l’oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto del com-

(29) I criteri identificati nella legge delega prevedono: l’attribuzione a ciascuna partecipazione ricevuta in cambio dai soci della società scissa un valore fiscalmente uguale a quello della partecipazione originaria (lett. a); previsione del carattere non realizzativo del trasferimento degli elementi dell’attivo e del passivo per effetto della scissione, senza generare distribuzione di plusvalenze o minusvalenze (lett. b); conservazione degli stessi valori fiscali degli elementi dell’attivo e del passivo (lett. c); ricostituzione delle riserve e i fondi in sospensione di imposta, esistenti nel bilancio della società scissa, nei bilanci delle società che ricevono il trasferimento del patrimonio sociale proporzionalmente alla quota di patrimonio sociale della società scissa a ciascuna di esse spettante (lett. d); riportabilità da parte della beneficiaria delle perdite fiscali formatesi nel quinquennio anteriore alla data da cui ha effetto la scissione, proporzionalmente alla quota di patrimonio sociale della società scissa a ciascuna di esse spettante (lett. e); irrilevanza dell’avanzo e del disavanzo iscritto nei bilanci delle società a cui viene trasferito il patrimonio sociale della società scissa, dell’avanzo o disavanzo conseguente al rapporto di cambio delle azioni o quote o all’annullamento delle azioni o quote di alcuna delle società partecipanti alla scissione (lett. f); retroattività, ai fini delle imposte sui redditi, degli effetti della scissione e decorrenza degli stessi da una data non anteriore a quella in cui si è chiuso l’ultimo esercizio di ciascuna delle società partecipanti alla scissione (lett. g); disapplicazione o revoca dei benefici fiscali alle operazioni di fusione, scissione o scambio di azioni, se dette operazioni tra società o enti di Stati membri diversi sono poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta (lett. h).


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plessivo contesto di norme in cui si collocano e individuando le ragioni e le finalità poste a fondamento della legge di delegazione; l’altro, relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi e criteri direttivi della delega (v., ex plurimis, sent. n. 276 del 2000, sent. n. 163 del 2000 e sent. n. 126 del 2000; sent. n. 15 del 1999 e sent. n. 7 del 1999). La “legge delegata si collega, in un naturale rapporto di riempimento, con la legge delegante”, con la conseguenza che il silenzio della norma di delegazione non osta all’emanazione di norme rappresentanti il coerente sviluppo e completamento della scelta espressa dal Legislatore delegante e delle ragioni ad essa sottese, fermo restando che il potere si deve conformare non soltanto alle finalità che lo hanno determinato, ma “pure al sistema delineato dalla legislazione precedente” (30). Occorre, dunque che il potere delegato si conformi alle “finalità” ed al “sistema delineato dalla legislazione precedente”. La discrezionalità concessa al delegato deve risultare coerente con il grado di specificità dei criteri fissati dalla legge di delega (31). Come è stato osservato, a fronte di una delega silente, o estremamente vaga, al delegato non è consentito, né emanare norme che nella sostanza risultino tali da eludere le finalità della legge delega, né introdurre disposizioni incoerenti rispetto alla pregressa normativa di settore ed ai principi generali dell’ordinamento (32). Tra i precedenti illustri sul tema, la Corte costituzionale (33) si è occupata

(30) Così C. Cost. 27.4.1997, n. 111 (31) È appena il caso di sottolineare che, con l’approvazione della legge, il Parlamento non si «spoglia» certamente del suo potere di emanare atti normativi primari, prerogativa, questa, che è espressamente prevista dall’art. 70 Cost.: il Parlamento rimane l’unico organo istituzionale legittimato ad emanare ed approvare le leggi secondo le modalità previste dall’art. 72 Cost. e che i motivi per i quali il Parlamento delega al Governo l’emanazione di provvedimenti è da individuarsi nell’alto grado di specialità dei suoi contenuti. Se essi dovessero essere approvati direttamente dal Parlamento (sotto forma di legge ordinaria), difficilmente la loro emanazione avverrebbe in tempi ristretti; a ciò si aggiunga che il più delle volte i provvedimenti sono emanati in ottemperanza a direttive comunitarie che stabiliscono termini perentori per la loro entrata in vigore (32) L. Del Federico, Introduzione alla riforma delle sanzioni amministrative tributarie: i principi sostanziali del D.Lgs. n. 472/1997, in Riv. Dir. Trib., 1999, 110; Id., voce Violazioni e sanzioni in materia tributaria, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 2001, 398 ss. (33) Corte cost., (ud. 09-10-2000) 17-10-2000, n. 425.


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dell’eccesso di delega in materia di clausole anatocistiche (34), ravvisando un eccesso di delega nella introduzione da parte del Governo (delegato ad emanare “disposizioni integrative e correttive” (35)) di una disciplina retroattiva e genericamente validante della prassi anatocistica adottata dal settore bancario (36). Per quanto ampiamente potessero interpretarsi le finalità di “integrazione e correzione” perseguite dal legislatore delegante, nonché i princìpi e criteri direttivi posti a base del testo unico bancario, è stato escluso che in mancanza di un’espressa previsione sul punto si potesse legittimare l’introduzione della norma estranea sia ai criteri della delega che al sistema normativo previgente. Queste considerazioni sembrano valere anche per il tema della responsabilità in materia di scissione; pare estremamente arduo poter colmare il vuoto normativo lasciato nell’art. 173 del TUIR con una interpretazione

(34) M. Curatola, Profili ed effetti giuridici derivanti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 25 III° comma D.lgs. 342/99. L’anatocismo bancario, 23 ottobre 2000, in Rivista di Diritto Bancario e Finanziario; l’Autore ricostruisce la vicenda nel modo seguente. In materia di anatocismo, l’art. 1283 del c.c. prevede la produzione di interessi su interessi, in mancanza di usi contrari, solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. Gli “usi contrari”, comprendevano gli usi normativi (non quelli negoziali) e la Corte di Cassazione era intervenuta a qualificare come “negoziali” le clausole anatocistiche applicate dalle banche verso la clientela che prevedevano la capitalizzazione trimestrale degli interessi. Dichiarando l’illegittimità di tale prassi si apriva la strada verso contenziosi che avrebbero potuto compromettere la stabilità del settore bancario. Al fine di evitare tali effetti disastrosi e devastanti per gli istituti di credito, veniva rapidamente emesso il D.lgs. 342/99, avente il fine di salvaguardare la predetta prassi bancaria, quantomeno per il passato, eliminando normativamente il rischio di azioni giudiziarie dirette alla restituzione delle somme illegittimamente corrisposte, che è stata dichiarata illegittima da parte della Corte Costituzionale (nella sentenza del 17-10-2000, n. 425) per eccesso di delega. (35) Art. 1, co. 5, l. 24 aprile 1998, n. 128, delegava il Governo ad emanare “disposizioni integrative e correttive” del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e successive modificazioni. (36) L’art. 25, co. 3, del decreto legislativo n. 342 del 1999 – norma dichiarata incostituzionale per eccesso di delega – recitava: “Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma due sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità e i tempi di adeguamento. In difetto di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l’inefficacia può essere fatta valere solo dal Cliente”. L’obiettivo prefisso dal Governo era evidentemente quello di salvare tutte le clausole preesistenti (stipulate tra l’entrata in vigore del codice 1942 e la delibera CICR) e per tutto il periodo della loro (eventuale) efficacia, delegittimando così i clienti da qualsiasi azione restitutoria contro le banche.


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che si discosta dai principi vigenti (e previgenti alla norma stessa) in materia di successione (le responsabilità intra vires) e che si discosterebbe dai criteri a cui il Governo è stato delegato. Valorizzando la specificità dei criteri della legge delega sembra difficile, inoltre, poter interpretare la responsabilità illimitata per imposta e sanzioni come una sorta di “neutralità passiva”: anche di tale argomento non vi è traccia negli specifici criteri della legge delega, e sarebbero state sufficienti (ma necessarie) poche parole per contemplarlo. 5. Conclusioni. – Il tema dei limiti della responsabilità tributaria nella scissione costituisce un argomento a lungo dibattuto, sul quale le annose argomentazioni degli interpreti parrebbero aver trovato risposta nella recente pronuncia della Consulta. La sentenza ha avuto l’indubbio merito di aver posto un punto fermo ai dubbi di legittimità che la differente estensione della responsabilità tributaria e civilistica aveva creato negli operatori; in ciò è senza dubbio da accogliere con favore, essendo la certezza del diritto un valore giuridico fondante di ogni stato di diritto. Alcune perplessità restano, tuttavia, se si analizzano le argomentazioni svolte dai Giudici di legittimità; che la giustificazione ad una interpretazione pro Fisco di una norma legislativa silente ruoti attorno alla superiorità del credito tributario rispetto a quello civilistico pare alquanto apodittico. Avendo in mento questo come tesi da dimostrare, l’argomento della Consulta si è poi preoccupato di identificare magistralmente tutta una serie di indici normativi volti a corroborarne la tesi. Questo modus argomentandi presta il fianco ad una debolezza: salvo che non sia fondato su di una verità assiomatica (difficile nel campo delle scienze sociali, com’è il diritto, più comune nell’ambito scientifico) è destinato – presto o tardi – a crollare come accaduto di recente per il principio dell’infalcidiabilità del credito IVA, anch’esso fondato su di una posizione apodittica e sfatato dalla giurisprudenza comunitaria, tramite il riconoscimento della necessità di bilanciare l’interesse erariale con quello dell’imprenditore alla prosecuzione della realtà imprenditoriale, costituzionalmente tutelato (37). È dunque auspicabile che anche in materia di scissione, la questione della responsabilità tributaria venga rivista in termini meno dogmatici e più aderente con quella che sembra essere

(37) S. Morri, S. Guarino, La fine del “dogma” dell’infalcidiabilità del credito IVA, in Corriere Tributario, 39/2016, 3009.


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la genesi e lo spirito della normativa, nonchĂŠ gli interessi di tutti i soggetti coinvolti, tra cui quello della societĂ beneficiaria coinvolta.

Fabrizio Pacchiarotti, Stefano Guarino



Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli

L’attuale volto del diritto penale tributario a seguito della “Maxi-Circolare” G.d.F. 1/2018 Sommario: 1. Profili generali della “Maxi-Circolare” G.D.F. del 2018. La (scoperta)

rilevanza penalistica dell’“abuso del diritto”. – 2. La difficile distinzione fra dichiarazione fraudolenta e dichiarazione infedele. – 3. L’allargamento della rilevanza penalistica dell’omessa dichiarazione: in due direzioni. – 4. Severo inquadramento della sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. – 5. Un capitolo a parte per la determinazione della soglia di punibilità? – 6. Utilizzabilità del p.v.c. e valenza penale delle presunzioni fiscali. – 7. Il processo verbale di constatazione: utilizzabilità. – 8. L’ablazione dei beni dei concorrenti nel reato. – 9. Le implicazioni penali delle verifiche e dei controlli fiscali. – 10. L’utilizzo di elementi probatori di provenienza penale. – 11. Metodiche particolari di individuazione delle fatture false.

La c.d. “Maxi-Circolare” della Guardia di Finanza (in più sezioni e volumi) del 2018, a dieci anni di distanza dalla precedente del 2008, che pure tanta influenza aveva avuto nella giurisprudenza e nella dottrina, rappresenta un ulteriore sviluppo ampio ed importante delle principali tematiche interpretative del sistema del diritto penale tributario quale risultante dal D.Lgs 74/2000 e dalla successiva cospicua modifica del D.Lgs 158/2015. Lo studio della stessa, quindi, non può non costituire un significativo punto di partenza per evidenziare l’orientamento dell’Amministrazione Finanziaria nelle varie questioni interpretative di cui tener conto anche a fini sistematici della materia. Ten years after the previous document of the 2008, which had a lot of influence in the case law and in the doctrine, the Maxi-Circular of 2018 of the Guardia di Finanza constitutes a further prominent advancement of the main interpretations of the tax law penal system, as resulting from Legislative Decree 74/2000 and Legislative Decree 158/2015. Therefore, the study of this Circular is a significant starting point to highlight the Financial Administration tendencies in the various interpretative issues to be taken into consideration for the systematic purpose.

1. Profili generali della “Maxi-Circolare” G.D.F. del 2018. La (scoperta) rilevanza penalistica dell’“abuso del diritto”. – A dieci anni dalla precedente c.d. “Maxi-Circolare” della Guardia di Finanza del 2008, che aveva individuato


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importanti soluzioni interpretative alle norme di cui al D.Lgs. 74/2000 ad opera del Comando Generale della G.d.F., III Reparto operazioni-Ufficio Tutela Entrate, è stata approvata (a firma del Comandante Generale Gen. C.A. Giorgio Toschi) la c.d. “Maxi Circolare n. 1/2018” (tecnicamente “Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali”), consistente in più volumi e con considerevole approfondimento interpretativo, destinata ad influire, come d’altronde già avvenuto con la precedente (peraltro anteriore alla riforma di cui al D.Lgs. 158/2015). Non trattandosi, quindi, soltanto di un documento scientifico di interpretazione delle norme ma di un atto destinato ad indirizzare, con notevoli effetti anche in sede giurisprudenziale, l’applicazione della normativa e dell’intero sistema penal-tributario, merita svolgere in questa sede alcune considerazioni su taluni, tra i tantissimi, dei più rilevanti problemi del settore (1). Significativa del profondo cambiamento avvenuto nell’ambito dell’economia globale, come introduzione generale, è la considerazione iniziale del volume primo in base alla quale, nell’attuale momento storico, occorre dare rilievo alla componente economica denominata “Economia non osservata (NOE)”, che comprende l’insieme delle attività economiche che per motivi differenti sfuggono all’osservazione statistica diretta (c.d. “sommerso economico ed economia illegale)” (Circolare vol. I, p. I, f.5), da intendersi nell’ampia definizione di “attività produttive aventi per oggetto beni e servizi illegali o che, pur riguardando beni e servizi legali, sono svolte senza adeguata autorizzazione o titolo”; da valutarsi, cioè, come fenomeno assai più ampio rispetto a quello tradizionalmente definito “evasione fiscale”. L’evasione internazionale rappresenta, infatti, una delle forme più complesse di evasione ed elusione fiscale, la cui diffusione è da correlare principalmente alla globalizzazione dell’economia ed alla disarmonia esistente tra i vari ordinamenti tributari, anche in ambito UE, causa di fenomeni di c.d. “concorrenza fiscale dannosa”. A riguardo di quanto precede la Circolare si addentra nella delicata problematica del c.d. “abuso del diritto” od “elusione fiscale”, la cui rilevanza penalistica, dopo tante discussioni dottrinarie e giurisprudenziali, è stata correttamente risolta dall’art. 10-bis L.212/2000, giungendo all’apprezzabile

(1) Sulle c.d. fonti secondarie in generale e nel diritto tributario v., anche per le citazioni, Carpentieri, Le fonti del diritto tributario, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Milano, 2012, 133 ss. l.


Rubrica di diritto penale tributario

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conclusione che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative, sostanzialmente ponendo fine al dianzi delineato dibattito dottrinale e giurisprudenziale” (f.10). In tal modo, quindi, non lasciando spazio alle tesi tuttora sostenute da certa dottrina, della necessità di inviare sempre e comunque denunzia penale all’A.G. per ipotesi “concrete” di abuso del diritto le quali, malgrado la chiara valenza della norma citata, potrebbero ancora lasciare spazio a rischi penali. L’argomento viene sviluppato dalla Circolare nella parte V del capitolo 9 primo volume in un paragrafo intitolato “la irrilevanza penale dell’elusione fiscale”, dove, ad ulteriore commento dell’art.10-bis cit., vengono citate alcune sentenze della Cassazione, le quali hanno ritenuto la rilevanza penale di comportamenti macroscopicamente qualificabili come operazioni costituenti “un mero simulacro privo di qualsivoglia effettivo contenuto”, essendo evidente che in tali situazioni, ”esulando la fattispecie dall’ipotesi penalmente irrilevante dell’abuso del diritto, non potrebbe considerarsi scriminata in forza di quanto disposto dal menzionato c. 13 dell’art. 10 bis la condotta di chi, al fine di conseguire un vantaggio fiscale, realizzasse esclusivamente negozi simulati o comunque affetti da altre nullità dal punto di vista civilistico”; e che “la definizione dell’abuso postula l’assenza nel comportamento elusivo del contribuente di tratti riconducibili ai paradigmi penalmente rilevanti della simulazione, della falsità o più in generale della fraudolenza; imprime alla disciplina dell’abuso caratteri di residualità agli altri strumenti di reazione previsti dall’ordinamento tributario”, per cui “rimane impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali, sempre che naturalmente ne sussistano i presupposti, nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive (ad es. negando deduzioni o benefici fiscali, la cui indebita auto-attribuzione da parte del contribuente potrebbe bene integrare taluno dei delitti in dichiarazione); parimenti rimane salva la possibilità di ritenere ,nei congrui casi, che, alla luce delle previsioni della normativa delegata e della possibile formulazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione”. Senza, qui, potersi qui entrare nell’analisi dei casi concreti di volta in volta presi in esame dalla giurisprudenza della Cassazione, ognuno diverso dall’altro, merita sottolineare lo spirito generale del criterio fondamentale da essa ricavabile, ossia che eventuali ipotesi di realizzazione in casi specifici


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di comportamenti integranti gli estremi del citato art. 3 non sono di per sé riconducibili – e sarebbe scorretto farlo – al fenomeno, autonomamente disciplinato, dell’“abuso del diritto” (2). Si tratta, questa, di una conclusione sistematica di importante rilevanza operativa, la quale merita di essere decisamente sottolineata: ossia quella che i verificatori non devono mai procedere alla denunzia al P.M. di comportamenti dei contribuenti, soggetti privati o società, da potersi ricondurre alla figura dell’ “abuso del diritto”, senza che in essi siano espressamente individuabili estremi della condotta del reato di cui all’art. 3, che non può quindi essere sistematicamente considerata, per così dire, un’ipotesi penale di abuso del diritto. I verificatori, quindi, sono tenuti alla denunzia al P.M. solo in quanto nel caso concreto hanno ravvisato estremi del citato delitto, al di fuori della diversa problematica, non di stampo penalistico, dell’eventuale (teorica) riconduzione del comportamento stesso alla figura, appunto di esclusiva rilevanza fiscale dello stesso. A conclusione di questa prima parte dell’analisi si deve, dunque, finalmente, dopo tante confusioni avutesi in giurisprudenza e dottrina, poter sistematicamente affermare che il documento in esame introduce nell’ordinamento penal-tributario un concetto ben preciso di “abuso del diritto” completamente distaccato da quello di “reato tributario”, quale costituito, il primo, da elementi interpretativamente irrilevanti per gli aspetti penalistici. Ed è allora auspicabile, sul piano operativo e conseguentemente giurisprudenziale, che le due tematiche siano sempre tenute distinte e separate con le conseguenti ripercussioni operative e di classificazione dei fatti concretamente esaminati (3).

(2) Sul tema dell’abuso del diritto la dottrina è sterminata: fra i tanti v. P. Boria, L’abuso del diritto in materia fiscale come principio generale di derivazione giurisprudenziale, in questa Rivista, 2017, I, 665; G. Corasaniti, Le garanzie procedimentali in tema di abuso del diritto: spunti di riflessione per un’estensione ad altre forme di accertamenti,in Per un nuovo ordinamento tributario, vol. I, Genova, 2016, 291 ss. ; G.M. Flick, Abuso del diritto ed elusione fiscale: quale rilevanza penale?, in Giur. comm., 2011, I, 465; F. Gallo, L’abuso del diritto nell’art. 6 della Direttiva 2016/1164/UE e nell’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente: confronto fra le due nozioni, in Rass. trib., 2018, 2, 271; S. La Rosa, Ancora sugli incerti confini tra abuso del diritto ed illecito fiscale, in questa Rivista, 2012, II, 353; F. Paparella, Abuso del diritto: oneri procedimentali e requisiti essenziali dell’atto impositivo, ivi, 2018, I, 235; G. Zizzo, L’abuso del diritto, in Corr. trib., 2008, 465. (3) Sull’incidenza nella giurisprudenza della tematica dell’abuso del diritto v., con ampie citazioni, la monografia di C. Santoriello, Abuso del diritto e conseguenze penali, Torino, 2017.


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È, in ogni caso, anche auspicabile che la giurisprudenza, soprattutto quella della Cassazione, affermi in maniera decisa che in sede penal-tributaria il concetto di “abuso del diritto” non possiede alcun valore, trattandosi di un vero e proprio “obiter dictum”. 2. La difficile distinzione fra dichiarazione fraudolenta e dichiarazione infedele. – Uno dei problemi più delicati suscitati dalla riforma degli artt. 3 e 4 D.Lgs. 74/2000 mod. D.Lgs. 158/2015 è quello della distinzione tra le due fattispecie criminose di “dichiarazione fraudolenta” e “dichiarazione infedele”, in ordine alla quale va ricordato che la giurisprudenza finora formatasi è decisamente orientata nel senso di attribuire largo spazio applicativo alla fattispecie più grave, individuando con notevole larghezza interpretativa il requisito della fraudolenza a danno di quello della mera infedeltà. Tra i tanti esempi va ricordato che si è soliti ravvisare la fraudolenza in casi come i seguenti: il ripetuto abituale mancato rilascio delle fatture o degli scontrini fiscali da parte di negozi o commercianti; il collocamento di taluni beni riservati a clienti abituali in locali diversi da quelli, aperti al pubblico, frequentati dalla normale clientela (ad esempio per antiquari o gioiellieri); il deposito del denaro contante su libretti al portatore di parenti od amici; e simili. In argomento la Circolare, dopo alcune opportune citazioni di sentenze della Cassazione, conclude nel senso che “le significative modifiche normative apportate all’art. 3 rendono necessario operare, caso per caso, un’attenta valutazione in merito alla concreta configurabilità della fattispecie…a ulteriori casistiche riscontrabili nel corso delle operazioni ispettive”. Trattasi di corretta presa di distanza da una diversa (ma appunto non seguita) metodica di esposizione di un criterio definitorio generale, dovendosi tenere conto che, in ordine alla parallela figura degli “artifizi o raggiri” di cui all’art. 640 c.p., il comune orientamento della giurisprudenza è di ampia e severa applicazione (4). Per quanto concerne la parallela, ma (ora) profondamente differente fattispecie di cui all’art. 4 dello stesso D.Lg. (dichiarazione infedele), che è stata oggetto con la riforma del 2015 di un importante rimaneggiamento contenutistico, essendosi da parte del Legislatore adottata la soluzione del

(4) Sul nuovo art. 3 dopo la modifica del 2015 v. L. Imperato, in I nuovi reati tributari, Commento al d.lgs. 24 settembre 2015 n. 158, 2016, 85 ss., ed ivi citazioni.


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mantenimento di tale reato, sconosciuto ad altri ordinamenti stranieri che si limitano a punire la frode, l’attuale testo della dichiarazione infedele conduce la Circolare alla seguente conclusione : “Considerato che il vigente dettato normativo non è perfettamente sovrapponibile a quello precedente, ogni concreta fattispecie analizzata nel contesto ispettivo deve comunque essere indagata, caso per caso, al fine di stabilire se e in quale misura la condotta presa in esame possa integrare una o entrambe le formulazioni (ante e post rivisitazione)”; e questo ovviamente in applicazione della tematica della successione delle leggi penali nel tempo (5). 3. L’allargamento della rilevanza penalistica dell’omessa dichiarazione: in due direzioni. – Particolarmente significative sono le considerazioni della Circolare relativamente alla figura del sostituto di imposta e delle modalità di presentazione delle dichiarazioni in materia (6). Da tempo si discuteva circa l’opportunità o meno di criminalizzare la dichiarazione del sostituto, in precedenza lasciata al settore puramente amministrativo. Hanno sicuramente spinto a tale intervento anche i possibili, e frequenti, abusi, sia relativamente alle persone fisiche che alle persone giuridiche, tesi a fraudolentemente rescindere il collegamento soggettivo e territoriale tra la produzione e la tassazione del reddito: per le prime attraverso il trasferimento fittizio della residenza all’estero con conseguente iscrizione all’AIRE, pur continuandosi ad avere legami duraturi e stabili con il territorio nazionale allo scopo di formalmente spezzare il criterio di collegamento soggettivo con lo Stato ed essere sottoposti alla più bassa tassazione di altri Paesi; per le seconde attraverso la c.d. “esterovestizione societaria”, ossia la localizzazione fittizia od il trasferimento simulato della residenza fiscale in Paesi esteri a più bassa fiscalità. In riferimento alla seconda ipotesi la Circolare precisa che il reato di cui all’art.5 può essere contestato in capo al legale rappresentante della società estera e degli eventuali concorrenti, con il conseguente problema tecnico del calcolo dell’imposta evasa, da attuarsi con l’acquisizione dei bilanci societari

(5) Sul nuovo art. 4 dopo la modifica del 2015, v. A. Perini, La riforma del delitto di dichiarazione infedele, op.cit., n. 4, 124. (6) Sulla nuova formulazione dell’art. 5 modificato v., anche per interessanti applicazioni a casi pratici, P. Comuzzi, La riforma del delitto di dichiarazione infedele: osservazioni di un commercialista, op.cit., n. 4, 152; M. Garavoglia - S. Gianoncelli, Commento all’art. 5 D.Lgs.74/2000 mod. D.Lgs.158 2015, op. cit., n. 4, 161.


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tramite canali rogatoriali o di mutua assistenza o mediante la consultazione degli applicativi informatici disponibili (c.d. “European Business Register”, ossia il gruppo europeo di interesse economico costituito dai gestori dei registri delle imprese degli Stati aderenti). Altra ipotesi simile all’esterovestizione è quella della configurabilità nel territorio dello Stato di una stabile organizzazione materiale o personale occulta di un’impresa non residente. Com’è noto alla prassi processuale nei casi ora considerati si pone il delicato problema, che correttamente la Circolare si astiene dal prendere in esame, trattandosi di questione di stretta competenza della Magistratura, della contestazione del reato a titolo di art.110 c.p. anche ai soggetti stranieri che in qualunque modo hanno contribuito alla realizzazione dei reati in esame (ad es., per le persone fisiche, amici che hanno fatto figurare la residenza straniera degli italiani ; per le persone giuridiche, soggetti che in qualunque modo hanno offerto un contributo alla costruzione delle figure costituenti l’anello giuridico ed economico necessario per la realizzazione dell’impalcatura strutturale dei rapporti interstatuali che si intendono raggiungere). In proposito accade che i Pubblici Ministeri italiani si astengono dalle relative contestazioni a titolo di concorso a carico dei soggetti stranieri, anche e principalmente a causa delle evidenti difficoltà operative che la costruzione di un complesso accusatorio completo richiederebbe per la necessità di rogatorie, soprattutto trattandosi di Stati abitualmente dediti a simili sceneggiate giuridiche e quindi non collaborativi, con la conseguente incombenza della prescrizione dei reati contestabili. Trattasi, quest’ultimo, di problema assai delicato e complesso che involge difficilissime tematiche normative, processuali ed operative. Ulteriore aspetto dell’apertura di simili questioni è quello, accennato dalla Circolare, della stessa configurabilità della responsabilità penale per i redditi di natura illecita, della quale ovviamente il testo in esame si limita a fare un cenno, pervenendo alla conclusione che “nel caso di omessa dichiarazione dei proventi illeciti, al verificarsi del superamento della soglia di punibilità, deve essere notiziata la Procura della Repubblica, fornendo tutti gli elementi necessari ad una completa valutazione della fattispecie da parte dell’Autorità Giudiziaria competente”. Altra novità della modifica dell’art. 5 cit. è quella dell’estensione alla dichiarazione di sostituto di imposta della regola per cui “non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del


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termine o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto” (c. 3). Siffatta disposizione apre il campo alla delicata questione della corretta individuazione dei soggetti responsabili, specialmente nel caso che il contribuente sostenga di avere fornito in termini al professionista regolarmente abilitato tutti gli elementi di fatto utili e necessari per la presentazione delle relative dichiarazioni fiscali. Nella pratica si verificano dei casi in cui alla assicurazione del primo si accompagni la dichiarazione del secondo di non avere ricevuto dal primo gli elementi necessari per detta presentazione. Trattasi peraltro di questione da risolversi con specifico riferimento al caso concreto in applicazione delle regole di cui all’art. 110 c.p. e che non presenta alcuna regola giuridica specifica per la tematica in esame. Al riguardo si può fare riferimento al punto nel quale viene esaminata l’innovazione di cui all’art. 13 bis D.Lgs. 74 mod. D.Lgs. 158 concernente l’aggravamento della pena “se il reato è commesso dal concorrente nell’esercizio di attività di consulenza fiscale svolta da un professionista… attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale”, e questo in quanto l’affidamento di incarichi professionali del genere comporta necessariamente e specificamente il ricorso ad una serie di adempimenti pratici e documentali che l’un soggetto può agevolmente attribuire alla somma dei doveri professionali dell’altro (7). 4. Severo inquadramento della sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. – Una delle fattispecie criminose che suscita particolare allarme sociale in relazione alla materia tributaria è quella di cui all’art.11 c. 1 D.Lgs. 74 mod. D.Lgs. 158, rubricata “Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”, che tende a colpire il contribuente il quale, al fine di vanificare le pretese erariali in materia di imposte sui redditi od IVA, si disfa dei propri beni mendacemente intestandoli a soggetti diversi. Era quindi prevedibile – ed il risultato generale è stato ottenuto – che la Circolare vi dedicasse particolare attenzione, come infatti è avvenuto attraverso una disamina dettagliata degli istituti giuridici nei quali più frequentemente la condotta fraudolenta si dispiega: alienazione simulata

(7) In argomento v. R. Amadeo, in La riforma dei reati tributari. Le novità del d.lgs. n.158/2015, Torino, 2015, p.339 ss.; G. Gambogi, La riforma dei reati tributari, Commento al d.lgs. 158/2015, Milano, 2016, 399.


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dei beni; cessione simulata dell’avviamento commerciale; “sale and lease back” ; operazioni di riorganizzazione aziendale; operazioni di strutturazione del patrimonio familiare ; utilizzo distorto del “trust”; utilizzo distorto del Fondo Patrimoniale; utilizzo distorto del Patto di Famiglia ; cessione di quote o trasferimento all’estero della sede legale di azienda già sottoposta alle procedure di riscossione ; utilizzo distorto del GEIE. In presenza di tutti i casi citati e di altri comportamenti simili od assimilabili (anche indirettamente) a quelli citati deve ovviamente essere presentata denunzia penale all’A.G., non richiedendosi più – come in passato avveniva in forza dell’art. 97 c.6 DPR 602/73 – quale presupposto del reato, la previa effettuazione di accessi, ispezioni o verifiche da parte dell’A.F. o la preventiva notificazione all’autore della condotta delittuosa di invii, richieste, atti di accertamento o iscrizioni a ruolo, in quanto, come sottolineato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, “l’oggetto giuridico del reato non attiene al diritto di credito vantato dal Fisco ma alla garanzia generica data dai beni dell’obbligato” (8). Al riguardo deve, comunque, osservarsi quanto segue. Sebbene la Circolare abbia evidenziato la novità della costruzione della fattispecie criminosa in esame, all’inizio della trattazione dell’argomento la stessa inizia la presentazione dell’argomento stesso con la seguente affermazione: “A dispetto dell’espressione chiunque con la quale la norma indica il soggetto che può rendersi responsabile dell’illecito, il delitto in argomento può essere commesso solo dal contribuente (soggetto attivo) già qualificato come debitore d’imposta ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto nei confronti del quale possa essere avanzata dall’Erario una pretesa fiscale di importo superiore ad euro 50.000”. Ad avviso di chi scrive, peraltro, la suddetta affermazione-precisazione iniziale afferma più di quanto probabilmente voleva dire, non essendo affatto richiesto dalla nuova fattispecie criminosa che ci si trovi di fronte ad un “contribuente già qualificato come debitore di imposta ai fini delle imposte sui redditi od IVA”. Una delle principali novità della nuova fattispecie è infatti proprio quella di potersi verificare in qualunque momento, anche anteriore a qualsiasi tipo

(8) Sull’art. 11 c. 1 D.Lgs. 74/2000 mod. D.Lgs. 122/2010 v., per citazioni giurisprudenziali, F. Sgubbi - L. Mazzanti - L. Loretti, Codice dei reati tributari, Piacenza, 2017, 466 ss.


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di intervento dell’A.F.; evidentemente, quindi, è da ritenersi che la Circolare, attraverso una dizione così drastica, sia andata al di là dello stretto significato delle parole, volendosi semplicemente affermare che siamo in presenza di un “reato proprio”, in quanto realizzabile solo da soggetti anche solo potenzialmente contribuenti. Il reato, cioè, non potrebbe verificarsi – se non eventualmente come concorrente esterno – da parte di soggetto che già riveste o rivestirà in futuro la qualifica, giuridicamente rilevante, di “contribuente”. Al di là di tale precisazione merita comunque apprezzare l’approfondita analisi delle possibilità (e di frequente verificabilità concreta) del reato in esame attraverso una strumentalizzazione in qualsiasi modo ottenuta di sottrazione di beni alle (attuali o successive) pretese erariali. Il che deve far intendere che istituti come quelli citati a titolo di esempio dalla Circolare non possono, senza correre rischi concreti di denunzia penale, essere strumentalizzati per ottenere risultati di evasione fiscale. Il caso più grossolano di tale strumentalizzazione si ha sicuramente nell’ipotesi seguente citata dalla Circolare: “non possono essere considerati validamente operanti, pure sotto il profilo fiscale, i Trust istituiti e gestiti per realizzare una mera interposizione nel possesso dei beni e dei redditi. È il caso, ad esempio, in cui l’attività del trustee risulti eterodiretta dalle istruzioni vincolanti riconducibili al disponente o ai beneficiari; in altri termini il settlor non può riservare a se stesso il controllo sui beni del Trust in modo da precludere il pieno esercizio dei poteri dispositivi a lui spettanti in base al regolamento del Trust o alla legge”. La tematica, quindi, anche in presenza di una giurisprudenza del S.C. particolarmente severa in generale, pur in assenza talvolta di più specifiche precisazioni, che risulta non sufficientemente approfondita quanto all’esame del caso concreto, deve essere frutto di approfondimento dello stesso caso concreto da parte dei professionisti interessati alla materia, sapendo che, a seguito di tale Circolare, la GdF sarà in futuro particolarmente agguerrita. (9) 5. Un capitolo a parte per la determinazione della soglia di punibilità? – Com’è noto, la stragrande maggioranza dei reati tributari di cui al D.Lgs.

(9) Si fa rinvio in argomento alla dottrina specialistica in materia di “Trust” (su cui v., tra i tanti, L. De Angelis, Il trust, oggetto misterioso della legislazione (anche) fiscale, in Dir. e prat. trib., 2008, I, 721; G. Fransoni, La disciplina del trust nelle imposte dirette, in Riv. dir. trib., 2007, I, 1, 227; M. Lupoi, Introduzione ai trusts, Milano, 1994; altre citazioni in P. Puri, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 428; da ultimi v. M.F. Artusi - C. Santoriello, Rischi penali nell’attività di impresa, Torino, 2018, 561 ss.


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74 e successive modifiche è caratterizzata dalla presenza della c.d. “soglia quantitativa di punibilità”, onde evitare (come talvolta poteva avvenire in passato) che il giudice penale in questa materia debba occuparsi di fattispecie di minima consistenza. È parimenti noto che tale situazione aveva condotto ad un eccessivo ingolfamento degli Uffici giudiziari, con conseguente necessità di procedere ad uno sfoltimento dei fatti che potevano condurre il contribuente “davanti al giudice penale”. Ne era derivata la riduzione dei fatti costituenti reato in siffatta materia attraverso, appunto, la previsione di adeguate soglie quantitative di punibilità, di volta in volta poi aumentate o diminuite sulla base di criteri di politica criminale liberamente valutabili dal Legislatore. Com’è noto, nell’ambito del D.Lgs. 74 risultano privi di soglia quantitativa di punibilità soltanto i reati di cui agli artt. 2, 8 e 10, per i quali ovviamente la problematica in esame non si pone (10). Ed allora per i reati con soglia di punibilità la Circolare affronta ampiamente il complesso problema dell’individuazione del soggetto (solo l’A.G. od anche, preventivamente, i verificatori della GdF?) tenuto a compiere siffatta operazione, contemporaneamente dando conto degli inconvenienti di una risposta unitaria quale potrebbe essere quella per cui solo il giudice penale (non quello tributario amministrativo e non l’A.F. e la GdF) debba essere ritenuto competente a tale operazione. Correttamente la Circolare osserva al riguardo che “condizionare l’avvio del procedimento penale alla quantificazione dell’imposta evasa da parte dell’Ufficio finanziario titolare della funzione di accertamento significherebbe di fatto reintrodurre la pregiudiziale tributaria, la cui soppressione, già operata con la L. 516/82, è stata confermata dal D.Lgs. 74”. Orbene, poiché la GdF è obbligata a presentare la denunzia di reato all’A.G. ai sensi dell’art. 347 c.p.p. solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dello stesso (soglia di punibilità compresa), ne deriverebbe di fatto la paralisi del sistema, con contestuale impossibilità giuridica di procedere oltre nel caso che i verificatori si limitassero ad individuare soltanto l’ammontare dei componenti positivi di reddito. La Circolare perviene allora alla seguente conclusione operativa, di carattere eminentemente conciliativo delle diverse esigenze, in forza della quale “nelle situazioni in cui il superamento della soglia di punibilità riferita

(10) Sulle soglie di punibilità ed il bene tutelato v. E. Basso - A. Viglione, I nuovi reati tributari, Torino, 2017, 28 ss.


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all’imposta evasa sia determinato con riferimento ai soli componenti positivi non dichiarati, sia comunque necessario inoltrare la comunicazione di notizia di reato, rimettendo al magistrato competente le valutazioni circa la concreta configurabilità della responsabilità penale, anche sulla base degli ulteriori accertamenti che ben potranno essere svolti ai fini del corretto calcolo dell’imposta evasa”. L’argomento viene sviluppato dalla Circolare, della parte V del capitolo 9 in un paragrafo intitolato “la irrilevanza penale dell’elusione fiscale”, dove, ad ulteriore commento dell’art.10-bis cit., vengono citate alcune sentenze della Cassazione, le quali, peraltro, hanno ritenuto la rilevanza penale di comportamenti macroscopicamente qualificabili come operazioni costituenti “un mero simulacro privo di qualsivoglia effettivo contenuto”, essendo evidente che “in tali situazioni, esulando la fattispecie dall’ipotesi penalmente irrilevante dell’abuso del diritto, non potrebbe considerarsi scriminata in forza di quanto disposto dal menzionato c.13 dell’art.10 bis la condotta di chi, al fine di conseguire un vantaggio fiscale, realizzasse esclusivamente negozi simulati o comunque affetti da altre nullità dal punto di vista civilistico”; “la definizione dell’abuso postula l’assenza nel comportamento elusivo del contribuente di tratti riconducibili ai paradigmi penalmente rilevanti della simulazione, della falsità o più in generale della fraudolenza ; imprime alla disciplina dell’abuso caratteri di residualità agli altri strumenti di reazione previsti dall’ordinamento tributario”, per cui “rimane impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali, sempre che naturalmente ne sussistano i presupposti, nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive (ad es. negando deduzioni o benefici fiscali, la cui indebita autoattribuzione da parte del contribuente potrebbe bene integrare taluno dei delitti in dichiarazione); parimenti rimane salva la possibilità di ritenere, nei congrui casi, che, alla luce delle previsioni della normativa delegata e della possibile formulazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione”. 6. Utilizzabilità del p.v.c. e valenza penale delle presunzioni fiscali. – Ulteriori problemi di natura processualpenalistica esaminati dettagliatamente dalla Circolare in esame sono quelli dell’utilizzabilità in sede di processo penale del processo verbale di constatazione e della rilevanza penalistica delle presunzioni fiscali.


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Con riferimento all’impostazione di tipo “accusatorio” del processo penale, che comporta la non-rilevanza di prove “precostituite” e la formazione delle stesse in sede dibattimentale (c.d. “oralità”), con conseguente limitazione del contenuto del fascicolo dibattimentale, i verbali documentali non dovrebbero contenere, salvo specifiche eccezioni, gli atti c.d. “istruttori”, pur avendo la giurisprudenza cercato di recuperare l’utilizzabilità del fascicolo dibattimentale, con specifico riferimento ai c.d. “atti irripetibili”, e questo in considerazione della specificità della materia penal-tributaria. In relazione a quest’ultima esigenza la Cassazione (11) ha affermato che la non ripetibilità riguarda gli atti che descrivono o riportano situazioni non più riproducibili in dibattimento e/o modificabili nel tempo, e quindi non più in grado da poterli riprodurre in seguito. Parimenti in giurisprudenza si sono registrati tentativi di far entrare il processo verbale di constatazione nel dibattimento attraverso l’art. 234 c.p.p., che permette l’acquisizione di scritti o di altri documenti rappresentanti fatti, persone o cose, facendo rientrare in tale ultima categoria il p.v.c. redatto dal G.d.F., come “atto ricognitivo di natura amministrativa acquisibile ed utilizzabile come prova”. A riguardo di tale ultimo “estensivo tentativo” è stato peraltro correttamente precisato che occorre sempre rispettare le modalità prescritte dall’art. 220 disp. att. c.p.p., dovendosi trattare di veri e propri indizi di reato, non di semplici sospetti, con la conseguenza che la parte del p.v.c. compilata prima dell’insorgere degli indizi ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente nel caso non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito. Il problema, sotto l’angolo visuale pratico, deve condurre alla conclusione della non approvabilità della prassi di inviare denunzia all’A.G. per i reati tributari caratterizzati dalla presenza di una soglia quantitativa di punibilità solo alla fine delle indagini e non appena viene individuato il superamento di tale limite. Una questione importante conseguente al particolare problema fin qui esaminato è quello della rilevanza penale delle presunzioni fiscali, muovendosi comunque dal principio generale che le stesse, pur non assurgendo a valore di prova dei reati fiscali, possono comunque essere utilizzate in campo penale, essendo “idonee ad integrare la notizia di reato”. In proposito, alla luce della regola di cui al c. 2 dell’art. 192 c.p.p. (“l’esistenza di un fatto non può essere

(11) Per le citazioni giurisprudenziali v. G. Lattanzi, Codice di procedura penale, 12^ ed., Milano, 2017, 671 ss., 787 ss.


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desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”), la Circolare giunge alla conclusione per cui il giudice penale è tenuto a valutare la rilevanza delle prove addotte, anche di carattere indiziario, in maniera del tutto autonoma, percorrendo il procedimento logico e argomentativo necessario per stabilire se uno o più elementi abbiano o meno la capacità di dimostrare la sussistenza di un fatto costituente reato e la sua effettiva riferibilità al presunto responsabile, specificandosi ulteriormente che in quest’opera valutativa, la quale deve avvenire in maniera indipendente e senza alcun condizionamento rispetto alle conclusioni cui è pervenuta l’azione amministrativa di controllo o di accertamento, il giudice ha solo l’obbligo di dare conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati come stabilito dal c. 1 dello stesso art. 192 e meglio specificato nell’ art. 546 c.p.p. La conclusione operativa di tale impostazione del problema assunta dalla Circolare è che “nel processo penale tributario può trovare ingresso, su un piano astrattamente teorico, ogni genere di presunzione fiscale, tanto grave, precisa e concordante, quanto semplicissima, così come le presunzioni cui la legge fiscale connette uno specifico significato predeterminato”, dato che “la condizione richiesta è che tale ingresso avvenga solo in base al libero convincimento del giudice e nel rispetto degli obblighi di motivazione nella sentenza finale”, dovendosi comunque ed in ogni caso “dare conto delle ragioni per cui taluni elementi indiziari vengano ritenuti gravi, precisi e concordanti, dal momento che solo questi sono ammessi nel processo penale”. In ulteriore sintesi pratica la Circolare sottolinea che le presunzioni anche legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato fiscale, assumendo esclusivamente il valore di “dati di fatto”, che devono appunto essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad altri “elementi di riscontro” che diano “certezza” in relazione all’esistenza della condotta criminosa. In siffatta conclusione, pur non esonerandosi i militari operanti, d’intesa con i giudici, a ricercare e produrre in ogni caso ulteriori elementi ai fini della più compiuta sostenibilità delle ipotesi accusatorie in sede penale, viene pertanto attribuito notevole valore probatorio agli elementi fattuali acquisiti in sede di indagini dalla polizia giudiziaria. Scendendo all’esame particolareggiato di tali conclusioni della Circolare si può fare il caso, molto frequente, della rilevazione del prezzo di vendita solitamente praticato da negozi di un certo livello per prodotti di largo consumo (ad esempio, abbigliamento o scarpe). Nel caso che il reddito annuale


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complessivo dichiarato dall’esercizio sia palesemente inferiore rispetto al totale che, per le caratteristiche particolari del negozio stesso, sarebbe logico attendersi, pur in assenza di altri ed ulteriori elementi probatori, un guadagno finale assai più consistente, può essere ritenuta legittima la trasmissione degli atti al P.M., il quale dovrebbe peraltro opportunamente corredare la conclusione affermativa della sussistenza del reato con altri ed ulteriori elementi probatori (ad es., audizione testimoniale delle commesse del negozio). È chiaro che ogni specifica problematica di indagini è contenutisticamente diversa dalle altre, ma può valere la pena di ricordare, al proposito, che la giurisprudenza penale, in altre differenti situazioni, ha molto spesso dato rilievo ad elementi di fatto non pienamente ricostruiti ma desumibili peraltro dal “quid quod plerumque accidit”, quale quello per cui, ad esempio, in una data zona della città, in esercizi di un certo livello, il giudice penale può, ad esempio, “presumere” (o meglio ricostruire induttivamente) che certi prodotti non possono essere venduti al di sotto di determinati prezzi ed il numero giornaliero degli acquirenti non può essere inferiore ad una data quantità. Al riguardo interessanti spunti giurisprudenziali, peraltro in problematica diversa e specifica, sono stati talvolta acquisiti dalla giurisprudenza di merito da un’interpretazione lata di quanto disposto dall’art. 109 c. 5 TUIR, secondo il quale “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi” (12). 7. Il processo verbale di constatazione: utilizzabilità. – Direttamente collegato con quanto fin qui esaminato è il problema, nell’attuale regime di “accusatorietà” del processo penale (acquisizione delle prove solo in sede dibattimentale), della conseguente utilizzabilità a fini probatori del processo verbale di constatazione, dal quale ovviamente risultano normalmente elementi importanti al fine della dimostrazione dell’esistenza di estremi dei reati tributari. In proposito l’orientamento della Cassazione è nel senso che il p.v.c. non può assurgere ad atto processuale non essendo previsto come tale né dal c.p.p. né dalle disp. att., con la conseguenza che la parte del p.v.c. compilata prima

(12) Si fa rinvio alla manualistica sul reddito di impresa.


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dell’insorgere degli indizi ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente nel caso non siano rispettate le disposizioni del codice di rito. La Circolare, tenuto conto di questo orientamento giurisprudenziale con il tendenziale favore della giurisprudenza all’utilizzabilità in sede penale dei contenuti del p.v.c., sostiene che deve essere sempre valutata l’opportunità dell’inoltro del documento all’A.G., fermo restando l’imprescindibile invio della comunicazione della notizia di reato. In ordine al connesso problema del contenuto della comunicazione della notizia di reato la Circolare sottolinea “l’opportunità di non predisporre modelli aventi valenza generale, essenzialmente allo scopo di evitare che in concreto si presentino difficoltà di compilazione connesse alle inevitabili differenze di impostazione”, sottolineandosi che “nella comunicazione di notizia di reato devono essere riportati gli elementi essenziali del fatto costituente illecito penale, ogni altra circostanza utile alle indagini, l’indicazione delle fonti di prova, le attività compiute, il giorno e l’ora in cui la notizia di reato è stata acquisita, le generalità, il domicilio e quanto altro valga all’identificazione dell’indagato e di eventuali altre persone in grado di riferire sui fatti, il grado e le generalità degli appartenenti alla polizia giudiziaria che hanno operato e l’indicazione, fra questi, di coloro i quali sono in grado di riferire sui fatti”. Relativamente allo specifico problema dell’individuazione degli autori del reato tributario particolare rilievo giuridico riveste quello dei c.d. “amministratori di fatto”, che si inserisce nella complessa tematica dei requisiti necessari ex art. 110 c.p. per poter essere individuati come concorrenti nel reato. In proposito la Circolare recepisce l’orientamento della giurisprudenza della Cassazione concernente l’estensibilità dell’art. 2639 c.c., anche alla materia del diritto penale tributario pur trattandosi di norma dettata dal Legislatore per i soli reati societari, la quale prevede che per tali reati al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge sia equiparato chi eserciti in maniera continuativa i poteri previsti dalla legge (13). Secondo tale orientamento si tratterebbe di una norma che, ancorché riferita esplicitamente ai reati societari previsti dal codice civile, darebbe luogo alla codificazione di un principio generale applicabile ad altri settori

(13) In argomento v., anche per le citazioni, A. Perini (a cura di), Disposizioni penali in materia di società, di consorzi e di altri enti privati (artt. 2621-2642), Bologna, 2018, 648 ss.


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dell’ordinamento nonché, per la sua natura interpretativa, anche ai fatti pregressi. A parte, peraltro, la discutibilità dell’accettazione in generale di tale interpretazione estensiva merita avanzare qualche dubbio sull’ulteriore estensione prevista dalla Circolare quanto all’applicazione della stessa ai reati omissivi propri (ad es. artt. 10 bis e 10 ter D.Lgs. 74 mod. D.Lgs. 158) “nel senso che autore principale del reato è proprio l’amministratore di fatto, salva la partecipazione di estranei all’amministrazione secondo le regole del concorso di persone nel reato”. Alla luce di tale impostazione estensiva seguita per i reati tributari in generale, compresi quelli attivi, va ulteriormente segnalato che il testo in esame aderisce ad un’applicazione estensiva dell’art. 116 c.p. (reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti) in materia di c.d. “concorso anomalo” sostenendone la punibilità “pure attraverso forme che agevolino la condotta illecita, anche solo assicurando all’altro concorrente stimolo o rafforzamento all’azione o a maggior senso di sicurezza nella propria condotta”. È chiaro, comunque, che nei singoli casi concreti ad una denuncia così generalizzata di soggetti responsabili a titolo di concorso debba naturalmente seguire un’analisi approfondita delle singole situazioni particolari. Nell’ambito della delicata problematica dell’individuazione dei soggetti responsabili dei reati tributari di qualsiasi natura la Circolare, valorizzando l’effetto estensivo di responsabilità per tali soggetti della nuova circostanza aggravante di cui all’art. 13 bis D.Lgs. 74 mod. D.Lgs. 158, aderisce ad un’interpretazione particolarmente ampia della responsabilità del professionista in concorso con il cliente, con la specifica conseguenza dell’applicabilità agli stessi della “confisca di valore” in base ad un “principio solidaristico proprio del concorso di persone nel reato prescindendo dal beneficio economico effettivamente conseguito da tale soggetto” (14). È chiaro allora che di tale estensione della responsabilità dovrà occuparsi specificamente il giudice soprattutto nel caso che il contribuente pretenda di andare indenne da responsabilità penale cercando di sostenere di essersi completamente affidato, come persona esperta, al consulente, ma comunque l’impostazione generale del problema seguita dal documento in esame fa propendere per la soluzione della quasi-automatica responsabilità per concorso del professionista stesso e della imprescindibile necessità della sua denunzia.

(14) Su tale nuova circostanza aggravante v. R. Amadeo, in La riforma dei reati tributari. Le novità nel d.lgs. n.158/2015, Torino, 2015, 343 ss.


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La Circolare si spinge ad esaminare il particolare problema della configurabilità, oltre al reato tributario, delle false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.), pervenendo ad una conclusione che tende a distinguere tra di loro le varie situazioni prospettabili, nel senso che “l’occultamento di ricavi ovvero l’estensione gonfiata di costi operati da contribuenti aventi forma societaria possono generare contestualmente un bilancio d’esercizio o una denuncia dei redditi parimenti mendaci. In tali ipotesi peraltro non si pone la questione circa la rilevanza delle valutazioni estimative nel falso societario, in quanto grandezze quali i ricavi conseguiti o l’ammontare dei costi sostenuti misurano oggettivamente precisi fatti materiali. Di conseguenza l’omessa indicazione a bilancio dei ricavi effettivamente conseguiti e quindi collegati a uno specifico fatto materiale si traduce immediatamente in una mendace rappresentazione della realtà fattuale sottesa al dato quantitativo. Del pari l’inserimento tra i costi di un onere in realtà non esistente comporta inevitabilmente l’indicazione di un fatto materiale non rispondente al vero”. In questi casi si potrà avere, oppure no, a seconda dei casi, il concorso tra il reato tributario e quello societario, dovendosi comunque sempre tenere presente che “laddove le false comunicazioni sociali siano state poste in essere per un’esclusiva finalità fiscale si configurerà…la sola frode fiscale; di contro ove non sussista il fine di consentire a terzi l’evasione ma si riscontri il solo elemento psicologico postulato dal reato societario sarà configurata unicamente la fattispecie del mendacio societario”. 8. L’ablazione dei beni dei concorrenti nel reato. – Particolarmente rigorose appaiono le posizioni prese dalla Circolare in materia di sequestroconfisca dei beni appartenenti a tutti coloro che in qualunque modo hanno concorso alla commissione del reato tributario, professionisti compresi. Le affermazioni della giurisprudenza al riguardo sono nel senso che “ciascun concorrente possa essere chiamato a rispondere dell’intera entità del profitto accertato, anche nel caso in cui esso sia andato a vantaggio di una persona giuridica ovvero laddove le somme illecite siano state incamerate, in tutto o in parte, da altri concorrenti…Correttamente operato il sequestro sui beni del professionista che, con contributo causale, aveva ideato il sistema evasivo per conto della società cliente”, precisandosi comunque che “il principio solidaristico non trova applicazione naturalmente nel caso di reati autonomi commessi da uno stesso soggetto quale legale rappresentante di più società, con la finalità di aggredire in maniera indifferenziata beni di tutti gli enti a vario titolo interessati” ; ed ancora che “il sequestro preventivo funzionale alla


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confisca per equivalente non può mai essere disposto sui beni dell’emittente per il valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle fatture medesime, in quanto deve farsi riferimento non tanto al profitto quanto al prezzo del reato, venendo in considerazione per l’emittente il compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto” (15). 9. Le implicazioni penali delle verifiche e dei controlli fiscali. – Di particolare interesse sistematico sono le considerazioni della Circolare relativamente alle conseguenze pratico-operative dell’adottato sistema del “doppio binario” tra processo penale e procedimento tributario, muovendosi dall’osservazione che “il giudicato penale ha conservato una limitata efficacia esterna solo in relazione alle sanzioni amministrative riferite a violazioni tributarie fatte oggetto di notitia criminis”, stante che “la concreta eseguibilità di dette sanzioni nei confronti dei soggetti ritenuti penalmente responsabili è subordinata alla condizione sospensiva che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto”; e che “il corrispondente e inverso divieto di sospensione del processo penale in pendenza del processo tributario, pur non essendo sancito espressamente, è invece ricavabile dalle regole generali del codice di procedura penale”; ed ancora che “nessuna modifica sul sistema dei rapporti tra i due procedimenti è stata successivamente apportata né dalle pronunce della Corte costituzionale, la quale ha ritenuto non irragionevole la scelta del legislatore di vietare la sospensione del processo tributario in pendenza del processo penale, né dal D.Lgs. 158, che ha revisionato il sistema sanzionatorio penale e amministrativo tributario”. Cionondimeno “il sistema non è a comportamenti stagni” posto che “nel rispetto generale dell’autonomia i due procedimenti possono reciprocamente condizionarsi secondo un apposito sistema di regole di comunicazione fissato dal legislatore”, come risulta rispettivamente dall’art. 220 disp. att. c.p.p. e dagli artt. 33 c. 3 DPR 600/73 e 63 c. 1 DPR 633/72, dovendosi peraltro addivenire alla conclusione che “l’osmosi tra i due procedimenti non è

(15) In materia si tengano presenti le disposizioni generali degli artt. 240 e 240-bis c.p. (introdotto dall’art. 6 c. 1 D.Lgs. 1 marzo 2018 n.21) (su di esso v. G. Bonadio - C. Sanvito, Diritto penale, parte generale, a cura di I. Caraccioli, in La pena e le misure di sicurezza, Milano, 2019, 212 ss.).


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unidirezionale, ben potendo anche l’esito del procedimento di accertamento incidere sul giudizio penale”. Pertanto, in conclusione “appare evidente come l’autonomia dell’accertamento dell’illecito tributario e dell’illecito penale nelle due diverse sedi giurisdizionali, secondo iter paralleli e regole probatorie differenti non comporti l’irrilevanza reciproca dei relativi atti ed esiti, …in quanto il modulo punitivo di cui al D.Lgs. 74 ha abbandonato l’archetipo dei c.d. reati prodromici, delineando una sostanziale sovrapposizione dell’oggetto della repressione penale e dell’azione accertativa”, per cui “il procedimento di accertamento e le indagini preliminari condividono spesso la medesima base istruttoria e muovono dallo stesso percorso investigativo, salvo operare una diversa valutazione degli elementi di prova raccolti”. 10. L’utilizzo di elementi probatori di provenienza penale. – Di particolare interesse è il problema dell’utilizzabilità a fini fiscali di dati ed elementi acquisiti nel corso di indagini di polizia giudiziaria, atteso che gli artt. 33 c.3 DPR 600/73 e 63 c. 1 DPR 633/1972 prevedono che la G.d.F. “previa autorizzazione dell’A.G., che può essere concessa anche in deroga all’art. 329 c.p.p., utilizza e trasmette agli Uffici documenti, dati e notizie, acquisiti direttamente o riferiti ed ottenuti dalle altre forze di polizia, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria”. Ne consegue che l’autorizzazione all’utilizzo ai fini fiscali può essere concessa anche in deroga al citato art. 329 e quindi anche prima della cessazione del segreto istruttorio. Con interpretazione ampia dell’art. 116 c.p.p., che consente l’utilizzo a chiunque sia interessato, compresa pertanto la G.d.F., si ritiene ora che gli elementi acquisiti direttamente dall’A.G., che siano suscettibili di sviluppo fiscale, possano confluire nel procedimento tributario dando quindi luogo ad un ulteriore mezzo di trasferimento in sede amministrativa delle informazioni acquisite in sede penale. A seguito della giurisprudenza della Cassazione si ritiene conseguentemente che la violazione delle disposizioni in esame non determina l’inutilizzabilità degli elementi conoscitivi sui quali sia stato fondato l’accertamento tributario né nell’ipotesi in cui questi siano stati acquisiti in assenza di autorizzazione né nel caso in cui sia stata rilasciata da un’A.G. non competente in ordine alla specifica fase processuale; l’accertamento demandato all’A.G. penale non può in alcun modo concernere la rilevanza degli elementi ai fini dell’accertamento tributario; l’autorizzazione può essere motivata anche in via sintetica o indiretta tramite il riferimento ai dati allegati dall’organo richiedente. Conclusione


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che appare in linea con l’orientamento della Corte costituzionale nella sentenza 51/1992 secondo la quale “l’unico limite che occorre rispettare… va individuato nella imprescindibile esigenza che a quella trasmissione non consegua alcun pregiudizio agli interessi protetti con il segreto istruttorio”. Sul delicato e connesso problema dell’utilizzo dei risultati delle indagini finanziarie nell’ambito delle indagini penali, affermatosi che il relativo potere non sia limitato all’acquisizione della documentazione detenuta dai soli istituti di credito, ma si estenda a tutti gli intermediari finanziari, si ritiene “coerente con il sistema concludere che gli elementi di interesse fiscale acquisiti attraverso le indagini bancarie penali possano essere utilizzati anche nei riguardi di un contribuente diverso dall’indagato-imputato sebbene senza quel particolare significato di presunzione legale che si produce nei riguardi di quest’ultimo”, potendosi quindi legittimamente “avviare le indagini finanziarie secondo la specifica procedura prevista dalle norme tributarie nei confronti del soggetto diverso dall’imputato-indagato” (16). 11. Metodiche particolari di individuazione delle fatture false. – Nella parte più specifica della Circolare concernente le “principali metodologie di controllo” si ritrovano indicazioni molto interessanti, anche per l’esame delle varie operazioni che possono utilmente essere sottoposte a verifiche e contestazioni penali, concernenti l’individuazione delle c.d. “fatture false” rilevanti ex artt. 2 e 8 D.Lgs. 74. Quanto alle imprese emittenti vengono indicate come “imprese fantasma o cartiere” quelle che esistono solo sul piano formale, in quanto titolari di partita IVA ed iscritte alla Camera di commercio, la cui concreta attività peraltro si esaurisce nell’emissione, a beneficio di terzi, di documentazione fiscale attestante forniture di beni o servizi in realtà mai rese, difettando di una struttura operativa idonea alla cessione dei beni o alla prestazione di servizi; “imprese inconsapevoli”, esistenti e regolarmente operanti che, pur risultando avere emesso fatture relative ad operazioni inesistenti, sono in realtà estranee a questo comportamento, in quanto la loro denominazione e partita IVA sono state indebitamente utilizzate da altri al fine di porre in essere

(16) Sulle sanzioni penali tributarie in generale v. R. Miceli, Il sistema sanzionatorio tributario, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 897 ss. Sui rapporti fra procedimento amministrativo di accertamento ed indagine penale v., tra gli altri, G. Bersani, Procedura penale tributaria, Milano, 1999, 209 ss.


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la frode; “imprese operativeâ€? che, oltre ad esistere sul piano formale, svolgono di norma una ordinaria attivitĂ diretta alla cessione di beni o alla prestazione o fornitura di servizi per la quale sono dotate di una struttura operativa adeguata ma che, in relazione alle specifiche circostanze o contingenze e per varie ragioni, in genere connesse comunque ad un beneficio concordato con il soggetto utilizzatore, emettono, fra le altre fatture connesse ad operazioni effettivamente utilizzate, anche fatture relative ad operazioni inesistenti, sia dal punto di vista oggettivo sia da quello soggettivo. Quanto alle imprese utilizzatrici, effettivamente esistenti ed operanti di norma in contabilitĂ ordinaria, che utilizza fatture per operazioni inesistenti al fine di esporre un risultato reddituale inferiore a quello reale, attraverso la deduzione di costi del tutto inesistenti ovvero allo scopo di portarsi comunque in deduzione costi effettivamente sostenuti ma non documentati o non documentabili per varie ragioni

Ivo Caraccioli


Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte di giustizia, Sez. IV, 18 gennaio 2018, dep. 21 novembre 2018, n. C-648/16, presidente von Danwitz, relatore Juhász Rinvio pregiudiziale – Imposta sul valore aggiunto (IVA) – Direttiva 2006/112/CE – Articolo 273 – Accertamento tributario – Metodo di accertamento della base imponibile in via induttiva – Detraibilità dell’IVA – Presunzione – Principi di neutralità e di proporzionalità – Normativa nazionale che fonda la determinazione dell’IVA sul volume d’affari presunto La Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio nonché i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità non ostano ad una normativa nazionale che consenta all’Amministrazione finanziaria di ricorrere ad un metodo induttivo basato sugli studi di settore al fine di accertare il volume d’affari realizzato dal contribuente e procedere, di conseguenza, a rettifica fiscale con imposizione di una maggiorazione dell’IVA a condizione che tale normativa e la sua applicazione permettano al contribuente stesso - nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità nonché del diritto di difesa - di contestare, sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti da tale metodo e di esercitare il proprio diritto alla detrazione dell’IVA; circostanza questa che spetta al giudice del rinvio verificare. (1) (Omissis) La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 273 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L. 347, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva IVA»). Tale domanda è stata sollevata nell’ambito di una controversia insorta tra la sig.ra F.S.F. e l’Agenzia delle Entrate – Direzione provinciale di Reggio Calabria (Italia), (in prosieguo: l’«Amministrazione finanziaria») in merito ad un avviso d’accertamento dell’imposta sul valore aggiunto (IVA). Contesto normativo Diritto dell’Unione


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Il considerando 59 della direttiva IVA così recita: «È opportuno che, entro certi limiti e a certe condizioni, gli Stati membri possano adottare o mantenere misure speciali che derogano alla presente direttiva, al fine di semplificare la riscossione dell’imposta o di evitare talune forme di evasione o elusione fiscale». L’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva medesima così dispone: «Sono soggette all’IVA le operazioni seguenti: a) le cessioni di beni effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale; b) gli acquisti intracomunitari di beni effettuati a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro: i) da un soggetto passivo che agisce in quanto tale o da un ente non soggetto passivo, quando il venditore è un soggetto passivo che agisce in quanto tale che non beneficia della franchigia per le piccole imprese prevista agli articoli da 282 a 292 e che non rientra nelle disposizioni previste agli articoli 33 e 36; ii) quando si tratta di mezzi di trasporto nuovi, da un soggetto passivo, o da un ente non soggetto passivo, i cui altri acquisti non sono soggetti all’IVA in forza dell’articolo 3, paragrafo 1, o da qualsiasi altra persona non soggetto passivo; iii) quando si tratta di prodotti soggetti ad accisa, per i quali le accise relative sono esigibili nel territorio dello Stato membro a norma della direttiva 92/12/CEE, da un soggetto passivo o da un ente non soggetto passivo i cui altri acquisti non sono soggetti all’IVA, in forza dell’articolo 3, paragrafo 1; c) le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale; d) le importazioni di beni». L’articolo 73 della direttiva medesima prevede quanto segue: «Per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi diverse da quelle di cui agli articoli da 74 a 77, la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni». Ai sensi dell’articolo 242 della direttiva stessa: «Ogni soggetto passivo deve tenere una contabilità che sia sufficientemente dettagliata per consentire l’applicazione dell’IVA e il suo controllo da parte dell’Amministrazione [finanziaria]». Il successivo articolo 244 così dispone: «Ogni soggetto passivo deve provvedere all’archiviazione di copie delle fatture emesse da lui stesso, dall’acquirente o dal destinatario, oppure in suo nome e per suo conto, da un terzo, nonché delle fatture che ha ricevuto». A termini dell’articolo 250, paragrafo 1, della direttiva IVA: «Ogni soggetto passivo deve presentare una dichiarazione IVA in cui figurino tutti


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i dati necessari per determinare l’importo dell’imposta esigibile e quello delle detrazioni da operare, compresi, nella misura in cui sia necessario per la determinazione della base imponibile, l’importo complessivo delle operazioni relative a tale imposta e a tali detrazioni, nonché l’importo delle operazioni esenti». Il successivo articolo 273 così recita: «Gli Stati membri possono stabilire, nel rispetto della parità di trattamento delle operazioni interne e delle operazioni effettuate tra Stati membri da soggetti passivi, altri obblighi che essi ritengono necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitare le evasioni, a condizione che questi obblighi non diano luogo, negli scambi tra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera. (…)». Diritto italiano L’articolo 39, primo comma, del Decreto del Presidente della Repubblica del 29 settembre 1973, n. 600, recante disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi (GURI n. 268 del 16 ottobre 1973), così dispone: «Per i redditi d’impresa delle persone fisiche l’ufficio [dell’Agenzia delle Entrate] procede alla rettifica: (…) d) se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’articolo 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio [dell’Agenzia delle Entrate] nei modi previsti dall’articolo 32. L’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.». Il Decreto del Presidente della Repubblica del 29 settembre 1973, n. 633, recante istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto (GURI n. 292 dell’11 novembre 1972) disciplina le modalità di rettifica delle dichiarazioni dell’IVA. L’articolo 54 di tale decreto prevede, sostanzialmente, che la verifica delle veridicità delle dichiarazioni relative a detta imposta può essere operata mediante revisione formale della dichiarazione presentata ovvero in modo più approfondito, sulla base sia dei dati di cui dispone l’Amministrazione finanziaria, sia di quelli raccolti dall’amministrazione medesima mediante i propri poteri istruttori. L’articolo 62 bis del Decreto legge n. 331/93 (GURI n. 203 del 30 agosto 1993), convertito dalla legge del 29 ottobre 1993, n. 427 (GURI n. 255 del 29 ottobre 1993), così recita: «Gli uffici del Dipartimento delle entrate del Ministero delle finanze, sentite le associazioni professionali e di categoria, elaborano, entro il 31 dicembre 199[5], in relazione ai vari settori economici, appositi studi di settore al fine di rendere più efficace l’azione accertatrice e di consentire una più articolata determinazione dei coefficienti presuntivi di


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cui all’articolo 11 del decreto legge 2 marzo 1989, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 aprile 1989, n. 154, e successive modificazioni. A tal fine gli stessi uffici identificano campioni significativi di contribuenti appartenenti ai medesimi settori da sottoporre a controllo allo scopo di individuare elementi caratterizzanti l’attività esercitata. (...) Gli studi di settore sono approvati con decreti del Ministro delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale entro il 31 dicembre 1995, possono essere soggetti a revisione ed hanno validità ai fini dell’accertamento a decorrere dal periodo di imposta 1995». L’articolo 62 sexies, terzo comma, del decreto legge n. 331/93 prevede quanto segue: «Gli accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e 54 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62 bis del presente decreto». L’articolo 10 della legge 8 maggio 1998, n.146 (GURI n.110 del 14 maggio 1998, supplemento ordinario alla GURI n. 93), così dispone: «1. Gli accertamenti basati sugli studi di settore, di cui all’articolo 62-sexies del decreto-legge 30 agosto 1993, n.331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, sono effettuati nei confronti dei contribuenti con le modalità di cui al presente articolo qualora l’ammontare dei ricavi o compensi dichiarati risulta inferiore all’ammontare dei ricavi o compensi determinabili sulla base degli studi stessi. (…) 3 bis) Nelle ipotesi di cui al comma 1 l’ufficio, prima della notifica dell’avviso di accertamento, invita il contribuente a comparire, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218. 3 ter) In caso di mancato adeguamento ai ricavi o compensi determinati sulla base degli studi di settore, possono essere attestate le cause che giustificano la non congruità dei ricavi o compensi dichiarati rispetto a quelli derivanti dall’applicazione degli studi medesimi. Possono essere attestate, altresì, le cause che giustificano un’incoerenza rispetto agli indici economici individuati dai predetti studi. Tale attestazione è rilasciata, su richiesta dei contribuenti, dai soggetti indicati alle lettere a) e b) del comma 3 dell’articolo 3 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, abilitati alla trasmissione telematica delle dichiarazioni, dai responsabili dell’assistenza fiscale dei centri costituiti dai soggetti di cui alle lettere a), b) e c) dell’articolo 32, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e dai dipendenti e funzionari delle associazioni di categoria abilitati all’assistenza tecnica di cui all’articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546. (…) 5) Ai fini dell’[IVA], all’ammontare dei maggiori ricavi o compensi, determinato sulla base dei predetti studi di settore, si applica, tenendo conto della esistenza di ope-


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razioni non soggette ad imposta ovvero soggette a regimi speciali, l’aliquota media risultante dal rapporto tra l’imposta relativa alle operazioni imponibili, diminuita di quella relativa alle cessioni di beni ammortizzabili, e il volume d’affari dichiarato. (…) 7) Con decreto del Ministro delle finanze è istituita una commissione di esperti, designati dallo stesso Ministro tenuto anche conto delle segnalazioni delle organizzazioni economiche di categoria e degli ordini professionali. La commissione, prima dell’approvazione e della pubblicazione dei singoli studi di settore, esprime un parere in merito alla idoneità degli studi stessi a rappresentare la realtà cui si riferiscono. Non è previsto alcun compenso per l’attività consultiva dei componenti della commissione. (…)». Procedimento principale e questione pregiudiziale La sig.ra F., soggetta ad IVA, era oggetto di accertamento tributario con riguardo all’esercizio 2010. L’Amministrazione finanziaria notificava alla ricorrente nel procedimento principale, in data 14 maggio 2014, un invito a comparire da cui derivava l’avvio di un procedimento di accertamento in contraddittorio. Nell’ambito di tale procedimento, la sig.ra F. contestava il quantum dell’accertamento che le sarebbe stato notificato e che era stato determinato sulla base di uno studio di settore relativo alla categoria dei commercialisti e consulenti tributari. In data 24 dicembre 2014 l’Amministrazione finanziaria notificava alla sig.ra F. un avviso di liquidazione per l’imposta sui redditi delle persone fisiche, l’imposta regionale sulle attività produttive e l’IVA dovute per l’esercizio 2010. La ricorrente nel procedimento principale ricorreva quindi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Reggio Calabria (Italia) contestando, segnatamente, il quantum dell’IVA arretrata reclamato dall’Amministrazione finanziaria. In particolare, affermava che l’Amministrazione finanziaria avrebbe erroneamente applicato alla sua situazione lo studio di settore relativo ai commercialisti e consulenti tributari, anziché lo studio relativo all’attività dei consulenti del lavoro, attività che la ricorrente medesima ritiene costituire la propria occupazione prevalente, deducendo, inoltre, che l’importo dell’IVA sarebbe stato calcolato sulla base di uno studio di settore che non consentirebbe di fornire un’adeguata rappresentazione dei redditi prodotti dalla propria impresa in termini di proporzionalità e di coerenza. La Commissione tributaria provinciale di Reggio Calabria fa presente che le contestazioni sollevate dalla ricorrente nel procedimento principale ed attinenti al fatto che l’Amministrazione finanziaria avrebbe erroneamente ricondotto le attività della ricorrente medesima a quelle dei commercialisti e dei consulenti tributari risultano infondate, «non rivelan[dosi] sorrette da una condivisibile base di fatto». Il giudice medesimo esprime, tuttavia, dubbi, per quanto attiene al metodo di valutazione dell’IVA arretrata, basato su uno studio di settore, con riguardo ai principi di neutralità fiscale e di proporzionalità.


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Il giudice del rinvio sottolinea, a tal riguardo, che tale metodo di valutazione tiene unicamente conto del reddito complessivo, senza prendere in considerazione le singole operazioni economiche realizzate dal contribuente e il suo diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte. Ciò premesso, la Commissione tributaria provinciale di Reggio Calabria ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se [sia] o meno compatibile con gli articoli 113 e 114 TFUE nonché con la [direttiva IVA] la normativa nazionale italiana costituita dagli articoli 62 sexies, comma 3 e 62 bis, del [decreto legge n. 331/1993], convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427, nella parte in cui consente l’applicazione dell’IVA ad un volume d’affari globale induttivamente accertato, sotto il profilo del rispetto della detrazione e dell’obbligo di rivalsa e, più in generale, in relazione al principio di neutralità e traslazione dell’imposta». Sulla questione pregiudiziale Sulla ricevibilità A parere del governo italiano, la questione sollevata è ipotetica, considerato che la contestazione della ricorrente nel procedimento principale, vertente essenzialmente sull’erronea classificazione applicata alla propria attività professionale nell’ambito degli studi di settore, è stata respinta dal giudice del rinvio il quale avrebbe, di fatto, escluso che lo studio di settore oggetto del procedimento principale non rappresenti la realtà dell’attività economica in questione. A tal riguardo, occorre ricordare che le questioni relative al diritto dell’Unione godono di una presunzione di rilevanza. Il diniego, da parte della Corte, di statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è possibile solo qualora risulti manifestamente che la richiesta interpretazione del diritto dell’Unione non abbia alcuna relazione con la realtà o con l’oggetto del procedimento principale, qualora il problema sia di natura ipotetica oppure qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni sottoposte al suo esame (sentenza del 26 ottobre 2017, BB construct, C 534/16, EU:C:2017:820, punto 16 e la giurisprudenza ivi citata). Nella specie, la ricorrente nel procedimento principale contesta le risultanze dello studio di settore in base al rilievo che essi non rifletterebbero la realtà della propria attività economica, il che ha indotto il giudice del rinvio ad interrogarsi sulla questione se il metodo di valutazione, fondato sullo studio di settore de quo, basato sul volume d’affari complessivo, senza prendere in considerazione le singole operazioni economiche realizzate dal contribuente, sia conforme o meno con il Trattato FUE, con la direttiva IVA nonché con i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità. Conseguentemente, la questione sollevata dal giudice del rinvio non appare priva di relazione con la realtà o con l’oggetto del procedimento principale, ragion per cui dev’essere dichiarata ricevibile.


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Nel merito Si deve rilevare, in limine, che gli articoli 113 e 114 TFUE, richiamati dal giudice a quo nella questione posta, non sono pertinenti nella specie, considerato che essi riguardano le modalità istituzionali di adozione delle misure di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri nell’ambito dell’Unione europea. Alla luce di tale rilievo, la questione sollevata dal giudice del rinvio dev’essere sostanzialmente intesa nel senso che detto giudice chiede se la direttiva IVA nonché i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità debbano essere interpretati nel senso che ostino ad una normativa nazionale, del genere di quella oggetto del procedimento principale, che consente all’Amministrazione finanziaria di ricorrere, ai fini dell’accertamento del volume d’affari realizzato da un contribuente, ad un metodo induttivo fondato su studi di settore, approvati con decreto ministeriale, e di procedere, conseguentemente, a rettifica tributaria che imponga il pagamento di una maggiorazione dell’IVA. A tal riguardo va sottolineato che, conformemente alla regola generale sancita all’articolo 73 della direttiva TVA, la base imponibile per la cessione di un bene o la prestazione di un servizio effettuate a titolo oneroso è costituita dal corrispettivo effettivamente ricevuto a tal fine dal soggetto passivo (sentenza del 7 novembre 2013, Tulică e Plavoşin, C 249/12 e C 250/12, EU:C:2013:722, punto 33 nonché la giurisprudenza ivi citata). Al fine di consentire l’applicazione dell’IVA e la sua verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria, gli articoli 242 e 244 nonché l’articolo 250, paragrafo 1, della direttiva IVA impongono ai soggetti passivi debitori dell’imposta di tenere una contabilità sufficientemente dettagliata, archiviando copia delle fatture emesse nonché delle fatture pagate e, infine, di presentare all’Amministrazione finanziaria una dichiarazione in cui siano riportati tutti i dati necessari ai fini della determinazione dell’IVA esigibile. Al fine di garantire l’esatta riscossione dell’IVA e di evitare le evasioni, l’articolo 273, primo comma, della direttiva IVA consente agli Stati membri di stabilire obblighi ulteriori rispetto a quelli previsti dalla direttiva da essi ritenuti necessari a tali fini, nel rispetto della parità di trattamento delle operazioni interne e delle operazioni effettuate tra gli Stati membri da soggetti passivi, e a condizione che questi obblighi non diano luogo, negli scambi tra gli Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera. Inoltre, la direttiva IVA, a termini del suo considerando 59, intende consentire agli Stati membri di adottare, entro taluni limiti ed a determinate condizioni, misure speciali che deroghino alla direttiva stessa, al fine di semplificare la riscossione dell’imposta o di evitare talune forme di evasione o elusione fiscale. La Corte ha precisato che dall’articolo 273, primo comma, nonché dall’articolo 2, dall’articolo 250, paragrafo 1, della direttiva IVA e dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE discende per ogni Stato membro l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire che l’IVA sia interamente riscossa nel suo territorio e a lottare contro l’evasione (sentenze del 5 ottobre 2016, Maya Marinova, C 576/15,


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EU:C:2016:740, punto 41 e giurisprudenza citata, nonché del 20 marzo 2018, Menci, C 524/15, EU:C:2018:197, punto 18). A tal riguardo, si deve sottolineare che l’omessa dichiarazione da parte di un contribuente del volume d’affari complessivo realizzato non può ostacolare la riscossione dell’IVA e che spetta alle istituzioni nazionali competenti ripristinare la situazione quale sarebbe sussistita in assenza di tale comportamento del contribuente medesimo (v., in tal senso, sentenza del 5 ottobre 2016, Maya Marinova, C 576/15, EU:C:2016:740, punto 42). La Corte ha inoltre affermato che le disposizioni di cui all’articolo 273 della direttiva IVA, al di fuori dei limiti da esse fissati, non precisano né le condizioni né gli obblighi che gli Stati membri possono prevedere e conferiscono dunque agli Stati membri un margine discrezionale circa i mezzi idonei a raggiungere gli obiettivi di assicurare la riscossione dell’IVA e di evitare l’evasione. Essi sono tuttavia tenuti ad esercitare la loro competenza nel rispetto del diritto dell’Unione e dei suoi principi generali e, segnatamente, nel rispetto dei principi di proporzionalità e di neutralità fiscale (v., in tal senso, in particolare, sentenze del 5 ottobre 2016, Maya Marinova, C 576/15, EU:C:2016:740, punti 43 e 44 e la giurisprudenza citata, nonché del 17 maggio 2018, Vámos, C 566/16, EU:C:2018:321, punto 41). L’articolo 273 della direttiva IVA non osta quindi, in linea di principio, ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che, al fine di garantire l’esatta percezione dell’IVA e di prevenire l’evasione fiscale, determini l’importo dell’IVA dovuta da un soggetto passivo sulla base del volume d’affari complessivo, accertato induttivamente sulla scorta di studi settoriali approvati con decreto ministeriale. Tuttavia, tale normativa nazionale e l’applicazione che ne viene fatta possono essere conformi al diritto dell’Unione solamente a condizione di rispettare i principi di neutralità dell’imposta e di proporzionalità (v., in tal senso, sentenza del 5 ottobre 2016, Maya Marinova, C 576/15, EU:C:2016:740, punto 44). Spetta al giudice del rinvio valutare la compatibilità delle misure nazionali controverse nel procedimento principale con le esigenze indicate al punto precedente. Tuttavia, la Corte può fornirgli indicazioni utili alla definizione della controversia sottoposta al suo esame (v., in tal senso, sentenza del 5 ottobre 2016, Maya Marinova, C 576/15, EU:C:2016:740, punto 46). Per quanto attiene al principio di neutralità fiscale, secondo la giurisprudenza della Corte, il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’IVA di cui sono debitori l’IVA dovuta o versata a monte per i beni acquistati e per i servizi loro prestati costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA. Il regime delle detrazioni è volto a sollevare interamente l’imprenditore dall’onere dell’IVA dovuta o versata in relazione a tutte le sue attività economiche, subordinatamente alla condizione che tali attività siano anch’esse soggette, in linea di principio, all’IVA (v., in tal senso, sentenza del 9 luglio 2015, Salomie e Oltean, C 183/14, EU:C:2015:454, punti 56 e 57, nonché la giurisprudenza citata).


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Come ripetutamente precisato dalla Corte, il diritto alla detrazione costituisce parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere limitato (v. sentenza del 26 aprile 2018, Zabrus Siret, C 81/17, EU:C:2018:283, punto 33 e giurisprudenza citata). Dall’applicazione del principio di neutralità fiscale discende che, laddove l’Amministrazione finanziaria intenda procedere ad una rettifica dell’IVA il cui importo risulti da un maggior volume d’affari complessivo accertato induttivamente, il soggetto passivo interessato deve disporre del diritto di detrarre l’IVA assolta a monte, secondo le modalità previste al riguardo nel titolo X della direttiva IVA. Per quanto attiene al principio di proporzionalità, tale principio non osta a che una normativa nazionale preveda che solamente a fronte di rilevanti divergenze tra l’importo del volume d’affari dichiarato dal contribuente e quello determinato in base al metodo induttivo, sulla scorta del volume d’affari realizzato da soggetti esercenti la stessa attività del contribuente, possa avviarsi il procedimento di rettifica fiscale. Gli studi di settore utilizzati ai fini della determinazione induttiva del volume d’affari devono essere esatti, affidabili ed aggiornati. Divergenze di tal genere possono solamente far sorgere presunzioni relative, confutabili dal contribuente mediante prova contraria. In tale contesto, si deve rilevare che il diritto di difesa del soggetto passivo dev’essere garantito durante tutto il corso del procedimento di rettifica fiscale, il che implica, in particolare, che ogniqualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto lesivo per il medesimo, questi dev’essere posto in condizione di manifestare utilmente il proprio punto di vista in merito agli elementi sui quali l’Amministrazione intenda fondare la propria decisione (sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C 129/13 e C 130/13, EU:C:2014:2041, punto 30). Il soggetto passivo deve quindi disporre, da un lato, della possibilità di contestare, ai fini della valutazione della propria specifica situazione, tanto l’esattezza quanto la pertinenza dello studio di settore in questione. Dall’altro, il soggetto passivo dev’essere in grado di far valere le circostanze per le quali il volume d’affari dichiarato, benché inferiore a quello determinato in base al metodo induttivo, corrisponda alla realtà della propria attività nel periodo interessato. Laddove l’applicazione di uno studio di settore implichi per il soggetto passivo medesimo di dover eventualmente provare fatti negativi, il principio di proporzionalità esige che il livello di prova richiesto non sia eccessivamente elevato. Ciò detto, va osservato che il meccanismo in questione nel procedimento principale, alla luce della sua natura, della sua struttura e delle regole che concretamente lo disciplinano, non sembra violare il principio di proporzionalità, la cui verifica spetta tuttavia al giudice del rinvio. Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, si deve rispondere alla questione sollevata dichiarando che la direttiva IVA nonché i principi di neutralità fiscale e di


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proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che consenta all’Amministrazione finanziaria, a fronte di gravi divergenze tra i redditi dichiarati ed i redditi stimati sulla base di studi di settore, di ricorrere ad un metodo induttivo, basato sugli studi di settore stessi, al fine di accertare il volume d’affari realizzato dal contribuente e procedere, di conseguenza, a rettifica fiscale con imposizione di una maggiorazione dell’IVA, a condizione che tale normativa e la sua applicazione permettano al contribuente stesso, nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità nonché del diritto di difesa, di contestare, sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti da tale metodo e di esercitare il proprio diritto alla detrazione dell’imposta ai sensi delle disposizioni contenute nel titolo X della direttiva IVA, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Sulle spese Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. P.Q.M. la Corte (Quarta Sezione) dichiara: la direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, nonché i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che consenta all’Amministrazione finanziaria, a fronte di gravi divergenze tra i redditi dichiarati ed i redditi stimati sulla base di studi di settore, di ricorrere ad un metodo induttivo, basato sugli studi di settore stessi, al fine di accertare il volume d’affari realizzato dal contribuente e procedere, di conseguenza, a rettifica fiscale con imposizione di una maggiorazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA), a condizione che tale normativa e la sua applicazione permettano al contribuente stesso, nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità nonché del diritto di difesa, di contestare, sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti da tale metodo e di esercitare il proprio diritto alla detrazione dell’imposta ai sensi delle disposizioni contenute nel titolo X della direttiva 2006/112, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. (Omissis)

(1) Il diritto di difesa del contribuente nell’ottica della Corte di Giustizia: il “passo del gambero” e il ritorno agli studi di settore come presunzione relativa? Sommario: 1. Premessa. – 2. La questione all’esame e la questione pregiudiziale. – 3. L’effettività del diritto di difesa quale parametro di proporzionalità dell’azione


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accertativa: riflessioni sulle conclusioni della Corte di Giustizia. – 4. Sul diritto di difesa procedimentale Italia ed Europa procedono su binari paralleli: quali prospettive alla luce del principio di proporzionalità? La Corte di Giustizia promuove gli studi di settore: l’accertamento Iva basato su tali indicatori presuntivi non contrasta con la normativa europea né sotto il profilo della proporzionalità del potere impositivo né sotto quello della neutralità fiscale dell’imposta sempre che il contribuente abbia la possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa e, quindi, di dimostrare la non coincidenza del volume d’affari presunto con quello effettivo. Ma vi è di più: il diritto di difesa è sufficientemente tutelato anche in presenza di una presunzione legale relativa, posto che il contribuente è comunque in condizioni di fornire la prova contraria. In quest’ottica, la disciplina nazionale potrà comunque considerarsi conforme alla direttiva Iva e ai principi ad esse sottesi: ma deve essere il giudice del rinvio a dover valutare se il contribuente è posto effettivamente in condizione di difendersi. The Court of Justice promotes sector studies: the VAT assessment based on these presumptive indicators does not conflict with European legislation either from the point of view of proportionality of the tax power nor under that of tax neutrality, provided that the tax payer has the possibility to exercise its right of defense and, therefore, to demonstrate the non-coincidence of the presumed business volume with the effective one. But there is more: the right of defense is sufficiently protected even in the presence of a relative legal presumption, since the tax payer is in any case in condition to provide proof to the contrary. From this point of view, the national norm may in any case be considered compliant with the VAT directives and the underlying principles: but it must be the referring court that has to assess whether the tax payer is concretely able to defend himself.

1. Premessa. – La sentenza della Corte di Giustizia sulla compatibilità degli studi di settore con l’ordinamento europeo (1) – soprattutto ove a margine di essa si leggano anche le conclusioni dell’Avvocato generale Nils Wahl (2) – offre l’occasione per riflettere sul principio di proporzionalità, quale parametro di coerenza e legittimità dell’azione accertativa (3), e sul con-

(1) Cfr. Sentenza della Corte di Giustizia UE, 21 novembre 2018, causa C-648/16, F.S.F. contro Agenzia delle Entrate - Direzione provinciale di Reggio Calabria che ha ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla CTP di Reggio Calabria con sentenza del 3 maggio 2016, pervenuta in cancelleria il 16 dicembre 2016. (2) Conclusioni depositate il 22 marzo 2018. (3) Sul tema, ampiamente, v. G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come giusta misura del potere nel diritto tributario, Padova, 2017; G. Petrillo, Il principio di proporzionalità nell’azione amministrativa di accertamento tributario, Napoli, 2015; A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’Iva europea, Firenze, 2012;


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traddittorio preventivo (4), quale elemento indefettibile del “giusto” procedimento (5), al fine di stabilire se esiste una relazione diretta tra proporzionalità dell’azione accertativa ed effettività del diritto di difesa. In questa prospettiva, in particolare, occorre chiedersi se il principio di proporzionalità, da criterio per l’esercizio concreto dell’azione accertativa, assurga al rango di principio immanente all’ordinamento nazionale e, dunque, possa essere invocato per costruire un modello procedimentale che individui nel concreto svolgimento del contraddittorio preventivo la garanzia di legitti-

Id., Principio di proporzionalità ed attuazione del tributo: verso la costruzione di un principio generale del procedimento tributario, in T. Tassani (a cura di), Attuazione del tributo e diritti del contribuente in Europa, Napoli, 2009, 75 ss. Sulla relazione tra proporzionalità e giustizia distributiva v. G. Falsitta, Giustizia distributiva, principio di proporzionalità e federalismo nell’opera di Dante Alighieri, in Riv. dir. trib., n. 4, 2011, 396 ss. Sul principio di proporzionalità, in generale, cfr. A. Sandulli, voce Proporzionalità in Dizionario di diritto pubblico diretto da Sabino Cassese, vol. V, Milano, 2006, 4643 ss.; Id., La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998; D.U. Galetta, Il principio di proporzionalità, in M. Renna, F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 389 ss.; Id., Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale dell’azione amministrativa, Milano, 1998. Si veda pure S. Cognetti, Principio di proporzionalità, profili di teoria generale ed analisi sistematica, Torino, 2011; G. Scaccia, Il principio di proporzionalità in S. Mangiameli (a cura di), L’ordinamento europeo, Tomo II, L’esercizio delle competenze, Milano, 2006, 225. (4) Per un’analisi del contraddittorio nei procedimenti tributari v., ex pluribus, G. Ragucci, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009. Di recente, P. Accordino, Problematiche applicative del “contraddittorio” nei procedimenti tributari, Milano, 2018. (5) Secondo quanto stabilito dalla Cassazione a Sezioni Unite nella nota pronuncia sulla natura presuntiva degli studi di settore (Cass., SS. UU. 18 dicembre 2009 n. 26638. In senso conforme Cass., SS. UU. 18 dicembre 2009, nn. 26636, 26637), definita, a ragione, “una pietra miliare dell’evoluzione del diritto procedimentale tributario”. In questa sentenza, le Sezioni Unite hanno affermato che “il contraddittorio deve ritenersi un elemento essenziale ed imprescindibile (anche in assenza di una espressa previsione normativa) del giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa”, introducendo, nell’ordinamento tributario italiano, un principio generale di diretta applicazione, il quale trova fondamento nel principio di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa (art 97 Cost.) nonché nel principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.). Per un commento, v. M. Basilavecchia, Accertamento e studi di settore: soluzione finale, in Riv. giur. trib., 2010, I, 212 ss.; A. Marcheselli, Le Sezioni Unite sulla natura presuntiva degli studi di settore, in Corr. trib., n. 4, 2010, 251 ss.; F. Montanari, Un importante contributo delle Sezioni Unite verso la lenta affermazione del “contraddittorio difensivo” nel procedimento di accertamento tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2, 2010, 40 ss.; F. Tundo, Procedimento tributario e difesa del contribuente, Padova, 2013, 33. Per un’analisi della giurisprudenza costituzionale in tema di “giusto” procedimento e della giurisprudenza tributaria in materia di contraddittorio endoprocedimentale, v. A. Corasaniti, Il principio del contraddittorio nella giurisprudenza nazionale e dell’Unione Europea, in Dir. prat. trib., n. 4, 2016, 1584 ss.


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mità dell’accertamento. La questione del possibile contrasto degli studi di settore con l’ordinamento europeo rappresenta, da questo punto di vista, un utile banco di prova tenuto conto che, nel nostro ordinamento, il confronto preventivo con il contribuente negli studi di settore si è spesso in concreto rivelato un rimedio fittizio, quasi una sorta di escamotage a giustificazione del successivo avviso di accertamento. In questa materia, l’Amministrazione finanziaria ha finito per attribuirsi facoltà discrezionali tali da trasmodare in vero e proprio arbitrio; al punto che la stessa Commissione per l’esame della compatibilità comunitaria di leggi e prassi italiane, costituita in seno all’AIDC (6), già nel 2011 denunciava alla Corte di Giustizia l’insanabile conflitto tra la nostra disciplina degli studi di settore e i principi di proporzionalità e neutralità ai fini Iva. La denuncia era fondata sulla constatazione che gli studi di settore hanno natura di accertamenti standardizzati ed esprimono il risultato di sofisticate elaborazioni statistico-matematiche volte a determinare un ammontare annuo di ricavi ipotetico applicabile a una situazione di “normalità economica”. In altri termini, gli studi di settore creano una “verità teorica” che, se non corretta in sede di contraddittorio endoprocedimentale, rischia di generare alterazioni dei valori accertati rispetto a quelli effettivi (7), con la conseguenza che, in tal

(6) L’ Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti e degli Esperti contabili di Milano (AIDC) con la denuncia del 15 aprile 2011 n. 7 sollevò, per la prima volta, davanti alla Corte di Giustizia la questione della illegittimità comunitaria dell’imposizione fondata sugli studi di settore ai fini IVA. Tuttavia, la denuncia fu archiviata dall’Ufficio della direzione generale Fiscalità e Unione doganale della Commissione europea, proposto alle procedure di infrazioni, il quale motivò la sua decisione affermando che le questioni sollevate dall’AIDC non rientravano nella competenza dell’UE (dal momento che si riferivano a questioni di controllo tributario e di riscossione). In risposta, l’AIDC affermò che esisteva il rischio di un’eccessiva indulgenza dell’UE verso i paesi indebitati volta a non ostacolare, contrastando il loro gettito, la riduzione del disavanzo. (7) Nella sua denuncia, l’AIDC aveva sostenuto che un recupero dell’Iva realizzato non sulla base delle effettive operazioni effettuate ma sull’ammontare del volume d’affari rideterminato con criteri statico-matematici finiva, da un lato, per violare le norme europee che impongono che la base imponibile Iva sia determinata in modo oggettivo ed effettivo sulle singole transazioni realizzate e, dall’altro, per contraddire la giurisprudenza costante secondo la quale la base imponibile per la cessione di un bene o la prestazione di un servizio è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto a tal fine (v. Sentenza della Corte di Giustizia UE, 16 ottobre 1997, causa 258/95, Fillibeck, punto 13; Sentenza della Corte di Giustizia UE, 5 febbraio 1981, causa 154/80, Coöperatieve Aardappelenbewaarplaats, punto 13; Sentenza della Corte di Giustizia UE, 23 novembre 1988, causa 230/87, Naturally Yours Cosmetics, punto 16; Sentenza della Corte di Giustizia UE, 27 marzo 1990, causa C-126/88, Boots Company, punto 19; Sentenza della Corte di Giustizia UE, 5 maggio 1994, causa C-38/93, Glawe , punto 8; Sentenza della Corte di Giustizia UE, 2 giugno 1994, causa C-33/93, Empire Stores, punto 18; Sentenza della


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caso, l’accertamento basato sugli studi di settore risulterebbe sproporzionato rispetto al fine di contrastare l’evasione. Gli studi di settore tornano sotto la lente della Corte di Giustizia in quanto strumenti che condurrebbero a recuperare l’Iva non sulla base delle operazioni effettivamente realizzate dal soggetto ma in virtù di una rideterminazione statistico-matematica; e, in questo contesto, il contraddittorio preventivo – da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’avviso di accertamento – avrebbe proprio la funzione di rendere maggiormente “attendibili” gli studi di settore, “calibrandoli” sulla realtà del singolo contribuente e garantendo così una tassazione conforme al principio costituzionale di capacità contributiva (8). Se, dunque, appare ammissibile – in linea di principio – la predisposizione di mezzi di contrasto all’evasione fiscale che rendano più agile e, quindi, più efficace l’azione dell’Ufficio, come indubbiamente sono i sistemi di accertamento per standard, il limite alla loro utilizzabilità sta, da un lato, nell’impossibilità di far derivare, dall’eventuale incongruenza tra standard e ricavi dichiarati, un automatismo dell’accertamento, che eluderebbe lo scopo di giungere alla determinazione del reddito effettivo del contribuente in coerenza con il principio di cui all’art. 53 Cost.; dall’altro, nel riconoscere la partecipazione del contribuente alla fase di formazione dell’atto di accertamento mediante un contraddittorio preventivo. Proprio tale contraddittorio preventivo consente, infatti, agli studi di settore di superare il controllo di proporzionalità e di adeguare il risultato dello standard alla concreta realtà economica del destinatario dell’accertamento. In quest’ottica, l’Avvocato generale suggeriva alla Corte di dichiarare conforme all’ordinamento europeo la disciplina italiana, ritenendo l’obbligo di contraddittorio preventivo sufficiente ad assicurare l’esercizio concreto del diritto di difesa del contribuente e, dunque, a garantire un’azione accertativa proporzionata. La posizione dell’Avvocato generale parte dalla natura ar-

Corte di Giustizia UE, 24 ottobre 1996, causa C-288/94, Argos Distributors, punto 16)). (8) È appena il caso di ricordare che, nell’accertamento fondato sugli studi di settore, il legislatore tributario all’art. 1, comma 3-bis, della legge 8 maggio 1998, n. 146, come modificato dall’art. 1, comma 409, della legge 30 dicembre 2004, n. 211 (legge finanziaria per il 2005) ha previsto l’obbligo per l’Ufficio, prima di notificare l’avviso di accertamento, di invitare il contribuente a comparire allo scopo di instaurare il contradditorio preventivo. Per un approfondimento sul ruolo svolto dal contraddittorio endoprocedimentale nell’ambito dell’accertamento fondato sugli studi di settore si rimanda, ex pluribus, a A. Fantozzi, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, in L. Perrone - C. Berliri, Diritto tributario e Corte Costituzionale, Napoli, 2007, 406 ss.


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monizzata dell’IVA e, dunque, dall’applicabilità a tale imposta del modello di contraddittorio preventivo radicato negli artt. 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (e confermato nella giurisprudenza della stessa Corte (9)) secondo cui ogni volta che l’Amministrazione si proponga di adottare, nei confronti di un soggetto, un atto potenzialmente lesivo, tale soggetto ha il diritto di manifestare “utilmente” il proprio punto di vista sugli elementi fondanti della decisione amministrativa. Elevato dalla Corte di Giustizia a principio generale dell’ordinamento europeo, il contraddittorio preventivo è stato dalla stessa ricondotto a regola generale dei procedimenti amministrativi e tributari come parte integrante del diritto a una buona amministrazione, sancito dal citato art. 41; e, dunque, almeno per i tributi armonizzati, a parametro di legittimità dell’azione amministrativa. Ma c’è di più. La previsione dell’art. 41 non si limita a formalizzare l’obbligo di instaurare un contraddittorio preventivo ma fornisce indicazioni sulla sua attuazione concreta prevedendo l’obbligo per l’Amministrazione di motivare le sue decisioni (10): nel diritto europeo, dunque, l’azione amministrativa deve garantire l’esercizio effettivo del diritto di difesa del contribuente già in sede procedimentale (11). Nella sentenza che si annota, la Corte di Giustizia conferma le conclusioni dell’Avvocato generale ma sceglie un diverso percorso argomentativo che suscita non poche perplessità. In dettaglio, la Corte afferma che la normativa

(9) CGUE Sentenza del 13 febbraio 1979, Hoffmann-La Roche e a. c. Commissione delle CE, C-85/76; CGUE Sentenza del 23 ottobre 1974, Transocean Marine Paint Association c. Commissione delle CE, causa C-17/74; CGUE Sentenza del 18 dicembre 2008 causa C-349/07, Sopropè ; CGUE Sentenza del 3 luglio 2014, cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics. Sul punto, sia consentito di rinviare al mio Il nuovo modello di attuazione dei tributi nella delega fiscale: l’occasione per legittimare il diritto al contraddittorio nel giusto procedimento di accertamento tributario, in Riv. dir. trib., n. 5, 2014, 609 ss. (10) L’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, rubricato “Diritto ad una buona amministrazione” recita: “Ogni persona ha diritto a che le questioni che la riguardano siano trattate in modo imparziale ed equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni, organi e organismi dell’Unione. 2. Tale diritto comprende in particolare: a) il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio; b) …; c) l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni”. (11) Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia «il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione di cui il diritto al contraddittorio in qualsiasi procedimento costituisce parte integrante» (CGUE Sentenza del 3 luglio 2014, cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics, punto 28).


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italiana che consente all’Amministrazione finanziaria di accertare il volume d’affari realizzato dal contribuente sulla base degli studi di settore, qualora riscontri “rilevanti divergenze” tra l’importo del volume d’affari dichiarato e quello stimato sulla base degli studi stessi (12), non è in contrasto con la direttiva Iva e con i principi di neutralità e di proporzionalità e questo perché, secondo la Corte, “divergenze di tal genere possono solamente far sorgere presunzioni relative, confutabili dal contribuente mediante prova contraria”. Dunque, l’accertamento sarà legittimo se il contribuente viene comunque messo nelle condizioni di contestare le risultanze derivanti dallo studio di settore sulla base di tutte le prove contrarie di cui dispone e di esercitare il diritto alla detrazione dell’Iva. Ricordiamo che, nel nostro ordinamento, la natura giuridica degli studi di settore è stata al centro di un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale (13) al quale il legislatore tributario è rimasto estraneo. Quest’ultimo si è, infatti, limitato ad intervenire sulla natura giuridica dei c.d. indicatori di normalità economica (I.N.E.) (14) precisandone il valore probatorio di mera presunzione semplice (15) e stabilendo espressamente che gli scostamenti del reddito dichiarato da quello risultante da tali indicatori non sono soggetti ad accertamenti automatici e che, in caso di accertamento, spetterà all’Ufficio

(12) Come è noto, nella disciplina nazionale degli studi di settore lo scostamento tra i compensi dichiarati e quelli “fondatamente” desumibili dagli studi di settore non deve essere “qualsiasi”, ma testimoniare una “grave incongruenza” come espressamente previsto dall’art. 62 sexies, comma 3, del D.L. n. 331/1993 (convertito, con modificazioni, dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427) e come deve interpretarsi, in una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, l’art. 10, comma 1, della L. n. 146 del 1998, nel quale pur essendo presente un diretto richiamo alla norma precedentemente citata, non compare in maniera espressa il requisito della gravità dello scostamento. (13) Sul dibattito dottrinale e giurisprudenziale v. P. Boria (a cura di), Studi di settore e tutela del contribuente, Quaderni della Riv. dir. trib., n. 6, Milano, 2010; M. Versiglioni, Prova e studi di settore, Milano, 2007. Si veda pure Relazione della Corte Suprema di Cassazione – Ufficio del Massimario “Gli strumenti presuntivi di accertamento del reddito introdotti dal 1989: natura e conseguenze sul piano probatorio”, n. 94 del 9 luglio 2009. (14) La legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007) all’art. 1, comma 13, ha introdotto l’art. 10-bis nella legge 8 maggio n. 146 al fine di disciplinare la revisione e l’aggiornamento degli studi di settore sulla base di indicatori di coerenza rispetto a comportamenti considerati normali per il relativo settore economico. (15) L’art. 15, comma 3-bis, del D.L. n. 81/2007 ha aggiunto all’art. 1 della Finanziaria 2007 il comma 14-bis, laddove è disposto che “gli indicatori di normalità economica di cui al comma 14 hanno natura sperimentale ed i maggiori ricavi, compensi o corrispettivi da essi desumibili costituiscono presunzioni semplici”.


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motivare e fornire gli elementi di prova degli scostamenti riscontrati (16). La conformità costituzionale della tassazione in base allo studio di settore è stata, invece, messa in discussione dalla Cassazione a Sezioni Unite (17) nel momento in cui la sostenuta qualificazione degli studi di settore come presunzioni legali relative ha prodotto, da un lato, l’effetto di determinare ex ante un reddito medio ordinario e, dall’altro, l’effetto di addossare al contribuente, che ad essi avesse voluto sottrarsi, una probatio diabolica (18). Quello della Corte di Giustizia sembra, dunque, un “passo del gambero” se si considera che a livello nazionale, l’accertamento in base agli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati (quali meri strumenti di ricostruzione statistica della normale redditività) ma nasce solo in esito al contraddittorio preventivo con il contribuente; contraddittorio da attivare obbliga-

(16) La legge 24 dicembre 2007, n. 244 ((legge finanziaria 2008), all’art. 1, comma 252 ha aggiunto all’articolo 1, comma 14, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, dopo il primo periodo, i seguenti: “Ai fini dell’accertamento l’Agenzia delle entrate ha l’onere di motivare e fornire elementi di prova per avvalorare l’attribuzione dei maggiori ricavi o compensi derivanti dall’applicazione degli indicatori di normalità economica di cui al presente comma, approvati con il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 20 marzo 2007, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 76 del 31 marzo 2007, e successive modificazioni, fino all’entrata in vigore dei nuovi studi di settore varati secondo le procedure, anche di concertazione con le categorie, della disciplina richiamata dal presente comma. In ogni caso i contribuenti che dichiarano ricavi o compensi inferiori a quelli previsti dagli indicatori di cui al presente comma non sono soggetti ad accertamenti automatici”. (17) Cassazione, SS.UU., sentenza del 18 dicembre 2009, n. 26635. (18) F. Gallo, Il sistema tributario tra esigenze di rinnovamento e ridefinizione dei principi, in Riv. della G.d.f., n. 3, 1995, 606 afferma che da strumento di contrasto all’evasione fiscale gli studi di settore si sono trasformati nel “veicolo di un compromesso dello Stato con le stesse categorie avente per oggetto l’ottenimento di un (solo eventuale) aumento di gettito in cambio di una rinuncia all’attività accertativa nei confronti di chi si adegua ad una sorta di concordato collettivo”. Attraverso questi tipi di “concordato”, l’Amministrazione finanziaria è intervenuta, in realtà, surrettiziamente sulla disciplina sostanziale del presupposto d’imposta fino a segnare il passaggio verso modalità di predeterminazione generalizzata del reddito normale che escludono, per definizione, la ricerca tendenziale del reddito effettivo. In argomento v. Id., Gli studi di settore al bivio tra la tassazione del reddito normale e di quello effettivo, in Rass. trib., n. 5, 2000, 1495 ss.; Id., Ancora sulla questione reddito normale – reddito effettivo: la funzione degli studi di settore, in Giur. imp., n. 1, 2004, 481-491; L. Tosi, Su un’ipotesi di tassazione del reddito normale: problematiche applicative e costituzionali, in Riv. dir. fin. sc. fin., n.1, 1990, 97 ss. Più di recente, v. A. Marcheselli, Accertamenti tributari e difesa del contribuente, Milano, 2018, 27.


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toriamente, pena la nullità dell’accertamento (19). Nonostante questa ricostruzione dell’istituto, l’obbligo per l’Amministrazione finanziaria di convocare in contraddittorio il contribuente si è spesso esaurito, come è stato denunciato dall’AIDC, nel riconoscere al contribuente un diritto di difesa “formale” e “limitato” (20). In assenza della previsione normativa di una motivazione rafforzata che tenga conto dei chiarimenti forniti dal contribuente durante il contraddittorio, la mancata “personalizzazione” degli studi di settore ha così finito per tradire il modello europeo di difesa procedimentale nel quale obbligatorietà ed effettività del contraddittorio preventivo rappresentano una declinazione del principio europeo di buona amministrazione (21) sancito anche dall’art. 97 Cost. (22).

(19) Quanto al contraddittorio preventivo con il contribuente, va ricordato che l’art. 10 della legge n. 146 ( che disciplina le modalità di applicazione degli studi di settore in sede di accertamento), nella versione originaria, non lo prevedeva espressamente, ma in diverse occasioni l’Amministrazione finanziaria (v. Circolare del 21 maggio 1999 n. 110/E, Circolare dell’11 aprile 2002 n. 29/E , Circolare del 27 giugno 2002 n. 58/E, Circolare dell’11 settembre 2002, n. 74/E) aveva precisato che per gli accertamenti basati sugli studi di settore gli Uffici dovevano tener conto delle disposizioni che regolano il procedimento dell’accertamento con adesione, in particolare, inviando ai contribuenti un invito al contraddittorio contenente gli elementi rilevanti ai fini dell’accertamento, al fine di pervenire a una definizione concordata della giusta misura dell’imposta. Successivamente la legge 30 dicembre 2004, n. 311 (c.d. finanziaria 2005) introdusse il comma 3-bis nell’art. 10 della legge 8 maggio 1998, n. 146, con la previsione dell’obbligo per l’ufficio, prima della notifica dell’avviso di accertamento, di invitare il contribuente a comparire, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, così stabilendo espressamente la necessità del previo contraddittorio con il contribuente anche in tema di accertamenti basati sugli studi di settore. (20) Sulla questione si è pronunciata recentemente la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 29323 del 14 novembre 2018 stabilendo che, prima di emettere un accertamento basato sugli studi di settore, l’Agenzia delle entrate deve sempre indicare i motivi per i quali non ha accolto le giustificazioni presentate dal contribuente. Nel caso di specie, secondo la Cassazione, l’Amministrazione avrebbe sostanzialmente eluso il contraddittorio non pronunciandosi sulle allegazioni di parte: per quanto non sia necessario un puntuale ed analitico riscontro di tutte le eccezioni sollevate dal contribuente, l’Amministrazione avrebbe dovuto quanto meno esplicitare le ragioni per le quali ha ritenuto non condivisibili le contestazioni del contribuente al fine di dimostrare, nella motivazione, che tali contestazioni erano state: a) prese in considerazione; b) adeguatamente valutate e c) ragionevolmente superate. Anche se non previsto espressamente, tale onere motivazionale sussiste sempre perché le giustificazioni addotte dal contribuente non possono essere subordinate ad un’arbitraria valutazione, da parte dell’Ufficio, della loro plausibilità ed attendibilità. (21) Per ampi riferimenti bibliografici e giurisprudenziali, cfr. D.U. Galetta, Il diritto ad una buona amministrazione europea come fonte di essenziali garanzie procedimentali nei confronti della Pubblica amministrazione, in Riv. dir. pubbl. comunit., 2005, I, 819. (22) Sull’azione impositiva riconducibile al genus dell’azione amministrativa, cfr. L.


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Prendendo spunto dalla problematica in esame e tenuto conto della progressiva affermazione, nell’ordinamento tributario, del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa (23) sembra opportuno chiedersi se il contraddittorio preventivo, declinato secondo i parametri della proporzionalità, possa assumere valore sostanziale e, dunque, garantire il concreto esercizio del diritto di difesa del contribuente. 2. La questione all’esame e la questione pregiudiziale. – La controversia portata all’esame della Corte di Giustizia nasceva da un avviso di accertamento con cui l’Ufficio contestava al contribuente la dichiarazione di compensi inferiori a quelli risultanti dall’applicazione dello studio di settore di appartenenza. La procedura era iniziata con un invito a comparire volto all’instaurazione del contraddittorio preventivo, nel corso del quale il contribuente aveva depositato memorie difensive e prodotto documenti al fine di confutare le determinazioni presuntive di maggiori ricavi rispetto a quanto dichiarato. L’Ufficio, tuttavia, non aveva ritenuto convincenti le argomentazioni e la documentazione prodotta confermando, nell’avviso di accertamento, l’originaria pretesa impositiva volta a rettificare le imposte dirette e l’IVA. Nel ricorso in primo grado, il contribuente aveva lamentato la non corretta applicazione dello studio di settore sostenendo che il volume d’affari rideterminato dall’Ufficio “sarebbe stato calcolato sulla base di uno studio di settore che non consentirebbe di fornire un’adeguata rappresentazione dei redditi prodotti dalla propria impresa in termini di proporzionalità e di coerenza”. Nutrendo dubbi sulla possibile violazione dei principi di proporzionalità e neutralità dell’Iva, il giudice del rinvio aveva sospeso il procedimento e

Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, 88 ss. Si veda pure F. D’ayala Valva, Il volto nuovo del fisco. Riflessioni sull’attuazione dell’art. 97 della Carta costituzionale, in Nuovi studi politici, n. 1, 2003, 23 ss. (23) Il principio di proporzionalità – quale principio generale del diritto dell’Unione Europea di derivazione germanica – impone che, tra più strumenti ugualmente idonei a raggiungere un risultato, sia scelto quello meno lesivo per i destinatari, effettuando un bilanciamento tra l’utilità generale che la pubblica autorità si propone di ottenere ed il sacrificio imposto a determinati soggetti. Fin dalle sue origini germaniche, il principio di proporzionalità è stato visto quale risultante della valutazione congiunta di tre componenti: idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto (o adeguatezza). Nell’esperienza del diritto comunitario, la proporzionalità si presenta come principio di diritto pretorio, nonostante la stessa risulti espressamente riconosciuta nell’art. 5 del Trattato e nel protocollo allegato al Trattato di Amsterdam del 1997. Si veda sul punto D. U. Galetta, Il principio di proporzionalità nella giurisprudenza comunitaria, in Riv. dir. pubbl. comunitario, n. 4, 1993, 837 ss.


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sottoposto alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale relativa alla compatibilità con gli articoli 113 e 114 TFUE e con la direttiva Iva della normativa italiana costituita dagli articoli 62 sexies, comma 3, e 62 bis del decreto-legge n. 331/1993, convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427, nella parte in cui consente l’applicazione dell’IVA ad un volume d’affari globale induttivamente accertato, sotto il profilo del rispetto della detrazione e dell’obbligo di rivalsa e, più in generale, in relazione al principio di neutralità e traslazione dell’imposta (24). In sostanza, il giudice del rinvio chiedeva alla Corte se le disposizioni della direttiva Iva e i principi che disciplinano il sistema di questa imposta “debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale, quale quella di cui al procedimento principale, che consente all’Amministrazione di accertare l’imposta dovuta da un contribuente, che si presume non aver dichiarato la totalità dell’IVA, mediante un metodo induttivo basato su studi di settore che stimano i probabili ricavi di determinate categorie di contribuenti”. Secondo il giudice del rinvio, la presunta lesione del principio di neutralità fiscale sarebbe derivata dal fatto che, nell’accertamento fondato sugli studi di settore, l’imposta che il contribuente è tenuto a versare non è determinata in base alle operazioni realmente poste in essere ma è calcolata in riferimento al volume di affari presunto; dunque, nel caso in cui non si garantisca il rispetto del diritto di difesa, il contribuente che non raggiunga tale volume rischia di restare inciso dall’Iva per l’intero ammontare che l’Amministrazione finanziaria reputi dovuto, con la conseguenza di far perdere all’Iva la sua natura di imposta neutrale. Con riferimento al principio di proporzionalità, il giudice del rinvio chiedeva, poi, alla Corte di Giustizia di verificare se la scelta dell’Amministrazione finanziaria di usare gli studi di settore come strumento di accertamento presuntivo, idoneo a garantire l’integrale riscossione dell’imposta dovuta e a prevenirne l’evasione, rientrasse nel margine di discrezionalità che la direttiva Iva riconosce agli Stati membri al fine di garantire tali obiettivi con il minor sacrificio degli interessi contrapposti, meritevoli di tutela secondo il diritto europeo. 3. L’effettività del diritto di difesa quale parametro di proporzionalità dell’azione accertativa: riflessioni sulle conclusioni della Corte di Giustizia.

(24) § 18, Causa C-648/16.


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– Nella sentenza in esame, la Corte di Giustizia dichiara che i principi di proporzionalità e di neutralità fiscale, sottesi alla direttiva Iva, non ostano a una normativa nazionale come quella controversa sempre che l’applicazione di tale normativa permetta al contribuente stesso di contestare, sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti dallo studio di settore e di esercitare il proprio diritto alla detrazione dell’Iva. Dunque, ad avviso della Corte, l’accertamento fondato sugli studi di settore non eccede quanto necessario ad assicurare che l’Iva dovuta sia interamente riscossa e a prevenire la sua evasione né contrasta con il principio di neutralità fiscale a condizione che il diritto di difesa del contribuente sia garantito durante tutto il corso del procedimento di rettifica fiscale. La prospettiva sembra duplice: da un lato, valorizzare gli studi di settore come strumenti di contrasto all’evasione fiscale nonostante gli stessi abbiano ormai perso nell’ordinamento nazionale gran parte dell’efficacia ad essi fideisticamente attribuita nel garantire e sostenere il livello di tax compliance delle piccole e medie imprese e delle attività professionali (25); dall’altro, garantire il diritto di difesa del contribuente. Proprio il modello europeo, però, ci insegna che questo diritto di difesa deve implicare non solo la difesa in giudizio ma anche il contraddittorio endoprocedimentale (26); ed è su questo punto che il ragionamento e le (forse troppo) rapide conclusioni della Corte suscitano qualche perplessità. La Corte in primis afferma che, in linea di principio, la scelta di utilizzare uno strumento di accertamento presuntivo quale gli studi di settore, al fine di individuare i contribuenti che “potrebbero” non aver dichiarato la totalità dell’Iva e di valutare gli importi “eventualmente” esigibili, rientra nel margi-

(25) È appena il caso di precisare che, dal 2019, gli studi di settore saranno sostituiti dai c.d. Indici Sintetici di Affidabilità (ISA) che rappresentano i nuovi indicatori di compliance volti a garantire la naturale emersione delle basi imponibili. (26) Com’è noto, il diritto di difesa è stato riconosciuto in più occasioni dalla Corte di Giustizia quale strumento attraverso cui i destinatari di provvedimenti amministrativi, produttivi di effetti giuridici ad essi pregiudizievoli, hanno la possibilità di intervenire nel procedimento di determinazione dell’atto manifestando “utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione” (v. CGCE Sentenza del 9 novembre 2017, causa C-298/16, Teodor Ispas, Anduţa Ispas, punto 26; CGCE Sentenza del 17 dicembre 2015, causa C-419/14, WebMindLicenses, punto 84; CGCE Sentenza del 22 ottobre 2013,causa C-276/12, Sabou, punto 38; CGCE Sentenza del 24 ottobre 1996, causa C-32/95 Commissione/Lisrestal e a., punto 21; CGCE Sentenza del 18 dicembre 2008, causa C-349/07, Sopropé, punto 37).


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ne di discrezionalità che la direttiva riconosce agli Stati membri per assicurare l’integrale riscossione dell’imposta e prevenirne l’evasione (27); questo perché l’art. 273 della direttiva Iva, nell’interpretazione offerta dalla stessa Corte (28), conferisce agli Stati membri, obbligati ad adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire che l’Iva sia integralmente riscossa e a contrastare l’evasione fiscale, un margine di discrezionalità sui mezzi idonei a raggiungere tali obiettivi. Tuttavia, i mezzi che gli Stati membri possono adottare, in forza del citato art. 273, non devono eccedere, nel rispetto del tradizionale canone della proporzionalità, quanto necessario a conseguire siffatti obiettivi e non devono compromettere la neutralità dell’Iva (29). In questa prospettiva la Corte si chiede se l’accertamento fondato sugli studi di settore risulti proporzionato al fine di contrastare l’evasione dell’Iva e, dunque, se i suddetti studi siano in grado di conciliare l’esigenza di consentire l’individuazione dell’eventuale imposta non dichiarata e di facilitarne la determinazione con la necessità che gli importi recuperati siano il più possibile prossimi, e non superiori, a quelli previsti dall’art. 73 della direttiva (30). Ad avviso della Corte, il principio di proporzionalità non osta a un accertamento basato sugli studi di settore a condizione che tale metodo di accertamento presuntivo sia avviato solo a fronte di “rilevanti divergenze” tra il volume di affari dichiarato e quello accertato induttivamente e che gli studi di settore siano “esatti, affidabili ed aggiornati”. Ma vi è di più. Secondo la Corte, le predette divergenze “possono solamente far sorgere presunzioni relative, confutabili dal contribuente mediante prova contraria”. Sul punto la Corte precisa che, da un lato, il contribuente deve poter contestare tanto l’”esattezza” (melius: correttezza intrinseca) dello studio quanto la sua “pertinenza” (ad esempio in ragione degli elementi, presi o meno in considerazione nello studio, suscettibili di incidere sulle stime elaborate); dall’altro, che “il soggetto passivo deve essere in grado di far valere le circostanze per le quali il volume

(27) § 40 C-648/16. (28) Cfr. CGCE Sentenza del 26 gennaio 2012, C-588/10, Kraft Foods Polska, punto 23 e CGCE Sentenza del 26 marzo 2015, C-499/13, Macikowski, punto 36. (29) V. CGCE Sentenza del 26 marzo 2015, C-499/13, Macikowski, punto 37 e giurisprudenza ivi citata. (30) L’art. 73 della direttiva Iva recita: «Per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi diverse da quelle di cui agli articoli da 74 a 77, la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni».


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d’affari dichiarato, benché inferiore a quello determinato in base al metodo induttivo, corrisponda alla realtà della propria attività nel periodo interessato”. Laddove, il contribuente, per confutare una presunzione relativa discendente dall’applicazione dello studio di settore, fosse costretto “a provare fatti negativi” (quali, ad esempio, l’assenza o il numero ridotto di operazioni imponibili in un determinato periodo di tempo) il livello di prova richiesto non dovrà essere – secondo la Corte – “eccessivamente” elevato, pena la non proporzionalità della misura. Questo ragionamento sembra appiattito su una ricostruzione meramente teorica del funzionamento degli studi di settore e, peraltro, anacronistica se si considera che ad oggi non è più in discussione, nell’ordinamento nazionale, la loro natura di presunzioni semplici; mentre la Corte di Giustizia sembra ragionare ancora degli studi di settore come presunzioni legali relative. Da qui una serie di equivoci argomentativi: lo studio di settore è conforme all’ordinamento europeo in quanto la presunzione relativa ammette la prova contraria e, dunque, si tratta di misura proporzionata perché il contribuente è messo in condizione di difendersi. Questo diritto di difesa deve però essere garantito, ad avviso della Corte, “durante tutto il corso del procedimento di rettifica fiscale” e, dunque, sembrerebbe anche in sede di contraddittorio endoprocedimentale, come, peraltro, sostiene anche la nostra giurisprudenza di legittimità. Ma la natura di presunzione legale relativa attribuita dalla Corte allo studio di settore mal si combina con l’esigenza di un contraddittorio endoprocedimentale a presidio della proporzionalità dello strumento accertativo. E proprio nel misunderstanding sulla natura giuridica dello studio di settore emerge la differenza di posizioni tra la Corte e l’Avvocato generale, il quale più correttamente aveva configurato gli studi di settore come presunzioni semplici e coerentemente ne aveva condizionato la conformità europea al rispetto di quell’obbligo di contraddittorio che è volto a “personalizzare” gli studi di settore alla posizione del singolo contribuente. Non è un caso che, con riferimento al principio di proporzionalità, l’Avvocato generale abbia avvertito l’esigenza di precisare che se gli studi di settore avessero natura giuridica di presunzioni legale relative potrebbero eccedere quanto necessario per assicurare l’integrale riscossione dell’Iva dovuta e la prevenzione dell’evasione. Costruiti in termini di presunzioni legali relative, gli studi di settore finirebbero per diventare, infatti, una modalità di assolvimento dell’onere della prova da parte dell’Ufficio, con la conseguenza di imporre, al contribuente accertato, il compito di contestarne i risultati in sede processuale; e la prova contraria del contribuente incontrerebbe, come noto,


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limiti ben precisi in quanto la specifica determinazione dei ricavi derivanti dall’applicazione degli studi di settore potrebbe essere contestata solo dimostrando l’esistenza delle cause di esclusione o di inapplicabilità normativamente previste. Ben più difficile risulterebbe, infatti, provare e giustificare un andamento sfavorevole della gestione economica con corrispettivi inferiori a quelli derivanti dall’applicazione degli studi di settore (31). Di conseguenza, nei confronti di ogni ipotesi di determinazione dell’imponibile sulla base di valori prefissati in modo automatico, ove non sia data facoltà al contribuente di confutarli sul piano probatorio (ovvero, ove tale facoltà sia così limitata da trasformarsi, di fatto, in una probatio diabolica), è lecito dubitare che ci si trovi di fronte a fattispecie che concorrono, in modo surrettizio, a definire piuttosto che accertare il tributo (32). Ma, come precisava l’Avvocato generale, gli studi di settore non sono presunzioni legali relative; essi “si limitano a fornire indizi relativi ad una possibile anomalia nelle dichiarazioni di un contribuente”; sicché “una deviazione significativa rispetto alle risultanze di tali studi non conduce automaticamente ad una decisione sfavorevole da parte dell’Amministrazione. Essa può meramente comportare l’apertura di un contraddittorio procedimentale volto a stabilire la reale situazione economica di un contribuente”; dunque, per l’Avvocato, “sono la revisione e la ‘rettifica’ di tali risultati alla luce degli elementi addotti dai contribuenti che permettono all’Amministrazione finanziaria di determinare se, in un caso specifico, vi sia stata evasione o elusione d’imposta e di quantificare l’importo dovuto” (33). In sostanza, è proprio il valore di presunzione semplici degli studi di settore che mette il contribuente al riparo da accertamenti automatici, in quanto la fondatezza del reddito stimato in base all’applicazione degli studi di settore, ovvero l’effettiva coincidenza della situazione del singolo contribuente con quella di normalità economica, deve essere di volta in volta verificata dall’Ufficio in contraddittorio, tanto nella fase procedimentale quanto, eventualmente, in quella contenziosa; sede, quest’ultima, nell’ambito della quale

(31) In questa prospettiva, non sembra ammissibile, per il contribuente, provare la correttezza e la validità del reddito autoliquidato semplicemente esibendo, a tal fine, le stesse scritture contabili che lo strumento degli studi di settore intende superare attraverso elementi presuntivi. Riammettere la determinazione contabile in sede di prova contraria equivarrebbe, infatti, a negare qualsiasi efficacia innovativa al metodo di accertamento basato sullo studio di settore. (32) Cfr. F. Niccolini, Studi di settore e motivazione: riflessioni alla luce dei più recenti interventi legislativi, in Dir. prat. trib., n. 6, 2008, 1089 ss. (33) § 47, C-648/16.


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continua a gravare sull’Ufficio l’onere di convincere il giudice tributario della plausibilità del ragionamento presuntivo sul quale si fonda l’accertamento, valorizzando gli elementi comuni con la specifica realtà del contribuente e raccordandoli con il complesso di quelli conosciuti. Lo scopo principale del contraddittorio preventivo è proprio quello di evitare che l’automatismo intrinseco al meccanismo applicativo degli studi di settore conduca all’emissione dell’avviso di accertamento anche in presenza di fatti e circostanze che rendono infondata l’applicazione di tale strumento presuntivo. Dunque, il principale obiettivo degli studi di settore resta quello di fornire strumenti tecnici di controllo che personalizzati, in sede di contradditorio endoprocedimentale, con i dati del contribuente, consentano di pervenire, con una certa attendibilità, a determinare quei profitti (tendenzialmente) effettivi su cui riposa la giustizia del tributo (34). Non è un caso che le Sezioni Unite della Cassazione, nella nota sentenza del 2009 (35), abbiano affermato espressamente che il contraddittorio è requisito essenziale e imprescindibile del “giusto” procedimento che legittima l’azione amministrativa e ciò indipendentemente da un’espressa previsione di legge quantomeno con riferimento alle ipotesi di accertamenti fondati su dati standard, come nel caso degli studi di settore (36). Ma stranamente, la stessa Corte ha ammesso che, nel caso di inerzia del contribuente, l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standard dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente nonostante il rituale invito; sicché, nel nostro ordinamento, a differenza di quello

(34) Fantozzi A., Attualità del pensiero di Ezio Vanoni in tema di accertamento tributario, in Riv. dir. trib., 2001, I, 614 ss.; Id., Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, in L. Perrone - C. Berliri, Diritto tributario e Corte Costituzionale, Napoli, 2007, 383 ss.; G. Corasaniti, La natura giuridica degli studi di settore ed il problema dell’onere della prova, in Dir. prat. trib., n. 1, 2008, 13 ss.; A.M. Gaffuri, Studi di settore e normalità economica, in Boll. trib., n. 18, 2008, 1402 ss.; M. Giorgi, L’accertamento basato su studi di settore: obbligo di motivazione ed onere della prova, in Rass. trib., n. 3, 2001, 659 ss. (35) Corte di Cassazione, SS. UU., sentenza del 18 dicembre 2009, n. 26635. (36) Questa soluzione esegetica, volta a circoscrivere l’operatività del contraddittorio ai soli accertamenti standardizzati, dettata evidentemente dalla necessità di tutelare la c.d. “ragione fiscale”, è stata superata dalla più recente giurisprudenza di legittimità che, a favore dell’effettività del contraddittorio preventivo, ha ritenuto “miope – se non palesemente assurda – la scelta di confinare l’obbligo di attivazione del contraddittorio ai soli accertamenti standardizzati e di escluderlo per tutte le altre rettifiche induttive” fino a ricomprendere le verifiche fondate sulle c.d. percentuali di ricarico. V. Corte di Cassazione, 19 maggio 2017, n, 12631 con nota di L.R. Corrado, Il contraddittorio è obbligatorio per la generalità delle rettifiche induttive con


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europeo, tra le due funzioni che il contraddittorio può svolgere come ‘strumento istruttorio’ o come ‘strumento di garanzia’ dell’interessato, è prevalsa la prima con evidenti effetti sull’azione amministrativa che, anche in presenza di un contraddittorio obbligatorio come nel caso degli studi di settore, solo apparentemente può considerarsi “proporzionata”, tenuto conto delle irragionevoli limitazioni del fondamentale diritto di difesa del contribuente (37). Negli studi di settore troppo spesso il contraddittorio, come già rilevato, si risolve in un rimedio solo apparente al punto che il contribuente, nella consapevolezza delle limitazioni probatorie, finisce per adeguare spontaneamente i propri imponibili a quanto richiesto dagli studi rinunciando a partecipare al confronto dialettico con l’Amministrazione. Al contrario, nel contesto europeo, il rispetto del contraddittorio nell’ambito del procedimento amministrativo, non escluso quello tributario, costituisce, quale esplicazione del diritto alla difesa, principio fondamentale dell’ordinamento e trova applicazione ogni volta che l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo (38). Un aspetto che la Corte di Giustizia mette in evidenza nella sua sentenza ma che troverebbe difficoltà, a mio avviso, a coniugarsi con la sostenuta qualificazione di presunzioni legali relative dei nostri studi di settore, tenuto conto soprattutto che in essi il diritto di difesa del contribuente difficilmente potrà essere garantito dalla mera inversione dell’onere della prova considerate le difficoltà oggettive per il contribuente di confutare GE.RI.CO (39). Tanto la Corte di Giustizia quanto l’Avvocato Generale fanno, in ogni caso, ricadere sul giudice del rinvio il compito di valutare se nel caso concreto vi è stata lesione dei principi di proporzionalità e neutralità fiscale: quasi una decisione “politica” volta a salvaguardare in linea di principio gli studi di settore domestici come strumento di contrasto all’evasione, lasciando ai giudici nazionali la verifica dell’effettività del diritto di difesa del contribuente.

metodo analitico, in Corr. trib., n. 37, 2017, 2887 ss. (37) G. Petrillo, Il principio di proporzionalità nell’azione amministrativa di accertamento tributario, Napoli, 2015, 99; Id., L’osservanza del principio di proporzionalità UE nell’individuazione di criteri presuntivi ragionevoli, in Riv. trim. dir. trib., n. 2, 2013, 373 ss. (38) Cfr., in particolare, causa C-349/07, Sopropè, punti 36 e 37. (39) Il software GE.RI.CO (GEstione dei RIcavi o COmpensi) consente, ai contribuenti soggetti agli studi di settore, di stimare la congruità dei loro ricavi o compensi rispetto a quelli presunti relativi agli studi di settore di appartenenza. Si rimanda per un’analisi dettagliata alla Denuncia AIDC n.7/2011.


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4. Sul diritto di difesa procedimentale Italia ed Europa procedono su binari paralleli: quali prospettive alla luce del principio di proporzionalità? – Come è noto, nel nostro ordinamento, il diritto di difesa procedimentale – di cui il diritto al contraddittorio preventivo costituisce parte integrante – è riconosciuto al contribuente solo nelle ipotesi espressamente disciplinate (40); tuttavia, il legislatore nazionale, a differenza di quello europeo, non si è preoccupato di garantire l’effettività di questo diritto attraverso l’obbligo di motivazione rafforzata (41). Non è, dunque, un caso che, nella controversia in esame, la tradizionale impostazione volta a teorizzare l’esistenza di un interesse fiscale preminente rispetto al diritto di difesa del contribuente abbia finito per scontrarsi con il principio europeo di proporzionalità inteso come parametro di validità delle misure fiscali nazionali che incidono sui diritti fondamentali della persona (42). Tutto ciò offre lo spunto per verificare il grado di penetrazione di tale principio europeo nel nostro ordinamento, nel quale la proporzionalità come principio formulato in modo espresso e distinto dalla

(40) Si intende far riferimento ai c.d. “obblighi specifici” di contraddittorio che il legislatore ha previsto in materia di studi di settore, di redditometro, di abuso del diritto e di interpello disapplicativo. (41) Fanno eccezione le nuove fattispecie di contraddittorio in materia di abuso del diritto e di interpello disapplicativo. Per un approfondimento, sia consentito rinviare al mio Dal controllo fiscale sul dichiarato al confronto preventivo sull’imponibile, Padova, 2017, 23 ss. (42) Il principio di proporzionalità, nato nell’ordinamento tedesco, ha trovato pieno riconoscimento nella giurisprudenza della Corte di Giustizia che lo ha elevato a principio generale dell’ordinamento europeo. In base a tale principio gli interventi del legislatore e della pubblica amministrazione devono essere idonei ed adeguati al raggiungimento dell’obiettivo perseguito arrecando il minor pregiudizio o sacrificio possibile all’individuo. In materia tributaria, v. A. Bodrito, Note in tema di proporzionalità e Statuto del contribuente, in A. Bodrito, A. Contrino, A. Marcheselli (a cura di), Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, Torino, 2012, 278 ss.; L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, 24; A. Marcheselli, Accertamenti tributari e difesa del contribuente, Milano, 2010, 16. Più in generale, v. A. Albanese, Il ruolo del principio di proporzionalità nel rapporto tra Amministrazione e amministrati, in Istituzioni del federalismo, n. 3, 2016, 697 ss.


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ragionevolezza (43) non ha ancora ricevuto configurazione autonoma (44). In particolare, occorre chiedersi se il principio di proporzionalità, quale principio immanente all’ordinamento nazionale (45), possa essere invocato

(43) Dalla analisi delle sentenze della Corte Costituzionale emerge che , mentre un tempo, il principio di proporzionalità era considerato corollario della ragionevolezza (v. Corte cost., 6 febbraio 2007, n. 426) ovvero parte di esso (Corte cost., 6 febbraio 2002, n. 15) e la Corte stessa era giunta perfino ad affermare che il principio di proporzionalità “rappresenta una diretta espressione del generale canone di ragionevolezza” (Corte cost., 29 maggio 1995, n. 220), più di recente, i giudizi della Corte Costituzionale hanno ad oggetto il bilanciamento dei valori e ciò si avvicina molto ad una delle tre fasi in cui si articola il giudizio di proporzionalità specie quando riguarda i diritti fondamentali: la fase di valutazione dell’adeguatezza della misura prescelta al fine da raggiungere. Ciò rappresenta un segnale del cambiamento nel rapporto tra proporzionalità e ragionevolezza, volto a riconoscere autonomia al principio di proporzionalità. In argomento cfr. A. Bodrito, Note in tema di proporzionalità e Statuto del contribuente, cit., 285 ss.; M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, Roma, Palazzo della Consulta, 24-26 ottobre 2013. (44) Negli studi sul tema emerge chiaramente che nel nostro ordinamento la proporzionalità, ove applicata come parametro di giudizio della legittimità dell’azione amministrativa, è stata spesso assimilata alla ragionevolezza, se non inglobata in essa, in quanto collegata strettamente all’eccesso di potere e alle sue manifestazioni (v. S. Cognetti, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, cit., 168 ss.). Nonostante la forte contiguità fra i due principi, il parametro della ragionevolezza si presenta, ai fini della valutazione della congruenza dell’azione amministrativa, come un criterio dai contorni più generici rispetto alla proporzionalità. Quest’ultima, infatti, contiene una specifica valenza “quantitativa”, la cui applicazione porta necessariamente a spostare l’accento anche sulla verifica dell’intensità dell’esercizio del potere amministrativo e consente di andare oltre l’aspetto della sua congruenza al fine. In passato, la frequente assimilazione dei due principi, anche da parte della Corte costituzionale, e il mancato riconoscimento da parte della giurisprudenza amministrativa dell’autonomia concettuale della valutazione della proporzionalità rispetto a quella della ragionevolezza hanno favorito la scarsa attenzione da parte del giudice amministrativo alla dimensione procedurale che caratterizza la verifica di congruenza dell’azione amministrativa condotta in chiave di proporzionalità, secondo la sua strutturazione trifasica (che prevede la valutazione della idoneità, necessarietà e adeguatezza della misura prescelta al fine che si intende realizzare). Di conseguenza, l’assimilazione della proporzionalità alla ragionevolezza ha finito per ridurre l’applicazione del principio alla sola valutazione sull’idoneità dell’esercizio del potere a raggiungere il fine cui esso è preordinato, ridimensionandone la portata e lasciando quindi inesplorate le sue più ampie potenzialità di tutela. Va, tuttavia, precisato che dall’analisi della giurisprudenza amministrativa e delle sentenze della Corte costituzionale si evince che l’applicazione del principio è in evoluzione: sempre più spesso il principio di proporzionalità viene considerato come principio autonomo rispetto a quello di ragionevolezza e viene applicato secondo la c.d. “tecnica dei tre gradini” esaminando la fattispecie oggetto di giudizio sia dal punto di vista della sua idoneità, che della sua necessarietà ed adeguatezza. In argomento, cfr. A. Albanese, Il ruolo del principio di proporzionalità nel rapporto tra Amministrazione e amministrati, cit., 704 ss. (45) Sulla rilevanza della proporzionalità come “principio immanente anche al diritto


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come controlimite alle modalità di esercizio della funzione impositiva al fine di garantire al contribuente l’effettività del proprio diritto di difesa, attraverso la partecipazione in contraddittorio alla determinazione della “giusta” misura dell’imposta. In questa direzione si è mosso il legislatore dell’ultima delega fiscale (46) il quale, sollecitato dalla giurisprudenza europea in materia di rispetto dei diritti di difesa procedimentale (47), ha dettato principi e criteri direttivi volti ad inserire, in quella che sarebbe dovuta essere la disciplina generale ed unitaria dei procedimenti relativi all’attuazione delle imposte, l’obbligo per l’Amministrazione finanziaria di convocare il contribuente al contraddittorio prima di notificargli l’atto impositivo. Nel dare attuazione alla delega, l’Esecutivo avrebbe dovuto introdurre, con il decreto legislativo sulla disciplina unificata dei procedimenti di attuazione dei tributi (48) , una norma di

costituzionale italiano” oltre che a quello tedesco v. A. Marcheselli, Accertamenti tributari e difesa del contribuente, cit., 18 il quale richiama Corte Cost., 19 dicembre 1991, n. 467. In questo senso v. G. Abbamonte, Interpretazione, proporzionalità e funzione al metro dei principi costituzionali sull’obbligazione tributaria, in Studi in onore di A. Amatucci, Dal diritto finanziario al diritto tributario, Napoli, 2011, 131 ss. (46) La Legge 11 marzo 2014, n. 23 ha conferito la delega al Governo per la realizzazione di un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita. (47) Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia (cfr. CGCE Sentenza del 3 luglio 2014, cause riunite C-129 e C/130/13, Ramino International Logistics; CGCE Sentenza del 22 ottobre 2013, causa C-276/12, Jiri Sabou; CGCE Sentenza del 18 gennaio 2008, causa C-349/07, Sopropè; CGCE Sentenza del 12 dicembre 2002, causa C-395/00, Soc. Distillerie Cipriani; CGCE Sentenza del 21 settembre 2000 causa C-462/98 P. Mediocurso; CGCE Sentenza del 4 ottobre 1996, causa C-32/95 c. Lisrestat) il rispetto del contraddittorio nel procedimento amministrativo, non escluso quello tributario, costituisce, quale esplicazione del diritto alla difesa, principio fondamentale dell’ordinamento europeo, che trova applicazione ogniqualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo, sicché il destinatario di un provvedimento teso ad incidere sensibilmente sui suoi interessi deve, pena la caducazione del provvedimento medesimo, essere messo preventivamente in condizione di manifestare utilmente il suo punto di vista in ordine agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione. Il principio è attualmente codificato nell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Il suddetto principio non è, tuttavia, assunto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in termini assoluti e puramente formali. Al riguardo, si è, infatti, puntualizzato, che – avendo il giudice nazionale, in ogni caso, l’obbligo di garantire la piena effettività del diritto dell’Unione – il riscontro di una violazione dei diritti di difesa, in particolare del diritto ad essere sentiti prima dell’adozione di provvedimento lesivo, determina l’annullamento dell’atto adottato al termine del procedimento amministrativo soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, detto procedimento “avrebbe potuto comportare un risultato diverso” (cfr.: CGCE Sentenza del 3 luglio 2014, cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics. punti 78-82). (48) La legge delega mirava a realizzare l’unificazione legislativa dei procedimenti di


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carattere generale che, nel prevedere espressamente il diritto del contribuente al contraddittorio preventivo, ne garantisse l’effettività (49). Il Governo si è, invece, limitato a prevedere nuove fattispecie di contraddittorio in materia di abuso del diritto (50) e di interpello disapplicativo (51) lasciando incompiuto il disegno di riforma sul procedimento di accertamento tributario. Dunque, mentre in Europa il diritto di difesa procedimentale del contribuente trova la sua disciplina, in punto di obbligatorietà e di effettività, nell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in Italia il contraddittorio endoprocedimentale non è ancora una regola di carattere generale né un principio immanente all’ordinamento. A questo riguardo, va precisato che la giurisprudenza della Cassazione sulla indefettibilità del contraddittorio endoprocedimentale è stata caratterizzata, come è noto, da alcune importanti decisioni delle Sezioni Unite le quali hanno finito – dapprima in materia di accertamenti ante tempus (52) e,

attuazione dei tributi allo scopo di favorire la certezza del diritto e di avviare un significativo processo di semplificazione normativa; sicché, il Governo avrebbe dovuto dare attuazione globale ed unitaria ai criteri e principi direttivi in materia emanando un decreto legislativo sulla disciplina unificata dei procedimenti di attuazione dei tributi. Sul punto, sia consentito rinviare al mio Il nuovo modello di attuazione dei tributi nella delega fiscale: l’occasione per legittimare il diritto al contraddittorio nel giusto procedimento di accertamento tributario, cit., 611 ss. (49) A tal fine, l’Esecutivo avrebbe dovuto prevedere la nullità dell’atto sia nel caso di omesso contraddittorio sia quando non recasse l’indicazione dell’esito del contraddittorio (ove prescritto) nonché delle ragioni di fatto e di diritto allegate dal soggetto passivo e delle ragioni per le quali l’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto di non doverne tener conto, in tutto o in parte, nella definizione della pretesa impositiva. (50) Cfr. art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente (legge n. 212/2000). (51) Cfr. art. 6, comma 2, del D.Lgs. n. 156/2015. (52) La Corte di Cassazione, SS.UU., con la sentenza del 29 luglio 2013, 18184 è stata chiamata a decidere se, ai sensi dell’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000, l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento costituisse, nel silenzio della norma, una mera irregolarità sostanzialmente priva di conseguenze esterne oppure configurasse, fatta eccezione dei casi di particolare e motivata urgenza, un vizio di legittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus che poteva essere fatto valere dal contribuente al fine di ottenere, per ciò solo, in sede contenziosa, l’annullamento dell’atto stesso. Nell’ambito di una nuova e più moderna visione del rapporto tra Fisco e contribuente, le Sezioni Unite della Cassazione, allo scopo di valorizzare la ratio della norma statutaria in esame, hanno dettato il seguente principio di diritto “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni – determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tem-


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successivamente, in materia di iscrizione ipotecaria (53) – per dare origine ad

pus, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’Ufficio”. (53) La questione sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione , SS.UU., 18 settembre 2014, n. 19667 riguardava l’obbligo di comunicare preventivamente al contribuente l’iscrizione ipotecaria immobiliare per debiti erariali non pagati. Le SS. UU. della Cassazione hanno esaminato la suddetta questione soffermandosi ad analizzare attentamente alcune disposizioni contenute sia nella legge sul procedimento amministrativo (artt. 7, 13 e 21 della legge n. 241/1990) sia nello Statuto dei diritti del contribuente (artt. 5, 6, 7, 10 e 12, comma 2 della legge n. 212/2000) e richiamando i suoi precedenti in materia (tra i quali la Sent. n. 18184/2013) nonché le più recenti pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul rispetto dei diritti della difesa (Sent. del 18 dicembre 2008, causa C-349/07 Sopropè; Sent. del 3 luglio 2014, cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Wortdwide Logistics BV). In particolare, la Suprema Corte ha messo in evidenza che la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una “decisione partecipata” mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra Amministrazione e contribuente (anche) nella “fase precontenziosa” o endoprocedimentale”, al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell’obbligo di comunicazione degli atti imponibili. A conclusione del suo articolato iter argomentativo, la Suprema Corte a SS.UU. ha enunciato il seguente principio di diritto: “Anche nel regime antecedente l’entrata in vigore dell’art. 77, comma 2 bis, D.P.R., introdotto con D.L. n. 70 del 2011, l’amministrazione prima di iscrivere ipoteca ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77 deve comunicare al contribuente che procederà alla predetta iscrizione sui suoi beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine – che, per coerenza con altre analoghe previsioni normative presenti nel sistema, può essere fissato in trenta giorni – perché egli possa esercitare il proprio diritto di difesa, presentando opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto. L’iscrizione di ipoteca non preceduta dalla comunicazione al contribuente è nulla, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe all’amministrazione di attivare il ‘contraddittorio endoprocedimentale’, mediante la preventiva comunicazione al contribuente della prevista adozione di un atto o provvedimento che abbia la capacità di incidere negativamente, determinandone una lesione, sui diritti e sugli interessi del contribuente medesimo. Tuttavia in ragione della natura reale dell’ipoteca, l’iscrizione eseguita in violazione del predetto obbligo conserva la propria efficacia fino a quando il giudice non ne abbia ordinato la cancellazione, accertandone l’illegittimità”. Per un commento cfr., A. Marcheselli, Il contraddittorio deve precedere ogni provvedimento tributario, in Corr. trib. n. 39, 2014, 3019; A. Renda, Il contraddittorio quale nucleo insopprimibile di rilievo sostanziale nell’ambito del procedimento tributario: le conferme della giurisprudenza comunitaria e di legittimità, in Dir. prat. trib., n. 4, 2015, 593 ss.; F. Tundo, Diritto al contraddittorio endoprocedimentale anche in assenza di previsione normativa, in GT – Riv. giur. trib., n. 12, 2014, 937 ss. Conforme alla precedente decisione n. 1966/2014 è la sentenza della Corte di Cassazione del 12 febbraio 2016, n. 2879.


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un orientamento di tipo garantista secondo cui il contraddittorio preventivo, quale espressione di un principio generale immanente all’ordinamento tributario anche per derivazione europea, deve essere garantito tutte le volte in cui l’Amministrazione finanziaria intende assumere una decisione che incide sensibilmente sui diritti e sugli interessi del destinatario e ciò indipendentemente dal fatto che tale contraddittorio sia previsto da una disposizione specifica, pena la nullità dell’atto impositivo. Un orientamento che sembrava potersi considerare granitico. Invece, a distanza di solo un anno dalla pronuncia delle Sezioni Unite del 2014, cui aveva fatto seguito la meritevole sentenza n. 135/2015 della Corte Costituzionale (54), le stesse Sezioni Unite sono ritornate sui propri passi e hanno sconfessato, per ragioni evidentemente ‘politiche’ (55), il precedente orientamento volto a salvaguardare l’effettività del diritto inalienabile di difesa del contribuente (art. 24 Cost.) nonché gli interessi pubblici generali di rilevanza costituzionale riconducibili ai principi di capacità contributiva (art. 53 Cost.) e di buon andamento ed imparzialità della P.A. (art. 97 Cost.) (56). Nella sentenza del 2015 (57), assunta come espressiva del

(54) La Corte costituzionale, con la sentenza n. 132 del 7 luglio 2015, è intervenuta nuovamente sulla rilevanza del contraddittorio procedimentale, “spianando, di fatto, la strada verso l’affermazione della generale immanenza del contraddittorio difensivo del contribuente”. Per un commento v. A. Corasaniti, Il principio del contraddittorio nella giurisprudenza nazionale e dell’Unione Europea, in Dir. prat. trib., n. 4, 2016, 1603 e bibliografia ivi citata alla nt. 56. (55) E. De Mita, Sul contraddittorio le Sezioni unite scelgono una soluzione “politica”, in Dir. prat. trib., n. 1, 2016, 256 ha affermato che nella sentenza in commento la Corte ha rinunciato al suo ruolo di interprete e si è limitata ad una interpretazione letterale dell’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente “per la tutela di interessi interni, per la tutela del fisco”; e, inoltre, che “se la Cassazione si è fermata all’interpretazione letterale vuol dire che l’ha fatto con l’occhio rivolto a altro. In questi casi si dice che la sentenza è politicamente orientata”. (56) Per un approfondimento sull’art. 97 Cost. v. P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002, 120 che sottolinea come l’art. 97 Cost. sia il perno su cui si è innestato l’interesse dello Stato apparato ad agire con efficienza e correttezza nel perseguimento dell’obiettivo di acquisizione delle entrate pubbliche, emergendo la subordinazione delle regole procedurali dell’agire amministrativo rispetto agli interessi fondamentali della collettività e ai diritti dell’individuo. (57) V. Cass., SS.UU., 9 dicembre 2015, n. 24823. Con questa sentenza, le Sezioni Unite sono tornate a pronunciarsi sulla portata applicativa del contraddittorio endoprocedimentale al termine di un’indagine fiscale e, in particolare, sull’applicabilità delle garanzie di cui al comma 7 dell’art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente non soltanto agli accessi, ispezioni e verifiche effettuate nei locali nei quali si esercita l’attività aziendale o professionale del contribuente ma, altresì, alle verifiche effettuate presso la sede dell’Ufficio sulla base di notizie acquisite da altre Pubbliche Amministrazioni, da terzi o fornite dallo stesso contribuente mediante la compilazione di questionari o in sede di colloquio presso l’Ufficio (c.d. verifiche a tavolino). Per un commento B. Aiudi, “Il contraddittorio? Non ce lo possiamo permettere”, in


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“diritto vivente”, la Cassazione a SS.UU. ha introdotto una serie di argomentazioni volte a limitare la portata operativa del principio del contraddittorio. È nota la posizione restrittiva cui sono approdate le Sezioni Unite secondo cui sulla base della normativa nazionale, ordinaria o di rango costituzionale, non si desume “l’esistenza di un principio generale, per il quale l’Amministrazione finanziaria, anche in assenza di specifica disposizione, sia tenuta ad attivare, pena la nullità dell’atto, il contraddittorio endoprocedimentale ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente” con la conseguenza che l’obbligatorietà di attivazione del contraddittorio preventivo resta confinata, per i tributi non armonizzati, alle ipotesi in cui norme domestiche lo prevedano mentre per i tributi armonizzati il principio del contraddittorio si applica automaticamente in ragione del fatto che il “principio è attualmente codificato nell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”. I giudici di legittimità oltre ad introdurre una distinzione fra tributi armonizzati, cui si applica sempre il contraddittorio endoprocedimentale, e tributi non armonizzati, ai quali si applica solo nei casi in cui sia espressamente previsto da norme di diritto positivo contenute nel nostro ordinamento (58), hanno circoscritto ulteriormente l’ambito di operatività del suddetto principio. Infatti, perché al difetto di contraddittorio possa

Boll. trib., n. 3, 2016, 232; M. Beghin, Il contraddittorio endoprocedimentale tra disposizioni ignorate e principi generali poco immanenti, in Corr. trib., n. 7, 2016, 479 ss..; A. Carinci, D. Deotto, Il contraddittorio tra regola e principio: considerazioni critiche sul revirement della Suprema Corte, in Il Fisco, n. 3, 2016, 3113; G. Ferranti, Cassazione e legislatore in “corto circuito sull’obbligo del contraddittorio, in Il Fisco, n. 2, 2016, 107 ss.; A. Lovisolo, La sentenza Sezioni Unite 24823/2015 e il requisito della “utilità” del previo contraddittorio endoprocedimentale: osservazioni e critiche, Relazione al Convegno “Per un nuovo ordinamento tributario”, Genova 14-15 ottobre 2016; D. Stevanato - R. Lupi, “Sul contraddittorio procedimentale la Cassazione decide (forse bene), ma non spiega”, in Dialoghi tributari, n. 4, 2015, 383 ss.; A. Renda, Il contraddittorio preventivo tra speranze (deluse), rassegnazione e prospettive, in Dir. prat. trib., n. 2, 2016, 732 ss.; E.A. Sepe, Contraddittorio endoprocedimentale: le Sezioni Unite fanno un passo indietro sul giusto procedimento tributario, in il fisco, n. 5, 2016, 407 ss. (58) Come è stato da più parti osservato la soluzione delle Sezioni Unite suscita non poche perplessità. Uno degli aspetti indubbiamente più critici è rappresentato dalla distinzione operata tra tributi armonizzati e non armonizzati che potrebbe determinare, nella sua applicazione pratica, esiti che appaiono assolutamente irrazionali. Infatti, è abbastanza comune che da un’unica violazione tributaria possano scaturire contestazioni sia ai fini dell’imposizione diretta sia ai fini dell’IVA, con la conseguenza che la mancata attivazione del contraddittorio spiegherebbe il suo effetto solo in un comparto impositivo senza intaccare la validità della pretesa nell’altro.


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conseguire la conseguenza della nullità dell’atto impositivo, non è sufficiente che il contribuente prospetti le ragioni che avrebbe potuto far valere in concreto se il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, ma è anche necessario che al vaglio del giudice l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali l’ordinamento lo ha predisposto (59) . In questo quadro di incertezza, è mancato, come è noto, l’intervento chiarificatore della Corte costituzionale che, con le ordinanze 13 luglio 2017, n. 187, n.188, n. 189 (60), ha giudicato le questioni sollevate manifestamente inammissibili per la inadeguata descrizione del giudizio principale evitando, dunque, di pronunciarsi nel merito. A questo punto sembra interessante domandarsi se, per uscire dall’attuale impasse normativo e giurisprudenziale, sia possibile far leva sul principio di proporzionalità, quale principio in grado di incidere sui modi di esercizio della funzione impositiva, posto che esso mira a indicare la misura “necessaria” e “non eccedente” di intromissione nella sfera di libertà del singolo e, dunque, contribuisce a graduare le forme di esercizio del potere pubblico quando limitano diritti e libertà fondamentali, contenendole al limite necessario. In questa prospettiva, il contraddittorio preventivo, declinato secondo i parametri della proporzionalità, finisce per assumere un valore sostanziale che ne può rendere più effettiva la tutela con evidenti riflessi sul rispetto del diritto di difesa procedimentale del contribuente. Tale lettura sembra in linea con il nuovo contesto che va emergendo: nell’attuale evoluzione dello Stato di diritto, non sono più sufficienti misure genericamente giustificate in quanto idonee rispetto al fine pubblico ma è indispensabile che tale fine sia raggiunto con un

(59) Il vaglio giurisdizionale sulla c.d. prova di resistenza andrebbe, in ogni caso, interpretato in coerenza con le pronunce della giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo cui non significa che si debba obbligare il ricorrente a dimostrare che la decisione avrebbe avuto un contenuto differente, bensì solo che tale ipotesi non va totalmente esclusa in quanto il ricorrente avrebbe potuto difendersi più efficacemente in assenza della lamentata irregolarità procedurale (CGCE Sentenza del 1° ottobre 2009, causa C-41/08 Foshan Shunde Yongjian Housewares & Hardware Co. Ltd.). (60) Per un commento, G. Ferranti, La Corte costituzionale non decide in merito al contraddittorio endoprocedimentale, in Corr. trib., n. 36, 2017, 2767 ss.; G. C. Caruso, Il contraddittorio endoprocedimentale; un (momentaneo) nulla di fatto, in Forum di Quaderni costituzionali, 14 settembre 2017.


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dispiegamento di potere minimo (non più di quanto necessario) nel rispetto dei diritti incisi da preservare nella loro essenza. Per questo motivo, sempre più spesso, la proporzionalità tende a configurarsi come un baluardo posto a garanzia dell’effettività dei diritti fondamentali della persona al fine di assicurare un’applicazione sostanziale e non solo meramente formalistica degli stessi (61). Anche la decisione della Corte di Giustizia, oggetto del presente lavoro, indica che la strada da seguire per garantire al contribuente l’effettività di un sistema di diritti e garanzie è quella di valorizzare il principio di proporzionalità sotto il profilo procedimentale. A tal fine, va messo in evidenza che il controllo della proporzionalità secondo il modello europeo, riceve dalla Corte di Giustizia (62) una forte spinta propulsiva che sembra destinata a produrre effetti significativi negli ordinamenti di tutti gli Stati membri. Proprio la circolazione e la ricezione, nelle esperienze giuridiche nazionali, di un modello teorico volto a valutare l’adeguatezza, la necessarietà e la proporzionalità in senso stretto delle misure prefissate rispetto al fine (63), potrebbe rappresentare un valido supporto all’affermazione della proporzionalità come parametro di coerenza e legittimità dell’esercizio della funzione impositiva nell’accertamento dei tributi (64). In questa prospettiva, il principio europeo di proporzionalità potrebbe contribuire alla realizzazione di un modello di “giusto” procedimento nel quale l’interesse fiscale viene bilanciato con quei diritti fondamentali del contribuente contrassegnati da un nucleo non comprimibile e che possono essere riassunti, sotto il profilo sostanziale, nel diritto alla “giusta” imposta, quale diritto del contribuente a partecipare alle spese pubbliche in ragione della sua effettiva capacità contributiva (65). In tal caso, nel procedimento di accerta-

(61) Sul punto G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come giusta misura del potere nel diritto tributario, cit., 102. (62) La sentenza della Corte di Giustizia dell’11 luglio 1989, C-265/87 (sentenza Schrader) è considerata la sentenza europea “modello” del controllo di proporzionalità. (63) Il giudizio di proporzionalità è suddiviso in tre livelli: a) il primo è volto ad adeguare l’esercizio del potere al fine previsto dalla legge; b) il secondo a scegliere la misura indispensabile e meno invasiva nel caso concreto; c) il terzo a valutare, a conclusione di tale percorso, la ragionevolezza della misura in termini di vantaggi ottenuti e danni inferti. (64) In questi termini, A. Mondini, Principio di proporzionalità ed attuazione del tributo: verso la costruzione di un principio generale del procedimento tributario, cit., 110. (65) Sul rapporto tra capacità contributiva e proporzionalità, v. F. Gallo, Relazione “interesse fiscale e principio di proporzionalità”, Convegno Principio di proporzionalità e tutela dei diritti fondamentali, Rovigo, 27 ottobre 2017.


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mento tributario non basterà più garantire la misura ragionevole per realizzare l’interesse fiscale ma occorrerà adottare la migliore misura nel caso concreto per assicurare che il perseguimento di tale interesse non comporti il sacrificio di altri diritti fondamentali, tra cui il diritto di difesa. In altri termini, la legittimità del potere impositivo dovrà essere valutata non più in base a un mero criterio di ragionevolezza ma secondo il più garantistico principio di proporzionalità affinché sia assicurato al contribuente il “diritto alla misura proporzionata del potere impositivo” come diritto fondamentale della persona. In quest’ottica, la previsione di obbligatorietà del contraddittorio preventivo in tutti i procedimenti di accertamento tributario e la garanzia del suo concreto svolgimento attraverso l’obbligo di motivazione rafforzata, pena la nullità dell’avviso di accertamento, risponde all’esigenza di risolvere la tradizionale tensione nel rapporto tra autorità e libertà non più in termini di mera ragionevolezza ma in termini di proporzionalità al fine di assicurare al contribuente l’effettività di un sistema di diritti e garanzie, nel quale rientra il diritto di difesa procedimentale.

Daniela Conte


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

Cass. Civ., Sez. VI, 20 aprile – 25 giugno 2018, n. 16634; Pres. Iacobellis - Rel. La Torre Residenza fiscale delle persone fisiche – Art. 2, comma 2, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – Soggetto iscritto all’anagrafe della popolazione residente in Italia – Presunzione assoluta di residenza in Italia – Sussiste. Le persone iscritte nell’anagrafe della popolazione residente in Italia si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dall’art. 2 del TUIR, in ogni caso residenti e, pertanto, soggetti passivi di imposta in Italia. Di conseguenza, atteso che l’iscrizione anagrafica risulta preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’Estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano. (1)

(Omissis) Ritenuto in fatto. L’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della sentenza della CTR della Puglia, che su impugnazione da parte di L.M. di avvisi di accertamento sintetico, ex art. 38 comma 4, DPR 600/73, per Irpef anni 2007 e 2008, ha respinto l’appello dell’Ufficio, confermando la sentenza di primo grado. La CTR, in fattispecie di omessa dichiarazione in presenza di attività fiscalmente rilevante compiuta dal contribuente sul territorio italiano, ha ritenuto dimostrata la residenza del contribuente fin dal 2006 nel Regno Unito, dove svolgeva la propria attività lavorativa, pagando le relative imposte, ritenendo ininfluenti sia la residenza fiscale in Italia – quale strumento presuntivo di per sé inidoneo a giustificare l’accertamento – sia la tardiva iscrizione all’AIRE e la qualifica di legale rappresentante della L. spa, carica rivestita dal L. in periodo successivo a quello oggetto di accertamento (2009). Il contribuente si costituisce con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato. Considerato in diritto. 1. Con unico motivo l’Agenzia delle entrate deduce violazione dell’art. 38, commi 4, 5, 6, DPR 600/73, per non avere la CTR considerato l’omessa presentazione della dichiarazione, pur in presenza di attività fiscalmente rilevanti svolte dal contribuente in Italia, in mancanza di iscrizione all’AIRE (avvenuta successivamente, nel 2014). 2. Il motivo è fondato, in quanto i soggetti residenti fiscalmente in Italia devono


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provvedere ad inserire nella propria dichiarazione dei redditi anche i redditi esteri che ottengono durante il periodo d’imposta. Ai sensi dell’art. 3 del TUIR, “L’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, formato per i residenti da tutti i redditi posseduti al netto degli oneri deducibili indicati nell’articolo 10 [...] e per i non residenti soltanto da quelli prodotti nel territorio dello Stato”. In base a quanto indicato dalla norma, i soggetti residenti fiscalmente nel territorio dello Stato sono tassati per i redditi ovunque prodotti. La definizione di residenza fiscale, ex art. 2 del TUIR, dispone infatti che: “ai fini delle imposte sui redditi, si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle Anagrafi della Popolazione Residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice Civile”. Va pertanto dato seguito alla giurisprudenza di questa Corte (n. 21970 del 2015) secondo cui le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dall’art. 2 DPR 917/1986, in ogni caso residenti, e pertanto soggetti passivi d’imposta, in Italia; con la conseguenza che, ai fini predetti, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’Estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano (v. Cass. 677/2015, 14434/2010, 9319/2006). 3. Con l’unico motivo del ricorso incidentale il contribuente lamenta la mancata declaratoria della inammissibilità dell’appello dell’Ufficio per mancanza di specificità dei motivi, ex art. 53 D.Lgs. 543/92. 4. Il ricorso incidentale va dichiarato inammissibile per carenza di autosufficienza, non riportando i motivi di appello e le assente corrispondenti argomentazioni delle eccezioni disattese dal giudice di primo grado, non consentendo a questo giudice di valutarne la coincidenza e la mancanza di elementi di critica alla sentenza impugnata. 5. Va conseguentemente accolto il ricorso principale e dichiarato inammissibile il ricorso incidentale condizionato; la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla CTR della Puglia, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio. Sussistono le condizioni per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex art. 13, comma 1 bis, DPR 115/2002. P.Q.M. Accoglie il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR della Puglia, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio. Sussistono le condizioni per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex art. 13, comma 1 bis, DPR 115/2002. (Omissis)


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(1) Osservazioni (critiche) in merito alla sussistenza di una presunzione assoluta di residenza fiscale degli iscritti nelle anagrafi della popolazione residente* Sommario: 1. Introduzione. – 2. La controversia da cui origina l’ordinanza in esame. – 3. Sul fondamento della tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità. – 4. Le possibili critiche alla tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità. – 4.1. Circa la contrarietà di tale tesi rispetto all’effettiva portata dell’art. 2, comma 2, del TUIR. – 4.2. Sulla tendenza della tesi in esame a produrre effetti iniqui ed aberranti. – 4.3. Circa la contrarietà di tale tesi ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2, comma 2, del TUIR. – 4.3.1. Sulla violazione degli artt. 2, 3 e 53 Cost. – 4.3.2. Sulla violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. – 5. Sull’applicabilità anche d’ufficio delle disposizioni delle Convenzioni contro le doppie imposizioni. – 5.1. Il principio iura novit curia. – 5.2. Sull’applicabilità anche d’ufficio delle Convenzioni contro le doppie imposizioni in base al principio iura novit curia. – 6. Conclusioni. Con l’ordinanza annotata la Suprema Corte di Cassazione ribadisce il proprio orientamento secondo cui l’iscrizione anagrafica avrebbe ai fini e per gli effetti dell’art. 2, comma 2, del TUIR valore di presunzione assoluta di residenza nel territorio dello Stato. Tale orientamento non sembra condivisibile in quanto presenta noti ed evidenti profili di incostituzionalità rispetto ai principi di cui agli articoli 2, 3, 53 e 117, comma 1. Cost. che inducono, piuttosto, a ritenere la presunzione di residenza connessa all’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente come relativa e, in ogni caso, superabile in virtù delle prevalenti disposizioni convenzionali (cd. tie-breaker rules) che devono essere applicate dal giudice anche d’ufficio in base al principio iura novit curia.

In this decision, the Supreme Court reiterates its well-established interpretation of article 2(2) of the Italian Income Tax Code, according to which the mere fact that an individual is listed in the registry of resident persons triggers the tax residence of that individual (no contrary proof being allowed). This interpretation of article 2(2) appears to conflict with the principles enshrined in articles 2, 3, 53 and 117(1) of the Italian Constitution, which would rather require to interpret that provision as establishing a rebuttable presumption of tax residence. Moreover, the case law of the Supreme Court does not seem to consider that the tie-breaker rules provided for in the Italian tax treaties should be applied ex officio by Italian courts based on the principle iura novit curia.

* Ferma restando la comune ideazione e strutturazione del contributo, i diversi paragrafi sono stati redatti come segue: Paolo Arginelli, paragrafi 1, 4.3, 5 (integralmente), 6; Giulio Cuzzolaro, paragrafi 2, 3, 4, 4.1 e 4.2. Si ringrazia il Prof. Moschetti per i commenti alla prima versione del manoscritto.


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1. Introduzione. – La presente nota analizza (criticamente) l’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione n. 16634 del 25 giugno 2018 con cui si è ribadita la sussistenza di una presunzione assoluta di residenza fiscale in Italia degli iscritti nelle anagrafi della popolazione residente. In particolare, l’articolo (i) ripercorre gli antefatti di causa ed i precedenti orientamenti giurisprudenziali su cui si basa l’ordinanza in esame, per poi (ii) esporre le critiche alle quali presta il fianco il principio di diritto, riaffermato dalla Suprema Corte con l’arresto annotato e (iii) valutare la sussistenza, in capo al giudice investito della controversia, dell’obbligo di applicare la tie-breaker rule recata dalla rilevante convenzione contro le doppie imposizioni conclusa dall’Italia con lo Stato in cui si sia effettivamente trasferito il contribuente, anche ove tale norma pattizia non sia stata invocata in giudizio dalle parti. 2. La controversia da cui origina l’ordinanza in esame. – L’ordinanza in esame riguarda una controversia instaurata da un contribuente avverso un accertamento compiuto a suo carico ai sensi dell’art. 38, 4°comma, D.P.R. n. 600 del 1973, all’esito del quale veniva ricostruito, per i periodi 2007 e 2008, un reddito da questo non dichiarato da assoggettare a tassazione in Italia. Avverso tale pretesa seguiva il ricorso del contribuente che ne evidenziava l’illegittimità ponendo in luce, per quanto qui ci interessa, che lo stesso non poteva considerarsi soggetto ad alcun obbligo impositivo in Italia nei periodi oggetto di accertamento in ragione del fatto che, sebbene ancora iscritto all’anagrafe della popolazione residente in Italia (di seguito, l’“APR”), si era effettivamente trasferito all’estero e, più precisamente, nel Regno Unito. In particolare, da quanto emerge dalle sentenze che si sono succedute su tale vicenda (1), la tesi sostenuta in giudizio dal contribuente si incentrava sulla dimostrazione dell’esistenza della sua dimora effettiva e dello svolgimento della propria attività lavorativa a Londra. Tuttavia, tale prova veniva addotta in giudizio dal contribuente senza invocare espressamente l’applicazione dell’articolo 4, comma 2, della Convenzione contro le doppie imposizioni in vigore tra l’Italia ed il Regno Unito (2) (di seguito, la “Convenzione ITA-UK”), la quale reca una norma di conflitto

(1) Cfr. Comm. Trib. Prov. di Bari n. 3559 del 31 dicembre 2014; nonché Comm. Trib. Reg. di Bari sent. n. 64 del 16 gennaio 2017 ed, infine, l’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione n. 16634 del 25 giugno 2018 qui annotata. (2) Sottoscritta a Pallanza il 21 ottobre 1988 e ratificata con L. 5 novembre 1990, n.329, in vigore dal 31 dicembre 1990.


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per la risoluzione di fattispecie di doppia residenza di contribuenti persone fisiche (3), bensì solo in relazione alla disciplina interna di cui all’art. 2, comma 2, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (di seguito, il “TUIR”). Ad avviso del contribuente, la presunzione di residenza in Italia conseguente all’iscrizione nell’APR doveva ritenersi superata dalla contraria evidenza, dallo stesso fornita, di essere effettivamente residente nel Regno Unito, ove lo stesso dimorava abitualmente e svolgeva la propria attività lavorativa nei periodi di imposta oggetto di accertamento. Il ricorso era accolto dai giudici della Commissione Tributaria Provinciale di Bari, la cui sentenza era successivamente confermata dalla Commissione Tributaria Regionale di Bari, ad avviso della quale “l’applicazione di qualsivoglia strumento presuntivo non può avvenire in maniera asettica e automatica, dovendo esso, per converso, avere riguardo necessariamente alla reale capacità contributiva ex art. 53 Cost. nonché evitare un’inammissibile duplicazione di imposta” (4). La sentenza dei giudici di appello è stata cassata – con rinvio – dall’ordinanza della Corte di Cassazione in commento, che ha accolto la tesi erariale in quanto allineata “alla giurisprudenza di questa Corte (n. 21970 del 2015) secondo cui le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dell’art. 2 D.P.R. 917/1986, in ogni caso residenti, e pertanto soggetti passivi d’imposta, in

(3) L’articolo 4, comma 2 della Convenzione ITA-UK dispone che: “Quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1 del presente Articolo, una persona fisica è considerata residente di entrambi gli Stati Contraenti, la sua situazione è determinata in conformità alle seguenti disposizioni: a) detta persona è considerata residente dello Stato Contraente nel quale dispone di un’abitazione permanente. Quando essa dispone di un’abitazione permanente in ciascuno degli Stati Contraenti, è considerata residente dello Stato Contraente nel quale le sue relazioni personali ed economiche sono più strette (centro degli interessi vitali); b) se non si può determinare lo Stato Contraente nel quale detta persona ha il centro dei suoi interessi vitali, o se la medesima non dispone di un’abitazione permanente in alcuno degli Stati Contraenti, essa è considerata residente dello Stato Contraente in cui soggiorna abitualmente; c) se detta persona soggiorna abitualmente in entrambi gli Stati Contraenti ovvero non soggiorna abitualmente in alcuno di essi, essa è considerata residente dello Stato Contraente del quale ha la nazionalità; d) se detta persona ha la nazionalità di entrambi gli Stati Contraenti ovvero non ha la nazionalità di alcuno di essi, le autorità competenti degli Stati Contraenti risolvono la questione di comune accordo”. (4) Così Commissione Tributaria Regionale di Bari, n. 64 del 16 gennaio 2017 che conferma la precedente sentenza n. 3559 del 31 dicembre 2014 della Commissione Tributaria Provinciale di Bari.


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Italia; con la conseguenza che, ai fini predetti, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’Estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune Italiano”. 3. Sul fondamento della tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità. – Come poc’anzi evidenziato, l’ordinanza annotata afferma il principio di diritto secondo cui l’iscrizione anagrafica avrebbe, ai fini e per gli effetti dell’art. 2, comma 2, del TUIR, valore di presunzione assoluta di residenza nel territorio dello Stato. Tale principio non è nuovo, ma affonda le sue radici in diverse pronunce di legittimità intervenute sul punto (5). In particolare, il principio espresso dall’ordinanza in esame si riconduce al costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in ambito fiscale, la residenza anagrafica costituisce un dato “preclusivo di ogni ulteriore accertamento ai fini della individuazione del soggetto passivo d’imposta, diversamente da quanto avviene ai fini civilistici ove le risultanze anagrafiche sono invece concordemente considerate idonee unicamente a dar luogo a presunzioni relative, superabili, come tali, dalla prova contraria” (6). Ad avviso della Suprema Corte è, infatti, da rigettare l’“affermazione secondo cui le risultanze anagrafiche sono idonee soltanto a costituire fondamento di una presunzione relativa superabile con la prova del contrario [in quanto questa] vale nell’ambito civilistico, ma non può sic et simpliciter essere recepita nel campo tributario dominato dal diverso criterio della autosufficienza e della prevalenza dell’elemento formale, criterio costituente frutto di una consapevole opzione effettuata dal legislatore [già nel previgente art. 2 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 597 e] confermata nel vigente Testo Unico delle imposte sui redditi di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917” (7). Tale tesi della giurisprudenza di legittimità si basa dunque sulla (presunta)

(5) Cfr. da ultimo, Cass. Civ., Sez. VI, Ord. n. 16634 del 25 giugno 2018 qui in commento, nonché le richiamate Cass. Civ. Sez. Trib. sent. nn. 21970 del 28 ottobre 2015; n. 677 del 16 gennaio 2015; n. 14434 del 15 giugno 2010; n. 9319 del 20 aprile 2006 nonché le precedenti Cass. Civ., Sez. Trib., sent. n. 13803 del 7 novembre 2001; Cass. Civ., Sez. I, sent. nn. 1783 del 3 marzo 1999 e 1215 del 6 febbraio 1998. (6) Così, Cass., Sez. Trib., sent. n. 9319 del 20 aprile 2006. (7) Così, Cass., Civ. Sez., I sent. n. 1783 del 3 marzo 1999.


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volontà storica del legislatore (8) sottesa all’art. 2, comma 2, del TUIR, che darebbe luogo in materia di residenza ai fini fiscali ad una “nozione più ampia di quella civile” (9) ricavabile anche dal fatto che i tre presupposti (l’iscrizione all’APR, la residenza e il domicilio nel territorio dello Stato ai sensi del codice civile) previsti dall’art. 2, comma 2, del TUIR sarebbero, tra loro, da intendersi “in via alternativa e indipendente” (10). Tale premessa porta la giurisprudenza di legittimità a sostenere che la propria (discutibile) tesi sarebbe corretta in quanto conforme alla stesura dell’art. 2, comma 2, del TUIR mentre ogni diversa soluzione, che postuli come relativa la presunzione recata dalla predetta disposizione, sarebbe da rigettare giacché “dovrebbe inevitabilmente considerare concorrenti gli altri due presupposti previsti dall’art. 2 (sede principale degli affari nel territorio dello Stato o dimora per più di sei mesi), contrariamente al dettato normativo che li prevede invece in via alternativa” (11). Su tali basi nasce, dunque, la tesi ripetutamente sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità che ci interessa analizzare secondo cui l’accertamento dell’iscrizione all’APR di un contribuente darebbe luogo ad una presunzione assoluta di residenza fiscale in Italia, ossia “preclusiva di ogni ulteriore accertamento” (12). 4. Le possibili critiche alla tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità. – La suddetta tesi della Corte di Cassazione è stata oggetto di ripetute critiche da parte della più attenta dottrina (13), che ne ha rilevato l’erroneità dovuta alla mancata considerazione del palese rinvio operato dalla norma in

(8) Come visto, la tesi della Cassazione si fonda su una (opinabile) ricostruzione della “volontà storica” ossia di quello che sarebbe stato l’elemento psicologicamente dominante (i.e. “la consapevole opzione”) del legislatore al momento dell’estensione della disposizione in commento. In merito a tale criterio interpretativo nel diritto tributario si rinvia, ex multis, a G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 199 et passim, nonché in generale rispetto alle leggi dell’ordinamento a, ex multis, E. Betti, Teoria generale della interpretazione, Milano, 1955, 347 e ss. nonché G. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, 364 ss. (9) Così, Cass. Civ., Sez. Trib., 13803 del 7 novembre 2001. (10) Così, Cass. Civ., Sez. I, sent. n. 1783 del 3 marzo 1999, nonché nello stesso senso Cass. Civ., Sez. Trib., sent. n. 14434 del 15 giugno 2010. (11) Così, Cass. Civ., Sez. Trib., sent. n. 9319 del 20 aprile 2006. (12) Così, da ultimo, Cass. Civ., Sez. VI, Ord. n. 16634 del 25 giugno 2018 qui in commento. (13) Cfr. le note ai successivi paragrafi 4.1. e 4.3.


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esame alla disciplina dettata “ai sensi del codice civile” rispetto agli istituiti dalla stessa richiamati (iscrizione all’APR, residenza e domicilio), nonché agli effetti giuridici, assolutamente aberranti ed iniqui, scaturenti dalla sua applicazione a fattispecie concrete, che ne evidenziano i profili di dubbia costituzionalità. 4.1. Circa la contrarietà di tale tesi rispetto all’effettiva portata dell’art. 2, comma 2, del TUIR. – La tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità circa l’asserito carattere assoluto della presunzione di residenza in Italia dei soggetti iscritti all’APR, è stata anzitutto criticata in quanto non conforme al disposto dell’art. 2, comma 2, del TUIR, che postula un rinvio alla disciplina civilistica per tutti gli istituti da questo richiamati (i.e. l’iscrizione all’APR, residenza e domicilio nello Stato) e che inevitabilmente conduce a ritenere come relativa, ovvero superabile, la suddetta presunzione. Considerato infatti che nell’ordinamento tributario non esiste un’autonoma e (diversa) nozione di iscrizione all’APR, appare del tutto evidente che il rinvio operato dall’art. 2, comma 2, del TUIR alla disciplina dettata “ai sensi del codice civile” copre tutti gli istituti richiamati, ivi compresa l’iscrizione all’APR. Ciò vale a dire che quanto rileva in ambito civile con riferimento all’iscrizione all’APR “vale, di riflesso, anche per la legge tributaria, che, in questo caso, si adegua supinamente ai canoni fissati dal diritto civile” (14). L’interpretazione data dalla giurisprudenza di legittimità dell’art. 2, comma 2, del TUIR non appare dunque corretta in quanto non tiene conto del fatto che, per effetto del rinvio da questo operato alla disciplina civilistica, l’iscrizione all’APR, “non rileva in quanto tale, bensì solo e in quanto indice dell’esistenza delle situazioni ad esse tipicamente sottese, id est residenza e domicilio civilistici” (15). Come noto, infatti, la disciplina civilistica delle anagrafi recata dalla Legge 24 dicembre 1954, n. 1228 (riguardante, per l’appunto, l’“Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente”) prevede che (cfr. art. 1) in dette anagrafi siano “registrate le posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze, che hanno fissato nel Comune la residenza, nonché

(14) Così, A.M. Gaffuri, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero, Milano, 2008, 132. (15) Così, G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, Milano, 2009, 116.


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le posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel Comune il proprio domicilio”. Allo stesso modo, così come anche precisato nel regolamento attuativo della suddetta norma (e segnatamente all’art. 11 del D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223), è prevista la cancellazione, anche d’ufficio, dell’iscrizione nell’APR “per trasferimento della residenza in altro comune o all’estero, nonché per trasferimento del domicilio in altro comune per le persone senza fissa dimora”. Perciò in ambito civile le risultanze dell’APR hanno valore di presunzioni relative rispetto all’effettivo luogo di residenza o di domicilio, di talché, in caso di conflitto tra risultanze dell’APR ed effettiva residenza (o domicilio), sono sempre le prime a dover soccombere giacché queste “devono rispecchiare la reale situazione di fatto [sottostante]” (16). Difatti, in ambito civile – ed altrettanto deve ritenersi in ambito tributario per effetto del rinvio di quest’ultimo al primo – è del tutto pacifico che nel caso in cui vi sia una difformità tra la residenza emergente dalle risultanze anagrafiche e la residenza effettiva, quest’ultima prevale sulla prima la quale possiede un valore probatorio meramente presuntivo, superabile mediante prova contraria (17). 4.2. Sulla tendenza della tesi in esame a produrre effetti iniqui ed aberranti. – Ulteriore critica cui presta il fianco la tesi ribadita con l’ordinanza in esame è data dal fatto che questa tende a produrre effetti giuridici aberranti ed iniqui, specie nel caso – tutt’altro che infrequente – in cui una persona fisica si sia effettivamente trasferita dall’Italia all’estero, ma cionondimeno rimanga iscritta all’APR. Come noto, laddove una persona fisica si trasferisca dall’Italia all’estero, la stessa deve dare avvio al procedimento burocratico di cancellazione dall’APR e di iscrizione all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (di seguito,

(16) Così, O. Maruccio, Voce: Anagrafe, in Noviss. Dig. It., Vol. I/1. Torino, 1968, 593-599. (17) Sul punto si veda, da ultimo, Cass. Civ., Sez. VI, sent. n. 17294 del 2 luglio 2018 che, per l’appunto, rileva come “Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, le indicazioni emergenti dalle risultanze anagrafiche danno luogo ad una mera presunzione, superabile alla stregua di altri elementi”; nonché G. Marino, La residenza nel diritto tributario, Milano, 1999, 29, che parimenti rileva come “La giurisprudenza civilistica è costante nel considerare le risultanze delle scritture anagrafiche come presunzioni semplici, contro le quali è ammissibile la prova contraria” e che ritiene “paradossale” il disallineamento tra l’ordinamento civile e quello tributario in merito alla valenza delle risultanze dell’APR, considerato anche che solitamente “il legislatore civilistico valorizza i profili formali, più che quelli sostanziali, in misura assai maggiore rispetto al legislatore tributario”.


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“AIRE”) il cui iter è disciplinato dalla L. 27 ottobre 1988, n. 470 e dal relativo regolamento di attuazione, approvato con D.P.R. 6 settembre 1989, n. 323. In particolare, in base a tale disciplina, l’iter di cancellazione dall’APR ed iscrizione all’AIRE si attua secondo le due procedure alternative di seguito brevemente descritte (18). La prima prevede: (i) la presentazione presso il Comune italiano di ultima residenza anagrafica di una domanda in cui si comunichi il trasferimento della residenza all’estero; (ii) la presentazione presso il Consolato italiano dello Stato estero in cui si è trasferita la residenza di analoga domanda, avente valore di conferma di quella sub (i); (iii) l’invio della domanda indicata sub (ii) al Comune italiano di ultima residenza anagrafica da parte del Consolato estero. In tal caso, l’iscrizione all’AIRE sarà effettuata al ricevimento della domanda di conferma inviata dal Consolato italiano all’estero sub (ii), con decorrenza dalla data di presentazione della domanda sub (i). In alternativa alla procedura innanzi descritta, è possibile evitare la presentazione della domanda sub (i) al Comune italiano di ultima residenza anagrafica e procedere unicamente con le fasi (ii) e (iii). In tal caso, tuttavia, l’iscrizione all’AIRE avrà inderogabilmente effetto dalla data in cui il Comune italiano di ultima residenza anagrafica riceverà la domanda da parte del Consolato italiano all’estero (non sarà, cioè, possibile la retrodatazione alla data di presentazione della domanda). Da quanto precede, si osserva agevolmente che il contribuente italiano che trasferisca all’estero la residenza, pur avviando il relativo iter amministrativo, resta sostanzialmente estraneo al suo perfezionamento e, qualora opti per la seconda procedura innanzi descritta, non può neppure influire sulla data di decorrenza degli effetti dell’iscrizione (19). Conferma di ciò è data anche dalla prassi ministeriale che, per l’appunto, rileva che in caso di trasferimento all’estero “[l]’art. 6 della legge 470 [del 27 ottobre 1988] in sostanza prevede che siano i Consolati a comunicare la

(18) Per una più approfondita analisi sul punto, si rimanda a G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, cit., 341-342. (19) Sul punto si veda G. Melis, La nozione di residenza fiscale delle persone fisiche nell’ordinamento tributario italiano, in Rass. Trib. n. 6/1995, 1034 ss., nello stesso senso si veda anche D. Irollo, Spunti in tema di residenza fiscale delle persone fisiche, in iI fisco, 1999, 2565-2566.


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presenza del connazionale nella rispettiva circoscrizione al Comune di emigrazione il quale, a seguito di tale comunicazione, provvederà a definire l’iscrizione all’AIRE. Tuttavia spesso si verifica che tale informazione giunge con estremo ritardo, ovvero non giunge affatto” (20). In tali casi, tutt’altro che infrequenti, la tesi rigidamente formalistica ribadita con l’ordinanza in commento non soccorre in alcun modo il contribuente ma, anzi, lo beffa (21) portando all’aberrante ed iniqua conclusione di ritenere

(20) Così circolare del Ministero Interno Affari Centrali Enti Locali (M.I.A.C.E.L.) n. 7 del 19 maggio 1995. (21) Cfr. anche Cass. Civ., Sez. I, Sent. n. 1215 del 6 febbraio 1998, nella quale i giudici di legittimità hanno, di fatto, addossato sul contribuente gli effetti dei predetti disguidi burocratici statuendo che, anche a fronte di questi, l’iscrizione anagrafica costituisce “dato preclusivo di ogni ulteriore accertamento” ovvero che “il trasferimento della residenza all’estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un comune italiano”. In merito a tale pronuncia si segnala la posizione espressa da G. Fransoni, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004, 360 ss., secondo cui – proprio da quanto deciso dalla Cass. Civ., Sez. I, con la sent. n. 1215 del 6 febbraio 1998 – si potrebbe desumere che la soluzione volta ad intendere la presunzione di residenza connessa all’iscrizione all’APR come relativa sarebbe solo parzialmente condivisibile, giacché non potrebbe darsi sempre preferenza ai dati fattuali (e giuridicamente presupposti) della residenza effettiva e/o del domicilio civilisticamente intesi del contribuente ove in contrasto con le risultanze anagrafiche. Secondo questa parte della dottrina si potrebbe, infatti, desumere da quanto deciso dalla Cass. Civ., Sez. I, con la sent. n. 1215 del 6 febbraio 1998 che la predetta preferenza potrebbe essere data solo laddove risulti anche una divergenza tra le risultanze anagrafiche e la volontà del contribuente in merito ad esse (perché, ad es., risultante da una richiesta di iscrizione viziata, mancante o effettuata d’ufficio ovvero mantenuta a fronte di una fondata richiesta di cancellazione). Viceversa, laddove tale discrepanza non sussista, la validità delle conseguenti risultanze anagrafiche sarebbe da apprezzarsi proprio in ragione della loro corrispondenza a quanto voluto in merito rappresentare dal contribuente anche diversamente da quanto sussistente nei fatti circa un suo effettivo trasferimento all’estero. Tale tesi, seppur ampiamente argomentata, tuttavia non convince. Difatti, come anche già rilevato da altri autori, “Per quanto riguarda il profilo della divergenza tra volontà e iscrizione, può innanzitutto osservarsi che i casi in cui l’iscrizione nasce da un atto di volontà del soggetto interessato non esauriscono il novero delle possibilità: si pensi a tutti quei soggetti nati in un Comune, iscritti in base alla residenza dei genitori (o della madre, qualora i genitori siano iscritti in anagrafi diverse) e che non abbiano mai mutato la propria residenza anagrafica. Inoltre, la citata sentenza della Suprema Corte non ha affrontato il problema delle divergenze tra volontà ed iscrizione, ma si è limitata a non rimettere la questione al giudice delle leggi in quanto la pronunzia della Corte costituzionale sarebbe stata irrilevante nel giudizio a quo ai fini della dimostrazione di una diversa realtà di fatto. Dalla lettura della sentenza si ricava, anzi, che la Cassazione avrebbe probabilmente rimesso la questione alla Corte costituzionale ove tale prova fosse stata data, senza affrontare la questione sul piano dei principi che regolano gli atti giuridici. Per quanto riguarda, invece, il secondo profilo, quello della significatività in sé delle risultanze anagrafiche corrispondenti a quanto voluto dal contribuente, ma non al presupposto


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sempre e comunque residente in Italia un soggetto passivo che risulti iscritto all’APR. Di talché, un’interpretazione dell’art. 2, comma 2, del TUIR che qualifichi il criterio dell’iscrizione all’APR alla stregua di una presunzione legale assoluta presta il fianco a critiche basate sugli argomenti ermeneutici nonché di ordine apagogico ed equitativo. È, infatti, del tutto evidente che una siffatta interpretazione crea una palese discriminazione tra soggetti che vertono in circostanze sostanzialmente analoghe con riferimento al loro effettivo radicamento nel territorio dello Stato (avendo all’estero la residenza ed il domicilio civilistici), ma che, in ragione di un dato squisitamente formale (l’iscrizione all’APR), sono tuttavia soggetti a prelievi tributari affatto diversi. Tale interpretazione risulta assurda ed iniqua e come tale, pertanto, da rigettare in quanto conduce ad effetti giuridici in aperto contrasto con i principi fondanti dell’imposizione sui redditi, quali il principio di capacità contributiva, di eguaglianza (orizzontale) e di territorialità. 4.3. Circa la contrarietà di tale tesi ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2, comma 2, del TUIR. – La tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la valenza dell’iscrizione all’APR recata dall’art. 2, comma 2, del TUIR sarebbe diversa da quella che si registra in ambito civile e di una rigidità tale da non ammettere deroghe neppure innanzi a casi di palese iniquità, si presta altresì a talune critiche in ordine alla sua possibile violazione dei seguenti principi costituzionali. 4.3.1. Sulla violazione degli artt. 2, 3 e 53 Cost. – La tesi sostenuta dai giudici di legittimità, secondo cui il legislatore tributario avrebbe scientemente optato per un distacco dalla disciplina civilistica, attribuendo il valore di presun-

sostanziale, risulta difficile comprendere il motivo per il quale un soggetto intenda creare situazioni di ‘apparenza’ a sé sfavorevoli; né può tale apparenza essere argomentata ex art. 44 cod. civ. (norma per la quale mentre i terzi possono provare liberamente il trasferimento della residenza, chi dichiara di averla trasferita può opporre il trasferimento ai terzi di buona fede solo mediante la prova della doppia dichiarazione), la cui applicabilità è stata esclusa dalla giurisprudenza nel caso di trasferimento all’estero (vedi Cass., 3 dicembre 1977, n. 5259, in Arch. civ.9 1978, p. 590, per la quale la disciplina dell’art. 44 c.c. si applica “solo nel caso in cui il trasferimento si verifichi tra due comuni dello stesso Stato italiano, non già quando si tratti di trasferimento all’estero, non potendo la legge italiana imporre agli uffici comunali esteri i correlativi adempimenti, né dare ai certificati stranieri la stessa efficacia di quelli dell’autorità italiana” (G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, cit., 119).


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zione assoluta al dato formale dell’iscrizione nell’APR anche ove in contrasto con l’effettivo luogo di residenza e/o domicilio del contribuente, si pone in evidente violazione dei principi costituzionali di cui in epigrafe. Accogliere la tesi della giurisprudenza di legittimità equivale, infatti, a dire che con l’art. 2, comma 2, del TUIR il legislatore tributario avrebbe inteso equiparare, ai fini dell’imposta sui redditi, contribuenti profondamente radicati in Italia e contribuenti privi di qualsivoglia effettivo “collegamento” con il territorio della Repubblica. Sotto questo profilo, come anche rilevato dalla dottrina precedentemente intervenuta sul punto (22), la tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità deve essere rigettata in quanto darebbe luogo ad evidenti profili di incostituzionalità, innanzitutto, rispetto agli artt. 2, 3 e 53 Cost., i quali esigono (i) che i soggetti su cui ricade l’obbligo di contribuire alle spese pubbliche in ragione della rispettiva capacità contributiva debbano presentare un effettivo “collegamento” con il territorio dello Stato e (ii) che la misura di detta contribuzione sia modulata avendo riguardo al grado di detto “collegamento”. In primo luogo, infatti, non può ragionevolmente qualificarsi la presunzione (supposta assoluta) di residenza, conseguente all’iscrizione all’APR, quale norma di approssimazione alla realtà effettuale che si vuole provare (residenza o domicilio in Italia) sulla scorta del principio dell’id quod plerumque accidit (23). Ciò in ragione dell’assenza (i) di una qualsivoglia massima di esperienza che garantisca tale tendenziale corrispondenza, assenza che renderebbe tale presunzione incostituzionale per difetto del requisito di effettività (24), nonché

(22) Cfr., ex multis, G. Melis, Residenza persone fisiche [dir. trib.], in Enc. Giur. Treccani on line, 2018; G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, cit., 117; A.M. Gaffuri, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero, cit., 132 ss.; G. Marino, La residenza nel diritto tributario, cit., 32; G. Maisto, Iscrizione anagrafica e residenza fiscale ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Riv. Dir. Trib., 5/1998, 219; G. Puoti, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Tratt. Dir. Trib., a cura di A. Amatucci, Padova, 1994, 13. (23) L. Tosi, Il requisito di effettività, in F. Moschetti (a cura di), La capacità contributiva, Padova, 1993, 106. Con riferimento alla nozione della presunzione legale nelle imposte sui redditi ed alla sua distinzione dall’istituto della predeterminazione normativa, si veda L. Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, 23 ss. (24) Cfr., ex multis, Corte Cost., 26 giugno 1965, n. 50; Corte Cost., 12 luglio 1967, n. 109; Corte Cost., 28 luglio 1976, n. 200; Corte Cost., 14 ottobre 1987, n. 334; Corte Cost., 11 dicembre 1987, n. 586; Corte Cost., 11 ottobre 1988, n. 982; Corte Cost., 24 gennaio 1992, n. 22; Corte Cost., 9 aprile 1997, n. 111; Corte Cost., 7 luglio 2008, n. 266. In dottrina, si vedano, ex multis, F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, 261 ss.,


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(ii) di una categorica esigenza di tutela da parte dell’Erario che non ammetta la qualifica della presunzione come relativa, essendo ai fini dell’accertamento e della tutela dell’interesse fiscale sufficiente invertire l’onere probatorio, di talché tale qualificazione si configurerebbe in contrasto con il principio di proporzionalità (25). In secondo luogo, qualificando la presunzione di residenza conseguente all’iscrizione all’APR alla stregua di una norma di matrice sostanzialistica che aggiunga una fattispecie astratta ed alternativa, a quelle di domicilio e residenza, al fine di integrare lo status di persona fiscalmente residente in Italia (c.d. “finzione normativa”) (26), è di tutta evidenza come ci si esponga alla critica che tale norma violerebbe gli articoli 2, 3 e 53 Cost. (27). Ove infatti si seguisse la tesi della giurisprudenza di legittimità si arriverebbe ad ammettere che “il soggetto iscritto nella anagrafe della popolazione residente senza avere alcun legame di tipo sostanziale con il territorio dello Stato (residenza e domicilio) si troverebbe a concorrere alle spese pubbliche senza fruire di alcun servizio pubblico e/o senza avere alcun legame durevole con il territorio dello Stato, in aperto contrasto con il principio costituzionale

secondo cui “[p]oiché il concetto di « capacità » si riferisce necessariamente ad un’attitudine effettiva e quindi esistente in concreto, certa ed attuale, il principio di capacità contributiva richiede che siano colpite manifestazioni economiche reali e non meramente fittizie”; L. Tosi, Il requisito di effettività, cit., 101 ss. (25) Se veda, in senso analogo, G. Falsitta, Le presunzioni in materia di imposte sui redditi, in A. E. Granelli (a cura di), Le presunzioni in materia tributaria, Rimini, 1987, 76. Per un’analisi del principio di proporzionalità nell’ordinamento italiano, nel più ampio contesto del diritto dell’Unione europea ed alla luce dell’esperienza e dell’elaborazione dogmatica tedesca, si rinvia a G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nell’evoluzione del diritto tributario, Milano, 2015. (26) Tale seconda soluzione appare preferibile, ove si qualifichi la presunzione legale come assoluta e non relativa, stante la strutturalmente diversa funzione cui assurge il secondo tipo di presunzione nell’ordinamento giuridico, ossia di predeterminazione di una fattispecie ulteriore (rispetto a quella cui viene ad affiancarsi e della quale condivide gli effetti giuridici), e non, viceversa, di strumento inferenziale di deduzione di un fatto ignoto da un fatto noto sulla base della comune esperienza e di indici di probabilità. Cfr., in senso analogo, F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, cit., 286; G.A. Micheli, Capacità contributiva reale e presunta, in Giur. cost., 1967, I, 1538-39; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2017, 530-31, il quale rileva, a margine, che la fattispecie creata dal legislatore per effetto della presunzione legale assoluta non è immune dal vaglio di costituzionalità per violazione dell’art. 53 Cost. (27) Cfr., con riferimento all’esigenza posta dall’ordinamento che le presunzioni tributarie non vanifichino il principio di capacità contributiva, E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2000, 279.


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di capacità contributiva sancito dall’art. 53” (28). Ne segue, inoltre, una palese ed irragionevole disparità di trattamento tra soggetti che manifestano la medesima capacità contributiva, territorialmente rilevante in quanto ancorata al medesimo collegamento di tipo reale con lo Stato, in ragione della mera iscrizione di taluni all’APR e di altri all’AIRE. Più ragionevole e corretto rispetto ai predetti principi costituzionali appare quindi ritenere che la predetta disposizione menzioni separatamente l’iscrizione anagrafica rispetto alla residenza e al domicilio per dare modo all’Amministrazione Finanziaria, non di pretendere il pagamento di imposte sui redditi ovunque prodotti da soggetti che non presentino alcun significativo radicamento in Italia, bensì di esercitare più agevolmente (attraverso un’inversione dell’onere probatorio) il proprio potere di accertamento nei confronti di soggetti effettivamente residenti o domiciliati nel territorio dello Stato. Ciò vale a dire che lo scopo perseguito dall’art. 2, comma 2, del TUIR va innanzitutto individuato in “quello di includere nel novero dei soggetti cui l’imposta si applica in riferimento ai redditi ovunque conseguiti non solo coloro che, avendo integrato i presupposti per essere considerati residenti o domiciliati alla stregua della legge, sono registrati anagraficamente, ma anche coloro che sfuggono alla catalogazione comunale, nonostante si trovino nelle condizioni per essere compresi nell’elenco ufficiale della popolazione stabile [perché effettivamente residenti o domiciliati nel territorio dello Stato]” (29). Al contempo, deve ritenersi che l’art. 2, comma 2, del TUIR valga altresì ad invertire l’onere probatorio nel caso di iscrizione all’APR, così rispondendo al “problema di ancorare l’acquisto dello status di residenza fiscale ad un elemento obiettivo e formale, nella specie rappresentato dall’iscrizione anagrafica, affinché l’a.f. non dovesse verificare, per ogni periodo d’imposta e per milioni di contribuenti, se essi avessero o meno effettivamente fissato il loro domicilio o la loro residenza nel territorio dello Stato” (30). La presenza e la validità delle predette critiche di incostituzionalità rispetto ai principi di cui agli artt. 2, 3 e 53 Cost. è, per altro, ben nota anche alla Corte di Cassazione.

(28) Così, G. Maisto, Iscrizione anagrafica e residenza fiscale ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, cit., 222. (29) Così, A.M. Gaffuri, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero, cit., 132. (30) Così, G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, cit., 116.


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Già da tempo è infatti stato rilevato dalla giurisprudenza di legittimità che non sono affatto manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità “espressi da parte di autorevole dottrina che ha sostenuto come il concorso alla spesa pubblica cui tutti sono tenuti ‘in ragione della loro capacità contributiva’ (art. 53 Cost.) ed in ottemperanza ai doveri di solidarietà (art. 2 Cost.) debba essere in qualche modo collegato al territorio dello Stato nel cui ambito vengono forniti i corrispondenti servizi e che la mera iscrizione anagrafica non consente invece un tale collegamento in un contesto che fosse caratterizzato da una situazione effettiva diversa da quella reale” (31). La ragione per cui la Suprema Corte, nelle occasioni in cui si è confrontata con le suddette questioni di legittimità costituzionale, ha ritenuto di non dare seguito alle stesse risiede nella circostanza che queste non avrebbero avuto “alcuna pratica applicazione nel caso in esame ove l’unico elemento contrario al dato formale dell’iscrizione all’anagrafe è costituito da altro dato formale [ossia, nel caso di specie, il certificato di residenza estero], di per sé inidoneo ad escludere in linea di principio un tale collegamento” (32). Un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2, comma 2, del TUIR avrebbe, viceversa, il pregio di permettere, ai soggetti passivi che siano in grado di dimostrare l’effettivo difetto di un sostanziale “collegamento” con il territorio della Repubblica, di sottrarsi legittimamente all’obbligo di contribuzione in assenza di qualsivoglia effettiva capacità contributiva in Italia. Tale soluzione, tecnicamente corretta, avrebbe dovuto essere adottata nel caso dell’ordinanza in esame. Come, infatti, già illustrato al paragrafo 2, nell’ambito del giudizio oggetto dell’ordinanza in rassegna alla presunzione di residenza sostenuta dall’Amministrazione Finanziaria è stato opposto dal contribuente il fatto di avere effettivamente trasferito la propria residenza ed il proprio domicilio nel Regno Unito, in virtù della dimostrazione (a quanto pare) data di vivere e di svolgere la propria attività lavorativa a Londra.

(31) Così, Cass. Sez. I Sent. n. 1215 del 6 febbraio 1998. (32) Così Cass. Sez. I Sent. n. 1215 del 6 febbraio 1998. In merito si veda, oltre che G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, cit., 119, anche G. Marino, La residenza nel diritto tributario, op. cit., 32 che parimenti rileva come la predetta dubbia costituzionalità della norma in esame risulta, per l’appunto, “confermata dalla Suprema Corte di Cassazione che non l’ha potuta considerare rilevante in quanto posta in termini astratti”.


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Ci sembra, dunque, che i giudici dell’ordinanza abbiano anzitutto mancato l’occasione – senza che alcuna valida ragione vi ostasse – di interpretare (finalmente) l’art. 2, comma 2, del TUIR in modo conforme ai principi sanciti dagli artt. 2, 3 e 53 Cost., ossia qualificando la presunzione di residenza connessa all’iscrizione all’APR come relativa, ovvero di rinviare la questione al giudizio della Corte Costituzionale. 4.3.2. Sulla violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. – La tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità può porsi, inoltre, in contrasto con la previsione costituzionale ora citata nei casi in cui la controversia abbia ad oggetto – come nell’ordinanza in esame – il trasferimento di residenza verso uno Stato estero con cui sia in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni conforme al Modello dell’OCSE (33).

(33) In particolare si veda, per quanto qui più interessa, l’art. 4 par. 1 e 2 dell’OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital (qui, di seguito, nella versione da ultimo aggiornata il 21 novembre 2017), il quale prevede che: “1. For the purposes of this Convention, the term ‘resident of a Contracting State’ means any person who, under the laws of that State, is liable to tax therein by reason of his domicile, residence, place of management or any other criterion of a similar nature, and also includes that State and any political subdivision or local authority thereof as well as a recognised pension fund of that State. This term, however, does not include any person who is liable to tax in that State in respect only of income from sources in that State or capital situated therein. 2. Where by reason of the provisions of paragraph 1 an individual is a resident of both Contracting States, then his status shall be determined as follows: a) he shall be deemed to be a resident only of the State in which he has a permanent home available to him; if he has a permanent home available to him in both States, he shall be deemed to be a resident only of the State with which his personal and economic relations are closer (centre of vital interests); b) if the State in which he has his centre of vital interests cannot be determined, or if he has not a permanent home available to him in either State, he shall be deemed to be a resident only of the State in which he has an habitual abode; c) if he has an habitual abode in both States or in neither of them, he shall be deemed to be a resident only of the State of which he is a national; d) if he is a national of both States or of neither of them, the competent authorities of the Contracting States shall settle the question by mutual agreement”. Ovvero, secondo la versione redatta in lingua francese: “1. Au sens de la présente Con­vention, l’expression « résident d’un État contrac­tant » désigne toute personne qui, en vertu de la législa­tion de cet État, est assu­jettie à l’impôt dans cet État, en raison de son domicile, de sa résidence, de son siège de direction ou de tout autre critère de nature analogue et s’applique aussi à cet État ainsi qu’à toutes ses subdivisions politiques ou à ses collectivités locales et à toute subdivision politique ou collectivité locale de celui-ci ainsi qu’à un fonds de pension reconnu de cet État. Toutefois, cette expression ne


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Difatti, la tesi elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’art. 2, comma 2, del TUIR contemplerebbe un’autonoma ipotesi di residenza in Italia in caso di iscrizione all’APR (anche ove in dimostrato contrasto con l’effettivo luogo di residenza e/o domicilio del contribuente) mal si concilia con la disciplina dell’art. 4, par. 2, del Modello di convenzione OCSE che è recepita dalla quasi totalità degli accordi stipulati dall’Italia (34).

comp­rend pas les personnes qui ne sont assujetties à l’impôt dans cet État que pour les revenus de sources situées dans cet État ou pour la fortune qui y est située. 2. Lorsque, selon les disposi­tions du paragraphe 1, une personne physique est un résident des deux États contractants, sa situation est réglée de la manière suivante: a) cette personne est consid­érée comme un résident seulement de l’État où elle dispose d’un foyer d’habitation perma­nent; si elle dispose d’un foyer d’habi­tation perma­ nent dans les deux États, elle est considérée comme un résident seulement de l’État avec lequel ses liens person­nels et écono­miques sont les plus étroits (centre des intérêts vitaux); b) si l’État où cette perso­nne a le ce­ntre de ses intérêts vitaux ne peut pas être déterminé, ou si elle ne dispose d’un foyer d’habit­ation permanent dans aucun des États, elle est consid­érée comme un résid­ent seulement de l’État où elle séjourne de façon habituelle ; c) si cette personne séjo­urne de façon habitu­elle dans les deux États ou si elle ne séjourne de façon habituelle dans aucun d’eux, elle est consi­dérée comme un résid­ent seulement de l’État dont elle poss­ède la nationalité ; d) si cette personne pos­sède la nationa­lité des deux États ou si elle ne possède la nationa­lité d’aucun d’­eux, les autorités compétentes des États contractants tranchent la ques­tion d’un com­mun accord”. (34) In dottrina è stato anche sostenuto che l’interpretazione dell’art. 2, comma 2, del TUIR data dalla giurisprudenza di legittimità si porrebbe in contrasto ai criteri di collegamento personale rilevanti ai fini dell’art. 4, par. 1 del Modello di convenzione OCSE, il quale risulta generalmente recepito nelle convenzioni concluse dall’Italia, di guisa che la residenza fiscale in Italia conseguente alla mera iscrizione all’APR “non sarebbe idonea a qualificare una persona fisica come residente ai sensi della [rilevante] Convenzione” , che, per l’effetto, non potrebbe applicarsi (cfr. G. Maisto, Iscrizione anagrafica e residenza fiscale ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, cit., 225). Tale tesi si basa sull’assunto che l’art. 4, par. 1 del Modello di convenzione OCSE attribuisce esclusiva rilevanza a criteri di collegamento sostanziali tra i soggetti passivi ed il territorio dello Stato, tali da riflettere un effettivo collegamento tra gli stessi (cfr. N. Saccardo, Considerazioni in materia di perdita e acquisto della residenza in corso d’anno, in Riv. Dir. Trib., 4/2000, 64-65; G. Maisto, Iscrizione anagrafica e residenza fiscale ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, cit., 225; M. Cerrato, il regime tributario applicabile alle persone iscritte nei registri anagrafici del comune di Campione d’Italia, in Riv. Dir. Trib. 4/1998, 235; G. Maisto, Residence of individuals and the Italy-France Tax Treaty, in European Taxation, 1999, 42; D. Irollo, Spunti in tema di residenza delle persone fisiche, cit., 1999, 2569; G. Marino, La residenza nel diritto tributario, cit., 203). Detta ricostruzione ermeneutica fa leva sul tenore letterale dell’art. 4, par. 1 del Modello di convenzione OCSE, il quale dispone che l’espressione residente di uno Stato contraente designa “ogni persona che in virtù della legislazione di detto Stato, è ivi assoggetta ad imposta a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione, o di ogni altro criterio di natura analoga”


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Il predetto art. 4, par. 2, del Modello di convenzione OCSE, al fine di risolvere i conflitti di doppia residenza attribuisce infatti rilevanza dirimente, nell’ordine, ai seguenti criteri: (i) abitazione permanente a disposizione; (ii) centro degli interessi vitali (dove le relazioni personali ed economiche del contribuente sono più strette); (iii) luogo di soggiorno abituale; (iv) nazionalità. È di tutta evidenza che i primi tre criteri di cui sopra ed, in particolare, i criteri (ii) e (iii) sono caratterizzati dal requisito dell’effettività, di talché, qualora la residenza ed il domicilio del contribuente fossero trasferiti in uno Stato con il quale l’Italia abbia concluso una convenzione conforme al Modello OCSE, la residenza fiscale in Italia conseguente all’iscrizione all’APR verrebbe a confliggere con la residenza convenzionale, rispetto alla quale risulterebbe recessiva giusto l’art. 117, comma 1, Cost., a mente del quale la “potestà legislativa è esercitata dallo Stato […] nel rispetto […] dei vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali” (35). Un’applicazione dell’art. 2, comma 2, del TUIR, così come costantemente interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, anche a fattispecie sussumibili nell’ambito di applicazione della predetta convenzione si porrebbe pertanto in aperto contrasto con l’art. 117 Cost. Ne discende che, al fine di non incorrere nel vizio di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., l’art. 2, comma 2, del TUIR dovrebbe, quantomeno, essere interpretato nel senso di ammettere una deroga all’autonoma ed assoluta rilevanza fiscale del criterio formale di iscrizione all’APR nei casi in cui la (sola) abitazione permanente, il centro degli interessi vitali, ovvero il luogo di soggiorno abituale (36) del contribuente

(così tradotto, rispetto alla formulazione testuale dell’art. 4, par. 1, del Modello di Convenzione dell’OCSE nelle sue versioni del 1963, del 1977 e del 2014 [replicata anche nella versione da ultimo aggiornata il 21 novembre 2017], in G. Maisto, Convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni, Milano, 2015, 8-9). Ad avviso della dottrina citata, essendo i criteri del “domicilio”, della “residenza” e della “direzione” tutti connotati dal requisito dell’effettività, lo stesso requisito dovrebbe essere necessariamente esteso agli “altri criteri di natura analoga”. Di talché, la mera iscrizione all’APR non si qualificherebbe quale criterio di collegamento rilevante ai sensi e per gli effetti dell’art. 4, par. 1 del Modello di convenzione OCSE (e delle convenzioni italiane che riproducono tale Modello). (35) Sull’opportunità di una interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del dettato di cui all’art. 117 Cost. in relazione alle norme convenzionali, si veda P. Arginelli - C. Innamorato, The Interaction between Tax Treaties and Domestic Law: An Issue of Constitutional Legitimacy in European Taxation, 2008, 299 ss.; nonché P. Arginelli, Riflessioni sull’interpretazione delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni conformi al Modello OCSE, in Riv. Dir. Trib., 4/2016, 153 ss. (36) O, in ultima ipotesi, la nazionalità.


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siano stati trasferiti in uno Stato con il quale l’Italia abbia concluso una convenzione conforme al Modello OCSE. 5. Sull’applicabilità anche d’ufficio delle disposizioni delle Convenzioni contro le doppie imposizioni. – È opinione di chi scrive che l’ordinanza in esame sia criticabile anche per aver omesso di rilevare la prevalenza delle norme convenzionali (in ispecie dell’art. 4, par. 2, della Convenzione ITA-UK) su quelle interne (art. 2, comma 2, del TUIR, come interpretato dalla Suprema Corte) in forza dell’art. 117, comma 1, Cost. e, conseguentemente, per aver omesso di applicare d’ufficio tali norme, ancorché non espressamente invocate dalle parti. Ci appare, difatti, plausibile ritenere che, ove anche risulti – così come sembra nel caso deciso con l’ordinanza in esame (cfr. paragrafo 2) – che l’applicazione delle norme convenzionali utili a dirimere la controversia non sia stata espressamente richiesta dalle parti in giudizio, cionondimeno il giudice di qualsiasi grado debba procedere, in virtù del principio iura novit curia, a rilevarne l’esistenza e la prevalenza sulle antinomiche norme interne, nonché ad applicarle ex officio. 5.1. Il principio iura novit curia. – È opinione diffusa che, nell’ordinamento processuale italiano, il principio in questione sia rinvenibile nell’art. 113 c.p.c., il quale prevede l’obbligo del giudice di rendere “pronuncia secondo diritto” (37). Esso è inoltre “proiezione di principi di valenza costituzionale come la soggezione del giudice davanti alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.), il principio di legalità e di obbligatorietà delle norme (art. 54 Cost.) e il principio di uguaglianza davanti alla legge (art. 3 Cost.)” (38) e permette di dare attuazione al principio, ricavabile dall’art. 117, comma 1, Cost., di prevalenza degli obblighi internazionali sulle confliggenti norme interne, nei casi in cui le rilevanti norme pattizie non siano state invocate dalle parti in giudizio (39).

(37) Il primo periodo dell’art. 113 c.p.c. dispone infatti che “[n]el pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità”. (38) Così, ex multis, A. Uricchio, Il principio “iura novit curia” nella giurisprudenza della Sezione tributaria della Corte di cassazione, in Rass. Trib., n. 4/2016, 1051. (39) Sull’attuazione del principio sotteso all’art. 117 Cost. nel caso di applicazione d’ufficio della tie braker rule recate nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia e sulla sua prevalenza rispetto alle disposizioni domestiche di cui all’art. 2, comma 2, del TUIR si veda G. Maisto, L’iscrizione anagrafica concreta la residenza fiscale ai fini


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Il brocardo iura novit curia esprime, infatti, sinteticamente i principi e gli effetti previsti dalle predette norme, i quali portano, per l’appunto, a far si che il giudice di qualsiasi grado debba individuare la disciplina giuridica applicabile per dirimere la controversia ad esso sottoposta “anche prescindendo dalle prospettazioni delle parti” (40), ossia provvedendo anche “di ufficio alla ricerca del ‘diritto’” (41). Ciò vale a dire che, ove anche manchi l’indicazione della norma violata negli atti difensivi o i riferimenti in merito riportati dalle parti siano incompleti, errati o poco pertinenti, il principio riassunto dal brocardo iura novit curia vuole che il giudice, d’ufficio, individui ed applichi il “diritto” utile a dirimere la controversia ad esso sottoposta (42).

Irpef, in Riv. Dir. Trib. – supplemento on line del 18 novembre 2015, secondo cui “nel vigore di una convenzione per evitare le doppie imposizioni sul reddito tra l’Italia e l’altro Stato prevalgono sul criterio della residenza ex art. 2 TUIR le regole pattizie sulla doppia residenza delle persone fisiche”. (40) Così, Cass. SS. UU. Sent. n. 12872 del 16 giugno 2005 nonché Cass. Civ., Sez. V., Sent. 6672 del 21 marzo 2014. Nello stesso senso si è espressa anche la dottrina rilevando, per l’appunto, che il brocardo in esame “esprime sinteticamente il principio per il quale il giudice è tenuto all’applicazione delle norme di legge sostanziali, indipendentemente dall’indicazione di parte” (così, ex multis, sempre A. Uricchio, Il principio “iura novit curia” nella giurisprudenza della Sezione tributaria della Corte di cassazione, cit., 1051. Nello stesso senso si vedano anche, ex multis, G. Finocchiaro, voce Artt. 113-114 c.p.c., in Commentario del codice di procedura civile, a cura di L. P. Camoglio - C. Consolo - B. Sassani - R. Vaccarella, Vol. II, Milano, 2012, 246; nonché A. Pizzorusso, voce Iura novit curia (ordinamento italiano), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1989). (41) Così, Cass. Civ., Sez. III, Sent. n. 6933 del 5 luglio 1999, nonché nello stesso senso cfr., ex multis, Cass. Civ., Sez. V, Sent. 14217 del 26 luglio 2004; Cass. Civ., Sez. V, Sent. n. 18285 del 10 settembre 2004; Cass. Civ., Sez. V, Sent. n. 18304 del 10 settembre 2004; Cass. Civ., Sez. V, Sent. 14514 del 29 luglio 2004; Cass. Civ., Sez. II, Sent. n. 16089 del 20 luglio 2007; Cass. Sez. Trib. Sent. n. 17721 del 30 luglio 2009; Cass. Civ. ,Sez. Trib., Sent. 4628 del 26 febbraio 2014; Cass. Civ. Sez. III sent. n. 7448 del 31 marzo 2011; Cass. Civ., Sez. V, Sent. 6672 del 21 marzo 2014; Cass. Civ., Sez. III, sent. n. 2868 del 13 febbraio 2015; nonché, da ultimo, Cass. Civ., Sez II, Sent. n. 1867 25 gennaio 2018, secondo cui il principio in esame implica a carico del giudice un “dovere la cui violazione costituisce ragione di ricorso per violazione di legge”. (42) Cfr., ex multis, A. Pizzorusso, voce Iura novit curia (ordinamento italiano), cit., secondo cui “proprio per effetto del principio in esame, la mancanza di tali indicazioni [i.e. della norma di diritto ovvero della sua, errata, incompleta o inesatta indicazione negli atti di parte] non produce inconvenienti pratici, a meno che indirettamente concorra a determinare l’assoluta incertezza della reale portata dell’atto”. Nello stesso senso, tra la più recente giurisprudenza di legittimità, si veda anche Cass. Civ., Sez. III, sent. n. 13777 del 31 maggio 2018 secondo cui “in virtù del principio iura novit curia, l’erronea individuazione, da parte del ricorrente per cassazione, della norma che si assume violata resta senza conseguenze, quando dalla


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Gli unici limiti al dovere del giudice di ricercare d’ufficio il “diritto” utile a dirimere la controversia sono, infatti, dati dal fatto che tale ricerca deve intendersi circoscritta (i) alle sole “vere e proprie fonti di diritto oggettivo” (43) e, tra queste, (ii) alle sole disposizioni per la cui applicazione “non occorre alcun [ulteriore] accertamento di fatto e, quindi, nessun impedimento si frappone all’esame della questione d’ufficio” (44). Più precisamente, si deve ritenere che: – “L’art. 113 c.p.c., che pone il principio iura novit curia, va coordinato con l’art. 1 preleggi” (45) di talché la ricerca del “diritto” che si impone al giudice di effettuare è circoscritta ai “precetti contrassegnati dal duplice connotato della normatività e della giuridicità, dovendosi escludere dall’ambito della sua operatività sia i precetti aventi carattere normativo, ma non giuridico (come le regole della morale e del costume), sia quelli aventi carattere giuridico, ma non normativo (come gli atti di autonomia privata, o gli atti amministrativi), sia quelli aventi forza normativa meramente interna (come gli statuti degli enti o i regolamenti interni)” (46); e che – l’applicazione del principio in esame opera “lasciando sempre a carico delle parti la prova del ‘fatto’” (47) ed entro i limiti di detta prova, addotta dalle parti per sostenere le proprie domande ed eccezioni. Ciò vale a dire che, il principio in esame opera laddove sia soddisfatto dalle parti l’“onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell’effetto” (48). L’applicazione del principio iura novit curia deve infatti essere “coordinata con il divieto di ultra o extra petizione di cui all’art. 112 che viene violato quando il giudice pronuncia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni

descrizione del vizio che si ascrive alla sentenza impugnata possa inequivocabilmente risalirsi alla norma stessa, ferma restando ovviamente l’immutabilità dei fatti posti a fondamento della domanda”. (43) Così Cass. Civ., Sez. III, Sent. n. 6933 del 5 luglio 1999. (44) Così Cass. Civ., Sez. I, Sent. n. 10208 del 3 maggio 2007. (45) Così Cass. Civ., Sez. II, Sent. n. 16089 del 20 luglio 2007. (46) Così, Cass. Civ., Sez. III, Sent. n. 2868 del 13 febbraio 2015; Cass. Civ., Sez. Trib., Sent. 4628 del 26 febbraio 2014; Cass. Civ., Sez. II, Sent. n. 16089 del 20 luglio 2007; Cass. Civ., Sez. V, Sent. n. 18304 del 10 settembre 2004. (47) Così Cass. Civ. Sez. III, Sent. n. 6933 del 5 luglio 1999. (48) Così Cass. Civ., Sez VI, Sent. n. 238 dell’8 gennaio 2013; nello stesso senso anche Cass. Civ., Sez. II, Sent. n. 21463 del 30 novembre 2012.


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proposte dalle parti ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato” (49). Tale lettura coordinata degli artt. 112 e 113 c.p.c. porta in particolare a concludere che mentre, “i fatti dedotti con l’affermazione su cui si fonda l’azione (o l’eccezione) esercitata in un concreto processo debbono essere accertati dal giudice in base al principio dell’onere della prova (art. 2697), l’esistenza, la vigenza delle disposizioni o delle norme che ricollegano a tali fatti conseguenze di ordine giuridico possono essere accertate dal giudice di propria iniziativa e con propri mezzi, purché con riferimento alla materia del contendere quale risulta dalle richieste delle parti” (50). Pertanto, ai sensi della combinata lettura degli artt. 112 e 113 c.p.c., il giudice deve esercitare il proprio ufficio procedendo ad “interpretare il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicare una norma di legge diversa da quella invocata dalla parte interessata ma deve lasciare inalterati sia il petitum che la causa petendi, senza attribuire un bene diverso da quello domandato e senza introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto” (51).

(49) Così voce art. 113 in Commentario breve al codice di procedura civile a cura di F. Carpi – V. Colesanti - M. Taruffo, Milano, 2017, 888. Come rileva Falsitta, il “principio iura novit curia potrà eventualmente invocarsi per considerare irrilevante l’erronea o carente indicazione di precise disposizioni da parte del ricorrente, il quale abbia tuttavia individuato gli aspetti dell’atto che ritiene in contrasto con le regole del procedimento amministrativo o con quelle impositive sostanziali, chiarendo le ragioni di detto contrasto” (G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 621-622). (50) Così, ex multis, A. Pizzorusso, voce Iura novit curia (ordinamento italiano), cit. (51) Così, Cass. Civ., Sez. V, Sent. n. 17610 del 1° settembre 2004. Rileva, in merito, Fransoni che “l’individuazione della norma applicabile costituisce […] attività propria dell’organo giudicante il quale, secondo il principio iura novit curia può procedere in tal senso indipendentemente da qualsiasi istanza di parte […] In tal caso, se resta fermo il fatto adottato a fondamento di un determinato motivo di ricorso, non cambia nemmeno il motivo stesso, talché […] non si viola nemmeno il divieto di jus novorum” (G. Fransoni, Il Ricorso e l’introduzione del giudizio, in P. Russo, Manuale di diritto tributario, Il processo tributario, Milano, 2013, 153). Cfr. anche V. Ficari, I poteri del giudice tributario e l’oggetto del processo tributario, in E. Della Valle, V. Ficari e G. Marini (a cura di), Il processo tributario, Padova, 2008, 164; e, con riferimento alla doglianza relativa ad una lesione del contraddittorio ante-provvedimentale, R. Iaia, il quale rileva che “l’allegazione della lesione procedimentale nell’atto introduttivo del processo consentirà […] al giudice di ravvisarla, anche e in primis sulla base dell’ordinamento europeo, in forza del principio jura novit curia, che deve (tuttavia e imprescindibilmente) poggiare sulle deduzioni del contribuente, recepite nell’atto introduttivo del processo” (R. Iaia, Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario nell’ordinamento dell’Unione europea. Riflessi nel diritto nazionale, in Dir. Prat. Trib., 2016, 107).


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Da un punto di vista procedurale, l’applicazione del principio iura novit curia da parte del giudice determina anche un’interrelazione con l’obbligo di integrazione del contraddittorio posto dall’art. 101, comma 2, c.p.c. (52). Come infatti rilevato in dottrina, laddove il giudice “intenda decidere la controversia in base ad una norma di diritto diversa da quella prospettata ed invocata dalle parti, ha l’obbligo di provocare il preventivo contraddittorio sulla specifica questione, al fine di evitare le pronunce c.d. ‘a sorpresa’ o ‘della terza via’” (53). Infine, in un’ottica comparatistica, si rileva come il principio in esame costituisce un cardine degli ordinamenti di civil law, che non trova analoga accoglienza negli ordinamenti di common law. Difatti, l’applicazione del principio iura novit curia nei termini testé detti “si rinviene soltanto negli ordinamenti che appartengono alla tradizione europea continentale, ovvero alla c.d. civil law”. Viceversa, “negli ordinamenti di common law il law finding del giudice per risolvere le questioni di diritto segue le stesse regole processuali del fact finding” (54) ossia è rimesso esclusivamente al potere dispositivo delle parti.

(52) Ai sensi dell’ art. 101, comma 2, c.p.c. (aggiunto con decorrenza dal 4 luglio 2009 dall’art. 45 della L. 18 giugno 2009, n. 69, ed applicabile, ai sensi dell’art. 58 della medesima legge, ai procedimenti instaurati in data successiva) si prevede che laddove il giudice “ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”. Cfr. anche, con riferimento al giudizio di legittimità dinanzi alla Corte di cassazione, l’art. 384, comma 3, c.p.c., a mente del quale “[s] e ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione”. (53) Così, ex multis, G. Finocchiaro, voce Artt. 113-114 c.p.c., cit., 250. Ad avviso della Corte di Cassazione, tuttavia, “l’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate di ufficio, rafforzato dall’aggiunta dell’art. 101 c.p.c., comma 2, ad opera della L. n. 69 del 2009, si estende solo alle questioni di fatto, che richiedono prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti, o alle eccezioni rilevabili di ufficio, e non anche ad una diversa valutazione [in diritto operata dal giudice in virtù del principio iura novit curia] del materiale probatorio” (così, da ultimo, Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. n. 12716 del 19 maggio 2017). (54) Così D. Corapi, Iura novit curia nell’arbitrato internazionale in Dir. comm. internaz., fasc. 3, 2010, 429. Tra la dottrina internazionale, si veda M. Derién, Multilingual interpretation of European Union Law, Alphen aan den Rijn (NL), 2009, 315, secondo cui “It has traditionally benn claimed that iura novit curia applies in civil law systems but not in common law systems”.


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5.2. Sull’applicabilità d’ufficio delle Convenzioni contro le doppie imposizioni in base al principio iura novit curia – Come testé visto, il principio iura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c. impone al giudice un obbligo di conoscenza delle fonti di diritto utili a dirimere la controversia ad esso sottoposta e di sussunzione nell’ambito di queste delle domande, delle eccezioni e delle allegazioni dei relativi fatti fondanti addotti dalle parti, le quali, al contempo, delimitano il perimetro operativo del principio in esame. A tal proposito ci appare in primo luogo indubbio che le disposizioni convenzionali utili a dirimere la controversia costituiscano “fonti del diritto” e che dunque siano parte del patrimonio conoscitivo del giudice cui questo deve attingere in adempimento del principio in esame. Così, del resto, si è anche già espressa la giurisprudenza di legittimità ritenendo, per l’appunto, che il giudice “giusta il principio iura novit curia, deve rilevare l’esistenza di una legge di ratifica di un trattato internazionale […] che è rilevante ai fini della soluzione della controversia” (55). Tale soluzione appare, inoltre, allineata all’esperienza processuale di altri ordinamenti di civil law, quali, ad esempio, l’ordinamento francese, nel quale “tax treaties are raised ex officio because, if they deny French tax jurisdiction, the relevant income falls outside the scope of French tax law. It is a matter of jurisdiction, not violation. The relevant domestic tax law is not invalid, but it cannot be applied to a special bilateral situation” (56). Per quanto attiene ai limiti del ricorso d’ufficio a tali disposizioni convenzionali, questi, come detto, vanno ricercati nel contenuto delle domande, delle eccezioni e delle relative allegazioni fattuali addotte dalle parti. Ciò significa che, per quanto qui di interesse, ove l’Amministrazione Finanziaria presuma la residenza in Italia di una persona in base alla sua iscrizione all’APR il fondamento di tale presunzione deve essere espressamente oggetto di contestazione in giudizio ed interessato da allegazioni fattuali che in base alla disciplina convenzionale – ancorché non espressamente invocata in giudizio – possano portare ad una soluzione della controversa questione attinente la

(55) Così, Cass., Sez. Trib., Sent. n. 13579 dell’11 giugno 2007. (56) F. Martin, Courts and tax treaties in civil law countries, in Courts and Tax Treaty Law, a cura di G. Maisto, Amsterdam (NL), 2007, 84-85. Al contrario, negli ordinamenti di common law, quali, ad esempio, l’ordinamento inglese, la generale inapplicabilità del principio iura novit curia si estende anche alla materia tributaria internazionale, di talché “[t]here is therefore no possibility [e.g.] in the UK of the tribunal or court itself giving effect to a tax treaty without such a claim having been made by the taxpayer” (J.F. Avery Jones, Tax Treaties: the perspective of common law countries in Courts and Tax Treaty Law, a cura di G. Maisto, Amsterdam (NL), 2007, 66).


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residenza del contribuente. In tal modo, infatti, viene ad essere preservato il principio dispositivo e garantito che l’azione ex officio del giudice resti circoscritta dal petitum e dalla causa petendi individuati dalle parti. A tal riguardo, occorre dunque tenere conto del fatto che, come già sinteticamente menzionato nel precedete paragrafo 4.3.2, le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia generalmente includono (57), all’art. 4, par. 2, delle norme di conflitto volte a disciplinare i casi di doppia residenza dei contribuenti persone fisiche. In particolare, dette norme, che riproducono il contenuto dell’art. 4, par. 2, del Modello di convenzione OCSE, prevedono che, nel caso in cui un contribuente sia residente in entrambi gli Stati contraenti in ragione delle rispettive norme interne, lo stesso debba essere considerato residente, ai fini della Convenzione: i) nel solo Stato in cui questi disponga di un’abitazione permanente; o, nell’ipotesi in cui disponga di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati, ii) nel solo Stato in cui si localizza il suo centro degli interessi vitali; o, in subordine, iii) nel solo Stato in cui in cui questi soggiorni abitualmente; ovvero, in ulteriore subordine, iv) nel solo Stato di cui il contribuente abbia la nazionalità. Orbene, venendo alla fattispecie concreta oggetto dell’ordinanza annotata, non ci pare sussistesse alcun limite all’esercizio del principio iura novit curia, considerato che l’oggetto del giudizio su cui è intervenuta la predetta pronuncia verteva proprio sull’espressa contestazione, da parte del ricorrente, della sussistenza della propria residenza fiscale in Italia, presunta in via assoluta dall’Amministrazione Finanziaria sulla base dell’iscrizione all’APR e contestata dal contribuente sulla base di precise allegazioni fattuali, utili a dimostrare la presenza nel Regno Unito della residenza e del domicilio civilistici. Difatti, sin dal giudizio di primo grado, il contribuente aveva chiaramente individuato il petitum nell’annullamento dell’atto amministrativo che lo assoggettava ad imposizione su redditi di fonte estera a motivo della sua qualifica come

(57) La formulazione predisposta nel modello di Convenzione dell’OCSE in merito ai criteri per la risoluzione dei conflitti di doppia residenza tra gli Stati contraenti (cd. tie-breaker rule) è stata generalmente recepita nelle Convenzioni stipulate dall’Italia con i maggiori Stati europei ed extraeuropei, salvo alcune eccezioni. Ad esempio, si discosta dal modello di Convenzione dell’OCSE la Convenzione stipulata tra l’Italia ed il Giappone (conclusa a Tokyo il 20 marzo 1969 e ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 18 dicembre 1972, n.855 pubblicata nella G.U. n.6 dell’8 gennaio 1973), che rimette tutto ad una procedura amichevole tra gli Stati contraenti, senza fissare ex ante criteri per la risoluzione delle controversie in merito alle ipotesi di doppia residenza (sul punto, cfr. anche G. Melis, Il trasferimento della residenza fiscale nell’imposizione sui redditi – Profili critici e ipotesi ricostruttive, Roma. 2008, 258).


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persona fiscalmente residente, la quale sarebbe discesa, ad avviso dell’Amministrazione Finanziaria, dall’iscrizione all’APR. Parimenti, il contribuente aveva identificato con precisione la causa petendi nella sua erronea qualificazione come soggetto fiscalmente residente in Italia e nel conseguentemente illegittimo assoggettamento ad imposta su redditi prodotti all’estero, a mente dell’art. 3, comma 2, del TUIR, allegando e provando i fatti costitutivi della domanda. In particolare, in sede di impugnativa, il contribuente aveva argomentato che la presunzione di residenza in Italia conseguente all’iscrizione nell’APR dovesse ritenersi superata dalla contraria evidenza, dallo stesso fornita, di essere effettivamente residente nel Regno Unito, ove lo stesso dimorava abitualmente e svolgeva la propria attività lavorativa nei periodi di imposta oggetto di accertamento. Il ricorso del contribuente era stato accolto dai giudici della Commissione Tributaria Provinciale di Bari con la sentenza n. 3559 del 31 dicembre 2014 i quali avevano annullato gli accertamenti elevati a suo carico per i periodi 2007 e 2008 ritenendo che “dalla documentazione allegata [si evincesse che] il ricorrente [era] residente nel Regno Unito dal 2006”. A seguito dell’appello proposto dall’Amministrazione Finanziaria, la Commissione Tributaria Regionale di Bari, con la sentenza n. 64 del 16 gennaio 2017, confermava la decisione dei precedenti giudici statuendo che “l’applicazione di qualsivoglia strumento presuntivo non può avvenire in maniera asettica e automatica, dovendo esso, per converso, avere riguardo necessariamente alla reale capacità contributiva ex art. 53 Cost. nonché evitare un’inammissibile duplicazione di imposta”. Dall’analisi dalle pronunce di cui sopra risulta, dunque, che (i) l’eventuale applicazione della disciplina pattizia recata nell’art. 4, comma 2, della Convenzione ITA-UK non avrebbe comportato alcuna modifica del petitum e della causa petendi, così come individuati nel ricorso del contribuente e, di conseguenza, non avrebbe comportato il divieto di extra petita fissato dall’art. 112 c.p.c.; e che (ii) il contribuente avesse addotto, a fondamento della propria eccezione, il fatto di essere residente all’estero proprio in base a presupposti fattuali rilevanti anche ai fini della disciplina pattizia de qua, ossia di avere nel Regno Unito la propria dimora permanente ed il centro dei propri interessi vitali, dimostrando, per l’appunto, di vivere e di svolgere la propria attività lavorativa a Londra e di volere profittare di ciò proprio per superare la contraria presunzione di residenza in Italia sollevata dall’Agenzia delle Entrate, ancorata all’iscrizione anagrafica. Considerato quanto precede, ci appare del tutto corretto ritenere che, in un


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siffatto caso, il giudice di legittimità avrebbe dovuto rilevare ex officio (58) l’esistenza e la prevalenza (59) delle suddette norme pattizie ed applicare le stesse in deroga all’art. 2, comma 2, del TUIR, di guisa che, come già più volte ribadito dalla giurisprudenza di merito intervenuta sul punto, la “presunzione assoluta [di residenza radicata sull’iscrizione all’APR] invocata dall’Agenzia delle Entrate [sarebbe stata] superata dall’art. 4 della convenzione” (60). 6. Conclusioni. – Per le ragioni sopra esposte, riteniamo che, rispetto alla tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’art. 2, comma 2, del TUIR contemplerebbe una presunzione assoluta di residenza delle persone iscritte all’APR, sia preferibile seguire la soluzione opposta, derivante da una lettura della predetta disposizione costituzionalmente orientata e, più specificamente, conforme ai principi recati dagli articoli 2, 3, 53 e 117, comma 1, Cost., secondo la quale la presunzione di residenza derivante dall’iscrizione all’APR ammetterebbe la prova contraria. In particolare, tale interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2, comma 2, del TUIR permetterebbe di evitare effetti giuridici assolutamente aberranti o iniqui in capo a soggetti che potrebbero ritrovarsi iscritti all’APR senza avere, al contempo, un effettivo collegamento con il territorio. Detta soluzione appare, inoltre, adeguatamente supportata dal testo della disposizione, che rinvia espressamente alla disciplina civilistica degli istituti da questa richiamati. In secondo luogo, il presente contributo ha argomentato in favore dell’esistenza di un obbligo, imposto al giudice tributario dal principio iura novit curia da applicare nel rispetto del combinato disposto degli artt. 112 e 113 c.p.c., di rilevare d’ufficio l’esistenza e l’applicabilità delle norme convenzionali sulla residenza delle persone

(58) Ed eventualmente rinviare al giudice di merito. (59) Come infatti rilevato anche dalla giurisprudenza di legittimità, una “detta convenzione, così come le altre norme internazionali pattizie, riveste carattere di specialità rispetto alle corrispondenti norme nazionali e quindi prevale su queste ultime, dovendo la potestà legislativa essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti, tra l’altro, dagli obblighi internazionali” (così, proprio con riferimento alla Convenzione ITA-UK, si veda, Cass., Ord. n. 24112 del 13 ottobre 2017. In dottrina, proprio sul punto che qui più ci interessa, si veda G. Maisto, L’iscrizione anagrafica concreta la residenza fiscale ai fini Irpef, cit., secondo cui “nel vigore di una convenzione per evitare le doppie imposizioni sul reddito tra l’Italia e l’altro Stato prevalgono sul criterio della residenza ex art. 2 TUIR le regole pattizie sulla doppia residenza delle persone fisiche”). (60) Così, Comm. Trib. Reg. di Brescia n. 4207 del 31 luglio 2014; nello stesso senso, si veda anche Comm. Trib. Prov. di Milano n. 5299 del 4 giugno 2014, e, da ultimo, Comm. Trib. Reg. della Lombardia, n. 1660 del 13 aprile 2018.


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

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fisiche, le quali prevalgono (ove confliggenti) sulla presunzione di residenza conseguente all’iscrizione all’APR recata dall’art. 2, comma 2, del TUIR. Alla luce delle considerazioni sopra enunciate, riteniamo certamente preferibili, alle conclusioni raggiunte nell’ordinanza annotata, quelle fatte proprie dai giudici di merito in talune anteriori sentenze e, in specie, nella precedente e cassata sentenza n. 64 del 16 gennaio 2017 della Commissione Tributaria Regionale della Puglia, la quale aveva nitidamente prospettato una lettura dell’art. 2, comma 2, del TUIR conforme ai principi costituzionali richiamati, di guisa che “l’applicazione di qualsivoglia strumento presuntivo non può avvenire in maniera asettica e automatica, dovendo esso, per converso, avere riguardo necessariamente alla reale capacità contributiva ex art. 53 Cost. nonché evitare un’inammissibile duplicazione di imposta”. Ciò che mancava a tale pronuncia era il definitivo placet di un giudice autorevole, quale è la Corte di Cassazione, che con giusto spirito cogliesse l’occasione data dalla controversia in esame per ribadire (magari con una più ampia ed approfondita motivazione) i principi “abbozzati” dai precedenti giudici, anche in merito alla doverosa applicazione della Convenzione ITAUK, che avrebbe evitato una violazione degli obblighi internazionali contratti dall’Italia, nonché “un’inammissibile duplicazione di imposta”. Tuttavia, tale occasione è stata palesemente mancata con l’ordinanza in esame, che si è appiattita sul più volte criticato principio secondo cui la mera iscrizione all’APR avrebbe valore di presunzione assoluta di residenza nel territorio dello Stato. Ad ogni modo, la questione non è ancora esaurita. Si auspica, in merito, che gli argomenti sviluppati nel presente contributo possano essere sollevati nelle dovute sedi (anche nell’ambito del giudizio di rinvio), considerato che “l’effetto vincolante del principio di diritto formulato dalla Corte di cassazione opera con esclusivo riferimento all’interpretazione del contenuto della norma, laddove il fatto che la Corte, interpretando la norma, l’abbia ritenuta valida non costituisce un giudicato implicito della sua validità costituzionale, la cui attestazione non compete al giudice ordinario, ma alla Corte Costituzionale” (61).

Paolo Arginelli - Giulio Cuzzolaro

(61)

Così, ex multis, Cass. Civ., Sez. I, Sent. n. 13879 del 1 giugno 2017.



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